Paolo Pieraccini IL VATICANO, I LUOGHI SANTI E LA PROTEZIONE

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Paolo Pieraccini
IL VATICANO, I LUOGHI SANTI
E LA PROTEZIONE DEI DIRITTI
CATTOLICI IN PALESTINA
IL VATICANO, I LUOGHI SANTI
E LA PROTEZIONE DEI DIRITTI CATTOLICI IN PALESTINA
Introduzione
La questione dei Luoghi Santi è caratterizzata da due aspetti tra loro strettamente correlati. L’aspetto esterno riguarda la tutela dei santuari rispetto a ogni ingerenza illegittima delle autorità civili.
Quello interno concerne il regime giuridico che regola, in funzione dello spazio e del tempo,
l’attività liturgica delle varie comunità cristiane e che mantiene una situazione di proprietà esclusiva
o comune in determinate sezioni dei più importanti santuari della cristianità (il cosiddetto status
quo). Il precario equilibrio realizzatosi nel corso dei secoli nel Santo Sepolcro, nella Grotta della
Natività e nella Tomba della Vergine è mutato notevolmente nel corso dei secoli, fino a stabilizzarsi
definitivamente tra il 1757 e il 1852.
Una questione dei Luoghi Santi si è posta già in seguito alla conquista islamica della Terra Santa
(638). Ma accanto ad essa ne è emersa una seconda altrettanto importante e intimamente correlata
alla prima: quella della salvaguardia dei diritti di comunità cristiane stabilite in territori amministrati
da governanti di una diversa religione monoteistica. Dopo la sconfitta crociata, i cristiani di Terra
Santa hanno vissuto per oltre nove secoli sotto la sovranità di regimi musulmani. Quell’evento ha
segnato la fine del predominio della Chiesa latina nei Luoghi Santi, all’interno dei quali sono progressivamente aumentate le rivalità tra le più importanti comunità cristiane. Da questo momento la
Santa Sede ha cercato di garantire i diritti dei cattolici perseguendo tre diverse strategie: immediatamente dopo le crociate promuovendo, tra sovrani e potenze marittime europee, numerosi quanto
vani tentativi di ristabilire la sovranità dell’occidente cristiano sulla Palestina; contemporaneamente,
e soprattutto dopo la perdita delle speranze di riconquista, agendo indirettamente attraverso il protettorato religioso. Questa seconda strategia consisteva nella stipula di precisi accordi tra sovrani
europei e governanti musulmani per tutelare, all’interno dell’ordinamento giuridico islamico, le libertà e i diritti dei cattolici (mercanti, pellegrini e fedeli temporaneamente o stabilmente residenti).
Tale strategia fu perseguita per tutto il periodo della dominazione musulmana sulla Palestina e possiamo schematicamente dividerla in due fasi: la prima fase è quella del periodo mamelucco (12501516), durante il quale ad esercitare un’azione di protezione furono soprattutto le repubbliche marinare e il regno di Napoli; la seconda fase è quella della dominazione ottomana (1516-1917), nel
corso della quale fu la Francia a svolgere un ruolo di primo piano.
Di questa seconda fase possiamo rilevare due importanti fenomeni: da una parte il fatto che gli
strumenti giuridici impiegati – il protettorato e le capitolazioni – conobbero un processo di progressiva evoluzione e perfezionamento, che culminò con la stipula delle capitolazioni del 1740;
dall’altra che le potenze europee rivaleggiarono nel salvaguardare i diritti cattolici in Oriente, mosse
da motivi di prestigio e di interesse. A dare impulso alla loro azione era infatti la necessità di prevalere economicamente, politicamente e diplomaticamente le une sulle altre, garantendosi spazi di influenza sempre più estesi all’interno di un impero ottomano in irreversibile decadenza, in vista della
sua spartizione.
Infine, dal secondo decennio del XX secolo, terminata la sovranità islamica sulla Palestina, la Santa
Sede ha dovuto elaborare una nuova strategia, consistente nel cercare di orientare le decisioni della
comunità internazionale in favore delle sue istanze. Agli organismi internazionali fu infatti demandato l’onere di sostituire le capitolazioni e il protettorato – due strumenti giuridici resi ormai obsoleti dalla nuova fase storica apertasi con la conquista britannica della Palestina – con formule più
evolute come il mandato e, in un secondo momento, l’internazionalizzazione territoriale. Questa
terza ed ultima strategia è stata perseguita in tre diversi periodi dalla Santa Sede: durante il primo
periodo – quello degli inizi del mandato britannico – cercando soprattutto di recuperare i diritti
perduti dai cattolici nei Luoghi Santi a partire dal 1757. Durante il secondo periodo – che si manifestò più chiaramente dalla metà degli anni Trenta – la difesa dei diritti delle comunità cristiane e la
necessità della sua sopravvivenza attorno ai Luoghi Santi divenne sempre più urgente, di fronte
all’aggravarsi del conflitto tra ebrei e musulmani e alla prospettiva che la sovranità sulla Terra Santa fosse di nuovo esercitata da stati non cristiani; prospettiva puntualmente realizzatasi nel 1948 in
seguito alla divisione della Palestina tra Giordania e Israele e rimasta tale nella sostanza dopo la
guerra del ‘67, quando l’intera regione cadde sotto il controllo dello stato ebraico.
Nell’ultimo decennio del XX secolo, infine, l’apertura del processo di pace arabo-israeliano ha di
nuovo fatto intravedere l’eventualità della divisione della Terra Santa tra uno stato arabo e uno
ebraico. La Santa Sede ha subito approfittato del favorevole clima politico determinatosi per salvaguardare i diritti della cattolicità nei Luoghi Santi e quelli dell’ormai sparuta comunità locale, che
dall’abolizione delle capitolazioni (1923) non erano più stati tutelati da alcun dispositivo giuridico.
Per perseguire questi obiettivi essa ha ritenuto di doversi servire dello strumento concordatario, stipulando specifici accordi con lo stato d’Israele (1993) e con l’OLP (2000).
Terminata questa lunga introduzione vediamo brevemente come, a partire dai primi decenni del
XIV secolo, la Santa Sede ha incessantemente operato in favore della salvaguardia dei diritti cattolici adattando la sua strategia al continuo mutare delle condizioni politiche e diplomatiche.
Istituzione della Custodia francescana di Terra Santa (1333-1342)
Il primo significativo intervento effettuato dalla Santa Sede in favore dei Luoghi Santi dopo le crociate risale al 1342, quando il pontefice approvò un trattato del 1333 tra il re di Napoli Roberto
d’Angiò e il sultano mamelucco al-Nasèr Mohammad. Il sultano permetteva a re Roberto di acquistare l’area sul monte Sion dove sorgeva il Cenacolo e di costruirvi un convento, trasferendone la
proprietà ai frati minori. In seguito, su esplicita richiesta dei sovrani angioini, il sultano permise ai
francescani di stabilirsi definitivamente nella basilica del Santo Sepolcro, nella chiesa della Natività a Betlemme e nella tomba della Vergine al Getsemani. Sorse così la Custodia di Terra Santa, che
i francescani istituirono per provvedere alla conservazione e all’ufficiatura dei Luoghi Santi e
all’assistenza ai pellegrini. Il superiore della Custodia col tempo – a causa della vacanza della sede
patriarcale di Gerusalemme – acquisì molti dei privilegi appartenuti al patriarca latino, come la facoltà di celebrare i pontificali, di esercitare il ministero parrocchiale, di dirigere le scuole e di amministrare i sacramenti1.
Col tempo, le varie autorità musulmane riconobbero la legittimità della presenza permanente nei
Luoghi Santi di questi religiosi occidentali, sostenuti dalle ricche ed importanti potenze europee. La
protezione esterna divenne da quel momento uno degli aspetti più importanti del problema dei santuari cristiani, in favore dei quali, nel XIV e XV secolo, le repubbliche marinare ottennero numerosi
firmani. Così a poco a poco i francescani – favoriti dalla politica dei sultani mamelucchi, desiderosi
di mantenere buoni rapporti con le potenze europee – finirono per occupare un posto di rilievo nei
Luoghi Santi2.
1
2
Cfr. M. SINOPOLI, L’opera di Terra Santa. Contributo storico-giuridico, Roma, Delegazione di Terra Santa, 1950,
Cfr. B. COLLIN, Le problème juridique des Lieux Saints, Paris, Sirey, 1956, 20-25.
La dominazione ottomana (1517-1917)
Nonostante il particolare rapporto instauratosi tra Sublime Porta e clero greco-ortodosso
all’indomani della conquista di Costantinopoli (1453), i latini riuscirono a mantenere per quasi due
secoli le loro posizioni nei Luoghi Santi. La Francia esercitò la sua protezione sui francescani in virtù delle prerogative che le derivavano dalle capitolazioni, stipulate a partire dal 1535 con i sultani
ottomani. In seguito alla stipula delle prime capitolazioni, il rappresentante francese a Istanbul fu
riconosciuto dalla Porta come il protettore di tutte le chiese, i monasteri e i religiosi latini che operavano in oriente. Le capitolazioni più importanti furono però quelle del 1740. Esse – differentemente dalle precedenti – avevano un carattere definitivo; vincolavano cioè non solo i sovrani contraenti ma anche i loro successori. Fu il primo trattato internazionale a considerare esplicitamente la
questione dei Luoghi Santi, dato che ben dieci dei suoi 85 articoli ne trattavano espressamente, garantendo ai cattolici latini il diritto di custodia dei più importanti santuari della cristianità.
Fino all’avvento al potere del sultano Murad IV (1623-1640), i latini mantennero un’incontrastata
supremazia all’interno della tomba della Vergine e delle basiliche del Santo Sepolcro e della Natività. Ma in pochi anni Murad fece cambiare di mano i santuari per ben sei volte, assegnando alternativamente la gran parte dei diritti a greco-ortodossi e francescani. Solo nel 1690, in seguito al riavvicinamento politico tra francesi e ottomani, la Custodia di Terra Santa ottenne un firmano che restituiva ai latini la totale supremazia all’interno dei Luoghi Santi. Le capitolazioni del 1740 ribadivano solennemente l’acquisizione di questi diritti. Ma nel 1757 i greco-ortodossi riuscirono ad ottenere un nuovo firmano, che riconosceva loro il possesso della tomba della Vergine, della quasi totalità della basilica di Betlemme e della comproprietà con i latini della tomba di Cristo e della Pietra
dell’Unzione nel Santo Sepolcro. Lo stato di fatto creatosi in questa occasione costituisce il cosiddetto status quo dei Luoghi Santi, un equilibrio di fatto instauratosi nei santuari tra le varie comunità cristiane che non sarà più mutato nei secoli successivi. I latini non riuscirono più a recuperare le
loro posizioni. Ciò dipese da una parte da alcune scelte militari e di politica estera della Francia –
in particolare il trattato che essa sottoscrisse in quegli anni con l’impero asburgico e le imprese napoleoniche in Egitto e in Siria –, che resero per molti anni l’antica alleata invisa alla Porta; dall’altra
da vicende politiche interne come la Rivoluzione francese, che indusse le autorità di Parigi a disinteressarsi della sorte dei Luoghi Santi.
Nel 1847, il furto di una stella d’argento recante una scritta latina, collocata nel 1717 dai francescani in quella parte della grotta della basilica di Betlemme che il firmano del 1757 avrebbe poi assegnato ai greco-ortodossi, scatenò una grave controversia tra le due comunità. La febbrile attività diplomatica sviluppata in quell’occasione dalla Russia protettrice degli ortodossi e dalla Francia protettrice dei latini fu il preludio della guerra di Crimea. Nel febbraio 1852, per cercare di tacitare le
opposte rivendicazioni, il sultano emanò il più importante firmano della storia del Luoghi Santi cristiani che – ribadendo la preponderanza dei greco-ortodossi nei santuari sancita dal firmano del
1757 – segnò la vittoria diplomatica dello zar.
La cocente sconfitta patita dalla Russia in Crimea non soffocò le sue mire espansionistiche. Una sua
rapida vittoria a danno dell’Impero ottomano vent’anni dopo fu rimessa in discussione dalle grandi
potenze europee al congresso di Berlino (1878), dove lo zar fu privato della maggior parte delle
conquiste ottenute per sé e per gli slavi balcanici. A Berlino fu presa espressamente in considerazione la questione dei Luoghi Santi. La Francia giunse al congresso in una posizione di estrema debolezza, soprattutto a causa della sconfitta infertale sette anni prima dalla Germania. Essa fu costretta a subire l’attacco delle altre potenze desiderose di indebolire il suo protettorato sui cattolici in
oriente e non riuscì a imporre il principio di una revisione dello status quo dei Luoghi Santi in favore dei cattolici.
Ormai questo regime giuridico era stato riconosciuto dalla diplomazia europea, che non desiderava
più riaprire una questione fonte di gravi conflitti internazionali. Lo stesso sultano – cosciente del
fatto che le diatribe interne ai santuari provocavano ormai solo perniciosi tentativi di ingerenza delle
grandi potenze all’interno del suo impero – all’atto dell’emanazione del firmano del 1852 aveva
stabilito che tale decreto era definitivo e che ad esso non si sarebbe più dovuto contravvenire in futuro3.
Il mandato britannico
Il segretario di stato card. Pietro Gasparri non considerò l’occupazione britannica della Terra Santa
un trionfo della Chiesa cattolica. Egli preferiva la vecchia amministrazione musulmana al dominio
britannico, ritenendo che gli inglesi avrebbero favorito l’infiltrazione della propaganda protestante e
del sionismo in Palestina4. Lo stesso Benedetto XV, in un’allocuzione del 10 marzo 1919, fece una
chiara allusione agli ebrei che, “forniti abbondantemente di mezzi”, emigravano in Terra Santa
“disseminandovi i loro errori”. La sua preoccupazione era che “i non fedeli” si fossero venuti a trovare in una situazione di “privilegio e di preponderanza” e che i “santuari santissimi della religione
cristiana” fossero caduti in mano “ai non cristiani”5.
L’arrivo degli inglesi in Palestina, in ogni caso, fece sperare ai francescani di poter finalmente recuperare le posizioni perdute all’interno dei santuari. In un memorandum presentato alla conferenza
della pace di Parigi i religiosi chiesero che fosse ripristinata la situazione antecedente
all’emanazione del firmano del 1757. Fu anche in seguito a queste richieste che le grandi potenze
previdero, in sede di ratifica del trattato di pace con la Turchia firmato a Sèvres nell’agosto del 1920,
la formazione di una commissione speciale per studiare e sistemare ogni questione e rivendicazione
avanzata dalle varie comunità, tenendo conto degli interessi religiosi in causa (art. 95, par. 2). Diversamente dalle altre occasioni in cui la questione dei Luoghi Santi era stata sollevata in ambito internazionale – a Berlino si era espressamente scelto di non variare il regime dello status quo –, a
Sèvres si sanciva il principio che i diritti delle comunità religiose interessate potessero essere rimessi in discussione.
In sede di stesura del testo del mandato sulla Palestina, la Gran Bretagna recepì le istanze contenute
nell’art. 95 del trattato di Sèvres formulando l’art. 14, che impegnava la potenza mandataria a nominare la prevista commissione. Il contenuto di questo articolo creò forte preoccupazione negli ambienti vaticani. Il 13 giugno 1921, visto che non riusciva ad ottenere dalla Gran Bretagna che
quell’organismo fosse composto da membri di suo gradimento, con l’allocuzione concistoriale Causa nobis Benedetto XV auspicò che, una volta giunto il momento di conferire finalmente un assetto
stabile alla Terra Santa, fossero stati garantiti i diritti inalienabili della Chiesa cattolica. La condizione dei cristiani – secondo Benedetto XV – era peggiorata con i nuovi ordinamenti civili adottati
in Palestina dalle autorità britanniche, le quali miravano “a scacciare la cristianità” dalle posizioni
finora occupate “per sostituirvi gli ebrei”. I “diritti dell’elemento ebraico” non avrebbero dovuto essere “menomati”, ma non si sarebbero nemmeno dovuti sovrapporre “ai giusti diritti dei cristiani”6.
Nel documento il pontefice affermava anche uno dei principi che avrebbero guidato ogni successiva
presa di posizione pontificia: i diritti dei cristiani in Terra Santa non avrebbero dovuto essere affidati, “in quanto alla loro determinazione e tutela giuridica, all’ordinamento interno di una qualsiasi entità politico-territoriale”7. Parimenti, egli si asteneva dall’indicare in quale modo tali diritti avrebbero dovuto essere salvaguardati, pur riservandosi il giudizio sugli eventuali progetti concreti che sarebbero stati elaborati in sede internazionale.
3
Questo paragrafo è stato interamente tratto da P. PIERACCINI, Gerusalemme, Luoghi Santi e comunità religiose nella
politica internazionale, Bologna, EDB, 1997, 67-201.
4
Cfr. S.I. MINERBI, Il Vaticano, la Terra Santa e il Sionismo, Bompiani, Milano, 1988, 37-38.
5
E. FARHAT (a cura di), Gerusalemme nei documenti pontifici, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1987,
65-66.
6
Cfr. AAS (Acta Apostolicae Sedis) XIII (1921) 281-285 e E. FARHAT, Gerusalemme nei documenti pontifici, 66-67.
7
D.-M. JAEGER, I romani pontefici e la tutela dei diritti cristiani in Terra Santa nel secolo presente: da Benedetto XV
a Paolo VI, (Tesi in diritto canonico discussa nel 1985 al Pontificium Athenaeum Antonianum di Roma), 77.
In seguito a questo e ad ulteriori interventi della Santa Sede in merito8, i britannici redassero ulteriori bozze dell’art. 14, che non ottennero il gradimento della Santa Sede. Così l’11 dicembre 1922
Pio XI rese ancora una volta note le sue preoccupazioni: in considerazione di “quanto siano manifestamente prevalenti i diritti della Chiesa Cattolica [in Terra Santa], Noi dobbiamo volere che quei
diritti sian salvi non solo di fronte agli Israeliti ed infedeli, ma anche agli acattolici, a qualsiasi setta
o nazione appartengano”9. Presto però le autorità della Santa Sede si resero conto che non sarebbero
riuscite ad ottenere una commissione composta in maggioranza da cattolici, attraverso la quale ottenere una revisione dello status quo. Ritennero perciò che per le questioni relative ai santuari sarebbe
stato preferibile affidarsi al sistema giudiziario britannico, che offriva garanzie di imparzialità mai
godute sotto la plurisecolare amministrazione ottomana.
Nel maggio 1924 il Ministero delle colonie britannico decise di rimandare sine die la nomina della
commissione per i Luoghi Santi e di assumersi personalmente il compito di dirimere le controversie
tra le comunità religiose nei santuari. Per colmare il vuoto causato dalla mancata attuazione dell’art.
14, le autorità mandatarie emanarono un’ordinanza – il cosiddetto Palestine (Holy Places) Order in
Council – secondo la quale le questioni relative ai Luoghi Santi e ai diritti e rivendicazioni delle diverse comunità religiose sarebbero state sottomesse all’alto commissario britannico, che avrebbe
adottato la sua inappellabile decisione una volta effettuata un’adeguata inchiesta. In base a questa
ordinanza le autorità mandatarie poterono esercitare uno stretto controllo su tutto ciò che concerneva i Luoghi Santi, all’interno dei quali, in mancanza della prevista commissione, si limitarono a
mantenere rigidamente lo status quo ereditato dall’amministrazione ottomana.
Negli anni successivi i timori delle autorità vaticane per l’attivismo sionista e protestante non si placarono, sollecitati come furono dagli allarmanti rapporti inviati loro dal patriarca latino di Gerusalemme mons. Luigi Barlassina. Ebbero comunque modo di apprezzare l’imparzialità con cui i britannici trattarono le delicate questioni relative ai Luoghi Santi e alle comunità cattoliche locali. Ciò
rese loro più accettabile l’accantonamento dei progetti di internazionalizzazione della Terra Santa
che si erano materializzati nel corso degli accordi segreti stipulati tra le grandi potenze durante la
prima guerra mondiale. Nel 1937, una commissione inviata nella regione dal governo inglese in seguito allo scoppio della rivolta araba, propose di spartire la Palestina tra uno stato arabo e uno
ebraico e di lasciare in mano britannica solo l’area Gerusalemme-Betlemme e un corridoio fino al
mare10. In quell’occasione nei Sacri Palazzi manifestarono apertamente la loro preferenza per il
mantenimento del mandato britannico su tutta la Terra Santa, temendo gravi ripercussioni per i diritti e la stessa sopravvivenza delle minoranze cattoliche, nel caso fossero queste state divise e sottoposte alla sovranità di due stati non cristiani11.
La spartizione della Palestina e le prime incertezze dell’Onu (1947-1952)
La Santa Sede accolse con favore la risoluzione 181 del 29 novembre 1947, la quale prevedeva la
spartizione della Palestina e l’internazionalizzazione di un’ampia area attorno a Gerusalemme e
8
Cfr. in part. due memorandum dal card. Gasparri alla Società delle Nazioni nella primavera del 1922, in E. FARHAT,
Gerusalemme nei documenti pontifici, 205-207, Cfr. B. COLLIN (a cura di), Recueil de documents concernant Jérusalem et les Lieux Saints, Jerusalem, Franciscan Printing Press, 1982, 9-11 e l’Osservatore romano, 30 giugno 1922.
9
Cfr. l’allocuzione Vehementer Gratum, in AAS, XIV, 1922, 609-614 e E. FARHAT, Gerusalemme nei documenti pontifici, 68.
10
Cfr. Palestine Royal Commission Report, London, H.M. Stationery Office, 1937, Cmd.5479, 380-393.
11
La Santa Sede era anche “seriously preoccupied [...] that it was proposed not only to divide up what had hitherto been
considered indivisible whole under the name of the Holy Land, but, to distinguish between Jerusalem and Bethlehem,
which were to be put under the proposed new Mandate, and Nazareth and Lake Tiberias, which were not considered in
the report [of the Commission] as Holy Places while Nazaret was to be incorporated in the proposed Jewish State”.
T.E., HACHEY (a cura di), Anglo-Vatican Relations (1914-1939): Confidential Annual Reports of the British Ministers
to the Holy See, Boston, G.K., Hall, 1972, 376 e M.G. ENARDU, Palestine in Anglo-Vatican Relations (1936-1939),
Firenze, CLUSF, 1980, 14.
Betlemme. Un governatore nominato dall’Onu avrebbe amministrato quest’area, con competenza di
decidere – in base ai diritti esistenti – anche sulle controversie nei Luoghi Santi situati nei costituendi stati arabo ed ebraico. La sovranità di queste nuove entità statali, dove i cristiani sarebbero
stati largamente minoritari e privi di un’apprezzabile presenza politica, avrebbe quindi subito delle
significative limitazioni su alcune questioni riguardanti la tutela di determinati interessi religiosi.
Di lì a poco, però, la Terra Santa fu sconvolta dal conflitto arabo-israeliano. La situazione politica e
diplomatica divenne estremamente complessa e caratterizzata, in seno alle Nazioni Unite, da continui capovolgimenti di fronte. Successive votazioni sconfessarono e riconfermarono più volte
l’originario progetto di corpus separatum. Ma anche quando la Santa Sede riuscì ad orientare la
maggioranza dei paesi dell’Onu in favore dell’internazionalizzazione, la resistenza di Giordania e
Israele – che oltre al resto della Palestina si erano spartiti anche l’intera Città Santa – ebbe la meglio nell’impedire la realizzazione di tale progetto.
Tra le decise prese di posizione del pontefice nel corso di questi difficili momenti, due meritano
particolare attenzione. La prima fu l’enciclica In multiplicibus curis12 del 24 ottobre 1948, pubblicata di fronte a una proposta del mediatore delle nazioni unite Folke Bernadotte tesa ad attenuare
notevolmente il principio dell’internazionalizzazione. La seconda fu, il 24 aprile 1949, l’encliclica
Redemptoris nostri, a pochi giorni dalla discussione per l’ammissione di Israele in seno all’Onu.
In ambedue i documenti il pontefice si disse preoccupato per i danni subiti dai Luoghi Santi e per le
distruzioni arrecate alle istituzioni educative e di beneficenza sorte attorno ad essi, che temeva costituissero l’anticipazione di un disegno volto ad “eliminare ogni influenza cristiana” dalla Terra
Santa. Espresse inoltre vivo dolore per la questione dei profughi palestinesi, un quinto dei quali erano di religione cristiana13. Dato che difficilmente gli israeliani ne avrebbero permesso il rimpatrio,
una Gerusalemme internazionalizzata li avrebbe potuti accogliere, rafforzandovi numericamente la
presenza cattolica e assicurando, in tal modo, “la vitalità religiosa dei santuari e la sopravvivenza
economica delle istituzioni assistenziali ed educative della Chiesa di Roma”14.
Nel secondo documento Pio XII chiedeva tra l’altro ai “fedeli di qualsiasi parte del mondo” di adoperarsi affinché i loro governanti votassero in seno all’Onu per conferire alla Città Santa e ai suoi
dintorni “una conveniente situazione giuridica”, la cui stabilità poteva essere garantita soltanto da
una comune intesa tra le “nazioni amanti della pace e rispettose dei diritti altrui”15. Questo invito
alla mobilitazione non fu unanimemente raccolto dai governanti dei paesi cattolici. Quasi tutti gli
stati sudamericani, infatti, su pressione degli Stati Uniti, l’11 maggio 1949 votarono per
l’ammissione alle Nazioni Unite dello stato d’Israele senza che questo fosse indotto ad assumere alcun impegno in favore dell’internazionalizzazione.
Il segretario per gli affari straordinari mons. Domenico Tardini dichiarò in quei giorni di non avere
particolari preferenze circa i criteri da impiegare per porre Gerusalemme sotto controllo internazio12
Cfr. AAS, XL, 1948, 433-436. Cfr. anche E. FARHAT, Gerusalemme nei documenti pontifici, 74-77 e La Civiltà Cattolica, 1948, IV, 225 e segg.
13
Secondo dati Onu, nel 1945 ben 21.000 dei 45.000 arabi che abitavano nella Gerusalemme nuova erano di religione
cristiana. Cfr. H. CATTAN, The Palestine Question, London, Croom Helm, 1988, 252.
14
S. FERRARI, Vaticano e Israele: dal secondo conflitto mondiale alla guerra del Golfo, Firenze, Sansoni, 1991, 121122.
15
In questo concetto, secondo Civiltà Cattolica, andavano inclusi i popoli e le nazioni “del vecchio continente europeo”, che si erano “acquistati un diritto di prelazione con l’opera prestata nei secoli passati per la preservazione e la custodia dei Luoghi Santi” Il “nuovo statuto di Gerusalemme e dintorni e le convenzioni per il libero culto e il libero accesso agli altri santuari” avrebbero dovuto essere collocati sotto l’egida di tutte le nazioni cristiane, particolarmente cattoliche, solidalmente interessate alla sorte della Terra Santa”. Questa solidarietà universale non avrebbe mai potuto “attuarsi, se l’auspicata erezione di Gerusalemme a città retta da uno statuto speciale e le stipulazioni internazionali concernenti gli altri luoghi oggetto di venerazione da parte dei popoli cristiani fossero [stati] solamente messi sotto l’egida
dell’Organizzazione delle Nazioni Unite della quale, mentre fanno parte dei popoli avversi all’idea cristiana, non partecipa[va]no invece vecchie e gloriose nazioni europee più direttamente interessate ai problemi della Palestina, a causa
del loro passato storico e della loro presente aderenza alla fede cattolica nella quasi totalità dei loro membri”. Tali paesi,
per la rivista, erano in particolare l’Italia, la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda. Cfr. A. MESSINEO, “La responsabilità
delle nazioni riguardo al problema palestinese”, in La Civiltà Cattolica, III (1949) 7.
nale, a condizione che tale controllo fosse stato “tale da proteggere effettivamente gli interessi cattolici”16. Tuttavia, nei Sacri Palazzi avevano idee precise circa il carattere del regime internazionale
che prefiguravano. Come spiegò l’allora segretario per gli affari ordinari mons. Giovanni Battista
Montini, ai santuari si sarebbe dovuto applicare “uno statuto che, in certo modo, si modelli su quello adottato in Roma per lo Stato della Città del Vaticano e le zone ed edifici pontifici che, pur non
facendo parte dello Stato, godono di certe più o meno larghe immunità”. Gerusalemme e le zone
circostanti avrebbero dovuto essere internazionalizzate e staccate dalla Palestina; gli altri Luoghi
Santi sparsi per il paese (quelli situati sulle rive del lago di Tiberiade, a Nazaret, sul monte Carmelo, sul monte Tabor ecc.) avrebbero dovuto godere “di diritti di extraterritorialità limitatamente ai
Santuari e agli attinenti stabilimenti religiosi e dipendenze” 17.
Il 9 dicembre 1949, in seguito all’approvazione della risoluzione 303 (IV) dell’Assemblea generale
che chiedeva il ritorno all’originaria formula del corpus separatum, la Santa Sede conseguì un
grande successo diplomatico. La risoluzione fu votata, oltre che da gran parte dei paesi cattolici sui
quali la diplomazia vaticana aveva esercitato forti pressioni, anche dagli stati arabi e da quelli comunisti18. Ma quando, all’inizio del 1950, il Consiglio di amministrazione fiduciaria cercò di elaborare lo statuto di Gerusalemme in base alle indicazioni contenute nella risoluzione 303, israeliani e
giordani intensificarono il processo di integrazione della parte di città che controllavano all’interno
dei rispettivi stati. Nei due anni successivi furono proposti nuovi contrastanti progetti in seno
all’Assemblea generale. Tuttavia, il ritiro dell’appoggio dei paesi del blocco sovietico
all’internazionalizzazione territoriale aveva reso sia i fautori di questo progetto sia i sostenitori del
progetto israeliano di internazionalizzazione funzionale incapaci di imporre una soluzione
all’interno dell’Assemblea generale, visto che nessuno dei due schieramenti era in grado di raggiungere la necessaria maggioranza dei due terzi.
La guerra dei sei giorni e le sue conseguenze sulla politica della Santa Sede
Dopo la guerra dei sei giorni (giugno 1967), le autorità della Santa Sede mantennero la consueta posizione sulla questione di Gerusalemme solo per alcuni mesi19. Molteplici fattori contribuirono a
farle infine cambiare orientamento: innanzitutto la disfatta degli eserciti arabi, che rese altamente
improbabile un ritorno a breve termine alla situazione precedente; poi la determinazione degli israeliani a rimanere saldamente in possesso della città e in terzo luogo il disinteresse della comunità internazionale e di gran parte delle stesse Chiese cristiane per il concetto di corpus separatum. Inoltre,
i rapporti di forza all’interno delle Nazioni Unite erano notevolmente mutati in seguito al processo
di decolonizzazione. Perciò la capacità della Santa Sede di influire sulle decisioni dell’Onu era notevolmente diminuita. Gli stessi paesi arabi tendevano ormai a domandare un ritorno alla situazione
precedente al conflitto, piuttosto che l’applicazione di un regime internazionale. Ormai le risoluzioni dell’Onu dedicate specificamente alla città erano sempre più rare e non facevano più riferimento
né alla tesi dell’internazionalizzazione né all’interesse della comunità internazionale per la protezione dei Luoghi Santi. Le Nazioni Unite, adesso, tendevano a porre maggiore attenzione
sull’aspetto territoriale della contesa per Gerusalemme, lasciando un po’ in ombra quello spirituale.
Perciò il 22 dicembre 1967, in un’allocuzione al sacro collegio “destinata a ispirare tutto il successivo corso della politica vaticana”20, Paolo VI affermò che gli aspetti essenziali della questione di
16
PASTORELLI, “La Santa Sede e il problema di Gerusalemme”, in Storia e Politica, XXI (1982) 67-68.
ASMEI, Affari Politici (1946-1950), Palestina, busta 10, Soragna a Esteri, Roma, 19 novembre 1948.
18
I voti contrari furono 14 – tra i quali quelli degli Stati Uniti e della Gran Bretagna – e gli astenuti 7.
19
Cfr. a questo proposito il discorso di Paolo VI ai fedeli del 7 giugno 1967 in AAS, LIX (1967) 633-636; la nota diffusa dall’osservatore permanente presso le Nazioni Unite mons. Giovanetti ai delegati della stessa organizzazione in data
17 giugno 1967, in B. COLLIN, Recueil de documents, 29-30 e l’allocuzione del pontefice al concistoro segreto del 26
giugno 1967, in AAS, LIX (1967) 712-713.
20
S. FERRARI, Vaticano e Israele, 196.
17
Gerusalemme erano due: il primo riguardava “i Luoghi Santi propriamente detti e tali considerati
dalle tre grandi religioni monoteistiche”, per i quali doveva essere garantito il diritto di accesso, la
libertà di culto, il rispetto e la conservazione. Tali santuari avrebbero dovuto essere “protetti da immunità speciali mediante uno statuto proprio” garantito da “un’istituzione di carattere internazionale, “con particolare riguardo alla fisionomia storica e religiosa di Gerusalemme”. Il secondo aspetto
della questione si riferiva invece “al libero godimento dei diritti religiosi e civili”, per le persone, le
sedi e le attività di tutte le comunità presenti sul territorio della Palestina21.
In questo documento Paolo VI, mentre abbandonava la formula dell’internazionalizzazione territoriale, domandava per santuari e comunità religiose di Palestina un elevato grado di tutela giuridica.
Egli intendeva opporsi alla posizione ufficiale espressa da Israele con la proposta di internazionalizzazione funzionale della fine degli anni Quaranta e con la legge sui Luoghi Santi del giugno 1967,
la quale mirava a ridurre l’intera questione dei diritti cristiani ai soli santuari. Per il pontefice era
necessario tutelare la fisionomia storica e religiosa di Gerusalemme, in modo da impedire che trasformazioni di tipo architettonico, urbanistico, demografico, commerciale e socio-culturale ne alterassero il carattere sacro per i fedeli delle tre grandi religioni monoteistiche.
Fino al settembre 1969 furono le misure unilaterali adottare da Israele a Gerusalemme e il tenore
indeterminato delle risoluzioni dell’Onu a preoccupare la Santa Sede. Dopo quella data si aggiunse
un ulteriore motivo di apprensione: la presa di posizione della Conferenza islamica di Rabat, secondo la quale la preservazione del carattere sacro dei Luoghi Santi esigeva che la città recuperasse il
suo “statuto anteriore al 1967, consacrato da 1300 anni di storia”, in pratica da tredici secoli di dominazione musulmana22. Il documento, oltre a rigettare l’annessione israeliana, rifiutava qualsiasi
altro statuto che non fosse coerente con l’applicazione del diritto e della sovranità islamica a Gerusalemme. Queste dichiarazioni resero cosciente la Santa Sede che la doppia intransigenza con la
quale era chiamata a confrontarsi, quella di ebrei e musulmani, avrebbe ridotto la questione dei
Luoghi Santi ad uno scontro diretto tra due contrapposte rivendicazioni religiose e politiche, emarginando completamente gli interessi cristiani. Perciò da quel momento in Vaticano presero a riaffermare con accresciuta energia che in Terra Santa i diritti dei cristiani avevano un’importanza
identica a quelli dell’islam e dell’ebraismo; diritti che non potevano dipendere dalla buona volontà
di stati che si rifacevano agli orientamenti e ai principi di queste due religioni monoteistiche, né
soggiacere interamente alla legislazione interna di questi stati, ma dovevano essere ancorati a un
ordinamento giuridico superiore e universalmente riconosciuto23.
Il pontificato di Giovanni Paolo II fino alla Guerra del Golfo (1978-1991)
Con l’elezione di Giovanni Paolo II (1978-2005) la Santa Sede adottò “un atteggiamento più pragmatico e aperto verso Israele”24. Tuttavia, diversi fattori impedirono un immediato miglioramento
dei rapporti con lo stato che da oltre un decennio controllava tutta la Terra Santa: da una parte il
permanere irrisolto della questione palestinese, trascurata anche dagli accordi tra Egitto e Israele
(1979); dall’altra, nel contesto di un’accelerata colonizzazione della parte orientale della città,
l’approvazione alla Knesset di una legge di rango costituzionale (Basic Law) che dichiarava Gerusalemme unificata capitale eterna dello stato d’Israele (1980).
Di fronte a questi nuovi fattori la posizione della Santa Sede si precisò ulteriormente, pur non mutando nella sostanza. In più occasioni il nuovo pontefice affermò che risolvere la questione della
Città Santa era condizione preliminare per raggiungere la pace nell’intera regione mediorientale.
21
Cfr. AAS, LX, 1968, 25-26 e E. FARHAT (a cura di), Gerusalemme nei documenti pontifici, 131-132. Concetti simili
furono ripetuti spesso negli anni successivi. Cfr. in part. AAS, LXIII (1971) 563-564; LXIV (1972) 37-38; LXVI (1974)
21-22.
22
B. COLLIN, Pour une solution au problème des Lieux Saints, Paris, G. Maisonneuve et Larose, 1974, 139.
23
Cfr. D.-M. JAEGER, I romani pontefici e la tutela dei diritti cristiani in Terra Santa nel secolo presente, 147-151.
24
S. FERRARI, Vaticano e Israele, 189.
Tale questione non poteva ridursi al semplice libero accesso ai Luoghi Santi. Essa doveva essere
sistemata istituendo un “presidio giuridico internazionale” che non emanasse di una sola delle comunità interessate, ma che fosse in grado di garantire il carattere sacro della città, salvaguardare la
libertà religiosa, tutelare i diritti acquisiti dalle varie comunità nei santuari (lo status quo) e assicurare un trattamento paritario tra le tre grandi religioni monoteistiche. Tale presidio avrebbe dovuto
corrispondere a uno “statuto proprio” per Gerusalemme, che escludesse non solo soluzioni unilaterali ma anche intese bilaterali tra stati. Chiunque si fosse trovato ad esercitare la sovranità sulla città
avrebbe dovuto assumersi l’impegno di tutelarne il carattere sacro in base “ad un sistema giuridico
appropriato, garantito da una superiore istanza internazionale” compatibile con la sovranità di uno o
più stati sulla città. La garanzia internazionale non doveva essere applicata alla città vecchia, dove
erano concentrati i più importanti Luoghi Santi di ebrei, cristiani e musulmani e attorno ai quali vivevano le rispettive comunità25.
Gli accordi della Santa Sede con Israele e con l’OLP (1993-2000)
Alla fine degli anni Ottanta due nuovi fattori giunsero ad intralciare il cammino verso l’apertura di
relazioni diplomatiche tra stato ebraico e Santa Sede. Il primo fu l’intifada, la rivolta palestinese
iniziata nel dicembre 1987 nei territori occupati, che fu incondizionatamente sostenuta dalle comunità arabo-cristiane e dai loro leader religiosi. Il secondo fu la crisi del Golfo (1990-1991), seguita
all’invasone del Kuwait. Israele fu profondamente irritato dall’appoggio vaticano alla tesi irachena,
secondo la quale la soluzione della crisi doveva essere legata a quella della questione palestinese. Il
pontefice temeva invece che la contrapposizione tra un paese musulmano e una coalizione guidata
da paesi cristiani occidentali provocasse tra gli arabi la crescita del nazionalismo e del fondamentalismo; un processo che avrebbe avuto effetti nefasti sulle minoranze cristiane, “destinate ad essere
identificate come una propaggine del mondo occidentale in terra d’Islam”26.
Dopo questo conflitto la Santa Sede sentì la necessità di iniziare un processo di normalizzazione
con Israele. Essa fu mossa dall’esigenza di non rimanere tagliata fuori dal processo di pace iniziato
a Madrid nell’ottobre del 1991, nel cui contesto sarebbe stato affrontato anche il problema dello status di Gerusalemme e dei Luoghi Santi. A quell’assise i rappresentanti diplomatici vaticani non erano stati invitati. George Bush, infatti, aveva ceduto alle pressioni del premier israeliano Yitzhak
Shamir, che rifiutava ogni contatto con paesi che non intrattenevano relazioni diplomatiche con
Israele. L’avvio dei negoziati arabo-israeliani, con lo stesso Arafat che accettava di trattare direttamente con Israele, permise alle autorità della Santa Sede di intraprendere gli stessi passi senza il timore di reazioni nei confronti delle minoranze cattoliche mediorientali.
L’accordo israelo-vaticano fu firmato il 30 dicembre 1993. Riguardo ai Luoghi Santi esso contiene
una novità importante: Israele e Santa Sede si impegnano a mantenere e rispettare lo status quo nei
santuari e a rispettare i diritti delle altre comunità cristiane ad esso interessate (art. 4). Il contenuto
di questo articolo si presta a molteplici considerazioni: innanzitutto esso sancisce la rinuncia definitiva della Santa Sede a recuperare le posizioni perdute dai latini nei più importanti Luoghi Santi il
seguito all’emanazione del firmano del 1757. Inoltre, le sue previsioni si traducono automaticamente in una garanzia offerta alle altre comunità cristiane circa l’intangibilità dello status quo. È interessante infine osservare che l’accordo ha permesso a Israele di farsi garante di un regime che si ap25
La prima presa di posizione importante in sede internazionale dopo l’elezione del nuovo pontefice fu l’intervento
dell’osservatore permanente della Santa Sede Renato Martino alle Nazioni Unite del 3 dicembre 1979. Cfr. Documents
on Jerusalem, PASSIA, Jerusalem, 1997, 19-20. In seguito, fondamentale fu la lettera apostolica Redemptionis anno del
20 aprile 1984, in AAS, LXXVI (1984) 625-629 e E. FARHAT (a cura di), Gerusalemme nei documenti pontifici, 196199 e il discorso di mons. Martino all’Onu del 10 aprile 1989, in Documents on Jerusalem, 22-23. Sull’argomento cfr.
anche gli artt. di G. RULLI, “Il problema di Gerusalemme”, su La Civiltà Cattolica, 1980, III, 281-283 e S. FERRARI,
“La Santa Sede e lo status di Gerusalemme”, in Aggiornamenti Sociali, XI (1989) 717-734.
26 S. FERRARI, Vaticano e Israele, 189.
plica a santuari situati in territori che le risoluzioni dell’Onu, base delle trattative di pace tra lo stato
ebraico e quelli arabi, riconoscono come occupato.
Le clausole relative all’aspetto concordatario dell’accordo offrono valide garanzie per la libertà e le
attività della Chiesa cattolica e dei suoi fedeli all’interno della legislazione dello stato ebraico.
Israele si impegna a rispettare il diritto alla libertà di coscienza e di religione (art. 1, par. 1) e riconosce vari altri diritti alla Chiesa di Roma: “svolgere i propri compiti religiosi, morali, educativi e
caritativi, avere istituzioni sue proprie e formare, nominare e impiegare proprio personale nelle suddette istituzioni…” (art. 3, par. 2); “istituire, mantenere e dirigere scuole e istituti di studio a tutti i
livelli” (art. 6); “svolgere i suoi compiti in ambito caritativo attraverso le proprie istituzioni sanitarie
e di assistenza sociale” (art. 9) e mediante “strumenti di comunicazione di proprietà della Chiesa”
(art. 8). Alla Chiesa cattolica è anche riconosciuto il diritto di proprietà. Tuttavia, per un accordo
complessivo su questioni economiche e fiscali riguardanti la Chiesa o specifiche comunità o istituzioni cattoliche era prevista l’apertura entro tre mesi di specifici negoziati (art. 10). Trattative successive si rendevano necessarie anche per determinare come avrebbe potuto pienamente manifestarsi, nel diritto israeliano, la personalità giuridica in conformità con il diritto canonico della Chiesa
cattolica e dei suoi istituti situati in Israele (art. 3 par. 3)27.
Mentre tutt’oggi i negoziati previsti dall’art. 10 dell’accordo si trascinano stancamente, piena realizzazione hanno avuto quelli contemplati nell’art. 3, sfociati nel nuovo accordo israelo-vaticano del
10 novembre 1997. Esso – definito dalla stessa Santa Sede “una preziosa difesa giuridica per la
Chiesa cattolica in Israele” – “riconferma e chiarifica le acquisizioni tradizionali riguardo al riconoscimento, da parte dello stato, delle istituzioni cattoliche già esistenti al suo interno”: la Custodia di
Terra Santa, i Patriarcati, le diocesi e le altre circoscrizioni ecclesiastiche, le istituzioni religiose e le
altre persone giuridiche ecclesiastiche pubbliche. Lo stato d’Israele, nell’ambito del proprio ordinamento, si è impegnato a riconoscere, oltre alla stessa Chiesa cattolica, i vari organi ecclesiastici
come persone giuridiche nate e rette sulla base delle disposizioni del diritto canonico. Questi organi
possono così assolvere liberamente le funzioni proprie della Chiesa sul territorio israeliano, alle
medesime condizioni delle persone giuridiche nate nell’ambito dello stato28.
Il 15 febbraio 2000 la Santa Sede ha stipulato un’intesa anche con l’OLP. In questo documento,
come in quello siglato con Israele, non si è inteso affrontare la questione territoriale di Gerusalemme. Tuttavia nel suo lungo preambolo sono stati ribaditi sia i legittimi diritti del popolo palestinese,
sia la tradizionale posizione della Santa Sede riguardo alla questione religiosa di Gerusalemme. Le
parti hanno infatti affermato che “un’equa soluzione” del problema della città – “basata sulle risoluzioni internazionali” – è ritenuta “fondamentale per una pace giusta e durevole in Medio Oriente”,
mentre “decisioni unilaterali e azioni mirate ad alterare lo specifico carattere e lo status di Gerusalemme” sono “moralmente e legalmente inaccettabili”29. Alla città dovrebbe essere applicato “uno
27
Testo dell’accordo in AAS, LXXXVI (1994), 716-729, Journal of Palestine Studies, vol. XXIII, n.91, Spring 1994,
143-147, Rivista di Studi Politici Internazionali, 61, 1994, I, 13-17 e Quaderni di Diritto e Politica Ecclesiastica, 1995,
I, 197-201. Sull’accordo cfr. anche l’Osservatore Romano, 1 gennaio 1994; A. MACCHI, “L’accordo Fondamentale tra
la Santa Sede e lo Stato d’Israele”, in La Civiltà Cattolica, I, 1994, 288-297; F. MARGIOTTA BROGLIO, “L’accordo
‘fondamentale’ tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele (30 dicembre 1993), in Nuova Antologia, 2190, aprile-giugno 1994,
151-162; L. CREMONESI, “L’accordo tra Santa Sede e Israele”, in Vita e Pensiero, 2 (1994) 88-97; M. PESCE,
“L’accordo Fondamentale tra la Santa Sede e lo Stato d’Israele del 30 dicembre 1993 e la questione di Gerusalemme”,
in Humanitas, I, febbraio 1994, 121-129; T. SCOVAZZI, “L’accordo Fondamentale tra la Santa Sede e Israele: aspetti
di diritto internazionale dei trattati”, in Quaderni di Diritto e di Politica Ecclesiastica, 1 (1995) 155-164.
28
Testo dell’accordo su AAS, XCI (1999) 490-567 e su La Documentation Catholique, 4 janvier 1998, n.1, 8-11.
Sull’accordo cfr. l’Osservatore Romano, 10-11 novembre 1997; D.-M. JAEGER, “The Fundamental Agreement between the Holy See and the State of Israel: A New Legal Regime of the Church-State Relations”, in Catholic University
Law Review, 47 (1998) 427-440.
29
Quest’ultima frase, che contiene una non velata condanna della colonizzazione israeliana di Gerusalemme, era stata
preceduta da altri severi e circostanziati giudizi vaticani, espressi soprattutto da mons. Jean Louis TAURAN, segretario
per i rapporti con gli stati della Santa Sede nel corso di un viaggio a Gerusalemme dell’ottobre 1998. Cfr. a questo proposito “La Santa Sede e la questione di Gerusalemme”, sull’Osservatore Romano, 26-27 ottobre 1998 e Journal of Palestine Studies, vol. XXVIII, n. 110, Winter 1999, 147-149.
statuto speciale internazionalmente garantito”, in grado di tutelare la libertà di religione e di coscienza per tutti, l’uguaglianza di fronte alla legge delle tre religioni monoteistiche e delle loro istituzioni, l’identità e il carattere sacro della città e la sua universale eredità religiosa e culturale, i
Luoghi Santi delle tre religioni e la libertà di culto e di accesso ad essi. Nell’impiegare integralmente la formula da tempo patrocinata dalla Santa Sede, i dirigenti dell’OLP si sono in pratica impegnati a non adottare misure unilaterali per la parte di Città Santa che potrebbe essere assegnata al
futuro stato palestinese.
Con questo secondo trattato internazionale di tipo concordatario la Santa Sede ha conseguito gli
stessi fini raggiunti con quello israelo-vaticano. Anzi, l’intesa con l’OLP è ancor più dettagliata, dato che all’art. 3 è esplicitamente previsto che l’ordinamento palestinese assicurerà e proteggerà
l’uguaglianza dei diritti umani e civili di tutti i cittadini, incluso il loro affrancamento da discriminazioni individuali e collettive sulla base delle credenze e della pratica religiosa.
Si sarebbe tentati di affermare che la Santa Sede, stipulando gli accordi con Israele e con l’OLP,
abbia posto fine ai lunghi secoli di insicurezza giuridica per la Chiesa cattolica in Palestina. Tuttavia,
da una parte si deve tener presente il problema costituito dal rifiuto di Hamas di riconoscere la validità dei precedenti impegni internazionali firmati dall’OLP; un elemento che per i cristiani che
vivono all’interno dei territori controllati dall’Autorità Palestinese potrebbe significare un rapido
regresso all’antico status di dhimmi qualora l’organizzazione divenisse maggioritaria all’interno dei
territori occupati. Dall’altra due fattori di carattere più generale: il primo è la convinzione della stessa Santa Sede che il cerchio possa chiudersi definitivamente solo quando i due accordi bilaterali si
inseriranno in un più ampio contesto comprendente precise garanzie giuridiche internazionali per
Gerusalemme30; il secondo è costituito dalla mancanza, all’interno degli accordi stessi, di strumenti
giuridici in grado di indurre le parti a rispettarli, magari prevedendo specifiche sanzioni in caso di
inadempienza.
Alcuni successi diplomatici della Santa Sede (1994-2001)
La Santa Sede non rimase turbata dalle proteste israeliane per l’esplicita presa di posizione contenuta nel preambolo dell’accordo con l’OLP, assunta alla vigilia del viaggio di Giovanni Paolo II in
Terra Santa. La stessa comunità internazionale, infatti, non solo non si è mai peritata di condannare
la colonizzazione ebraica di Gerusalemme est ma recentemente ha fatto proprie molte delle idee vaticane per risolvere il problema della città. L’Assemblea generale dell’Onu, infatti, il 25 aprile 1997
ha votato la risoluzione ES-10/2 nella quale – oltre a condannare le ripetute violazioni del diritto internazionale compiute da Israele e il suo mancato conformarsi agli accordi raggiunti – ha affermato che la comunità internazionale ha un legittimo interesse per la questione di Gerusalemme e per la
protezione della particolare dimensione spirituale e religiosa della città. Ha poi raccomandato che
una giusta e durevole soluzione di questa questione includa garanzie internazionali in grado di assicurare libertà di religione e di coscienza per i suoi abitanti e libero accesso ai Luoghi Santi per i fedeli di tutte le religioni e nazionalità. Queste brevi frasi, che non giungono a specificare quale meccanismo giuridico alternativo debba sostituirsi alla risoluzione 181 sul corpus separatum, costituiscono comunque un chiaro riferimento alla proposta della Santa Sede di uno “statuto internazionalmente garantito per Gerusalemme”.
Questa presa di posizione dell’Onu e la firma dell’accordo con l’OLP non sono state le uniche occasioni in cui la Santa Sede ha ottenuto, a livello internazionale, un riconoscimento della sua posizione su Gerusalemme. Nel novembre 1994, ad esempio, tutti i patriarchi e vescovi cristiani palestinesi
in un lungo documento comune chiesero specifiche garanzie per mantenere un’attiva presenza delle
30
La Santa Sede all’atto dell’abbandono della tesi del corpus separatum aveva sostenuto che le garanzie internazionali
avrebbero dovuto essere assicurate all’intera Terra Santa. A partire dagli anni Novanta invece, mentre ha continuato a
richiedere uno statuto internazionalmente garantito per Gerusalemme, ha ritenuto di poter tutelare altrettanto efficacemente i diritti della Chiesa nel resto della Terra Santa attraverso lo strumento concordatario.
loro comunità all’interno della città; garanzie che, secondo loro, si potevano ottenere solo dando a
Gerusalemme uno status speciale che ne riflettesse l’importanza universale. Questo speciale status
– stabilito in comune da autorità politiche e religiose locali e garantito dalla comunità internazionale
– avrebbe dovuto essere tale da trasformare Gerusalemme in una “città aperta”, in grado di rimanere
estranea ad ogni sorta di conflitti politici31.
Più complessa e contraddittoria si è rivelata la situazione determinatasi nel corso delle trattative di
pace israelo-palestinesi svoltesi tra il luglio 2000 e il gennaio 2001, nel corso delle quali fu previsto
di dividere la sovranità su Gerusalemme tra israeliani e palestinesi. Questi ultimi avrebbero controllato i Luoghi Santi islamici e quelli cristiani, con l’eccezione del quartiere armeno che sarebbe rimasto in mano a Israele 32 . Le promesse formulate solo pochi mesi prima dai palestinesi
nell’accordo con la Santa Sede sembravano completamente dimenticate. Il pontefice cercò di far
sentire la propria voce, riproponendo la sua idea di applicare a Gerusalemme uno “statuto internazionalmente garantito in grado di preservare le parti più sacre della Città Santa e di assicurare libertà di accesso e di culto per tutti i credenti”33. Ma la proposta fu recisamente respinta da Arafat e da
Barak e ritenuta poco praticabile dai consiglieri giuridici del presidente Clinton.
Tuttavia a Taba, nel gennaio 2001, per superare l’impasse creatasi in merito alla sovranità sui Luoghi Santi ebraici e musulmani, gli israeliani presentarono l’interessante proposta di un “holy basin”
per Gerusalemme. Il bacino sacro previsto si riferiva alla zona che racchiudeva i più importanti santuari delle tre religioni monoteistiche, da sottoporre a un regime internazionale o a una sovranità
congiunta israelo-palestinese. Esso avrebbe dovuto includere la città vecchia, l’area archeologica a
sud-ovest della spianata, l’Ophel, la valle del Cedron, il monte degli Ulivi con il suo cimitero sacro,
il monte Sion e la cittadella di David. Questo piano fu elaborato in seguito alla constatazione che,
data la grande importanza simbolica e religiosa dell’area, nessuna delle parti poteva concedere
all’altra il diritto di esercitarvi piena sovranità. Esso era eccellente sotto molti aspetti, non ultimo
perché includeva diversi importanti santuari cristiani situati fuori le mura della città, della cui salvaguardia le precedenti proposte di pace non si erano mai interessate34.
Come si vede le due parti – sostenute dai mediatori statunitensi – per gran parte delle trattative
hanno negoziato il futuro di Gerusalemme e della Palestina senza tenere in alcun conto i diritti e gli
interessi della componente cristiana, dando ampio credito ai timori materializzatisi in Vaticano dopo la presa di posizione della Conferenza islamica di Rabat. Poi, l’assoluta impossibilità di dirimere
le questioni religiose del conflitto israelo-palestinese hanno indotto i negoziatori a formulare proposte non dissimili da quelle che la Santa Sede auspica da decenni riconoscendone, seppur tardivamente, i non trascurabili pregi.
31
Il documento è stato sottoscritto, oltre che dai capi delle comunità cattoliche latina, melchita, maronita e siriana – da
greco-ortodossi, armeni, luterani, anglicani, copti, siriani ed etiopi. Cfr. P. PIERACCINI, Gerusalemme, Luoghi Santi e
comunità religiose, 715-716.
32
La proposta relativa al quartiere armeno sollevò le proteste dei patriarchi armeno, ortodosso e latino di Gerusalemme,
i quali scrissero ai capi di stato impegnati al vertice che rifiutavano la divisione della città vecchia. Un simile provvedimento implicava una scissione della comunità cristiana, che sarebbe ricaduta sotto due differenti sovranità. Gli ecclesiastici – che ritenevano il quartiere cristiano e quello armeno “due entità inseparabili e contigue, fermamente unite nella
stessa fede” – auspicavano la presenza a Camp David e ai vertici successivi dei loro rappresentanti, che le parti in causa
avrebbero dovuto consultare su tutte le questioni suscettibili di violare i diritti dei cristiani e di metterne in pericolo la
presenza nella Città Santa. I tre alti prelati, rifacendosi alla loro dichiarazione comune del 1994, chiesero che fosse applicato a Gerusalemme un “sistema di garanzie internazionali” in grado di consentire alle comunità cristiane di prosperare e di godere dei diritti religiosi e degli speciali privilegi loro riconosciuti dallo status quo dei Luoghi Santi. Cfr. Jerusalem Times, 21 luglio 2000.
33
Cfr. in part. il discorso del pontefice all’Angelus del 23 luglio su l’Osservatore Romano, 26 luglio 2000.
34
Cfr. i cosiddetti “Moratinos documents” su Ha’aretz, 14 febbraio 2002. Il concetto del “bacino sacro” prevedeva, pur
non citandolo espressamente, l’inserimento nel regime speciale della tomba della Vergine, del giardino del Getsemani,
della basilica dell’Agonia, del santuario dell’Ascensione (una basilica trasformata in moschea da Saladino nel 1187, ma
all’interno del quale alcune comunità cristiane continuavano a conservare alcuni diritti di culto), dell’edificio sul Sion
che racchiudeva il Cenacolo e il cenotafio di re David e di altri Luoghi Santi e antichi monasteri di varie confessioni cristiane.
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