www.gliamicidellamusica.net Pubblicato il 16 Ottobre 2016 Constanza M acras con la sua compagnia Dorky Park ha inaugurato la stagione di danza On fire di alti bassi e contraddizioni servizio di Athos Tromboni FERRARA - Constanza Macras con la sua compagnia Dorky Park ha inaugurato sabato 15 ottobre 2016 la stagione di danza del Teatro Comunale "Claudio Abbado". Lo spettacolo, On fire the invention of tradition , era in prima nazionale e in esclusiva per l'Italia. Dodici danzatori e musicisti in scena, con il palcoscenico spoglio come nella tradizione della danza contemporanea dove deve prevalere il linguaggio del corpo senza orpelli scenografici e senza consequenzialità narrative. I danzatori, in questa coreografia, sono bianchi e neri, in prevalenza sudafricani, quindi vissuti in quelle terre dove l'apartheid era una condizione imposta dalla legge razziale, almeno fino a quando Nelson Mandela non è diventato presidente del Sudafrica. E tutto il racconto dell' On fire si impianta e sviluppa su questo, il confronto fra bianchi e neri, l'accusa dei neri ai bianchi di aver sopraffatto la cultura originale facendone scempio, e la controdeduzione dei bianchi ai neri d'essere invece i portatori di una nuova civiltà non più tribale ma moderna e (forse) democratica. Il messaggio di denuncia antiapartheid è condivisibile sul piano dell'etica, ma trasporlo in una coreografia non è tanto agevole da rappresentare, e cade facilmente in contraddizioni che annullano nel banale la forza espressiva dell'assunto di partenza: la Macras ha tentato di mantenere alto il messaggio e anche il concetto, introducendo danza e recitazione in un'alternanza continua, fino a confezionare uno spettacolo di 100 minuti senza intervallo, 60 o 70 dei quali appaiono però banali e purtroppo noiosi. Si sapeva, come dice Leonetta Bentivoglio nelle note del libretto di sala, che «Constanza ... esalta il senso del grottesco quotidiano, disegna gli acidi sapori della vita attuale, riflette l'aggressività ... usando testo, danza, musica e video ... inventa un teatro debordante e visionario a suo modo espressionistico e radicalmente corrosivo. Lo nutre una poetica "sporca", immamorata del mix di culture e dall'estetica ibrida e selvaggia che popola le grandi città globalizzate del nostro presente.» Sì tutti d'accordo, alla visione dei lavori della Macras, che la critica e ballettofila Bentivoglio ha ragione nella sua analisi: ma ques to On fire ? Spezzettato e ripartito fra danza minimale (prima parte), recitazione dei danzatori in lingua inglese con sovratitoli tradotti in italiano dispersivi e distraenti (seconda parte), danza etnica con abbondanza di percussioni (terza parte); e qua e là improvvise accensioni atletiche di break dance, hip hop, danza zulu e gumboot. La Macras… o la si accetta in toto o la si respinge. Probabilmente è lei che non consente mediazioni in ciò che propone allo spettatore, al critico, al letterato: in questo spettacolo sciorina buonismi, accondiscendenze, provocazioni, impugnando il suo diritto alla libertà espressiva, inventando gesti e coreografia sull'onda della creatività fantasiosa, non preoccupandosi di connettere parti e insiemi in una sintesi dal senso compiuto. Lasciando tutto sbocconcellato, per l'interpretazione ad libitum di chi la sta a guardare. Cose già viste (subite?) da tutti noi nell'evoluzione del teatro danza e in buona parte della danza contemporanea. La provocazione come credo paraliturgico, e la narrazione affidata al flash, al messaggio di 140 caratteri, alla twittizzazione non delle delle frasi ma delle fasi, accostate una all'altra come una sequela della "lista del bucato" (avrebbe detto Gioachino Rossini se fosse stato presente). E pensare che lo spettacolo era iniziato bene, con un danzatore negro (adopero appositamente questo epiteto razzista al posto di nero, per italianizzare e non mettere nigger al posto di black) che percorre la diagonale del palcoscenico mostrando una gestualità ripetitiva, rituale, ma molto efficace dal punto di vista del linguaggio del corpo. Il negro incontra alla fine della diagonale un ballerino bianco che gli si pone di fronte e mentre il bianco avanza, il negro va a ritroso: naturalmente il ballerino bianco ha gesti aggraziati, non rituali, ma stilizzati: ecco il civilizzato contro il tribale, la modernità contro la barbarie, la ragione contro l'istinto, al punto che il negro imiterà alla fine (o tenterà di imitare con una buffa goffaggine) la gestualità del bianco. Questo assunto è uno dei "messaggi" disseminato in tutta la performance di 100 minuti, nelle varie combinazioni di assoli, duetti, quartetti e danza del tutti. C'è un altro momento topico, quando un negro vestito degli abiti dai variopinti colori scappa (sempre sulla diagonale del palcoscenico) o emigra e trova un gruppo di bianchi vestiti di bianco che lo avvolgono nella carta fino a sommergerlo soffocandolo, metafora della burocrazia che soffoca l'accoglienza, come sta succedendo coi rifugiati proprio ai nostri tempi. Queste e poche altre sono le valenze vere di un lavoro che per il resto si dimostra spettacolo un po' troppo costruito sull'enfasi provocatoria e meravigliante, per essere coinvolgente ed efficace fino in fondo. Quello che suona poco credibile sul piano dell'etica e/o della denuncia solidale, perché smaccatamente teatralizzato, si sviluppa attorno a stratagemmi espressivi come il rallenty sulla musica distorta dell'aria di tenore O paradiso (dall'opera L'Africana di Meyerbeer) o del quartetto Bella figlia dell'amore (dal Rigoletto di Verdi), oppure su musica di Bach o - anche con gestualità veloci e frenetiche su percussioni improvvisate ma funzionali create da due o tre ballerini che si alternano nel ruolo di batteristi e di percussionisti in scena; e si affida a qualche coreografia dalla dinamica travolgente, dove il movimento d'assieme dei dodici danzatori è godibile, anche se non paiono perfettissime le sincronie e le gestualità di tutti loro, come si richiederebbe ad una compagnia di spicco internazionale. Alla fine - comunque - gli applausi del pubblico, prevalentemente di giovani e giovanissimi, hanno sancito il successo, con acclamazioni osannanti per la Macras, apparsa raggiante e pienamente soddisfatta della prova dei suoi danzatori e dell'esito sugli spettatori. Crediti fotografici: Marco Caselli Nirmal per il Teatro Comunale "Claudio Abbado" di Ferrara Nella miniatura in alto: la coreografa e regista Constanza Macras