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Variazioni. Elementi per la didattica musicale

VARIAZIONI
1. Preludio
Non si è fatto ancora abbastanza per una convincente diffusione degli argomenti a favore
dell’inserimento di effettive attività musicali nella scuola.
Nel testo “Pinocchio” di Collodi si legge: «O a scuola o a sentire i pifferi». Dunque,
l’istruzione è contrapposta alla distrazione e in questo caso la distrazione coincide con la
musica… Il fatto più sorprendente è che, nonostante tutto, Collodi dimostra nella sua
narrazione un grande senso del ritmo, conosce il lessico musicale, come nella descrizione
sonora del Paese dei Balocchi:
«Nelle strade un’allegria, un chiasso, uno strillìo da levar di cervello! […] chi recitava, chi cantava
[…]chi rideva, chi urlava, chi chiamava, chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla
gallina quando ha fatto l’ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio, un tal baccano
indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi per non rimanere assorditi.»
Abbiamo bisogno di una cultura che definisca e sperimenti anzitutto l’unicità e il valore
formativo dell’esperienza musicale, mentre attualmente in Italia ci si rivolge alla musica e
ai musicisti con un’accezione quasi negativa.
Il giornalino di Gian Burrasca è uno spaccato di vita sociale, un microcosmo familiare, visto
dagli occhi di un ragazzo. Qui la musica ha un suo ruolo e si passa dal Paese dei Balocchi
al… “paese dei salotti” degli ambienti borghesi dei primi anni del ‘900, dove imperano il
pianoforte, il canto quasi sempre sospirato e malinconico.
Questa piccola indagine letteraria, ci permette di isolare due aspetti della nostrana
resistenza al “musicale”:


non considerare lo studio della musica una materia scolastica a pieno diritto,
considerare gli studi musicali e in particolare quelli di un certo genere, spesso
tristemente legati ad un esercizio puramente individuale, come noiosi e stancamente
ripetitivi e fino a qualche tempo fa destinati al tipo di classi sociali descritte nel
Giornalino.
Le lingue straniere, anche quelle neolatine, utilizzano lo stesso termine per indicare il gioco
e la musica. In Italia, come abbiamo visto dal Giornalino, l’impressione è che (almeno
inizialmente) la musica sia per noi tutto fuorché gioco: dunque, o si tratta di un’attività
piuttosto noiosa o di una perdita di tempo che ci distoglie dai nostri principali doveri.
Visioli non crede che la strada da percorrere per una valorizzazione (tardiva) del nostro
patrimonio musicale nazionale si fondi sull’elaborazione di nuovi “metodi” per avvicinare
il bambino alla musica, anche se si parla già da tempo di utilizzare l’informatica o più
semplicemente il “computer”. La strada più attuale da percorrere è quella di tipo scientifico
e sperimentale, una via che ci permetta di dimostrare e verificare concretamente il valore
educativo e formativo dell’esperienza musicale. gli effetti di un percorso di studi che includa
il musicale devono essere perciò verificabili: dal miglioramento della capacità d’ascolto,
all’ampliamento degli strumenti espressivi e cognitivi, ad una maggiore coscienza e
conoscenza di sé, alla possibilità non ultima di creare un pubblico per la musica e i musicisti
del futuro.
Suggestioni sonore
Il dialogo “con e” attraverso il “musicale” simboleggiato da un’antica fiaba italiana,
riportata da Italo Calvino nella sua celebre raccolta,17 quella di Giuseppe Ciufolo18 che se non
zappava suonava lo zufolo, dove il protagonista in seguito ad un’azione compassionevole
(quella di dare la giusta sepoltura ad un defunto):
«Zappava finché non era stanco, poi tirava fuor di tasca lo zufolo, e la zappa si metteva a zappare da
sé.»
L’immagine di un uomo descritto come lo «zappatore più felice del mondo», riporta la
funzione della musica alla sua origine, quella di scandire il ritmo delle nostre attività
quotidiane, quella di rallegrarci, quella di ampliare le nostre possibilità di percezione, di
comprensione e di farci magicamente penetrare l’intimo linguaggio delle cose e della natura.
Mozart trascrisse il Miserere di Allegri dopo averlo ascoltato una sola volta dai cantori della
Cappella Sistina. Anche noi possiamo immaginare di essere un po’ come Mozart, provando
ad ascoltare (tutto o in parte) Il Miserere di Allegri23 e proponendo una nostra trascrizione
“personale” dell’evento sonoro. Possiamo ricorrere al colore, ai grafici, a citazioni tratte dal
testo latino, a segni musicali inventati o a quelli che magari abbiamo appreso attraverso
corsi di studio più o meno ufficiali. Si tratta di un divertente “test d’ingresso” sul quale
valutare la nostra capacità di percezione e di rappresentazione musicale. Se l’esperienza
viene affrontata in gruppo, è molto utile un dettagliato lavoro di raffronto tra le partiture
ottenute (scelte grafiche, stile, impiego del colore...).
in Pinocchio ci sono degli inarrivabili momenti di polifonia, di orchestrazione di suoni, voci
e movimenti, che fanno direttamente pensare al teatro d’opera. Tutto questo potrebbe
diventare un divertente esperimento di sonorizzazione, con un preludio, un’attesa e un
crescendo per accumulo nel quale ad entrate successive utilizzare strumenti e voci per
realizzare il suono complessivo del Paese dei Balocchi. Se si lavora con una classe è bene
dividerla in gruppi “specializzati” (urlatori, voci recitanti, fischiatori…) e distribuirli nello
spazio come se si trattasse di un’orchestra sinfonica. La scelta dei ruoli deve avvenire anche
in rapporto alle abilità individuali. Alle voci recitanti si possono assegnare frasi tratte
direttamente dal brano affrontato, questa scelta aggiungerà all’insieme un’impressione di
maggiore unitarietà.
Il canto infantile Ah vous dirais je maman ha la proprietà del tutto particolare di attraversare
la storia del musicale. La sua versione ritmica italiana potrebbe per esempio essere:
Cara mamma ascolta un po’
Sette anni ancor non ho
Papà vuol che io ragioni
Come i grandi sapientoni
Ma io dico che i bonbon
Valgon mille e più lezion
Il messaggio è evidente e in un certo qual modo ci rimanda a Pinocchio e soprattutto a
Giannino Stoppani (Il Giornalino di Gian Burrasca), all’incapacità del mondo adulto di
parlare al bambino in modo adeguato, di non sapersi (e di non volersi) fare piccolo per
comunicare, cosa che invece la musica ha saputo (da sempre) fare in modo eccellente e del
tutto particolare. Da un’analisi musicale del testo Si può così affermare che il bambino cerca
di farsi melodicamente “grande” per essere compreso dai “grandi” e che i “grandi” devono
anch’essi imparare a scendere qualche gradino (non solo musicale) per farsi comprendere
dai bambini.
2. Le parole che raccontano il suono
Che cos’è la musica?
«La musica è l’arte di esprimere i sentimenti per mezzo dei suoni, la musica si divide in
vocale e strumentale», è la risposta di Giorgio Kastner, autore di un ottocentesco Metodo
elementare per clarinetto3. «La musica è il linguaggio più diretto dell’anima», così si legge in
un Compendio di storia delle belle arti databile verso la fine dell’ottocento.
Maurizio Della Casa, un valente pedagogista che si è attivamente occupato (tra l’altro) di
musica, non manca di ricordare, estendendo l’esperienza musicale al più vasto campo delle
arti, le valenze formative di queste ultime in relazione alla crescita educativa dei giovani:
«Attraverso l’esperienza artistica, sia di tipo produttivo che ricettivo, il soggetto affronta difatti
esperienze estetiche ed emotive insostituibili, che ne allargano l’orizzonte umano, aggiungendo
profondità alla sua vita. […] Le arti sono un modo di conoscere e rappresentarsi l’esperienza di tipo
soggettivo, immaginativo, emozionale, che è il necessario complemento della conoscenza oggettiva e
impersonale promossa dalle scienze.»
Dopo esserci chiesti che cosa è la musica, mi riporto al tema centrale del capitolo: le parole
che raccontano il suono. Posso tradurre l’ascolto per mezzo di software, gesti, con la danza
e i movimenti del corpo, posso rappresentare il suono ricorrendo al linguaggio grafico e
pittorico, alle immagini, alla cinematografia, ai mezzi audiovisivi…
Anche la scrittura musicale, con il suo linguaggio fortemente simbolico, non ci dice tutto,
allude e ci illude, perché va integrata dallo studio, da una “coscienza sonora”, dalla
contestualizzazione del documento sonoro, in pratica, dalla conoscenza di tutti quegli
elementi che non si possono trasmettere con la semplice scrittura.
La notazione musicale di tipo tradizionale, la cosiddetta partitura, è comunque un’ottima
“rete” per catturare, fissare e descrivere le esperienze sonore; ma come giustamente afferma
Jean During, non bisogna «reificare la musica riducendola alla forma, alla regola o alla
tecnica, ma apprenderla nella sua vita e nel suo movimento, che sono anche i caratteri
dell’anima».
L’autoinganno consiste quindi nell’aver confuso questo sistema di relazioni che ci vuole
avvicinare all’oggetto musica con la musica stessa e di conseguenza, in seguito, si è arrivati
a insegnare prima di tutto come si legge e si scrive la musica, anziché insegnare anzitutto
ad ascoltarla e a produrla: perché la musica è primariamente suono, essenzialmente suono
percepito e silenzi… silenzi talvolta più “sonori” e significanti del suono stesso.
Giorgio Kastner, autore di Metodo per Clarinetto, individua quattro parametri di
descrizione del suono:
o L’intonazione, cioè il grado di acutezza o di gravità.
o La durata, cioè lo spazio di tempo durante il quale si prolungano.
o L’intensità, cioè il grado di forza.
o Il timbro, cioè il carattere e la qualità.
Sono immediatamente evidenti termini e connotazioni descrittive presi in prestito da vari
ambiti di percezione.
Per intonazione s’intende quello che noi attualmente chiamiamo altezza del suono o
frequenza con riferimento all’acutezza, cioè a quanto un suono ci giunga aguzzo,
assottigliato, pungente, penetrante, aspro… e alla gravità, cioè a quanto un suono ci appaia
pesante, carico, profondo.
La durata si occupa studiare il suono in rapporto al suo prolungarsi nel tempo e ovviamente
dei rapporti tra lunghezze di suoni: se un suono sia più lungo o breve rispetto ad un altro e
se ci possa (debba) essere un’unità di misura in grado di organizzare e anche di regolare le
durate dei suoni e i loro rapporti.
Per l’intensità, definita comunemente “volume” e più propriamente “ampiezza”, è
interessante rilevare l’espressione “il grado di forza”, un’espressione che sembra andare
oltre il fatto di quantificare un suono misurandolo in decibel e sembra ricordarci qualcosa di
più profondo e da sempre legato agli effetti, alla “magia” del suono. Ci sono interpreti che
sanno produrre dei pianissimi di grande “intensità” o viceversa dei fortissimi privi di forza.
Se l’altezza ci spinge a collocare i suoni in uno spazio di tipo verticale, l’intensità sembra
fornirci indicazioni sulla prossimità o lontananza dei suoni, giocando ad esempio su ben
noti effetti di eco. Purtroppo bisogna dire che al momento attuale è uno dei parametri più
trascurati.
Il timbro è quasi sicuramente l’aspetto più ricco di fascino e quello per il quale gli aggettivi,
le immagini, le metafore, le iperboli, le perifrasi e addirittura figure retoriche come
l’antonomasia sono state utilizzate più che per gli altri parametri. Si ricorre al timbro quando
si descrive la voce di chi canta, il suono di uno strumento, il risultato complessivo di
un’esecuzione corale e orchestrale. Può essere considerato come una sorta di impronta
digitale sonora.
Riassumendo con le parole di John Cage i quattro parametri del suono sin qui trattati «la
posizione [nello spazio sonoro] di ciascun suono particolare è il risultato di cinque fattori
determinanti: frequenza o altezza; ampiezza e volume; spettro sonoro o timbro; durata; e
morfologia (che è il modo in cui il suono ha inizio, prosegue e cessa).»
Non si possono trascurare due elementi necessari a raccontare il suono, il silenzio e il
rumore. Il silenzio (che possiede soltanto la durata) è paragonabile ad un foglio bianco, ad
un “non suono” sul quale e attraverso il quale irrompe inatteso o voluto il suono. Non si
tratta di un silenzio come assenza assoluta di suono, ma piuttosto come di una modalità di
alternanza “ritmica” rispetto al suono. Lo stesso avviene per il suono, che in pratica è
un’onda: non esiste il silenzio assoluto, esiste un silenzio relativo, sufficientemente
“silenzio” da permettere al suono di manifestarsi e di assumere rilievo, di essere
distinguibile. Un altro elemento da considerare se si vuole raccontare il suono è il fatto di
poterlo distinguere da quello che suono non è: il rumore. Un tempo, tutti i manuali scolastici
di Educazione Musicale, iniziavano a parlare della musica e del suono come di un qualcosa
distinto dal rumore, avvalendosi della contrapposizione tra vibrazioni regolari e vibrazioni
irregolari o di criteri legati alla percezione e al loro effetto: il rumore è sgradevole, il suono
è gradevole. Da allora, ci si è gradualmente spostati verso una definizione di rumore come
“suono complesso”. Pierre Schaeffer parlava di rumore come «linguaggio delle cose». Il
futurista Luigi Russolo, ideatore e costruttore degli “intonarumori” affermava: «Il rumore,
infatti, non è altroché un suono ricchissimo di suoni armonici molto più forti e sensibili che non lo
siano nei suoni propriamente detti o adoperati». Resta inoltre da considerare che anche i suoni
degli strumenti musicali presentano in sé una piccola e costante percentuale di rumore,
senza il quale perderebbero quel quid che contribuisce ulteriormente a caratterizzarne il
timbro: si pensi alla presenza del soffio negli strumenti a fiato, allo sfregare dell’archetto di
violino.
Suggestioni sonore
Il racconto dell’arrivo al Paese dei Balocchi concentra la nostra attenzione sulla capacità
delle parole e del linguaggio (poetico, narrativo…) di raccontare il suono, di evocare
immagini e paesaggi sonori. Riuscire a raccontare il suono è una sfida interessante e porta
con sé anche la consapevolezza dei propri limiti. La musica, come il reale, è simultaneità di
eventi, conosce il gioco polifonico; elementi che la letteratura può solo simulare.
La musica è anzitutto esperienza d’ascolto e tale esperienza si fonda sulla sperimentazione
diretta. È quindi più importante imparare a costruire (magari in maniera non ortodossa)
una scala, suonarla ed interiorizzarne le caratteristiche, piuttosto che riempire decine di
fogli di simboli musicali senza comprenderne l’effettivo senso sonoro. Per gli intervalli vale
naturalmente lo stesso discorso.
Scale e intervalli non sono da considerare come un materiale teorico, “neutro”, ma nel loro
prodursi e risuonare, entrano in relazione con le nostre impressioni, emozioni e la nostra
memoria sonora e musicale.
Il gioco, l’esplorazione, la scoperta, la sperimentazione sono elementi essenziali del percorso
d’apprendimento e in particolare dell’apprendimento musicale, dove tutto ciò che è stato in
qualche modo teorizzato, discende dall’esperienza pratica e da una secolare, direi
artigianale riflessione sulle impressioni d’ascolto.
Nella musica, come in altre discipline, bisogna imparare a trasformare i propri strumenti
d’osservazione e spesso ci viene richiesto di abbandonare gli stereotipi, i pregiudizi
cognitivi. Così possiamo scoprire che il bianco e nero della tastiera di un pianoforte è
relativo e non ci deve intimidire o che non basta affermare che la musica è un linguaggio se
non comprendiamo le differenze, le caratteristiche più peculiari di questo linguaggio, come
ad esempio le considerazioni sul rapporto sincronia/diacronia a proposito dei paesaggi
sonori citati in letteratura.
Tutti sapranno (più o meno) che il nostro sistema di notazione musicale e soprattutto il
nome delle note musicali è dovuto a Guido d’Arezzo (992 c.ca - 1050). Comparando la
notazione alfabetica con quella guidoniana, si può creare un divertente schema per fare
musica con le parole e conoscere così il tema melodico del proprio nome o di qualsiasi altra
parola. È un espediente che i compositori hanno impiegato, soprattutto in relazione al nome
di Bach, come doveroso atto di “devozione” alla sua grandezza.
Così, se vogliamo conoscere la melodia della parola “musica”, non ci resta che osservare le
corrispondenze: M > Re; U > Mi; S > Do…ecc. Tenendo conto del fatto che le note possono
essere disposte in altezza e “alterate” a piacere.
Nel capitolo abbiamo accennato alla capacità tutta particolare dell’orecchio nel riconoscere
il timbro del suono, una capacità al contempo sintetica e analitica. È per questo motivo che,
ad esempio, possiamo facilmente riconoscere le voci degli amici o delle persone care al
telefono, anche se il semplice altoparlante del ricevitore non restituisce all’ascolto che
un’immagine sonora impoverita di quelle voci e di quei timbri, giacché è in grado di farci
ascoltare una piccola porzione delle frequenze del suono “originale”. Questo dimostra che,
anche ricevendo delle informazioni parziali, siamo in grado di ricostruire sulla base della
nostra memoria timbrica lo spettro sonoro complessivo del suono che stiamo ascoltando e
pertanto, come affermava Leibniz, siamo in grado di “elaborare ordinatamente” le
informazioni acustiche che pervengono al nostro orecchio.
3. Il ritmo
Col termine ritmo, si definiscono musicalmente una serie di fenomeni che costituiscono una
realtà complessa. Il ritmo può essere una successione di suoni, la definizione-descrizione
degli eventi sonori in rapporto alla durata, la successione regolare di unità metriche
uniformi, la scansione di accenti più o meno regolari, quel “qualcosa” che dà slancio ad un
brano musicale e ne organizza la forma, ma in senso lato si parla anche di ritmo cardiaco,
narrativo, cinematografico, architettonico, di gioco, del ritmo del succedersi delle stagioni,
delle nostre emozioni interiori.
Orff afferma:
«Insegnare il ritmo è difficile. Il ritmo si può solo liberare, sprigionare... Ritmo non è
un’entità astratta, ritmo è la vita stessa, il ritmo agisce e provoca, è la forza che unisce
linguaggio, musica e movimento».
Nella moderna didattica il termine pulsazione indica il “cuore” interno della creazione
musicale, un cuore interno che per la “musica classica” batte quasi sempre con discrezione
e va individuato con una certa attenzione, mentre per altri generi musicali è evidenziato
dalla presenza delle percussioni: basti pensare al ruolo della grancassa in una marcia
militare o alla presenza della batteria nelle musiche di più largo consumo. Anche noi,
quando ascoltiamo una musica swing o una musica ballabile diventiamo rilevatori di
pulsazioni: col battito del piede, col dondolio, coi gesti del corpo…
Generalmente per indicare la pulsazione si utilizza il segno ♩, la figura denominata
comunemente semiminima (ma anche nera o quarto) e le si attribuisce un valore unitario,
diversamente dalla pratica che introduce tutta una serie di numeri frazionari (nel caso della
semiminima 1/4 rispetto ad un intero, 4/4 rappresentato dalla semibreve). Il ricorrere ai numeri
frazionari, anche se in pratica rappresenta i rapporti tra l’intero e le sue possibili
suddivisioni, non può aiutare nella comprensione un bambino di sei o sette anni (che non
ne ha ancora affrontato lo studio) ma nemmeno può essere così chiara ed evidente ad un
adulto.
Una successione di pulsazioni regolari si diversifica e si caratterizza in rapporto alla velocità
(frequenza delle pulsazioni) e alla misura. Per comprendere cosa sia la velocità basta far
riferimento alle indicazioni agogiche che si trovano all’inizio di ogni partitura musicale.
Quindi, quando troviamo termini come largo, adagio, andante, allegro, prestissimo…ecc. questi
termini si riferiscono alla velocità, alla frequenza della pulsazione del brano in questione,
così come le indicazioni metronomiche (ad es. ♩ = 60) che indicano con maggiore precisione
quante pulsazioni al minuto dobbiamo calcolare.
Naturalmente l’andamento melodico di un brano musicale ha un suo “profilo ritmico” che
spesso non coincide con la pulsazione. Difficilmente troveremo una melodia costruita
esclusivamente da una successione regolare di pulsazioni. Nel caso specifico della melodia,
è utile parlare di “profilo ritmico della melodia” o meloritmo, un ritmo costituito peraltro da
valori di durata che possono coincidere con la pulsazione o possono essere di maggiore o
minore durata. Accanto al meloritmo possiamo rilevare anche un profilo ritmico
dell’accompagnamento o della parte armonica (nel caso ad es. di una canzone), un profilo
ritmico delle voci che contrappuntano la melodia o il tema principale e anche, nei casi in cui
venga utilizzata, un profilo ritmico della sezione percussiva.
Uno degli obiettivi immediati sarà quindi quello di imparare a riconoscere la pulsazione
all’interno di un brano musicale, anche per quei brani musicali dove la stessa non è
evidenziata da nessun tipo di strumento a percussione e successivamente di comprendere
le differenze tra meloritmo e pulsazione “di fondo”.
Il noto “one, two, three, four…” a volte precede l’attacco dei brani dove la pulsazione si
predispone a formare successioni di misure di tipo quaternario. Da punto di vista percettivo,
anche quando ascoltiamo una sorgente d’impulsi regolari, come il canto dei grilli, delle
cicale o il ritmo meccanico del treno, tendiamo istintivamente a raggruppare questi impulsi
a due a due o a tre a tre… Con battere ci riferiamo a pulsazioni accentate, con levare a
pulsazioni non accentate. Tra i due aspetti qualitativi della pulsazione (battere e levare) si
stabilisce un rapporto di “circolarità virtuosa”: se il battere è paragonabile ad uno stato di
riposo, appoggio…il levare è lo slancio che si realizza nel battere e il battere (che non è
statico) contiene in sé i “germi” del successivo levare.
Per orientarci nel ritmo di tipo musicale, bisogna quindi familiarizzarsi inizialmente con i
tre principali elementi costitutivi del ritmo: pulsazione, velocità e misura, ossia il parametro
PVM, attraverso un ascolto sempre più cosciente, attraverso l’analisi dei testi musicali e la
pratica musicale stessa. Quando apprendiamo una nozione, come il parametro PVM di
comprensione e descrizione del ritmo al quale ho appena accennato, dobbiamo esercitarci
ad applicarlo ad ogni nostro ascolto, ad ogni occasione.
Ma torniamo al nostro “ritmo” e in particolare alla suggestiva definizione di Orff: «la forza
che unisce linguaggio, musica e movimento.» Sull’unione di musica e movimento25, siamo
tutti d’accordo, basta pensare alla danza, al gesto di un direttore d’orchestra, al movimento
necessario per produrre i suoni da un qualsiasi strumento, fino al movimento di tipo
psicologico, emozionale che l’ascolto di determinata musica può provocare nell’uomo. È
riferendosi a questo aspetto ed estendendone il senso che Aristotele affermava: «Le
emozioni prodotte dall’audizione musicale ci conducono all’azione: ora le azioni sono una
manifestazione dello stato morale.»
Sul linguaggio, è necessaria qualche considerazione in più. Se recitiamo o declamiamo una
filastrocca, un proverbio popolare o il testo della maggior parte dei canti infantili ci
accorgiamo che il testo s’inserisce o meglio è generato da uno schema metrico, che le parole
sono scandite da accenti tonici che si traducono nella durata maggiore di determinate vocali
rispetto alle altre o in un accento dinamico.
Numerosi sono gli elementi che permettono di stabilire connessioni e analogie tra la musica
e il linguaggio, poiché:
«il linguaggio verbale ha come suoni i fonemi di cui gli elementi melodici sono le vocali e
gli elementi ritmici le consonanti (si badi bene non gli accenti). Nel linguaggio verbale gli
accenti configurano, come nella musica, la metrica, che potrà essere più o meno regolare a
seconda che si tratti di poesia classica, a verso regola re, o moderna, a verso libero, o di
prosa. Il linguaggio parlato segue una parabola espressiva come la frase musicale e una
stessa parola riceve un diverso significato secondo l’intonazione musicale che noi le
attribuiamo parlando (si provi a dire, ad es.: qualunque cosa farei per te - oppure - quella è
una donna qualunque)»
Le analogie tra linguaggio musicale e linguaggio verbale, mostrano un’evidente origine
comune e la loro separazione e/o confluenza successiva in forme e linguaggi che rivelano
forti richiami verso l’uno o l’altro versante. Possediamo così da un lato la tradizione della
poesia generata dalla metrica e dall’altra una tradizione di musica strumentale (in origine
soprattutto la musica per danza) generata a partire da misure prestabilite e da un sistema di
accentuazione delle pulsazioni regolare. Nella poesia, molto più di quanto accade nella
prosa, la successione delle parole obbedisce ad un criterio ritmico.
Dopo un’introduzione alla comprensione degli elementi costitutivi del ritmo, il passo
successivo è quello di apprendere, riconoscere e utilizzare le “cellule ritmiche”, cioè le
possibili suddivisioni (ma anche multipli) dell’unità di misura ritmica, la pulsazione. Le
cellule ritmiche, così come i suoni che possono realizzare una melodia, si possono combinare
tra loro in una serie infinita di possibilità. Una volta raggiunta una buona padronanza in
relazione a quello che abbiamo descritto come parametro PVM, il problema successivo è
quello della lettura melodica (il solfeggio cantato…).
Torniamo ora alle considerazioni iniziali sui significati del termine ritmo e proviamo ad
osservare come il ritmo sia essenziale e premessa indispensabile di ogni attività umana.
Questo ci porterà a meglio comprendere la portata e gli effetti di una buona educazione
ritmica:
a) ordina i concetti della mente, e crea la logica
b) ordina gli atti della volontà, e crea la morale
c) ordina le parole, e crea l’eloquenza e la poesia
d) ordina i movimenti del corpo, e crea la danza e la mimica
e) ordina i suoni, e crea la musica
f) ordina tutta la materia “inerte”, e crea le arti, e la meccanica
g) ordina le ricerche sui fenomeni della natura, e crea le diverse scienze
Suggestioni sonore
Non manca mai, ad ogni concerto di Capodanno viennese (trasmesso in diretta anche dalle
reti televisive nazionali), l’occasione per ascoltare la celeberrima Marcia di Radetzky di
Johann Strauss Sr. (1804-1849), magari come bis. In quell’occasione assistiamo ad un
pubblico che con estrema precisione e concentrazione partecipa all’esecuzione
sottolineando col battito delle mani la pulsazione ritmica. Possiamo provare lo stesso tipo
di esperienza: questo ci permetterà di iniziare ad “afferrare” il concetto di pulsazione
ritmica. In un primo tempo possiamo seguire tutta la Marcia da cima a fondo scandendo le
pulsazioni, poi possiamo seguire (come fa il pubblico viennese) le dinamiche del brano,
diminuendo al momento opportuno il volume del battito delle mani o introducendo dei
momenti si silenzio.
Quali sono le prime esperienze acustiche incontrate dall’essere umano? La voce della madre,
i ritmi cardiaci, tutto quello che avviene all’interno del grembo materno, i suoni filtrati
(attraverso il liquido amniotico) che ci giungono dall’ambiente esterno. Non fanno parte
della nostra memoria immediata, ma sono profondamente scritti nella nostra esperienza,
nel nostro vissuto. Un battito cardiaco profondo come un timpano, il respiro, miriadi di
timbri e di suoni interni, l’esterno che ci arriva attraverso dei segnali che anche l’interno
partecipa e legge.
La musica, come organizzazione di ritmi e di suoni è quindi a buon diritto una “lingua
materna” e anche per i bambini si parla (non a caso) della necessità di educarli alla
madrelingua musicale.
Allora viene da chiedersi: se la musica ha una natura e un’origine così spiccatamente
femminile, perché la storia della musica conosce così pochi esempi di donne compositrici,
un po’ più di donne interpreti musicali e quasi nulla per alcune professioni, come ad
esempio il direttore d’orchestra?
Ci sono evidentemente delle ragioni di tipo sociale, per cui gli esempi sono pochi, ma è da
rilevare anche il fatto che per noi la storia è anzitutto storia di documenti scritti e da poco
tempo si studia anche quello che non si può trovare sui libri o come disse una volta Pasolini
a Giovanna Marini: «Le canzoni non si trovano sui libri». Ninne nanne, canti di lavoro, canti
di risaia, filastrocche improvvisate, inni sacri, canti processionali, fino a non molto tempo fa
scarsamente documentati, tutta musica alla quale il femminile ha partecipato attivamente e
fattivamente. Tutto non scritto, come i suoni che si percepiscono prima della nascita.
4. Linea melodica e trama armonica
Dopo aver raccontato il suono e introdotto il complesso argomento del ritmo, parliamo ora
di due tra gli argomenti più noti del linguaggio musicale: la melodia e l’armonia. Quando
si affrontano le moderne partiture di musica leggera, due sono gli elementi riportati: la
melodia scritta sul pentagramma e la parte armonica (l’accompagnamento), espressa
tramite gli accordi siglati. Si osserva così, che la melodia è posta in primo piano e la parte
armonica appare come una specie di complemento.
Abbiamo già visto come la melodia sia una “successione di suoni di diversa altezza”, quello
che in genere cantiamo (e ricordiamo meglio) è la parte che si impone alla nostra attenzione:
la melodia del ritornello che, nel caso di una canzone, si unisce alle parole. Non c’è quasi
traccia di uno specifico corso sull’arte di comporre o inventare melodie. Molti compositori
e soprattutto gli autori di canzoni (sempre, per così dire, a caccia di belle melodie),
affermano che le canzoni sono “nell’aria” e sta a noi captarle o meglio “catturarle”
concentrando la nostra attenzione. Forse, la capacità di comporre raffinate melodie che
hanno dimostrato persone prive di conoscenze specifiche (tecniche) in campo musicale,
depone a vantaggio di questa teoria e, tanto per citare due esempi, penso a Totò di
Malafemmena o alle melodie che Chaplin ha composto per Luci della ribalta. Entrambi
cantavano o fischiettavano la musica e qualcuno la annotava per loro, eppure se ascoltiamo
i brani citati, siamo pronti a riconoscerli come esempi di purissima liricità.
Secondo un metodo di analisi che accosta l’analisi musicale all’analisi delle strutture
linguistiche (l’analisi del periodo), più motivi in successione danno origine ad una frase
(divisibile in due semifrasi: antecedente e conseguente) e due frasi danno origine ad un
periodo. Da un punto di vista prettamente scolastico, si è affermata la tendenza a definire
come “regolari” i periodi formati da otto misure o battute, di conseguenza, ogni semifrase
dovrebbe corrispondere a due misure e ogni frase a quattro (ciononostante le eccezioni sono
innumerevoli). Tale esigenza di simmetria, di derivazione classica, continua ancor oggi a
determinare le strutture melodiche della canzone e le melodie di ispirazione jazzistica.
Se il germe dell’idea musicale è indicato come motivo, l’unità musicale minima possibile è
così costituita da una successione di due suoni distinti (anche della stessa altezza), di
conseguenza «due o più note possono formare il nucleo melodico dal quale prende forma il
contenuto principale di un’intera composizione e dal quale deriva l’armonia», ma «anche
una sola nota con l’implicazione delle dinamiche e del timbro può servire da spunto.» Un
ulteriore aspetto contenuto nella rappresentazione del linguaggio musicale come linea
melodica e trama armonica è quello del “tema”, che come il tema o l’argomento di un
discorso o di una conferenza è «il pensiero, l’idea, da cui scaturisce in tutto o in parte una
composizione.».
Nello schema ho indicato i “motivi” successivi al primo in corsivo, perché normalmente un
periodo musicale non si costruisce soltanto con la ripetizione letterale dell’idea generatrice,
ma il motivo può essere variato, trasformato o ne vengono introdotti di completamente
nuovi, stabilendo una relazione che comprende molteplici possibilità di percorso.
Ben inteso si tratta di uno schema, utile per darci delle indicazioni e un primo modello di
analisi, ma le possibili eccezioni sono numerose e non sempre le melodie corrispondono ad
un ideale di simmetria.
Con il termine modo in genere non si indica soltanto una scala, ma anche e soprattutto un
particolare tipo melodico, talvolta una melodia legata a quel modo.
La musica tradizionale è prevalentemente modale e il concetto dominante, per questo tipo
di musica, è quello di funzionalità: prima è utile poi… è bella. ci troviamo così di fronte ad
una pratica musicale dove la partecipazione di chi ascolta è sempre attiva: il pubblico
partecipa ad un'azione che ha sempre una direzione, un senso e può partecipare con ogni
mezzo a disposizione (il ballo, il canto, la partecipazione “drammatica” e il coinvolgimento
emozionale).
Veniamo ora alle differenze principali tra la tonalità (la musica fondata sull’armonia) e la
modalità (la musica fondata sulla melodia).
 La tonalità è basata su un ciclo di tre accordi consecutivi (tonica, dominante e
sottodominante) formati di terze e quinte uguali, la modalità è invece basata sulla
melodia.
 La tonalità ha base armonica dalla quale scaturisce la melodia, la modalità ha base
melodica che include l'armonia, ma non ha esplicito bisogno di accordi espressi
perché sussista.
 Nella tonalità la melodia è implicita ma non è necessario che sia espressa affinché la
stessa sussista. Viceversa: la modalità risulta da suoni regolati in forma orizzontale e
l’armonia è implicita: ma non è necessario che sia espressa affinché sussista la
modalità.
 La tonalità ha come punto fisso una terza maggiore (per le scale maggiori) ed una
terza minore (per le scale minori), entrambi situati sul terzo grado della scala,
denominato per questo motivo “mediante o caratteristica”. La modalità (intesa in
senso gregoriano) non ha questa particolare relazione col terzo grado della scala.
 La tonalità è maggiormente libera nelle formule melodiche, la modalità presenta
spesso delle formule melodiche ricorrenti, soprattutto per le cadenze (la parte
conclusiva di una melodia).
 La tonalità costruisce il brano senza la necessità di relazionare i propri gradi melodici
sulla tonica, la modalità non può mai prescindere e sganciarsi dalla tonica.
In molti brani di musica tonale (ed è l’aspetto più conosciuto) il suono della tonica è
acusticamente presente accanto alla melodia, con un procedimento denominato “bordone”.
Un esempio comune è quello praticato in genere dalle zampogne.
Tra le caratteristiche che differenziano la musica modale rispetto alla musica tonale (che
comunque da essa discende) ricordiamo la contrapposizione tra monodia (canto con una
sola voce) e polifonia (l’unione di più voci, ognuna con un proprio profilo melodico).
Il primo saggio a carattere scientifico sulla natura dell’armonia e sulle cui basi poggeranno
le esperienze e le ricerche successive è il Traité de l’armonie re duite à ses principes naturels
(1722) ad opera del compositore Jean-Philippe Rameau. L’armonia è lo studio della
simultaneità dei suoni, del loro comportamento e delle loro proprietà specifiche.
Tradizionalmente si studia a partire dall’accordo, definendolo come simultaneità di due o
più suoni. Si parte dallo studio degli intervalli e successivamente da quello delle triadi (tre
suoni simultanei a distanza di terza) che si possono costruire sulle scale, in particolare la
scala maggiore e la scala minore.
Dall’articolazione delle funzioni di riposo (triade tonica), slancio (triade sottodominante) e
spinta (triade dominante) nelle varie combinazioni, nasce il “ritmo armonico” di una
composizione musicale, ritmo che si aggiunge a tutte le componenti ritmiche fin qui
considerate come un’ulteriore possibilità espressiva e “intensiva” del linguaggio musicale.
Suggestioni sonore
Riconosciamo almeno tre modelli di scala minore: quella “naturale” (in pratica l’antico
modo eolio), l’armonica (dove il settimo grado è innalzato, ad imitazione della sensibile, il
grado “parallelo” della scala maggiore), quella melodica (dove ad essere innalzato è anche
il sesto grado.
Uno degli ascolti più idonei, a farci comprendere la differenza (o magari l’opposizione) tra
maggiore e minore, è il terzo movimento (Fierlich und Gemessen) della Sinfonia n° 1 in Re
minore di Gustav Mahler (1860-1911). Se ascoltiamo bene l’esposizione del tema iniziale, dal
profilo ritmico e dall’uso del canone, riconosciamo qualcosa di familiare, fin dalla nostra
prima infanzia. Si tratta di Fra’ Martino, ma non nella versione un po’ irriverente e
scanzonata che tutti conosciamo, perché Mahler l’ha trasformato trasferendolo appunto in
una “dimensione parallela”, quella del minore, conferendogli un carattere totalmente
differente. In vita Mahler ebbe un enorme successo come direttore d’orchestra, ma la sua
musica non ebbe altrettanta comprensione. Il suo successo, nel senso di un riconoscimento
generale, arriverà molto tardi e per il grande pubblico, soprattutto quando la sua musica
farà da colonna sonora al film Morte a Venezia, di Luchino Visconti. Mahler quando
componeva utilizzava un linguaggio anticipatamente cinematografico e nella sua musica si
riconoscono elementi di flashback, dissolvenze incrociate, tecniche di “montaggio
alternato”. È un po’ come se avesse parlato una lingua ancora da venire, una lingua che ora,
grazie al cinema, possiamo comprendere in tutta la sua pienezza espressiva e in tutta la sua
efficacia.
5. Variazioni
Quando si tratta di proteggere i diritti di un brano musicale, con l’atto di depositarlo presso
un ente competente (una sorta di “ufficio brevetti” per le idee musicali) ciò che viene tutelata
è in primis l’idea melodica e l’assoluta originalità di quella determinata idea rispetto ad altre.
Eppure se l’analizziamo bene, questa idea melodica originale si sviluppa (come abbiamo già
visto) su una trama armonica predefinita e ricorrente anche per altre melodie, utilizza cellule
ritmiche comuni ad altri temi musicali, modi e scale con formule ricorrenti di apertura, di
“punteggiatura” e di chiusura.
Ora, da un lato c’è chi cerca l’originalità e la tutela della melodia, dall’altro ci sono pratiche
musicali e correnti di pensiero (anche nella musica “colta”) che privilegiano la ripetizione o
amano lavorare anche su materiali melodici “non originali” e preesistenti (la maggior parte
della produzione musicale, come vedremo oltre, comprende questi aspetti). Ci sono anche
“poetiche” legate alla musica tradizionale che apprezzano, rispetto all’originalità
dell’invenzione melodica, la capacità dell’interprete di infondere vita, di animare un
materiale melodico che appartiene alla tradizione; in questo caso più che cercare “la novità”,
si tratta di rinnovare l’esistente e farcelo ascoltare con lo stesso stupore del nuovo. Ad ogni
modo, ogni evento musicale (originale o preesistente) è in qualche modo organizzato ed è
costituito, come suggerisce Shönberg, da elementi che funzionano come quelli di un
«organismo vivente» e in quanto tale è di conseguenza dotato di una forma e di una
struttura. Nel caso della musica, arte del tempo che si esprime nel divenire, questa forma
non è “statica” come nel caso delle arti figurative o dell’architettura, ma è in movimento e
sottoposta a mutamenti e appunto “variazioni”.
Perciò ogni osservazione sulla forma musicale non si deve limitare all’analisi di
un’eventuale partitura (anatomia) ma deve essere in grado di cogliere, descrivere e
“appercepire” il manifestarsi della forma nel suo divenire (fisiologia dinamica).
Quest’ultimo aspetto, presuppone che il soggetto ascoltante o agente (nel caso
dell’esecutore) si ponga al centro di un tempo presente che si sposta continuamente, e che
si pone via via in relazione con ciò che è avvenuto (memoria) e con ciò che sta per avvenire
(attesa).
Il modo più semplice e comune di generare una forma musicale è quella di ripetere più volte
uno stesso periodo (A - A - A - …): si tratta della forma di “canzone o inno a strofe uguali”
che nella musica popolare caratterizza particolarmente il canto a carattere narrativo. Forse,
soprattutto nel caso dell’inno a strofe uguali, il materiale musicale è per così dire
immutabile, ma possono mutare l’atteggiamento di chi partecipa, le occasioni e l’ambiente
esterno. Bisogna in ogni caso rilevare che, anche in condizioni ottimali e anche se
l’intenzione è programmatica, è pressoché impossibile che un esecutore ripeta una sequenza
musicale esattamente nello stesso modo. È altresì possibile variare la ripetizione dei periodi
(A - A' - A'' - A'''…ecc.), cosa che avviene in tutte le forme della variazione, compreso il vero
e proprio “tema con variazioni”.
In effetti, qualsiasi mutazione, modificazione del tessuto musicale, vuoi di una melodia, di
una successione di accordi, di uno schema ritmico o della possibilità di organizzare questi
elementi, può essere considerata una variazione, così da poter considerare la variazione come
il fondamento di tutte (o quasi) le forme e le condotte musicali.
La variazione ha la proprietà di «mettere alla prova le potenzialità del materiale sonoro» e di
farne “sbocciare” tutte le possibilità. Per percorrere questi sentieri bisogna anche
sperimentarsi attraverso la pratica improvvisativa, una pratica da sempre riconosciuta in
tutte le culture e trascurata nella formazione attuale dei musicisti a causa di spinte
premature nella programmazione didattica verso la specializzazione. In questa direzione si
avvertono in ogni caso segnali di ripresa e un’attenzione maggiore nella formazione dei
futuri musicisti ed esecutori, con l’introduzione nei Conservatori di corsi sperimentali
dedicati all’improvvisazione e l’impiego sempre maggiore della stessa anche nelle
esperienze di tipo scolastico. Lo studio dell’improvvisazione musicale è l’acquisizione di un
linguaggio che si controlla e progetta in tempo reale, uno studio che ci mette in una relazione
“vivente” con la musica intesa come “pensiero del divenire”.
Abitualmente se dobbiamo associare l’improvvisazione ad un genere musicale, lo facciamo
in rapporto a generi e filoni musicali come il jazz, il rock e più recentemente alla musica
etnica (meglio definibile come musica di tipo tradizionale). Un’indagine più approfondita,
ci porterà a scoprire che ad esempio molti dei grandi virtuosi del ‘700 e dell’800, erano in
grado di improvvisare per tutta la durata di un concerto, così un eccelso organista come
Bach, violinisti come Corelli, Vivaldi, Paganini, virtuosi del pianoforte come Chopin e Listz.
La pratica dell’imitazione tra le voci è un elemento di coesione e unitarietà, è tipica nel
canone (in cui due o più voci o parti strumentali eseguono una stessa linea melodica,
principiando l'una dopo l'altra a dati intervalli di tempo). Possiamo quindi definire
l’imitazione come una possibilità di variazione percettiva e strutturale. Una variante
dell’imitazione riguarda le possibilità di modificazione ritmica e consiste nell’aumentazione e
nella diminuzione del valore delle note.
Siamo partiti dalle parole che ci aiutano a raccontare il suono e ci indirizzano gradualmente
a percepirlo e finalmente ad ascoltarlo come qualcosa di sempre più concreto. Abbiamo
visto quello che è da sempre considerato l’elemento essenziale, l’anima del linguaggio
musicale: il ritmo. Abbiamo osservato la musica come coesistenza e intreccio di melodia e
armonia e osservando più da vicino la struttura dinamica delle composizioni e del
manifestarsi della musica, abbiamo considerato la forte valenza del fattore “variazione”,
considerando anche la polifonia come una modalità a più dimensioni della variazione,
dimensioni a loro volta acustiche, descrittive, emotive, psicologiche e spirituali.
Suggestioni sonore
Osserviamo il canto infantile Sette sorelle. Si tratta di una forma musicale classificata dagli
studiosi come ballata, un canto strofico a carattere narrativo e spesso con contenuti epicolirici. Si tratta di una forma musicale dove l’interesse del testo prevale sul contenuto
melodico e, apparentemente, ci si trova solitamente di fronte alla forma già descritta di pura
e semplice ripetizione (A - A - A - …). Se però si osserva (e ascolta) attentamente si può
notare che alcune piccole asimmetrie del testo poetico generano degli adattamenti nel
materiale ritmico e melodico, provocando, in questo modo, alcune naturali e spontanee
“microvariazioni”. Alle variazioni di tipo musicale si aggiungono le variazioni di tipo
affettivo suggerite dal testo e quelle di tipo immaginativo suggerite dalle situazioni evocate.