HIV e AIDS Introduzione Nel 1981 i CDC di Atlanta (Centers for Diseases Control) segnalarono il riscontro di alcuni casi di una rara forma di polmonite, la PCP (Polmonite da Pneumocystis carinii), in omosessuali maschi di Los Angeles. Successive osservazioni portarono a stabilire che queste polmoniti interessavano soggetti con immunodepressione, e che si manifestavano prevalentemente in chi aveva avuto trasfusioni di sangue o comportamenti sessuali a rischio. In tal modo venne ipotizzata la presenza di un agente infettivo trasmissibile. Nel luglio 1982, dato l'incremento del numero di questi casi, le autorità sanitarie americane coniarono il termine di AIDS (Acquired ImmunoDeficiency Syndrome) per questa nuova patologia. Nel maggio 1983 il gruppo di Luc Montagnier dell'Istituto Pasteur di Parigi segnalò l'identificazione di un Retrovirus che poteva essere il responsabile dell'AIDS; questa scoperta fu confermata nello stesso anno da Robert Gallo del National Cancer Institute di Bethesda, il quale a sua volta fu in grado di isolare lo stesso virus dal sangue di alcuni malati di AIDS. Questo virus venne inizialmente denominato HTLV-III (Human T-Lymphocytotropic Virus tipo 3), data la sua somiglianza con l'HTLV-I, un Retrovirus responsabile di alcune forme di leucemia. In seguito si scoprì che questo virus aveva delle caratteristiche biologiche diverse da quelle dei Retrovirus noti fino a quel momento, per cui venne chiamato con il nuovo termine di HIV (Human Immunodeficiency Virus). Nel marzo 1985 la FDA (Food and Drug Administration) approvò il primo test per la determinazione degli anticorpi contro il virus HIV, che venne immediatamente introdotto tra gli esami eseguiti per la sorveglianza di routine dei donatori di sangue. Due anni dopo, nel marzo 1987, venne registrato negli Stati Uniti il primo farmaco attivo contro l'HIV, la Zidovudina (AZT). Nel 1991, dopo un decennio dall'inizio dell'epidemia, l'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) rese noto che circa 10 milioni di persone in tutto il mondo avevano contratto l'infezione, e che circa la metà di queste erano già decedute per AIDS. Nel 1992 furono effettuati i primi studi finalizzati a dimostrare l'efficacia di una terapia con due farmaci, mentre nel dicembre 1995 la FDA approvò il Saquinavir, il primo di una nuova e promettente classe di farmaci, gli inibitori delle proteasi. Nel luglio 1996, in occasione della 11a Conferenza Internazionale sull'AIDS tenutasi a Vancouver, Canada, sono stati riportati i successi dei nuovi regimi di terapia combinata con almeno tre farmaci, in grado di azzerare la replicazione virale nel sangue nella maggior parte dei soggetti trattati, arrestando così l'evoluzione dell'infezione. Il motto della Conferenza, One World, One Hope, per la prima volta metteva l'accento sulla disparità di possibilità di cura tra il mondo occidentale ed i Paesi in via di sviluppo. L'OMS ha stimato che nel corso del 1997 circa 5,8 milioni di persone hanno contratto l'HIV (delle quali 590.000 sono bambini) ad un ritmo di circa 16.000 nuove infezioni al giorno, e che 2,3 milioni di persone sono decedute di AIDS. Nel 1998 sempre l'OMS stima che siano oltre 30 milioni le persone infettate dal virus, con almeno 12 milioni di deceduti dall'inizio dell'epidemia. L'entusiasmo provocato nei Paesi Occidentali dai successi dei nuovi regimi terapeutici si scontra con la realtà epidemiologica dell'infezione: infatti la grande maggioranza delle persone HIV positive, circa l'8590%, è concentrata nei Paesi in via di sviluppo e principalmente nell'Africa sub-Sahariana, Paesi che non possono permettersi l'elevato costo dei farmaci indispensabili per la terapia. La Conferenza Internazionale sull'AIDS che si è tenuta a Ginevra nel giugno 1998, il cui motto era Bridging the Gap, ha sottolineato questi aspetti, e proprio per questi motivi la successiva Conferenza Mondiale del giugno 2000 si è svolta a Durban, in Sudafrica, ed in questo caso il motto è stato Breaking the Silence. Virologia Le origini dell'HIV Sebbene varie ipotesi siano state fatte nel corso degli ultimi 15 anni, è ormai chiaro che l'HIV si è formato attraverso un processo di evoluzione naturale. La teoria che ha trovato maggiori consensi circa l'origine dell'HIV sostiene infatti che questo virus sia derivato da mutazioni genetiche di un virus che colpisce alcune specie di scimpanzé africani, il SIV (Scimmian Immunodeficiency Virus); tramite studi di biologia molecolare è stato possibile stabilire una relazione fra l'HIV ed il SIV, identificando una omologia genetica del 98% tra questi due virus, ed arrivando a costruire un vero e proprio albero genealogico virale. L'infezione da HIV sarebbe pertanto una zoonosi, cioè una infezione trasmessa all'uomo da altre specie animali: l'HIV sarebbe migrato dal serbatoio dei primati a quello umano probabilmente con la cacciagione oppure tramite riti tribali che comportavano il contatto con il sangue di questi animali. Il SIV sarebbe poi mutato nell'HIV nel corso di molti anni attraverso successive variazioni genetiche. Tale ipotesi è stata recentemente confermata dal lavoro di un gruppo di ricercatori della University of Alabama di Birmingham, presentata alla 6a Conferenza sui Retrovirus e sulle Infezioni Opportunistiche tenutasi a Chicago nel febbraio 1999 (1), dove una particolare specie di scimpanzé, il Pan troglodytes troglodytes, è stata riconosciuta quale più probabile sorgente dell'infezione per l'uomo. Scimpanzè Pan troglodytes troglodytes. L'HIV sarebbe quindi verosimilmente esistito per lungo tempo in piccole comunità tribali dell'Africa. L'urbanizzazione, soprattutto durante il colonialismo, ha portato a grandi spostamenti di persone e all'acquisizione di costumi più liberi, con conseguente aumento degli scambi sessuali, dovuti anche alla prostituzione. Questi movimenti hanno favorito la diffusione dell'HIV, creando così una "base" di individui infetti, sufficiente alla futura espansione dell'infezione. In seguito, vari fattori quali i contatti con l'Occidente, l'uso di siringhe ipodermiche non sterili per le campagne di vaccinazione, l'impiego di emotrasfusioni nei casi di malaria, hanno favorito la diffusione dell'HIV. Nell'Occidente, libertà sessuale e tossicodipendenza hanno poi originato l'epidemia che abbiamo conosciuto negli anni '80 e '90. Un articolo pubblicato sulla rivista Nature dal gruppo di David Ho (2) (direttore del Aaron Diamond AIDS Research Center di New York), ha riportato la scoperta di tracce del genoma dell'HIV in un campione di sangue appartenente ad un uomo vissuto a Kinshasa (Congo) e deceduto nel 1959. Tramite analisi molecolari di questo virus, confrontato con altri ceppi virali isolati più recentemente, è stato possibile stimare l'origine dell'HIV prima del 1940, ipotizzando quindi che la trasmissione del virus dallo scimpanzé all'uomo sarebbe venuta per la prima volta circa 60 anni fa. In un altro lavoro, recentemente pubblicato sulla rivista Science (9), l'analisi di sequenze genetiche del virus, elaborate con sofisticati modelli statistici e con l'ausilio di supercomputers, ha permesso di stimare che il ceppo originario dell'HIV risalga fin dal 1931. Caratteristiche del virus L'HIV è un virus con genoma ad RNA appartenente alla famiglia dei Retrovirus, genere Lentivirus. Attualmente se ne conoscono due tipi: HIV-1, diffuso in tutto il mondo (quello che abitualmente conosciamo) e HIV-2, presente solo in alcuni Paesi africani e meno virulento del tipo 1. Come molti altri tipi di virus, l'HIV è composto schematicamente da tre parti (Figura 1): Fig. 1 Struttura dell'HIV. 1. Envelope (Figura 1.1): è il rivestimento esterno, formato da una membrana lipidica e da "proiezioni" proteiche, costituite da due glicoproteine denominate gp120 e gp41: la gp41 forma la base di queste proiezioni, mentre la gp120 forma la parte più esterna. Queste strutture sono importanti per i meccanismi che permettono al virus di legarsi alle cellule bersaglio. Fig. 1.1 Struttura dell'envelope: evidenziate le glicoproteine gp120 e gp41. 2. Matrice: strato proteico situato all'interno dell'envelope, che circonda la parte centrale del virus. Contribuisce alla stabilità strutturale della particella virale. 3. Core Figura 1.2: circondato dalla matrice, il core contiene le parti vitali del virus: il materiale genetico, costituito da due catene di RNA, e gli enzimi fondamentali per i processi di replicazione virale, quali la transcriptasi inversa (p51), l'integrasi (p32) e la proteasi (p11). L'RNA contiene tre geni principali che codificano la sintesi di importanti componenti strutturali e funzionali del virus (Figura 2): Fig. 1.2 Fig. 2 - Struttura del core: all'interno sono contenute le due catene del genoma ad RNA. Schema del genoma dell'HIV. env: codifica la produzione della glicoproteina gp160, la quale poi si scinde a formare la glicoproteina di superficie gp120 e la glicoproteina transmembrana gp41, entrambe presenti nell'envelope; - pol: codifica la sintesi degli enzimi transcriptasi inversa, integrasi e proteasi; - gag: codifica la sintesi della proteina nucleocapsidica p24. Sono poi presenti altri geni, tat, nef, rev, ecc., responsabili della regolazione delle diverse fasi del ciclo replicativo del virus. Replicazione dell'HIV L'HIV, come tutti i virus, è incapace di replicarsi autonomamente, in quanto necessita dell'apparato metabolico di una cellula; il ciclo replicativo dell'HIV viene solitamente suddiviso in varie fasi (Figura 3): Fig. 3 Le fasi del ciclo replicativo dell'HIV (in rosso); in verde i componenti virali. 1. Adesione (Figura 4.1): per poter penetrare nella cellula bersaglio l'HIV deve prima di tutto legarsi ad essa; il virus si può legare a cellule che abbiano sulla loro superficie uno specifico recettore, denominato CD4, al quale aderisce tramite una specifica porzione dell'envelope, costituita da due glicoproteine: la gp120, più esterna, e la gp41, situata più internamente. Il primo legame avviene quindi tra la gp120 ed il recettore CD4; è necessario però anche un secondo legame, che avviene tra la gp120 ed un corecettore presente sulla superficie della cellula (il principale di questi corecettori è stato denominato CCR5; si è visto che persone affette da una difetto genetico di questo corecettore sono in grado di resistere all'infezione). Fig. 4.1 Adesione: il virus si lega al recettore cellulare CD4 mediante la glicoproteina gp120. 2. Fusione (Figura 4.2): una volta avvenuto anche questo secondo legame con il corecettore, la gp120 subisce una variazione della propria struttura ed una modifica della posizione, permettendo così l'esposizione della gp 41; questa è in grado di fondersi con la membrana cellulare, aprendo la porta all'ingresso del virus nella cellula. Fig. 4.2 Fusione: l'envelope del virus si unisce alla membrana cellulare. 3. Penetrazione nella cellula (Figura 4.3): avvenuta la fusione il virus penetra nella cellula. Soltanto il core virale entra però all'interno della cellula, mentre il rivestimento glicoproteico dell'envelope rimane all'esterno della cellula. Fig. 4.3 Penetrazione nella cellula: solo il core virale penetra all'interno della cellula, mentre l'envelope resta all'esterno. 4. Uncoating (Figura 4.4): una volta penetrato nella cellula, il core perde il proprio rivestimento proteico che viene degradato in un processo chiamato uncoating (svestimento); in questo modo si libera la parte centrale del virus che contiene il genoma ad RNA e gli enzimi virali. Fig. 4.4 Uncoating: nel citoplasma della cellula il rivestimento proteico del core viene degradato. 5. Trascrizione inversa (Figura 4.5): è il processo con il quale le informazioni genetiche del virus contenute in una singola catena di RNA vengono copiate in una doppia catena di DNA. Questo processo, che avviene nel citoplasma della cellula nelle prime ore successive all'infezione, necessita dell'intervento di uno specifico enzima virale, la transcriptasi inversa. La trascrizione inversa si svolge in tre fasi: a) sintesi di una catena di DNA complementare all'RNA virale; b) degradazione della catena di RNA originaria; c) costruzione della seconda catena di DNA complementare alla prima. Il risultato è quello di ottenere un DNA a doppia catena contenente tutte le informazioni genetiche che erano presenti nel genoma originario ad RNA. Questa nuova molecola di DNA virale prende il nome di Provirus. Fig. 4.5 Trascrizione inversa: viene prodotto il Provirus, una molecola di DNA copia del genoma virale ad RNA. 6. Integrazione (Figura 4.6): il Provirus viene trasportato nel nucleo della cellula. In questa sede, grazie all'intervento di un altro enzima virale, l'integrasi, viene inserito nel genoma cellulare, dove rimane per tutta la vita della cellula (l'unico modo per eliminare il Provirus è quello di uccidere la cellula). A questo punto l'HIV, sotto forma di Provirus, può rimanere in fase di latenza anche per lunghi periodi di tempo, duplicandosi solo con la replicazione della cellula stessa. Fig. 4.6 Integrazione: il Provirus viene integrato nel cromosoma della cellula. 7. Trascrizione del Provirus (Figura 4.7): ad un certo momento il virus può attivarsi: in questo caso il DNA virale "ordina" alla cellula la produzione di propri componenti, quali le proteine strutturali, gli enzimi e l'RNA genomico.il Provirus, come il resto del cromosoma della cellula, è in grado di utilizzare l'RNA polimerasi cellulare per trascrivere il proprio DNA in RNA. Completata la trascrizione, il nuovo RNA virale esce dal nucleo della cellula e viene trasportato nel citoplasma. In questa sede l'intervento dei ribosomi cellulari porta alla sintesi delle nuove proteine virali (Figura 4.8). Fig. 4.7 Trascrizione del Provirus: l'RNA polimerasi della cellula trascrive il provirus producendo RNA virale. Fig. 4.8 Sintesi proteine virali: i ribosomi della cellula sintetizzano le proteine virali. 8. Intervento della Proteasi (Figura 4.9): subito dopo la loro "costruzione" le proteine virali non sono ancora in grado di funzionare adeguatamente; è necessario l'intervento di un altro enzima virale, la proteasi, il quale agisce modificando la struttura delle proteine in modo da renderle perfettamente funzionanti: si formano così gli enzimi e le proteine strutturali del virus. Fig. 4.9 Intervento della proteasi virale: le proteine virali vengono rese funzionanti. 9. Assemblaggio (Figura 4.10): i componenti virali neoprodotti (proteine e genoma) vengono quindi trasportati alla periferia della cellula dove vengono assemblati tra loro dando origine al core del nuovo virus. Fig. 4.10 Assemblaggio: le proteine e l'RNA virali si uniscono a formare un nuovo core. 9. Gemmazione (Figura 4.11): si chiama così il processo di fuoriuscita delle nuove particelle virali dalla cellula infetta: il core del nuovo virus si avvicina alla membrana cellulare e la attraversa per fuoriuscire dalla cellula stessa; durante questo passaggio viene rivestito dell'involucro glicolipidico, l'envelope (Figura 5). A questo punto la nuova particella virale (virione) è completata, ed è così in grado di andare ad infettare un'altra cellula bersaglio e di dare inizio ad un nuovo ciclo replicativi Fig. 4.11 Gemmazione: le nuove particelle virali fuoriescono dalla cellula. Fig. 5 Gemmazione di una particella virale da una cellula infetta. Nella parte inferiore il virus è completamente fuoriuscito dalla cellula. Patogenesi Meccanismo di infezione La probabilità che dopo l'ingresso del virus nell'organismo l'infezione si instauri effettivamente dipende principalmente da due fattori: la carica infettante, cioè il numero di particelle virali penetrate (più la carica virale è alta maggiore è il rischio di infezione), ed il numero di cellule recettive (cioè suscettibili di essere infettate) presenti nella sede di ingresso del virus (Figura 6). Fig. 6 Se l'HIV, dopo l'ingresso nell'organismo, trova subito una adeguata quantità di cellule recettive da infettare è più probabile che l'infezione "attecchisca". Come detto in precedenza, l'HIV è in grado di infettare le cellule che presentano sulla loro superficie il recettore CD4; molti tipi di cellule dell'organismo umano possiedono questo recettore, tuttavia il bersaglio principale del virus è rappresentato dal linfocita T Helper (o linfocita CD4+). E' stato inoltre dimostrato che l'HIV, per poter penetrare in una cellula, oltre al recettore CD4 necessita anche della presenza di altre strutture sulla superficie cellulare, denominate corecettori, il principale dei quali è denominato CCR5 (3). questi sono dei recettori per delle sostanze denominate chemochine, normalmente prodotte da alcune cellule del sistema immunitario. Alcuni studi recenti hanno dimostrato che persone con un difetto genetico omozigote (completo) per il quale non viene prodotto il recettore CCR5 sono resistenti all'infezione, e che persone con un difetto eterozigote (parziale) possono essere infettate dall'HIV ma hanno una progressione molto lenta dell'infezione (4). Altri studi hanno mostrato invece che persone con un'altra variante genetica, per cui producono molto più CCR5, hanno una progressione più rapida dell'infezione. Il linfocita CD4 costituisce il cardine principale di tutto il sistema immunitario, essendo in grado di regolare, come un direttore d'orchestra, l'attività di tutte le altre cellule responsabili della difesa immunitaria dell'organismo. Altre cellule che possono essere infettate dal virus sono i monociti, un tipo di globuli bianchi, ed i macrofagi, cellule di difesa presenti nei tessuti. Una volta che l'infezione si è stabilita, il virus entra nel torrente circolatorio e dalla sede di ingresso si diffonde a tutto l'organismo, localizzandosi principalmente negli organi e nei tessuti maggiormente popolati da cellule recettive, quali linfonodi, milza, fegato e midollo osseo (organi del sistema emo-linfopoietico). In queste sedi il virus è in grado di stabilirsi e di rimanervi a lungo in fase di latenza, oppure di replicarsi in modo continuo; i linfonodi in particolare rappresentano una delle principali sedi di replicazione dell'HIV durante la fase di latenza clinica (cioè nel periodo in cui l'infezione non dà nessun segno di sé). Nel corso dell'infezione si stabiliscono quindi due diversi "compartimenti virologici" (Figura 7), tra i quali vi è però una comunicazione continua: - compartimento attivo, costituito dal virus libero nel sangue e da quello contenuto nei linfociti e monociti, dove il virus è attivamente replicativo ed è in grado di provocare danno al sistema immunitario; Fig. 7 Compartimenti virologici in corso di infezione da HIV. - compartimento di latenza (reservoirs), costituito da virus che non si replica attivamente, ma che resta in fase latente in alcuni distretti dell'organismo. Questi compartimenti di riserva, che si formano fin dalle primissime fasi dell'infezione, sono rappresentati da alcuni organi, quali cervello e gonadi (dove ci sono barriere anatomiche che impediscono la libera circolazione delle cellule e dei farmaci, permettendo così la creazione di condizioni particolarmente favorevoli per la persistenza del virus), e soprattutto da alcuni compartimenti cellulari: 1) le cellule follicolari dendritiche dei linfonodi (FDC), che sono in grado di trattenere sulla loro superficie esterna particelle virali che si possono mantenere infettive per lungo tempo. Queste cellule hanno comunque una emivita di circa due settimane, e quindi abbastanza breve (12 r). 2) i macrofagi infettati, i quali non vengono uccisi dal virus, il quale può pertanto continuare a replicarsi. L'emivita dei macrofagi in soggetti non infetti è di circa 15 giorni. 3) i T linfociti CD4+ di memoria, che costituiscono probabilmente il più importante dei compartimenti cellulari di riserva. In queste cellule latenti il virus non è in grado di replicarsi, ma resta sempre presente con una copia del proprio genoma integrato nel DNA della cellula. I linfociti CD4+ di memoria hanno una vita molto lunga, dato che la loro funzione biologica è proprio quella di garantire all'organismo una protezione immunitaria nei confronti di antigeni incontrati in precedenza; queste cellule, quando nel corso della loro vita incontrano l'antigene per il quale sono "programmate", ritornano alla fase attiva, durante la quale possono permettere al virus di replicarsi. In seguito, dopo diversi cicli di replicazione, molte di queste cellule andranno incontro a morte, mentre altre ritorneranno alla fase di latenza, contribuendo così al mantenimento di una stabile riserva virale. Questo serbatoio virale sarebbe quindi il principale responsabile della persistenza dell'infezione anche in corso di una efficace terapia antiretrovirale, rappresentando in questo modo il più importante ostacolo alla eradicazione dell'infezione. E' stato infatti dimostrato che queste cellule di memoria hanno un tempo di dimezzamento di 44 mesi, il che significa che occorrerebbero circa 73 anni prima di riuscire ad eliminarle tutte (10). Risposta immune nei confronti dell'HIV In genere i virus, quando infettano un organismo, inducono una intensa risposta da parte del sistema immunitario, soprattutto dell'immunità cellulo-mediata, espletata prevalentemente dai linfociti killer, in grado di distruggere direttamente le cellule infette, e dai linfociti T-helper CD4+, in grado di produrre varie sostanze (citochine) dotate di attività antivirale o che hanno la capacità di stimolare altre cellule, come per esempio i linfociti B, i quali a loro volta producono gli anticorpi. L'HIV induce una risposta immune basata principalmente sulla attività dei linfociti CD4+; questa può essere indirizzata in due modi differenti, a secondo della sottoclasse di T-helper che viene maggiormente stimolata (Figura 8): Fig. 8 Risposta immune in corso di infezione da HIV. - risposta T-helper 1 (Th1): inducono prevalentemente l'immunità cellulo-mediata. Vengono attivati alcuni linfociti citotossici (linfociti CD8) in grado di bloccare in modo abbastanza efficace le cellule infettate dal virus; in questo caso l'infezione viene contrastata meglio e l'infezione progredisce più lentamente verso la fase di malattia; - risposta T-helper 2 (Th2): inducono prevalentemente l'immunità umorale. Viene ridotta la produzione di linfociti CD8 mentre aumenta la produzione di anticorpi; questo tipo di risposta non è in grado di contrastare efficacemente la replicazione virale, per cui la progressione dell'infezione avviene in modo più rapido. Si pensa quindi che lo sviluppo della malattia sia provocato da un progressivo passaggio dalla risposta Th1 alla risposta Th2. Variabilità genetica L'HIV ha la capacità di andare facilmente incontro a variazioni della propria struttura genetica (mutazioni), che si verificano soprattutto in seguito ad errori di "copiatura" da parte della transcriptasi inversa. Queste mutazioni provocano l'insorgenza di ceppi varianti, che aiutano il virus a non essere riconosciuto, e quindi non adeguatamente combattuto, dal sistema immunitario. Le mutazioni sono inoltre responsabili dell'insorgenza di resistenza ai farmaci in corso di terapia antivirale. Immunodeficienza Durante tutto il periodo di infezione c'è una continua ed incessante lotta tra il virus ed il sistema immunitario (Figura 9) (5) In un organismo infetto ogni giorno si producono: 20-30 miliardi di linfociti CD4+ Fig. 9 10-20 miliardi di nuove particelle virali Sviluppo della Immunodeficienza. L'HIV con l'andar del tempo è in grado di produrre un danno progressivo al sistema immunitario, che alla fine non è più in grado di svolgere efficacemente le proprie funzioni. Si verifica così una situazione di immunodeficienza, in seguito alla quale un individuo può essere infettato da microrganismi che sono solitamente innocui per chi ha una normale funzione immunitaria (infezioni opportunistiche). La teoria finora ritenuta più valida per spiegare come l'HIV provoca il deficit immunitario è probabilmente quella ipotizzata dal dott. David Ho. In termini semplici, Ho paragona la riduzione dei linfociti T al calo del livello di acqua in una vasca nella quale il deflusso dallo scarico sia più veloce dell'afflusso di nuova acqua dal rubinetto. In pratica Ho sostiene che i linfociti T vengano infettati e distrutti dall'HIV più velocemente di quanto il sistema immunitario sia in grado di produrne di nuovi. Studi più recenti sembrano però dimostrare che questo meccanismo da solo non sia sufficiente a spiegare il severo grado di immunodeficit che si verifica nei soggetti con infezione da HIV nelle fasi più avanzate della malattia. Ricercatori della University of California hanno utilizzato una nuova tecnica di biologia molecolare per studiare in vivo la dinamica della produzione e della distribuzione dei T linfociti in pazienti HIV positivi, confrontando i risultati ottenuti con quelli riscontrati in volontari sani (6). La teoria che ne è emersa afferma che la causa principale dello sviluppo dell'immunodeficienza non è tanto la distruzione delle cellule T esistenti (anche se questo comunque avviene), ma piuttosto la conseguenza della incapacità da parte del sistema immunitario di produrre nuove cellule ad un ritmo adeguato. Per usare il paragone del Dr. Ho, il livello dell'acqua nella vasca diminuisce non tanto perchè aumenta la velocità dello scarico, ma soprattutto perchè si riduce la quantità di acqua che affluisce dal rubinetto. Ci sarebbe quindi un qualche fattore che impedisce la produzione di nuove cellule in quantità adeguata. Gli Autori ipotizzano che ciò possa dipendere prevalentemente da un danno a carico degli organi dove ha sede la produzione dei T linfociti, e cioè il midollo osseo ed il timo. Diagnosi Per l'identificazione dell'infezione da HIV sono disponibili varie metodiche, basate sulla identificazione degli anticorpi prodotti dal sistema immunitario contro l'HIV (metodiche sierologiche) oppure sulla ricerca di antigeni e molecole del virus stesso (metodiche virologiche). Ai fini della diagnosi di infezione attualmente vengono utilizzati il test ELISA ed il test WesternBlot: Test Immunoenzimatico (ELISA) E' la metodica utilizzata per il test di screening, in quanto di facile esecuzione e di costo limitato. Questo test ricerca gli anticorpi prodotti contro alcuni antigeni virali, in particolare gp 41 e gp120, che dopo una prima infezione restano nell'organismo per tutta la vita. Il test ha una sensibilità di oltre il 95%, ma in alcuni casi si possono avere delle risposte errate: - falsi positivi: il test risulta positivo in assenza di infezione. Può succedere in persone con malattie che alterano la funzione del sistema immunitario portando alla produzione di anticorpi anomali (es: leucemie, linfomi, malattie autoimmuni, gravi epatopatie, ecc.); - falsi negativi: il test risulta negativo anche se l'infezione è presente. Può succedere in persone che si sono infettate molto recentemente, ma nelle quali non si sono ancora formati gli anticorpi che reagiscono con il test; questo avviene solitamente nelle prime settimane (o mesi) dopo il contagio, e questo intervallo di tempo prende il nome di periodo finestra (vedi Quadri clinici). Per questi motivi un test negativo va sempre ripetuto fino ad almeno 6 mesi dopo un evento a rischio di contagio, ed un test positivo richiede sempre l'esecuzione di un altro test di conferma. Western Blot (WB) E' un test dotato di maggiore specificità e sensibilità, utilizzato per confermare la positività di un test ELISA. Questa metodica permette di evidenziare la presenza di anticorpi diretti contro le maggiori proteine virali: il test viene definito positivo quando sono presenti almeno 2 degli anticorpi principali; se il test risulta dubbio o indeterminato va ripetuto dopo alcuni mesi. Nella Figura 10 è schematizzato l'algoritmo diagnostico impiegato per la diagnosi di infezione da HIV. Fig. 10 Algoritmo per la diagnosi di infezione da HIV. Vi sono poi metodiche basate sulla ricerca di antigeni o componenti virali, che vengono solitamente utilizzate non a fini diagnostici ma per il monitoraggio dell'andamento dell'infezione, in particolare in corso di terapia antiretrovirale: Antigenemia p24 La proteina p24 è un antigene del core virale, e la sua presenza nel sangue indica uno stato di attiva replicazione del virus. La positività dell'antigenemia p24 è più frequente nel periodo successivo al contagio e nelle fasi più avanzate della malattia. Questo test attualmente non viene più eseguito, in quanto superato per sensibilità dalla ricerca dell'RNA virale. Viremia (HIV-RNA) Consente di ricercare molecole di RNA virale, la cui quantità nel sangue è direttamente proporzionale al grado di attività replicativa del virus. La viremia viene espressa in numero di copie di HIV-RNA per ml; ci sono vari tipi di test che possono essere utilizzati per la determinazione della viremia: Q-PCR (Quantitative Polymerase Chain Reaction): noto con il nome di Amplicore Monitor Test (Roche), è la metodica più diffusa, ed ha un range di sensibilità tra 300 e 1.000.000 di copie; è stato inoltre sviluppato, sempre dalla Roche, un test definito UltraSensitive, in quanto arriva a misurare fino a 20 copie/ml; bDNA (branched-chain DNA): sviluppato dalla Chiron, ha una sensibilità che varia dalle 50 alle 500.000 copie; NASBA (Nucleid Acid Sequence-Based Amplification): sviluppato dalla Organon Teknika, è il test solitamente meno utilizzato, ed ha una soglia inferiore di 80 copie. Nella pratica clinica questo test viene oggi impiegato principalmente per due scopi: la stadiazione dell'infezione ed il monitoraggio della risposta alla terapia antiretrovirale. Viene anche utilizzato per la diagnosi precoce di infezione in particolari situazioni, quali le esposizioni accidentali negli operatori sanitari e la trasmissione materno-fetale. Isolamento virale E' la metodica più importante per dimostrare la presenza di una infezione virale, ma nella pratica clinica non viene utilizzata a causa del costo elevato e delle difficoltà operative che richiedono la presenza di un laboratorio molto specializzato. L'isolamento virale oggi viene impiegato essenzialmente a fini di ricerca. Epidemiologia Nel Mondo L'HIV è in continua diffusione in tutto il mondo, espandendosi rapidamente in aree geografiche fino a pochi anni fa relativamente risparmiate dall'epidemia, e rafforzando la sua presenza nei Paesi dove l'AIDS è già la principale causa di morte nelle persone di età compresa tra i 20 ed i 50 anni, e dove l'aspettativa di vita della popolazione adulta si è ridotta di quasi 10 anni. Recenti stime dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dell'UNAIDS (United Nations Programme on HIV/AIDS) (7) riportano che alla fine del 2001 in tutto il mondo circa 40 milioni di persone, adulti e bambini, vivono con l'infezione da HIV (Figura 11; NB: dal frame della figura è possibile evidenziare ulteriori dettagli sulla epidemiologia delle singole aree geografiche), e che a causa dell'AIDS circa 24,8 milioni di persone risultano già decedute. Solo nel corso dell'anno 2001 i nuovi contagi stimati sono stati 5 milioni, cioè quasi 14.000 al giorno, dei quali 800.000 bambini (Figura 11a); i decessi sono stati circa 3 milioni, dei quali il 52% costituito da persone di sesso femminile (Figura 11b). Fig. 11a Stime dell'OMS: nuove infezioni da HIV nel solo anno 2001. Fig. 11b Stime dell'OMS: decessi per AIDS nel solo anno 2001. La grande maggioranza di queste infezioni è localizzata nel Paesi in via di sviluppo: si stima che circa il 90% dei sieropositivi nel mondo sia concentrato nei Paesi dell'Africa sub-Sahariana e dell'Asia meridionale (soprattutto Tailandia e India). In questi Paesi sono anche concentrati la maggior parte dei bambini che vivono con l'infezione (circa l'87% del totale). Questo dato dipende da vari fattori: molte donne africane in età fertile sono sieropositive, mediamente hanno più figli delle donne europee o americane, allattano i propri figli e non hanno a disposizione farmaci per ridurre il rischio di trasmissione. In Italia Al 30 Giugno 2002 in Italia sono stati notificati 50.271 casi di AIDS (8). Di questi, il 77,9% erano di sesso maschile, e l'età mediana della diagnosi (calcolata solo per gli adulti) era di 34 anni per i maschi e di 33 anni per le femmine. Si stima invece che in Italia vi siano oltre 100.000 persone sieropositive. Il nostro Paese è al terzo posto in Europa come numero di casi, dopo Spagna e Francia (Figura 12). Fig. 12 Casi di AIDS notificati in Europa al 31 ottobre 2001. partire dalla seconda metà del 1996, verosimilmente grazie alla disponibilità di nuovi farmaci per la terapia dell'infezione da HIV, si è osservata una progressiva riduzione del numero di nuovi casi; nel grafico della Figura 13 è riportata la distribuzione annuale dei casi di AIDS e dei decessi correlati. In totale risultano deceduti 33.097 pazienti, il che corrisponde ad un tasso di letalità del 65,8%; questo numero potrebbe però essere sottostimato, dato che la notifica di decesso non è ancora obbligatoria. Fig. 13 Distribuzione annuale dei casi di AIDS (corretti per ritardo di notifica) e dei decessi al 30 Giugno 2002 . Risulta evidente il drastico calo sia dei casi che dei decessi dopo il 1996. In Italia la regione più colpita è la Lombardia, con 15.260 casi notificati alla metà del 2002, seguita da Lazio e da Emilia-Romagna; Brescia è la terza città d'Italia dopo Milano e Roma come numero di casi notificati (Figura 14a), ma risulta seconda come incidenza (7.4). La Figura 14b mostra i tassi di incidenza per regione di residenza, calcolati in base ai soli casi segnalati nel corso dell'ultimo anno; è evidente la differenza di incidenza tra le diverse regioni del Nord e del sud d'Italia. Fig. 14a Casi di AIDS notificati in Italia al 30 Giugno 2002 (COA). Fig. 14b Tasso di incidenza dei casi di AIDS per regione di residenza (per 100.000 abitanti) relativo ai casi notificati in Italia dal Luglio 2001 al Giugno 2002. La maggior parte dei casi complessivi di AIDS (il 63,1%) interessa soggetti tossicodipendenti, ma l'andamento nel tempo mostra un netto incremento dei casi attribuibili a trasmissione eterosessuale: dall'10,7% nel periodo '82-'93 al 37,8% negli ultimi 18 mesi (Figura 15a); altro dato importante è rappresentato dal fatto che questi casi interessano prevalentemente il sesso femminile: infatti il 38,4% delle femmine con AIDS hanno acquisito l'infezione per via eterosessuale, contro il 12,7% dei maschi (Figura 15b). Per quanto riguarda l'età, nella fascia d'età compresa tra i 25 ed i 39 anni si concentra il 71,7% del totale dei casi di AIDS (Figura 15c). Fig. 15a Andamento dei casi di AIDS in Italia per categorie di rischio al 30 Giugno 2002. Risulta evidente il progressivo aumento dei casi a trasmissione eterosessuale (sezione in verde), e la contemporanea riduzione dei casi tra i tossicodipendenti (sezione in rosso). Fig. 15b Tra i tossicodipendenti l'incidenza dei casi di AIDS non mostra particolari differenze tra i sessi (il 62.3% dei maschi con diagnosi di AIDS sono tossicodipendenti contro il 56.8% delle femmine), mentre nei casi a trasmissione eterosessuale vi è una marcata differenza: solo il 12.1% dei maschi con AIDS hanno contratto l'infezione tramite contatti eterosessuali, contro il 37.4% delle femmine. Fig. 15c Distribuzione dei casi di AIDS in Italia per fasce d'età al 30 Giugno 2002. Così come si è ridotto il numero dei nuovi casi di AIDS, a partire dal 1996 si è osservata anche una drastica diminuzione del numero dei decessi correlati all'AIDS, come già evidenziato nella Figura 13. La Figura 16 mostra le curve di sopravvivenza dei casi di AIDS, che evidenziano chiaramente l'aumento della sopravvivenza di tutti i casi diagnosticati a partire dal 1996 Fig. 16 Curve di Sopravvivenza dei casi di AIDS per anno di diagnosi. Trasmissione L'HIV è stato isolato in tutti i tessuti e liquidi biologici di un soggetto sieropositivo (Tabella 1). Tuttavia la semplice presenza del virus in un materiale biologico non significa che il contatto con quello stesso materiale rappresenti un evento efficace per la trasmissione dell'infezione. Perchè ciò avvenga è infatti importante che si verifichino due condizioni (Figura 17): - una idonea via di trasmissione - una adeguata quantità di virus Tab. 1 Infettività dei materiali biologici. Isolamento HIV Trasmissione accertata Sangue Liquido seminale Secreto vaginale Latte materno SI SI SI SI Saliva Lacrime Sudore Urine Feci No No No No No Fig. 17 Fattori necessari per la trasmissione dell'HIV. Una quantità di virus (carica virale) sufficiente a trasmettere l'infezione si può ritrovare solo in determinati liquidi biologici, quali sangue, liquido seminale, secreto vaginale e, in percentuale inferiore, nel latte materno (Figura 18). Altri materiali sono considerati a rischio solo se contaminati da sangue, in quanto la concentrazione di HIV è troppo bassa perchè la trasmissione possa avvenire. Pertanto l'HIV può essere trasmesso da persona a persona esclusivamente attraverso tre modalità: • • • Contatto con sangue infetto (trasfusioni, scambio di siringhe, contaminazione con aghi infetti); Rapporti sessuali Trasmissione verticale Un soggetto che ha contratto l'infezione in un modo, per esempio tramite contatto con sangue infetto, può trasmetterla per altra via, per esempio mediante un rapporto sessuale (Figura 19). Fig. 18 Rappresentazione schematica della concentrazione di HIV in diversi materiali biologici. Fig. 19 Possibili vie di trasmissione dell'HIV. Trasmissione sessuale La trasmissione sessuale dell'HIV rappresenta la modalità di contagio prevalente nel mondo (Figura 20), ed è il fattore maggiormente responsabile della rapida espansione dell'epidemia in Paesi asiatici quali l'India e la Tailandia. Fig. 20 Modalità di trasmissione dell'HIV nel mondo. La probabilità di trasmissione dell'HIV per vari tipi di attività sessuali dopo un singolo contatto è stata calcolata utilizzando dati epidemiologici e modelli matematici (Figura 21a). L'efficacia della trasmissione da uomo a donna, o da uomo a uomo, è più efficace che non da donna a uomo (Figura 21b). Fig. 21a Probabilità di trasmissione dell'HIV per singolo episodio. Nell'ambito della trasmissione sessuale è evidente come il rischio sia maggiore nel caso del contatto omosessuale, mentre per quanto riguarda la trasmissione verticale si nota la riduzione del rischio di contagio con l'impiego della profilassi farmacologica. Fig. 21b Il rischio di contagio uomo - donna è superiore al rischio donna - uomo. Per quanto riguarda il tipo di attività sessuale, il rapporto anale è quello correlato al maggior rischio, mentre il rapporto orale sembra avere un rischio inferiore (Figura 22); a questo proposito, mentre sembra essere praticamente privo di rischio il rapporto orale con donna recettiva, al contrario sono stati segnalati casi di trasmissione dell'HIV mediante rapporto orale con uomo recettivo (6,6% dei casi in coorte americana di soggetti omosessuali) (12). E' comunque difficile stabilire con certezza la percentuale di rischio di contagio in ogni singolo caso; infatti ci sono persone che si sono contagiate dopo un singolo rapporto, mentre altre non hanno contratto l'infezione anche dopo anni di rapporti con un partner sieropositivo. Rischio Rapporto anale non protetto Rapporto genitale non protetto Rapporto oro-genitale non protetto Rapporto sessuale protetto Rapporto oro-genitale protetto Petting Bacio profondo Massaggi Fig. 22 La probabilità di contagio varia notevolmente in base al tipo di rapporto. E' comunque difficile stabilire con certezza la percentuale di rischio di contagio in ogni singolo caso; infatti ci sono persone che si sono contagiate dopo un singolo rapporto, mentre altre non hanno contratto l'infezione anche dopo anni di rapporti con un partner sieropositivo. Ci sono comunque molti fattori che influenzano la possibilità che si verifichi effettivamente la trasmissione del virus (Tabella 2): Tab. 2 Fattori che influenzano la trasmissione sessuale dell'HIV. Fattori associati ad aumento del Rischio N° contatti sessuali Malattia avanzata Infezione primaria Malattie genitali Contraccettivi orali Dispositivi intrauterini Uomo-Donna Donna-Uomo Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Sì Non noto No Fattori associati a riduzione del Rischio Uso del profilattico Terapia antiretrovirale Uso di spermicidi Mutazione del gene per il recettore delle chemochine • • Sì Sì Possibile Sì Sì Non noto Sì Sì Fattori comportamentali: - Numero di partners diversi - Rapporti con persone ad alto rischio (prostitute, tossicodipendenti) - Utilizzo del profilattico - Tipo di rapporto - Condizioni psichiche: l'utilizzo di droghe o alcolici può infatti compromettere la capacità di giudizio, e quindi la consapevolezza di utilizzare adeguati strumenti di prevenzione in caso di rapporti a rischio. Concomitante presenza di malattie sessualmente trasmesse: La presenza di altre malattie che interessano gli organi genitali, quali per esempio condilomi, Herpes, lesioni ulcerative, ecc., favoriscono la trasmissione dell'HIV, per diversi motivi: - le lesioni sulla cute e sulle mucose costituiscono una comoda porta d'ingresso per il virus; - nelle zone infiammate c'è una elevata concentrazione di cellule bersaglio del virus, quali linfociti, monociti e macrofagi, per cui il virus trova subito un terreno ideale per la sua • • moltiplicazione; - i soggetti sieropositivi risultano maggiormente infettanti, in quanto nelle loro secrezioni sono presenti un maggior numero di particelle virali. Fattori legati al singolo individuo: - Infettività: non tutti i soggetti sieropositivi sono infettanti allo stesso modo; la possibilità di trasmettere l'infezione infatti dipende anche dallo stadio dell'infezione e dalla quantità di virus presente nel sangue e nelle secrezioni genitali. In particolare la carica virale è solitamente più elevata nel periodo immediatamente successivo al contagio e nelle fasi più avanzate della malattia, ed è stato ampiamente dimostrato che l'infettività aumenta parallelamente all'incremento della carica virale L'infettività può inoltre variare in relazione alla terapia antiretrovirale: una riduzione della replicazione virale indotta dalla terapia riduce le probabilità di trasmissione del virus. In un recente studio (8) sono state osservate per un periodo di circa 3 anni 415 coppie "discordanti" (cioè con solo uno dei due partner sieropositivo); la trasmissione dell'infezione si è verificata in 90/415 coppie (incidenza: 11.8% anni-persona), e si è potuto osservare che il contagio avveniva raramente nelle coppie dove il partner sieropositivo aveva una carica virale < 1500 copie. Un altro studio condotto in modo simile ha calcolato che se la carica virale del soggetto infetto è < 3.500 copie/ml la probabilità di trasmissione per singolo rapporto sessuale è dello 0,0001 (cioè 1 su 10.000 rapporti), mentre se la viremia è > 50.000 copie/ml, la probabilità di trasmissione diventa di 5,1 su 1.000 rapporti (13). - Resistenza all'infezione: per particolari caratteristiche genetiche e immunologiche alcuni individui sono particolarmente resistenti all'infezione, per cui non si contagiano anche se vengono esposti al virus (ciò è stato osservato per individui che possiedono variazioni genetiche di particolari corecettori necessari all'HIV per poter infettare le cellule). Fattori legati al virus: - Carica virale: come detto prima, dipende essenzialmente dallo stadio dell'infezione e dalla terapia. - Genotipo virale: sono noti 17 genotipi diversi di HIV, e vari studi hanno dimostrato che alcuni di questi hanno una più elevata trasmissibilità per via sessuale, come per esempio il genotipo E, particolarmente diffuso in Tailandia. NB: Questi fattori però non possono essere conosciuti a priori, per cui bisogna sempre considerare che può bastare anche un solo rapporto per contrarre l'infezione. E' stato ampiamente dimostrato che il virus non è presente negli spermatozoi, ma si trova libero nel liquido seminale, oppure sotto forma di DNA provirale nel nucleo delle cellule mononucleate, anch'esse presenti nel liquido seminale. Per tale motivo è possibile ipotizzare la fecondazione artificiale nel caso di coppie discordanti, con uomo sieropositivo e donna sieronegativa. In Centri clinici specializzati viene infatti eseguito un particolare trattamento del liquido seminale, in grado di eliminare la parte potenzialmente infetta e di conservare invece gli spermatozoi, i quali vengono poi utilizzati per la fecondazione artificiale. Trasmissione con il sangue L'HIV può essere trasmesso tramite trasfusione di sangue infetto o di emocomponenti preparati con sangue di una persona infetta. Infezioni secondarie ad emotrasfusioni erano descritte soprattutto prima del 1985, anno in cui si è reso disponibile il test per lo screening dei donatori. In seguito le segnalazioni di infezioni secondarie a trasfusione di sangue sono divenute sempre più rare; a ciò hanno contribuito diversi fattori, quali lo screening dei donatori, la ripetizione del test su tutte le unità di sangue prelevate, l'abolizione dei donatori professionali e l'educazione sanitaria dei donatori, in modo che questi evitino volontariamente la donazione se hanno avuto dei comportamenti a rischio. Recentemente (luglio 1999) in Australia è stato riportato un caso di infezione da HIV avvenuto tramite emotrasfusione, il primo dal 1985; il sangue proveniva da una donatrice che aveva donato il sangue durante il periodo finestra. Attualmente la Croce Rossa Internazionale stima che il rischio che avvenga un contagio con queste modalità sia di 1 caso ogni 1.200.000 trasfusioni, mentre nel 1995 i CDC di Atlanta riportavano un rischio di 1 ogni 500.000 trasfusioni (Figura 23). Nel 1982 circa l'1% delle unità di sangue trasfuse a San Francisco erano contaminate dall'HIV. Nel 1995 il rischio di contagio in seguito a trasfusione è stimato essere di 1 ogni 500.000 unità di sangue trasfuse (CDC). Nel 1999 la CRI riporta un rischio di 1 su 1.200.000 emotrasfusioni. Fig. 23 Trasmissione dell'HIV mediante trasfusioni di sangue. Trasmissione parenterale La via parenterale è il modo più facile che ha il virus per poter essere trasmesso da un individuo all'altro; l'efficienza della trasmissione parenterale può infatti arrivare fino al 90%. Ciò è dovuto al fatto che il virus, arrivando direttamente nel torrente circolatorio, trova subito moltissime cellule bersaglio, rappresentate essenzialmente dalle cellule mononucleate (linfociti e monociti). Il fattore di rischio principale per la trasmissione parenterale dell'HIV è rappresentato senza dubbio dalla tossicodipendenza. Questa modalità di contagio è quella prevalente in Italia e in tutta l'Europa Occidentale (vedi Fig.15a). In Italia, soprattutto nelle grandi città del Nord, sono state descritte percentuali di sieropositività tra i tossicodipendenti di oltre il 60%. La trasmissione del virus tra i tossicodipendenti avviene principalmente tramite la contaminazione con sangue infetto di aghi e altri oggetti utilizzati per la preparazione della droga, i quali vengono spesso riutilizzati più volte e scambiati tra persone diverse. Uno studio condotto nel 1992, basato sull'impiego di un modello matematico costruito analizzando la presenza di HIV nel sangue residuo di siringhe utilizzate da tossicodipendenti sieropositivi, ha stimato in 1 ogni 150 iniezioni il rischio di contagio. Anche altre pratiche, come i tatuaggi ed il body piercing, sono a rischio per la trasmissione dell'HIV; infatti tali manovre vengono spesso eseguite da personale inesperto che ignora le corrette procedure di sterilizzazione degli aghi. Qualsiasi oggetto che superi l'integrità della barriera cutanea può essere infatti in grado di trasmettere infezioni quali l'HIV ed i virus dell'epatite, per cui tutti questi oggetti devono sempre essere adeguatamente sterilizzati. Esposizione accidentale L'HIV è un virus poco resistente all'ambiente esterno, anche se in condizioni favorevoli può sopravvivere anche per due o tre giorni. L'essiccamento provoca una riduzione della carica virale di oltre il 90% in poche ore. In caso di ferita accidentale con materiale contaminato, perchè avvenga effettivamente il contagio sono importanti vari fattori: - Carica virale nel sangue residuo; - Tipo di strumento con il quale avviene la contaminazione (per esempio una puntura con un ago cavo è più pericolosa della lesione con un ago pieno, in quanto il residuo di sangue è maggiore nel primo caso); - Durata del contatto e profondità della lesione; - Lesioni preesistenti dell'operatore e suo stato immunitario. Complessivamente, dopo una esposizione accidentale con sangue contaminato il rischio di contrarre l'infezione è di circa lo 0,2-0,3%. Trasmissione verticale L'HIV può essere trasmesso dalla madre al figlio. Questo può avvenire essenzialmente tramite tre modalità: - durante la gravidanza attraverso la placenta (20-40%) - durante il parto (40-70%) - tramite l'allattamento (15-20%) Per ridurre il rischio di infezione del neonato alle donne sieropositive viene solitamente praticato il parto cesareo e viene consigliato di non allattare. Uno studio, pubblicato nel 2000 su JAMA, condotto su una coorte di donne sieropositive del Kenia, ha dimostrato una riduzione fino al 44% della trasmissione verticale del virus nelle donne che non allattavano. Complessivamente il rischio che il neonato resti contagiato è di circa il 15-25%, ma questa percentuale è stata notevolmente ridotta (fino a meno del 5%) con l'utilizzo di profilassi farmacologica durante la gravidanza e dopo il parto. Il rischio di trasmissione dell'infezione varia poi in base ad altri fattori legati alla madre, quali le condizioni cliniche generali, il livello di viremia, il numero di CD4+, la concomitante presenza di altre malattie sessualmente trasmesse. I bambini nati da madri sieropositive nascono anch'essi sieropositivi, in quanto gli anticorpi materni che identificano la sieropositività passano nel sangue del neonato durante la gravidanza. Poi, se il bambino non ha contratto l'infezione, questi anticorpi materni pian piano vengono smaltiti, per cui il bambino "diventa" sieronegativo. Se invece il bimbo ha contratto l'infezione, allora inizia a produrre anticorpi propri e quindi "resta" sieropositivo. Altra conferma della avvenuta infezione si può avere con la determinazione della carica virale (HIV-RNA). Nella Figura 24 sono illustrate le modalità attraverso le quali non si trasmette l'infezione. Fig. 24 Come NON avviene la trasmissione dell'HIV: I comuni contatti sociali NON sono idonei alla trasmissione del virus; se così fosse le caratteristiche epidemiologiche dell'infezione sarebbero completamente diverse da quelle attuali. Un semplice bacio NON è a rischio per la trasmissione dell'HIV. L'unico ipotetico rischio è riferito al bacio profondo in presenza di lesioni sanguinanti del cavo orale. Una persona sieropositiva che ha dei colpi di tosse o degli starnuti NON è in grado di trasmettere l'infezione. Gli oggetti casalinghi quali le stoviglie NON sono idonei alla trasmissione del virus. NON c'è rischio di contrarre l'infezione frequentando piscine o bagni comuni. Il cloro uccide l'HIV, e la diluizione rende estremamente bassa la concentrazione del virus. Gli animali domestici NON trasmettono l'HIV; questo infatti è un virus che colpisce solo la specie umana. Le zanzare NON possono trasmettere il virus; se così fosse l'andamento dell'epidemia sarebbe stato molto diverso. L'HIV non è in poi grado di sopravvivere all'interno dell'insetto, ed inoltre la zanzare succhia il sangue, non lo inietta. Quadri clinici dell'infezione da HIV Il decorso dell'infezione da HIV è caratterizzato da diverse fasi cliniche, la cui evoluzione è molto variabile potendo essere influenzata da svariati fattori, primo fra tutti l'impiego di una adeguata terapia antiretrovirale. Schematicamente si distinguono 5 stadi clinici, partendo dal momento del contagio fino allo sviluppo della malattia conclamata, cioè l'AIDS (Figura 25). Fig. 25 Stadi clinici dell'infezione da HIV. Infezione acuta primaria Viene così definita la fase iniziale dell'infezione, rappresentata dal periodo immediatamente successivo al contagio. Nelle prime settimane di infezione gli anticorpi specifici contro l'HIV non si sono ancora formati, per cui il test per la diagnosi di sieropositività risulta negativo. Nei casi di avvenuto contagio solitamente il test diventa positivo dopo 2-3 mesi, ma ciò può accadere anche più tardivamente, per cui di solito il test viene ripetuto anche a distanza di almeno 6 mesi dall'evento a rischio. L'intervallo di tempo che va dal contagio alla positivizzazione del test viene definito "periodo finestra" (Figura 26), mentre la comparsa degli anticorpi viene definita sieroconversione. Fig. 26 Durante il periodo finestra il test risulta negativo anche in presenza di infezione. In questo periodo si osserva una elevata replicazione virale, durante la quale si ha la diffusione del virus agli organi linfatici e quindi a tutto l'organismo; per tale motivo in questa fase il soggetto risulta particolarmente infettante. La replicazione virale si riduce poi progressivamente in seguito alla attivazione di una specifica risposta immunitaria. Recenti studi hanno dimostrato come durante questa fase, fin dai primi giorni o addirittura dalle prime ore successive all'infezione, avviene una "lotta" tra il virus ed il sistema immunitario, il cui esito andrà ad influenzare la successiva evoluzione della malattia. L'infezione acuta decorre spesso in modo del tutto asintomatico, anche se si stima che nel 50-90% dei casi in realtà siano presenti dei sintomi clinici, che sono però il più delle volte aspecifici, per cui non vengono messi in relazione con l'infezione da HIV; si possono infatti presentare dei quadri clinici simili a quelli di una influenza o di una mononucleosi (malattia infettiva benigna provocata dal virus di Epstein-Barr), caratterizzati da febbre, mal di gola, malessere generale, stanchezza, sudorazioni, ingrossamento delle ghiandole linfatiche, e a volte vi può essere anche un esantema tipo orticarioide. Nella Tabella 3 sono elencati i segni ed i sintomi più frequentemente osservati in corso di infezione primaria da HIV. Più raramente, in alcuni pazienti si possono presentare dei quadri clinici più importanti, come per esempio una meningite a liquor limpido o manifestazioni quali la candidosi orale. La sintomatologia della infezione primaria da HIV, quando presenti, si manifestano mediamente dopo 2-6 settimane dopo il contagio, e normalmente si risolve spontaneamente in circa 15 giorni; in questa fase si riscontrano i valori più elevati di HIV-RNA, e nella maggior parte dei casi gli anticorpi specifici non si sono ancora formati, per cui il test per la diagnosi di sieropositività risulta ancora negativo. La risoluzione dei sintomi coincide quindi con la riduzione della replicazione virale e con la formazione degli anticorpi specifici anti-HIV. Un precoce inquadramento di una infezione acuta da HIV può essere molto importante, in quanto è dimostrato che se viene iniziata al più presto in questa fase la terapia antiretrovirale si ottengono ottime risposte in termini di riduzione della carica virale e quindi della futura evoluzione dell'infezione. Infezione asintomatica L'infezione da HIV è caratterizzata da un lungo periodo di latenza clinica, durante il quale non si ha alcun sintomo o segno di malattia. Durante questa fase la replicazione del virus nelle cellule del sangue è assente o molto bassa, mentre invece si mantiene sempre attiva a livello delle ghiandole linfonodali. Non si ha quindi una latenza biologica dell'infezione; infatti la persistenza di replicazione negli organi linfoidi provoca una lenta ma graduale perdita di linfociti CD4+: ogni giorno circa il 5% dell'intero comparto dei CD4+ viene distrutto dal virus, ma per lungo tempo le cellule eliminate vengono rimpiazzate pressoché integralmente. Una persona sieropositiva in questa fase non può certamente essere riconosciute come tale in base all'aspetto, come rappresentato da un poster di una campagna pubblicitaria (Figura 27), e se non è a conoscenza del proprio stato può inconsapevolmente trasmettere l'infezione ad altri. Fig. 27 "Questa persona mostra tutti i segni dell'infezione da HIV" (tratta dal poster di una campagna di prevenzione). La durata di questa fase è molto variabile, e può essere influenzata da vari fattori, tra i quali soprattutto l'impiego di una terapia antiretrovirale. In assenza di trattamento la maggior parte dei pazienti evolve verso la malattia in un periodo medio di circa 8-10 anni; una quota minore ha una evoluzione più rapida, in circa 4-6 anni, mentre un 10-12% circa di soggetti sieropositivi hanno la tendenza a non ammalarsi anche dopo 12 anni e oltre di infezione; questi ultimi vengono definiti long term non-progressors (Figura 28). La spiegazione di questa lenta progressione potrebbe essere attribuita a fattori genetici che influenzano la capacità del sistema immunitario di contrastare l'infezione virale. Fig. 28 Diverse percentuali di evoluzione verso la fase di malattia (la fetta verde evidenzia i cosidetti long term non-progressors), in assenza di terapia antiretrovirale. Lo sviluppo di una sintomatologia clinica evolve parallelamente alla compromissione delle difese immunitarie, evidenziate dal calo dei linfociti CD4+, e all'aumento della replicazione virale. L'andamento di questi valori influenza in modo determinante il rischio di progressione dell'infezione (Figura 29). Fig. 29 Andamento dei linfociti CD4+ e della viremia (HIV-RNA) durante l'evoluzione della malattia da HIV. Linfoadenopatia Generalizzata Persistente (PGL o LAS) Questa fase in realtà spesso non è differenziabile da un punto di vista clinico rispetto alla precedente, e non rappresenta un fattore di rischio particolare per lo sviluppo della malattia. Infatti non vi sono particolari sintomi clinici, ed il dato principale è rappresentato dall'ingrossamento dei linfonodi, che dal punto di vista strutturale presentano una alterazione della propria struttura istologica. Complesso AIDS-correlato (ARC) Questa fase, la cui definizione viene descritta da un punto di vista clinico ma non viene solitamente utilizzata nella pratica clinica, è caratterizzata da vari sintomi clinici e da determinate alterazioni degli esami di laboratorio, come riassunto nella Tabella 4. Identificano il quadro di ARC anche alcune cosiddette infezioni opportunistiche minori, quali: - Candidosi orale o oro-faringea - Leucoplachia orale villosa - Herpes-Zoster multidermatomerico - Condilomatosi genitale La fase di ARC solitamente precede la fase della malattia conclamata. Tab. 4 Sintomi che definiscono la fase di ARC. Presenza di almeno uno dei seguenti sintomi: • Febbre: intermittente o continua, che dura per più • • Diarrea: persistente per più di un mese Calo ponderale: superiore al 10% del peso di un mese e che non dipende da altre patologie corporeo Alterazioni degli esami di laboratorio: • • • • Anemia (calo globuli rossi ed emoglobina) Leucopenia (calo globuli bianchi) Trombocitopenia (calo piastrine) Riduzione marcata dei linfociti CD4+ AIDS Col progredire del danno al sistema immunitario, evidenziato dalla marcata riduzione dei linfociti CD4+, l'organismo viene esposto al rischio di sviluppare determinate patologie, di tipo infettivo e neoplastico, definite opportunistiche. Le infezioni opportunistiche sono provocate da microrganismi abitualmente presenti nell'ambiente, che non sono patogeni per soggetti con integrità delle difese immunitarie ma che possono provocare malattie anche gravi in pazienti che abbiano una situazione di immunodeficienza. Si considera che il rischio di sviluppare queste infezioni sia presente quando i linfociti CD4+ sono inferiori ai 200/mmc, mentre è molto elevato per valori inferiori a 100/mmc. La fase di malattia conclamata, definita con il termine di AIDS (Sindrome da ImmunoDeficienza Acquisita), inizia proprio quando compare una di queste patologie. Nella Tabella 5 viene riportato l'elenco di queste infezioni. NB: maggiori dettagli sugli aspetti clinici dell'infezione da HIV, ed in particolare sulle singole patologie opportunistiche, sono descritti nelle pagine della sezione Aspetti Clinici correlati all'Infezione da HIV. Tab. 5 Patologie opportunistiche maggior che definiscono la fase di AIDS. Infezioni fungine: • • • • Candidosi (esofagea, bronco-polmonare, disseminata) Criptococcosi extrapolmonare Istoplasmosi Coccidioidomicosi (non presente in Italia) Infezioni virali: • • • Citomegalovirosi disseminata o retinica Herpes Simplex disseminato o cronico LEMP (LeucoEncefalite Multifocale Progressiva) Infezioni protozoarie: • • • • PCP (Polmonite da Pneumocystis carinii) Toxoplasmosi cerebrale Criptosporidiosi intestinale Isosporiasi intestinale Infezioni batteriche: • • • • Polmoniti batteriche ricorrenti Sepsi da Salmonella recidivanti Micobatteriosi atipiche Tubercolosi Neoplasie: • • • • Sarcoma di Kaposi Linfomi Non-Hodgkin Linfoma cerebrale primitivo Carcinoma invasivo della cervice uterina Patologie provocate dallo stesso HIV: • • AIDS - dementia complex (ADC) Wasting Syndrome Prima della disponibilità dei nuovi farmaci antiretrovirali (quindi prima del 1996 in Italia) la sopravvivenza media di un paziente sieropositivo dal momento della diagnosi di AIDS era di circa 10-12 mesi. Negli ultimi anni invece, grazie alle nuove possibilità terapeutiche la prognosi è radicalmente cambiata, con un miglioramento oltre che della durata anche della qualità della vita (Figura 30, Figura 16). Fig. 30 Studio americano condotto su di una popolazione di pazienti con CD4+<100/mmc (è evidente la differente evoluzione tra il 1994 ed il 1997, provocata dalla disponibilità delle nuove terapie). Fig. 16 Curve di Sopravvivenza dei casi di AIDS per anno di diagnosi. Un recente studio dell'EuroSIDA Study Group, pubblicato sulla rivista Lancet (9), ha analizzato i cambiamenti che si sono osservati nella presentazione clinica delle patologie AIDS-correlate dopo l'introduzione della terapia HAART: l'incidenza di nuove infezioni opportunistiche maggiori, misurata in tasso per 100 anni-paziente, è passata dal 30.7% del 1994 al 2.5% del 1998. Negli Stati Uniti, la mortalità per AIDS si è ridotta del 60% dal 1995 al 1998, passando dal 1° al 5° posto tra le cause di decesso nella popolazione adulta. Terapia Negli ultimi due anni sono stati fatti notevoli ed entusiasmanti passi avanti nella terapia dell'infezione da HIV. Ciò che ha reso possibile questo miglioramento può essere riassunto nei seguenti punti: - una migliore comprensione della patogenesi dei danni prodotti dall'HIV; - la possibilità di determinare la carica virale, e di avere così un parametro diretto della effettiva replicazione virale; - la disponibilità di nuovi farmaci con una potente attività antiretrovirale; - la comprensione della necessità di utilizzare combinazioni terapeutiche con più farmaci contemporaneamente. La Conferenza Mondiale sull'infezione da HIV tenutasi a Vancouver, Canada, nel 1996, è diventata una pietra miliare nella storia della malattia, in quanto per la prima volta vennero mostrati i risultati delle nuove combinazioni terapeutiche, e per la prima volta si arrivò ad ipotizzare la possibilità di eradicare l'infezione. Il motto coniato dal dott. David Ho, "Hit Early, Hit Hard", cioè "Colpisci presto, Colpisci forte", ha modificato radicalmente l'atteggiamento terapeutico nei confronti dell'infezione, portando ad iniziare la terapia più precocemente di quanto non venisse fatto in passato. Il razionale di questa strategia consiste nell'iniziare il prima possibile la terapia in modo da bloccare la replicazione virale quando il sistema immunitario è ancora efficiente e quindi in grado di recuperare pienamente le sue funzioni, e prima che insorgano mutazioni nella popolazione virale in grado di indurre resistenza alla terapia stessa. Nella pratica clinica questa teoria si scontra con altri aspetti: - la difficile tollerabilità dei farmaci, i quali possono provocare effetti collaterali che ne richiedono la sospensione e che richiedono un impegno notevole da parte del paziente per rispettare le dosi e le modalità di assunzione; - la possibile insorgenza di resistenze, in grado di rendere inefficace l'azione dei farmaci; - la difficile penetrazione dei farmaci in vari distretti dell'organismo, i cosiddetti santuari o reservoir, nei quali pertanto il virus non può essere aggredito. Per tali motivi oggi si ritiene che l'eradicazione dell'infezione non sia realizzabile con gli strumenti attualmente a disposizione, mentre si pensa che un obiettivo raggiungibile possa essere quello di cronicizzare l'infezione, cioè di arrestarne l'evoluzione a tempo indeterminato. A tale scopo, prima di iniziare una terapia antiretrovirale è opportuno considerare anche le possibilità di preservare dei trattamenti che potrebbero essere utili in seconda battuta, cioè dopo un eventuale fallimento del regime iniziale. Per questo molti Autori preferiscono oggi iniziare una terapia con un regime cosiddetto protease-sparing, cioè "risparmiatore degli inibitori della proteasi": tale approccio consiste nell'iniziare la terapia con una associazione che contenga un NNRTI anziché un IP, in modo da migliorare la compliance del paziente (maggiore tollerabilità e minori effetti collaterali degli NNRTI rispetti agli IP) preservando l'efficacia degli IP in caso di un eventuale fallimento virologico. Questa strategia terapeutica è supportata da studi clinici che hanno confrontato regimi a base di Indinavir (un inibitore della proteasi) con regimi a base di analoghi non-nucleosidici della transcriptasi inversa, quali la Nevirapina (Studio Atlantic) (1) o l'Efavirenz (Studio DuPont 006) (2). Uno studio analogo, lo Studio CNA 3005 (3), ha invece confrontato una associazione di 3 RTI contenente l'Abacavir allo schema contenente Indinavir, dimostrando anche in questo caso una efficacia sovrapponibile. Alcuni dettagli relativi a questi studi sono riportati nelle relative Schede dei Farmaci. Un altro aspetto da considerare è quello relativo a quando iniziare il trattamento. Anche in questo caso il motto di David Ho è stato rivisto, e la tendenza attuale non è più quella di iniziare molto "Early". Questa tendenza è stata ribadita anche dalle ultime linee guida pubblicate nel febbraio 2001, dove il valore decisionale dei CD4 è stato ulteriormente abbassato, da 500 a 350 cellule/mmc (per maggiori dettagli vedi la sezione Linee Guida). Alla recente 8th Conference on Retrovirus and Opportunistic Infections (Chicago, 4-8 febbraio 2001) sono stati presentati dei lavori che hanno confermato questo orientamento, ma che hanno evidenziato anche come la terapia non debba nemmeno essere iniziata troppo tardi, quando cioè la compromissione del sistema immunitario diventa tale da non consentire un recupero adeguato (10, 11) Sono attualmente registrati in Italia 14 farmaci antiretrovirali appartenenti a tre diverse classi farmacologiche, ognuna con un diverso meccanismo d'azione. Tutti questi farmaci non sono in grado di uccidere il virus, ma agiscono bloccandone la replicazione. Tali farmaci pertanto non sono attualmente curativi, ed i pazienti in trattamento, anche se hanno una carica virale non rilevabile nel sangue, devono comunque ritenersi sempre potenzialmente infettanti. NB: per maggiori dettagli sulla terapia vedi le pagine della sezione Terapia AntiRetroVirale. Inibitori Nucleosidici della Transcriptasi Inversa (RTI) I farmaci appartenenti a questa classe sono stati i primi ad essere utilizzati nella terapia dell'infezione da HIV; il capostipite di questi infatti, la Zidovudina (AZT), è stata utilizzata fin dal 1987. I risultati che si ottenevano erano però solo transitori, e questo era dovuto al fatto che il suo impiego in monoterapia provocava rapidamente l'insorgenza di resistenze. Meccanismo d'azione (Figura 31): questi farmaci sono in grado di inibire il processo di replicazione del virus mediante il blocco della trascrizione dell'RNA virale in DNA provirale (vedi Replicazione dell'HIV); agiscono sostituendosi alle basi azotate durante la trascrizione, in modo che il DNA provirale neoformato sia incompleto e quindi incapace di originare nuove particelle virali. Nella Tabella 6 sono riportati i farmaci RTI attualmente registrati in Italia. Tab. 6 In Italia sono attualmente registrati 8 farmaci RTI (le molecole sono però 6, dato che il Combivir ed il Trizivir sono associazioni di molecole già esistenti). Nome Commerciale RETROVIR (GlaxoWellcome) VIDEX (Bristol-Myers S) HIVID (Roche) EPIVIR (GlaxoWellcome) ZERIT (Bristol-Myers S) ZIAGEN (GlaxoWellcome) COMBIVIR (GlaxoWellcome) TRIZIVIR (GlaxoWellcome) Nome molecola Zidovudina (AZT) Didanosina (DDI) Zalcitabina (DDC) Lamivudina (3TC) Stavudina (D4T) Abacavir (ABC) AZT + 3TC AZT + 3TC + ABC Dose quotidiana + + + + + + + + + Inibitori Non-Nucleosidici della Transcriptasi Inversa (NNRTI) Questa classe di farmaci fu scoperta circa 10 anni fa, ma il loro sviluppo era stato ostacolato dagli scarsi risultati ottenuti in seguito all'impiego in monoterapia, che aveva comportato la rapida insorgenza di resistenza. Meccanismo d'azione (Figura 32): anche questi, come i farmaci della classe precedente, sono inibitori della transcriptasi inversa, ma agiscono con un meccanismo diverso: si legano direttamente al sito attivo dell'enzima, bloccandone l'azione ed impedendo così che avvenga la formazione del DNA provirale. Fig. 32 Meccanismo d'azione degli Inibitori Non-Nucleosidici della Transcriptasi inversa (NNRTI). In Italia sono attualmente registrati due farmaci appartenenti a questa classe (Tabella 7). Questi farmaci hanno una buona biodisponibilità ed una lunga emivita, per cui possono essere somministrati solo una o due volte al giorno Tab. 7 NNRTI attualmente registrati in Italia. Nome Commerciale VIRAMUNE (Boehringer Ing.) SUSTIVA (DuPont) Nome molecola Nevirapina Dose quotidiana + Efavirenz Non registrato in Italia: RESCRIPTOR Delavirdina (Pharmacia & Upjohn) + + Inibitori delle Proteasi (IP) Sono i farmaci che hanno radicalmente modificato l'impatto della terapia antiretrovirale, essendo caratterizzati da una potente attività di blocco della replicazione virale. Meccanismo d'azione (Figura 33): Fig. 33 Meccanismo d'azione degli Inibitori delle Proteasi (IP). questi farmaci agiscono nell'ultima fase del ciclo replicativo dell'HIV, inibendo la proteasi virale, un enzima che permette la maturazione delle nuove particelle virali rendendole a loro volta infettanti. Nella Tabella 8 sono elencati gli inibitori delle proteasi attualmente disponibili Tab. 8 Inibitori delle Proteasi attualmente disponibili. Nome Commerciale INVIRASE (Roche) Nome molecola Saquinavir Hard-Gel (SQV- HGC) + + FORTOVASE (Roche) Saquinavir Soft-Gel (SQV-SGC) + + Indinavir (IDV) CRIXIVAN (MerkSharp & Dohme) + + NORVIR (Abbott) Ritonavir (RTV) + VIRACEPT (Roche) Nelfinavir (NFV) + AGENERASE (GlaxoWellcome) + Amprenavir (APV) + KALETRA (Abbott) Lopinavir/ritonavir + Il motivo principale dell'insuccesso di una terapia è dovuto alla insorgenza di resistenza ai farmaci; ciò succede quando il virus va incontro a delle mutazioni della propria struttura genetica che gli permettono di "sfuggire" all'azione del farmaco. Poiché le mutazioni compaiono durante la replicazione, è evidente che la loro insorgenza è la diretta conseguenza di una incompleta soppressione dell'attività virale, quale si verifica per esempio in caso di assunzione scorretta della terapia o di inadeguatezza della stessa (Figura 34). Per ridurre il rischio che ciò accada sono essenziali due fattori: - utilizzare più farmaci in combinazione fra loro; - ottimizzare l'aderenza del paziente alla terapia. Fig. 34 Insorgenza di resistenza ai farmaci antiretrovirali in seguito a terapia non efficacemente soppressiva. Virus sensibile Virus resistente Terapia con più farmaci L'impiego di una terapia di combinazione con farmaci diversi consente di aggredire il virus da più parti, riducendo così la possibilità che questo possa andare incontro a mutazioni e quindi a sviluppare resistenza (Figura 35). Fig. 35 Utilizzo di più farmaci per colpire il virus in siti replicativi differenti. Vari studi hanno evidenziato la diversa efficacia clinica e virologica della monoterapia comparata con l'impiego di almeno 2 o 3 farmaci. Il primo studio che ha mostrato la superiorità della triplice terapia è stato l'ACTG 320; questo studio ha dimostrato che la combinazione AZT-3TC-IDV è molto più efficace dei soli AZT-3TC nel sopprimere la replicazione virale, anche in pazienti in fase avanzata di infezione. Nella Figura 36 viene schematizzato il diverso andamento della replicazione virale in corso di mono, duplice o triplice terapia. Fig. 36 Differente soppressione della replicazione virale in base allo schema terapeutico impiegato. Aderenza al trattamento L'aderenza al trattamento, cioè l'assunzione costante e regolare della terapia, è fondamentale per un buon esito della stessa. Un adeguato successo virologico richiede una aderenza alla terapia superiore al 90%. L'aderenza alla terapia dipende da vari fattori: Compliance: gli schemi terapeutici della terapia combinata richiedono l'assunzione di numerose compresse al giorno (anche più di 15!), ma soprattutto richiedono una particolare attenzione alle modalità di somministrazione; infatti ogni farmaco va preso ad orari fissi stando attenti a non saltare le dosi, ed inoltre alcuni vanno presi a stomaco pieno ed altri a digiuno. Durata: la terapia va proseguita a tempo indeterminato, per cui il paziente in trattamento con antiretrovirali deve considerarsi come un malato cronico che deve assumere costantemente i farmaci per prolungare la sopravvivenza. L'interruzione della terapia comporta infatti invariabilmente la ripresa della replicazione virale e quindi della progressione dell'infezione. Tossicità: l'ostacolo principale all'aderenza alla terapia per periodi prolungati è comunque rappresentato dalla tossicità dei farmaci, i quali possono provocare vari effetti collaterali che possono obbligare alla sospensione del trattamento, anche in presenza di un beneficio clinico. In tal caso va tenuta presente una regola generale: in caso di intolleranza o di tossicità è sempre meglio sospendere del tutto la terapia piuttosto che assumere i farmaci a dosaggio ridotto. Ciò infatti, per quanto già visto in precedenza, potrebbe favorire l'insorgenza di resistenze. I test di Resistenza Il problema delle resistenze ai farmaci è pertanto il principale motivo di insuccesso di una terapia antiretrovirale. In pazienti che abbiano fallito una terapia sarebbe perciò importante poter avere la possibilità di determinare in modo esatto a quali farmaci il virus è diventato resistente. Nel Settembre 2001 l'FDA per la prima volta ha approvato un test genotipico per il suo utilizzo nella pratica clinica. Si tratta del Trugene HIV-1 Genotyping Kit, sviluppato dalla Visible Genetics Inc. Le linee guida dell'IAS del maggio 2000 indicano la necessità di eseguire un test di resistenza nelle seguenti situazioni:: - nella scelta di un regime terapeutico quando siano state fallite terapie precedenti, e più in generale in qualsiasi occasione sia necessario cambiare una terapia; - nella scelta del regime iniziale di trattamento, soprattutto quando vi sia il sospetto che il paziente sia stato infettato con un virus già resistente; - nella donna gravida. Sono attualmente disponibili due diversi tipi di test di resistenza: l'esame genotipico e l'esame fenotipico. Test genotipico: Il genoma dell'HIV, l'RNA virale, è costituito da diversi geni, ognuno dei quali è a sua volta costituito da una specifica sequenza di nucleotidi. Modificazioni di questa sequenza sono definite mutazioni. Mutazioni a livello dei geni che codificano per la produzione degli enzimi deputati alla replicazione virale, la transcriptasi inversa (RT) e la proteasi (PR), possono indurre resistenza ai farmaci che agiscono su questi enzimi (RTI e NNRTI per il primo, inibitori della proteasi per il secondo). I test genotipici sono progettati per determinare la presenza di variazioni della sequenza nucleotidica in questi geni, e si basano sulle tecniche di amplificazione genica (PCR) usate anche per la determinazione della carica virale. Nella Tabella 9 sono riassunti i vantaggi e gli svantaggi di questo test. Tab. 9 Vantaggi e svantaggi dei test di resistenza genotipici. Test Genotipici Vantaggi - Relativamente semplice da eseguire - Disponibile ovunque - Risposta rapida - Permette di rilevare mutazioni "sentinella" prima che queste provochino variazioni del fenotipo Svantaggi - Non rileva la presenza di varianti virali minori - L'interpretazione richiede la precedente conoscenza delle mutazioni che inducono la resistenza - Non può stabilire l'effetto di più mutazioni sul fenotipo virale La validità di questa metodica è stata dimostrata da due grossi studi, Il GART (4) ed il VIRADAPT (5), nei quali i pazienti che fallivano un trattamento contenente un inibitore della proteasi venivano randomizzati a modificare la terapia o secondo le indicazioni di un test genotipico, oppure secondo le consuete indicazioni cliniche. In entrambi gli studi si è osservato un andamento migliore nel gruppo di pazienti che aveva modificato la terapia sulla base del test genotipico. In questi pazienti inoltre l'HIV-RNA si riduceva in maggior misura. Test fenotipico: Questo test è in grado di saggiare l'efficacia dei farmaci direttamente su virus coltivati in laboratorio, nei quali siano stati "trapiantati" i geni RT e PR del virus del paziente. Questo test è però molto più lungo e complesso da eseguire, ma fornisce risultati in teoria più vicini alla realtà, ed è in grado di determinare la presenza di una resistenza ad un certo farmaco anche se non è ancora nota la particolare mutazione che induce quella resistenza. Nella Tabella 10 sono riassunti i vantaggi e gli svantaggi del test fenotipico. Tab. 10 Vantaggi e svantaggi dei test di resistenza fenotipici. Test Fenotipici Vantaggi - Permette di rilevare l'effetto di più mutazioni associate - Fornisce dati sulla resistenza crociata tra i vari farmaci Svantaggi - Non rileva la presenza di varianti minori - E' costoso e lungo da eseguire - La complessità ne limita l'esecuzione a pochi laboratori specializzati - Lungo tempo di risposta (4-6 settimane) Lo studio VIRA 3001 (6) è stato eseguito con criteri simili a quelli precedentemente citati, utilizzando il test fenotipico anzichè quello genotipico, ed anche in questo caso si sono ottenuti ritultati migliori nei pazienti che avevano modificato la terapia sulla base del test. Ciò che ancora limita un estensivo impiego di tali metodiche è la mancanza di una interpretazione sicura e standardizzata dei risultati. Un tentativo di fornire un supporto al clinico per l'interpretazione del test genotipico è la costruzione del cosiddetto Fenotipo Virtuale, realizzato dalla VIRCO, Belgio. Questa metodica dovrebbe consentire di predire il fenotipo virale sulla base di un ampio database relazionale nel quale sono registrati il genotipo ed il fenotipo di oltre 100.000 pazienti ai quali sono stati effettuati entrambi i test. L'attendibilità con la quale questo Fenotipo Virtuale rispecchia l'effettivo fenotipo del paziente va dall'80% ad oltre il 95%, a secondo del tipo di farmaco in studio. Monitoraggio del livello dei farmaci nel sangue Il dosaggio della quantità di farmaco presente nel sangue dovrebbe servire ad ottimizzare le dosi da somministrare ad ogni singolo paziente, in quanto eventuali differenze di assorbimento e di distribuzione del farmaco da persona a persona potrebbero influenzare l'efficacia della terapia. Nella pratica clinica in realtà non è ancora chiaro se questo tipo di misurazione possa portare a dei benefici reali. Uno studio recente (7) ha analizzato la potenziale utilità di questo monitoraggio per le varie classi di farmaci: gli RTI non sono candidati ideali a causa delle difficoltà (e del costo) che si incontrano per misurare i metaboliti attivi di questi farmaci, che sono dei nucleosidi intracellulari; gli NNRTI hanno una lunga emivita, per cui il monitoraggio del livello plasmatico appare essere superfluo; gli IP invece si presentano come dei candidati ideali per l'esecuzione di questo esame, in quanto le loro concentrazioni sono spesso variabili e ciò influisce direttamente sull'efficacio della terapia. Attualmente l'impiego di questa metodica di monitoraggio viene utilizzata da laboratori molto specializzati solo nell'ambito di studi clinici controllati.