CAPITOLO PRIMO
IL FENOMENO E I SUOI PROBLEMI
SOMMARIO: 1. Le azioni proprie nella disciplina italiana. – 2. La disciplina comunitaria: i principi. – 3. Profili storici e comparatistici. – 3.1. Il divieto temperato di acquisto: le finalità lecite nel modello tedesco; le condizioni legittimanti
nel modello italiano. – 3.2. La diffusione dei due modelli normativi nel diritto
europeo armonizzato. – 4. Il ruolo delle azioni proprie nell’economia dell’impresa. – 4.1. Effetti del buy-back sullo shareholder’s value. – 4.2. Il sostegno del
prezzo delle azioni e il fenomeno degli annunci ineseguiti. – 4.3. La stabilizzazione dei corsi e l’incremento della liquidità. – 4.4. Quale rilievo hanno le azioni
proprie nell’economia delle società chiuse? – 5. La società azionista. – 5.1. Evidenze dalla prassi: (a) il possesso delle azioni proprie nelle blue chips italiane. –
5.2. Segue. (b) il possesso delle azioni proprie nelle società non quotate. – 6.
Sintesi dei problemi e piano dell’indagine.
1. Le azioni proprie nella disciplina italiana. – In omaggio ad una concezione che affonda le sue radici nel codice di commercio del 1882, l’art. 2357
c.c. esordisce affermando che «la società non può acquistare azioni proprie».
L’assolutezza del divieto degrada però immediatamente nel prosieguo della
norma, e si può anzi affermare con tranquillità che l’acquisto di azioni proprie
è una operazione lecita, pur se soggetta a condizioni: i) che l’assemblea la autorizzi; ii) che la società effettui l’acquisto impiegando utili distribuibili o riserve disponibili; iii) che le azioni siano interamente liberate 1. Una quarta
1
Quella riportata nel testo era la sequenza con cui venivano indicate le condizioni di
legge secondo la versione originaria del codice civile del 1942, in vigore fino al 1986. Come giustamente nota CARBONETTI, L’acquisto di azioni proprie, Milano, 1988, 64, l’inversione nasce da mere ragioni di comodità stilistica e dunque nulla impedisce di trattare in
primo luogo il requisito dell’autorizzazione assembleare che, peraltro, non costituisce, a differenza delle altre, una limitazione all’acquisto di azioni proprie (e v. per questa espressione
l’art. 2357-bis c.c.).
2
INTRODUZIONE
condizione, o meglio una limitazione, si aggiunge per le società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio: iv) questi emittenti non possono, infatti, acquistare azioni proprie in eccesso rispetto alla quinta parte del capitale
sociale.
Le stesse condizioni e limitazioni valgono per la società controllata rispetto alle azioni della controllante (art. 2359-bis) e, sostanzialmente, per le
società cooperative (art. 2529), salvo che per queste non è necessaria l’autorizzazione dell’assemblea ma una disposizione dell’atto costitutivo. Al
contrario, le stesse condizioni e limitazioni non si applicano in caso di riscatto e annullamento, acquisti a titolo gratuito per effetto di successione
universale o esecuzione forzata, anche con riguardo alle azioni della controllante (art. 2357-bis e 2359-quater).
Per le s.r.l. il divieto di compiere operazioni sulle proprie partecipazioni
è assoluto (art. 2474). Altresì è (tornato ad essere) assoluto il divieto di sottoscrizione di proprie azioni (art. 2357-quater) o quote (anche della controllante: art. 2359-quinquies), mentre quello in materia di assistenza finanziaria nell’acquisto o sottoscrizione di proprie azioni (art. 2358) è stato ripensato ed oggi si presenta come divieto relativo, salvo che per l’accettazione di
azioni proprie in garanzia (ancora assoluto).
Le regole preclusive ora enumerate sono assistite da sanzione penale,
applicabile a chi ha compiuto le operazioni vietate, qualora queste cagionino una lesione all’integrità del capitale o delle riserve non distribuibili per
legge (art. 2628 c.c.) 2.
Salvo che per l’indicazione ricavabile dalla norma incriminatrice accennata, la legge italiana non pone in aperta correlazione i divieti o le limitazioni e il bene giuridico che con essi intende preservare. Né indica quali
siano gli interessi meritevoli di tutela al ricorrere dei quali alcuni dei divieti
assumono carattere relativo, permettendo il compimento delle operazioni
altrimenti vietate 3.
La Relazione al n. 962 spiega che la disciplina ha l’obiettivo di fronteg2
In linea di principio, sotto il profilo civilistico, gli atti di acquisto o di sottoscrizione di
azioni proprie posti in essere in violazione di divieti o limitazioni non sono nulli, ma ricevono una disciplina particolare (art. 2357, comma 4, c.c.). Questa disciplina non è tuttavia
generale, ed è incerto se e in che misura possa essere estesa anche alla violazione di alcuni
divieti o limitazioni per i quali non è richiamata. Di questi aspetti ci occuperemo approfonditamente nel Capitolo VII.
3
Rileva positivamente questa caratteristica della legislazione italiana, CARBONETTI, L’acquisto di azioni proprie, 11.
IL FENOMENO E I SUOI PROBLEMI
3
giare «la delicata situazione che si pone in essere a seguito di simili operazioni» e soggiunge che «l’acquisto delle proprie azioni, che può costituire
una sana forma d’impiego degli utili dell’impresa sociale, non deve infatti
prestarsi in alcuna forma ad operazioni di carattere speculativo, né può
rappresentare per gli amministratori un sistema per crearsi una comoda
maggioranza a spese del patrimonio sociale».
2. La disciplina comunitaria: i principi. – Una motivazione laconica e
fondamentalmente apodittica è espressa nella legislazione comunitaria, per
la quale è necessario limitare la possibilità di una società di acquistare azioni proprie (nonché vietare indebite distribuzioni di utili agli azionisti) «per
salvaguardare il capitale, che costituisce una garanzia per i creditori» (II
Dir. soc., Quarto considerando).
Attuando il proposito espresso nel considerando, il legislatore comunitario vieta assolutamente la sottoscrizione (art. 18 II Dir. soc.) e fa salva la
possibilità che gli Stati membri vietino del tutto anche l’acquisto di azioni
proprie (art. 19 II Dir. soc.). Qualora l’acquisto sia permesso, in ogni caso,
lo stesso può avvenire solo a condizione che (a) sia assicurata la parità di
trattamento tra azionisti (requisito precisato con la Direttiva 2006/68/CE,
del 6 settembre 2006); (b) sia autorizzato dall’assemblea, che ne fissa modalità e condizioni; (c) non determini una discesa dell’attivo netto al di sotto
dell’importo del capitale sottoscritto aumentato delle riserve che la legge o
lo statuto non permettono di distribuire; (d) riguardi solo azioni interamente
liberate; (e) se le azioni sono contabilizzate nell’attivo di bilancio, le risorse
impiegate siano vincolate in una riserva indisponibile al passivo (art. 22,
par. 1, lett. b, II Dir. soc.).
A partire dalla revisione operata con la Dir. 2006/68/CE, è invece scomparsa dalla legislazione comunitaria la previsione di una limitazione quantitativa obbligatoria. La stessa si limita oggi a permettere (art. 19, par. 1,
comma 2, II Dir. soc.) che gli Stati membri subordinino l’acquisto di azioni
proprie ad ulteriori condizioni tra cui: (a) una limitazione quantitativa delle
azioni che possono essere detenute in un certo momento come azioni proprie; (b) una previsione statutaria che dia facoltà alla società di acquistare
azioni proprie, determinandone le condizioni; (c) la previsione di obblighi
di comunicazione e di notifica che la società deve soddisfare; (d) l’annullamento delle azioni acquistate; (e) una previsione che assicuri che l’acquisizione non pregiudica la soddisfazione dei diritti dei creditori.
Le condizioni necessarie e quelle che facoltativamente possono essere
4
INTRODUZIONE
previste dagli Stati membri contribuiscono a delineare il senso dei divieti e
delle limitazioni, pur non risultando tutte e nella stessa misura giustificate
dall’esigenza di salvaguardia del capitale come garanzia dei creditori, rispetto
alla quale la legislazione comunitaria è dichiaratamente formulata. Invero, a
questa finalità possono essere agevolmente riportati il vincolo di impiegare
solo utili distribuibili e riserve disponibili (e parimenti la costituzione della riserva indisponibile), quello di non acquistare se non azioni interamente liberate, la previsione di obblighi di comunicazione (anche ai terzi), nonché il
vincolo di assicurare il soddisfacimento delle pretese dei creditori.
Non è invece agevole comprendere, sulla base del considerando di riferimento e delle finalità dallo stesso dichiarate, quale sia il senso dell’autorizzazione assembleare; autorizzazione che, peraltro, potrebbe essere sostituita da una previsione statutaria o, al contrario, essere considerata insufficiente, dovendosi inserire nell’ambito di una previsione statutaria. Similmente, non appaiono poste nell’interesse dei creditori le eventuali limitazioni quantitative 4 – già sussistendo il vincolo di non impiegare risorse non
disponibili – o l’eventuale obbligo di annullamento delle azioni proprie acquistate. Non a caso, la limitazione quantitativa obbligatoriamente prevista
in passato veniva pacificamente ascritta all’interesse dei soci minoritari a
che la maggioranza non potesse consolidare il proprio potere nella società
impiegando risorse comuni: a questa esigenza fa ancora riscontro l’obbligo
di prevedere «in ogni caso» la sospensione del diritto di voto per le azioni
proprie detenute in portafoglio (art. 22, par. 1, lett. a, II Dir. soc.) e, fondamentalmente, l’obbligo di osservare la parità di trattamento tra azionisti.
Pure difficile è comprendere in che senso l’acquisto di azioni proprie
possa avere l’effetto di evitare alla società un danno grave e irreparabile
(art. 19, par. 2, II Dir. soc.) o il perché non ponga a rischio l’interesse dei
creditori l’obiettivo di distribuire ai dipendenti della società azioni proprie,
pur se acquistate in violazione delle condizioni necessarie (art. 19, par. 3, II
Dir. soc.) 5. Analogamente, non sono di immediata evidenza gli elementi che
4
Al proposito, stupisce invero che, con la revisione alla II Dir. soc. nel 2006, anziché imporre agli Stati membri che consentono di acquistare azioni proprie di circoscriverne l’entità
(come nella versione originaria), tutto all’opposto si sia deciso di proibire agli Stati membri
di limitare gli acquisti ad una soglia inferiore al dieci per cento, visto che resta ferma la possibilità di proibire del tutto l’acquisto.
5
Si tratta di due dei casi indicati dalla legislazione tedesca, in cui una società può effettuare acquisti di azioni proprie: sul punto si veda la successiva nt. 18.
IL FENOMENO E I SUOI PROBLEMI
5
accomunano le otto fattispecie dell’art. 20 II Dir. soc., nelle quali l’applicazione delle condizioni necessarie può essere derogata dagli Stati membri.
Particolarmente significativo è, al contrario, il vincolo posto dall’art. 22,
par. 2, II Dir. soc. (e analogamente dall’art. 2428, comma 3, n. 4, c.c.), il quale esige che nella relazione di gestione siano espressi, non solo i dettagli degli
acquisti e delle alienazioni di azioni proprie avvenuti nel corso dell’esercizio,
ma anche i motivi che hanno sorretto le acquisizioni. La disposizione comunitaria pone in chiara luce, da una parte, l’esigenza che la legittimità degli acquisti di azioni proprie sia correlata ai motivi che li hanno determinati.
Dall’altra parte, fa emergere anche la scelta – diversa da quella di alcuni ordinamenti importanti, come quello tedesco – di non identificare quali, tra i vari
motivi che possono indurre gli amministratori ad effettuare un acquisto di
azioni proprie, siano quelli meritevoli di essere assecondati dall’ordinamento.
È dunque compito delle legislazioni nazionali o, in mancanza, del diritto
vivente identificare gli interessi che giustificano l’acquisto di azioni proprie,
nel rispetto delle condizioni poste affinché altri interessi, dei creditori ma
non solo, non siano pregiudicati.
Al riguardo, il Regolamento n. 2273/2003, del 22 dicembre 2003 (sul
quale si tornerà al n. 5.1.) – provvedimento comunitario di secondo livello,
di attuazione della Direttiva sugli abusi di mercato (n. 2003/6/CE, del 3 dicembre 2002), in materia di programmi di riacquisto di azioni proprie e per
le operazioni di stabilizzazione di strumenti finanziari – enumera gli obiettivi che un programma di acquisto di azioni proprie deve indicare per potere
beneficiare della deroga alla disciplina sugli abusi di mercato. Secondo
l’art. 3 Reg. n. 2273/2003, il programma di riacquisto di azioni proprie deve
avere come esclusivo obiettivo (a) quello di ridurre il capitale dell’emittente
(in valore o in numero di azioni) o (b) di adempiere alle obbligazioni derivanti: (i) da strumenti di debito convertibili o scambiabili con strumenti
azionari; o (ii) da programmi di assegnazione di opzioni su azioni o da altri
programmi di assegnazione di azioni a favore dei dipendenti dell’emittente
o di una società collegata.
3. Profili storici e comparatistici. – Il divieto di acquistare azioni proprie
è nato anzitutto come portato di un problema ideologico, frutto della visione
antropomorfica delle società: e cioè, la difficoltà di concepire la società come azionista di se stessa 6.
6
E si v. l’ampia analisi di POZZO, L’acquisto di azioni proprie. La storia di un problema
6
INTRODUZIONE
E così, un divieto assoluto fece la sua comparsa nella legislazione prussiana del 1870 e, sebbene con la Aktiennovelle del 1884 lo stesso venisse
riproposto come Sollvorschrift («die Gesellschaft soll nicht eigener Aktien
erwerben»), la regola rimase sostanzialmente immodificata fino agli anni
’30 del secolo scorso, quando, a seguito della crisi del ’29, il fenomeno aveva dato la peggiore immagine di sé 7. La proibizione era tuttavia incompleta,
mancando della sanzione.
Approccio più liberale assumeva la legislazione italiana, consentendo già
nel 1882 l’acquisto di azioni proprie a condizione che lo stesso fosse «autorizzato dall’assemblea generale», che fosse effettuato «con somme prelevate dagli utili regolarmente accertati» e che si trattasse di «azioni interamente liberate» (art. 144 cod. comm.).
La disposizione di legge italiana nasceva dalla esigenza di impedire la
prassi delle anticipazioni su proprie azioni, all’epoca vietata con disposizioni statutarie richieste a fini della costituzione della società anonima 8. Il timore era quello che con l’anticipazione o con l’acquisto di azioni proprie la
società restituisse il conferimento ai soci privando i creditori della garanzia
del capitale 9. Lo stesso timore risultava tuttavia dissipato al ricorrere delle
tre condizioni indicate.
A differenza che in Germania, peraltro, la violazione del divieto era penalmente sanzionata (art. 247 cod. comm.).
Il divieto di acquistare azioni proprie non era invece espresso nella legislazione inglese, né in quella francese fino ad un recente passato. L’atteggiamento della prassi era comunque di diffidenza, non comprendendosi come potesse la società divenire azionista di se stessa. Ma l’operazione non
veniva in concreto vietata, soprattutto se tesa a consentire il rimborso delle
azioni, con conseguente loro annullamento.
Interessante è al riguardo ripercorrere la rapida evoluzione della giurisprudenza inglese e francese di fine ’800. Nei casi presentatisi alla House of
in un’analisi di diritto comparato, Milano, 2003, 13 ss., spec. 24 s. (per l’Italia), nonché
119 ss.
7
La Dresdner Bank aveva acquistato oltre il 55% del capitale e altre banche minori erano andate oltre il 60%: ne riferisce anche CARBONETTI, L’acquisto di azioni proprie, 15, ove
le fonti.
8
Sulla rilevanza di questa disposizione, CARBONETTI, L’acquisto di azioni proprie, 2.
9
Al riguardo, specificamente, SCOTTI CAMUZZI, Acquisto di proprie azioni, utile e utile
d’esercizio, in Riv. soc., 1970, 617.
IL FENOMENO E I SUOI PROBLEMI
7
Lords, la vendita della partecipazione alla società costituiva un escamotage
che permetteva ad un determinato socio, senza necessità di provocare lo
scioglimento, di ottenere il recupero anticipato dei conferimenti, soddisfacendo dunque il relativo interesse al disinvestimento. La giurisprudenza inglese, mentre dapprima giudicò inconcepibile che la società diventasse socia di se stessa, anche se solo temporaneamente 10, poi ammise l’operazione
purché non risultasse preordinata a perpetrare disparità di trattamento tra
azionisti 11. Ad analoghi risultati giunse la giurisprudenza francese, la quale,
10
In Trevor v. Whitworth, (1887) LR 12 App. Cas. 409, un socio aveva venduto le sue
azioni alla società ottenendo il rimborso del valore nominale, come previsto dallo statuto.
Gli eredi del venditore contestavano che la società, entrata volontariamente in liquidazione
qualche anno dopo, avesse distribuito ai soci superstiti un valore superiore a quello pagato a
suo tempo per l’acquisto di azioni proprie. Gli stessi argomentavano la richiesta di integrazione del prezzo assumendo che la società non potesse acquistare azioni proprie e che in
ogni caso non potesse acquistarle da un solo socio. La Corte, con lunghe e prolisse argomentazioni, giunse alla conclusione che l’acquisto di azioni proprie doveva considerarsi atto
ultra vires ed in ogni caso non poteva limitarsi alle azioni di un solo socio (spec. Trevor v.
Whitworth, (1887) LR 12 App. Cas. 409, 436 per Lord Macnaghten). In In re Denver Hotel
Company, [1893] 1 Ch. 495, venne operato un forzato distinguishing, consentendosi non
l’acquisto, ma il riscatto delle azioni proprie finalizzato all’annullamento (letteralmente,
surrender). Una società inglese possedeva e gestiva un albergo a Denver, in Colorado. Decise di prenderne un secondo in affitto, ma le spese di restauro e di mobilio furono di molto
superiori al previsto e determinarono un dissidio tra gruppi di soci. Fu deciso che un gruppo
sarebbe subentrato nel contratto di affitto e avrebbe assunto le spese del secondo albergo al
prezzo di costo; a tal fine, la società avrebbe ridotto il capitale corrispondentemente alle
azioni di questi azionisti, riconoscendo loro un valore pari al prezzo di acquisto degli arredi,
che si sarebbe dunque compensato. La decisione venne votata unanimemente dai presenti in
assemblea generale (tuttavia non composta da tutti gli aventi diritto) e poi approvata come
delibera speciale dai medesimi azionisti in separata sede. La delibera non venne confermata
in primo grado, sul rilievo che, pur non ostandovi opposizioni, né dei creditori né dei soci,
tuttavia non constava il consenso di tutti gli azionisti e i non assenzienti non potevano considerarsi una minoranza irrilevante (In re Denver Hotel Company, [1893] 1 Ch. 495, 501
ss., per Judge North – che avrebbe poi giudicato il primo grado in British and American
Trustee and Finance Corporation Ltd v. Couper –, ponendosi in contrasto con un proprio
specifico precedente – In re Quebrada Railway and Copper Company, [1889] L.R. 40
Ch.D. 363 – in cui viceversa il mancato assenso di azionisti con quote irrisorie era stato
considerato irrilevante). La House of Lords decise in modo alquanto ambiguo, ritenendo che
la transazione in sé fosse una normale operazione che non necessitava dell’approvazione
della Corte; che, d’altronde, il surrender delle azioni (anche se a fronte di una transazione),
non costituisse acquisto e dunque fosse legittimo perché la società non corrispondeva nulla
in cambio, ricevendo un pure gain.
11
In British and American Trustee and Finance Corporation Ltd v. Couper, [1894] A.C.
399. Una società di diritto inglese operante anche negli Stati Uniti era controllata da due
gruppi di azionisti in maggior parte inglesi, in minor parte americani. La società affrontava
8
INTRODUZIONE
pur reputando lecito l’istituto, aveva sanzionato acquisti di azioni proprie
perché irrispettosi della parità di trattamento tra azionisti 12.
A differenza dell’approccio tedesco e italiano, concentrato sul rischio di
annacquamento del capitale a detrimento dei creditori, quello della giurisprudenza inglese e francese era dunque orientato nel concreto dalla preoccupazione che non si perpetrassero abusi a danno dei soci di minoranza.
3.1. Il divieto temperato di acquisto: le finalità lecite nel modello tedesco; le condizioni legittimanti nel modello italiano. – Alle soglie dell’emanazione della II Dir. soc., le legislazioni di tre dei quattro principali Paesi
membri dell’epoca presentavano un divieto temperato di acquisto di azioni
proprie.
In Germania, la crisi del ’29 aveva indotto ad una formulazione cogente
del divieto 13, il quale tuttavia veniva derogato al ricorrere di alcune finalità
una crisi soprattutto legata alla inefficienza delle attività americane. Per ovviarla, i soci si
determinarono a concordare una (sostanziale) scissione con attribuzione non proporzionale
delle azioni. La società avrebbe infatti deliberato una riduzione del capitale per esuberanza
– il Companies Act 1867 parlava di capital in excess of the wants of the company – che
avrebbe consentito di rimborsare ai soli azionisti americani il valore delle rispettive azioni
mediante acquisto e assegnazione in natura delle attività gestite negli Stati Uniti. Gli azionisti inglesi avrebbero conservato immutate le loro partecipazioni, ma su un patrimonio ridotto. Il piano di riscatto e annullamento era stato approvato a larga maggioranza e nel rispetto
della procedura (che coinvolgeva le due categorie di azioni, ordinarie e dei fondatori, equamente distribuite tra i due gruppi di soci). La delibera era stata quindi sottoposta – come tuttora prescrive la legge inglese – al Tribunale. In questa sede, un socio aveva proposto opposizione su due rilievi: da una parte, il riscatto e annullamento non avrebbe potuto investire
solo una parte delle azioni; dall’altra parte, il rimborso non avrebbe potuto consistere nell’assegnazione di porzioni del patrimonio sociale non liquidate in denaro. I Lord Justices osservarono che finché non siano coinvolti interessi di terzi, i soci sono liberi di deliberare
come meglio ritengano il riscatto e annullamento di azioni e l’assegnazione di porzioni del
patrimonio sociale. Non è dubbio che se sussiste un consenso unanime le corti non hanno motivo per intervenire restrittivamente. L’intervento del Tribunale si rende viceversa opportuno quando tali decisioni sono assunte a maggioranza, soprattutto se vi siano opposizioni dei
dissenzienti. In questo caso, il Tribunale deve valutare la deliberazione nell’interesse della
minoranza e consentirne l’esecuzione se l’operazione risponde a correttezza (fairness). La
correttezza dell’operazione, infatti, consente di superare la necessità dell’eguaglianza formale (equality o precise equality).
12
Cour de Paris, 13 mars 1884, in D.P., 1885, II, 14; Cour de Paris, 6 juillet 1892, in
D.P., 1894, II, 598; Cour de Paris, 20 février 1904, in J. Soc., 1904, 213; nonché Cass. civ.,
23 octobre 1905, in S., 1906, I, 5.
13
L’acquisto di azioni proprie non interamente liberate si sarebbe considerato unwirksam, mentre quello effettuato in mancanza di una finalità legittima sarebbe stato nichtig.
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9
tipicamente e tassativamente individuate dalla legge (§ 226 HGB, modificato nel 1931; § 65 AktG 1937), successivamente ampliate e precisate (§ 71
AktG 1965). L’acquisto poteva avvenire solo (a) per evitare alla società un
danno grave (a partire dal 1931); (b) per offrire le azioni in acquisto ai dipendenti (a partire dal 1959); (c) per rimborsare la minoranza in caso di formazione di un gruppo (a partire dal 1965) 14; (d) per accrescere gratuitamente il patrimonio sociale, a seguito di donazioni o di successione testamentaria (a partire dal 1937) o per successione universale o fusione (a partire dal
1965); (e) per eseguire una riduzione del capitale (a partire dal 1937). Si deve alla legislazione tedesca l’introduzione di un limite quantitativo massimo, pari al dieci per cento del capitale, per il possesso di azioni proprie in
portafoglio o tramite società collegate e controllate. Ancora è alla legislazione tedesca che si deve l’introduzione della regola di quiescenza dei diritti
spettanti alle azioni proprie in portafoglio (§ 226 (5) HGB) e l’equiparazione tra acquisto e pegno su proprie azioni.
In Italia, le disposizioni dell’art. 144 cod. comm. erano state precisate
negli artt. 2357 e 2358 c.c. del 1942, senza alcuna indicazione delle finalità
che consentono la deroga al divieto. Si deve tuttavia alla legislazione italiana l’introduzione di tre regole fondamentali della materia: (a) che l’acquisto
sia autorizzato dall’assemblea, (b) che sia effettuato con utili regolarmente
accertati e (c) che si tratti di azioni interamente liberate. La disciplina del 1942
aggiungeva che gli amministratori non possono disporre delle azioni acquistate se non con deliberazione dell’assemblea; inoltre, mutuando soluzioni
già comparse nel diritto tedesco, si prevedeva che il diritto di voto è sospeso 15 e che non si applicano le condizioni ordinarie quando l’acquisto è finalizzato al riscatto ed annullamento di azioni. Trovava per altro verso maggiore specificazione nell’art. 2358 c.c. il divieto di assistenza finanziaria,
accanto a quello di accettazione delle azioni proprie in garanzia.
In Francia, la prima formulazione di un divieto di acquisto delle azioni
proprie si è avuta con la legge sulle società commerciali del 1966, in apparente contraddizione con i risultati di una elaborazione dottrinale e giurisprudenziale tendenzialmente liberale che consentiva l’acquisto di azioni
14
Su questa fattispecie si sofferma anche FRIGENI, Partecipazione in società di capitali
e diritto al disinvestimento, Milano, 2009, 62.
15
Sul punto DALMARTELLO, Conflitto di interessi nell’acquisto delle proprie azioni ex
art. 2357 c.c., in Riv. soc., 1959, 189 e MESSINEO, Spettanza dei dividendi sulla propria
azione, acquistata dalla società, in Riv. soc., 1966, 417.
10
INTRODUZIONE
proprie, non ravvisando particolari pericoli, quando non fosse effettuato con
prelievi sul capitale o sulle riserve indisponibili, e comunque quando fosse
destinato all’annullamento delle azioni. La legislazione francese del 1966,
sul modello di quella tedesca, faceva invece seguire al divieto di acquisto
(art. 217, loi 24 juin 1966) l’indicazione di alcune finalità che lo avrebbero
reso lecito: così (a) l’acquisto per l’annullamento, purché non si trattasse di
una riduzione per perdite (art. 217-2, loi 24 juin 1966) 16; (b) l’acquisto conseguente al rifiuto del gradimento (art. 275, loi 24 juin 1966); (c) l’acquisto
conseguente ad invalidità della singola partecipazione per vizi del consenso
(art. 365, loi 24 juin 1966); e, per le società quotate in borsa, (d) l’acquisto
destinato all’offerta ai dipendenti (art. 217-1, loi 24 juin 1966 come modificato dal Decr. 23 mars 1967, n. 67-236) e alla regolarizzazione dei corsi
azionari, purché nei limiti del 10% del capitale (art. 217-2, loi 24 juin 1966
come modificato dal Decr. 23 mars 1967, n. 67-236). Si deve altresì alla legislazione francese l’introduzione del vincolo di costituire la riserva per
azioni proprie in portafoglio. Al pari della legislazione tedesca e di quella
italiana il diritto di voto veniva sospeso (art. 164, loi 24 juin 1966 come
modificato dal Decr. 23 mars 1967, n. 67-236).
Già prima dell’approvazione della II Dir. soc., anche la Gran Bretagna
aveva aderito all’Unione Europea ed aveva pertanto contribuito alla formulazione dei suoi principi. Nessuna disciplina dell’acquisto di azioni proprie
era tuttavia contenuta nel Companies Act 1948 inglese, che però proibiva
l’assistenza finanziaria per l’acquisto o la sottoscrizione di azioni proprie (§
54 Companies Act 1948). A questa legislazione infatti si fa risalire il divieto
comunitario di financial assintance, poi temperato con la Dir. 2006/68/CE.
Successivamente la legislazione inglese, conformandosi a quella comunitaria nel frattempo emanata, ha vietato l’acquisto di azioni proprie (Sec. 143
(1) Companies Act 1985; Sec. 658 (1) Companies Act 2006) salvo che (a) avvenga a titolo gratuito; (b) per attuare una riduzione del capitale; (c) per eseguire un ordine del Tribunale, tra cui quello volto ad offrire tutela ad un socio
che abbia subito un abuso (unfair prejudice) 17; (d) per mancato versamento
16
L’attuale legislazione francese (artt. L. 225-206 – L. 225-217 code comm.) ha conservato i tratti caratteristici della legislazione del 1966, distinguendo tra società quotate nei
mercati regolamentati, società con titoli ammessi in sistemi multilaterali e altre società.
17
Il Companies Act 1948 introdusse un buy-out remedy che tuttavia rimase quasi lettera
morta fino alla sua riscrittura ad opera dei successivi Companies Acts (del 1980, 1985 e 2006).
L’istituto, oggi rivitalizzato dall’interpretazione ampia della giurisprudenza, prevede che il
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dei conferimenti (Sec. 143 (3) Companies Act 1985; Sec. 659 (1-2) Companies Act 2006). Inoltre, la Sec. 162 (1) Companies Act 1985 prevedeva che, se
lo consente lo statuto, un acquisto di azioni proprie è legittimo al ricorrere di
determinate condizioni, mutuate dalla II Dir. soc., senza che dunque lo stesso
sia supportato da una particolare ragione o finalità: da ultimo, la Sec. 690 (1)
Companies Act 2006 ha eliminato il requisito della previsione statutaria anteriore, rimettendo ora allo statuto il potere di vietare o limitare tali acquisti.
3.2. La diffusione dei due modelli normativi nel diritto europeo armonizzato. – Attuando la II Dir. soc., ciascuna delle legislazioni indicate ha conservato – o ha addirittura introdotto, come quella inglese – la tradizionale nota di
sfavore per l’acquisto di azioni proprie: l’operazione è in principio vietata,
sebbene le molte deroghe e le lasse interpretazioni finiscano per svuotare il
divieto della sua assolutezza, e forse persino della sua funzione deterrente.
Benché si sia diffuso il modello tedesco che prevede la formulazione di
un divieto relativo, derogabile quando ricorrono determinate finalità lecite
– lo stesso è stato seguito, oltre che dalla legislazione francese e da quella
inglese, anche da quella spagnola (artt. 144 e 146 Ley soc. cap.) –, anche le
finalità indicate nelle legislazioni nazionali non danno chiare indicazioni
degli interessi che giustificano la deroga al divieto di acquisto di azioni proprie, e dunque della funzione dell’istituto stesso.
Partendo proprio dalle deroghe previste nella legislazione tedesca, è tutt’altro che evidente quale sia il danno grave e irreparabile che solo l’acquisto di azioni proprie può essere in grado di evitare. La giurisprudenza tedesca non l’ha mai chiarito 18, né altre legislazioni hanno reputato di prevedere e disciplinare tale ipotesi, che dunque resta lettera morta.
giudice possa ordinare al socio di maggioranza di acquistare ad un prezzo equo la partecipazione del socio di minoranza ingiustamente oppresso. Sul punto si intrattiene diffusamente
FRIGENI, 31, 80 ss. Il socio di maggioranza, soprattutto nelle c.d. quasi-partnership companies, potrebbe preferire far sì che la società acquisti le azioni del socio oppresso: a questo
scopo è dettata la deroga indicata nel testo.
18
Resta tutt’oggi oscura l’esatta individuazione di quali danni gravi il legislatore tedesco, e poi quello comunitario, reputino evitabili solo con l’acquisto di azioni proprie. In letteratura si precisa che deve trattarsi di danno al patrimonio della società e non a quello del
socio. Prima dell’adeguamento alla II Dir. soc. si riteneva che potesse trattarsi sia di danno
temuto sia di danno effettivamente occorso. L’attuale dizione invece parla di danno grave,
immediato ed imminente. Si deve infine trattare di un danno evitabile solo con l’acquisto di
azioni proprie, ma non ne vengono forniti esempi. Cfr. per tutti HÜFFER, Aktiengesetz10,
München, 2012, vor § 71, Rdn. 7, 348.
12
INTRODUZIONE
Nella maggior parte degli ordinamenti comunitari è prevista una deroga
al divieto di acquisto di azioni proprie in caso di riscatto e annullamento
delle stesse. Anche questa deroga, tuttavia, non è in grado di mostrare compiutamente il significato dell’istituto, dato che le azioni proprie, una volta
acquistate, vengono immediatamente annullate e la società non diviene
azionista di se stessa. L’atto negoziale è solo strumentale ad un’operazione
societaria di liquidazione parziale della partecipazione degli azionisti, la cui
legittimità non dipende (più) dall’ammissibilità del riacquisto delle azioni
proprie.
Analoghe considerazioni possono farsi per gli acquisti di azioni proprie
che avvengono nel contesto di operazioni volte a permettere il recesso, ad
attuare il riscatto, o in generale a permettere il disinvestimento del socio cui
viene impedito di trasferire le azioni, per il diniego del gradimento sull’avente
causa, in caso di oppressione o di sottoposizione della società al dominio di
un’altra. L’unica differenza rispetto alla riduzione attuata mediante riscatto
e annullamento è che, in questi ultimi casi, la partecipazione può essere
mantenuta dalla società, per un certo tempo, per essere ricollocata o definitivamente annullata. Il mantenimento in portafoglio evita che le azioni debbano essere annullate e riemesse, e correlativamente che il capitale debba
essere prima ridotto e poi aumentato. Ma si tratta di un risultato che potrebbe essere ottenuto – e con la stessa semplicità – anche deliberando, per pari
importo, una riduzione e contestuale aumento delegato del capitale, se del
caso con esclusione del diritto di opzione. Non a caso, nella legislazione
modello americana, le treasury shares altro non sono che authorized shares,
e cioè azioni che possono essere riemesse dagli amministratori senza necessità che l’assemblea intervenga per aumentare il capitale 19.
19
Sul sistema americano ci si può giovare dell’accurata ricostruzione di VANONI, Azioni
proprie e contratti derivati, Torino, 2008, 33 ss. Per quanto più interessa, basti qui ricordare
che a differenza del Model Business Corp. Act 1969, § 33 (con riferimento alla versione del
1953, v. RUDOLPH, Accounting for Treasury Shares under the Model Business Corporation
Act, in 73 Harv. L. Rev. 323 (1959)), l’attuale legislazione societaria modello americana
esclude qualsiasi rilievo organizzativo alle treasury shares. Secondo il Revised Model Business Corp. Act 1984, § 6.31, sulla scorta del § 510 Cal. Corp. Act, le azioni proprie ritirate
come treasury shares si considerano semplicemente authorized shares, in quanto possono
essere riemesse a discrezione degli amministratori (“A corporation may acquire its own
shares, and shares so acquired constitute authorized but unissued shares”): cfr. il commento
ufficiale al Revised Model Business Corp. Act Annotated, § 6-54. Tale innovazione non è
stata seguita dalle altre legislazioni statali che invece permettono ancora di acquistare azioni
proprie perché siano detenute come treasury shares ovvero siano definitivamente cancella-
IL FENOMENO E I SUOI PROBLEMI
13
Parimenti inadeguate a spiegare il senso dell’istituto sono tutte le altre
deroghe, esprimendo finalità in fondo minori, se non altro, per lo scarsissimo, e forse solo ipotetico, rilievo statistico. E così, esemplificativamente, che
sia possibile istituire erede la società o donarle le azioni, o consentire alla
stessa di riceverle per via di esecuzione forzata o per inattuazione del conferimento, certamente non giustifica la preoccupazione di costruire l’istituto
delle azioni proprie in portafoglio. Se queste azioni venissero immediatamente annullate, l’operazione nel suo complesso andrebbe a diretto ed immediato beneficio degli azionisti.
Tutt’altra origine, rispetto a quella storica del divieto, hanno invece le
deroghe introdotte dalla legislazione francese con la novella del ’67 per le
sole società quotate, e cioè l’acquisto delle azioni proprie per la successiva
assegnazione ai dipendenti o per la stabilizzazione dei corsi azionari. Solo
una di queste finalità lecite – l’attribuzione delle azioni proprie ai dipendenti – è stata ripresa dalla legislazione comunitaria, ma senza troppa enfasi
(art. 19, par. 3, II Dir. soc.). Anche queste deroghe non contribuiscono, tuttavia, in modo decisivo a dare il senso dell’istituto.
L’azionariato dei dipendenti e in generale la compartecipazione degli
stessi ai processi decisionali dell’impresa sono sempre stati temi controversi
nella legislazione comunitaria, come dimostra il lungo, travagliato ed infine
interrotto percorso verso l’approvazione della V Dir. soc. 20. Ma, in ogni caso, non è il favore per l’azionariato dei dipendenti a giustificare l’istituto
delle azioni proprie. Da una parte, l’acquisto delle azioni proprie non è strumento a ciò necessario: lo dimostra, se non altro, proprio la legislazione italiana che contempla forme di azionariato dei dipendenti, con attribuzione
sia gratuita che onerosa, ma non prevede, almeno espressamente, il ricorso
alle azioni proprie. Dall’altra parte, nel caso di assegnazione ai dipendenti,
l’acquisto delle azioni proprie è per sua natura temporaneo (l’art. 19, par. 3,
II Dir. soc. impone il collocamento entro dodici mesi dall’acquisto) e non è
te: nel primo caso le treasury shares vengono contabilizzate come issued but not outstanding shares, nel secondo caso – salvo che non venga successivamente deliberata dall’assemblea la riduzione del capitale – le azioni proprie si annotano come authorized shares. La
migliore dottrina non esita a definire «their existence as “issued shares” […] a pure fiction»: COX e HAZEN, On corporations, Aspen, New York, 2003, vol. III, § 21.09, 1285.
20
Sia permesso rinvio a DE LUCA, L’organizzazione delle società nella proposta di
Quinta Direttiva, in CASSOTTANA e NUZZO, Lezioni di diritto commerciale comunitario2,
Torino, 2006, 125; nonché a GRUNDMANN, Europäisches Gesellschaftsrecht2, Heidelberg,
2011, Rdn. 366 ss., 194 ss.
14
INTRODUZIONE
necessario che sia la società in prima persona ad effettuarlo, potendo essere
incaricato un intermediario che agisca per suo conto (così ancora l’art. 19,
par. 3, II Dir. soc.).
Analogamente, non è la finalità di permettere alla società di stabilizzare
il mercato azionario o di conferirvi liquidità a giustificare l’esistenza dell’istituto delle azioni proprie. Basti pensare che l’acquisto di azioni proprie
è consentito a tutte le società per azioni, incluse quelle che non hanno mercato né attuale, né potenziale: non a caso infatti, la legislazione francese permette l’acquisto con una di queste finalità solo alle società quotate.
Si può allora concludere che dalla storia del divieto e dal suo progressivo
temperamento emergono solo frammenti sul senso dell’istituto delle azioni
proprie in portafoglio; in particolare, pochi indizi si possono desumere dalle
legislazioni nazionali che esprimono le finalità che dovrebbero giustificare
le deroghe al divieto.
È allora il caso di verificare quali interessi esprime la prassi e gli studi di
finanza aziendale che la spiegano e per certi versi la orientano.
4. Il ruolo delle azioni proprie nell’economia dell’impresa. – Nella pratica vengono addotti una varietà di motivi per giustificare acquisti o altre
operazioni su azioni proprie: principalmente ragioni di «mercato», di «carattere finanziario» o di incentivazione della produttività dei dipendenti 21.
21
Gli amministratori dichiarano alle assemblee dalle quali intendono ottenere l’autorizzazione, o nelle relazioni sulla gestione ex art. 2428, comma 3, n. 4, c.c., che gli acquisti
di azioni proprie sono necessari od opportuni per: a) stabilizzare i prezzi delle azioni, se quotate, o per incrementare la liquidità del mercato; b) segnalare sottovalutazione delle azioni
dovute ad informazioni asimmetriche tra i managers (la società) e gli azionisti (il mercato)
[questa è la funzione principalmente dichiarata dalle società americane: v. STEPHENS e
WEISBACH, Actual Share Reacquisitions in Open-Market Repurchase Programs, in 53 J.
Fin. 313-333 (1998); e già VERMAELEN, Common Stock Repurchases And Market Signaling, in 9 J. Fin. Ec. 139-183 (1981)]; c) incentivare la produttività dei dipendenti [e v.
FENN e LIANG, Corporate Payout Policy And Managerial Incentives, in 60 J. Fin. Ec. 45-72
(2001); e KAHLE, When A Buyback Isn’t A Buyback: Open Market Repurchases And Employee Options, in 63 J. Fin. Ec. 235-261 (2002)]; d) incrociare partecipazioni, in vista di
alleanze; e) realizzare piani di conversione di strumenti finanziari; f) riscattare o permettere
il disinvestimento di taluni azionisti; g) realizzare plusvalenze; h) distribuire liquidità in eccesso [secondo la tesi di JENSEN, Agency Cost of Free Cash Flow, Corporate Finance, and
Takeovers, 76 Am. Ec. Rev. 323 (1986)]; i) aumentare la leva del debito [BAGWELL e SHOVEN, Share Repurchase And Acquisitions, Corporate Takeovers: Causes And Consequences, in Corporate Takeovers: Causes and Consequences, a cura di Auerbach, University of
Chicago Press, Chicago, 1988]; j) eseguire una riduzione del capitale.
Sul punto, P. SANTOSUOSSO, Le azioni proprie nell’economia dell’impresa, Milano, 2004,