L`AMARILLI DI CRISTOFORO CASTELLETTI: QUESTIONI SUL

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ESZTER SZEGEDI
L'AMARILLI DI CRISTOFORO CASTELLETTI:
QUESTIONI SUL GENERE
COMPOSI, Illustriss. Signora, questa Egloga diversa di concetto, et di
stile; al mio parere; da tutte l'altre, che infino ad hoggi si veggono.
Percioche quelle, ò sono tutte gravi; come l'Aminta bellissima, et
dottissima di M. Torquato Tasso: ò tutte ridicolose; come alcune de gli
Academici Rozi di Siena, le quali sono tutte fondate ne gli scherzi, et
ciance de' contadini. Ma la mia ho cercato fare grave, et ridicolosa
insieme quasi in guisa di Comedia: acciò volendosi rappresentare
nella Scena porgesse maggior diletto à gli ascoltanti.”
È Cristoforo Castelletti che scrive queste parole nella dedica della
sua prima opera sopravvissuta fino ai nostri tempi, L'Amarilli,
intitolata in questa prima fase: “Egloga Pastorale”.1 In mancanza di
una definizione esatta della parola “Egloga”, egli segnala le due
direzioni di questo genere virtuale con gli aggettivi “gravi” e
“ridicolose”, presi dalla stilistica e, per essere meglio inteso, le allega
ai nomi, presumibilmente conosciuti da tutti i lettori. Loda il Tasso
(gli serve la sua autorità, possiamo dire con un po' di malignità,
perché è Tasso a dare inizio alla sequela delle 14 poesie che
accompagnano la dedica), ma tiene presente allo stesso tempo anche
la categoria oraziana del dilettevole, assicurata a parer suo dalla
Congrega dei Rozzi, che egli sembra posizionare nella categoria della
commedia, dove vuole situare anche se stesso. Questo avvicinamento
risulta così perfetto nel suo caso, che dall'anno successivo in poi si
metterà a scrivere delle commedie. La storia del poeta pastorale
trasformatosi dopo l'esordio in commediografo ci può essere
famigliare dalla carriera del Ruzzante nella prima metà del secolo.
Nel frattempo però la situazione era un po' cambiata.
1Le opere di Castelletti – salvo Le stravaganze d'amore (a cura di Pasquale Stoppelli,
Firenze, 1981) – non sono consultabili in edizioni moderne. Per quanto riguarda la
prima redazione de L'Amarilli, pubblicata ad Ascoli nel 1580, ho consultato la copia
depositata presso la Biblioteca della Accademia dei Filodrammatici.
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Infatti, esiste anche un carattere opposto, più vicino all'età del
Castelletti: quello di Giovan Battista Giraldi Cinzio. Egli, autore di
parecchie tragedie senechiane, richiamandosi – anche se ne scrive a
posteriori nella sua Lettera ovvero discorso sopra il comporre le satire atte
alla scena (1554) – al dramma satiresco di Euripide, costruisce su tale
autorevole fondamento la sua “satira” Egle (1545). Malgrado la sua
consapevolezza teorica, riguardante innanzi tutto i problemi dei
generi letterari come mostrano i suoi famosi Discorsi intorno al
comporre dei romanzi, delle commedie e delle tragedie, ben 10 anni prima
(1544) della Lettera, il suo tentativo di formare o fondare un genere
nuovo fallisce: l'Egle rimane senza seguaci. L'isolamento dell'Egle
sembra essere dovuta alla decisa intenzione del poeta di ignorare
coscientemente la tradizione bucolica e il teatro pastorale del
Cinquecento (Bigi 1971:110). Intanto, nello stesso anno della Lettera
giraldiana, Agostino Beccari rappresenta a Ferrara la sua favola
pastorale, il Sacrificio, che nonostante la novità sottolineata nel
prologo, segue evidentemente queste tradizioni e diventerà un
modello per le generazioni successive.
Comunque, alla data di nascita della dedica de L'Amarilli, il 15
giugno 1580, non siamo ancora al momento della canonizzazione
teorica di questo oscuro genere, le stampe classificatrici come quella
del 1587 del Sacrificio, le prime dell'Aminta e de Il pastor fido, i trattati
sul genere pastorale di Giason de Nores, Giovan Battista Guarini ed
Angelo Ingegneri non sono stati ancora dati alla luce.
Dobbiamo interpretare in questo contesto il fatto che Castelletti
ritenga necessario categorizzare la sua opera senza indugio nella
prima frase della dedica, e il perché – al contrario del più anziano
collega e al contrario della propria pratica osservabile in altre sue
opere – lavori di tanto in tanto a nuove redazioni dell'opus primum,
non potendo abbandonare una volta per sempre il genere pastorale
nemmeno nel suo periodo di commediografo; e infine il perché di un
certo imbarazzo nell'indicare L'Amarilli nella prima redazione
“Egloga Pastorale”, e nelle altre con l'esitante aggettivo “pastorale”
buttato dietro il titolo.
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Leggendo la dedica, possiamo riscontrare una confusione che
deriva dall'immaturità della terminologia. Castelletti distingue due
specie di Egloghe, mentre usa espressioni appropriate alla tragedia
(“gravi”)2 ed alla commedia (dell'arte) (“ridicolose”)3 ricordando
vagamente le parole di Giraldi Cinzio, il quale caratterizzava la
favella della satira “né troppo umile né troppo grave” e che tenesse
“un certo convenevole mezzo tra la commedia e la tragedia” (Bigi
1971:109). Castelletti poi illuminandosi si corregge: “quasi in guisa di
Comedia”. Tuttavia, nel menzionare la commedia e nel tacere sulla
tragedia si vede un'intenzione definitiva dell'autore, coincidente – se
si può credere al Guarini – a quella del Beccari. Guarini, che alla fine
del 1592 nel trattato Il Verato secondo ovvero replica dell'Attizzato
Accademico ferrarese in difesa del Pastor fido contra la seconda scrittura di
Messer Giason de Nores intitolata Apologia considera Agostino Beccari il
primo rappresentante moderno della favola pastorale, dice di lui: “il
quale... regolando molti pastorali ragionamenti, sotto una forma di
drammatica favola... ne fe' nascere una commedia, se non in quanto le
persone introdotte sono pastori; e per questo la chiamò favola
pastorale” (Bigi 1971:101).
Se non sapessimo già dalla dedica che Castelletti conosceva
l'Aminta, la prima impressione de L'Amarilli confermerebbe comunque
questo sospetto. Apollo appare in abito pastorale similmente all'Amore
del prologo tassiano, e tutti e due riflettono sulla situazione scenica
presentata da loro stessi. “Chi crederia che sotto umane forme / e sotto
queste pastorali spoglie / fosse nascosto un dio? non mica un dio /
selvaggio, o de la plebe de gli dei, / ma tra' grandi e celesti il più
potente, / che fa spesso cader di mano a Marte / la sanguinosa spada,
ed a Nettuno / scotitor de la terra il gran tridente, / ed i folgori eterni al
sommo Giove. / In questo aspetto, certo, e in questi panni / non
riconoscerà sí di leggiero / Venere madre me suo figlio Amore.” (Tasso
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Più precisamente allo stile sublime, proprietà delle tragedie.
Quest'ultima espressione nelle retoriche antiche non è un termine tecnico
riguardante le commedie, tuttavia “le cosidette «commedie ridicolose» del Seicento
romano... accoglieranno generosamente i modi scenici e linguistici dell'Improvvisa”
(cfr. Romani 1979:115).
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1963) – comincia Amore, mentre l'Apollo del Castelletti canta: “Voi
affissate gli occhi nel mio volto, / Inarcando le ciglia vi fan forse /
Maraviglia nel cor le mie parole? / Vi par forse impossibile, che possa /
Sotto pastoral veste esser' ascosa / Virtù sì rara, e di sì degno pregio? /
Non mirate al vestir; che questo manto / Ricuopre Deità sacra, e
Celeste.” Il comportamento delle due deità è ben diverso, come si vede
subito in questi piccoli brani. L'Amore del Tasso sembra un
personaggio caratterizzato: è tronfio e litigioso, dall'altra parte l'Apollo
del Castelletti nel suo aristocratismo – attestato ad esempio dal fatto
che non menziona il proprio nome, piuttosto circoscrive se stesso,
accenando alla geneaologia ed alle proprie azioni – è meno personale.
Amore non si rivolge direttamente agli spettatori (“Chi crederia”),
Apollo invece con l'uso continuo della seconda persona plurale (“Voi
affissate”) fa il mediatore fra l'autore e il pubblico. Questo pubblico
importa molto a Castelletti, ed in tutti i suoi prologhi, dunque anche in
quelli delle tre commedie scritte in prosa, presta una particolare
attenzione alle ascoltatrici, seguendo forse la tradizione boccaccesca.
Nei primi due, che fanno capo a L'Amarilli ed a I torti amorosi, adopera i
luoghi comuni della poesia amorosa (i lumi, cioè gli occhi delle donne
sono stelle che oscurano anche la luce del Sole, o nel caso de L'Amarilli
il Dio del Sole, Apollo), nei prologhi a Il Furbo e a Le stravaganze d'amore
utilizza gesti ammiccanti (“Il sapete ben voi, donne...” [Il Furbo],
“bellissime e gentilissime signore...” [Le stravaganze]). Mentre l'Amore
tassiano muove, se non “il Sole e l'altre stelle” come in Dante a nel
libretto del Busenello, almeno le fila della trama dell'Aminta, Apollo
non s'intromette nello svolgimento, contempla soltanto, o come dice
Castelletti: “rimira” gli avvenimenti. Si nasconde “sotto mentite larve”
non ad un'altra deità, come fa l'Amore con sua madre Venere, ma agli
esseri umani. La sua funzione di mediatore vale anche per la relazione
del poeta e dell'opera: “Un, che del Tebro in sù la riva nacque, / Et di
sua etade è fra l'Aprile, e 'l Maggio, / Di virtù sempre, e del mio canto
amico; / Più volte mi pregò con le man giunte: / Ch'io gli lasciassi ber
sol' una stilla / Di quel licor, che spande il puro fonte, / Che 'l Pegaso
leggier col piede aperse; / E li prestassi la mia dolce lira.” Però l'Apollo
del Castelletti è molto meno democratico rispetto all'Amore tassiano, il
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quale rende “simili a le più dotte cetre / le rustiche sampogne”. Ne
L'Amarilli “'l pregar era indarno: accorto forse, / Che la mia lira era
tropp' alto dono, / Et era suono non da le sue mani; / Una roza
zampogna in don mi chiese. / Mi rendei vinto al fin; ne gia li diedi /
Quella, con cui l'audace Marsia vinsi: / Ma la fei di mia man con sottil
canne.” La storia tutto sommato prende una buona piega quando il
povero poeta – dopo aver perso definitivamente tutta la fiducia in se
stesso e stando “tutto pauroso”, non ardendo “porla [la zampogna] à
bocca, e spirarv' entro l'aura” – viene compatito da Apollo, che scende
sulla terra per incoraggiarlo.
Tra le opere riferite (vale a dire più o meno conosciute) dal
Castelletti nella dedica sopraccitata, oltre all'Aminta, vi sono quelle
degli Accademici dei Rozzi. Sappiamo dalla monografia del Carrara
del 1909, testo tutt'ora fondamentale, che nella produzione dei Rozzi la
terzina, alternata con l'ottava, “forma il metro delle commedie
pastorali”4. Diversamente dall'opera monometrica tassiana, Castelletti
preferisce il polimetrismo, nella prima redazione de L'Amarilli usa fra
l'altro anche la terzina. Castelletti, che è collegabile a Roma da quasi
ogni cenno rimastoci sulla sua vita,5 ed è inoltre una persona
interessatissima al teatro, sicuramente non poteva ignorare i comici
senesi favoriti dalla Corte pontificia fin dai tempi di Leone X.
Castelletti già nella prima redazione de L'Amarilli mescola
coscientemente i diversi strati stilistici, e l'idea accennata nella dedica
(“grave, et ridicolosa insieme”) viene formulata più esplicitamente nel
prologo: “Et non per abbellir' i suoi concetti; / Ma per mescer fra 'l
pianto un breve riso / Di rustici Villan sciochezze, e scherzi / Inserir'
ancho fra' dogliosi accenti.”
La poesia pastorale, Milano, p. 306, cit. in Romani 1979:120.
Dedica per esempio rispettivamente nel 1580 e nel 1581 L'Amarilli e I torti amorosi
alla figlia naturale del cardinale Alessandro Farnese; dal giugno del 1592 è auditore
del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di papa Clemente VIII, e – in base ad un
incarico affidatogli dal cardinale – tiene l'orazione ufficiale per la traslazione dei
corpi dei SS Proto e Giacinto dalla chiesa del Salvatore a quella di San Giovanni dei
Fiorentini. Infine, nel 1594 riceve un posto presso il segretariato della Consulta, al
vertice dell'amministrazione della giustizia pontificia. Sulla posizione occupata da
Castelletti nell'ambiente romano vedi Cicala 1994.
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Queste “sciocchezze e scherzi di rustici villan” però non saranno “un
breve riso” in quanto (esclusi l’Apollo del prologo ed Echo) 4 personaggi
su 10 sono villani e compaiono in 13 delle 28 scene della prima redazione.
Il capraio Cavicchio, Checca contadina, Pelliccia bifolco e il pecoraio
Zampilla si distaccano dalla sfera aulica dei pastori e delle ninfe non solo
per il loro modo di vivere, per gli argomenti discussi, per i giochi, le
canzoni e le contese rusticane, ma anche per un linguaggio rozzo,
caratterizzato da elementi vernacolari toscani (Romani 1979:117 e segg.).
Ascoltiamo il monologo di Cavicchio all'inizio della scena seconda
dell'atto primo: “Potta ch'io non vuò dir de la Versiera / Mi corron dietro
uguanno le disgratie, / Più che non fan le mosche à la giuncata. / Che sì,
che m'havran tolto la brachetta? / O che bel gioco, stà pur' à vedere. Ah, ah
l'hò ritrovata ell'è pur dessa, / Cancar venga à quel poco. oh che bordello /
Hor capre, hora capretti, et hor' agnelli, / Non v'è mai dì, ch'alcun non me
ne manchi. / O se si stesse al bosco di Baccano.”
Nel corso della scena Castelletti mette in rilievo il contrasto fra il
linguaggio poetico dei pastori e quello semplice dei contadini,
approfittando della caratteristica anfibologica del lessico. Cavicchio si
comporta proprio come il personaggio di Karinthy, l'Uomo che
Assolutamente Non Ha Niente Da Fare Col Simbolismo, quando Credulo,
cercando Amarilli, gli chiede: “Villano havresti visto il mio bel Sole?”.
Ugualmente non può capire l'espressione “m'ha furato il cor”, e fraintende
o storpia le parole elevate, per lui incomprensibili (giochi di parole, per
esempio: Ninfa–Sninfia).
Leggendo questi brani non è da meravigliarsi se il nostro autore,
cambiando idea un anno dopo la pubblicazione dell'Egloga, scriva una
commedia, I torti amorosi. Cavicchio si chiamerà Tizzone6; le figure, le
situazioni comiche si modificano un poco, il plurilinguismo sopravvive.
Tuttavia, questo non è più il contesto del Ruzzante. Prima di tutto perché
il Castelletti comincia la sua prima commedia col prologo, che risulta
un'apologia del genere comico. Riprende, sempre dalla dedica de
L'Amarilli, l'idea oraziana del dilettevole, completandola con quelle
dell'utile e dell'„honesta”. La commedia secondo lui “È honesta; perche fu
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“predecessore diretto dello Zanni, e quindi delle maschere dell'Arte” (Romani 1979:
120).
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ritrovata per ritrarre gli huomini dall'ampia strada de' vitii, e guidarli per
lo stretto sentiero della virtù. È utile; perche gli ascoltanti di essa
rimirando quasi in uno specchio i falli altrui, l'astutie fatte da' servi à loro
padroni, gl'inganni fatti dalle mogli à loro mariti, possono più
agevolmente fuggirli, et guardarsene. È dilettevole per li piacevoli
avenimenti, per la diversità, et bellezza de' personaggi, de gli habiti, et de'
costumi loro, per la pittura, et per la musica.”7 Questa volta condanna con
risolutezza le commedie in cui “solo si dicano ciance, e cose ridicole”, e
preferirebbe quelle che avessero delle parti tali da muovere il lettore “a
meraviglia, a dolore, a compassione” (secondo la Poetica aristotelica), “o
ad altro affetto contrario, ò diverso dal riso”. Castelletti giudica insomma
– similmente alle opere teoriche contemporanee – in base ai criteri morali.
Si differenzia poi dal Ruzzante perché nell'anno successivo prende in
mano la sua pastorale, la “rivede”, “muta in infiniti luoghi”, e la rende
“assai diversa dalla prima” – come scrive Giacomo Tornieri, l'autore della
nuova dedica.8 Anzi, non gli basterà nemmeno il raffinamento stilistico e
linguistico della redazione del 1582; nel 1587 ne farà una terza versione
“che della prima altro che 'l nome non vi lasciò” – come ci riferisce ancora
una volta il fedele cronista Tornieri nella terza dedica.9 Ed ha ragione. Se
esaminiamo in tutte e tre le redazioni la scena abbandonata poco fa,
possiamo constatarne una riduzione significativa nella seconda e nella
terza redazione, consistente nella sempre maggiore concentrazione del
testo, attestata anche da un carattere sticomitico nello stile del dialogo. Si
osserva inoltre una tendenza all'eufemismo nel linguaggio di Cavicchio,
per esempio la parola “potta” della prima redazione viene sostituita da
“corpo”, e in seguito da “capo”. La differenza fondamentale fra la seconda
e la terza redazione tuttavia non si manifesta in questa scena. Infatti, nella
terza redazione Castelletti dei numerosi villani mantiene soltanto
I torti amorosi, Venezia, 1581. Copia digitale della Raccolta Drammatica della
Biblioteca Nazionale Braidense, Milano.
8L'Amarilli, Venezia, 1582. Copia digitale della Raccolta Drammatica della Biblioteca
Nazionale Braidense, Milano.
9L'Amarilli, Venezia, 1587. Microfilm della Biblioteca dell'Accademia Ungherese delle
Scienze, Budapest. La dedica di Tornieri loda il padre del destinatario (Lothario
Conti) alludendo alla canzone Spirto gentil del Petrarca: “Il Cavalier, ch' Italia tutta
honora”.
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Cavicchio, riducendo quindi radicalmente il numero delle scene dominate
dal tono rustico. Dopo aver composto le tre commedie, rinuncia alla sua
originale intenzione – espressa nella prima dedica – di mescolare l'egloga
pastorale con la commedia e crea finalmente, alla terza prova, un dramma
pastorale indipendente da altri generi letterari e sentita come propria:
L'Amarilli pastorale.
E’ tuttavia da rilevare che, pur ignorando la nascita del nuovo genere,
Balassi tradurrà proprio questa terza redazione col titolo: Szép Magyar
Komédia10.
Bibliografia
Bigi
1971 E. Bigi, „Il dramma pastorale del Cinquecento”, in
AA. VV., Il teatro classico italiano nel '500, Atti del
convegno della Accademia Nazionale dei Lincei. 9–12
febbraio 1969, Roma, pp. 101–120
Castelletti
1581 C. Castelletti, I torti amorosi, Venezia. Copia digitale
della Raccolta Drammatica della Biblioteca Nazionale
Braidense, Milano.
Castelletti
1582 C. Castelletti, L'Amarilli, Venezia. Copia digitale della
Raccolta Drammatica della Biblioteca Nazionale
Braidense, Milano.
Castelletti
1587 C. Castelletti, L'Amarilli, Venezia, 1587. Microfilm
della Biblioteca dell'Accademia Ungherese delle
Scienze, Budapest.
Cicala
1994 M. Cicala, Lettura intertestuale del Castelletti lirico,
Napoli
Di Francesco 1979 A. Di Francesco, A pásztorjáték szerepe Balassi Bálint
költői fejlődésében, Budapest
Romani
1979 G. E. Romani, „Le tre “Amarilli” di Cristoforo
Castelletti”, Annali dell'Istituto di Filologia Moderna
dell'Università di Roma, pp. 115–143.).
Tasso
1963 T.Tasso, Aminta, a cura di B. Maier, Milano
Sul rapporto tra L'Amarilli e la Szép Magyar Komédia vedi Di Francesco 1979.
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