manifesto MANIFESTO DI DIRITTO / FILOSOFIA

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manifesto
MANIFESTO DI DIRITTO / FILOSOFIA /
LETTERATURA
Una chiamata – questo manifesto
è
una chiamata/ un invito
e si rivolge a tutti coloro che
desiderano
impegnarsi in una scrittura diversa
(del rapporto tra diritto filosofia e letteratura)
1. Il discorso letterario è (ciò che è) senza-diritto — e solo per questo
comprende il diritto di ciò che non ha diritto
Annotazioni:
1.1. Nessun diritto nella letteratura, nessun diritto come letteratura.
Piuttosto: come è possibile separare il diritto dalla letteratura?, isolare
il diritto nella letteratura? Si dà letteratura senza diritto? Si potrebbe
dire che non c’è letteratura non se non in una scrittura senza diritto, se
non nella sovversione del linguaggio interna al linguaggio, nel portarsi
della scrittura al di là della sua normatività. Eppure, allo stesso tempo,
sembra non potervi essere letteratura se non attraverso il diritto, se non
all’interno dell’attivazione di una serie di protocolli giuridici che
giustificano e legittimano il diritto della letteratura, il diritto che la
letteratura rivendica per sé (il diritto di essere senza diritto). Come
separare, allora, diritto e letteratura? Come tracciare una linea di
separazione – la quale sarà già tolta non appena tracciata, per il semplice
fatto di essere una linea che separa di diritto due “discipline”, due
“saperi”, e che dunque assicura a ciascuna una legittimazione, un titolo ad
essere ciò che pretende di essere? E ancora: come pensare il rapporto tra
diritto e letteratura se risulta impossibile la loro stessa distinzione – in
quanto ogni distinzione sarebbe già giuridica, sarebbe propria del diritto?
Non più separazione, e proprio per la separazione più netta, più radicale.
1.2. La letteratura può farsi soltanto come discorso senza-diritto,
sovversione del linguaggio giuridico, contrapposizione al linguaggio e
all’ordinamento, lotta del racconto contro l’ordinazione. Il dire della
letteratura sarà allora un dire che si fa solo sovvertendo il diritto come
testo e come ordine, solo nella cancellazione di un diritto che dice tutto
ciò che dev’essere detto in quanto detto per ordinare. La letteratura non
rivendica il diritto di dire-tutto: essa, piuttosto, “deve” diversamentedire-tutto, ma questo “deve”, questo “diversamente” e questo “dire” sono
(com-)possibili solo in quanto sono l’effetto di una seria e meditata contestazione, di un venire-meno di ogni diritto-di-dire e di ogni dire-ildiritto. Solo così essa fa spazio al diritto di ciò che non ha diritto, un
diritto che si fa solo in assenza del diritto, di un diritto-senza-diritto.
2.2. Quella tra diritto e letteratura è un’amara lotta – e solo in essa si
separa ciò che è inseparabile. Ma, mentre il diritto costitutivamente ri-vela
(perché nel voler far vedere ri-copre il reale con un velo), la letteratura
nasconde o, più precisamente, svela (nel senso di togliere un velo, uno
strato di scorza variopinta), gradualmente, senza doversi riferire ad un
corpus sistematico di regole dello sguardo e del racconto. Nella letteratura
(e analogamente nel cinema che è una forma del racconto umano), tutto ciò che
non viene visto, di cui non si ha conoscenza, che non viene detto,
costituisce il punto di forza e la ragion d’essere di ciò che si vede e si
sa. Il diritto (e la politica come scienza) nasce dall’opposto desiderio di
tutto vedere-sapere-dire. Basti pensare all’utopia politico-giuridica per
eccellenza: la trasparenza – come coesistenza di sapere-potere e vedere, e
quindi capacità di conoscere e anche pre-vedere tutto. Di poter disporre di
un numero chiuso di oggetti nel mondo, in modo tale da poterne disciplinare
compiutamente e nel dettaglio l’esistenza, la trasformazione e financo il
venir meno. Senza zone d’ombra. Le zone d’ombra sono un intralcio per
l’ordinamento (del) giuridico, che vorrebbe essere del tutto conoscibile.
2. Letteratura è la scrittura di nuova
filosofia-del-diritto.
Annotazioni:
2.1. Cosa ha reso possibile, fino ad oggi, “una” filosofia del diritto? (cosa
indica il genitivo, per cosa sta, verso-cosa fa segno?). Cosa viene in
questione con la filosofia-del-diritto? C’è qualcosa che dobbiamo mettere
subito in gioco, anche in questo caso: la linea di separazione – una linea
che ha performato e preformato i titoli, i “settori concorsuali” e
“scientifico-disciplinari” – tra filosofia-del-diritto-dei-giuristi e
filosofia-del-diritto-dei-filosofi. Cosa ne è della filosofia-del-diritto al
di qua di questa linea? Scriviamo oggi decostruendo questa linea, contro la
sua tradizione. Eppure non si potrà che ripercorrere e dunque scrivere ancora
all’interno di questa tradizione.
2.2. passaggio (entr’acte). Perché, ed esattamente quando, in Italia, la
filosofia-del-diritto è passata dalla parte del diritto? Ci si potrebbe anche
chiedere: perché la filosofia del diritto deve prendere (solo) una parte?
Forse occorrerebbe scrivere una storia degli scostamenti, delle rotture,
delle discontinuità, del formarsi di una tradizione, delle consolidazioni
delle definizioni di “filosofia-del-diritto” in Italia, e del suo conseguente
disciplinamento accademico, del suo divenire insegnamento proprio delle
facoltà di Giurisprudenza (non cercare, dunque, risposta alla domanda checosa-è la filosofia del diritto, ma le condizioni a partire dalle quali
questa domanda è stata resa possibile, e come siano esse ad aver determinato
le risposte). Seguire, soprattutto, le pratiche del disciplinamento – che
segnano il passaggio all’organizzazione accademica (questa storia delle
discontinuità parrebbe invero necessaria onde scongiurare la trappola di
Benedetto Croce: la filosofia del diritto come l’ircocervo, leggendario
animale metà caprone e metà cervo, simbolo di tutto ciò che non può essere
reale e nemmeno tende o vuole assimilarsi al reale). C’è ancora filosofiadel-diritto, senza questo tracciato? Come scrivere “senza” tracciato (cosa
indica il senza)? – come scrivere, senza ciò che fa-segno e così determina e
vettorializza, è condizione affinché si diano un inizio ed una fine, una
destra e una sinistra, un alto e un basso
filosofia –
del – diritto
Come scrivere, cioè, una filosofia-del-diritto dove venga messo in questione
proprio quel che fa-segno, quel che la fa passare da sempre in un
metalinguaggio (“del”)?
2.3. filosofia-(del)-diritto (questioni). Ricominciamo dalla
sbarratura – che separa e unisce, senza mai separare ed unire, e quindi
sempre in modo indecidibile –, dal tracciato filosofia-del-diritto. Solo
un’altra scrittura può mettere in questione la “sbarratura”, in forza della
quale il discorso filosofico è già-da-sempre discorso giuridico, una
filosofia del diritto come diritto della filosofia (diritto che costituisce
la filosofia), una filosofia a cui si chiede di dare ragione di se stessa, di
enunciarsi come judicium, cui si chiede di dire il proprio diritto. Non c’è
filosofia se non attraverso una quaestio juris: la filosofia «si fa
giuridica», sempre. Cosa succede “quando” la filosofia «passa nel diritto»? O
non è già-sempre-passata nel diritto, non è già-da-sempre filosofia-deldiritto? Perché de-cidere di questo rapporto e non, invece, tentare di
scrivere un genitivo (“del”) che non sia né soggettivo né oggettivo.
E ancora: come liberare la filosofia dal diritto – ma attraverso la filosofia
del diritto (non c’è mai un fuori-diritto, rassicurante, da dove si potrebbe
liberamente parlare)? Come scrivere una filosofia del diritto contro il
diritto? Non c’è filosofia senza scrittura. E non c’è scrittura, scrittura di
liberazione, se non in un contro-discorso, in una discorso senza diritto,
discorso senza discorso, senza-giustizia, senza legge, contro la legge, nondiritto. La sconfitta della filosofia come pratica rivoluzionaria si deve a
questo: che essa non ha mai messo in discussione, realmente, il proprio
diritto (ossia il diritto che ne disciplina il discorso), la sua discorsività
giuridica, la giuridicità dei propri assunti, delle proprie “posizioni”. La
filosofia è mai riuscita davvero a scrivere-contro-il-diritto (è mai stata,
oggettivamente, altro da un «cane da guardia»)
3. Non: il diritto è linguaggio, ma anche:
il linguaggio è diritto.
Annotazioni:
3.1. Vogliamo essenzialmente una filosofia che sia al di là di ogni diritto,
ed un diritto che sia, dunque, senza-diritto, un diritto nuovo, che può
essere pensato soltanto laddove la filosofia riesca a inventare un discorso
senza-potere, e dunque senza-logos, senza-concetto – ma qui è il punto
fondamentale: capire che, ove continui ad essere presente il diritto, il
discorso sarà già-da-sempre controllato, disciplinato.
Solo il giuridico, il normativo, rende possibile il linguaggio. Non, dunque,
semplicemente, il diritto è linguaggio, ma: il linguaggio è diritto. O,
meglio, diritto(e)linguaggio sono sempre insieme, sempre sullo stesso lato –
contro Saussure, dunque: non c’è recto e verso, significante/significato,
diritto/linguaggio ma solo e sempre una sola superficie, il
dirittoelinguaggio.
Inutile anche interrogarsi sulla primogenitura: linguaggio del dirittodiritto del linguaggio. Banalmente, se il diritto è una regola anche il
linguaggio è un diritto. E se il linguaggio è un dire, allora anche il
diritto è un linguaggio. Per quale ragione dovremmo farci comprendere
(dunque: contro il linguaggio-strumento, contro il logocentrismo, contro
l’idea che parlare sia comunicare)?
Il proprio di una nuova filosofia(del)diritto non sarà la sbarratura, la
separazione filosofia/diritto, filosofi/giuristi. Piuttosto: da una parte,
rispetto al discorso filosofico, la filosofia(del)diritto ha il compito di
praticare la filosofia contro il suo stesso diritto, contro il diritto che la
costituisce – senza che essa abbia mai realmente messo in questione questa
giuridicità che la attraversa e la rende possibile. Dunque una
filosofia(del)diritto come pratica per una filosofia senza diritto.
Dall’altra – ed è lo stesso lato, la stessa parte – il compito di scrivere un
diritto contro il diritto, un diritto senza diritto, senza cioè la continua
riproduzione del suo principio costitutivo: quello per cui, per essere
soggetto della legge, occorre essere soggetto alla legge (dunque, anzitutto:
un diritto senza-soggetto). Sì: contro l’ordine simbolico, contro la realtà,
per il reale.
4. La pratica letteraria è una pratica di giustizia.
Annotazioni:
Dobbiamo trovare un discorso nuovo senza potere, senza ordine, un discorso
privo di ordinamento? (Ma che cosa indica questo “senza”?). Discorso
politico, se non c’è alcuna definizione del “politico”, perché il “politico”
non può essere detto: non c’è in esso linguaggio, ma lotta per il linguaggio
– e per il riconoscimento, forse (la politica non dunque come genere di
discorso, ma come suo problema: come si deve concatenare? Come scrivere un
linguaggio?).
La politica è essenzialmente una scrittura, prassi, pratica di scrittura.
Quindi: nessuna definizione di “politico” che non passi attraverso la
scrittura, la creazione di una lingua; nessuna antropologia prima di una
scrittura. Sì, anche contro Schmitt, per Maiakovskij: Sono anch’io una
fabbrica.
Dunque, giustizia. Non dire (che è sempre ius-dicere, dire il diritto come
ciò che si dice, si enuncia) ma fare giustizia (e dunque giustizia senza
giustizia, giustizia senza diritto, perché non preceduta da ciò che è detto,
che si dice). Giustizia non-giustiziabile: giustizia che non ha «diritto al
diritto» (Derrida). Dalla giustizia (justice) alla giustezza (justesse):
nessuna dictio, ius-dicere, ma «aggiustamento» (ajustement). Praticare la
giustizia (in nome di cosa? Di nulla: senza-nome, perché senza-diritto).
Inventarla.
***
Linee per una ricerca:
Questo manifesto si rivolge a tutti coloro che vogliono tentare una scrittura
diversa del discorso giuridico, che possa portare il diritto al di là del
diritto. Le quattro proposizioni tracciano una linea teorica e di ricerca, e
rimandano ad una tradizione, che il lettore può individuare da solo.
Vogliamo, qui, solo invitare tutti coloro che sentono di condividere questo
programma ad unirsi a noi, per coordinare le nostre ricerche, pubblicare
insieme i nostri studi, praticare un tentativo.
Non un teatro, ma una fabbrica, un’officina.
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