LUNEDÌ 2 OTTOBRE
Il primo esempio di dizionario (trilingue da genovese, latino e cumano) è nato in una zona molto
complessa, nel Mar Nero, durante la prima metà del XIV secolo.
Ci occuperemo delle fonti documentarie e della loro possibile utilizzazione ai fini della ricostruzione storica,
poiché i documenti ci consentono di avvicinarci a questo tipo di ricostruzione che mira non solo alle date,
ma anche alla ricostruzione in ambito sociale, che è del tutto assente. Precedentemente, per storia o
scrittura storica si intendeva qualcosa di diverso, di fatto da Erodoto fino al XVIII secolo tale concetto è a
sé. La storia non è una disciplina di tipo scientifico, come oggi viene definita, ma è la fonte più alta di
letteratura a cui si sono dedicati i grandi. In quell’epoca scrivevano infatti di ciò che hanno visto e vissuto.
Si parla dunque di racconti autoctici (raccontano quindi ciò che hanno visto) ed alcuni esempi sono
riconducibili a Senofonte e Giulio Cesare che raccontano il loro tempo e le loro esperienze. Si tratta di
scritture influenzate dalle loro idee, dalla loro personalità e soprattutto dalla loro convenienza politica (è
importante oggi studiare il documento “con un filtro”). Siamo davanti ad un concetto di storia dove è
assente il racconto oggettivo, poiché chi scrive, lo fa per i suoi interessi per lo più di tipo politico. Ad
esempio, Giulio Cesare tende a presentare i Galli come aggressori, invece che sé stesso come invasore della
Gallia con un motivo ben preciso. La Gallia era un territorio vasto e ricco, soprattutto ricco di oro e Cesare
aveva un sacco di debiti.
Senofonte racconta mettendosi in prima fila, è l’eroe che deve tornare dalla Mesopotamia, di fatto salva
tutti. È un aristocratico conservatore, di filo spartano, per cui Pericle e gli altri politici democratici ateniesi
sono dei “disgraziati” che hanno trascinato Atene nel disastro, perché hanno messo le premesse della
guerra con Sparta. Senofonte è un amico di Platone e di tutti quei circoli conservatori a filo spartani che poi
prendono il potere quando la guerra conduce al disastro della democrazia ateniese. Anche lui scrive la sua
opera con un fine preciso, ci racconta tutto quello che è successo, ma non lo mette in una determinata
prospettiva che serve anche a giustificare quello che avviene dopo, cioè la presa del potere da parte dei
suoi amiconi, i 30 tiranni.
Cosa accade se la storia viene raccontata direttamente dalla persona interessata? Pensiamo al caso delle
prime grandi cronache catalane, i cui autori sono in due casi direttamente interessate: Giacomo il Grande e
Pietro il cerimonioso scrivono due delle quattro grandi cronache catalane; in questo determinato periodo vi
è la grande riscoperta della cultura catalana, vengono quindi esaltate in modo enfatico, definite nei quattro
Vangeli della lingua catalana. E gli altri due cronisti, ovvero due nobili di medio livello, fedelissimi alla
corona scrivono invece nell'intento di esaltare il ruolo della corona d'Aragona, oltre allo stesso sovrano.
Torniamo sempre allo stesso punto, cioè c'è sempre un punto di vista di cui tenere conto quando si
utilizzano questi documenti.
Si scrive a mano, dunque esistono gli amanuensi che copiano: è una preghiera, in quanto ha compiuto una
fatica nel copiare un determinato testo, per renderlo disponibile alla lettura di altri.
La storia viene vista come un esercizio letterario e viene scritta con un linguaggio appropriato, alto, ovvero
quello del greco antico (stile di Senofonte) o il latino (almeno fino al ‘300).
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A Bisanzio il greco si continua a parlare, c’è una forte conoscenza della lingua antica; dunque, si presuppone
l'uso del greco. Diversa la situazione in Occidente, dove poi il latino cessa di essere una lingua parlata
comunemente, probabilmente intorno al VII-VIII secolo.
Tutti i testi antichi furono soggetti a un processo di traduzione e ritraduzione, perché molti degli originali
greci vennero tradotti in arabo e dall’arabo in latino. Questo perché gli arabi hanno conquistato un'ampia
parte di mondo ellenizzato, la Siria, l'Egitto, parte del Nord Africa, oltre ad aver sempre avuto una
grandissima passione per la cultura greca, soprattutto per la parte scientifica.
La penisola iberica diventa canale attraverso il quale i testi degli intellettuali greci, soprattutto dei filosofi,
“rientrano” in Europa.
Nel 400 invece ci si troverà di fronte ai testi originali e dunque questo provocherà un autentico terremoto
da un punto di vista culturale, una grande riscoperta.
Nel corso del Medioevo, il confine tra l'antichità e il medioevo è difficile da stabilire e la data convenzionale
di inizio del medioevo è il 476 d.C. Il passaggio culturale, linguistico e sociale dall'antichità al medioevo è
descritto come un lento svanire delle istituzioni romane, culminando nell'VIII secolo. In particolare, in Italia,
il cambiamento avviene alla fine del VI secolo con l'invasione longobarda, che sovverte le strutture sociali
ed economiche dell'antico mondo romano. Allo stesso modo, l'espansione carolingia in Europa porta a un
cambiamento delle élite di governo, portando alla scomparsa delle grandi famiglie aristocratiche.
La difficoltà nel risalire a documenti più antichi è dovuta alle importanti cesure linguistiche che hanno
portato alla perdita di una lingua comune. In Occidente, si sono sviluppate diverse lingue nazionali,
separate dalla lingua dell'amministrazione e dell'impero che le ha in qualche modo soppiantate. Di
conseguenza, la popolazione ha continuato a utilizzare i propri dialetti, che derivano dalla lingua latina
originaria. Questi dialetti, principalmente lingue neolatine con variazioni locali, hanno richiesto del tempo
prima di essere codificati come lingue scritte, indicando così la loro stabilità grafica e grammaticale. Solo a
partire dall'IX-X secolo queste lingue hanno cominciato ad apparire come lingue scritte stabilite, segnalando
una fase di canonizzazione linguistica. Queste lingue sono rimaste in una fase fluida per diversi secoli, ma
nel primo Medioevo alcune di esse hanno iniziato a emergere come lingue scritte, soprattutto in regioni
periferiche e culturalmente distanti dal cuore dell'impero, dove le tradizioni locali erano più forti. Un
esempio significativo è rappresentato dalla lingua utilizzata per scrivere le leggi, soprattutto nelle regioni
più remote. Nel regno di Wessex sotto il regno di Alfredo il Grande, ad esempio, le leggi sono state scritte in
anglosassone, una lingua che ha anticipato l'affermazione delle lingue nazionali, anche se successivamente
è stata soppiantata dal franco-normanno.
Nella fase tardo imperiale di Roma assistiamo poi al fenomeno di graffiti e iscrizioni, come a Pompei, sui cui
muri si sono conservati graffiti, incisioni (nel periodo dell’eruttazione del Vesuvio, si stavano preparando le
elezioni per le cariche amministrative locali, dunque ci hanno restituito una grande quantità di scritte
elettorali) ed epigrafe su pietra.
Nel caso dell’iscrizione dedicatoria, invece, vengono realizzate con lettere di bronzo che vengono applicate
sul fondo marmoreo. I resti delle lettere di bronzo che ad oggi non troviamo, sono state prese e fuse
nuovamente per poter essere riutilizzate per altri scopi.
Questo tipo di scritte pubbliche presupponevano una diffusa alfabetizzazione nella popolazione.
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Tuttavia, questa ricchezza linguistica scompare rapidamente quando manca una struttura centrale che
promuova queste conoscenze, specialmente se le scuole pubbliche non insegnano più nemmeno il livello
base dell'alfabetizzazione. La trasmissione di queste abilità è quindi affidata principalmente all'istruzione
casalinga, dove un genitore istruito, come il padre o la madre, può insegnare ai propri figli a leggere e
scrivere, sebbene questa forma di istruzione sia spesso limitata e di scarso valore nel contesto più ampio.
Nell'antica Roma, le biblioteche erano presenti in tutte le città e nelle grandi residenze. Un esempio
notevole è la biblioteca della Villa dei Pisoni a Pompei, i cui libri sono stati rinvenuti carbonizzati a causa
dell'eruzione vulcanica, ma conservati e arrotolati. Tuttavia, gli sforzi per srotolarli a partire dal XVIII secolo
sono stati infruttuosi a causa della fragilità del materiale, che si disgregava appena veniva toccato.
Recentemente, grazie a nuovi metodi di tomografia, è stato possibile leggere elettronicamente i testi senza
doverli srotolare fisicamente, consentendo il recupero di testi precedentemente ritenuti perduti. Questi
sforzi sono ancora in corso e, sebbene ci siano speranze di recuperare altri testi di cui conosciamo
l'esistenza ma di cui non abbiamo copie, questo processo è lungo e complesso. La maggior parte delle
biblioteche antiche, di cui abbiamo notizia principalmente attraverso scritti degli autori dell'epoca, non è
pervenuta fino a noi. Questo è dovuto in gran parte al tipo di materiale utilizzato per scrivere: nell'antichità,
i libri erano scritti su papiro, un materiale economico derivato da strati di fibra vegetale battuti e essiccati,
su cui veniva applicato un inchiostro a base di nerofumo e acqua. La fragilità del papiro ha contribuito alla
scomparsa delle biblioteche antiche nel corso dei secoli.
Altri autori ci forniscono testimonianze della presenza a Roma di veri e propri editori che impiegavano
schiavi per riprodurre copie su copie di testi letterari, che poi venivano venduti nei negozi. In questo modo,
il sistema romano raggiungeva un livello di organizzazione simile al nostro sistema editoriale
contemporaneo, in cui editori e librerie facilitano l'accesso ai libri per il pubblico. Questo sistema ha
contribuito notevolmente alla diffusione dell'alfabetizzazione e alla presenza diffusa di libri in tutte le
regioni dell'impero. Tuttavia, questa diffusione ha creato un problema cruciale: la conservazione. Se i libri
cartacei vengono abbandonati per lungo tempo in una biblioteca, lasciati incustoditi e esposti all'azione di
roditori e umidità, si deteriorano e si disfano. Inoltre, il papiro, utilizzato ampiamente nell'antichità, ha un
altro inconveniente: essendo stato sviluppato in Egitto, in un clima arido, è particolarmente vulnerabile
all'umidità e alla rovina.
A partire dal VII secolo, a causa della mancanza di papiro come supporto scrittorio (a causa della
proibizione di esportazione dall'Egitto), si è passati all'uso della pergamena. Questo materiale scrittorio
veniva ottenuto trattando la pelle di pecora in modo particolare, rendendola liscia e bianca. Sebbene
questo processo rendesse la pergamena un prodotto costoso, divenne un valido sostituto del papiro,
garantendo la continuità della produzione e conservazione dei testi scritti.
In sintesi, la mancanza di documenti nell'antichità può essere attribuita sia alla perdita di molti di essi che al
fatto che molte informazioni non sono mai state scritte. Questo fenomeno si deve in parte alla costosità e
alla complessità della scrittura su materiali come la pergamena e il papiro, che erano limitati nella
disponibilità e nell'accessibilità. Nelle società con orizzonti più ristretti, come quelle dell'antichità e del
primo Medioevo, gli accordi potevano essere siglati verbalmente o affidati alla memoria di persone
addestrate, evitando la necessità di documentazione scritta.
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Nella storia dei Longobardi scritta da Paolo Diacono, si menziona un momento interessante in cui il re
emana una legge scritta chiamata "lex romana visigotorum". Questo evento indica che i Longobardi stavano
adottando un sistema giuridico romanico, in cui le leggi erano codificate per iscritto. In precedenza, i
Longobardi non avevano mai avuto leggi scritte, ma si basavano su una tradizione orale in cui gli anziani
avevano il compito di trasmettere le leggi attraverso la memoria, un processo che richiedeva un
addestramento specifico della memoria. Questo rappresenta un passaggio significativo da una civiltà basata
sulla trasmissione orale delle leggi a una basata sulla scrittura.
MARTEDÌ 3 OTTOBRE
I documenti come fonte
Gran parte della nostra conoscenza storica proviene da copie di testi antichi realizzate nel Medioevo, dato
che abbiamo perso molti originali. Non possediamo codici antichi precedenti al periodo medievale, ma solo
copie realizzate in quel periodo. Il codice più antico noto è l'illustrato di Virgilio del IV secolo, conservato
nella biblioteca Ambrosiana di Milano da 1700 anni, protetto dalla luce e da danni causati dal contatto
fisico. A partire dall'Alto Medioevo, dal VII-VIII secolo, c'è stata una mancanza di documentazione scritta,
ma anche una crescita delle serie documentarie conservate grazie al caso e alla conservazione degli archivi.
La natura delle fonti:
Le fonti narrative sono fondamentali poiché integrano le nostre conoscenze su specifici periodi storici.
Tuttavia, nei periodi come l'Alto Medioevo (dal IV al VII secolo), queste fonti rappresentano spesso l'unico
mezzo a nostra disposizione. Tuttavia, presentano delle sfide in quanto possono essere classificate come
fonti soggettive, offrendo informazioni dal punto di vista specifico del loro autore. Un'ulteriore
complicazione è rappresentata dall'antica pratica della damnatio memoriae, in cui i nomi venivano
cancellati dai documenti, dai monumenti e dalle storie ufficiali, rendendo difficile ottenere una visione
completa e obiettiva. Pertanto, l'utilizzo di queste fonti richiede una comprensione approfondita del
contesto, poiché sono testi redatti con un preciso scopo e intenzione.
San francesco e re Riccardo III d’Inghilterra sono stati sottoposti ad un trattamento di tipo
propagandistico.
Dopo la morte di San Francesco nel 1226, la sua figura e il suo ruolo all'interno dell'ordine francescano sono
stati oggetto di attenta considerazione da parte dei suoi confratelli. Circa cinquant'anni dopo la sua morte,
durante un capitolo generale dell'ordine a Parigi nel 1276, Bonaventura, approvata capitolo generale di
Parigi un eminente frate francescano, ha stabilito la biografia ufficiale di San Francesco, riconoscendo come
unica fonte affidabile quella scritta da Frate Leone SBAGLIATO QUELLA DI FRATE LEONE è QUELLA Più
ANTICA . Questa biografia è stata selezionata perché presentava San Francesco come innovatore,
mantenendo l'attenzione per i poveri, ma eliminando le critiche del santo verso la Chiesa. Altre biografie
sono state ordinate distrutte. Questa rappresentazione edulcorata di San Francesco è stata presentata ai
fedeli e trasmessa nel tempo, contribuendo a plasmare la percezione del santo nel contesto dell'ordine
francescano.
Nel caso di Riccardo III, questa costruzione negativa inizia poco dopo la sua morte nel 1485. Dopo la sua
sconfitta nella battaglia di Bosworth, la dinastia dei Plantageneti giunge al termine, e Enrico VII sale al
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trono. Per consolidare il suo potere, Enrico VII sposa Elisabetta di York, figlia di Edoardo IV, per legittimarsi
attraverso il lignaggio plantageneto. Enrico VII, tuttavia, aveva bisogno di giustificare la sua presa di potere,
quindi avvia una campagna di demolizione propagandistica contro Riccardo III. Questo include l'accusa di
vari delitti, come l'uccisione del duca di Clarence, Giorgio, e l'uccisione dei nipoti di Riccardo III, i principini
della Torre.
La storia dei principini è particolarmente controversa. Dopo la morte di Edoardo IV, Enrico VII afferma che i
principini sono illegittimi a causa di un precedente matrimonio segreto del loro padre con un'altra donna.
Questa affermazione viene usata per escludere i principini dalla successione e per giustificare l'ascesa di
Enrico VII al trono. La sorte dei principini rimane un enigma, con speculazioni sulla loro morte e su chi
potrebbe averne avuto interesse. Questo caso solleva la questione dell'importanza dei documenti nella
costruzione della storia, poiché la presenza o l'assenza di documenti possono influenzare la nostra
comprensione degli eventi storici e delle figure coinvolte.
Nel corso del tempo, la manipolazione delle narrazioni storiche e l'uso dei documenti come strumenti di
propaganda politica hanno dimostrato l'importanza di essere critici nella valutazione delle fonti storiche.
L'analisi accurata dei documenti e delle testimonianze è fondamentale per una comprensione accurata
degli eventi storici.
Una fonte oggettiva, a differenza di una fonte soggettiva, si limita a registrare un evento e a mantenerne la
memoria con finalità privata, rappresenta un fondamento più solido, neutro, proprio perché registra il
fatto. Ma anche questo tipo di documento può dare problemi, in quanto può essere falsificato, in tutto o in
parte. Ci sono diversi tipi di falso, tra cui:
- Il falso storico: un documento falso che racconta cose false ed in genere viene costruito con intenti
fraudolenti.
- Il diplomatistico (o falso per buona fede): documenti falsificati in parte o totalmente che però
raccontano in parte fatti veri o che l’autore ritiene siano veri. Un esempio sono i documenti
monastici appartenenti all’XI-XII secolo: in molti monasteri si decide di ricopiare i documenti
originali che erano conservati negli archivi dei monasteri all'interno di grandi registri, in modo da
avere delle copie autentiche, legalmente valide e più facili da conservare secondo un criterio
topografico (si raccolgono in sezioni specifiche, tutti i documenti relativi a determinati settori). Il
possesso del documento, specialmente se si tratta di un atto di possesso di un bene fondiario, è
indispensabile in caso di contestazione da parte di terzi. Spesso però succedeva che questi
documenti andassero persi, così i monaci lo ricostruivano (senza l’intento fraudolento). Costruire
un documento del genere non va a danneggiare nessuno, in realtà serve soltanto come garanzia
per i successivi monaci, e qui si può procedere in due modi
1. Attraverso l’interpolazione, ovvero si prende un documento autentico e nel ricopiarlo si
aggiunge una parte di testo riferita ad altri beni di un documento scomparso.
2. Attraverso la costruzione di un documento adoc: che si riferisce specificamente ai beni.
Ovviamente, anche in questo caso, di solito siamo di fronte a documenti falsi nella loro
struttura, non nel loro contenuto.
In alcuni casi, persino con questo metodo, vengono creati falsi documenti con un grado di
consapevolezza molto più elevato. Un esempio significativo si trova nei diplomi della Chiesa
vercellese del IX-X secolo, falsificati dal vescovo Leone di Vercelli per proteggere gli interessi della
Chiesa vercellese. Leone, ex Cancelliere dell'imperatore Ottone III, aveva familiarità con la
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costruzione dei documenti imperiali. Utilizzando documenti autentici come base, interpolò parti
che servivano a proteggere i beni della Chiesa vercellese, dimostrando un alto grado di
consapevolezza nella sua manipolazione. Questo tipo di falsificazione era finalizzato a garantire
l'autorità dei vescovi di Vercelli su vaste aree del Piemonte orientale. Il concetto di falsificazione nel
Medioevo era sfumato, variando da falsi in buona fede fino a manipolazioni fraudolente,
dimostrando la complessità delle pratiche documentarie di quell'epoca.
Tutti i documenti, siano essi autentici o falsificati, ci sono pervenuti grazie alla conservazione negli archivi. È
importante considerare che fino al XII secolo non esistevano archivi privati laici. Ma come si forma un
archivio? A differenza delle biblioteche, che si formano attraverso una selezione di libri di interesse o utilità,
gli archivi si formano naturalmente per accumulo di documenti che vengono prodotti e ricevuti, includendo
la corrispondenza conservata. In passato, quando le persone comunicavano ampiamente attraverso lettere,
gli archivi si formavano più facilmente rispetto a oggi. Questo è particolarmente evidente nei carteggi tra
grandi scrittori, i quali oggi vengono pubblicati in edizioni monumentali.
La Chiesa e le istituzioni ecclesiastiche hanno una particolare predisposizione alla conservazione dei
documenti, motivata dalla loro concezione di eternità. Mentre solitamente pensiamo all'utilità personale o
al massimo a quella dei nostri discendenti, la Chiesa e le sue istituzioni sono abituate a considerarsi eterne,
mirando a mantenere la memoria e trasmetterla ai successori. Questa prospettiva fa sì che gli archivi
ecclesiastici siano tra i più grandi, soprattutto perché la Chiesa nel periodo dell'Alto Medioevo era una
prolificatrice di documenti. Gli ecclesiastici erano alfabetizzati, sapevano leggere e scrivere, e avevano
conoscenza del latino, la lingua sacra. I documenti laici, che si riferiscono a beni, venivano spesso conservati
negli archivi ecclesiastici perché, con il trasferimento della proprietà, veniva consegnata anche la
documentazione relativa per garantire al nuovo proprietario la prova della sua acquisizione. Questo
principio è applicato anche tra gli stati, dove i documenti vengono trasferiti quando un territorio passa da
una nazione all'altra.
Nel primo periodo del Medioevo, la documentazione nell'Europa occidentale quasi scompare, lasciandoci
solo fonti di tipo narrativo. Tuttavia, a partire dal VII-VIII secolo, riappare una documentazione conservata
negli archivi ecclesiastici. Dal XII secolo in poi, in Italia e in alcune zone della Francia, la situazione cambia.
Lo sviluppo delle città autonome richiede la capacità di conservare documenti essenziali per la loro
esistenza e la tutela dei loro diritti, portando a una nuova fase di conservazione documentale.
MARTEDÌ 10 OTTOBRE
Conservazione documenti, e la loro inventariazione. Avere tanti documenti senza un inventario diventa
inutile perché non ci si può orientare. Oltre all’archivistica ci sono altre 2 discipline che analizzano la
struttura del documento:
1. Paleografia: scienza che studia le scritture antiche (paleos grafos)
2. Diplomatica: scienza che studia i diplomi, ciò le scritture antiche, tendenzialmente su pergamena.
Spesso queste scritture sono state considerate più importanti, più rilevanti dal punto di vista storico
rispetto ad altre forme di documenti. Vengono privilegiate alcune categorie di documenti:
narrazioni, leggi, diplomi su pergamena, di natura pubblica e privata, con una particolare
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attenzione a quelli emanati dalle cancellerie più importanti (come quella regia, imperiale o
cattolica).
Lo studio di questi diplomi e di questa documentazione inizia già nell’età moderna (tardo 500), in
particolare dalle corporazioni religiose (come i gesuiti di Anversa, in particolare i bollandisti – da padre Jean
Bolland, gesuita) che iniziano uno studio sistematico dei documenti, con uno scopo pratico: definire con
precisione e rigore scientifico i testi relativi alle vite dei santi. Poco prima ci fu il concilio di Trento: c’era la
necessità di avere dei testi attendibili e inattaccabili (eliminando dalle sacre scritture i vari falsi santi,
attaccati dalla critica riformista). I gesuiti, che erano la punta della controriforma, si prendono il compito di
scrivere gli Acta Santorum (le gesta dei santi): si raccoglie per ordine cronologico per data della festività del
santo, raccolgono i testi relativi alle vite dei santi. Era un lavoro enorme, ancora in corso (attualmente
siamo a giungo/luglio).
Il metodo seguito dai bollandisti è quello dell’analisi del documento per stabilirne l’autenticità e
l’attendibilità (ci sono diversi livelli di falso nella consuetudine medievale – falso storico, falso in buna
fede…). Si rifanno al Valla (Lorenzo Valla), che nel ‘400 con il suo De falso credita et ementita Constantini
donatione (falsamente creduta e smentita donazione di Costantino) aveva smontato il Constitutum
Constantini (ovvero la donazione di Costantino della città di Roma alla Chiesa, risalente al IV secolo), un
documento che per molto tempo era stato portato come prova del potere secolare esercitato dalla Chiesa.
Per dimostrare la sua non-autenticità aveva usato come strumenti la filologia e la forma: il latino non
corrispondeva al latino di altri documenti certificati del IV secolo e non coincideva con la struttura dei
documenti imperiali certificati.
Non sapevano ancora che un documento del genere sarebbe dovuto esser scritto in litterae celestes, il
classico alfabeto romano ma esageratamente verticalizzato, quasi a renderlo illeggibile. Questo alfabeto
era usato per manifestare l’importanza di tali documenti. Il Valla avrebbe potuto usare anche questa tesi
paleografica.
Alla fine del X secolo già si considerava il documento della donazione falso (detto infatti documento dello
scriba dalle dita mozze – la pena per chi falsificava era la recisione delle mani). Però erano solo sospetti.
Invece Valla usò la filologia come criterio scientifico per smentire la veridicità del documento.
I bollandisti usarono i metodi di Valla per applicare una selezione. Identificare un falso però spesso è
estremamente difficile, c’erano falsari molto abili. Ci fu un falsario nel Cinquecento che falsificava un intero
cartulare notarile, prendendo documenti autentici per coprire quelli falsificati e creando un finto notaio del
XIII secolo il cui registro è stato considerato vero fino allo scorso secolo.
Al metodo di Valla si è aggiunto il contributo di eruditi francesi che studiano la lingua latina medievale e
l’evoluzione delle scritture. Citiamo in particolare Charles du Cange, un laico che creò un dizionario dei
termini utilizzati nel latino medievale (che, a differenza dei dizionari di latino classico, conteneva termini di
altre lingue latinizzati). Un altro grande erudito fu Jean Mavillon, che può essere considerato il padre della
paleografia. Era un benedettino del ‘700 e il suo studio fu usato per studiare i documenti papali.
Le contestazioni di autenticità di documenti che per secoli sono stati portati come prove legali di diritti o
possedimenti, la critica illuminista affronta dal punto di vista razionalista la problematica.
Non è un caso che proprio tra ‘600 e ‘700, quando iniziano ad esserci queste polemiche, troviamo l’inizio
della redazione di testi medievali che sono funzionali a controbattere queste polemiche.
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Non è neanche un caso che questo processo sia partito proprio dalla Francia. In Francia c’era un forte
cesaropapismo francese: i re il potere sui vescovi francesi – specialmente Luigi XIV.
Si cercava di esaltare il ruolo della monarchia tramite la redazione collana della storia della Francia. Una
collana molto importante, che fece da modello a tutte le edizioni dell’800, fu la Racouie de document de
l'histoire de la France (la raccolta di documenti della storia della Francia). Vengono pubblicati i documenti
considerati fondamentali per la ricostruzione della storia francese, esaltando il ruolo della monarchia.
Esempio: Muratori, segretario del duca di Modena, è un intellettuale che concepisce un’opera gigantesca e
molto avanzata per l’epoca. Pensò ad un’opera come quella francese, però per la storia dell’Italia. Siccome
si tendeva a privilegiare alcuni tipi di documenti, Muratori decide di iniziare dalle cronache, dagli autori di
narrazione. Crea una collana intitolata “gli scrittori di questioni italiane” (rerum italicarum scriptores) in cui
pubblica tutte le cronache medievali antiche che riesce ad esaminare. Scartò però i documenti privati (egli
pubblicava solo documenti pubblici), giustificando dicendo che non erano rilevanti. Pubblicò con la stampa,
e annullava la necessità di un viaggio solo per vedere i suoi documenti.
Dopo il periodo napoleonico abbiamo uno sviluppo della politica delle edizioni: c’è una grande iniziativa che
fonda Monumenti per la Storia della Germania, una collana che concerne l’impero germanico; quindi,
comprende anche documenti italiani e francesi, che furono sotto il controllo dell’impero. Era un’opera
immensa, che richiedeva molte sezioni per tipologia di documento. Siamo in un periodo di rivendicazione
nazionale, che coincide alla cultura romantica e quindi l’esaltazione delle culture nazionali e la ricerca delle
radici. La Germania nell’800 si pone il problema dell’unificazione del Paese, movimento guidato e sfruttato
dalla monarchia prussiana per i propri comodi.
Carlo Alberto, quando divenne Re di Sardegna, fece redigere Historiae Patriae Monumenta (HPM) che parte
dalla documentazione piemontese, ligure, valdostana e sarda, allargandosi all’edizione di documenti relativi
ad altre aree italiane. L’intento è chiaro: per esigenze politiche si vuole confermare un’unità italiana dal
punto di vista culturale.
Ci fu una risposta da parte di numerosi paesi europei che reclamavano un’unità o un’indipendenza.
Ciò favorisce lo studio e l’edizione dei documenti e porta ad un ulteriore sviluppo delle scienze
paleografiche e diplomatistiche.
Caratteristiche del documento: l’autenticità del documento è determinata attraverso una serie di
formalismi e accorgimenti tipici di ciascuna cancelleria. Ogni cancelleria sviluppa tecnicismi grafici per
connotare la propria documentazione e per garantire l’autenticità del documento (era una cautela adottata
per garantire l’autenticità). Esempi sono: materiali di cui sono fatti i sigilli o i canapi del sigillo, le
sottoscrizioni e i segni nascosti che solo chi di dovere sa di dover cercare per confermare (o smentire)
l’autenticità del documento.
Dobbiamo considerare che il documento in sé al di là del suo contenuto ha una struttura che si ripete nei
diplomi in modo generale:
1. ll protocollo, cioè la parte introduttiva è formata da
- invocatio che può essere
1. Letterale (in nomine domine amen)
2. Grafica (✟una croce ad esempio)
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-
-
intitulatio ovvero il momento in cui l’autore del documento (non lo scrivano, ma il
riconoscimento di colui che fa redigere il documento, quello che al momento è rappresentato
da “il sottoscritto…”).
salutazio, ovvero il saluto rivolto al destinatario (salute e apostolica benedizione).
2. La parte centrale, cioè il testo si compone di diverse parti
- arenga ovvero la motivazione di carattere generale (poiché è cosa giusta venire in contro alle
richieste dei bisognosi…)
- naratio il cuore del documento (avendo saputo che i perfidi saraceni hanno devastato i beni
della santa abazia di… arrecando danni…)
- disposizio (noi disponiamo che all’abate venga versato dal nostro tesoro cifra di.. e sia esentato
di contribuzione…) cioè il provvedimento vero e proprio
3. La parte finale si chiama escatocollo
- sanctio o minatio, cioè il momento in cui si minaccia una punizione per coloro che non
rispetteranno la volontà di colui che fa redigere il documento.
- datatio che è sia topica sia cronica: per essere valido deve essere collocato nel tempo e nello
spazio.
I sistemi di datazione in uso erano diversi da quelli che usiamo ora. Innanzitutto, si usava il calendario
giuliano, non era intervenuta la riforma gregoriana del 1582, riallineando lo alle fasi astronomiche.
In documenti solenni si usavano diversi riferimenti cronologici: a volte si usava il riferimento all’anno
salutis (anno della nascita di cristo, anno domini), ma spesso si usava l’anno di regno di pontificato.
L’inizio dell’anno nel medioevo era il 25 marzo (stile dell’incarnazione: deriva da calcoli e dalla
trasformazione che il calendario aveva subito quando il cristianesimo si era imposto come religione
dominante. La necessità era cancellare le vecchie festività pagane e dato che erano feste molto sentite, il
sistema migliore era sovrapporre festività legate al culto cristiano alle festività pagane. Addirittura, i
santuari cristiani vedi il tempio Santa Maria sopra Minerva a Roma, o i vari tempi di San Michele, spesso
in cima alle montagne e vicino a itinerari di passaggio. Mercurio, protettore dei mercanti, dotato di
calzari alati, amante delle montagne. Coincidenza con San Michele.
Sol Invictus 25 dicembre: le fasi astronomiche sono spostate: all’epoca il solstizio cadeva intorno al 13
dicembre (oggi diciamo Santa Lucia il giorno più corto che ci sia. Per loro, non per noi). Quindi,
considerando che il solstizio era il 13, intorno al 25 ci si iniziava a rendere conto che le giornate si stavano
di nuovo allungando.
Il culto del sole, inoltre, importantissimo: Mitra era un dio salvatore, dio della luce che viene da oriente,
scende negli inferi, sconfigge il toro (che rappresenta le forze dell’oscurità). Era inoltre un culto riservato
agli uomini, concetto che andava contro il cristianesimo delle origini, che voleva espandere il culto anche
alle donne.
La natività andrebbe collocata in una fase calda, siccome c’è scritto che i pastori dormivano all’aperto
con le greggi, ma non c’era un’indicazione precisa; quindi, la piazzarono in sostituzione del sol invictus.
Se contiamo 9 mesi prima della natività arriviamo al 25 marzo, ed ecco che facevano iniziare l’anno il 25
marzo.
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Quando siamo passati al calendario gregoriano, nel tardo ‘500 si è istituito il primo gennaio come l’inizio
dell’anno, che era la festa della presentazione di Gesù al tempio e quindi della circoncisione. Inaua è la
porta: da cui si entra nell’anno nuovo. Altri paesi, come la Russia ha tenuto il calendario Giuliano con
grande ritardo (vedi rivoluzione di ottobre, che per noi era novembre).
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subscritio, cioè la firma dell’autore, spesso sostituita da un monogramma, un simbolo e dalle
sottoscrizioni dei testimoni, i quali garantivano la validità,
corroboratio (sistemi che danno forza, che legalizzano e certificano, sono dei sistemi di
autenticazione. Molto vari: sistemi grafici (segni nella parte in fondo dove si inserisce il sigillo
pendente era piegato, all’interno venivano inseriti dei segni o scritte convenzionali) e il sigillo.
I sigilli: potevano essere pendenti o aderenti. Erano fatti di cera lacca, sul quale veniva impresso qualcosa,
spesso con una matrice metallica. Il sigillo pubblico era molto grande, il sigillo privato era un sigillo ad
anello (o sigillo segreto). Il sigillo ha diverse forme: poteva essere il classico tondo (pendente o aderente) se
era di un’autorità laica, se invece è di un’autorità ecclesiastica sarà a mandorla. La ceralacca poteva essere
al naturale, quindi di colore bruno, ma poteva essere colorato (ad esempio la cancelleria reale francese
usava sigilli verdi).
I sigilli pendenti, siccome erano fragili, venivano messi dentro una teca di metallo (la bulla, annessa al
documento) per usarli come garanti dell’autenticità. Per umilitas i papi usavano un metallo povero per fare
la bulla, ovvero il piombo. C’erano sempre raffigurati San Pietro e San Paolo e sul retro c’era il nome del
papa. Inoltre, il papa aveva un anello (chiamato anello del pescatore), usato per fare lo stampo, con
l’immagine di San Pietro e altri elementi propri di quel papa. Quello è il suo sigillo personale (ognuno ne ha
uno).
Invece i sovrani, per manifestare il loro potere, usano oro e argento per fare le bulle.
Documenti proiettati sulla lim.
La prima riga è scritta in maniera molto deformata (solitamente in verticale). Ci sono anche aste esagerate
in alto e in basso (di lettere come l p b). queste lettere deformate tornano nelle subscritio.
La cancelleria del papa usa solo la pergamena agnina o vitulina ricavata da agnelli o vitelli, che viene
lavorata e resa bianca. Inoltre, il testo è ben allineato e la scrittura molto curata. Si usava inoltre un filo di
canapa filo canapis (litere dispositive) oppure un filo di seta filo serico (lettere graziose – per concessioni).
Invece la cancelleria imperiale bizantina è caratterizzata dal menolovion l’imperatore appone la data di
proprio pugno con inchiostro rosso (solo l’imperatore poteva usarlo). È scritto in greco con traduzione
latina.
MERCOLEDÌ 11 OTTOBRE
Differenza minuscola maiuscola
La maiuscola è inscritta tra due barre orizzontali, le minuscole invece tra 3 linee (questo per la maggior
parte delle lettere) (perché o salgono sopra o scendono sotto). Questo è il frutto di un’evoluzione.
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Secolo VII-XV. Prima del 7 non abbiamo una documentazione consistente, abbiamo solo frammenti o
documenti isolati. È un periodo in cui si stanno consolidando alcune realtà e c’è una fitta produzione di
documentazione scritta.
La scrittura romana:
la capitale quadrata: guardandola sembrano le lettere in stampatello maiuscolo. Sono state adottate nel
XVI secolo per le lettere maiuscole. Riprendono le forme delle scritture epigrafiche romane (è difficile
scolpire forme curve, è più facile scolpire linee rette). Non ci sono spazi e punteggiatura. I testi letterari si
dispongono su lunghi rotoli in senso orizzontale. I testi amministrativi si dispongono verticalmente. Si scrive
in questo modo per un motivo preciso: perché all’epoca (dall’epoca romana fino all’inizio dell’epoca
moderna) la lettura silenziosa non era praticata, si leggeva ad alta voce. Nel caso dei testi letterari era
implicita una metrica che dava il ritmo al testo (sia in prosa sia in versi), quindi la punteggiatura veniva data
dal ritmo del testo. L’età romana ci lascia lo stampatello maiuscolo e il minuscolo, diffuso per tutto
l’impero.
(Funzionari e militari si muovevano molto attraverso questi modelli)
Alcuni testi erano scritti su tavolette di legno e si sono conservati, c’erano molte lettere private di ufficiali.
C’è stata una fase precedente all’uso del papiro: i testi preparatori erano scritti su tavolette di legno oppure
su tavolette cerate (molti ritrovamenti a Pompei), cioè tavolette in legno con sopra steso un sottile strato di
cera, sulla quale si scriveva su uno stilo, poi si metteva il sigillo con l’anello (il che dava loro un valore
definitivo).
La scrittura posata (cioè fatta con calma affinché sia definitiva) era in stampatello (che necessitava più tratti
di penna)
La scrittura corsiva, invece, non dovendo sollevare la penna era più veloce. Inoltre, erano disarticolate
verso l’alto appunto perché si scriveva in fretta.
Nella fase dei regni romano-germanici (fase della particolarità scrittoria, che dura fino all’epoca carolingia)
le officine scrittorie innestano delle variazioni che sono tipiche delle scritture nazionali.
La scrittura visigotica (i visigoti erano un popolo germanico che sub una forte influenza della cultura
romana). Sviluppano una scrittura con caratteri propri, ma con un forte collegamento con l’alfabeto latino.
Abbiamo solo scritture posate.
La scrittura langobardica: abbiamo sia scritture posate, sia librarie. C’è una forte deformazione delle lettere
(tipica delle scritture di cancelleria). I segni che vediamo hanno un significato preciso: è frequente l’uso
delle abbreviazioni: la lineola indica che la parola è stata abbreviata, così chi scrive ci mette meno, si
risparmia sulla pergamena. La necessità di una subscritio si scontrava con l’incapacità di molti di leggere e
scrivere, si suppliva così quest’incapacità con la lettura del documento (e la sua
Illitteratus non significa
spiegazione perché per altro era in latino de non tutti lo conoscevano) e i testimoni
analfabeta, ma significa
confermano la validità del documento appoggiando la mano sul documento (la
che non conosce il latino
società dava molta importanza ai gesti) tactis sacrosantis scritturis (quando in
tribunale si tocca la bibbia per giurare). A volte in alcuni documenti si disegnano le mani.
La scrittura beneventana: molto curata.
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È molto forte l’influenza dei monaci di Montecassino. I duchi di Venezia derivano dall’amministrazione
bizantina, così come i duchi di Napoli – in Sardegna invece c’erano i giudici (prevale l’amministrazione
giudiziaria su quella militare). La cultura scrittoria è molto diffusa e maneggiata con molta disinvoltura.
La scrittura merovingica
La cancelleria franca era molto ravvicinata e le lettere sono tondeggianti e particolarmente allungate (come
le litere celestes romane), perché questi documenti spesso vengono mostrati a persone che non sanno
leggere e vogliono far si che l’aspetto visivo del documento dichiari la sua importanza.
I danni maggiori alle pergamene sono quelli meccanici dovute al maneggiamento e al piegare la
pergamena. Oppure il toccare la pergamena fa si che sostanze che sono sulle nostre mani possano
danneggiare la pergamena.
La scrittura bizantina
Nel mondo bizantino molti sapevano leggere e scrivere. Il greco mantiene infatti l’assenza di spazi e
punteggiatura. I codici purpurei: la pergamena dopo esser stata lisciata è stata tinta con la porpora, su
questa base viene scritto in oro o argento.
In Italia abbiamo un esemplare meraviglioso: il codex rossanensis (codice di Rossano), destinata ad un
committente di alto rango sociale.
La scrittura onciale
Il greco ebbe influenza su un carattere usato in Italia meridionale e che si diffuse fino alle isole britanniche
tramite i monasteri, dove ebbe un grande successo. Le lettere sono ben distinguibili. La d, ad esempio,
riprende il delta greco.
Le scritture semi-onciali, tipiche dei manoscritti inglesi e irlandesi (scritture insulari). C’era una grande
esuberanza nelle decorazioni, che vediamo nell’oreficeria celtica (giochi di matasse, figure che emergono
dalle lettere). Sono prodotti di un’altissima qualità che riflettono la ricchezza dei monasteri (tramite i quali
si era diffusa), prima che venissero sconvolti dalle incursioni vichinghe.
A partire dall’XIII secolo i monaci irlandesi si diffondono sul continente europeo. L’influenza della scrittura
dei monaci irlandesi si diffonde quindi molto in Francia e nella valle del Reno.
Scrittura cancelleresca merovingica: nella miniatura abbiamo San Gregorio papa, che detta al suo
segretario una lettera e vediamo una tavola cerata. L’influsso dei monaci irlandesi fa diffondere scritture
librarie basate sulle semionciali (le scritture precaroline). Ci sono abazie tra Belgio, Lussemburgo e Francia e
producono molti documenti. Tra questi monaci c’è Alcuino di York, uno dei più grandi consiglieri di Re Carlo
(Magno). Carlo aveva un problema pratico legato alle scritture: la scrittura merovingia era tipica della
cancelleria franca, ma Carlo aveva conquistato numerosissime aree (Sassonia, Germania e Spagna). Il re e
futuro imperatore ha la necessità di far circolare i suoi ordini e di far conoscere le leggi che lui promulga. Gli
serve quindi una scrittura che sia compresa da tutti, senza che debbano essere riscritte più volte per ogni
scrittura nazionale. Carlo era analfabeta, ma comprendeva l’importanza della scrittura, si rivolse così ad
Alcuino, che ebbe come idea usare le varie tipologie di scrittura dell’area renana per sviluppare una
scrittura nuova (ma con tatti classici): detta scrittura carolina.
Carlo ordina che venga usata per la redazione dei documenti di cancelleria e la trascrizione dei testi.
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Il culmine degli scriptoria monastici si colloca tra il IX e l’XI secolo, ovvero quando la carolina era
ampiamente usata. Così diventa diffusa tra i monasteri.
Quando, qualche secolo dopo, gli umanisti della prima generazione cominciano a cercare questi testi nelle
biblioteche dei monasteri si trovano davanti testi scritti in Carloni, ma siccome non hanno una competenza
paleografica, si convincono di trovarsi di fronte a originali romani, per cui la considerano la scrittura
classica. Uno di questi umanisti è Petrarca, che modifica la sua scrittura per seguire questo modello. Non si
rese conto che il corsivo che si usava era una derivazione della carolina.
Dopo l’invenzione della stampa c’è il boom dell’editoria, specialmente a Venezia, che diventa un centro di
stampa a livello europeo. Aldo Manuzio, che era il più grande editore dell’epoca, decide di avviare una
collana di testi classici di autori antichi. Fu un grande successo commerciale. Manuzio pensò ad una
maniera per differenziare i suoi testi da quelli di latri editori e pensò di creare un set di caratteri di stampa
che riprendesse la grafia di Petrarca, il risultato fu la creazione di un carattere di stampa che diventò lo
standard, tanto che oggi tra le opzioni di word c’è il carattere Aldino.
La carolina si diffonde in tutta quella parte d’Europa dominata dall’impero franco, ma ci sono parti in cui la
carolina arriva dopo perché erano fuori dall’impero di Carlo: il caso della Sardegna, in cui si continua a usare
l’onciale. La Sardegna era un territorio in cui il latino come lingua letteraria era andata perduta. C’era un
doppio livello: un’amministrazione bizantina fino al IX secolo che scrive in greco e una popolazione che
parla la lingua sarda. Il latino va così perduto. Inoltre, alla fine del IX secolo, dopo la conquista araba della
Sicilia, l’impero bizantino perde le connessioni con la Sardegna. In alcuni archivi fuori dalla Sardegna si
trovano documenti in lingua sarda ma scritti con l’alfabeto greco. Questo ci fa capire che il latino in
Sardegna era sconosciuto, si era perso il greco ma si manteneva il suo alfabeto per scrivere documenti
importanti. La lingua Sarda è la prima neolatina a essere documentata per iscritto. Durante la seconda metà
dell’XI secolo la Sardegna rientra nell’orbita dell’occidente e le autorità locali si trovano a dover
corrispondere con persone in continente.
La Sardegna dal punto di vista ecclesiastico sono orientali (come nella chiesa greca Costantino è santo, così
in Sardegna, ma nella chiesa occidentale no).
L’occidente manda molti benedettini per estirpare i culti di origine greca e ri-latinizzare la chiesa sarda. Le
cancellerie iniziano a usare forme scrittorie comprensibili sul continente. Iniziano ad usare l’onciale.
Esempio di “vergine” scritto la beta al posto della V perché in greco la V si scriveva con una beta.
La cancelleria pontificia
È molto antica e gli scriptor erano molto esperti.
La cancelleria imperiale
Pur non avendo l’eleganza della cancelleria pontificia abbiamo una serie di accorgimenti nell’inittulatio che
rimandano ad una lunga tradizione di uso della scrittura e di uso di accorgimenti specifici mirati a rendere
questo documento immediatamente identificabile come documento importante e di cancelleria.
Le cancellerie orientali
Bisanzio e la cancelleria armena. Grandi similitudini come l’uso dell’inchiostro rosso per il menolovion.
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Si cambia tipologia di inchiostro: si usa quello ferrogallico, fatto usando la limatura di ferro e l’acido gallico
(secrezione di una forma di tumore vegetale, quei bozzi che crescono sugli alberi). Sciogliendo la limatura in
questo acido si ottiene un inchiostro che fa presa sulla pergamena perché corrode leggermente la
superficie (ricorda che la pelle è impermeabile). Oggi questo inchiostro è rossiccio perché la componente
ferrosa si è ossidata, ma appena fatto è di un nero molto brillante.
LUNEDÌ 16 OTTOBRE
La scrittura gotica è una definizione data in età moderna, ma in realtà si tratta di una classificazione data
dagli storici della scrittura basata sul fatto che si sviluppa particolarmente a partire dal XII-XIII secolo in
parallelo con l’architettura gotica derivante dalla storia dell’arte. La gotica è l’evoluzione della carolina
durante i secoli del basso medioevo, viene introdotta tra VIII-IX secolo come scrittura libraria e
documentale; quindi, è posata e prevede una cura nel tracciare i segni che consenta la chiarezza dello
scritto e che possa essere compreso dai destinatari dei testi. Tale scrittura rimane in uso sia come scrittura
posata (libraria o documentale) sia come corsiva, dato il progressivo aumento a partire dal XII secolo del
numero di persone alfabetizzate che sanno usare la scrittura per scrivere testi complessi.
La carolina si evolve e si adatta alle esigenze di coloro che la usano. Nel corso del XII-XIII secolo, l’uso
intenso di queste scritture si allarga ad ampi strati. Nella versione libraria documentale, assistiamo ad una
trasformazione della forma dei caratteri legata ad esigenze estetiche.
In genere per scrivere, si usa la penna d’oca ma più facilmente viene usato un calamo tagliato alla punta, ne
risulta una punta frontalmente quadrata in sezione circolare e ciò consente un’alternanza di tratti sottili e
spessi nella scrittura che crea un effetto di chiaroscuro, dandone eleganza.
Il textur è una carolina con tratti più angolosi e con raddoppiamenti di linee a scopo ornamentale (molto
diffusa nei paesi noridci).
Una delle più usate è la rotunda che riprende qualche carattere dell’onciale e va a seconda dei paesi (nei
paesi di matrice latina, in Italia ad esempio), molto usata per la bella copia dei documenti redatti a partire
dal XII secolo e sino al tardo XII secolo.
Se prendiamo in considerazione i testi di cancelleria inglese o francese, notiamo che utilizzano la cosiddetta
gotica bastarda, cioè una gotica più morbida e che ha caratteri non decorativi.
La scrittura gotica libraria è riscontrabile nel Codice di Innocenzo IV, redatto nella seconda metà del XIII
secolo, caratterizzata da un tratto calmo e deliberato. In questo manoscritto, è presente un'illustrazione
proveniente dagli Annali Genovesi, raffigurante Casaro, l'autore, e il suo segretario Macobrio. Macobrio è
raffigurato con una tavoletta di legno sulle ginocchia, sulla quale è fissato un foglio di pergamena. Nella sua
mano destra tiene il calamo e un raschietto affilato, uno strumento utilizzato per cancellare e raschiare la
superficie della pergamena. È ragionevole supporre che Macobrio stesse scrivendo in corsiva, dato che era
impegnato nel prendere nota delle informazioni fornite da Casaro sulla sua vita. In questa forma di scrittura
corsiva gotica, le lettere si collegano tra loro e si osservano tratti caratteristici nelle angolature e nelle
spezzature, non dovuti a una ricerca di eleganza, ma piuttosto alla forma della penna utilizzata.
Quando si giunge alla redazione finale di un testo con questa scrittura, la corsiva assume un aspetto
distintivo, poiché le lettere si legano in modo particolare, evidenziando le caratteristiche della gotica
minuscola corsiva. Durante la scrittura veloce, vengono ampiamente impiegate contrazioni e abbreviazioni,
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mirando anche a economizzare gli spazi disponibili, poiché lo spazio sulla pergamena era un bene prezioso
e costoso.
Nel tardo Medioevo, si assiste a un'innovazione significativa nel campo dei supporti scrittori: l'introduzione
della carta come materiale di scrittura. Questa innovazione giunge come risultato di un processo evolutivo
che inizia in Cina, dove la carta è stata inventata e successivamente perfezionata dagli arabi. Questi ultimi
hanno scoperto un metodo per produrre una carta meno rigida, utilizzando stracci e panni dismessi che
vengono macerati per ottenere una sostanza collosa. Tale tecnica di produzione rende la carta più elastica,
robusta e funzionale rispetto ai precedenti supporti scrittori.
L'arte della produzione di carta giunge in Occidente alla fine del XII secolo e i primi cartai attivi in Italia
compaiono agli inizi del XIII secolo. Successivamente, la produzione di carta si diffonde in Spagna attraverso
l'influenza araba, estendendosi poi alla Francia meridionale e conquistando tutta l'Europa. La carta,
realizzata mediante il riciclo di indumenti vecchi e panni di lana, viene prodotta immergendo questi
materiali in una soluzione collosa. Successivamente, la soluzione viene versata su un setaccio a telaio
rettangolare con fili metallici orizzontali e verticali. Tirando su il setaccio, l'acqua cola via, e poi il foglio
viene capovolto e lasciato asciugare. Durante questo processo, il foglio mostra delle parti leggermente più
sottili in corrispondenza dei fili metallici, dando luogo a una caratteristica chiamata "vergellatura". Questa
tecnica raffinata di produzione ha dimostrato di essere un'eccellente alternativa alla pergamena, poiché
consente l'utilizzo efficiente dei materiali di scarto e produce un supporto scrittorio di alta qualità.
Nel Medioevo, la produzione di carta da stracci offrì un'alternativa economica alla pergamena. I produttori
svilupparono tecniche per creare marchi distintivi visibili in controluce modellando i fili verticali durante la
produzione. La carta da stracci era robusta ed elastica e consentiva l'uso degli stessi tipi di inchiostro
utilizzati sulla pergamena. La produzione di carta richiede l'impiego di mulini idraulici, le località prossime ai
fiumi godono di un vantaggio in quanto sono privilegiate per la presenza di tali mulini.
Nel corso del XVI-XVII secolo, il processo di produzione della carta ha subito delle modifiche. Sono state
sviluppate carte più sottili, di colore più bianco (a seconda della materia prima utilizzata) e più raffinate.
Tuttavia, si sono verificati problemi relativi all'utilizzo degli inchiostri. L'inchiostro ferro gallico,
comunemente usato, è leggermente acido. La carta prodotta da stracci, essendo robusta, assorbe
l'inchiostro senza grandi difficoltà. Tuttavia, le carte sottili, a causa della loro delicatezza, potrebbero
deteriorarsi nel tempo, tagliarsi o addirittura mostrare la scrittura del lato opposto quando esposte alla
luce, a causa della loro trasparenza. Questi sviluppi hanno sollevato sfide pratiche nell'utilizzo di questo
nuovo tipo di carta. L'acidità degli inchiostri sulla carta di stracci ha richiesto modifiche nella composizione
per renderli meno aggressivi. L'introduzione della cellulosa ha portato a una carta giallastra e più rigida,
utilizzata nei quaderni moderni ma meno resiliente rispetto alla carta tradizionale di stracci, che ha resistito
per quasi un millennio.
Per quanto riguarda la conservazione di manoscritti e documenti, sia la carta che la pergamena richiedono
specifiche condizioni ambientali per mantenere la loro integrità nel tempo. È consigliabile mantenerle a una
temperatura costante di circa 18-20 gradi Celsius e a un livello di umidità non superiore al 50%, in quanto
entrambi i materiali reagiscono alle variazioni climatiche in modo analogo agli esseri umani.
Inoltre, dal XIII al XV secolo, si è assistito a una trasformazione nella scrittura utilizzata comunemente,
passando dalla carolina alla gotica documentaria e corsiva. Queste forme di scrittura, adottate nella pratica
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quotidiana, hanno rappresentato un cambiamento significativo. Nel tardo Trecento, la prima generazione di
umanisti, desiderosa di rivitalizzare la cultura classica e gli ideali del mondo antico, ha avvertito la necessità
di sviluppare una scrittura che si allontanasse progressivamente dalle convenzioni dell'epoca. Questa
esigenza rifletteva l'aspirazione di riportare in vita la scrittura degli antichi e di riutilizzarla nel contesto del
Rinascimento umanistico.
Scrittura “all’antica”
Boccaccio e Petrarca, figure prominenti nel revival della cultura antica, hanno svolto un ruolo significativo
nell'integrazione del mito antico nelle loro opere. Tuttavia, è Petrarca che ha promosso attivamente la
scrittura in stile antico. Nella sua ricerca di antichi testi, Petrarca ha acquisito manoscritti provenienti da
monasteri in crisi economica, desiderosi di vendere i loro codici. Pur credendo di possedere codici romani
autentici, Petrarca spesso possedeva manoscritti in stile carolina del IX secolo. Questo sforzo di emulare la
scrittura antica si è rivelato vano, poiché ha ostacolato l'evoluzione della scrittura carolina.
L'influenza degli umanisti, tra cui Coluccio Salutati, ha portato a una progressiva ammorbidimento della
scrittura, con lettere meno rigide rispetto ai codici precedenti. Questo processo ha portato alla
codificazione e alla canonizzazione di uno stile di scrittura originariamente sviluppato nell'Alto Medioevo,
creando così una forma standardizzata di scrittura manoscritta.
Mentre gli umanisti continuavano a lavorare in un'era di scrittura manuale, a partire dal 1520 i testi a
stampa hanno cominciato a circolare in tutta Europa. I manoscritti hanno continuato a mantenere il loro
valore, influenzando anche la produzione dei primi libri a stampa, noti come incunaboli, stampati entro il
1499. Questi libri sono stati progettati in modo da imitare l'aspetto dei manoscritti precedenti, poiché i
grandi mecenati avrebbero rifiutato volumi che non rispettassero tale estetica. Possedere una biblioteca,
come dimostrato dal papa e dai principi dell'epoca, era un segno di cultura e potere.
Le tipologie di documenti sulle quale si può basare ricostruzione storica
Nei primissimi secoli del Medioevo, dal IV fino al VII-VIII secolo d.C., gran parte della documentazione
storica è andata perduta. Gli archivi pubblici e privati dell'età romana, ad eccezione di alcune situazioni
particolari come Pompei, sono scomparsi a causa dell'assenza di cura e si sono ridotti in polvere. La storia
dell’Impero Romano e greco viene quindi ricostruita principalmente attraverso fonti archeologiche,
testimonianze epigrafiche (iscrizioni su pietra e bronzo) e testi di grandi storici antichi trascritti nel corso del
tempo.
Le testimonianze epigrafiche, trascritte principalmente nell'800 da studiosi dell'Accademia delle Scienze di
Berlino come Theodor Mommsen, forniscono una base solida per la ricerca storica. Dopo il VII e VIII secolo,
la quantità di documenti disponibili aumenta, ma il periodo intermedio crea problemi perché i ritrovamenti
archeologici sono rari e dispersi. Questo periodo è caratterizzato dallo spopolamento dell'Europa, con
condizioni climatiche negative, carestie e morti, anche se la fine dell’Impero Romano non segna la fine della
civiltà romana. L'amministrazione scompare, le scuole e gli uffici pubblici sono assenti. L'Europa diventa
semideserta, con popolazioni germaniche semi-nomadi che lasciano poche tracce permanenti. Le
informazioni provengono principalmente da chiese, sepolture e corredi funebri, fornendo indizi sulle
specifiche culture delle popolazioni e sul loro mescolamento con la cultura romana. In Italia, ad esempio, si
osserva un aumento dei documenti nel ravennate, poiché Ravenna è la sede dell'Isarca, l'imperatore
dell'Italia bizantina, e ci sono numerosi papiri ravennati che offrono importanti informazioni storiche.
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Le fonti narrative rappresentano l'unico mezzo disponibile per la ricostruzione storica del periodo in
questione. Esistono due principali tipologie di fonti: da un lato, le grandi storie nazionali, in cui i popoli
germanici che si insediano nel territorio romano (e prima ancora di ciò) assorbono elementi della cultura
romana, tra cui la pratica di mantenere una memoria scritta delle gesta (le res gestae), soprattutto riguardo
alla storia del popolo e dello stato. Se analizziamo la storiografia fino all'epoca repubblicana, notiamo la
presenza di storie di città romane che, sebbene non siano pervenute fino a noi, sono menzionate in altre
opere più generiche.
Con l'ascesa dell'egemonia imperiale romana, c'è stata una focalizzazione del racconto storico, in cui la
storia stessa è vista come una forma di letteratura secondo il pensiero romano. Tacito, ad esempio, si
concentra sui grandi uomini e le grandi imprese, mentre la storia locale è inserita in questo quadro solo
quando ha rilevanza in contesti più ampi. Quando Roma non è più presente come entità politica, il suo mito
persiste, trasformandosi in una sorta di ossessione. Questo mito si basa sull'interpretazione dell’Impero
Romano come uno dei grandi imperi, un'idea legata alla celebrazione della visione profetica del re di
Babilonia descritta nel Libro di Daniele, in cui compare il celebre colosso con testa d'oro, petto d'argento,
gambe di ferro e piedi d'argilla, rappresentanti la successione degli imperi dominanti nel mondo. Questo
mito sottolinea la concezione di Roma come un impero immortale; sebbene la città possa cadere, il suo
spirito persiste. Questo spirito, secondo tale visione, viene trasferito da Roma a Costantinopoli, che quando
è fondata da Costantino, viene chiamata Nea Roma, indicando chiaramente il suo status di nuova Roma in
sostituzione della precedente. Quindi, quando nel 1453 cade la vecchia Roma, il patriarca di Mosca
proclama che le prime due Rome sono cadute, mentre la terza è Mosca e non sarà abbattuta.
I popoli germanici che si stabiliscono nei territori dell'ex Impero Romano devono confrontarsi con questa
eredità. Non avendo una lingua scritta propria né un alfabeto adatto alla produzione di testi comuni,
utilizzano il latino, la lingua di Roma, per scrivere le loro storie nazionali. L'alfabeto in uso, anche se
presente solo in iscrizioni funebri o utilizzato per scopi divinatori, aveva significati e utilizzi completamente
diversi da quelli di un alfabeto tradizionale, essendo considerato magico e sacro. Questi popoli germanici
adottano il latino come lingua per documentare la loro storia, dando vita a un corpus di narrazioni che ci
offrono preziose informazioni sul loro mondo.
Paolo Diacono ha composto la "Historia Longobardorum", un'opera che racconta la storia del popolo
longobardo dalla sua origine mitica fino al culmine del suo potere, rappresentato dalla morte del re
Liutprando nel 744. L'opera affronta il tema ricorrente della patria originaria, un concetto presente in molte
narrazioni e un topos letterario che emerge costantemente. Queste popolazioni, che affidano la loro
memoria all'oralità e ai racconti tramandati di generazione in generazione, sentono l'esigenza di avere una
storia scritta per affermare la propria identità. Pertanto, seguono i modelli degli scrittori romani, cercando
di sentirsi allo stesso livello di cultura. Nel racconto della morte di Alboino, Diacono presenta una storia
romantica e tenebrosa che coinvolge Rosmunda, figlia del re dei Gepidi. Alboino, ubriaco, la umilia
costringendola a bere da una coppa fatta dalla calotta cranica di suo padre. Questo gesto, sebbene possa
sembrare assurdo, rappresenta un atto di cannibalismo rituale, una pratica tipica delle popolazioni nomadi
dell'epoca per assorbire la forza del nemico. Rosmunda, offesa, complotta per vendicarsi e, con l'aiuto di
una guardia del corpo, uccide Alboino. Questo racconto tenebroso è utilizzato da Diacono per sottolineare
l'unicità del mondo dei Longobardi, dimostrando che, nonostante fossero barbari, avevano una patria
comune, re fin dall'inizio e quindi erano sullo stesso piano dei popoli germanici e dei romani.
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L'idea di una patria ancestrale da cui partire è comune in queste narrazioni. Ad esempio, gli Etruschi, noti
come tirreni dai Greci, secondo alcune fonti discendono da una regione dell'Anatolia e dell'Asia minore.
Durante una grande carestia, il loro re decide che metà del popolo deve partire per trovare una nuova terra
per garantire la sopravvivenza dell'altra metà. Nel IV secolo, uno storico afferma che gli Etruschi in realtà
sono italici e rappresentano una popolazione indigena più avanzata culturalmente rispetto alle altre.
Questa concezione sottolinea spesso l'idea che un popolo debba essere civilizzato da una cultura esterna
per progredire, piuttosto che evolvere autonomamente nella propria terra.
Questi topos letterari rivelano il carattere di queste popolazioni, ancora legate all'oralità e ai racconti
tramandati, ma che sentono l'urgenza di avere una loro storia scritta. Per far ciò, attingono agli autori
ecclesiastici, che possiedono una solida cultura classica e religiosa, attingendo anche dai modelli della
Bibbia. Ad esempio, nel racconto della conversione di Clodoveo, il re viene battezzato dal vescovo in un
episodio che richiama chiaramente il battesimo di Cristo e l'immagine della colomba bianca.
Nel contesto delle leggi longobarde, emerge l'importanza dell'editto di Rotari del 643, un momento cruciale
per il popolo longobardo che fino ad allora non aveva avuto un corpus legislativo scritto. Queste leggi
scritte erano redatte in latino, la lingua colta e quella utilizzata nel contesto giuridico dell'epoca. L'intento di
Paolo Diacono era duplice: da un lato, preservare la memoria del suo popolo e, dall'altro, dimostrare che i
Longobardi non erano inferiori ai popoli germanici né ai Romani; erano semplicemente una comunità con
una propria patria e normative.
Nel panorama culturale, gli scrittori adottavano ancora gli stilemi della storiografia greca e romana, anche
se gradualmente si allontanavano dal latino. Le successive generazioni di autori, specialmente quelli di
epoca bizantina, preferivano scrivere in greco, poiché opere come quelle di Senofonte erano composte in
questa lingua. Questo passaggio al greco antico era evidente nei testi epici, basati sulla versione greca
dell'Iliade e dell'Odissea, e nelle opere storiche, ispirate al greco antico di Senofonte.
Gli scrittori continuavano a narrare la storia del popolo romano, inserendola in una prospettiva cristiana e
spesso iniziando dai tempi della creazione del mondo. In particolare, i Bizantini documentavano gli eventi
storici contemporanei, creando una tipologia di storiografia che sarebbe tornata in voga in Occidente solo a
partire dal XII secolo. Nonostante la perdita degli archivi orientali, molte di queste cronache sono giunte
fino a noi grazie alla diffusione di numerose copie.
Nell'ambito della storiografia medievale, le "Storie Nazionali" assumono una rilevanza particolare nei primi
secoli del Medioevo, un periodo in cui la tradizione storica locale, che era in parte smarrita durante l'epoca
romana, conosce una rinascita con una caratteristica distintiva rispetto all'età classica. Le "Storie Nazionali"
si concentrano principalmente sulle biografie dei vescovi o degli abati, nel caso di monasteri
particolarmente influenti, che hanno giocato un ruolo di notevole importanza nelle vicende cittadine. In
molti casi, le città hanno come patrono il santo vescovo, poiché nei racconti agiografici il vescovo interviene
in momenti critici per salvare la città da minacce quali invasioni barbariche, pestilenze, alluvioni, terremoti
o altre catastrofi. Il vescovo protegge la città durante la sua vita e ancor di più dopo la sua morte,
diventando un intermediario presso Dio. Questi vescovi vengono spesso santificati poco dopo la loro
scomparsa e diventano il patronus della città, in quanto rappresentano l'unica autorità residua capace di
organizzare l'amministrazione, la difesa e la giustizia nella comunità cittadina, soprattutto in un contesto in
cui manca una struttura civile organizzata. Questo fenomeno si ritrova anche al momento della dissoluzione
dell'Impero carolingio, sebbene in forme più limitate. Il vescovo diventa la personificazione diretta della
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città, al punto che alcune città prendono il nome dal Santo Vescovo. Questo tipo di narrazione diventa
predominante poiché le grandi storie nazionali rappresentano solo una fase relativamente breve della
storia, limitata all'VIII secolo. D'altra parte, le storie degli abati, come quelle di San Benedetto o San
Colombano, o dei grandi fondatori dei monasteri e degli abati influenti, hanno un effetto opposto rispetto
alla storiografia romana. Mentre la storia romana adottava una prospettiva più ampia, questa storiografia
medievale è estremamente focalizzata su un singolo luogo e un singolo individuo, con il risultato che tutto
ciò che è circostante tende a scomparire nel racconto.
MARTEDÌ 17 OTTOBRE
Un documento è un testo in genere di natura giuridica emanato da un’autorità pubblica nell’ambito di un
rapporto tra privati per attestare e definire che dei negozi hanno valore giuridico. Esso può essere pubblico,
quando fatto da autorità pubbliche (enti o persone - pubblici ufficiale, come il notaio) oppure può avere
natura privata quando l’accordo riguarda solo persone private (anche un pubblico ufficiale lo può redigere
quando non lo coinvolgono come pubblico ufficiale).
Un documento è un testo che, per quanto riguarda l’alto medioevo, è scritto su un singolo foglio di
pergamena. Nel corso dell’Alto Medioevo l’uso della pergamena come supporto scrittorio cambiò la forma
dei libri: prima c’erano i volumina (con forma a rotolo, da volvere, arrotolare). Il modello che si segue
dall’alto medioevo in poi si usa il libera (forma di registro, come i nostri libri).
I testi letterari sono scritti su questi libri.
L’archivio del monastero, separato dalla biblioteca, è dotato di charte. Una charta è un foglio singolo di
pergamena, sul quale viene riportato il testo del documento. Nell’Europa medievale si determina una
dicotomia linguistica: la lingua scritta e quella parlata sono diverse. La scrittura in latino presuppone un
livello di istruzione non comune, specialmente per i termini giuridici. Per questa ragione la redazione dei
documenti presuppone la presenza di un “tecnico”, un literato (una persona che non solo sapeva leggere e
scrivere, ma che sapeva anche il latino). Per i primi secoli del medioevo si tratta di un gruppo molto
ristretto, tra cui:
- ecclesiastici di alto rango,
- ebrei (che per la loro religione dovevano saper leggere la Torah),
- i giuristi, i “tecnici” del diritto. I popoli germanici abbandonano la loro tradizionale trasmissione
mnemonica della legge (in latino).
I testi hanno un’utenza ridotta, ciò ci riporta al discorso dell’aspetto dei testi: dovevano essere belli per
rimarcare la loro importanza agli occhi di chi non sapeva leggere.
Abbiamo una produzione che dal VII/VIII secolo inizia ad aumentare e contribuisce l’assestarsi meno
provvisorio della carta politica europea (che si consoliderà come Europa che conosciamo oggi nel /XIII sec).
Siamo al culmine dell’espansione franca e della stabilità dell’impero carolingio. Non è un caso che in questo
periodo sia abbia un momento di ripresa della produzione di documenti, che ci sono arrivati tramite canali
di conservazione legati agli enti ecclesiastici. Le motivazioni sono semplici: gli enti ecclesiastici erano molto
stabili, e avevano una predisposizione che prevedeva una durata infinita delle memorie, tendevano quindi a
conservare tutti i documenti.
Invece i laici avevano una scarsa attitudine alla conservazione per lungo tempo dei documenti, se non
quelle specifiche famiglie aristocratiche e nobili. Bisogna notare che il sistema in vigore per la trasmissione
dell’eredità cambia: prima era in vigore quello tipico germanico (ovvero quello che prevede che figli e figlie
si spartiscano equamente l’eredità). A partire dal X sec vediamo cambiare questo sistema nelle famiglie
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aristocratiche: si inizia ad usare il sistema gentilizio che privilegia il primogenito maschio, evitando la
dispersione di titoli e cariche. Questa ripartizione impatta la maniera di come si strutturano i documenti: se
a ogni figlio do una parte uguale allora devo dare a ogni figlio un documento che attesti quel possesso. Se
invece tutta l’eredità va a uno solo è più facile che la famiglia non si impoverisca e solitamente questa
persona che eredita avrà più cura nella conservazione dei documenti.
Il fatto che anche tra gli enti ecclesiastici ci fosse una gerarchia ha fatto sì che alcune aree territoriali
registrassero una concentrazione maggiore di documenti. Non tutti gli enti ecclesiastici hanno avuto una
continuità tale da consolidarsi e conservarsi nel tempo e quindi di creare archivi importanti, molti dei loro
documenti infatti sono stati inglobati da enti ecclesiastici più importanti, fortunati e longevi che hanno
incluso nelle loro proprietà questi documenti. C’erano 3 tipi di enti ecclesiastici:
- sedi episcopali: ci hanno tramandato una documentazione importante e continua per la natura.
Coincidono con le vecchie civitates romane. Può avere il rango di città solo quel centro che è
sede episcopale, indipendentemente dalle dimensioni fisiche o densità demografica (esempio:
per buona parte del medioevo Torino è un centro urbano relativamente piccolo (ha circa 5mila
abitanti), ed è sede episcopale. Il centro urbano grande e popoloso è Chieri, ma non è sede
episcopale. In ogni caso le diocesi preesistenti non vengono soppresse e la continuità fa sì che ci
sia un processo di accumulazione dei documenti.
I vescovi avevano incarichi molto importanti e competenze molto vaste, specialmente quando
le autorità laiche mancavano. Rapporti tra i vescovi e il vescovo di Roma: oggi siamo abituati ad
una struttura gerarchica. Nell’Alto Medioevo la situazione è diversa: innanzitutto c’era una
comunicazione ridotta e ogni vescovo era il capo della propria diocesi (anche per
un’impostazione teologica), salvo decisione dei consigli ecumenici. Per i primi secoli (fino al XIII)
non troviamo interventi del vescovo di Roma in altre diocesi (se non quelle adiacenti). I vescovi
sono i successori degli apostoli e i metropoliti consacrano i vescovi della diocesi. I vescovi hanno
una grande valenza politica. Tra il VII e il IX sec vediamo documentazione relativa alla diocesi
che si accumula nell’archivio episcopale.
-
capitoli delle cattedrali: Parallelamente c’è l’archivio dei canonici. I canonici sono gli aiutanti
del vescovo e anche loro producono un’importante serie di documenti. Il patrimonio del
vescovo e quello dei capitoli è diverso: la mensa episcopale e la mensa dei canonici, perché
ognuna delle due è l’insieme dei bei che forniscono sostentamento al vescovo o ai canonici.
Hanno quindi due amministrazioni separate. In ogni cattedrale c’è un collegio di canonici e in
alcune città molto popolose ci sono chiese collegiate (che hanno una sede di capitolo di
canonici). I canonici non fanno parte di un ordine: non sono sacerdoti o monaci e vivono una
vita comunitaria e seguono la regola patrum (regola dei padri). Per essere canonico bastava
avere il diaconato (i primissimi ordini), è un grado che hanno molti studenti universitari, che
hanno uno status particolare: dall’epoca di Federico Barbarossa gli studenti universitari godono
di tutte le immunità degli ecclesiastici, tipo non essere giudicati da tribunali laici; quindi,
siccome la Chiesa non versa sangue, le pene sono molto minori). I canonici sono quindi il
collegamento tra la società cittadina e il vescovo. Rappresentano le più influenti famiglie della
società, in modo da avere una connessione diretta col vescovo. Il raccordo tra la società urbana
(ben documentata) e la società extraurbana è rappresentato dalle pievi, una chiesa extraurbana
che ha il diritto di fonte battesimale (non tutte le chiese hanno il diritto di impartire dei
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sacramenti. È anche una forma di controllo sociale sulla popolazione). Molto spesso le pievi
attiravano a sé la popolazione. Per gran parte del medioevo il battesimo si faceva da adulti, lo si
conferiva a qualcuno in grado di capirlo ed era amministrato in momenti specifici dell’anno (con
una grande vegli di preghiera, tutti vestiti di bianco con la candela in mano ecc.). Il battesimo
dei bambini è concesso solo se c’era immediato pericolo di vita, per salvare la propria anima. Il
ruolo dei santi è anche una forma di controllo sulla società contadina, che spesso ha
opposizioni dal punto di vista teologico. Anche in città, là dove ci sono numeri di popolazione
consistenti e la cattedrale o la collegiata non sono sufficienti per amministrare i sacramenti, si
crea una struttura di chiese urbane che hanno diritto di fonte battesimale (a Roma i cardines e
a Milano tituli). Dal punto di vista dei documenti solo poche chiese hanno lasciato una
documentazione organizzata: spesso troviamo le documentazioni relative a queste chiese negli
archivi episcopali.
-
monasteri (benedettini per quanto riguarda fino al XIII sec): i monasteri sono un’istituzione e
sono la risposta alla domanda di vita ascetica che ha interessato la Chiesa fin dai primi secoli.
Gli stiliti e i dendriti (eremiti che stanno su una colonna o su un albero, nutrendosi di ciò che
viene portato loro dai devoti). Oppure i padri del deserto (sant’Antonio da Bari). Per
organizzare queste forme estreme di devozione la chiesa tende a organizzare questi devoti in
forme di vita comunitaria. Le prime regole che si affermano nascono in Oriente: San Pacomio, la
regola di San Basilio (quella che ancora oggi regge la vita dei monasteri ortodossi. Prevede due
tipi di vita comune: quella che prevede che ognuno viva per conto loro e si riuniscano solo per
le celebrazioni dei riti sacri e la regola idioritmica -degli stessi tempi – in cui vivono in comunità
e condividono tutto). In occidente la prima regola che si diffonde è quella di Sant’Urbano, con
una regola rigidissima (lunghi digiuni e ritmi molto serrati). A partire dal VI sec arriva la regola
Benedettina (di San Benedetto da Norcia). Egli mise la preghiera e il lavoro sullo stesso piano
(ora et labora). Ebbe grande successo e convertiranno molti monasteri fondati secondo la
regola irlandese, perché erano meno severi e più pratici per la vita comune. Con il XIII sec
emergono nuovi ordini. I cluniacensi, i cistercensi ecc sono declinazioni e riforme dei
benedettini. Questa grande fioritura di monasteri interessa tutta l’Europa cristiana. Come
scriveva Rodolfo il Glabro intorno al X sec l’Europa si copre di un bianco mantello di chiese.
La prima fase della creazione dei monasteri avviene attraverso famiglie potenti che fondano e dotano il
monastero di patrimonio e destinano uno dei figli minori a diventare nuovo abate (devotio paterna), o si
fanno monaci loro stessi del monastero che hanno fondato. Ciò avviene per motivi di fede personale o
perché con questo sistema si rende immune il proprio terreno dalla tassazione laica e del controllo statale.
C’è sempre l’idea del Gius patronato per cui si chiede ai monaci di pregare per la sua anima ma si riservano
sempre diritto di nomina e intervento nella vita del monastero. La monacazione dei figli di aristocratici si
mantiene per tutto il medioevo, spesso per l’elemento femminile. Spesso per motivi pratici: il diritto di
avere parte dell’eredità cade se la figlia è monaca. Ma in fondo essere monaca non era il destino peggiore:
spesso si poteva così sfuggire ad un matrimonio d’interesse (ad esempio i genitori di Federico II di Svevia:
Costanza d’Altavilla all’ora 30enne, tratta fuori dal monastero viene data in moglie da e Enrico VI, 17enne).
Inoltre, stando in monastero si poteva diventare badesse, una carica molto importante, in quando erano
delle “regine” di piccoli stati autonomi: avevano il potere di esercitare un potere che se fossero state mogli
non avrebbero avuto.
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Alcuni dei fondatori del X sec tendono ad allentare il controllo che si riservano sugli istituti che fondano: tra
questi laici che cambiano il modo di rapportarsi alle istituzioni che hanno fondato c’è il duca Guglielmo IX di
Aquitania, il quale decide di fondare un monastero e dotarlo, ma differentemente dai suoi contemporanei
non chiede per sé il privilegio di scegliere l’abate. Nasce così un monastero autonomo. Guglielmo
sottopone la sua nuova istituzione direttamente agli apostoli Pietro e Paolo (sede Romana) ed opera una
rottura col passato: i monaci non sono preti, e normalmente non possono celebrare la messa, non possono
consacrare l’acqua benedetta e soprattutto non possono consacrare un nuovo abate, compito che
precedentemente spettava al vescovo locale; quindi, erano autonomi ma comunque inseriti nel tessuto
diocesano. Guglielmo IX decide di rendere la sua istituzione autonoma dalla diocesi locale (perché aveva
avuto degli attriti con il vescovo di Macon), rendendosi dipendenti dal vescovo di Roma: i cluniacensi.
I cluniacensi rivedono della regola benedettina ora et labora, dando più importanza alla preghiera. Infatti,
una delle innovazioni dottrinali elaborate da Cluny è l’introduzione dell’idea del limbo: ci si era spesso
domandati dove andassero le anime non battezzate e sono i cluniacensi a introdurre un luogo nell’aldilà
dove le anime di persone buone ma non battezzate attendono. Il limbo era un luogo creato prima della
nascita di cristo per accogliere le anime dei patriarchi, e si era svuotato durante i 3 giorni in cui cristo è nella
tomba, in cui scende agli inferi, va al limbo e libera le anime dei patriarchi per portarle in paradiso; il limbo
si trova così vuoto e viene usato per le anime dei non battezzati.
Altra innovazione è il purgatorio: nella teologia del cristianesimo delle origini il purgatorio non c’è. Queste
anime che stanno nel purgatorio soffrono. Come si fa ad accelerare la loro ascesa verso il paradiso? Con le
preghiere, che sono come angeli e le loro voci vengono ascoltate in cielo. Cluny è un’officina di preghiera.
Inevitabilmente quando questi concetti si diffondono e Cluny intercetta le donazioni: abbiamo una massa di
documenti che attestano queste donazioni, conservati negli archivi di Cluny.
I cistercensi, invece, puntano molto sul lavoro: anche loro attirano molto le donazioni. Attraverso le charte
monastiche riusciamo a ricostruire anche tipologie di coltivazione, rapporti tra proprietari terrieri e
conduttori degli appezzamenti agricoli. Queste carte sono ATTI DI PROPRIETÀ (lo chiede spesso all’esame e
molti rispondono che sono carte sui vangeli ma è la risposta sbagliata!!). Troviamo molti atti di acquisto o di
scambio: questo perché i beni di proprietà della chiesa non appartengono agli ecclesiastici; questi quindi
non possono vendere, possono solo comprare.
Raramente ci sono atti sulla gestione dei beni (la contabilità): dobbiamo tenere presente l’utilità giuridica
dei beni: se arriva qualcuno e contesta la proprietà di una terra, ciò che garantisce è l’atto di proprietà
(acquisto o donazione). Quindi un atto di gestione dei beni non è utile dal punto di vista giuridico come un
atto di proprietà.
LUNEDÌ 23 OTTOBRE
La documentazione medievale è principalmente centrata sui beni fondiari, con una presenza limitata di
documenti ecclesiastici o di altre tipologie. Nei monasteri, in particolare, dove i monaci non svolgono
compiti sacerdotali, si trovano principalmente documenti relativi alla proprietà terriera. Questi documenti
costituiscono testimonianze scritte di atti giuridici come compravendite, permutazioni o sentenze. Essi
seguono formule e strutture specifiche progettate per garantire l'autenticità e la validità giuridica, fornendo
così una prova legale affidabile.
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Un aspetto rilevante dell'età medievale è l'obbligo di redigere i documenti "per grammaticam", ossia in
latino, la lingua del diritto. Questa pratica evidenzia il bilinguismo presente tra il linguaggio parlato, cioè il
volgare neolatino o germanico, e quello scritto, il latino, utilizzato solamente in contesti tecnici. Questi
documenti seguono una struttura che include tre parti principali:
1. Autore: colui che promuove l'azione e compie l'atto giuridico come donazione, vendita o
concessione in enfiteusi.
2. Destinatario: colui che riceve l'azione descritta nel documento.
3. Rogatario: una terza parte che interviene nel documento, ancora oggi chiamata rogito negli atti
notarili, indicante la richiesta di intervento di una terza parte per formalizzare il documento in
modo legale.
Il latino utilizzato presenta tratti del volgare che la gente parla: nel documento di area umbra, ad esempio si
avvertono gli echi di una parlata che è quella dell’Italia centrale, sotto il latino.
L'analisi dei documenti storici rivela diversi elementi, tra cui una politica di espansione della proprietà
fondiaria da parte degli enti ecclesiastici. In alcuni casi, emergono momenti di tensione con le comunità
locali, soprattutto quando intervengono unità superiori come diplomi imperiali o funzionari pubblici. Questi
interventi spesso sono legati alla necessità di ridefinire i rapporti di autorità.
Uno degli esempi di tensione documentato è rappresentato dai placiti, un genere di documento che
documenta un giudizio pubblico tenuto dai rappresentanti del potere sovrano o da delegati, specialmente
nel caso di istituzioni che godono di “immunità negativa”, un privilegio consente a molte istituzioni
ecclesiastiche di negare l'accesso a funzionari pubblici, di esimersi dagli obblighi militari e fiscali, e di evitare
di presentarsi davanti al tribunale regio. Alcuni placiti derivano da cause esterne, ma spesso è l'istituzione
ecclesiastica stessa a provocare il giudizio, mettendo in scena una contesa apparente. In molti casi, la
sentenza giudiziaria non fa altro che confermare un diritto già consolidato, posto in discussione solo per
scopi formali.
Nell'esame dei documenti di questo periodo, è essenziale considerare che la conservazione e la selezione
dei documenti sono stati guidati da un preciso scopo. Non troveremo mai placiti in cui un ente ecclesiastico
sia risultato soccombente legalmente, né documenti che attestano la vendita o la cessione definitiva di
terre. La conservazione dei documenti è stata orientata verso la preservazione di quelli utili alla protezione
del monastero; le sentenze negative o gli atti non rilevanti sono stati esclusi. Pertanto, l'immagine
risultante è inevitabilmente distorta, poiché rappresenta solo una parte selezionata dei documenti. Durante
la fase di razionalizzazione e sistematizzazione della documentazione, i documenti selezionati vengono
trascritti accuratamente nel cartulare, un registro in pergamena. La scelta dei documenti da includere nel
cartulare è basata sulla loro rilevanza, evidenziando i successi dell'ente nella difesa dei propri diritti.
All'interno dei cartulari, viene riportato il testo integrale dei documenti originali, trascritti con estrema
precisione e attenzione ai dettagli, cercando di replicare fedelmente i caratteri del documento originale.
La trascrizione segue dei criteri:
- Selezione della documentazione considerata importante;
- Organizzazione organizzano in sezioni tematiche o topografiche al fine di renderli più
facilmente reperibili. È il momento della redazione della cartularia, nella quale si effettuano
operazioni di interpolazione o falsificazione.
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Nel processo di trascrizione dei documenti originali in forma di registro, il valore legale si trasferisce al
registro stesso, portando alla limitata consultazione e conservazione delle carte originali. Questo fenomeno
ha causato la perdita di diversi documenti originali, dando luogo a situazioni in cui sono conservati solo i
cartulari monastici o solo gli originali, ma non entrambi. Il formalismo presente in queste carte, concepito
per conferire loro validità legale, è il risultato di una trasmissione di competenze tra gli scribi (rogatari). Le
modalità di trasmissione di queste competenze nell'alto Medioevo non sono ben documentate, ma
sappiamo che all'interno dei monasteri venivano istituite scuole di scrittura. Queste istituzioni erano
principalmente focalizzate sulla formazione degli scriptores, individui capaci di produrre copie accurate dei
manoscritti, spesso legate alla presenza delle biblioteche monastiche.
Nell'alto Medioevo, l'istruzione includeva anche la formazione di individui con competenze giuridiche per la
redazione di documenti legali. Ciò è dimostrato dalla presenza di numerosi sottoscrittori e rogatori laici,
indicando l'esistenza di scuole laiche. Questa trasmissione di competenze avveniva anche all'interno delle
famiglie, creando una sorta di dinastia professionale. L'influenza della lingua parlata può essere notata nei
documenti, con deformazioni linguistiche che riflettono il volgare utilizzato nella comunicazione quotidiana.
Un punto di riferimento fondamentale in questo contesto è Cassiodoro, un senatore romano del periodo
delle cancellerie di Teodorico e dei suoi successori. La sua opera "Variae" fornisce diversi modelli di
documentazione. Tuttavia, essendo un rappresentante della cultura classica tardo-antica, Cassiodoro
presenta strutture e un tono linguistico inapplicabili e comprensibili solo per un pubblico colto. Questi
modelli trovano applicazione limitata nelle lettere della cancelleria papale, specialmente in registri come
quello di Giovanni VIII, in cui sono scambiati tra ecclesiastici di alto rango con una conoscenza linguistica più
raffinata e che hanno un valore legato non solo a esigenze immediate, ma anche a considerazioni di valore
generale. Queste lettere sono concepite per essere diffuse e rese note al più ampio pubblico possibile e
sono considerate testi di dottrina, motivo per cui assumono un tono particolare.
In Italia, la carenza di fonti documentali persiste fino all'XI secolo. La prima opera che introduce un metodo
per la redazione dei documenti è attribuita ad Alberico di Montecassino nell'XI secolo. Da questo periodo in
avanti, si sviluppa l'"artes dictandi", ovvero la pratica di redigere documenti che diventa sempre più diffusa
nei secoli successivi. In questi documenti, coesistono elementi del diritto germanico e del diritto romano,
con quest'ultimo che comincia ad essere applicato in modo consuetudinario dalla fine dell'XI secolo,
soprattutto con la rinascita degli studi giuridici. Il diritto romano guadagna gradualmente preminenza,
sebbene il Codice Giustiniano non sia ancora completamente conosciuto. La sua vera riscoperta avviene alla
fine dell'XI secolo.
Un po’ più ricca da punto di vista delle informazioni è l’area franca, perché il fatto che il regno dei franchi si
sia assestato dal punto di vista politico-amministrativo già a inizio del VI secolo, ha avuto un’importanza
rilevante; a differenza dell’Italia, con i franchi si arriva ad una fusione progressiva dell’elemento franco con
quello romano grazie Clodoveo, che si converte al cattolicesimo insieme al suo popolo. Per l’area franca
abbiamo quindi delle informazioni un po’ più dettagliate e ampie su quello che è il processo di trasmissione
delle conoscenze anche in ambito tecnico giuridico.
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La focalizzazione della produzione di scritture su documenti con valore legale, ammissibili in un contesto
giuridico, comporta una selezione rigorosa dei documenti da conservare, con l'abbandono di gran parte
delle scritture correnti che mancano di rilevanza giuridica significativa.
I contratti di enfiteusi o di locazione delle terre permettevano di affittare un terreno per tre generazioni o
di concederlo in uso con la clausola "ad pastenandum", che impone l'obbligo di apportare migliorie alla
proprietà. Questi accordi sono perpetui e vincolano il concessionario e le future generazioni discendenti da
lui, garantendo la concessione del terreno fintanto che vengono mantenuti gli impegni presi nei confronti
dell'ente ecclesiastico, ovvero:
- di servizio e di pagamento di determinati censi in natura (una parte del raccolto) che tende ad
aumentare;
- di canoni censitori che sono delle forme di pagamento che hanno un valore simbolico che va al
di là del valore economico di ciò che vien consegnato (un prosciutto, due polli…) che non
contano per il loro valore quanto per il fatto che devono essere dati entro una data e con
formalità servono per ribadire che la persona che li dà è soggetta a colui che li riceve
(consolidare legame tra proprietario e conduttore del bene fondiario).
A partire dall'XI secolo, i monasteri hanno cercato di rinegoziare e ridefinire gli accordi di enfiteusi e
locazione delle terre, tentando di monetizzare i censi dovuti. Gli amministratori dei beni ecclesiastici si sono
impegnati nel trasformare tali contratti in affitti a breve termine, limitati a un massimo di 29 anni, dopo i
quali dovevano essere rinnovati. Questa pratica, che ha radici nel diritto romano in cui i contratti di 30 anni
erano comunemente contestati, ha portato all'inclusione delle genealogie delle famiglie contadine nei
documenti. Gli ecclesiastici spesso cercavano di annullare la validità del contratto sostenendo che il gestore
del terreno non era legittimamente autorizzato dal concessionario, rendendo difficile trovare un legittimo
occupante per periodi così prolungati.
Gli amministratori dei monasteri, degli episcopati e dei capitoli canonicali utilizzano documenti chiamati
polittici per gestire il patrimonio delle istituzioni. Questi polittici descrivono l'intero patrimonio dell'ente e
le rendite che devono pervenire all'istituzione, come i canoni censitori pagati in determinati periodi
dell'anno. Nei polittici monastici dinastici, l'obiettivo principale è di natura amministrativa, finalizzato a
tenere sotto controllo l'intera situazione patrimoniale dell'ente. Questi documenti, redatti in latino secondo
una forma grammaticale ma privi di caratteristiche formali specifiche come data precisa o firma, sono giunti
a noi in numero limitato. La loro scarsa validità legale ha contribuito alla loro limitata conservazione, poiché
i giudici non sapevano come interpretarli, rendendoli inutili in ambito giuridico. Nonostante ciò, la selezione
accurata di questi documenti ha contribuito a creare un archivio ecclesiastico alto medievale compatto,
caratterizzato da documenti simili provenienti dallo stesso ente e con uno stile uniforme. Questi
documenti, anche se limitati, offrono informazioni rilevanti, rivelando cambiamenti nei modelli di accordo
tra i conduttori delle terre.
Un esempio significativo è il polittico di Santa Giulia, riferito all'Abbazia di Santa Giulia di Brescia, un
importante monastero femminile di origine longobarda. Questi polittici svelano l'estensione del patrimonio
del monastero, che si estende dalle vallate alpine del bresciano fino quasi all'Italia centrale, compresa
Roma. Un aspetto interessante è che questi documenti smentiscono le concezioni tradizionali sull'economia
alto medievale. Nel polittico di Santa Giulia, ad esempio, la dimensione del bosco viene misurata in base al
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numero di maiali allevati e ai prodotti ottenuti dal bosco, che vengono successivamente scambiati con altre
corti. Questi polittici ci offrono preziose informazioni sulla gestione economica delle istituzioni
ecclesiastiche in questo periodo storico.
In Francia, l'Abbazia di Saint Denis, luogo di sepoltura dei re e strettamente legata al potere regio,
rappresenta un esempio significativo di gestione patrimoniale nel contesto ecclesiastico. Queste istituzioni
ricevono donazioni da luoghi distanti, il che contribuisce all'ingente quantità di beni di cui dispongono. La
gestione del patrimonio è orientata a massimizzare le rendite per i proprietari, che possono assumere la
forma di beni materiali o lavoro, un concetto che ritroviamo anche in documenti successivi, sia ecclesiastici
che laici.
Un esempio rilevante in questo contesto è il "Domesday Book” (Libro del Giorno del Giudizio), un ampio
registro risalente alla fine dell'XI secolo, ordinato da re Guglielmo I d'Inghilterra. Questo documento elenca
dettagliatamente le proprietà del regno, indicando cosa ciascuna proprietà contiene (ad esempio animali) e
quanto produce in termini di denaro o prestazioni. Il titolo del libro fa riferimento al passaggio evangelico
secondo il quale nel Giorno del Giudizio nulla può essere nascosto all'occhio di Dio; allo stesso modo,
attraverso questo libro, tutta la storia del regno viene esaminata in modo minuzioso, consentendo al re di
avere una conoscenza completa e dettagliata delle risorse del suo regno. Questo tipo di documenti fornisce
preziose informazioni sulla gestione economica delle istituzioni ecclesiastiche e laiche in questa epoca.
Nell'assenza di un'autorità centrale, la società ha iniziato a evolversi in modo autonomo, dando origine al
concetto di Signoria. Il dominus, proprietario delle terre, ha acquisito un'autorità significativa sui suoi
sudditi. Questo periodo ha visto anche l'emergere di una forma di dominio territoriale basato sulla
redditività delle terre e sulla capacità di coordinare il lavoro degli agricoltori. Nel corso del X secolo, periodo
di grande crisi, si è verificata l'adozione dell'incastellamento come risposta alle incursioni dei saraceni e ad
altri pericoli. Il dominus aveva il potere di costruire castelli, inizialmente strutture di legno, circondati da
fossati e palizzate, con una torre di osservazione all'interno del recinto, utilizzata come rifugio e punto di
osservazione in caso di pericolo. In questo contesto, sono sorte le "bannalitates", tasse legate al potere di
banno, attraverso le quali il dominus investiva in mulini e forni, obbligando poi i suoi sudditi a utilizzarli e
pagare per i servizi offerti. Queste dinamiche economiche e sociali hanno contribuito a definire la struttura
del potere locale durante l'alto Medioevo.
MARTEDÌ 24 OTTOBRE
In buona parte si tratta di documenti relativi a beni fondiari. Ricostruzione topografica e ambientale: in tutti
gli atti sono presenti degli elementi che si riferiscono al luogo fisico in cui si trovano i beni donati. Si va da
donazioni molto ampie di interi complessi di possedimenti e curtis a donazioni limitate di singole aziende
agricole mansi, complessi di campi coltivati + la casa affidati a una singola famiglia contadina. Oppure, il
caso più frequente, si tratta di singoli appezzamenti di terreno.
Abbiamo un livello di descrizione inversamente proporzionale alle dimensioni del bene donato: tanti più è
ivasto il complesso di beni che vengono donati, tanto meno definiti sono i confini di questi beni. Esempio: Il
diploma con il quale Ottone I dona ad Aleramo le terre che andranno a costituire il marchesato di
Monferrato: fra il Tanaro, la Bormida e le rive del mare.
Al contrario, se guardiamo l’atto di donazione o acquisto di un singolo terreno sarà descritto con grande
minuziosità le caratteristiche dei confini.
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In quasi tutti i documenti troviamo dei livelli di descrizione: ne troviamo 4 (quasi mai li troviamo tutti
assieme).
1. Livello territoriale: la tradizione a cui si rifanno questi documenti è quella romana e si incentra sulle
città. Per i romani il luogo che qualificava un’aerea era una città. C’è sempre un riferimento di tipo
cittadino. Nei documenti medievali può essere la diocesi (sede episcopale) o il comitato
(distrettuazione amministrativa di origine carolingia).
2. Castello, pieve o curtis
3. Villa o vicus cioè il villaggio
4. Locus quidicitur, il luogo che viene detto, c’è un toponimo locale, che può essere il nome
dell’appezzamento.
Quando cerco di collocare queste indicazioni su una mappa avrò una difficoltà crescente man mano che
andrò verso il particolare. La rete delle città è rimasta pressoché inalterata. È invece più complesso
identificare castelli e curtis, a differenza delle pievi, le quali sono rimaste e sono diventate chiese
parrocchiali. Villa e vicus sono in genere identificabili. Ciò che è quasi impossibile identificare sono i luoghi, i
quali hanno poca stabilità perché legati a situazioni contingenti (il castagneto viene tagliato, in un paio di
generazioni il nome “castagneto” si perde e viene sostituito da un altro microtoponimo).
A livello europeo a partire dal X sec c’è una grande crescita demografica fino ai primi decenni del ‘300. Poi
intervengono cambiamenti climatici (tra cui una piccola glaciazione) che comporta l’abbandono di certi tipi
di coltivazioni e poi c’è la mortalità legata alla grande peste. Questi fattori rendono certe zone (spesso i
piccoli centri) completamente disabitate.
Abbiamo un grande spostamento di persone, ne sono un esempio sono tutte le Villafranca, Villanova; ciò
comporta la scomparsa di centri preesistenti, affinché tutta la popolazione sparpagliata venga raggruppata.
Altri centri preesistenti però sopravvivono e portano ancora i nomi antichi etruschi (-enna), origine celtica
(terminanti in -igo, -aco, -acco, o prefisso -or, che indica località elevata, quindi di collina/montagna),
origine romanica (-ano). Dedicazioni santorali, i cui nomi sono diventati toponimi (tracce di presenze
diverse) spesso una chiesa di San Michele può rinviare alla presenza dei longobardi: tra i popoli germanici
era molto popolare il culto di santi guerrieri; santi di origine orientale in aree di influenza bizantina.
Altro indizio toponimico: il termine basilica o baselega, spesso in luoghi di campagna (erano terre
demaniali, non c’era nessuna basilica). Quindi indica che era terra demaniale, terra imperiale, perché ci fu
una lunga amministrazione orientale.
Questi riferimenti territoriali ci permettono di interpretare meglio altri dati.
Se consideriamo i patrimoni dell’episcopato: i beni tendono ad essere sempre all’interno dei confini della
diocesi, perché i donatori tendono a donare alla propria diocesi e non ad altre.
I beni dei canonici saranno accentrati in specifiche aree della diocesi, non sono sparse in tutto il territorio
della diocesi perché il canale attraverso queste donazioni arrivano è diverso: il vescovo riceve donazioni da
tutte le persone della diocesi, invece nel caso dei canonici le donazioni hanno carattere più legato alla città
stessa, alla sede della diocesi perché i canonici rappresentano l’élite cittadina, le famiglie più importanti
della città che attraverso la partecipazione al collegio dei canonici hanno rapporto diretto con il vescovo. Il
loro patrimonio avrà carattere più concentrato rispetto a quello episcopale all’interno dei confini della città.
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Fino a quando non interverranno i grandi cambiamenti successivi alle lotte investiture nel XII e XIII sec i
canonici sono coloro che controllano l’elezione del vescovo avevano un grande potere; successivamente
si afferma il ruolo del pontefice nelle elezioni episcopali anche a livello locale, sostituendosi al ruolo
dell’imperatore. Con il concilio di Trento si afferma la prassi della nomina papale.
Il terzo elemento è quello dei monasteri e per quanto riguarda i monasteri dobbiamo distinguere tra
monasteri che hanno un ruolo di tipo locale (abbazia abbazie importanti con forte legame i potentes locali,
ma che hanno raggio d’azione locale) e pi ci sono abbazie con importanza sovraregionale e in alcuni casi
internazionale (come Montecassino e Bobbio: sono i grandi monasteri con patrimonio che va al di là della
zona in cui sono insediati).
Anche grandi centri monastici derivanti dalla regola benedettina come Cluny e Cîteaux hanno un’estensione
molto vasta, su diverse parti d’Europa. C’erano molte fondazioni figli: i priorati di Cluny e Cîteaux sono
presenti in buona parte dell’Europa e raccolgono donazioni che confluiscono nel patrimonio dell’abbazia.
Cluny insiste molto sulla preghiera Cîteaux, sul lavoro manuale, entrambe hanno grande successo nell’età
dell’epoca perché siamo in un periodo di turbolenza della storia europea e si avverte esigenza di garantirsi
protezione celeste (infatti, come già citato, i cluniacensi introducono nella teologia cattolica il purgatorio).
I cistercensi erano rinomati per la loro capacità di trasformazione dei territori in cui si insediavano (erano
detti monaci dissodatori, mettevano a frutto conoscenze di tipo idraulico per bonificare zone umide,
disboscavano zone per renderle coltivabili, realizzavano mulini ad acqua che potevano servire per esigenze
agricole ma anche per mettere in moto delle gualchiere, grandi martelli di legno per sostenere lavoro del
fabbro) e anche questo attirava donazioni, perché vi era un miglioramento delle condizioni generali del
territorio.
I monasteri che hanno importanza locale tenderanno a rendere molto compatti i loro beni attraverso una
politica di acquisizioni e permute che servono ad accorpare il più possibile i loro beni (ad esempio si
scambiano pezzi di terreno lontani per appezzamenti confinanti e per dare vita ad aziende agricole più
ampie che possano essere gestite in modo razionale e redditizio dal monastero stesso).
Un ulteriore elemento importante che emerge dai documenti è quello relativo sia agli insediamenti, sia ai
donatori.
Gli insediamenti in genere sono abbastanza stabili, molti sono arrivati fino a noi però non è stata stabile la
struttura di questi insediamenti: se raccogliamo i documenti in cui vengono menzionati e vediamo qual è la
qualifica data all’insediamento, essa può cambiare.
Un esempio è Ovada (in provincia di Alessandria) menzionata nel 1991 nell’atto di donazione di San
Quintino, è uno dei beni coinvolti nella donazione degli Aleramici in favore di questo monastero. Nel
X secolo viene indentificato come villa, quindi è un villaggio all’epoca. Nell’XI secolo, in un altro
documento si parla di un castrum, c’è un castello. 150 anni dopo Ovada viene chiamata burgus, ciò
significa che è stata decastellata. Ciò si ripete per oltre altre località tra il X e il XIV secolo.
Nel X secolo abbiamo una fase intensa di costruzione, ovvero la fase dell’incastellamento ed è la
risposta alla minaccia dalle incursioni di popoli che i sono affacciati da poco sulla scena europea
(come gli ungari). I castelli erano strutture difensive semplici fatti di legno, con palizzate ed
eventualmente con una torre di osservazione. I cavalieri nomadi non avevano la capacità di assediare
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i luoghi fortificati, per questo ne vengono costruiti molti. Però, passato il pericolo, solo una parte di
questi castelli si trasformeranno in castelli di pietra, un lavoro molto costoso e di impegno. Se non
c’è reale minaccia, si preferiva descastellare. Anche i castelli in pietra spesso venivano abbattuti
perché troppo costosi da mantenere e non necessari.
Allo stesso modo una villa può diventare un burgus, può essere promossa con il tempo a civitas
(anche se più raro perché comporta dei costi e una diocesi). Spesso invece capita al contrario per via
di una drastica riduzione.
Allo stesso modo abbiamo documenti che sono legati alle persone. È un molto complicato avere
informazioni sulle persone attraverso tali documenti, perché compaiono principalmente personaggi di alto
livello (e qualche personaggio di classe meno agiata o come testimone o proprietario di un terreno
confinate).
Le donazioni, soprattutto quando abbiamo una serie di documenti, possono fornire informazioni ed
elementi utili. Spesso sono elementi sparsi che però servono ad avere un’idea di quelle che sono le élite
sociali in rapporto con l’ente ecclesiastico.
Ci sono diversi lavori di tipo prosopografico (di ricostruzione dei legami di parentela) delle famiglie che
ruotano attorno ad un ente ecclesiastico, i quali spesso hanno collaborato alla fondazione di tale ente e che
concentrano tali donazioni, perché le chiese sono il luogo dove hanno le sepolture dei propri membri (c’è
quindi anche con uno scopo di affermazione sociale). Abbiamo quindi possibilità di capire quali sono le reti
di collegamento tra i gruppi familiari e gli enti ecclesiastici. Siamo in un momento in cui c’è un forte
contrasto riguardo la questione delle chiese private.
Nello stesso periodo si indebolisce il potere dei carolingi (dal IX secolo). Si avvia una lunga fase nella quale i
potenti locali affermano il loro potere. Da una parte abbiamo figure ecclesiastiche perché i comites
tendono ad abbandonare sedi cittadine per accentrare il loro potere su alcune aree di campagna; il vescovo
invece rimane in città perché ne è il simbolo. In questa situazione i vescovi che suppliscono alle deficienze
del potere laico e finiscono per esercitare un potere di tipo amministrativo e giudiziario.
Allo stesso tempo i signori laici tendono a concentrare il loro potere in aree extra urbane, ed è una
conseguenza della situazione legata alla costruzione dei castelli. A promuovere l’incastellamento erano
coloro che avevano un grande potere (delegato dal sovrano, i comites e vice comites) e le risorse
economiche (quindi denaro e territorio).
La costruzione del castello è il frutto del dominatus loci (la signoria fondiaria), un’autorità che i domini
avevano sui lavoratori, i quali dovevano delle giornate di lavoro.
Una volta realizzato il castello, ne si faceva la propria base e si utilizzava il potere per imporre propria
autorità non solo su coloro che vivevano sulle terre di proprietà del signore, ma su tutti quelli che vivevano
nel distretto castellano (anche su terre appartenenti a qualcun altro). Al fine di godere della protezione del
signore e di suoi armati, bisognava accettare di assoggettarsi al suo potere giudiziario (andare nel suo
tribunale nel caso ci sia una controversia) e di banno (ovvero dare ordini).
Il dominus poteva imporre tasse, che erano forme di lavoro obbligate per la manutenzione delle strade, del
castello stesso, di ponti ecc; ma anche le tassazioni per la transizione (esempio se si voleva attraversare
ponti, transitare con merci, percorrere strade, ecc) o per usufruire di servizi (esempio: forni, mulini ecc).
C’era inoltre un sistema di multe in denaro pagate al dominus per ostacolare l’esercizio della giustizia
privata (la vendetta nelle società germaniche era molto diffusa, ma dall’epoca longobarda era prevista una
multa che per la maggior parte dei reati).
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La struttura signorile ridefinisce il territorio. I castelli vennero smantellati, ma vennero costruite delle
residenze, che vengono poi trasformati in edifici in muratura, diventando non solo centri di potere ma
anche centri che definiscono la qualifica di questi signori: i titoli funzionariali ovvero marchese, duca,
vengono trasformati in titoli nobiliari, trasmessi in forma ereditaria (come ad esempio i dogi di Venezia, o i
duchi ad Amalfi e Napoli). Questo è un cambiamento fondamentale perché influenza la struttura di queste
famiglie ed anche la loro attitudine a conservare i documenti. Le famiglie si preoccupano di preservare i
documenti ancora una volta importanti per attestare i diritti, i beni della famiglia e dell’altra parte utili per
definire una genealogia precisa.
Spesso il patronimico diventa un cognome, all’epoca non tutti avevano un cognome, perché non avevano
gli strumenti per far risalire la loro genealogia. È tipica del basso medioevo una frenesia genealogica, per
scoprire i propri antenati, nasce l’idea di discendenza e del nome che si tramanda. Si inizia a poter definire
delle genealogie e quindi per le classi più alte della società e quindi si comincia a ad avere qualche
documento in più. Quindi chi rimane fuori sono le persone che non appartengono a famiglie aristocratiche
che lasciarono l’attestazione della loro esistenza.
MERCOLEDÌ 25 OTTOBRE
Un gruppo più ristretto ma molto importante sono le fonti narrative, in particolare riguardo le storie
nazionali. In Italia non abbiamo fonti narrative nazionali nell’alto medioevo dopo Historia Longobardorum
di Paolo Diacono del 787, questa tradizione ricomincia nell’IX, ma con fonti che esaltano la dimensione
locale.
Una delle forme più peculiare e tipica degli enti religiosi è quella degli obituari, dal punto di vista tecnico
sono calendari fatti per ricordare la memoria dei defunti (che ebbero un ruolo rispetto l’ente ecclesiastico
in questione), ma che nel corso del tempo assumono una forma di scrittura più ampia. Abbiamo quindi una
memoria delle liste dei martiri e le prime forme di narrazione agiografica (agiografia - letteralmente
"scrittura di cose sante").
Solitamente la festa in un santo corrisponde al giorno della morte (dies natalis perché è rinato alla vita
eterna).
Le donazioni nei confronti degli enti ecclesiastici erano motivate dalla speranza di ottenere un credito in
paradiso, attraverso le preghiere degli ecclesiastici (c’era quindi l’impegno da parte del clero a ricordare il
defunto e pregare per la sua anima nel giorno della sua morte). Negli obituari si segnava quindi il giorno (e
non l’anno) della morte della persona da ricordare e si aggiungono delle notizie, come le donazioni che il
defunto ha lasciato all’ente e quindi gli obblighi ha il clero nei suoi confronti.
Il professore legge dal libro dei documenti di obblighi del clero di Aquileia nei confronti di alcuni
defunti. L’offerta in denaro serve per acquistare le candele di cera - ci fa la distinzione delle candele
di cera e di sego (grasso). In questo documento dice che altri denari devono essere divisi tra i
canonici.
Abbiamo delle indicazioni che derivano dalle disposizioni testamentarie o contenute all’interno dell’atto di
donazione (documenti presente nell’archivio).
Gli obituari inizialmente hanno una funzione pratica, di promemoria. Successivamente, dal XII secolo in poi,
in particolare in Italia centrale, si inizia ad inserire all’interno degli obituari dei riferimenti più generali, di
tipo annalistico (gli annali sono documenti d'archivio che narrano succintamente i maggiori eventi storici e
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le catastrofi naturali più rilevanti che coinvolgono un popolo). Questi dati esulano dell’interesse diretto
dell’ente ecclesiastico: vengono inglobate notizie di carattere generale, costituendo un’anticipazione
strutturale degli annali.
Il professore legge dal libro dei documenti della Cattedrale di Siena.
Un altro tipo di documenti furono i fasti episcopali, ovvero liste di vescovi e abati.
I fasti episcopali si ispirano ai liber pontificalis, ovvero la lista dei vescovi della sede romana. La redazione
iniziò in epoca altomedievale, la forma cambiò con una revisione nel XII secolo, quando il pontificato
romano inizia un’opera di riassestamento della sua struttura documentaria e della sua memoria storica,
finalizzata a garantire la supremazia della sede romana su tutte le altre sedi (Gregorio VII, Dictatus
Papae, 1075 - il papa non è solo successore di Pietro, ma vicario di Cristo). La narrazione relativa alle vite
dei primi pontefici era fantasiosa e leggendaria per carenza di dati, trasmessi spesso oralmente,
successivamente più ci si avvicinava al momento storico della redazione di questi documenti, ci si
avvicina alla forma della biografia, con dettagli realistici, comprovati da lettere private e biografie di
storici.
Nella forma più essenziale i fasti sono liste vere e proprie, con il nome e la data approssimativa della durata
della gestione della diocesi o dell’abazia. Pian piano, più ci si avvicinava alla data contemporanea della
redazione del testo, si aggiungevano informazioni e con maggiore precisione. Si passa da una semplice
ricostruzione prosopografica a documenti molto dettagliati.
Lo stretto rapporto tra le narrazioni e la documentazione è evidente nelle cronache cartulare, che si
sviluppano nei grandi monasteri a partire dall’XI secolo. Sono dei cartulare molto più dettagliati. Siamo in
una fase molto turbolenta in cui si sviluppa nel centro e sud Italia il potere dei normanni. I monaci
integrano il racconto delle vicende dell’abazia, inserendo documenti che ne attestino la veridicità.
La motivazione è di avere un testo ben organizzato, seppur di genere narrativo mischiato a quello
documentario, che abbia una veridicità dimostrata, che possa essere usato contro le contestazioni di
esterni nel caso minaccino i beni dell’ente ecclesiastico.
Montecassino e Farfa erano abazie molto importanti che attiravano molte donazioni, anche da molto
lontano. Le loro cronache cartulare contenevano documenti che attestavano la generosità delle donazioni e
servivano per difendere gli interessi dell’ente ecclesiastico che promuoveva la loro redazione.
Altri documenti, invece, partendo da un luogo preciso o un personaggio preciso, raccontano di eventi che si
svolgono su spazi molto ampi. Un esempio è la biografia di San Romualdo, un certosino che ebbe una vita
molto intensa, che interessò diverse regioni d’Italia, e viene scelto da San Pier Damiani come protagonista
di una biografia, seguendo le sue vicende per insediare le comunità dei suoi monaci.
Un altro esempio è la Vita Mathildis di Donizone, la vita di Matilde di Canossa e di sua madre Beatrice. I
Canossa controllavano un territorio molto ampio negli appennini ed erano imparentate con l’aristocrazia
europea: Matilde era cugina dell’imperatore Enrico IV e si sposò con l’alta aristocrazia europea (non ebbe
mai figli e lasciò tutto alla Chiesa, fu una grande sostenitrice di Papa Gregorio VII – ricorda l’episodio della
scomunica di Enrico IV nel 1077). Questo testo narrativa offre un’ampia veduta sull’Europa dell’epoca.
Un ulteriore gruppo di testi della seconda metà dell’XI secolo fanno da ponte tra i testi narrativi appena
citati e quelli che verranno. Sono scritti da ecclesiastici, ma raccontano le vicende di un gruppo di laici. Si
tratta dei cronisti della conquista normanna.
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Raccontano la conquista normanna del mezzogiorno, cambiando l’assetto politico dell’Italia meridionale.
All’epoca la Sicilia era araba e si impiantarono i normanni, che portarono un’altra cultura e un’altra lingua
(il franco normanno). Il racconto della conquista del sud (rileggi dal 1018, visita in pellegrinaggio di un
gruppo di normanni, al 1091, presa di Palermo) venne descritta da molti cronisti (es: Amato di
Montecassino, che si occupa della Campania, Goffredo Malaterra della Sicilia e della Calabria e Guglielmo
Apulo della Puglia). Questo testo venne redatto in latino e in francese: Amato pensò che potesse essere
eletto alla corte regia dei Normanni. Il monopolio del latino inizia a vacillare: con la diffusione
dell’alfabetizzazione si diffondono sempre di più le lingue nazionali.
LUNEDÌ 30 OTTOBRE
Nel Basso Medioevo aumenta la produzione di documentazione scritta e aumentano i centri di
conservazione: affianco agli enti ecclesiastici cominciamo a trovare entità laiche (statali/politiche) che
iniziano a organizzare la loro documentazione e a conservarla. Ciò accadde perché aumentò la popolazione
a livello europeo che produsse rapporti sociali più estesi e complessi e a ciò si accompagnò un’aumentata
mobilità (dalle campagne alle città). Se prima di questo aumento demografico la documentazione scritta
non era necessaria perché spesso ci si basava su patti orali e fiducia reciproca (in quanto si era in pochi e ci
si conosceva tutti), con una società più complessa bisognava ricorrere al documento scritto.
Inoltre, in questo periodo in Europa si sviluppano le grandi sovranità, affiancate ad un potere più limitato
nello spazio ovvero i castelli.
Vediamo organizzarsi potermi monarchici con forme e strumenti diversi, che entro il XII secolo diedero vita
a due regni: quello francese e quello inglese – dando vita a due apparati burocratici distinti, che dal punto
di vista della documentazione è peculiare.
In Inghilterra la creazione del regno avviene in seguito alla conquista dei territori da parte di una forza
esterna. La dinastia reale dopo Edoardo il Confessore si estingue. La crisi di successione vede due candidati:
Guglielmo di Normandia, legato alla dinastia inglese e proposto da Edoardo prima di morire, e Aroldo conte
di Wessex, cugino del defunto re e sostenuto dall’aristocrazia che non vuole un re straniero.
La Normandia si era creata in un momento di disgregazione del regno franco, che era stato colpito dalle scorrerie
dei vichinghi normanni, provenienti dalla Scandinavia, i quali si erano mossi in cerca di maggiori risorse in seguito al
problema della sovrappopolazione causato dal boom demografico. Carlo il Semplice decide di fare un accordo con
un capo vichingo, Rollone, al quale viene offerto il territorio della Normandia in cambio di difesa militare delle coste
del nord del regno. Questo impegno viene mantenuto e i normanni si adattano alla perfezione al regno franco,
assorbendone la lingua, la cultura e il sistema amministrativo.
Nel 1066 con la battaglia di Hastings Guglielmo conquista l’Inghilterra. La società, la cultura e
l’organizzazione del regno subiscono un cambiamento radicale. Guglielmo lo ridisegna a suo favore,
facendo tabula rasa di tutta la vecchia aristocrazia anglosassone che si era schierata contro di lui e
inserendo una classe dirigente nuova. Guglielmo si sbarazzò anche del clero anglosassone in quanto, grazie
ad un accordo col papa, in caso di sede episcopale vacante, il sovrano poteva indicare il nuovo titolare.
Guglielmo si assicura però che nessuno abbia beni, titoli e diritti concentrati in una sola area: cerca di
disperdere le concessioni e riserva a sé la maggior parte delle terre e dei diritti, in modo da essere il più
grande proprietario terriero.
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Mantiene una vecchia istituzione anglosassone ovvero lo sceriffo, che diventa rappresentante del potere
regio a livello locale, con il compito di raccogliere le tasse e amministrare la giustizia come funzionario del
re.
Guglielmo fece costruire castelli – in pietra – in aree strategiche, non con funzione difensiva, bensì per
tenere sotto controllo la popolazione anglosassone, sono infatti messi a ridosso di grandi centri abitati
(come, ad esempio, la torre di Londra, una residenza reale, luogo di controllo del Tamigi). Guglielmo emanò
una legge vietando di costruire castelli senza la previa autorizzazione del re.
Guglielmo aveva un’autorità tale da censire perfettamente tutto il territorio. Rimangono non-censite solo le
terre di proprietà della Chiesa. Compaiono negli archivi i pipe rolls su cui vengono fatte le registrazioni
fiscali ed iniziano a concepire la conservazione ordinata di questi documenti (nella torre di Londra, dove
vengono tenuti al sicuro).
In Francia la costruzione del potere regio avviene diversamente, un processo lungo e graduale che i sovrani
capetingi perseguono con grande tenacia. Inizialmente i capetingi non avevano la forza militare, ma
avevano il prestigio della sacralità della persona del Re, attorno al quale si costruiscono leggende e
tradizioni che richiamano anche a periodi precedenti (il mitico episodio del Battesimo di Clodoveo).
Attraverso una politica di matrimoni ben congeniata riescono a collegarsi con alcune delle grandi casate che
controllando i territori del regno e, giocando sulle trasmissioni ereditarie e sulla legge salica (proibizione
per le donne di ereditare terre o regnare), riescono a riassorbire molti territori. Un altro sistema fu
ristabilire un rapporto tra corona e il “livello locale”: i capetingi instaurano una politica di concessioni a
favore delle comunità locali, concedendo diritti di esenzione fiscale, di fiera, ecc. in cambio le comunità
accettano di avere il controllo di un ufficiale regio che rappresenti a livello locale il potere del re. I capetingi
suppliscono alle mancanze di risorse militari con un uso molto astuto della diplomazia e del diritto.
I re d’Inghilterra controllano anche vasti territori nel regno di Francia (duchi di Normandia e Aquitania e
conti di altre aree). Sono vassalli potenti del re francese, che percepiscono meno potente. Questo conflitto
porta i Capetingi alla creazione di una cancelleria e di conservare con cura i documenti che attestano i diritti
del re di Francia nei confronti dei suoi vassalli, quindi anche il re d’Inghilterra.
Nel corso di una battaglia imprevista l’accampamento Francese viene occupato dagli inglesi che
sottraggono molti documenti del “Tesoro della Corona”. Re filippo Augusto decide che i documenti
dovranno essere messi al sicuro al castello del Louvre.
Il potere si manifestava anche con l’esazione delle tasse e molti documenti conservati sono di natura
fiscale.
L’Italia, dal punto di vista documentale, è divisa in 2 zone: l’Italia centro settentrionale dei comuni e l’Italia
meridionale, il regno di Sicilia, che è la più antica e duratura delle strutture politiche che vengono a definirsi
nel corso nel medioevo italiano. Questo regno nacque da una conquista esterna, la conquista normanna. La
conquista influenzò fortemente
Il principe di Benevento paga i servizi di un capo normanno in cambio della contea di Aversa. I normanni si
rendono conto di essere la principale forza militare dell’aera e che potrebbero effettivamente combattere
per sé stessi. Nell’arco di 20 anni i normanni diventano una forza che assoggetta i piccoli signori. I fratelli
d’Altavilla Roberto il guiscardo (Guiscard in franconormanno è volpe, era un uomo astuto) e Ruggero
riescono ad espandersi fortemente. I papi si sentono minacciati dall’espansione normanna e, siccome
l’impero non è in grado di intervenire, Papa Leone IX organizza una lega anti normanna, riunendo i principi,
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i signorotti e le città autonome del Mezzogiorno. Il risultato è disastroso perché nella battaglia di Civitate
(1054) l’esercito normanno sbaraglia l’avversario e cattura il papa. I due fratelli, molto astuti, anziché
richiedere un riscatto, si presentano al papa inginocchiandosi, pentendosi e chiedendo perdono per
l’offesa. Leone IX comprende che è un’offerta di alleanza e comprende che i normanni potrebbero essere
alleati molto validi. Nomina così Roberto duca di Puglia e di Calabria e Ruggero conte di Sicilia. Quei territori
non erano possedimenti della Chiesa: Puglia e Calabria erano sotto l’impero bizantino e la Sicilia era un
emirato arabo, il papa concede la licentia invadendi, ovvero il diritto di invadere un territorio e conquistarlo
per conto della Chiesa di Roma. Nel 1061 sbarcano in Sicilia e nel 1071 Bari, ultima roccaforte bizantina
viene conquistata. Tutto il Mezzogiorno è sotto il controllo dei fratelli Altavilla, i quali riorganizzano un
territorio molto eterogeneo e variegato. Nel 1130, durante una situazione di scisma all’interno della Chiesa
romana che vide una doppia elezione, Ruggero II appoggiò il più debole dei due pretendenti, Papa Anacleto
II (poi considerato anti papa) il quale creò il Regno di Sicilia e diede la corona a Ruggero. Anni dopo Ruggero
raggiunse un accordo con l’oppositore di Anacleto, Innocenzo II e si riconosce vassallo e ottiene la conferma
del titolo regio, oltre la legazione apostolica perpetua (i legati sono i rappresentanti del papa sul territorio).
Così come in Inghilterra Ruggero II può nominare i vescovi (questo era un modello che i normanni
conoscevano bene e che avevano applicato in Inghilterra). Ruggero costruisce un potere centrale molto
forte che si esprime a livello locale attraverso il controllo che i giustizieri del re hanno sul baronato locale
(così come l’Inghilterra è divisa in contee con lo sceriffo). Ruggero divide il territorio in giustiziati e li
assegna tenendo però per sé il territorio più florido e popoloso.
La situazione culturale in Sicilia è molto variegata: abbiamo uno stato greco, uno arabo, uno siciliano. I
normanni impongono una forma dal punto di vista ecclesiastico latina e utilizzano tutte le lingue: la
cancelleria normanna è trilingue (abbiamo diplomi in arabo, greco e latino).
Il modello di potere che viene instaurato era di tipo normanno. Nel 1149 l’Impero d’Occidente e l’Impero
Bizantino contro il regno normanno, vissuto come una violazione dei diritti da parte di entrambi gli imperi.
Guglielmo, il figlio di Ruggero, redige il Catalogus Baronum, una rassegna delle capacità difensive del regno
(viene scritto provincia per provincia quanti uomini armati ogni vassallo può fornire all’esercito regio). In
questo documento sono esenti le terre di possesso della Chiesa.
Federico I si rende conto che la via militare non risulta praticabile e ricorre agli accordi diplomatici e riesce
ad ottenere un reciproco riconoscimento tra impero e regno. A garanzia di questo accordo si combina un
matrimonio che leghi la famiglia Altavilla e la famiglia degli Svevi: Enrico il figlio ed erede designato di
Federico I sposi una principessa di casa Altavilla, cioè Costanza, la zia del re Guglielmo, che era una monaca
ormai vecchia. Enrico aveva 17 e Costanza più di 30. Federico II morì nel 1190 ed Enrico divenne
imperatore. Guglielmo II morì senza figli e siccome nel regno di Sicilia non valeva la legge salica la persona
che deve ereditare la corona è proprio Costanza. Enrico VI in quanto suo marito diventa re consorte.
L’aristocrazia normanna però non vuole riconoscere un re tedesco e danno la corona ad un fratellastro del
defunto Guglielmo II, Tancredi conte di Lecce.
Enrico e Costanza rivendicano i loro diritti ed Enrico scende in Italia con un esercito ed invade il regno. Ne
segue una guerra civile molto dura, che ne vale il soprannome di Enrico il Crudele. Nel 1194 e Costanza che
ha tra i 35 e i 40 anni rimane incinta e mentre scende verso il regno di Sicilia viene colta dalle doglie a Jesi,
nelle Marche. Decide di partorire nella piazza del mercato, affinché nessun avversario politico possa
mettere in dubbio che il bambino/a sia suo (in quanto il trono del regno di Sicilia è ereditario per via di
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Costanza). Federico II è destinato a essere imperatore del sacro romano impero e re del regno di Sicilia. Nel
1197 muore Enrico e pochi anni dopo anche Costanza. Ciò rende necessario una protezione politica.
MARTEDÌ 31 OTTOBRE
Mi sono persa la prima parte
I munimina (documenti “pesanti” dal punto di vista giurisdizionale) erano molto importanti e la cancelleria
regia teneva una copia dei documenti emanati, per avere la possibilità di fare un controllo incrociato.
Il modello federiciano prevede anche l’uso della forza nei confronti di coloro che non accettano
l’impostazione del potere regio o che violano i diritti della corona.
Il professore legge una lettera indirizzata al giustiziere dell’Abruzzo (1239) in cui si evince come
Federico II si rapportava con le comunità che avevano provato a guadagnare autonomia dal potere
regio.
Il potere di Federico II riporta le lancette all’epoca dei sovrani normanni. I grandi poteri (nobili) devono
assoggettarsi al potere imperiale. La personalità di Federico e gli equilibri politici influiscono alla sua ascesa.
Quando Federico muore nel 1250, suo figlio Corrado IV si trova in Germania, sul posto ci sono i figli
illegittimi (Federico e Manfredi), che si devono confrontare con il papa (lo scontro tra Federico e l’autorità
pontificia (specialmente Gregorio IX e Innocenzo IV) fu incandescente). Quando Corrado arriva nel regno le
condizioni sono molto complesse: Corrado non ha le risorse e la rete di collegamenti del padre (grazie
anche alle conoscenze linguistiche di Federico II, egli poté avere un contatto diretto con le persone).
Corrado, nato e cresciuto in Germania era un re tedesco e non aveva la familiarità che il padre – e i figli
illegittimi – avevano con il territorio.
Corrado deve venire a patti con le comunità. Il professore legge dal libro un diploma di Corrado col quale
vengono restituiti diritti a un nobile locale che gli erano stati sottratti da un provvedimento di Federico.
Corrado deve quindi per riacquisire il controllo di una parte di regno e assicurarsi la fedeltà da parte di
quella famiglia. Corrado muore nel 1254, lascia un figlio, ma è un neonato.
I baroni del regno offrono la corona a Manfredi, che sebbene fosse uno svevo, ma era pur sempre cresciuto
lì. Manfredi esercita il suo potere in maniere diverse, utilizzando la rete di amicizie e parentele. Lo vediamo
dai documenti del regno di Manfredi, sono concessioni e accordi nei confronti delle famiglie e comunità.
Manfredi muore nella battaglia di Benevento nel 1266 contro Carlo d’Angiò (fratello di Luigi IX, re di
Francia), il candidato papale per il regno di Sicilia. Gli angioini sono una dinastia esterna al regno di Sicilia
ma non del tutto estranei (ricordiamo che il Regno di Sicilia fu fondato da un nucleo di persone che
venivano dalla Francia del Nord) e portano con sé la cultura amministrativa francese e un’ideale di
monarchia forte, che controlla il territorio attraverso sistemi diversi rispetto a Federico II.
Carlo I una volta insediato come re di Sicilia deve ripagare coloro che lo hanno sostenuto (Carlo di suo non
aveva abbastanza rendite per sostenere una spedizione così importante e suo fratello se ne era chiamato
fuori - per via del concilio di Lione per cui un re non si doveva intromettere nelle questioni di altri regni),
cioè la piccola e media nobiltà francese dell’area provenzale e i banchieri fiorentini (che operavano in
Francia ed erano i banchieri del papa. Nel 1260, dopo la vittoria di Monteaperti i ghibellini avevano preso il
potere di Firenze grazie a Manfredi. Tutti questi esuli guelfi in terra francese volevano tornare in patria, così
finanziarono Carlo d’Angiò).
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Carlo doveva quindi ripagare tutte queste persone con titoli, feudi, diritti e rendite. Per ripagare i prestiti
affida ai banchieri fiorentini l’amministrazione fiscale del regno, specialmente della Sicilia, la parte più
florida del regno.
Carlo usò la tecnica di Enrico VI, padre di Federico II: utilizzò il potere che derivava dall’essere re di Sicilia e
alleato della chiesa per fare “l’arbitro politico”: Carlo favorì i guelfi nei comuni italiani. Sviluppò anche una
politica mediterranea. Corrado IV era re eletto dei romani, re di Gerusalemme e Sicilia (perché Federico II
aveva sposato Isabella Di Birenne, erede del trono di Gerusalemme e si era fatto riconoscere questo titolo
autoincoronandosi nel 1229). Carlo ritiene che in qualità di re di Sicilia gli spetti anche quello di
Gerusalemme, che riesce a farsi riconoscere. Questo titolo non creava grandi opportunità, ma era un titolo
molto prestigioso. Era per Carlo un primo tassello di un vasto progetto di politica mediterranea per
diventare imperatore latino di Costantinopoli (il cui regno era stato rovesciato nel 1261).
Gli esuli filosvevi, i guelfi ecc si mettono d’accordo per fermare Carlo: il risultato è il vespro siciliano del
1282. Fu una rivolta che nasce per motivi locali: la popolazione siciliana era stremata dalla pressione fiscale
angioina e la nobiltà isolana si sentiva estromessa dal potere – Carlo voleva essere il più vicino possibile al
papa per controllarlo e in una posizione comoda per intervenire nel settentrione, sceglie così come capitale
Napoli, una città molto importante per Federico II, nella quale fondò la prima università statale.
Gli esuli filosvevi avevano trovato protezione presso la Corte di Barcellona: Re Pietro III (conte di Barcellona
e re d’Argona) aveva sposato Costanza, la figlia di Manfredi, l’ultima degli svevi. Nel regno non vigeva la
legge salica, quindi le donne potevano ereditare il trono. Quindi per gli esuli svevi Costanza aveva diritto di
ereditare il regno e Pietro era considerato re consorte. Quando scoppia la rivolta del vespro la flotta
aragonese si mobilita. Questo porta a una divisione del regno: la Sicilia si separa dal mezzogiorno
continentale. I catalano-aragonesi non sono in grado di conquistare il mezzogiorno e gli angioini non
riescono a recuperare la Sicilia.
Il conflitto dura dal 1282 (con una pausa con la pace di Caltabellotta nel 1302 che sancisce la separazione
tra Regno di Sicilia e regno di Trinacria) al 1442 con la vittoria dei catalani-aragonesi e l’ingesso trionfale di
Alfonso V d’Aragona a Napoli. Alfonso imposta una monarchia con caratteri particolari: egli è il sovrano
della Corona d’Aragona una federazione di regni, di cui il re rappresenta il punto di unione. Laè formata
dalla contea di Barcellona, che si unì al Regno di Aragona nel 1136 + regni conquistati (Mallorca, Sardegna,
Sicilia, Valencia). Alfonso è anche re di Gerusalemme e ha altri titoli.
Alfonso arriva al trono per eredità del padre, che aveva molti accordi. La vecchia dinastia dei conti-re di
Barcellona si estingue nel 1409 con la morte di Martino il giovane, che morì di malaria a Cagliari; tono
preteso dai conti di Urgelles e di Antechera che poi vinceranno - erano imparentati con i catalani, ma sono
castigliani. Alfonso veniva da una tradizione diversa in cui il monarca ha un grande potere.
Si ritrova a governare in un territorio dove vigeva il pattismo: una particolarità della corona di Aragona,
inaugurata da Giacomo I. Consiste in una forma di accordo tra la corona e i ceti dirigenti (specialmente
barcellonesi) che fanno coincidere i propri interessi: il re vuole espandersi, ma non ha le risorse finanziarie, i
nobili invece hanno molti solidi e hanno interessi commerciali.
Vedi le corts catalane: parlamento medievale formato da 3 bracci (chiesa, aristocrazia e le città).
Alfonso non torna più a Barcellona e a Napoli crea una delle corti più floride del rinascimento.
Dopo la morte di Alfonso la corona d’Aragona viene lasciata a suo fratello, ma Napoli, la sua conquista
personale, viene lasciata a suo figlio illegittimo Ferrante.
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Dal punto di vista documentale, abbiamo una forte interesse per il fisco (sia angioini sia catalani-aragonesi).
Queste documentazioni ci danno molte informazioni sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista
demografico (ad esempio Napoli aveva meno fuochi – unità famigliari – di Capua o Aversa ma tramite i
registri fiscali vediamo che cresce molto). Questi registri fiscali vengono spesso scritti in francese perché il
latino sta cadendo in disuso nei documenti amministrativi (il latino viene usato solo più nelle
documentazioni legali). Il francese era la lingua del commercio (San Francesco si chiama così perché suo
padre aveva inventato un nome per ricordare che era diventato ricco grazie agli affari in Francia). Anche
l’italiano fa il suo ingresso nei documenti e nelle trattative (vedi i documenti tra Alfonso e suo figlio
Ferrante e i signori del mezzogiorno italiano). Il potere è cambiato, è cambiata la comunicazione e quindi i
documenti.
Per le concessioni e i diplomi viene ancora usato il latino. Ma per tutti quei documenti di comunicazione si
usa la lingua parlata. Questa documentazione così variegata ci permette di indagare i rapporti con le
comunità locali, la struttura del regno ecc
Il problema di questa documentazione sveva e normanna è che sono spariti (andati dispersi e distrutti). Noi
abbiamo molti diplomi ma sono documenti recuperati dagli archivi dei destinatari (spesso enti religiosi).
Diverso per la documentazione angioina e aragonese la situazione è migliore perché è molto ricca che però
ha subito notevoli problemi: la documentazione angioina ci era arrivata integra (registri di controllo dei
fuochi) nell’archivio di stato di Napoli, però ci fu la II Guerra Mondiale. Siccome Napoli era un bersaglio dei
bombardamenti aerei si portò via la documentazione in ville vesuviane. Nel 1943 la popolazione di Napoli
insorse contro il presidio tedesco (le 4 giornate di Napoli). I tedeschi in ritirata trovarono il materiale e
bruciarono tutto. Dal 1946 si è iniziato un lavoro di ricostruzione su carta di questi registri fatta tramite la
ricostruzione con tutti gli studiosi che avevano collaborato con l’archivio.
Diverso per l’archivio aragonese: abbiamo due nuclei (reggia camera della sommaria e della dogana delle
pecore). Del resto, ne abbiamo solo una parte: nel 1504 il regno di Napoli viene assorbito dalla monarchia
spagnola e la documentazione politica viene trasferita a Barcellona. Ferdinando II d’Aragona vuole unificare
le documentazioni dinastiche, ma alcune navi affondano e una parte va persa. Il resto arriva a Barcellona
dove è tutt’ora.
Anche Palermo aveva molta documentazione relativa alla Sicilia.
LUNEDÌ 6 NOVEMBRE 2023
Nel sud vediamo costituirsi un potere monarchico in linea con il resto dell’Europa. Nell’Italia centrosettentrionale la situazione politica è diversa: ci sono realtà politiche frammentate e meno facilmente
incasellabili nelle tradizionali strutture del potere.
Siamo di fronte all’Italia dei comuni: sono città con un forte ruolo economico e politico con un alto livello di
autonomia. Nel resto dell’Europa troviamo situazioni simili, ma differiscono dai comuni italiani per
l’autonomia: da una parte abbiamo autonomia amministrativa, in Italia abbiamo autonomia politica. Sono a
tutti gli effetti dei piccoli Stati. I rapporti tra loro sono quindi rapporti internazionali.
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Questa situazione si determina nel X e XI secolo, in seguito ad una forte fase di frammentazione del potere
ed una forte pressione esercitata dalle incursioni ungare che colpiscono la pianura padana. Ciò portò ad
una progressiva riorganizzazione su base locale del potere: sono i signori di castello che rappresentano
l’autorità ed offrono protezione alla popolazione e godono del diritto di far valere la loro forza. Neanche
l’intervento dei re tedeschi riuscirà ad invertire totalmente questa situazione.
Si sono formati tre grandi marchesati, derivanti dalla frammentazione di entità più vaste, con la Grande
Marca di Toscana sotto la dinastia dei Canossa, un territorio esteso dalla valle del Po alla Toscana centromeridionale. Questa regione, soprattutto grazie alle figure di donne come Beatrice e Matilde di Canossa, ha
giocato un ruolo significativo nella politica italiana dell'epoca, guidando una serie di domini (come descritto
nell'"Elogio della Casa dei Canossa").
I marchesi avevano responsabilità amministrative e, soprattutto, militari. Anche se ci furono tentativi di
riconoscere l'autorità pubblica di potenti vescovi, come parte di una strategia politica più ampia, questo
non ha portato alla ricostruzione di blocchi territoriali solidi. I vasti territori assegnati ai fedeli
dell'imperatore erano in realtà aree frammentate, dove il potere dei marchesi variava in base alla forza dei
loro castelli e al rapporto con i vescovi delle diocesi sotto il loro controllo.
Dopo la dinastia di Sassonia, la morte di Enrico II e le turbolenze successive, inclusa la lotta per le
investiture tra Chiesa e Impero (1075-1122), non si è assistito a un consolidamento del vecchio Regno
d'Italia. Al contrario, molti dei poteri emergenti dalla fase precedente sono sopravvissuti e si sono rafforzati
in alcune zone. Si sono sviluppati vari poteri signorili su territori più limitati o attorno a centri fortificati
controllati da famiglie nobiliari.
Abbiamo poteri signorili su aree territoriali delimitate (una valle o alcune aree che gravitano attorno a
centri fortificati). Abbiamo anche alcune sedi diocesane vescovi potenti che forti del riconoscimento
riconosciuto dall’impero esercitano poteri signorili (come gli Arcivescovi di Milano, che anche a livello della
Chiesa sono tra i più influenti. Per gestire i beni fondiari gli arcivescovi di Milano concedono parte dei beni a
famiglie che si impegnano ad un servizio armato).
Tutto ciò contribuirà alla nascita della fase comunale italiana: abbiamo un moltiplicarsi dei centri di potere.
La lotta delle investiture incide ulteriormente perché, nel farsi la lotta, diminuiscono i poteri di imperatore
e papa.
C’è una crisi anche della rappresentatività di questi poteri che favorisce l’ascesa dei funzionari delle
autorità, costituendo un’élite sociale che è salita di potere appoggiandosi al vescovo (come a Milano il ceto
dei capitanei,) o a influenti famiglie del contado (come ad Asti o Siena), che si definiscono vice comites, che
diventerà poi un cognome importante, i Visconti (MI).
Con la cessazione dei movimenti di popolo ed una fase più tranquilla che l’Europa vive dalla seconda metà
del X secolo in avanti, assistiamo ad una ripresa demografica, che coincide con una fase di grande
espansione economica (che si interromperà bruscamente con la peste).
La fase iniziale dei comuni è ancora oggetto di studio in quanto non è una fase documentata ed è quindi
stata ipotizzata. Quando troviamo testimonianze significa che il comune è già organizzato. Gli annali dei
comuni fanno solo accenni (spesso leggendari) riguardo la fase di nascita. Il comune nasce come un
organismo privato, che nasce da una coniurazio, un patto che lega tra loro le élite urbane che si accordano
per prendere il potere e gestirlo.
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Si inizia a vedere una distinzione tra il comune e la totalità della popolazione, ovvero la città, ma ci vuole del
tempo affinché si identifichino. Il comune è alla sua nascita e rimarrà come tale, un’istituzione oligarchica,
parliamo di un’oligarchia allargata ma pur sempre oligarchica, vi è sempre una parte che viene esclusa, che
può essere a volte una parte socialmente superiore, per esempio i magnates, cioè i nobili nella seconda
metà del 200, oppure il populus, ossia la borghesia (mercanti, banchieri, artigiani ricchi) o gli artifices
(lavoro manuale, braccianti..).
I comuni riuscirono ad imporre il loro potere sulla città e in seguito conquistarono il “contado”, il comitatus,
il distretto amministrativo che faceva capo alla città. Ci sono quindi delle complicazioni perché fuori dalle
mura delle città c’è un sovrapporsi di poteri: ci sono i diritti delle famiglie signorili – che hanno i castelli nel
contado e che non vogliono cedere i loro beni ai comuni – ci sono i diritti della Chiesa e dell’Impero.
C’è inoltre una rivalità tra i comuni, perché tra comuni vicini entrambi cercano di espandersi a discapito
dell’altro.
Nella metà del XII secolo, si delineava un panorama complesso nell'Italia centrale, caratterizzato da una
serie di contestazioni all'autorità papale sulla città di Roma da parte di vari comuni meridionali.
Parallelamente, le grandi famiglie presenti nelle zone appenniniche esercitavano un'influenza significativa.
Ogni centro di rilievo mostrava la presenza di comunità urbane autonome, ma si registravano altresì
situazioni extraurbane, di natura rurale, che emergono soprattutto attraverso la documentazione di origine
ecclesiastica. Queste realtà rurali si trovavano coinvolte in conflitti con l'autorità ecclesiastica o erano
direttamente coinvolte in scontri o assimilate nell'area di influenza di città di dimensioni maggiori.
La documentazione relativa all'Italia centro-settentrionale evidenzia un marcato orientamento verso le città
come fulcro dell'attività amministrativa ed economica. Questi centri urbanizzati attraggono un numero
crescente di individui dalle aree rurali in cerca di miglioramenti economici. Federico Barbarossa, un
imperatore di rilievo nella storia medievale, è spesso identificato come un antagonista delle libertà
comunali. Tuttavia, la sua visione strategica in Italia entra in conflitto con il contesto locale, sebbene non sia
necessariamente ostile allo sviluppo economico e amministrativo delle città. In Germania, Federico I e i suoi
successori mostrano un atteggiamento più accomodante verso le città libere dell'Impero, alleate del
Barbarossa in quanto garantisce loro diritti, protezione dalle imposizioni fiscali dei principi, anche se senza
concedere loro l'autonomia politica riscontrabile nei comuni italiani.
Il Barbarossa viene eletto dopo una lunga fase di guerra civile in Germania nel 1151, attraverso un accordo
tra due partiti contrapposti e quando nel 1154 scende in Italia per ricevere l’incoronazione imperiale, porta
il titolo di re romano fino a quando non riceve la corona dal pontefice nella basilica di San Pietro.
Ottone, vescovo di Frisinga e confidente di Federico Barbarossa, offre una prospettiva aristocratica tedesca
sulla situazione dei comuni italiani nella sua cronaca. Descrive scandali riguardanti le pratiche comunali,
come l'investitura di borghesi a cavalieri, evidenziando in particolare gli eventi legati alla visita
dell'imperatore a Roma. Durante questo periodo, il papa Niccolò IV è costretto a fuggire da Roma a causa
delle pressioni di Arnaldo da Brescia, un sostenitore della riforma ecclesiastica e della separazione dei
poteri, che scatena una ribellione contro il pontefice. Grazie all'intervento di Barbarossa, il papa è
reinstaurato a Roma e incoronato.
Federico Barbarossa, pur mostrando un atteggiamento non violento quando possibile, ricorre alla forza
militare di fronte a situazioni senza alternative. Ad esempio, impiega la forza militare per sopprimere il
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comune di Roma. Tuttavia, quando torna nell'area settentrionale e si confronta con altri comuni,
inizialmente cerca un compromesso che consenta all'Impero di ristabilire il proprio controllo e riconosca in
parte l'autonomia dei comuni stessi.
Federico Barbarossa convoca una dieta (cioè un parlamento) a Vincaglia, dove promulga due costituzioni
sviluppate con il contributo degli esperti legali più autorevoli del tempo. In questo periodo, l'università è in
pieno sviluppo, con la facoltà di giurisprudenza in primo piano. Irnerio, considerato il fondatore
dell'insegnamento giuridico a Bologna, introduce lo studio completo del diritto romano attraverso il Corpus
Iuris di Giustiniano. Sebbene il diritto romano fosse precedentemente applicato in parallelo al diritto
germanico, Irnerio e i suoi allievi sostengono ora la supremazia del diritto romano su ogni altra forma
giuridica. Questo porta a un intenso lavoro di ricerca dei testi giuridici romani, il cui ritrovamento viene
accolto come un rafforzamento del nostro sistema legale.
Si istituisce una scuola di diritto focalizzata sullo studio del diritto romano. Data la volontà di Federico
Barbarossa di far valere ciò che è giusto e scritto, egli si rivolge ai docenti di Bologna affinché redigano testi
in merito.
- la constitutio pacis nella quale all’imperatore, in quanto unica autorità suprema, è delegato
l’onore e l’onere di dichiarare guerra o stabilire la pace. Sono vietate le guerre private (scontri
tra comuni) e le associazioni che le promuovono, il monopolio riguardante l’uso della forza è
suo, dello stato;
- la constitutio de regalibus, ovvero la costituzione relativa agli iuria regalia, ai diritti della
corona, ossia promulgare le leggi, amministrarle, imporre le tasse, coniare la moneta, tutti
diritti che Federico rivendica sulla base del diritto romano, poteri di competenza dell’autorità
pubblica e che sono di competenza dell’autorità dello stato anche per noi oggi.
Tutti questi diritti corrispondono a importanti fonti di rendita economica, di cui i comuni si sono appropriati
in assenza dell’imperatore. L’imperatore vuole togliere ai comuni e alle oligarchie una serie di cespiti
economici, si arriva allo scontro e si conclude con la sconfitta militare di Federico nel 1176 durante la
Battaglia di Legnano, ma con poi un suo grandissimo successo politico perché i comuni e le oligarchie
comunali non hanno intenzione di cacciare l’imperatore dall’Italia, in quanto riconoscono che possiede
l’autorità suprema ma non riconoscono il diritto di esclusiva sugli iura regalia.
L’imperatore capisce di non poter risolvere la questione con la forza: i comuni avevano acquisito molto
potere grazie all’alleanza col papa, il quale temevano un imperatore troppo forte.
Nel 1177 l’imperatore firma l’accordo di Venezia con il papa, siglato a Costanza (Germania), per questo
conosciuto come Pace di Costanza (1183) ed è un accordo con il quale i comuni ottengono ampia
autonomia e viene riconosciuta loro legittimità. I comuni sono un’anomalia ma in compenso riconoscono in
modo formale la superiorità dell’imperatore, che quindi sono suoi sudditi.
Un elemento importante nel testo è il modo in cui è scritto, il documento si presenta come una concessione
graziosa nei confronti dei sudditi, ma ha una sua importanza politica perché essa può essere anche ritirata,
se coloro che l’hanno ricevuta non obbediscono all’imperatore, il quale può richiamare la concessione. Poi
ci sono alcuni comuni più importanti che quindi hanno un occhio di riguardo, ad esempio Milano, dove
Federico riconosce il suo districtus.
L'aristocrazia consolare, nel perseguire l'autonomia politica e il controllo economico-territoriale, determina
una fase di crisi nel sistema comunale iniziale. Emergono dispute interne sulla divisione del potere e delle
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entrate, portando alla reintroduzione del titolo di "console", con mandati annuali e criteri rotativi nel
collegio consolare per garantire rappresentanza equa.
Tuttavia, tale rimedio non risolve le tensioni interne, portando a scontri fisici tra le fazioni aristocratiche,
danneggiando le attività economiche e le amministrazioni cittadine. Una soluzione radicale viene proposta:
affidare il potere a un estraneo, il podestà, caratterizzato da un mandato annuale, supervisionato da
controlli sul suo operato.
Il podestà giunge in città con un contratto e un seguito amministrativo, la sua familia (sbirri, giudici, notai),
pagato inizialmente con metà del compenso, mentre l'altra metà sarà erogata alla fine del mandato, previa
valutazione della sua performance da parte di una commissione tecnica e culturale del governo.
I podestà, giuristi di formazione, spesso riescono a mediare senza favorire nessuna delle fazioni interne
(come i ghibellini e i guelfi, allora emergenti). Tuttavia, questo potere non ottiene ampio successo, in
quanto esclude le vecchie consorterie dal potere. Inoltre, l'espansione demografica ed economica delle
città genera una società stratificata in cui strati sociali più ampi si sentono sottorappresentati.
Particolarmente, gli artigiani abbienti e i mercanti, nonostante il loro peso economico, subiscono tassazioni
senza avere voce nelle decisioni politiche. Questi ceti economicamente importanti si domandano il motivo
per cui le antiche famiglie aristocratiche continuino a detenere il potere decisionale, mentre loro sono
esclusivamente tassati.
Il 1230 segna il ritorno di Federico II e un rinnovato conflitto con i comuni. Questo periodo riapre questioni
precedentemente risolte da Barbarossa, ma con esito negativo per l'imperatore, determinando il trionfo
dei guelfi e generando una rottura interna tra ceti sconfitti e poco rappresentati.
In questa fase, vi è un grande scontro tra guelfi e ghibellini, con famiglie alleate ai ceti emergenti. Intorno
alla metà del secolo, emergono nei comuni regimi di popolo, limitando il potere del podestà alle
competenze tecniche, mentre il governo è affidato ai capitani del popolo, spesso membri dell'antica
aristocrazia ghibellina. Questa transizione rappresenta la terza fase del comune, caratterizzata
dall'oligarchia popolare che esclude parte dell'aristocrazia e i lavoratori manuali.
La successiva instaurazione del governo signorile segna la progressiva trasformazione del comune. Ad
esempio, Ottone Visconti a Milano rovescia il governo guelfo e instaura una signoria. I comuni sopravvivono
come entità amministrative, ma il potere politico è ora nelle mani di principi e delle loro corti, il cui titolo
diventa ereditario. Questo cambia la struttura fisica e il contenuto dei documenti prodotti, con la
trasformazione di molte città in principati o repubbliche oligarchiche, con altri principati ecclesiastici come
Trento e Aquileia nel nord-est.
MARTEDÌ 7 NOVEMBRE 2023
Con il XII secolo abbiamo l’inizio della conservazione ordinata dei documenti dei comuni. Iniziano a
conservarli senza l’appoggio di un ente ecclesiastico, organizzando un proprio archivio e selezionando la
documentazione da conservare e di ciò che è degno di essere raccontato.
Un elemento base che accomuna la documentazione conservata dal XII secolo è il formato fisico: gli archivi
sono formati da fogli sciolti di pergamena (formati diversi: da cartule a dimensioni molto estese).
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Sono documenti che conservano la memoria dei rapporti del comune con ciò che sta al di fuori (altri
comuni, famiglie signorili, comunità organizzate o grandi istituzioni quali l’impero e la Chiesa che rilasciano
privilegi nei confronti del comune).
Un documento conservato in copia in molti archivi comunali è il testo della Pace di Costanza, che legittima
l’esistenza dei comuni. Queste carte consentono di seguire il processo attraverso il quale i comuni ampliano
i loro controlli e ci fanno capire i meccanismi attraverso i quali le famiglie nobili vengono vincolate al
comune.
Quando Barbarossa scese in Italia e si scontrò contro i comuni, le famiglie nobili approfittano della
situazione per rompere i patti che avevano stretto con i comuni. Uno dei sistemi adottati dai comuni per
tenere sotto controllo questa situazione è di stabilire patti e accordi con alcune famiglie: vediamo quindi
terreni ceduti al comune, per riceverli sotto forma di feudo, diventando così vassalli del comune ponendosi
sotto la sua protezione. Il sistema per il rispetto dei patti è unirsi al comune (che nasce effettivamente
come patto tra privati): devono possedere dei beni e risiedere in città, questo per allentare le reti di fedeltà
con altri enti e perché se vengono meno agli accordi i beni immobili sono aggredibili come forma di
ritorsione. Questa ulteriore garanzia era necessaria perché queste famiglie tendevano spesso a venire
meno ai loro impegni, troviamo infatti molti documenti che testimoniano un ciclo continuo di rivolte e
sottomissioni.
Negli archivi troviamo anche i documenti tra comune ed entità esterne (pari – altri comuni – o superiori –
impero o clero).
Altri documenti interni alla città hanno una natura molto varia: accordi tra fazioni interne, manutenzione
del tessuto urbano (interventi su edifici e strade che permettono di avere informazioni sulla struttura della
città in quel periodo). Abbiamo quindi vasto complesso di carte che risente del raggio d’azione della città
che ha prodotto e conservato questi documenti: più grande era la città, più ricco sarà l’archivio.
Le prime concessioni in favore dei comuni non sono in favore delle istituzioni comunali ma sono rivolte alla
cattedrale, al capitolo e a istituzioni religiose, la cattedra episcopale funge da rappresentante del comune
nei rapporti esterni.
Il secondo passaggio cruciale nel contesto dei documenti comunali è rappresentato dall'instaurazione del
regime podestarile. Questo avviene dopo l'ottenimento della legittimazione del comune, quando il primo
ceto cittadino entra in una fase di crisi e la comunità decide di affidarsi a un podestà per la gestione
amministrativa. Questo cambiamento implica significative trasformazioni dal punto di vista
documentaristico.
I podestà, figura centrale in questo contesto, sono giuristi con una preparazione culturale specifica. Durante
i loro studi, hanno acquisito una formazione altamente specializzata. Nell'epoca in questione, lo studio del
diritto si basava sulla sistematizzazione, ovvero l'organizzazione della realtà e di tutte le possibili evenienze
attraverso schemi predeterminati elaborati dai giuristi. Questi individui sono abituati a ragionare in modo
strutturato e hanno bisogno di stabilire una solida struttura amministrativa, inclusa la produzione e la
conservazione dei documenti, basata su criteri di regolarità.
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I documenti prodotti sotto il regime podestarile sono caratterizzati da annotazioni degli archivisti sul dorso,
indicando il luogo specifico in cui il documento deve essere conservato. Inoltre, vengono compilati degli
inventari per tenere traccia dei documenti presenti negli archivi. Questo rappresenta un significativo passo
avanti rispetto alle pratiche precedenti, in cui i tubi di pergamena venivano conservati in modo sommario
all'interno di arche (cassapanche), ceste o sacchi, a seconda della loro utilità. Questo approccio rendeva il
processo di reperimento dei documenti molto lungo e laborioso.
L'introduzione del regime podestarile porta una maggiore sistematizzazione nella conservazione dei
documenti. I podestà riconoscono che una conservazione superficiale può esporre i documenti a vari
problemi, tra cui il deterioramento dovuto alla presenza di muffe, che possono danneggiare e macchiare le
pergamene. Pertanto, l'implementazione di criteri più rigorosi e sistematici nella gestione documentaristica
è essenziale per preservare l'integrità e la durabilità degli archivi comunali sotto il loro dominio.
I podestà fanno in modo che le pergamene vengano riscritte e cucite in quaterni, detti liber iurium perché
contengono la documentazione che tutela i diritti del comune su possedimenti esterni ad esso. Questo
cambiamento richiese molto impegno perché la lettura e la riscrittura verbum ad verbum (parola per
parola) risultavano complicate (cercavano di replicare i caratteri, i simboli e le sottoscrizioni dei documenti
originali).
Così come per i cartulari i liber iurium diventano archivi compattati. Criteri di organizzazione:
-
Struttura topografica: così come materialmente le pergamene erano conservate per
argomento, così anche nel liber iurium. Ci sono quindi anche dei piccoli sottotitoli e un indice
per trovare velocemente i documenti
-
Ordine cronologico: all’interno dei vari topos si ordinavano i documenti per ordine cronologico.
La qualità di pergamena ed inchiostro erano elevatissime. Il cuoio della copertina era colorato e i testi
avevano un grande impatto visivo. A seconda delle loro caratteristiche questi libri assumevano nomi diversi
di comune in comune (esempio: il libro verde a Cagliari perché ha una copertina di seta verde, i biscioni a
Vercelli perché nel momento in cui Vercelli passa sotto la dominazione viscontea ottiene una conferma dal
duca di Milano dei propri diritti e pone sulla copertina del suo liber iurium lo stemma di Milano, la Biscia
viscontea).
Il processo di costruzione di questi libri richiama quello dei cartulari dei monasteri, che avviene nello stesso
periodo. La grande differenza risiede nella conservazione.
Per quanto riguarda i monasteri, quando si procede alla redazione dei cartulari, molto spesso gli originali
poi non vengono più conservati con la stessa attenzione. Spesso quindi non abbiamo più i singoli documenti
originali. Questo ci rende attenti nell’uso di questi documenti, perché il mancato confronto con l’originale
espone al rischio di dare credito a dei falsi.
Nel caso dei comuni la documentazione originale continua ad essere conservata. Questo dà vita ad archivi
paralleli: quello delle charte sciolte e dall’altro i registri nei quali questi documenti sono copiati. Questo ha
reso possibile un controllo incrociato, utile in caso di contenzioso. Purtroppo, molti liber iurium andarono
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perduti, distrutti o spostati in seguito all’assoggettamento del comune da parte di un potere esterno.
Spesso vennero rifatti o vennero fatte più copie.
Troviamo qualcosa di analogo per il mezzogiorno continentale con una grande differenza: nelle città come
Napoli, Cagliari, Palermo ecc non si tratta di un libro di diritti, ma liber privilegiorum, cioè libri dei privilegi.
Da una parte abbiamo dei diritti che i comuni hanno ottenuto, spesso lottando e scontrandosi con
l’imperatore e le forze nobiliari. Nel caso dei privilegi siamo di fronte a concessioni che le città hanno
ottenuto da un’autorità superiore, che può essere revocato. Ciò si riflette anche nel contenuto: abbiamo
testi che si riferiscono esclusivamente alla città e ai suoi abitanti (e non ci sono documenti riguardo le
relazioni tra la città e altre entità).
Il confronto tra libri dei privilegi e libri dei diritti, ci fa comprendere lo status delle città regie del
Mezzogiorno (che hanno un’autonomia e godono di concessioni e privilegi, che non vanno a limitare la
capacità del sovrano di agire in quel territorio) e i comuni del centronord, che erano dei piccoli stati.
I documenti dell’Occidente sono redatti in latino, ma molte città come Pisa avevano relazioni con paesi
arabi o assoggettati al potere bizantino, e quindi si usava l’interlinea (il testo in lingua straniera e tra una
riga e l’altra la traduzione in latino), oppure la traduzione con la partecipazione ci un’interprete. Molto
importante era quindi la mediazione culturale e linguistica.
Questi documenti in diverse lingue li troviamo solo negli archivi di città che ebbero una grande autonomia e
un’espansione economica e sociale importante. Nelle piccole città non troveremo questi documenti e
neanche nelle grandi città del mezzogiorno perché la documentazione era gestita dalla corona.
MERCOLEDÌ 8 NOVEMBRE 2023
Mi sono persa la prima parte
Durante il XII secolo si riscopre il diritto romano.
La lezione di un professore di diritto si divideva in 2 parti: il docente leggeva un testo e poi lo commentava
con gli studenti.
Il risultato di queste discussioni veniva riportato nelle glosse, le note a margine del libro. I codici giuridici
medievali sistematizzano questo processo lasciando dei grandi margini e presentavano le note in margine.
Nel ‘200 la scuola dominante è quella dei glossatori, cioè i commentatori del diritto.
I podestà sono tutti giuristi e conoscono bene il diritto romano, considerato ius comune, cioè di uso
comune, quanto meno nei territori dell’impero. Ancora oggi molti paesi hanno paesi con diritto romanista
(diffuso in tutta l’Europa) e diritto consuetudinario (i paesi anglosassoni, in cui l’insieme delle sentenze
costituiscono la giurisprudenza).
Il diritto romano si scontra però con la realtà: nei secoli il diritto romano era stato dimenticato ed era
caduto in disuso. Durante l’assenza del diritto romano ci fu un’ampia produzione di diritto da parte dei vari
imperatori (vedi i capitolari di Carlo Magno) e si usavano i vari diritti di matrice germanica (anche in Italia
c’era il diritto longobardo).
L’alto medioevo giuridico è il momento in cui oltre alle culture nazionali si sviluppa il concetto di personalità
del diritto: in una situazione in cui coesistono gruppi con diverse culture, ogni gruppo può applicare il
proprio diritto.
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La rivoluzione consiste nell’applicazione del diritto romano a tutti, tenendo però conto di:
1. vari diritti nazionali, che inglobano consuetudini tipiche del diritto germanico
2. diritto canonico, promulgato dagli enti ecclesiastici che vincola tutti con precetti morali che si
traducono in norme giuridiche. Un esempio è il divorzio che è presente nel diritto romano, ma non
in quello canonico.
3. diritto locale, emanato dagli organismi locali.
I podestà si trovano a dover affrontare molte contraddizioni e a dover contemperare diverse forme di
legittimità. Vengono riconosciute 2 categorie:
- Ius comune: vale per tutto il territorio
- Ius proprium: vale per un territorio specifico
I podestà, chiamati ad applicare le leggi, devono applicare in primo luogo la legge locale, se questa è
ambigua o non chiarisce una norma per un determinato contesto, allora si ricorre al diritto romano.
Ciò impone che il podestà conosca non solo il diritto romano, ma anche quello locale; quindi, ha bisogno di
impratichirsi del diritto che è chiamato ad applicare come prima risorsa. Tuttavia, è importante notare che
spesso le leggi locali erano estremamente confuse e mancavano di un codice omogeneo.
Di fronte a questa situazione, i podestà, con il supporto di giuristi locali, intraprendono un processo di
sistematizzazione del diritto locale. Questo processo segue il medesimo criterio adottato per la
compilazione dei libri iurium. In questo contesto, vengono creati gli statuti, che si ispirano ai brevi dei
consoli. Questi brevi consistono in capitoli che i consoli giuravano di rispettare nel momento in cui
assumevano il loro incarico; essi rappresentano una sintesi delle norme che regolano la vita cittadina e
vengono riconfermati ad ogni insediamento di un nuovo console.
La struttura degli statuti è organizzata in modo simile a quella dei brevi dei consoli, comprendendo
numerosi capitoli, ciascuno dedicato a una norma specifica e alla corrispondente sanzione, spesso di natura
pecuniaria, nel caso in cui la norma non venga rispettata. Gli statuti sono suddivisi in libri, che, nel caso più
semplice, possono essere ricondotti a due categorie principali: diritto civile e diritto criminale.
Il diritto civile comprende tutta la parte relativa alle istituzioni del comune, un ente nuovo non previsto dal
diritto romano. Molto importante è anche stabilire chi e come vengono eletti i magistrati. Tutte queste
norme vengono prese da testi pre-esistenti. L’obbiettivo è di definire la sfera amministrativa. C’è una parte
relativa alla validità e alle tipologie di contratti che possono essere prodotte dei notai, regolamentando
inoltre l’attività di notai, giudici e tribunali (dal punto di vista civilistico). Molto importante era anche la
regolamentazione di mercati e fiere, aspetti molto importanti della vita della comunità (con tanto di
gestione di spazi, pene per coloro che non rispettano le regole e gli impegni correlati al mercato, il
pagamento di dazi e tasse per importazione ed esportazione, compreso di tariffari, grazie ai quali
ricostruiamo reti commerciali e itinerari che altrimenti ci sfuggirebbero).
Abbiamo quindi una normativa urbanistica, come la prescrizione che vieta di addossare case o edifici alle
mura cittadine perché può mettere a rischio la solidità delle mura.
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Ci sono norme relative al rapporto con le istituzioni ecclesiastiche, specialmente dal ‘200, momento in cui
vediamo l’insediarsi nelle città dei nuovi ordini francescani e dominicani.
A metà ‘300 la grande peste stermina in pochi anni 1/3 della popolazione europee. Al di là delle
conseguenze economiche, sociali e politiche, dal punto di vista normativo troviamo un riflesso nelle norme
suntuarie. In quel periodo si ricollega la peste a una forma di punizione divina inflitta a causa dell’eccesso di
fiducia in sé stessi, dell’arroganza della società dei decenni precedenti (veniamo da un secolo e mezzo di
continua espansone economica). C’è quindi un nuovo bisogno di umiltà e si riflette nelle normative con
divieti e limitazioni.
Qualche esempio: si limitano la quantità di gioielli indossabili, si impongono abiti di determinati stoffe,
colori e modelli; si limitano il numero di invitati e portate ai banchetti nuziali, si limitano il numero di
persone che piangono per mestiere ai funerali. Sono interventi moralistici sulla società che trovano un
corrispettivo anche nel diritto criminale. Queste norme le troviamo in redazioni statutarie posteriori a metà
‘300. Questo perché lo statuto non è un documento chiuso, è in continuo aggiornamento, per questa
ragione viene lasciato spazio per le aggiunte, gli additamenta.
Un punto cardine del diritto romano è che non ammette ignoranza, per questa ragione gli statuti hanno
una natura pubblica e vengono redatti assumendo da subito una forma di codice – a differenza dei libri
iurium che vengono consultati solo dai membri degli uffici del governo o al massimo esposti in caso di
controversia (per questa ragione i libri iurium si sono conservati così bene e non si sono usurati).
Gli statuti vengono redatti in 2 copie e rilegato con una copertina di legno. Una copia serve al podestà,
l’altra è messa in un luogo riparato ma accessibile a tutti, come il palazzo comunale, detti i registri della
catena, i registri vengono fissati con una catena al supporto sul quale sono appoggiati affinché nessuno li
possa portare via (ed eventualmente alterarlo).
L’alfabetizzazione si sta diffondendo, ma l’aspetto estetico del documento è ancora molto importante. Gli
statuti hanno all’inizio una rubrica, cioè un indice, scritto con inchiostro rosso (ruber). I titoli dei capitoli si
ritrova in rosso il titolo della rubrica.
Le nuove disposizioni legislative vengono spesso aggiunte in spazi vuoti appositamente riservati alla fine
degli statuti. Questa pratica comporta una dislocazione delle nuove leggi dai capitoli originali, alterando la
struttura originaria dell'opera. Il metodo organizzativo basato sull'organizzazione per argomenti, quindi,
viene compromesso dalla presenza di leggi aggiunte in appendice.
Inoltre, le mutevoli esigenze della comunità possono portare alla necessità di modificare le leggi esistenti o
introdurne di nuove. Questo processo può portare alla comparsa di norme in contraddizione o in
sostituzione di leggi più antiche, generando così confusione nel sistema giuridico locale. Tale situazione
iniziale caotica richiede un intervento di riorganizzazione, noto come reformatio, che letteralmente significa
"ridare una forma".
Per affrontare questo problema, veniva istituito un collegio di persone specializzate, chiamate riformatori,
selezionate appositamente per esaminare e riformare lo statuto. Questo processo di revisione e
riorganizzazione era essenziale per ripristinare l'ordine e l'efficacia degli statuti, garantendo che le leggi
fossero collocate nel contesto appropriato e che le norme giuridiche rispecchiassero le esigenze attuali
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della comunità. Il ruolo dei riformatori era cruciale nel mantenere la coerenza e l'integrità degli statuti di
fronte alle sfide poste dalla natura dinamica delle leggi e dalle mutevoli necessità della società locale.
Una volta riscritto il vecchio statuto viene distrutto (in raro caso viene archiviato o i fogli vengono usati per
altri scopi come, ad esempio, fare da rivestimento alle copertine), per evitare che persone si avvalgano
delle leggi vecchie.
Nel caso di città autonome l’approvazione viene data dai consigli, in città soggette al potere di un’autorità
esterna (città più grande, enti ecclesiastici, principi) l’approvazione è fornita dall’autorità dominante.
La sfida nella valutazione di un nuovo statuto dal punto di vista storico sorge quando si cerca di utilizzarlo
come fonte primaria per scopi storici. La mancanza di dati cronologici rappresenta una barriera significativa,
poiché la collocazione temporale delle norme risulta spesso difficile. Inoltre, la disposizione delle leggi
all'interno dello statuto segue spesso un criterio tematico anziché cronologico, il che può portare a
situazioni in cui leggi approvate in epoche distanti tra loro anche di due secoli possono risultare contigue
all'interno del testo.
Tuttavia, l'analisi testuale può fornire una guida utile in questo contesto. Ad esempio, l'uso del plurale in
una norma può indicare che essa è stata approvata da un consiglio o da un'assemblea, consentendo agli
storici di collocarla in un contesto temporale specifico. Questa analisi attenta del linguaggio e della
struttura testuale può offrire preziose indicazioni cronologiche, contribuendo così a comprendere meglio il
contesto storico in cui è stato redatto lo statuto e le leggi in esso contenute.
Alcune norme sono più facili da collocare tenendo conto di elementi esterni: ad esempio le norme
suntuarie sono tipiche del periodo post-peste; quindi, quando le trovo so che non possono essere
antecedenti alla metà del ‘300.
La normativa criminale che troviamo negli statuti è la teoria del diritto. Spesso la norma diverge
dall’applicazione abituale di alcune prescrizioni. Spesso le mutilazioni corporali, le pene pesanti di tortura
ecc non vengono applicate, ma presentano un’immagine molto distorta del medioevo. La repressione
dell’omosessualità non veniva mai applicata, nonostante le pene fossero durissime. La società medievale
nel suo complesso è molto meno condizionata da tabù rispetto all’epoca post-contro riforma.
Gli statuti continuano ad essere aggiornati fino all’800, quando il sistema viene completamente cambiato.
Ci sono molte edizioni a stampa del ‘500 e del ‘600, che contengono additamenta successivi.
Gli statuti rurali costituiscono un corpus normativo specifico per le regioni rurali, che sono sottoposte al
controllo amministrativo di centri urbani. Questi statuti presentano una caratteristica peculiare, in quanto
rappresentano un terzo livello di giurisdizione, aggiungendo il diritto locale del centro urbano ai già
esistenti ius comune e ius proprio. Il diritto locale del centro urbano interviene solamente per
regolamentare gli aspetti particolari dell'economia e dell'amministrazione del centro stesso, il che si
traduce in una normativa più limitata rispetto agli altri livelli giurisdizionali. È importante notare che, in
questo contesto, l'amministrazione non è gestita a livello locale, ma è invece supervisionata e controllata
dal centro urbano dominante. Le leggi locali degli statuti rurali disciplinano specifiche regole del luogo e
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gestiscono i beni comuni, concentrandosi su aspetti rilevanti per la vita e l'economia della comunità rurale
in questione, come la gestione dei terreni coltivabili, prati da fieno, pascoli, boschi (per il legname per le
costruzione e per la resine per la pece, utile per impermeabilizzare), corsi d’acqua – importanti per
l’agricoltura e per i mulini, che possono muovere grandi martelli per battere metallo o la pasta di carta,
oppure muovere grandi seghe – regolamentavano i rapporti tra pastori e agricoltori che spesso erano in
conflitto. I contenziosi venivano così limitati tramite un sistema di multe, il cui importo dipendeva da molti
fattori (se fatti di notte si supponeva una maggiore malizia da parte del contravventore e la multa
raddoppia).
Durante l’età moderna negli statuti rurali vengono inseriti i bandi campestri, regole che valgono per la
campagna. I campari erano ufficiali che si assicuravano che non venissero fatte infrazioni. Sono inseriti negli
statuti rurali risalenti all’800. Solo con l’unificazione italiana le norme e le leggi assumeranno un carattere
omogeneo.
Molto interessante degli statuti è che sono documenti che in modo precoce adottano l’uso del volgare: a
partire dal XIV secolo abbiamo versioni in volgare che diventano prevalenti nell’età moderna, proprio
perché dovevano essere conosciuti da tutti. Questo fenomeno è parallelo ad una nuova alfabetizzazione
(non generalizzata ma abbastanza diffusa). Sono molto importanti anche dal punto di vista filologico.
LUNEDÌ 13 NOVEMBRE
Nella fase delle origini e in quella podestarile la documentazione è su pergamena (sciole o nel formato di
codici pergamenici, nel caso degli statuti e dei libri iurium). Con l’avvento dei comuni di popolo (metà del
‘200) cambia il modo di redigere la documentazione e si inaugurano i verbali dei consigli.
Nei comuni i consigli si riunivano quotidianamente e venivano dibattute le reformationes e provvedimenti
contra personam o ad personam (specifici provvedimenti che colpiscono una persona o un gruppo o
accolgono le istanze presentate da una persona. Accolgono argomenti generali o molto specifici). La
materia viene trattata a mano a mano che si presenta ai membri del consiglio e viene verbalizzata
nell’ordine in cui la decisione è stata adottata. Ciò produce difficoltà nella gestione di questi registri cartacei
(la pergamena stava cadendo in disuso e si usava solo per redazioni finali di un testo in quanto molto cara,
oppure si usava per la copertura dei registri cartacei. In questo periodo si usava molto la carta di stracci,
economica e robusta).
Il ‘300 è il secolo in cui l’alfabetizzazione dei laici si diffonde ampiamente: lo sviluppo economico porta i
mercanti a saper scrivere, leggere e tener di conto, per poter tracciare i propri affari. Un effetto collaterale
dell’alfabetizzazione fu la vasta diffusione di letteratura in volgare. La moltiplicazione di copie dello stesso
testo è conseguenza dall’incremento di un pubblico lettore.
In Italia, oltre al movimento poetico noto come dolce stil novo, si constata una diffusa presenza di opere
letterarie erudite redatte non esclusivamente in latino, bensì in francese, la lingua franca predominante del
periodo. Tale lingua, adottata dai mercanti, una classe sociale in rapida espansione e detentrice di
considerevole potere economico, rifletteva lo stile di vita della classe dirigente (mos nobilium),
incorporandone le consuetudini. La sfera di questa vita agiata contemplava l'inclusione dei libri, i quali, vista
la loro spesa pecuniaria, denotavano una condizione economica favorevole. Di norma, tali manoscritti
erano composti in francese (come testimoniato nell'esempio di Paolo e Francesca leggendo il romanzo di
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Lancillotto e Ginevra, ovviamente in lingua francese). La presenza numerosa di codici letterari era indice di
una diffusa alfabetizzazione nella società dell'epoca.
Nel contesto della vita amministrativa, si osserva un'ampia diffusione dell'uso della scrittura, evidente
anche nell'adozione di pratiche di verbalizzazione durante le sedute dei consigli. Tuttavia, emerge una sfida
peculiare nella redazione dei verbali dei consigli: questi documenti non rispecchiano la struttura ordinata e
organizzata tipica dei documenti politici, come ad esempio i liber iurium. Al contrario, spesso presentano
una miscellanea di contenuti eterogenei, senza una categorizzazione precisa, e talvolta mancano di indice
che ne facilita la consultazione e l'accesso ordinato.
Queste serie documentarie costituiscono il punto di partenza di un processo che evolve nel tempo fino a
giungere ai moderni verbali del consiglio comunale.
In Italia, a differenza di altre regioni europee, la prassi della verbalizzazione delle discussioni non avviene
nella lingua originariamente utilizzata durante gli incontri. L'attaccamento alla tradizione ha determinato
che tali documenti venissero redatti in latino. Di conseguenza, un cancelliere, comunemente un notaio nei
casi dei comuni, si incaricava della rielaborazione di tali testi, impiegando le proprie competenze per
garantire la validità legale degli stessi. Questo processo richiedeva la trasposizione del contenuto dalla
lingua originale al latino. Tale procedura risultava estremamente complessa, coinvolgendo due fasi
distintive: una prima fase di trascrizione corrente della discussione nella lingua effettivamente utilizzata
(basata su appunti presi dal cancelliere) e una seconda fase di creazione di un testo coerente, seguita dalla
traduzione in latino, spesso integrando i formalismi tipici di questa lingua. Si trovano tracce di volgare nella
trasposizione di una testimonianza e nei discorsi diretti.
Una problematica emersa riguarda la situazione in cui il cancelliere si trova di fronte a termini o concetti
privi di equivalenti diretti nella lingua latina. In tali circostanze, il cancelliere si confronta con la necessità di
elaborare perifrasi di considerevole complessità o di adottare latinizzazioni di termini comuni per integrarli
nel contesto latino.
I resoconti dei consigli rappresentano testi di rilevanza essenziale poiché offrono uno sguardo approfondito
sulle dinamiche sottostanti all'azione politica, spesso registrando le divergenti opinioni espresse riguardo a
tematiche politiche in discussione. Tuttavia, talvolta ci si imbatte in documenti meno dettagliati che si
limitano a delineare l'adozione di una specifica risoluzione, senza includere i diversi punti di vista emersi
durante il dibattito. Questa disparità può essere attribuita al grado di autonomia politica dei comuni, poiché
laddove esisteva un'influenza esterna sul governo comunale, il dibattito poteva risultare limitato, dato
l'ulteriore potere decisionale che sfuggiva all'influenza diretta del consiglio. C’è una differente dilatazione
dei verbali che corrisponde al livello del dibattito politico interno alle città: nei verbali vengono riflesse le
forze e le debolezze dei vari comuni. Venezia e Firenze sono perlopiù sintetiche, a Genova invece le
verbalizzazioni sono veri e propri dibattiti.
Troviamo una grande differenza tra l’Italia centro-settentrionale e il Regno di Sicilia: nell’Italia centrosettentrionale anche i piccoli centri, seppur controllati da comuni più grandi, hanno prodotto una
documentazione consistente e continuativa. Nel Regno, invece, questa documentazione è più atrofizzata,
anche le città grandi non hanno la possibilità di intervenire sul loro territorio o di prendere decisioni
politiche. Le deliberazioni dei consigli di queste città si limitano all’aspetto urbanistico (la fiscalità è gestita
dal centro di potere).
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La prima fase dei registri dei consigli è andata smarrita a causa di numerosi trasferimenti di potere, in cui si
è assistito al passaggio da una governance comunale basata sul popolo a una signoria più centralizzata,
caratterizzata da un nuovo consolidamento del potere politico e decisionale. Questi documenti hanno
gradualmente perso rilevanza e, di conseguenza, sono stati volutamente eliminati dai potenti per cancellare
esempi passati di rivolte. Dalla fine del ‘300 fino all’età moderna abbiamo una produzione massiva di
registri.
A Venezia si produssero così tante leggi attraverso questi consigli che si dovette creare una commissione
per selezionare e riunire per materia i documenti, un’operazione simile alla reformatio per gli statuti.
C’erano inoltre uffici separati per materie diverse che hanno lasciato una certa traccia documentaria
proficua. Venezia fu molto burocratica, l’antica matrice bizantina si ripropone e si mantenne una memoria
scritta anche di uffici con compiti molto specifici, complessi e delicati.
Nell’XI secolo ci fu la trasformazione della carica dogale ereditaria in carica elettiva. Il consiglio
rappresentava l’élite economica e politica della città. Di fronte alle pressioni del populus che minacciano
l’equilibrio tra consiglio e doge, si istituzionalizzò la chiusura oligarchica. Nel 1297 ci fu la “serrata del
maggior consiglio” viene stabilito che da quel momento in poi a far parte del consigliò di Venezia saranno i
membri delle famiglie in quel momento rappresentate nel consiglio (alcune centinaia di membri) o di quelle
che nei 10 anni precedenti ebbero un membro della loro famiglia nel consiglio. Questa struttura rimase
inalterata, con un’unica eccezione: nel XVII secolo in corrispondenza della guerra di Candia, molte famiglie
non facenti parte del registro d’oro (registra le nascite dei nati maschi nelle famiglie facenti parti del
consiglio) donarono molto denaro e come riconoscimento vennero inserirti nel Consiglio, i cosiddetti
ascritti di Candia.
Quando si chiusero in un’oligarchia garantirono però la partecipazione allo sviluppo economico a tutti i
cittadini di Venezia.
Nel 1310 ci fu un tentativo di rovesciare questo sistema con una cospirazione popolare, guidata da un
esponente della vecchia aristocrazia. La congiura viene sventata e vennero presi provvedimenti spietati per
tutti coloro che alteravano l’immagine di Venezia (assunsero dei sicari che scovassero i fuggitivi per tutta
Europa).
Venne istituito così il “consiglio dei 10”, una sorta di polizia segreta di stato per reprimere il dissenso. In
realtà erano 17 (10 del consiglio, il doge e 6 avogadori del comun). I registri del consiglio dei 10, seppur
sintetici, ci fanno capire come venivano maturate le decisioni all’interno del consiglio.
I resoconti dei consigli fa quindi emergere sfaccettature che altrimenti non sarebbero emerse.
Negli altri comuni sappiamo che c’erano uffici ad hoc, le balie, la non è rimasto nulla. Abbiamo magari i
risultati del loro lavoro tramite la registrazione fiscale, ma non abbiamo la memoria dei lavori compiuti.
Questi documenti rendono possibile conoscere come funziona l’amministrazione statele dall’interno e i
rapporti con coloro che sono soggetti al potere del comune (all’interno del comune stesso e nel territorio
controllato) – il professore legge un resoconto in volgare di un’area montana soggetta al comune di Siena.
Questa è una testimonianza della diffusa alfabetizzazione (la Toscana fu fulcro dell’alfabetizzazione del
popolo). La precisione e l’immediatezza dei dati esprime una differenza tra un passato migliore ed un
presente in crisi che supplica ed implora per un abbassamento delle tasse. Questa tipologia di
documentazione è molto farraginosa e presenta diversi temi, ma presenta temi e materie che altrimenti
non verrebbero esposte. Ciò rende complessa l’analisi di questa tipologia di fonti.
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MARTEDÌ 14 NOVEMBRE 2023
La normativa statutaria ci dà un’immagine di come coloro che stavano scrivendo le norme ritenevano come
dovesse essere l’amministrazione della giustizia, ma l’applicazione effettiva delle norme in molti casi era
differente dalla legge.
Come gli statuti si dividono in due libri (civile e criminale), anche la documentazione giudiziaria, prevede
due tribunali:
- Civili, di varia natura. Il tribunale del podestà costituisce un organo per il trattamento delle
cause civili, ma si identificano tribunali specifici associati a varie forme di organizzazioni
riconosciute all'interno della sfera comunale. Le corporazioni commerciali e artistiche, ad
esempio, dispongono dei propri tribunali deputati a giudicare le violazioni delle rispettive
normative interne. Questo tessuto istituzionale è pervenuto a noi in maniera disomogenea: la
conservazione della documentazione relativa a tali tribunali è stata frammentaria, in quanto
non ha goduto di particolare considerazione in passato. Tuttavia, a Firenze, l'archivio del
tribunale è pervenuto in condizioni di conservazione notevolmente migliori rispetto ad altre
realtà.
- Penali. I documenti di natura penale sono intrinsecamente associati all'esercizio del potere
sovrano e alle prerogative dello Stato. Soprattutto nell'età basso-medievale, con la rinascita del
diritto romano, si assiste a un ampliamento e a una maggior strutturazione delle competenze e
dei confini d'intervento dello Stato e delle istituzioni pubbliche. Emergono chiaramente le
prerogative della giurisdizione penale, che costituiscono uno dei poteri maggiormente
rivendicati. La giurisdizione penale si articola in due distinti ambiti: la "alta" e la "bassa"
giustizia. La giustizia di basso livello (in relazione a reati comuni) è di particolare interesse per le
autorità comunali e pubbliche, trattandosi di reati suscettibili di sanzioni pecuniarie, le quali
vengono accuratamente registrate per essere incamerate nelle casse dello Stato. Questa
documentazione è oggetto di una conservazione più attenta e scrupolosa.
Al contrario, i documenti riguardanti la giustizia "alta" (concernente reati che comportano il
versamento di sangue o punizioni quali mutilazioni o pena di morte) sono conservati con
minore cura. Questo ambito abbraccia i crimini considerati gravi non solo dal punto di vista
giuridico, ma anche da quello morale e sociale. In passato, l'omicidio poteva essere compensato
secondo l'editto di Rotari mediante il pagamento di una somma pecuniaria, riducendo così la
pratica della giustizia privata. Tuttavia, altri tipi di omicidio, come il parricidio o il tentato
attentato contro il sovrano, comportavano la pena di morte.
È da notare che questi documenti sono scarsi, in quanto spesso non venivano conservati una
volta che l'esecuzione della sentenza capitale era stata eseguita, non suscitando più interesse
nel mantenere traccia della condanna. Un esempio noto è rappresentato dal tribunale
pontificio che si occupava di tali casi: la maggior parte dei suoi documenti fu distrutta prima
dell'unità d'Italia, salvandosi solo un registro grazie all'interesse di un archivista, contenente il
caso di Beatrice Cenci. Questa giovane della nobiltà romana fu coinvolta in un complotto
familiare per eliminare un padre dispotico, venendo condannata a morte dopo essere stata
scoperta e giustiziata per decapitazione.
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In ogni caso i documenti che ci rimangono di più sono quelli della bassa giustizia perché c’era un interesse
economico da parte dello stato. C’era un grande interesse da parte dei magistrati per il diritto romano.
C’è un progressivo affiancarsi alla tradizionale forma di processo penale che prevedeva un’accusa (doveva
esserci qualcuno che accusava per mettere in moto la macchina della giustizia) inizia ad esserci il processo
inquisitorio, il processo moderno come lo concepiamo noi, che parte dall’iniziativa di un magistrato
inquirente, che di fronte ad un reato o al sospetto di un reato, porta ad un processo. Il liber de Maleficis di
Alberto da Gandino (professore universitario e magistrato inquirente, iudex maleficiorum – maleficio nel
senso latino, ovvero i crimini) è un manuale di procedura penale.
Un ulteriore aspetto di rilievo concerne l'analisi delle personalità documentate, fornendo informazioni su
individui altrimenti rimasti nell'oscurità storica. Si registra la presenza di numerosi individui delle classi
sociali più elevate, i quali mostravano comportamenti in aperto contrasto con le disposizioni normative
sancite negli statuti vigenti. Solitamente, tali individui si trovano coinvolti in procedimenti giudiziari a causa
di comportamenti violenti o per il semplice fatto di essere in possesso di armi, un segno distintivo sociale,
considerato abitudine nobiliare il portare la spada come distintivo identitario.
Altri motivi di accusa si associavano al vagare durante le ore notturne senza una lanterna, come prescritto
dalla legge. Nei contesti urbani medievali, la mancanza di illuminazione pubblica poteva sollevare sospetti
riguardo a intenzioni poco chiare per chi fosse stato trovato a giro di notte, armato e senza adeguata
illuminazione. Un’altra causa comune di processi giudiziari riguardava l’aggirarsi mascherati, configurando
un ulteriore motivo per il quale molti individui venivano sottoposti a procedimenti legali. Sono tutti crimini
che portano davanti al tribunale molti giovani maschi delle élite sociali.
I documenti verbali iniziavano progressivamente a mostrare influenze della lingua volgare. Questi resoconti
erano redatti da notai che, pur traducendo i dibattiti svolti in lingua volgare in latino mediante un lessico
giuridico appropriato, frequentemente mantenendo in lingua volgare le dichiarazioni dirette.
Un ulteriore aspetto coinvolgeva le denunce, redatte direttamente in lingua volgare, offrendo così
numerosi spunti per comprendere l'evoluzione dei volgari locali.
È previsto che nell’ambito del processo gli avvocati o le persone stesse che si difendono apportino dei
consilia, cioè pareri di giuristi. Li troviamo nella documentazione in cui ci fu molta attenzione nella
conservazione.
Le persone che vivono fuori dalla città che non sono cittadine compaiono solo nel momento in cui hanno a
che fare con qualcuno della città e vengono portati davanti al tribunale cittadino. Ciò ci porta a concentrare
la nostra attenzione sull’ambito cittadino.
In alcune tradizioni ci sono registri delle accuse e registri delle difese.
In altre i verbali dei processi costituiscono un fascicolo unico.
In altri casi i testimoniali possono essere finiti nei documenti del notaio-cancelliere e non sono stati allegati
agli atti del processo. A volte i consilia vengono tenuti a parte.
Un aspetto poco presente nelle curie maleficiorum (tribunali criminali) è riguardo al medico legale. Al
giorno d’oggi, nei casi di omicidio o violenze la documentazione del medico legale occupa una grande parte
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del fascicolo processuale. Anche allora venivano condotti esami sulle vittime e il parere dei medici era
tenuto in considerazione per procede nell’inchiesta.
Nell'epoca storica in esame, la detenzione non costituiva una forma di punizione, bensì una modalità di
trattenimento finalizzata a esercitare pressione su un individuo. I detenuti erano tenuti a versare un
pagamento per la propria permanenza in carcere, e maggiori erano le somme corrisposte, migliori erano le
condizioni di vita all'interno dell'istituzione detentiva.
Ad esempio, nel caso di un debitore, la detenzione perdurava fino al saldo del debito, con il conseguente
sequestro dei beni strumentali. Questo ciclo si configurava come un circolo vizioso, spesso portando alla
scoperta di somme di denaro precedentemente occultate. La detenzione per motivi di debito risultava
essere la forma più comune e diffusa, assumendo denominazioni differenti nelle varie città medievali (ad
esempio, a Genova era noto come il "carcere della malapaga").
Questi dettagli forniscono indicazioni sulle condizioni dei "marginali" della società, individui spesso estranei
alla partecipazione nell'ampia espansione economica che interessò l'Europa, soprattutto l'Italia, dalla fine
dell'XI secolo ai primi decenni del XIV secolo (prima dell'avvento della grande peste). Tali individui
rimanevano nell'ombra, emergendo soltanto quando le loro difficoltà li conducevano di fronte a un
tribunale.
MERCOLEDÌ 15 NOVEMBRE
La documentazione finanziaria
In Inghilterra abbiamo i Pipe Rolls, grandi rotoli pergamenacei sulle quali vengono registrate le entrate del
regno. Anche il Domesday Book è un grande catasto ed è molto importante a partire dal ‘300.
Le monarchie, consolidando il proprio controllo sul territorio e le proprie strutture amministrative, iniziano
a produrre documentazione finanziaria. Questi documenti, specialmente quelli inglesi, cioè il rotolo
pergamenaceo, avrà un’influenza sulla fiscalità sabauda, che fino al ‘400 avanzato, è conservato sotto
questa forma di rotoli pergamenacei (rotoli di castellania). Gli stati sabaudi erano una sorta di cerniera tra il
mondo transalpino e il mondo italiano, in cui la documentazione fiscale assume la forma di registro
cartaceo. Influì sicuramente la diffusione della produzione della carta, che ancora nel XV secolo in
Inghilterra non ci sono cartiere attive, mentre in Italia era molto diffusa. Ciò rese naturale l’uso di questo
supporto scrittorio meno caro delle pelli.
Il contenuto si riferisce alla gestione delle finanze sia in entrata, sia in uscita. Con il passare del tempo, il
modo di tenere la contabilità si va raffinando dal punto di vista tecnico: dal XIV sec in Italia si inizierà a
usare il sistema della partita doppia (entrate ed uscite), che si diffonderà molto lentamente al di là delle
Alpi. A metà ‘400 in Italia trova una configurazione nell’opera di un matematico, Luca Pacioli, in altri paesi
europei invece la maniera di tenere la contabilità è più primitivo.
C’è una differenza nel modo di documentare le finanze tra i principi e le città, all’interno della quale
distinguiamo ancora documenti finanziari di città autonome e di quelle soggette. Nella sua fase iniziale si
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elencano le entrate e successivamente chi è incaricato di tenere la contabilità registra giorno per giorno le
uscite (sia finanze principesche, sia comunali).
Il professore legge dal libro un documento finanziario del comune di Siena, quando si era
sottoposta al potere di Manfredi di Sicilia. Sono semplicemente spese annotate, senza fare
distinzione tra beni di consumo, pagamenti a dipendenti ed artigiani. La documentazione più antica
si rifà a questo modello.
I diritti di base dello stato sono anche le sue rendite: tasse (pagate in forma monetaria o giornate di lavoro),
le rendite delle peschiere, delle saline e delle zecche, i beni di coloro che commettono un crimine di lesa
maestà, metà dei tesori trovati in luogo pubblico (in loco cesaris), tutto ciò che sta sottoterra (miniere,
giacimenti ecc).
Si aggiungono le tassazioni e le collecte per le spedizioni militari, raccolte dai sovrani in momento di
necessità. Ci sono alcune esigenze per le quali i sovrani possono richiedere delle tasse straordinarie:
- Guerre
- In occasione della cerimonia di conferimento del titolo di cavaliere del primo genito maschio
del sovrano
- In occasione delle nozze della figlia del sovrano
Sono forme di contributo che i sovrani dosano con abilità: aspettano il momento giusto in un momento in
cui hanno particolare bisogno di soldi. Queste tasse vengono pagate per diritto tradizionale (le
contribuzioni di lavoro obbligatorio vengono convertite in contribuzioni in denaro).
Soprattutto a partire dal XIII sec i sovrani devono contrattare le contribuzioni straordinarie con organismi
collegiali come i parlamenti (che nel medioevo non erano organi politici, ma investiti specialmente di
compiti fiscali). La possibilità di discutere con il sovrano influisce sulle documentazioni.
Ad esempio, i parlamenti francesi hanno il compito di ripartire la massa monetaria richiesta dal sovrano; il
parlamento inglese invece aveva più potere di limitare il re.
Il parlamento si formava quando veniva convocato dal sovrano: c’erano membri di diritto e altri che
potevano essere invitati dal sovrano. La struttura era simile al parlamento moderno: prevedeva un braccio
per la nobiltà, uno per il clero e l’altro per le città indipendenti che nominavano dei rappresentanti.
In Inghilterra abbiamo una distinzione: la camera dei lord (i lord inglesi avevano poteri sia temporali sia
spirituali) e la camera dei comuni (in cui venivano rappresentate le città e la piccola nobiltà). Senza
l’approvazione il sovrano non poteva imporre nuove tasse, mentre in Francia il parlamento (o meglio i
parlamenti regionali) era solo un organo consultivo.
I beni della Chiesa sono esenti da ogni tassazione e durante le sedute del parlamento gli ecclesiastici sono
invitati a contribuire, specialmente quando c’è realmente una necessità.
Controllando le finanze i parlamenti acquisiscono potere nei confronti della corona. Ogni volta che si
approva una tassa la si approva in maniera straordinaria applicabile una sola volta. La documentazione
contabile realizzata per valutare le capacità contributive delle singole comunità e per esigere le tasse
corrispondenti viene distrutta dopo il pagamento, affinché sono possa essere riscossa una seconda volta.
L’eccezione è costituita dalle dogane, che non rientra nelle competenze del parlamento, il quale tutela gli
abitanti e non gli stranieri.
54
Nel contesto della Corona d'Aragona, si osserva un passo ulteriore nell'asserita autorità delle Corts,
evidenziato nel 1380 quando i delegati parlamentari, durante la convocazione delle Corts, esigono che il re
e i suoi ministri rendano conto dell'impiego delle tasse. Tale pratica, raramente riscontrabile altrove,
rappresenta un chiaro segnale dell'ampiezza della supervisione esercitata dalle istituzioni parlamentari nei
confronti del governo e delle sue spese.
Ciò comporta la redazione di una documentazione da parte della tesoreria reale di grande precisione,
soprattutto per la registrazione delle spese, creando accorpamenti e distinguendo le spese per voci. Per
poter rispondere alle richieste di giustificazione delle spese. I sovrani sono sempre più spinti a sistemi
esterni per finanziare la propria politica: chiedono quindi prestiti. La frequenza sempre più presente dei
mercanti italiani è determinante: si vede sempre più spesso di sovrani che chiedono prestiti di denaro ai
mercanti, spesso mercanti di denaro, conosciuti all’estero come lombardi, spesso astigiani.
Il vantaggio del chiedere prestiti è che possono farlo senza chiedere permessi al parlamento. Ciò consente
al sovrano di non convocare il parlamento e si evita di dover tener conto della propria politica o fare
concessioni al parlamento in cambio di poter ottenere concessioni fiscali. Per questa ragione i mercanti
italiani erano detestati perché consentivano al re di governare tirannicamente.
I mercanti avevano interesse nel concedere prestiti perché avevano tassi di interesse molto elevati. Molto
spesso però i sovrani non erano in grado di restituire il denaro e si ritrovavano a chiedere ulteriori prestiti
per pagare i debiti. Se non avessero avuto più denaro sarebbero andati ad appaltare beni che non erano
sotto il controllo del parlamento (dogana e beni sotto terra – miniere).
Il primo caso di crack finanziario si registrò in Inghilterra nel 1344 quando Edoardo III dichiara
pubblicamente di non essere in grado di onorare i propri debiti e a catena manda in rovina molti banchi
fiorentini, che in cambio avevano ottenuto concessioni sull’esportazione fuori dogana di lana, che
alimentava l’industria tessile fiorentina, i cui proprietari erano proprio i mercanti che facevano parte dei
banchi prestatori di soldi.
I banchi dell’epoca avevano un capitale sociale, il “corpo della compagnia”, ovvero le quote dei soci e i soldi
che raccolgono dai clienti. Così come accade oggi, se si spargeva la voce che la compagnia aveva delle
difficoltà tutti andavano a ritirare i propri soldi e lasciavano la compagnia senza denaro.
Le finanze principesche rimangono ad un livello di gestione meno complesso di quello delle città. Il sistema
cittadino già dalla seconda metà del ‘200 ha un modus operandi più complesso: distinguono con maggiore
chiarezza i due momenti del bilancio (entrate ed uscite) e fanno operazioni di ricognizione, cioè fanno delle
inchieste sulle quali il comune può fare conto (sia sotto forma di cespiti fiscali, sia sotto forma di beni
fondiari, diritti su tratti di corsi d’acqua ecc). C’è quindi una descrizione del territorio.
C’è una maggiore sistematicità nella maniera in cui i soldi vengono gestiti. Si vedono già a partire del ‘300
embrioni di bilanci (di previsione e consultivi). C’è un rapporto molto stretto tra cittadini e coloro che
governano il comune; quindi, non si poteva tassare “senza pietà”. Quando è necessario chiedere una
contribuzione straordinaria si procede con attenzione alla rilevazione delle capacità rivelative dei singoli.
Ciò porta alla redazione di rilevazioni ai fini fiscali della capacità rilevativa, che purtroppo non ci sono
pervenute per la stessa ragione delle contribuzioni straordinarie: non potevano essere richieste due volte.
Quindi la documentazione viene eliminata.
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Le autorità comunali fanno delle inchieste sulla capacità contributiva complessiva, che vengono riportate
nei catasti (prima definiti estimo o libra – nel senso di bilancia. Il catasto parte dal principio che la proprietà
immobiliare è il bene indicatore di capacità contributiva più sicuro).
Un esempio è la tavola delle possessioni fatta redigere dal comune di Siena: prende su di sé il
compito di fare questa valutazione, nominando ufficiali incaricati di percorrere il territorio senese e
valutare le capacità economiche delle famiglie. Con questo materiale redigono un documento contribuente
per contribuente dei loro beni, valutando poi la loro capacità di contribuzione. Questo documento
realizzato tra il 1315-18 è molto importante perché se il lavoro finale è utile per sapere la ricchezza media, il
materiale preparatorio, che è stato conservato, ci consente di vedere i singoli quartieri della città. Si è così
in grado di capire il tessuto urbano e il valore delle case. Grazie a questo documento è stato possibile
ricostruire un quartiere scomparso di Siena, in seguito alla peste.
Un modello differente è quello di Perugia, nel 1285 ci si limitava ad elencare i cittadini (i capi
famiglia) e la loro capacità contributiva, sulla base di rilevazioni non pervenute. Questo tipo di documenti
può essere utile per valutare la densità di popolazione.
Altra città molto vivace dal punto di vista economico era Chieri, i cui catasti sono molto precisi e
fanno una distinzione per il centro urbano e per il contado.
Le autorità comunali si rendono conto che la tassazione diretta, oltre che essere complessa per la raccolta e
l’elaborazione dei dati, è quella che crea maggiori tensioni. Si cerca quindi di limitare la tassazione diretta
alla tassazione indiretta che va a colpire non il patrimonio ma i consumi, alla quale è più difficile sfuggire. La
tassazione è quindi basata su alcuni cespiti di consumi dei quali nessuno può sottrarsi come ad esempio:
- la gabella sul vino
- gabella sul grano
- gabella sul sale
a volte si aggiunge anche una gabella sull’olio. Ciò è di competenza di uffici che hanno il compito di
assicurare rifornimenti di magistrature del centro urbano, quando essi vengono introdotti in città.
I magistrati fano arrivare i rifornimenti, li tassano quando entrano in città (quindi quando vengono venduti
sono già caricati della tassa) e trattengono una parte dei rifornimenti in magazzini per intervenire in caso di
carestia e per evitare speculazioni sul mercato. Le persone si ribellavano meno. Questi uffici erano molto
importanti e ci lasciarono molte documentazioni. Per assicurarsi che tutti contribuissero al fisco cittadino
c’erano forme di acquisto obbligatorio di beni come il sale, indispensabile per l’alimentazione e per la
conservazione. Anche il consumo di vino era molto più diffuso per motivi igienici: l’acqua non sempre era
pulita e sicura, quindi si consumava più vino o lo si mischiava con l’acqua per igienizzarla (era spesso vino
novello, quindi con una gradazione alcolica più bassa). Il vino è anche nutriente in quanto zuccherino. Per
garantire che tutti facessero gli acquisti obbligatori di questi beni si facevano degli elenchi.
Le autorità comunali si rendono conto che le contribuzioni forzose o quelle straordinarie non riescono a
coprire le esigenze del comune. Si inizia così a chiedere prestiti: il comune chiede dei soldi, ma non a fondo
perduto, verranno restituiti con interesse. A garanzia metto la rendita delle gabelle principali, fonti di
introito sicure. Un ulteriore passo avanti è il congelamento di questa cifra, con il pagamento continuo di
interessi. Così viene estinto il debito pubblico nel ‘400. Nascono strutture Casa delle compere e dei banchi
di San Giorgio di Genova, il Monte degli Impresti di Venezia, il Monte dei Paschi di Siena. Queste strutture si
sviluppano in strutture bancarie, tanto dai cittadini, tanto da persone che abitano lontano (molti principi
mettono al sicuro i loro soldi in banche a Venezia o Genova). Questo sistema apre la finanza anche a
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persone che non hanno grandi capitali (enti ecclesiastici, donne e piccoli artigiani) o che non vogliono
rischiare. I titoli poi possono essere venduti. È una sorta di buono fruttifero. È un investimento nel debito
pubblico che si fa ancora oggi con l’acquisto di titoli di Stato. Il sistema nel ‘400 viene portato a perfezione.
Questo produce degli archivi enormi.
LUNEDÌ 20 NOVEMBRE 2023
In contemporanea all'evoluzione della società secolare, il mondo ecclesiastico vive una trasformazione
significativa, contraria alla frammentazione del potere locale osservata nella società secolare. Nel mondo
ecclesiastico, si assiste all'ascesa della gerarchia e del potere unico, contrariamente alla tendenza verso un
consolidamento dei poteri locali seguito da un ritorno a forme di autorità monarchica in una fase
successiva.
Le origini della Chiesa risalgono a comunità cristiane sparse nel bacino del Mediterraneo, organizzandosi
progressivamente intorno alla struttura di base della Chiesa, la rete degli episcopati. Questa struttura era
originariamente configurata come una vasta rete orizzontale fino all'XI secolo, in cui le sedi episcopali
costituivano i punti di connessione. In questo contesto, tutti i vescovi condividevano lo stesso potere,
ognuno con piena autorità all'interno della propria diocesi, e venivano eletti in modo simile. Un esempio è
l'elezione di Sant'Ambrogio come vescovo di Milano da parte del popolo milanese dopo aver risolto una
controversia religiosa tra cattolici e ariani, riflesso di una tradizione persistente nella Chiesa nei secoli
successivi.
Alcune diocesi particolari all'interno della Chiesa universale godevano di un ruolo speciale legato a forme di
primato morale. Nell'antichità tarda e nell'alto Medioevo, si concepiva la Chiesa come una grande comunità
che rappresentava l'umanità. La direzione di questa vasta comunità era affidata ai titolari delle sedi
apostoliche, ossia le sedi episcopali riconosciute per essere state fondate dagli apostoli, tradizionalmente
identificate in 5:
- Gerusalemme
- Antiochia
- Alessandria d’Egitto
- Roma
- Costantinopoli
Si instaura una tradizione secondo cui la sede episcopale di Costantinopoli sarebbe stata fondata da San
Andrea, fratello di San Pietro, stabilendo così un paragonabile status tra Roma e Costantinopoli. In questo
contesto, il vescovo di Roma detiene un primato di natura morale in quanto successore di San Pietro,
considerato il capo degli apostoli. Questo primato non indica una superiorità gerarchica sugli altri vescovi,
ma piuttosto conferisce un'autorità guida, priva di carattere imperativo simile a quello di un sovrano. La
vera autorità direttiva della Chiesa dovrebbe essere rappresentata dal concilio, momento in cui tutti i fedeli
trovano rappresentanza.
I cinque patriarchi, titolari delle sedi apostoliche, assumono il governo della Chiesa quando il concilio non è
convocato. Vengono tenuti sette concili ecumenici, universalmente riconosciuti dalle Chiese, inclusa quella
orientale. Tuttavia, i successivi concili condotti dalle Chiese orientali e da quelle occidentali non sono
reciprocamente riconosciuti come validi e universali.
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A partire dall'XI secolo, in concomitanza con movimenti riformisti per riportare la Chiesa alla sua forma
originale, emergono movimenti ereticali con tratti comuni come il rifiuto della gerarchia, il pauperismo e la
critica all'influenza eccessiva della Chiesa nel potere politico.
Parallelamente, in risposta a tali movimenti, si sviluppano gli ordini mendicanti (soprattutto grazie alla
predicazione di San Domenico e San Francesco) e l'idea di una gerarchia ecclesiastica più solida e definita,
identificata nella curia romana e nei vescovi di Roma. Tuttavia, l'affermazione dell'autorità del pontefice
incontra resistenze, come lo scontro con le chiese orientali che porta allo scisma con la Chiesa ortodossa e
le Chiese Orientali (armena, egizia…) nel 1054. Le divergenze teologiche, come l'interpretazione del ruolo di
Pietro, e le questioni sulla processione dello Spirito Santo alimentano tali contrasti, con i latini e gli
ortodossi che differiscono nelle formulazioni della trinità.
Lo Scisma d'Oriente si caratterizza come un evento tumultuoso. Tuttavia, a Roma, la situazione viene
vissuta con una relativa serenità, anche considerando gli scismi precedenti. La curia romana, in fase di
definizione (inizialmente composta da chierici che operavano con il vescovo di Roma), è maggiormente
coinvolta nel contenimento dei movimenti pauperisti e nel rapporto con l'autorità imperiale d'Occidente.
I pontefici, fin dall'alto Medioevo, temono l'idea di essere sottomessi o dipendenti da un potere secolare,
influenzati dal precedente del patriarcato costantinopolitano.
A Costantinopoli, l'imperatore riveste un ruolo preminente, ritenendo di ottenere il proprio potere
direttamente da Dio e gode del titolo di "Amico di Cristo, pari agli apostoli." Tale visione giustifica anche i
colpi di stato: il successo di una rivolta è interpretato come una volontà divina, mentre il fallimento viene
considerato un atto ribelle. Questa concezione si traduce nella mancanza di una successione definita,
poiché si ritiene che Dio indichi chi sia più idoneo a diventare imperatore.
Nel contesto costantinopolitano, l'imperatore ha un legame diretto con la divinità, mentre il patriarca
assume un ruolo amministrativo nella Chiesa. Fozio, noto intellettuale e patriarca nel IX secolo, è autore
dell'opera "La Biblioteca", un catalogo delle principali opere degli autori classici. La sua rapida ascesa da
laico a patriarca è stata motivata dalla volontà dell'imperatore.
I pontefici hanno sempre temuto l'idea di essere ridotti a meri cappellani della corte regale. Nel caso dei
patriarchi di Costantinopoli, il loro potere politico si è affermato soprattutto durante il declino dell'impero,
particolarmente evidente durante la conquista turca. Il sultano turco, pur permettendo la pratica della
religione cristiana nel suo dominio, nominò il patriarca di Costantinopoli come capo di tutti i cristiani
dell'impero, conferendo loro un'influenza e un potere notevoli, nonostante storicamente fossero stati
figure subordinate.
Al contrario, i pontefici romani, a partire dall'XI secolo, hanno cercato di emancipare l'autorità pontificia da
ogni forma di controllo da parte delle autorità laiche. Questo obiettivo si manifesta in una polemica
scaturita dalla contestazione di un documento noto come il "Privilegio di Ottone" (962) (privilegium Otonis),
concesso da Papa Giovanni XII all'imperatore Ottone I. Tale documento conferiva all'imperatore il potere di
rifiutare il riconoscimento dei vescovi eletti che lui riteneva non idonei alla carica, offrendo in alternativa la
possibilità di suggerire candidati diversi. Ottone I e i suoi successori hanno utilizzato tale autorità
soprattutto per controllare vescovi influenti, spesso gli unici amministratori delle città, e per assicurarsi che
i vescovi di diocesi rilevanti fossero individui di fiducia.
Gli interventi imperiali si concentrano in specifiche diocesi, come quelle lungo la strada dal nord di
Salisburgo al sud di Verona, strategicamente rilevanti per il collegamento tra il regno tedesco e quello
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italico. Gli imperatori concedono privilegi a vescovi di queste zone per assicurarsi il controllo affidabile del
territorio. Allo stesso modo, le grandi città renane ospitano vescovi che fungono come principali
collaboratori imperiali: cancellieri del regno d'Italia, di Germania e l'arci-cancelliere dell'impero,
tipicamente il vescovo di Magonza.
Le diocesi istituite nel nord-est, come Amburgo, mirano alla conversione di popolazioni pagane e alla
coordinazione della colonizzazione tedesca in quei territori, ad esempio, la Prussia nel XI-XII secolo. Gli
imperatori hanno anche influenzato la moralità della Chiesa, promuovendo vescovi idonei e sostenendo
l'elezione di figure morali anche per la sede papale.
Il periodo è caratterizzato dalla "pornocrazia" papale, durante il quale la leadership della Chiesa di San
Pietro è influenzata dalle dinamiche aristocratiche e femminili romane. Gli imperatori hanno intervenuto
per moralizzare queste elezioni, supportando la selezione di chierici estranei alla diocesi di Roma per
ripristinare l'ordine.
Nel XII secolo, si avviano i tentativi di escludere l'autorità laica dall'elezione del pontefice. La Costituzione In
Nominae Domini di Papa Nicolò II del 1059 stabilisce il privilegio esclusivo dei titolari delle chiese della
diocesi di Roma, i cardinales, nell'elezione del vescovo di Roma, dando origine al sacro collegio dei cardinali
(prima l’elezione avveniva per acclamazione – acclamatio seu inspiratio). Questa manovra mira a eliminare
l'intervento dei laici nelle elezioni papali, incluso quello dell'imperatore.
Il pontificato di Gregorio VII, esponente radicale del partito riformatore della Chiesa, segna una rottura con
la tradizione ecclesiastica nel 1075, con la promulgazione del Dictatus Papae. Si sottolinea l’autonomia del
papa dalle autorità laica, in quanto il suo potere deriva direttamente da Dio.
In questo periodo, i pontefici iniziano a definirsi non solo come successori di Pietro, ma anche come Vicari
di Cristo, sottolineando la loro rappresentanza divina sulla terra, un titolo tradizionalmente assegnato agli
imperatori d'Oriente, ispirandosi a questa figura anche per le cerimonie di intronizzazione papale.
La lotta per le investiture, uno scontro sulla concessione dell'autorità dei vescovi nell'esercizio del potere
pubblico, si protrasse per circa 50 anni (1075-1122). Il concordato di Worms (1122) pose una divisione
sostanziale tra il regno di Germania e quello d'Italia. In Germania, si delineò una distinzione tra investitura
laica ed ecclesiastica: l'investitura laica, la consegna dell'anello, precedette l'investitura ecclesiastica,
mentre in Italia avviva il contrario. Ciò permise all'imperatore di mantenere il controllo sulle nomine nelle
diocesi tedesche, mentre il Papa acquisì il potere decisionale sulle diocesi dei vescovi italiani.
Fuori dall'Impero (Francia, Inghilterra, Sicilia), i papi concessero ai sovrani il diritto di scegliere i candidati
per le nomine episcopali. Il principale obiettivo era affermare la supremazia dell'autorità papale
sull'autorità imperiale, evitando che l'imperatore esercitasse il controllo su Roma.
I papi iniziarono a mettere una sorta di veto sulle nomine episcopali tramite la "riserva" o la "provvista"
delle collazioni dei benefici ecclesiastici, che si ampliò nel tempo. Contestualmente, emanarono costituzioni
che limitarono il diritto di voto per l'elezione del vescovo a collegi elettorali ristretti, alterando il rapporto
tra le sedi episcopali. Roma, precedentemente limitata nell'intervenire nelle questioni interne delle altre
diocesi, iniziò a esercitare un potere effettivo sulle nomine episcopali.
Nel XII e XIII secolo, si assiste alla transizione da una struttura ecclesiastica orizzontale, basata su una rete
di uguaglianza tra vescovi, a una gerarchia più verticale, culminante con la figura papale al suo vertice.
Durante questo periodo, gli imperatori tentano di sfidare questa evoluzione. Non sono soli in questa
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contestazione, poiché una parte della stessa Chiesa non approva il nuovo modello proposto da Roma,
generando conflitti interni. Gli imperatori eleggono antipapi tramite il "privilegium otonis" e in alcuni casi
stabiliscono la propria autorità a Roma, come avvenne con Enrico IV che insediò l'antipapa Clemente III (già
arcivescovo di Ravenna) a Roma, rimanendovi fino alla sua morte. I successori di Gregorio VII furono
costretti all'esilio poiché Clemente III governava la città.
Nel corso del XIII secolo, l'istituzione della legazia apostolica, formalizzata durante il Concilio Lateranense
del 1215, ha suscitato tensioni non solo con gli imperatori, ma anche con altri sovrani. I legati apostolici,
rappresentanti straordinari nominati dal pontefice, intervenivano nelle questioni delle chiese locali, una
pratica che irritò particolarmente il re di Francia. Alla fine del XIII secolo, con il regno di Filippo IV, nacque
un lungo scontro tra la corona di Francia e la sede romana, protrattosi fino al XVIII secolo, coinvolgendo
anche la Chiesa gallicana, minacciata da Luigi XIV.
Il re di Francia, come imperatore nel suo regno, rivendicava una sovranità non soggetta a un'autorità
superiore e pretendeva che i vescovi francesi dovessero obbedienza unicamente a lui e non al pontefice. La
disputa tra Filippo IV e il papato si focalizzò inizialmente su questioni giurisdizionali, ma comprendeva
anche aspetti economici, poiché il re vedeva di cattivo occhio il flusso delle decime raccolte nel regno,
destinato alle casse della curia romana.
Il conflitto iniziò con una questione di giurisdizione apparentemente secondaria: il vescovo di una piccola
diocesi, Pagné, disobbedendo agli ordini del re, si rivolse al tribunale pontificio. Il re, in risposta, lo fece
arrestare. Il Papa, in qualità di giurista, tra cui Bonifacio VIII, era in diritto di contestare al re di Francia le
sue rivendicazioni.
Un momento storico cruciale evidenzia un conflitto documentato tramite bolle pontificie di rilievo, come
"Ascolta figlio" di Bonifacio VIII, minacciando una scomunica. La risposta eclatante del re di Francia
comprendeva un piano per rapire il pontefice e processarlo per presunte eresie. Lo "Schiaffo di Anagni"
inflitto da Sciarra Colonna, nemico di Bonifacio VIII, iniziò un conflitto breve ma intenso, anticipando un
periodo tumultuoso.
La successione a Bonifacio VIII portò a Clemente V, un papa francese, influenzato dal crescente numero di
chierici francesi che, tramite concili a Lione, aumentarono il loro peso nella curia. Questo legame più stretto
mise in dubbio l'equilibrio delle strutture di potere ecclesiastiche esistenti.
I successivi pontefici fino a Gregorio XI erano di nazionalità francese ma non erano controllati dalla corona
francese. La morte di Filippo il Bello ha portato a una lunga crisi nella monarchia francese e alla guerra dei
Cent'anni. Avignone ha offerto ai pontefici francesi un rifugio sicuro dall'agitazione romana, essendo stata
venduta al papa e offrendo loro un'ambiente isolato. Questo ha contribuito a trasformare il potere
pontificio in una forma monocratica, introducendo l'idea del pontefice come un sovrano a sé stante.
Durante il periodo degli Avignonesi, si assiste al consolidamento delle strutture amministrative e fiscali
della Chiesa. I pontefici avignonesi, oltre a ciò, si dedicano a rafforzare il potere politico pontificio,
inizialmente nel Contado Venassino e successivamente, a partire dalla metà del Trecento, anche in Italia
centrale. L'interesse per l'Italia centrale è alimentato dalle pressioni provenienti dagli ambienti ecclesiastici
italiani affinché i pontefici ristabiliscano la sede della curia a Roma. Tuttavia, la situazione politica nell'Italia
centrale era frammentata, con varie famiglie e città autonome, un panorama che risultava complesso in
assenza di un controllo papale.
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Di fronte a ciò, si ricorre a Egidio de Albornoz, cardinale spagnolo, dotato di esperienza militare maturata
nelle guerre nella penisola iberica. Albornoz subordina i signori dell'Italia centrale e promulga le
Costituzioni Albornoziane, trasformando il patrimonio di San Pietro nello Stato della Chiesa, conferendo
uniformità amministrativa e politica e preparando il terreno per il ritorno dei pontefici a Roma.
Gregorio XI fa il ritorno a Roma per il trasferimento definitivo della sede apostolica ma muore poco dopo.
L'elezione successiva è tra le più turbolente: il palazzo del Laterano, sede del conclave, è assediato dalla
folla romana desiderosa di un papa romano o italiano. In tale contesto, viene eletto Bartolomeo Prignano,
poi Urbano VI, arcivescovo di Bari, di illustre famiglia napoletana.
Tuttavia, l'elezione di Urbano VI si svolge in circostanze tese: il nuovo papa è descritto come imperioso,
diffidente e restio nel distribuire incarichi. I cardinali oltramontani, francesi e castigliani (esclusi gli inglesi
che si schierano contro i francesi), insieme ai cardinali della famiglia Colonna, lasciano Roma e, riunitisi al di
fuori della città, emettono una dichiarazione affermando che il loro voto è stato ottenuto in condizioni
estreme e quindi l'elezione non è valida. Procedono quindi a una nuova elezione, scegliendo il cardinale
Roberto di Ginevra, che diventa Clemente VII. Tuttavia, i tentativi iniziali di Clemente VII di fare ritorno a
Roma vengono respinti.
L'inclinazione della maggior parte degli stati italiani verso Urbano VI portò al pensiero di un ritorno ad
Avignone per riorganizzarsi. Questo momento segnò l'inizio del Grande Scisma d'Occidente, caratterizzato
(fino al 1427) dalla coesistenza di due linee di pontefici, ciascuna rivendicante l'esclusiva legittimità (papi
romani e papi avignonesi). La divisione coinvolse anche il collegio dei cardinali, con i pontefici che
reintegrarono i titoli dei cardinali dissidenti a nuovi candidati, creando un doppio conclave cardinalizio, una
doppia curia e una duplicazione dei registri papali.
Questo scenario si riverberò a livello europeo, con vari sovrani schierati a favore di una delle fazioni. La
complessità della situazione, percepita anche all'interno delle corti, portò alcuni cardinali delle due fazioni a
cercare una soluzione. Riunitisi a Pisa, convocarono un concilio nel tentativo di risolvere la crisi. Ritirando la
loro obbedienza ai due papi in lotta, al termine di ampi dibattiti, elessero un nuovo papa, Alessandro V.
Tuttavia, né Roma né Avignone riconobbero la validità degli atti del concilio, portando il numero dei papi a
tre.
La risoluzione dello scisma papale fu affidata all'autorità dell'imperatore Sigismondo, che convocò il
Concilio di Costanza nel 1415, annullando le elezioni dei tre papi in carica e procedendo a un nuovo
processo elettorale presieduto dall'imperatore stesso. Martino V (Odone Colonna) emerse come il nuovo
papa, chiudendo lo scisma e riportando la sede papale a Roma. Tuttavia, Benedetto XXIII rifiutò di accettare
la validità del concilio e cercò di resistere da Avignone, rifugiandosi infine nella sua terra natia, Aragona.
La risoluzione di questa crisi generò polemiche: molti padri conciliari ritrovarono e difesero le pratiche
originarie della Chiesa, suscitando un nuovo confronto con Roma. I sostenitori del conciliarismo
sostenevano che il concilio fosse la massima autorità ecclesiastica, relegando il ruolo del papa a una
funzione amministrativa solamente quando il concilio era in sessione.
Un corpus letterario teologico e giuridico, come le bolle bonifaciane, sottolinea la monarchia papale e
delinea il rapporto tra potere spirituale e temporale. Una nuova polemica sorge con l'organizzazione di un
concilio a Basilea, ma le critiche portano il papa a ritirarsi, innescando il cosiddetto piccolo scisma. In un
secondo momento, il papa convoca un concilio a Ferrara, spostato poi a Firenze, nel 1438 per trattare della
riunificazione con le chiese orientali (che venne mantenuta fino al 1453, con la presa di Costantinopoli). Si
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verificano due concili paralleli: a Basilea viene eletto l'ultimo antipapa, l’ex duca Amedeo VIII, cioè Felice V,
mentre a Ferrara e Firenze Eugenio IV si occupa della questione della riunificazione ecclesiastica.
La controversia si conclude con l'esaurimento del concilio di Basilea, privo del supporto politico sperato per
sostenere il conciliarismo. Gradualmente, all'interno dell'Europa occidentale, si afferma l'autorità pontificia
come elemento centrale della struttura della Chiesa latina. Questo processo, completato entro la metà del
XV secolo, comporta una revisione completa della struttura ecclesiastica, con l'affermazione di un principio
di verticalità: il pontefice, eletto per volontà divina, è al vertice, da cui derivano legittimità e gerarchie per
abati, vescovi e cardinali. Questo cambiamento non solo modifica la gerarchia ecclesiastica ma stabilisce un
controllo più rigido del centro sulla periferia, influenzando la gestione interna delle diocesi.
Le nuove forme di controllo riguardano anche la documentazione ecclesiastica. L'ordine benedettino, con
una struttura non gerarchica, contrasta con le nuove religiones, come i frati mendicanti, caratterizzate da
una struttura gerarchica. Questo cambiamento si riflette nella documentazione, che transita da pergamene
sciolte a registri cartacei, riflettendo il passaggio a una gestione amministrativa più moderna. Viene
evidenziata una pluralità di centri di conservazione documentale, con una documentazione più diversificata
e gestionale, riflettendo un cambiamento radicale nella struttura ecclesiastica, trasformandola da
medievale a "moderna".
MARTEDÌ 21 NOVEMBRE 2023
La curia pontificia consce le innovazioni più rilevanti, specialmente all’intensificarsi del suo potere e della
capacità di intervento nelle altre diocesi: una delle caratteristiche che contraddistingue la documentazione
ecclesiastica posteriore al XII secolo è la maggiore interazione tra i vari enti ecclesiastici.
La documentazione pontificia risente del consolidamento dell’autorità del pontefice romano già nel XII
secolo. Troviamo una manifestazione in un grande movimento documentario che segna la transazione, cioè
il liber census Romanae Ecclesiae (1192), un registro che riunisce molti tipi di documentazioni, redatto dal
canonico si Santa Maria Maggiore e camerario papale Cencio, nonché tesoriere del papa, quindi il libro
spesso verteva su questioni finanziarie. Il registro è diviso in diverse sezioni:
- rassegna dei censi, le rendite regolari dovute alla chiesa di Roma,
- l’elenco delle sedi episcopali e monasteri che sono immediate subiecti, soggetti direttamente
alla sede pontificia (vedi Cluny)
- il mirabilia urbis Romae, una sorta di guida turistica per i pellegrini, che dà informazioni dei
monumenti principali (in un’ottica cristiana), quindi basiliche o monumenti inseriti in qualità di
luoghi di martirio, o luoghi collegati alla vita di santi e martiri. Oltre a dare informazioni
importanti sulla città di Roma, ci dà modo di capire cosa dell’eredità classica fosse ancora
visibile, utilizzato e di come venisse interpretato
- un testo sulla liturgia del culto romano
- elenco (misto tra cronaca e fasti episcopali) relativo alla successione dei pontefici
- il cartulare della Chiesa romana, che attestava i diritti che generavano rendite
Il liber census voleva mettere in ordine quei documenti considerati importanti per la sede romana, ma era
anche prodotto di una tradizione che sta esaurendosi.
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Nel 1198 viene eletto papa Innocenzo III, che era un grande giurista, aveva una mentalità sistematica e fece
operare una profonda riforma nel modo in cui lavorano e conservano la documentazione gli uffici centrali
della chiesa. Siccome i papi avevano assunto molta più autorità nelle altre diocesi, era aumentata la
corrispondenza tra la sede romana e le altre sedi. Il pontificato di Innocenzo III è visto e adottato in molte
opere come il termine ad quem (punto conclusivo).
C’erano due poli:
1. la cancelleria che si occupa dell’attività diplomatica (invio e recezione di suppliche, lettere,
conferimento di benefici, emanazione di bolle ecc…),
2. la camera apostolica, la sezione che si occupa della gestione delle finanze (entrate e uscite di varia
natura).
Il più grande intervento di Innocenzo III fu sulla cancelleria: a livello generale richiese ed impose un
maggiore ricorso alla registrazione scritta di tutti i tipi di documenti. Sappiamo dalle fonti stesse che fino a
quel momento le suppliche erano presentate in forma orale e non scritta. Innocenzo III richiese che le
suppliche fossero presentate in forma scritta. Fu un processo che ci mise molto a prendere piede, tanto che
le prime suppliche scritte furono decenni dopo la morte di Innocenzo III.
Un altro provvedimento importante fu l’ordine di tenere una copia di tutti i documenti emanati dalla
cancelleria. Nasce così una serie dell’archivio segreto (segreto in senso medievale, ovvero secretum, cioè
selezionato, separato), cioè i registri pontifici, o registri papali, che parte dal pontificato di Innocenzo III e
arriva fino ai nostri giorni. Sono molto importanti per il periodo tra il ‘200 e il ‘500, coprono l’intero spazio
della cristianità. Con la riforma protestante molte diocesi escono dall’orbita della Chiesa di Roma.
Questi registri tengono copia di tutto ciò che viene inviato dalla cancelleria apostolica. Del periodo
precedente possediamo solo 3 registri (Gregorio I Magno, Giovanni VIII e Gregorio VII – quasi 1000 anni).
Inizialmente, l'accuratezza dei registri risultava limitata, in gran parte a causa della natura intrinseca della
documentazione, la quale consisteva principalmente in suppliche. Prima che queste suppliche fossero
trascritte in forma scritta nei registri, si richiedeva un considerevole lasso temporale (il primo registro delle
suppliche risale al 1342). Anche con l'introduzione della forma standardizzata di supplica, gestita dai
referendari incaricati di ricevere e istruire tali richieste da presentare al Pontefice, la prassi di creare copie
risultava rara. Le risposte non erano emesse tramite documenti separati, bensì venivano integrate
direttamente nelle stesse suppliche, con la loro semplice approvazione tramite una nota d’assenso “fiat”.
Nel caso in cui una supplica fosse respinta, solitamente veniva distrutta. Pertanto, si impone la necessità di
condurre un'analisi accurata della documentazione a livello locale, poiché è lì che potrebbero essere
rintracciate tracce delle suppliche.
Le suppliche più antiche sono le più ampie nella descrizione delle necessità e delle motivazioni,
successivamente, attraverso il processo di istituzionalizzazione della forma scritta e del passaggio
attraverso i referendari si tende ad irrigidirle in forme precompilate, le quali forniscono meno informazioni.
Il professore legge una supplica del 1279, la più antica rintracciata. È un testo molto ampio e
dettagliato. Ne legge una della seconda metà del ‘300, molto schematica e con una risposta
altrettanto scarna.
Le suppliche sono utili per capire le reti di collegamenti che si istituiscono tra la sede centrale della Chiesa e
le sedi locali.
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I registri avignonesi sono una serie a sé stante nell’ambito della produzione della cancelleria (sono
separati dai registri papali, vennero poi riunificati sono nel 1783). Le suppliche del periodo avignonese la
Chiesa diventa più “internazionale”, i benefici riguardano tutte le chiese.
Le concessioni dei canonicati non erano legate alla nazionalità di origine del chierico. I canonicati nel corso
del XIV secolo sono le sine cure ecclesiastiche, ovvero sono puramente delle rendite (a ogni canonico spetta
una rendita). Con queste concessioni, vengono incrementati gli stipendi delle curie apostoliche, non
andavano veramente a fare i canonici dove venivano assegnati. Queste concessioni suscitano moltissime
critiche.
Nella seconda metà del ‘200 ci furono molte concessioni di canonicati inglesi a canonici italiani, il
parlamento inglese reagì vietando a chierici stranieri di fare i canonici in cattedrali inglesi. Il re inglese
poteva fare ciò perché aveva il diritto di nomina dei vescovi inglese, i quali facevano parte del parlamento,
erano i lord spirituali; perciò, il parlamento aveva voce in capitolo.
Inoltre, nel 1317 Giovanni XXII emanò il divieto per una sola persona di assumere più di un beneficio (es:
non si può essere vescovi di due diocesi contemporaneamente). Ma questa costituzione viene aggirata
dalla curia cardinalizia tramite la commenda, cioè l’attribuzione ad un ecclesiastico, che già ricopre altri
incarichi, del compito di amministrare un’altra diocesi, o un monastero; così non è il titolare, è un
amministratore straordinario, ma spedisce a gestire la diocesi (in particolare le abazie benedettine)
qualcuno al proprio posto e dà una parte della rendita. Le commende vengono così usate dai cardinali come
merce di scambio per ottenere voti durante l’elezione papale. Un’altra consuetudine è lasciar saccheggiare
il proprio palazzo dopo l’elezione. Sono modi attraverso i quali si giustifica e si aggira il divieto di cumulo dei
benefici ecclesiastici stabilito dalla constitutio benedictina.
Il problema è quindi tenere memoria di questi benefici, nascono così i registri dei benefici (Registra
Beneficiorum), nei quali vengono annotati chi ha il beneficio e quanto deve pagare alla curia (chi è investito
di un beneficio deve versare una somma alla camera apostolica per simboleggiare la sua sottomissione).
Per quanto riguarda i documenti finanziari, come nel caso dei principi, le entrate sono divise in 2 tipi:
- regolari: fondate sui beni della Chiesa e la tassazione dei signori e della comunità che si trovano
sul territorio dello Stato della Chiesa.
- occasionali: legate a diverse motivazioni quali le tasse d’ufficio pagate da coloro che presentano
una supplica; i donativi portati dai vescovi che compiono le visite del limina petri (i vescovi
dovevano recarsi a Roma e presentare un rendiconto della propria attività e offrire un donativo
straordinario); le somme pagate dalle comunità soggette a scomunica o interdetto (una volta
liberate da questa condizione pagano una multa); le tasse pagate da tutti i titolari di diocesi o
benefici ecclesiastici, la cui rendita annua superi i 100 fiorini, pagate a due distinte sedi (camera
apostolica e la camera dei cardinali) e danno origine a 2 registri (tasse delle sovvenzioni e le
tasse prominutis servicis “per i servizi minori” per rifornire la camera dei cardinali).
I cambiamenti della camera apostolica ci furono di più durante il pontificato di Bonifacio VII e nel periodo
della “cattività avignonese”.
I registri della camera apostolica non sono un prodotto diretto, l’esazione dei tributi regolari è affidata a
esattori che lavorano per la camera apostolica, quindi dei privati e non dei funzionari. Quindi ognuno di
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questi operatori registra alla sua maniera. Invece i contributi occasionali vengono pagati agli uffici centrali e
sono tenuti dai tesorieri e sono più uniformi.
I registri delle tassazioni sul territorio presentano gli stessi “difetti” dei registri della fiscalità dei principi:
non vanno nel dettaglio delle comunità ma si limitano a darci una cifra complessiva.
Il professore legge degli esempi. Abbiamo dati che non ci danno informazioni sulle comunità e sulla
geografia del luogo.
I registri delle decime (rationes decimarum) forniscono dati più precisi. Questa tassa risale da una
tradizione biblica, per la quale bisognava versare un decimo dei propri averi al tempio di Gerusalemme. La
Chiesa esige una tassa da tutti i fedeli per il finanziamento per le attività della Chiesa e il mantenimento dei
sacerdoti. L’organizzazione è molto sviluppata, e nel periodo avignonese raggiunge la sua massima
espressione. I papi si rendono conto che affidarsi ad esattori locali è complesso e crea problemi perché per
quanto i soldi vengano raccolti bisogna poi farli arrivare a Roma (o ad Avignone). Trasportare soldi era
difficile, si trattava di monete metalliche e vale per quantità di metallo prezioso che contiene; quindi, erano
pesanti ed esponeva al rischio di furti. C’è un caso ben documentato di inizio ‘300 relativo al furto di una
consistente parte delle decime d’Inghilterra durante degli squilibri sociali in cu ii ribelli rubano la somma. Ci
sia appoggia ai granfi mercanti e ai banchi fiorentini: i mercanti sono anche prestatori, hanno grande
disponibilità di denaro e hanno sviluppato un sistema per spostare grandi somme di denaro senza muoverle
fisicamente, cioè la lettera di cambio: un agente che lavora per un mercante raccoglie il denaro a livello
locale ed emette una lettera di cambio per la sede del banco di Roma (o Avignone) e la lettera viene
trasportata. Queste lettere erano molto sicure: era difficile falsificarle e senza comprovare la propria
identità il denaro non veniva emesso. Ci guadagnavano i mercanti che avevano disponibilità di contanti sul
posto, per pagare merci o investire, e ci guadagnava la Chiesa che in tempi molto rapidi aveva i pagamenti
delle decime in tempi brevi.
Questo comporta una minuziosa registrazione, redatta dalla camera apostolica.
Il sistema consente di creare una grande rete che al suo culmine raggiunge le località più remote,
garantendo un flusso costante di denaro verso la sede apostolica e consentendo ai banchieri di accumulare
delle fortune. La documentazione è particolarmente dettagliata rispetto ai testi delle tasse regolari,
scriveva quante case c’erano (descrivendo anche la tipologia di abitazioni) e si può presumere il numero di
famiglie. Ci permette di avere un’immagine più dettagliata di molte comunità e non sono delle loro
disponibilità contributive.
I criteri della rationes decimarum erano molto precisi e ben studiati, mentre i criteri dei registri papali erano
più variabili. La parte più carente era quella dell’indicizzazione: gli indici erano molto diversi (alcuni
mettevano solo i nomi di persona, altri solo i nomi di luogo…). Le edizioni relative ai registri avignonesi sono
più uniformi. La natura di questi registri impone una verifica anche a livello locale.
Le carte camerali sono state oggetti di edizioni più sporadiche e frammentate, estratti, appendici ecc. non
abbiamo un’edizione di serie regolari anche perché erano difformi al loro interno.
Fino alla riforma protestante questa documentazione abbraccia tutta l’Europa: dalla Polonia (che all’epoca
comprendeva l’ucraina e i paesi baltici) fino all’atlantico e da capo nord fino alla Sicilia.
MERCOLEDÌ 22 NOVEMBRE
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Le scritture della chiesa secolare
L’evoluzione delle gerarchie ecclesiastiche tra curia pontificia e mondo ecclesiastico influisce sulla
condizione dei vescovi: se fino al XII secolo le varie diocesi erano autonome, e il vescovo era dotato di una
piena sovranità, dopo la riforma gregoriana i vescovi si inseriscono in un sistema gerarchico che li vede
vincolati a obblighi e doveri nei confronti della sede romana, che non ha più un primato morale, ma è al
vertice di una gerarchia. Il potere del papa si estende alla conferma e poi alla nomina dei vescovi, i quali
perdono autonomia ma rafforzano il loro rapporto interno alla diocesi, sugli altri ecclesiastici e sui fedeli.
Ciò porta a una produzione documentaria molto più specializzata e differenziata risposto a quella
altomedievale. I documenti che si riferiscono al patrimonio della diocesi sono quelli prevalenti e viene
portata avanti la tradizione altomedievale di trascrivere le pergamene originali nei cartulari, i quali
mantennero una struttura topografica. Come i libri iurium comunali, i grandi cartolari episcopali e capitolari
vedevano documenti che venivano scritti direttamente nel cartulario stesso e non erano meri copiari.
La Chiesa si stava trasformando e così la società laica: l’incremento demografico e le trasformazioni
economiche influirono sui documenti e sulle strutture stesse della Chiesa a livello locale: ci fu un passaggio
dal sistema delle pievi a quello delle parrocchie, estendendo alcuni diritti tipici della chiesa cattedrale e
poche altre chiese (diritto battesimo e sepoltura) a molte parrocchie. A questi diritti corrispondono delle
forme di contribuzione dai fedeli e la necessità di registrare tali entrate.
Nella documentazione ufficiale, si è notato che la registrazione di tali questioni avviene in un secondo
momento. Questo ritardo è attribuibile alla tendenza delle parrocchie a essere più lente nel mantenere un
registro ordinato delle loro attività e nell'adottare pratiche di conservazione adeguate, nonostante gli inviti
ripetuti provenienti dalla sede pontificia. Va notato che, a differenza dei vescovi, i parroci non godevano di
supporti o ausili specifici per la redazione dei registri. Un esempio significativo è rappresentato dalla diocesi
di Firenze, che si distingue per una maggiore organizzazione, iniziando a compilare i registri parrocchiali a
partire dal 1490.
Il periodo di transizione in questo contesto è successivo al Concilio di Trento. L'incremento delle istituzioni
religiose e della loro frequenza è un effetto diretto dell'aumento della popolazione, contribuendo così
all'intensificarsi di tali registrazioni e documentazioni ecclesiastiche.
I cartulari continuano e accanto a questa raccolta tradizionale iniziano ad esserci altri tipi di documenti:
canonici e vescovi redigono periodicamente delle recensioni (grandi revisioni) delle rendite che spettano
alla mensa dei canonici e alla mensa episcopale.
Come conseguenza di queste recensioni vengono redatti libri dei redditi (libri redditum), che si riferiscono a
beni di tipo fondiario e vengono definiti come catastici o catapani e sono grandi fotografie del patrimonio
fondiario di proprietà ecclesiastica nelle singole diocesi. Sono importanti per comprendere l’estensione e la
localizzazione dei beni di proprietà della Chiesa.
L’insieme dei dati derivanti dall’analisi di questi documenti consente di capire le modificazioni nell’assetto
dei beni della Chiesa, parte di questi beni è stata data in concessione a individui o famiglie della nobiltà
locale che hanno stretti rapporti con l’episcopato, i quali pagano censi in natura o in denaro o prestano
servizi (come servizi militari). Nel corso del tempo queste concessioni portano ad una dipendenza verso
l’istituzione ecclesiastica è in ombra, e i beni della chiesa si confondono con quelli del patrimonio
famigliare.
I vescovi intervengono tramite le ricognizioni, cioè nuove dichiarazioni di dipendenza che servono a
riconfermare che determinati beni appartengono alla Chiesa (in linea teorica quei beni sono tesori dei
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poveri, e gli ecclesiastici devono solo amministrarli, per questo non possono essere venduti perché il
patrimonio dei poveri non può essere diminuito) e vengono solo dati in concessione.
Molte famiglie però cercarono di azzerare le contribuzioni o di mettersi in una posizione non così
subordinata.
Nel caso della diocesi di Vercelli la riconferma di patti si rese necessaria a causa dei passaggi politici
(fine autonomia comune Vercelli, passaggio sotto i Visconti) alcuni vecchi legami erano saltati e
bisognava ridefinire i rapporti e ribadire che i beni erano della Chiesa. Venne così redatto il Libro delle
investiture della diocesi di Vercelli (1350 ca).
Interviene un’ulteriore problematica legata allo scisma: in molte aree di confine entrambe i pontefici
procedono a duplici nomine episcopali. Molti nobili approfittano della situazione di crisi per allentare gli
obblighi, facendo leva sulla scusa che essendoci due vescovi non sanno su quale fare riferimento.
Altrettanto complicata è la situazione dei fedeli, che si trovano di fronte a duplici richieste pagamenti da
parte di due figure episcopali.
Si rende necessario per gli amministratori tenere con maggiore diligenza e precisione i registri dei
pagamenti: vediamo una serie di tipologie di registri che si specializzano su specifiche entrate dovute alla
sede episcopale (un esempio: i libri degli anniversari, quei registri in cu si tiene accuratamente conto dei
pagamenti effettuati dagli eredi di un defunto che ha fatto un lascito pio nei confronti dell’ente
ecclesiastico). È una contabilità nuova, aperta (a differenza degli obituari che era messa una volta per
tutte), c’è un continuo aggiornamento.
Per i libri degli anniversari (libri anniversariorum) si tratta dei quaderni delle cere (una tipologia di
pagamento per censi e anniversari era attraverso libbre di cera d’api – vedi pag. 30).
C’erano inoltre spese di natura occasionale come la manutenzione della chiesa, i sussidi dati ai bisognosi, la
distribuzione ai poveri ecc, ciò rese necessario la redazione meticolosa di registri d’uscita, una grande
novità nella documentazione episcopale.
Un ulteriore processo di modernizzazione fu l’introduzione nel ‘300 dei libri dei creditori e dei debitori.
La mentalità è cambiata, c’è la necessità di tenere una registrazione sia di entrate sia di uscite su base
giornaliera, per avere la possibilità di fare delle valutazioni.
Abbiamo una più attenta registrazione di tutte le fonti di entrata, delle quali si opera una conversione in
forma monetaria: l’economia cittadina a partire dal XII secolo tende a monetarizzarsi: si tende a poter
contare sul denaro e non più sui pagamenti in natura. Il denaro aveva molti modi di utilizzo e per questo
veniva preferito. C’era anche la necessità di pagare delle tasse: negli archivi episcopali troviamo la
registrazione di spese sotto forma di libri delle decime, dei benefici o comunque relativi a tasse
corrispondenti a livello locale che troviamo nella curia pontificia. Ciò che a Roma (o Avignone) troviamo in
entrata, lo troviamo in uscita nel locale.
Il professore legge un documento dal libro dell’episcopato d’Aosta. All’inizio del ‘300 facendo una
revisione dei redditi spettanti alla cattedra episcopale operano una conversione in denaro dei
pagamenti in natura.
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Questa documentazione attesta un’attività molto più meticolosa nella gestione della documentazione
relativa ai beni della chiesa e ci rende evidente dei fenomeni che la documentazione precedente non
considerava. Siamo di fronte ad una società più complessa: ora non si conserva più solo i titoli di proprietà,
ma non la documentazione di gestione corrente, perché considerata secondaria.
Anche se non sono frequenti vengono redatti e conservati gli atti dei sinodi diocesani: secondo i decreti
papali si sarebbe dovuta tenere un’assemblea sinodale in ogni diocesi almeno una volta all’anno, ma ciò
non avveniva. Erano comunque momenti di grande importanza perché si rendevano pubblici
provvedimenti che assumevano la forma di statuti o decreti. Si trattava di assemblee, che non hanno una
funzione deliberante ma di comprobatio: si prendeva atto delle decisioni del vescovo, si verbalizzava l’esito
della riunione.
Attraverso queste fonti vediamo come a contatto con una società laica che si sta trasformando
velocemente, l’atteggiamento della Chiesa è a volte di freno, altre volte si adatta alle dinamiche della
società, ma non incontra l’approvazione episcopale: c’è un conflitto tra il vescovo che vuole difendere la
dignità delle istituzioni ecclesiastiche e i chierici della diocesi che ragionano come le persone in mezzo alle
quali operano.
Questo costante dialogo tra ecclesiastici e società laica che comporta un intervento dell’autorità episcopale
in qualità di arbitro e moralizzatore, risulta nelle inquisitiones, le inchieste che i vescovi conducono nelle
loro diocesi (documenti che nell’età moderna diventano molto importanti) e le visite pastorali,
istituzionalizzate dal concilio di Trento (1545), per cui ogni certo numero di anni il vescovo deve visitare la
sua diocesi.
Il modello della visita pastorale fornisce importanti informazioni demografiche, si delinea la composizione
dei singoli nuclei famigliari, e della storia dell’arte e dell’architettura, perché il vescovo visita tutti gli edifici
sacri e li descrive minuziosamente.
Abbiamo così notizie di edifici scomparsi ed opere d’arte che sono state spostate o distrutte.
Questo è il prodotto di una standardizzazione delle visite pastorali che avviene nell’età moderna. Ciò che
abbiamo per il medioevo sono descrizioni testuali che sono indagini che riguardano la deviazione
dall’ortodossia (la chiesa è sempre allarmata da fenomeni di pensiero eterodosso, che possono minacciare
la vita ecclesiastica delle comunità, fenomeni più frequenti nei momenti di tensione e di disordine della
Chiesa stessa, ad esempio a fine ‘300 con i fenomeni del raddoppiamento dei vescovi ci furono dei laici che
contestarono la dottrina della Chiesa).
Poi ci sono le deviazioni comuni: il rispetto effettivo delle norme ecclesiastiche era meno stringente da
quanto non possa sembrare dai testi. Sono forme di devianza dalla retta via (di fedeli ed ecclesiastici) che
devono essere corretti.
Il professore legge delle inquisitiones della diocesi di Torino, il cui vescovo vuole avere un quadro
più chiaro dei modi di vivere dei fedeli e del clero.
Quando c’era una visitatio c’erano due questionari: uno per i laici e uno per gli ecclesiastici e poi venivano
messi a confronto. Il sacerdote tende a essere protettivo verso la sua comunità, al contrario la comunità
non è particolarmente protettiva verso il parroco o verso gli altri cittadini. C’è inoltre molta leggerezza nel
trattare certi temi, è un’indicazione di come la società medievale fosse meno ossessionata da certi
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problemi, rispetto la società cattolica dopo il concilio di Trento. Molte relazioni e rapporti aperti sono
accettati e normati dal punto di vista legislativo, cosa che dopo il concilio di Trento sono inconcepibili.
Da queste inchieste emerge anche l’attenzione verso le abazie e le strutture degli “ospedali”: fino al XV
secolo si intendeva un luogo dove si dava ospitalità ai pellegrini; quindi, erano distribuite sui cammini di
pellegrinaggio. Non prevedeva la presenza di un medico, ma si forniva vitto e alloggio.
Con il ‘400 le strutture ospedaliere cambiano e prevedono una cura, l’idea di un luogo dove ci sono dei
medici si svolge successivamente, spesso come volontariato.
LUNEDÌ 17 NOVEMBRE 2023
La chiesa regolare, gli ordini
Dal punto di vista istituzionale il basso medioevo conosce le maggiori novità. Durante l’alto medioevo
prevale la regola di San Benedetto, che vive il suo apice tra l’VIII e l’XI secolo.
Con il XIII secolo la spiritualità Benedettina non è più pienamente rispondente alle esigenze della società
dell’epoca, specialmente nel territorio; infatti, è proprio da qua che partono le grandi trasformazioni. I
monasteri benedettini cercavano la separazione dalla società, ma nel basso medioevo le città che si erano
precedentemente contratte, tornano a crescere e la società bassomedievale è molto più dinamica e
complessa nelle sue interazioni. La spiritualità benedettina è quindi vista come superata e gli edifici
monastici erano adibiti ad altri usi (come ad esempio, scuole, caserme, ospedali…) e le chiese venivano
convertite in chiese parrocchiali.
I monasteri venivano gestiti in maniera diversa perché le comunità monacali si restrinsero molto e ciò aprì
la possibilità di interventi dall’esterno (come le commende) che interferiscono con la vita della comunità
monastica. La nomina di un abate commendatario significava che l’abazia veniva affidata (commendare in
latino significa affidare) ad un amministratore, un prelato di alto rango, che dovrebbe occuparsi della
gestione della vita interna e dell’amministrazione ordinata dei suoi beni. Molto spesso queste commende
erano solo un sistema per far trasferire cifre di denaro da un ecclesiastico ad un altro. La commenda
consentiva di aggirare un divieto imposto dalla costituzione pontificia emanata da Giovanni XXII, ovvero il
divieto di cumulo con benefici con cura d’anime (perché i monaci non avevano cura d’anime).
Una commenda poteva servire a finanziare un’opera.
La diminuzione della popolazione monastica, concomitante al persistente mantenimento dei proventi
finanziari, espone le istituzioni monastiche all'interesse di coloro che le vedono come meccanismi per
l'accumulo di risorse economiche. Questo fenomeno legato alle comunità monastiche in declino
rappresenta uno degli elementi che contribuirono, nel periodo tardo medievale, a un cambio radicale
nell'opinione pubblica riguardo al ruolo e alla percezione dei monaci (la figura del monaco corrotto e
lussurioso è un topos comune del basso medioevo).
L’organizzazione degli ordini monastici conferma un problema di reclutamento (siccome c’erano meno
candidati tra cui scegliere, c’era una selezione meno rigorosa dell’effettiva adeguatezza alla vita monastica)
e della gestione delle comunità (sia maschili sia femminili – solitamente i monaci maschi erano di un livello
più basso, mentre le monache erano di un livello più alto, per la preservazione del patrimonio famigliare –
monacare una figlia era più economico rispetto darla in sposa con una dote – e si evitavano problemi di
successione nella linea femminile. Gli uomini monaci erano solitamente per devotio paterna, per un voto e
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per assicurarsi il controllo del monastero. In generale la dotazione dei monasteri femminili per questa
ragione era consistente e consentiva una qualità di vita molto agiata.).
Normalmente i monasteri benedettini, nonostante il legame di affiliazione, fino al concilio lateranense del
1215, non erano controllati da parte degli abati di Citeaux e Cluny.
La Constitutio Benedectina di Benedetto XVI del 1336 imponeva di tenere un capitolo generale ogni 3 anni e
operare frequentemente delle visite e dei controlli, per tenere le redini di comunità che stavano andando
fuori controllo. Queste disposizioni furono inizialmente applicate in modo blando, per questa ragione,
spesso l’intervento non era da parte dell’abate dell’abazia maggiore, ma dell’ordinario locale (referente in
spiritualibus dei monasteri – a parte quei monasteri che erano direttamente soggetti all’autorità pontificia
come Cluny e Citeaux, gli altri monasteri erano incardinati nella diocesi: dovevano far riferimento al
vescovo per molte funzioni come la consacrazione dell’acqua santa, la consacrazione dell’abate ecc).
Grazie a queste visite e inquisizioni abbiamo indicazioni su come erano cambiati i monasteri, spesso fondati
lontano (fuori dalle mura del centro abitato), ma il tessuto urbano delle città nel XIII secolo si espanse
molto e molti monasteri si ritrovarono inglobati nel centro stesso.
Cambiarono inoltre le funzioni: se prima i monasteri erano punto di riferimento dei contadini della zona,
ora diventa la parrocchia di un quartiere della città, con una serie di obblighi che prima le chiese
monastiche non avevano, in quanto non erano sacerdoti e, anzi, avevano addirittura dei divieti (da
un’inquisizione vicentina troviamo il divieto ai monaci di dare penitenze, battezzare bambini, visitare
infermi e seppellire i morti). Nasce quindi la necessità di un prete secolare incaricato di sorreggere la
parrocchia e celebrare i sacramenti, che, come sappiamo, portano degli introiti.
Ciò comporta una diversa produzione (e conseguente gestione) dei documenti dei beni del monastero: se
prima negli archivi monastici trovavamo solo atti di acquisto di proprietà, dal XIII secolo in poi continuano le
serie di documenti tradizionali (pergamene sciolte, cartulari ecc) e iniziamo ad incontrare registri di beni,
libri contabili, libri dei creditori e dei debitori, l’amministrazione corrente ecc. Inoltre, da documenti chiusi
passiamo a documenti aperti che possono essere tenuti aggiornati.
Il XIII secolo sancisce la fine del “cellularismo” dei monasteri e della loro documentazione:
precedentemente per indagare riguardo un monastero la sua documentazione era concentrata all’interno
del suo archivio; a partire dal XIII secolo bisogna considerare la compresenza di altre forze che entrano in
contatto con il monastero (governi cittadini, autorità episcopale, pontificia, dell’ordine benedettino nel suo
complesso), risultando in una documentazione più variegata e più dislocata, dovuta ai contatti con l’estero.
Ad influire sulla dislocazione e all’eterogeneità dei documenti furono una minore stabilitas (caratteristica
dei monaci benedettini) dovuta alla necessità di andare alla curia pontificia (per seguire, ad esempio, i
processi legati alle suppliche) e una maggiore internazionalità della comunità monastica.
La vita dei monasteri stava cambiando e si avverte dall’interno l’esigenza di una reformatio dei monasteri
benedettini, come risposta alla pressione proveniente dal fenomeno delle commende e degli scandali che
coinvolgono alcuni monasteri. Ci sono nuove congregazioni che nascono sul ceppo della regola benedettina
(Olivetani di Siena, Celestiniani fondati da Pietro da Morrone, futuro Papa Celestino V, Santa Giustina di
Padova) il cui obbiettivo era ripristinare la credibilità morale dei monasteri benedettini e risanali anche dal
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punto di vista economico e amministrativo. Furono progetti che assicurarono la continuità della regola
benedettina.
Tutto ciò si riflette negli archivi, i quali a causa delle soppressioni tra il ‘700 e l’800 ebbero 2 destinazioni:
1. furono assorbiti da un archivio diocesano o ecclesiastico
2. passarono allo Stato, che aveva avocato a sé i beni di queste istituzioni ecclesiastiche – perché il
documento segue il bene – nell’archivio di Stato ci sono quindi questi documenti inseriti nei fondi di
religione o nei diplomatici
Nel clima di riforma nacquero due istituzioni da ambienti cittadini: l’ordine domenicano (dei frati
predicatori) e l’ordine francescano (dei frati minori). Erano fraternitas (poi ordini) mendicanti con
differenze radicali dai benedettini.
Un valore della regola benedettina era la stabilitas: i cluniacensi davano molta importanza alla bellezza e ai
dettagli delle chiese, i cistercensi invece costruivano le loro abazie con grandi finestre, perché la luce era
simbolo della luce divina che doveva illuminare i fedeli. In entrambi i casi si dava molta importanza alla
manifestazione architettonica all’architettura come simbolo. Gli ordini mendicanti invece rifiutavano la
stabilitas e andavano a predicare.
San Francesco non considerava l’idea di un ordine, ma pensava ad una fraternitas, dove tutti sono uguali,
fondata sulla povertà e sul lavoro manuale. Il pensiero di Francesco si avvicinava a quello di molti altri
riformatori che emersero in quel periodo, considerati invece eretici, come Pietro Valdo e il movimento dei
poveri di Lione. Valdo oltre ai valori condivisi con San Francesco come la povertà e l’aiuto dei poveri,
promulgava un’idea di traduzione in volgare dei testi sacri, mentre Francesco mai avanzò richieste di questo
genere. Su questo punto cade il discrimine tra Valdo e Francesco.
Secondo la Chiesa il fedele che non aveva la preparazione teologica e poteva mal interpretare i testi e
cadere in errore (ciò venne mantenuto fino al Concilio Vaticano II – anni ’60 secolo scorso)
San Domenico aveva idee e obbiettivi diversi: lui voleva combattere le devianze dall’ortodossia, ebbe
un’esperienza diretta con i catari (καθαρός, puro in greco, anche detti albigesi perché provenienti da Albi,
Francia), che erano caratterizzati da una profonda conoscenza dei testi sacri (il loro proselitismo consisteva
nel confrontarsi pubblicamente con i sacerdoti cattolici e metterli in difficoltà di fronte i testi sacri).
Domenico era convinto che fosse necessario creare un gruppo di frates (fratelli) che ponessero al centro
della loro formazione la conoscenza dei testi sacri per combattere gli eretici e educarli in un momento in cui
la Chiesa anziché rieducarli li uccideva (la Chiesa bandì una crociata contro i catari).
Domenico era meno critico di Francesco nei confronti della chiesa.
Due grandi pontefici e giuristi (Innocenzo III e Gregorio IX) si rendono conto di quanto questi movimenti
possono essere utili alla Chiesa per riprendere un contatto con la società e possono essere uno strumento
del pensiero eterodosso. Quindi entrambi i movimenti vengono istituzionalizzati in ordini: nel caso dei
domenicani la struttura gerarchica e l’idea di essere al servizio della causa della chiesa era insito fin
dall’origine (erano frati predicatori e essi stessi davano un’interpretazione allegorica al nome dominicus –
dominicanes i cani del signore: San Domenico è spesso raffigurato con a fianco un levriero, si consideravano
i cani da caccia che devono stanare i lupi dell’eresia).
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I francescani invece vivono questa istituzionalizzazione come un trauma, un secolo dopo la morte di
Francesco: da un lato coloro che accettano l’istituzionalizzazione, i -----, dall’altro coloro che ricordano il
messaggio originale di Francesco (che mai aveva parlato di ordine) e contestano questa deviazione, gli
spirituali.
Questo scontro rimase acceso per decenni e la definitiva cacciata degli spirituali negli anni ’20 del XIII
sancisce il definitivo successo dei conventuali, i quali accettano una posizione di compromesso proposta
dalla curia che salva la visione francescana con il denaro e la ricchezza: le terre, i conventi e le donazioni
non appartengono i francescani ma direttamente al papa, che lo concede in uso ai frati.
La Chiesa dispone così di uno strumento molto forte: San Francesco era un santo molto popolare e l’ordine
francescano raccoglie molto successo nella devozione popolare.
Dal punto di vista documentario le prime notizie scritte dei due ordini li presentano come strutture
gerarchicamente organizzate. Al vertice troviamo un generale e un cardinale protettore, una figura creata
per fare di intermediario tra l’ordine e il referente esterno diretto (il papa). C’è una struttura molto rigorosa
che l’ordine benedettino non ebbe (solo nel basso medioevo li si organizza in province, su modello degli
ordini mendicanti): i domenicani erano organizzati per province e i francescani per custodie.
La documentazione in parte somiglia a quella dei monasteri benedettini: anche i conventi hanno un nucleo
di documentazione di beni acquisiti e donazioni ricevute, ma che dà maggiore risalto alle bolle (il bollaio era
un registro in cui venivano inserite le bolle originali) che trasmettevano le concessioni da parte del
pontefice, come l’autorizzazione dell’insediamento e l’autorizzazione a predicare.
Ricordiamo che i monaci, come abbiamo letto prima nel documento vicentino, non celebravano messa e
non potevano predicare; invece, i frati domenicani e francescani sono sia clero regolare perché seguono
una regola, ma fanno anche parte del clero secolare, sono clerici (sacerdoti) e possono celebrare i
sacramenti. Questo è un elemento di una rottura rispetto ai monasteri. Gli ordini mendicanti ebbero
grande successo perché dietro avevano la sede Apostolica che li sosteneva.
Siamo davanti ad una documentazione che ha bisogno di un raffronto costante con la Santa Sede, a
differenza degli archivi benedettini che sono a sé stanti.
I Francescani e i domenicani sono rappresentanti a livello locale di un’autorità pontificia che sta
espandendo i propri confini. Sono rappresentanti in due settori:
1. la repressione della devianza dottrinale (l’inquisizione romana è strutturata sui due ordini: i giudici
erano un domenicano e un francescano) è esplicito come siano strumento dele potere pontificio
2. il forte coinvolgimento culturale, specialmente domenicano (San Francesco, invece, diffidava degli
intellettuali, lui cercava la verità nel popolo). Vengono istituite le scuole conventuali: nate per
formare i novizi, in quanto era necessario conoscere i testi e sapere il latino (poi diventa anche
formazione dei francescani). Queste scuole si aprono ai laici che cercano istruzione di base (studi
per gramaticam – era un’educazione di tipo primario-avanzato). Inoltre, la Chiesa aveva così una
partecipazione estesa alla vita accademica: molti dei grandi docenti universitari di teologia e
filosofia (università di Parigi e Oxford) sono membri degli ordini mendicanti.
I francescani e domenicani cercano il contatto con la società, stanno in mezzo alle persone. Le loro chiese
erano nelle zone centrali e di grandi dimensioni (es: Milano la scomparsa chiesa di San Domenico il grande
era attaccata alla chiesa di Sant’Ambrogio). Le chiese mendicanti vennero finanziate dal nuovo populus
(artigiani ricchi, banchieri ecc), i quali, a finanziare a differenza dell’aristocrazia, non avevano un forte
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legame con le cattedrali. Ricordiamo inoltre che le cattedrali avevano diritto di sepoltura e non c’era più
posto per le famiglie del popolo, le quali trovarono il loro spazio nelle immense chiese dei francescani e dei
domenicani (Ciò si ripeterà nella seconda metà dell’800, quando con i decreti napoleonici si vieterà di
seppellire all’interno delle chiese e verranno creati i cimiteri monumentali, che daranno modo alla nuova
classe borghese emergente di celebrare il successo sociale).
Sono documenti molto importanti dal punto di vista urbano: come queste istituzioni si sono inserite nel
tessuto cittadino cambiandolo e influenzando lo sviluppo di determinate zone rispetto ad altre.
MARTEDÌ 28 NOVEMBRE
Domenicani e francescani rispondono alle esigenze di una società laica profondamente cambiata.
Iniziamo ad avere testimonianze della società laica in forme che si collegano agli ordini mendicanti.
Durante il basso medioevo, a partire dal XII secolo, la grande espansione economica comporta l’aumento
della popolazione e la necessità di un’organizzazione più stabile di attività mercantili, in particolare le
attività legate alla produzione tessile (che fu l’unico settore a raggiungere un’organizzazione preindustriale, con la divisione delle mansioni per settore e specificità).
La rilevanza economica del settore e l’importanza sociale porta la necessità di un’organizzazione alla
produzione e ai lavoratori.
Le tinture
I colori più semplici da ottenere erano i colori primari. Il porpora si otteneva dal murice, un mollusco
molto difficile da reperire, tende a scolorire ed era riservato ai paramenti sacri; il cremisi viene dal
chermes, una polvere proveniente da coccinelle rosse (dal sanscrito कृमिज (kr̥mija) − "prodotto da
insetti"); il rosso aranciato proveniva dalla corteccia del legno brasile (che diede il nome al paese perché
ricco di questo legno).
Il blu si otteneva da una pianta che cresceva in tutta la pianura padana, il gaudo, che dà origine al
pastello, insieme delle foglie essiccate compresse, le cocagne in francese -> la Francia del sud ebbe un
grande sviluppo grazie a questa pianta ->paese di cuccagna, perché la pianta porta ricchezza.
Il verde era molto pregiato perché più difficile da ottenere, in quanto si dovevano usare più spezie
tintorie per ottenerlo.
Gli statuti delle arti vennero ampiamente studiati e forniscono informazioni preziose sulla lavorazione dei
materiali e sul sistema commerciale medievale, nel quale l'idea di concorrenza era pervasa da
un'interpretazione di slealtà. L'innovazione e l'ottimizzazione dei processi erano guardate con sospetto e
disapprovate all'interno di questa cornice commerciale. Le arti definiscono anche prezzi minimi e massimi.
Meno studiati sono stati i carteggi dei tribunali delle arti. Firenze è un caso fortunato in cui c’è un fondo
archivistico grande sul tribunale della mercanzia.
I carteggi dei tribunali erano documenti aperti, a differenza degli statuti, che erano documenti chiusi,
anch’essi formati per accumulo.
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Gli statuti delle arti erano diversi a seconda delle città: in città come Venezia, in cui il governo dello Stato
tiene sotto controllo tutte le attività, gli statuti tenderanno a essere più seriali e rispondenti ad un modello
standard; in città come Firenze, dove le arti erano autonome e acquisiscono un ruolo politico (ad esempio:
a Firenze se non si era iscritti ad un’arte non si avrebbe potuto ricoprire un incarico politico), gli statuti
saranno più variati e ogni arte crea il proprio statuto per le proprie esigenze.
Ciò che sfugge alla documentazione è l’aspetto effettivo della produzione (i costi di produzione, lo sviluppo
delle varie fasi ecc) che conosciamo attraverso la documentazione mercantile e non quella delle arti.
Nei documenti delle arti troviamo la parte giurisdizionale (relativa ai tribunali e quindi di devianza rispetto
gli statuti) e l’attività registrata nei registri contabili in favore delle vedove o degli orfani dei membri
dell’arte, contributi ai membri dell’arte impossibilitati ad esercitare (quelle che si evolveranno in società di
mutuo soccorso tipiche del XIX sec).
Questa attività assicurativa ci ricollega ad altri tipi di associazione che sono un ponte tra il mondo delle
associazioni professionali e quello dei nuovi ordini ecclesiastici, ovvero le confraternite, che hanno una
storia molto antica ma poco documentata nelle sue fasi iniziali.
Le confraternite per natura tendono ad affiancarsi ad un istituto religioso (chiese pievane o parrocchiali),
che hanno iniziato a conservare con cura i loro archivi solo da fine ‘400.
Casi fortunati sono quelli del ‘200 che vedono le confraternite collegarsi a istituzioni della chiesa regolare
(monasteri o successivamente i nuovi ordini di frati domenicani e in particolare i francescani).
I francescani esercitavano un’attrazione fortissima sulla spiritualità confraternite che era vissuta come una
spiritualità penitenziale: i confratelli che appartengono a ceti elevati vivono l’appartenenza alla
confraternita come un momento di espiazione ringraziamento, in cui si può restituire a Dio un po’ di ciò che
Dio ha concesso a coloro che hanno avuto successo negli affari. Un modello penitenziale perfetto è proprio
San Francesco, un giovane ricco che si spoglia di ogni ricchezza. I confratelli prendono Francesco come
modello di riferimento.
Inoltre, la bolla di papa Niccolò IV del 1289 dà alle confraternite un ruolo all’interno della Chiesa: il Terzo
Ordine francescano.
Le confraternite che fanno parte del Terzo Ordine o che si appoggiano ai conventi francescani o domenicani
depositano le loro carte presso queste istituzioni; quindi, queste carte arrivano fino a noi. Sono carte di
notevole interesse dal punto di vista linguistico perché sono documenti scritti in volgare (scritti da illitterati,
persone di un certo ceto sociale perché sanno leggere e scrivere, ma non sanno il latino, sono mercanti),
quindi questi testi sono molto studiati dai filologi per indagare lo sviluppo della lingua italiana.
Il professore legge un testo in latino dal libro proveniente da S. Appiano Valdelsa. Il testo è in latino ed è
stato probabilmente redatto da un ecclesiastico. Si tratta di aristocratici, sono persone che possiedono cani
e falchi e che hanno dei servitori al loro seguito.
Invece gli statuti scritti dai confratelli stessi sono in volgare – statuto di una città del Friuli. Le donne sono
ammesse nelle confraternite (nelle arti no) e hanno gli stessi diritti degli uomini (anche se non vengono mai
elette).
In uno statuto di una confraternita di Bergamo, le donne possono essere accolte ma devono avere il
permesso del marito o dei genitori.
74
La confraternita si occupa delle processioni, che dalla seconda metà del ‘300 rappresentano uno degli
aspetti più importanti dell’attività delle confraternite nella società.
Vi furono tendenze a istituzionalizzare un Ordine della Penitenza autonomo (come i bianchi che
organizzavano cortei di penitenti che indossavano una cappa bianca e richiamavano la rinuncia alla vanità
alla ricchezza e agli agi).
Il tono della spiritualità dopo la grande peste è molto diverso dal precedente: il senso di ottimismo e di
fiducia (anche nella provvidenza divina) tende a ridursi, c’è sempre più il topos di una divinità giudicante
che richiede umiltà (che ebbe una sua manifestazione anche nell’arte e nelle rappresentazioni).
Le confraternite assumono un ruolo predominante nell'incarnare questa forma di spiritualità e nei suoi
rituali. Tuttavia, dopo il Concilio di Trento, tali manifestazioni vengono considerate eccessive. In Italia, si
assiste a un tentativo di limitarle esclusivamente alla processione del Venerdì Santo. Parallelamente, si
cerca di enfatizzare un altro aspetto fondamentale delle attività delle confraternite: l'assistenza sociale. I
membri delle confraternite spesso dedicano il loro impegno all'interno degli ospedali, istituzioni non
focalizzate sulla cura ma piuttosto sull'ospitalità. È da notare che la presenza di personale medico non è una
prassi comune in tali contesti. L'ospitalità diviene un mezzo per guadagnare meriti agli occhi di Dio.
La strutturazione più organizzata di queste istituzioni ospedaliere nelle zone urbane emerge quando sono
collegate a una chiesa canonica o a un monastero, quest'ultimo ormai integrato nel tessuto cittadino. Di
conseguenza, sorgono ospedali capaci di offrire una gamma limitata di cure, ma la presenza di medici è
ancora marginale. Qualora vi siano, è spesso in forma volontaria, poiché anch'essi, membri delle
confraternite, compiono atti di carità.
Uno degli ospedali meglio organizzati a livello interazionale è quello dei Cavalieri Ospitalieri di San Giovanni
(oggi cavalieri di Malta) nascono prima della 1° crociata, grazie all’attività caritatevole del Beato Gerardo di
Amalfi e dei suoi compagni.
Dopo la prima crociata emerge la costituzione di un ordine monastico militare che, per un lungo arco
temporale che si estende fino al XVIII secolo, mantiene un impegno primario di natura bellica. Tuttavia, ciò
non intacca la sua missione fondamentale: il servizio verso i poveri. Gli ospedali affiliati a questo ordine
rappresentano esempi di notevole organizzazione, ampiamente documentati attraverso l'archivio
dell'ordine che si è conservato in maniera straordinaria.
All'interno degli archivi ospedalieri, i documenti tracciano le origini e lo sviluppo degli ospedali legati
all'ordine, insieme alla gestione del loro patrimonio. Quest'ultimo, in larga parte, ha avuto origine da
donazioni di natura religiosa, determinando una notevole dispersione del patrimonio stesso. Tali documenti
testimoniano la gestione dei beni, ma curiosamente manca l'elemento cruciale: l'archivio sanitario, ovvero
documentazione relativa alla cura e al trattamento dei pazienti.
Nel ‘400 le difficoltà economiche fanno aumentare esponenzialmente l’abbandono dei bambini, infatti
vediamo nascere istituzioni specifiche: prima gli esposti erano tenuti negli ospedali stessi, dal ‘400 in poi si
moltiplicano fondazioni dedicate a custodire ed allevare i bambini abbandonati. Prima i bambini erano
braccia in più per il lavoro, dal ‘400 in poi c’era poco lavoro e i bambini indesiderati erano tanti.
Molte famiglie contadine prendevano in custodia dei bambini in cambio di un sussidio, una somma di
denaro.
A volte anche i figli dei ceti più abbienti venivano messi a balia, spesso quando rimasti orfani di madre
avevano bisogno di un’altra donna che li allattasse. Quindi si cercava tra il popolo una donna che avesse
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appena avuto un figlio e che accettasse di allattare un altro bambino. Nascono i fratelli di latte, categoria
socialmente riconosciuta. Il legame con la balia, specialmente nelle famiglie ricche, era un legame
importante, erano delle madri sostitutive e finiscono per essere le persone con cui i bambini stabiliscono i
legami più solidi.
Negli ospedali troviamo documentazioni di registrazione economica, i quali si sono spesso mossi in seguito
alle riorganizzazioni del ‘400/’500 momento in cui i piccoli ospedali vennero compattati in una nuova
istituzione più grande.
Con le soppressioni del ‘700-’800 molti ospedali vengono soppressi o laicizzati e la loro documentazione
viene trasferita negli archivi pubblici. Per questa ragione oggi i documenti degli ospedali si trovano
nell’archivio di Stato.
In altri casi gli ospedali si sono trasformati in ospedali pubblici, ma hanno conservato il loro archivio o
hanno mantenuto una personalità privata (esempio: il Mauriziano di Torino era un possedimento privato
dell’Ordine di Santi Maurizio e Lazzaro; il San Martino di Genova era un ospedale pubblico che mantiene i
documenti degli ospedali medievali che ha assorbito). La consultazione è molto complessa perché è tarato
sulle cartelle sanitarie.
È una documentazione importante perché consente di ricostruite connessioni sociali, la collocazione e la
tipologia di beni donati e vedere i flussi di denaro in entrata e in uscita, vedere come veniva speso il denaro
raccolto in beneficenza.
Una documentazione che sorge negli anni ’80 del??? Secolo è relativa ai Monti di Pietà, organizzazioni di
credito ai meno abbienti. Per la Chiesa qualunque forma di prestito che comporti il pagamento di un
interesse è usura perché il denaro non deve produrre altro denaro e il divieto è assoluto. C’è la necessità di
trovare il modo di finanziare le attività economiche e caritatevoli.
Per quanto riguarda gli ecclesiastici c’è una ostilità preconcetta nei confronti dei prestatori e nel ‘400
quest’attività assume un colore antisemita (gli ebrei prestavano denaro perché non potevano esercitare
nessun’altra professione se non quella medica, perché la legge voluta dalla chiesa e approvata dallo stato
proibiva agli ebrei di essere proprietari di beni immobili – non potevano possedere neanche le case in cui
abitavano. Molti ebrei tramite il commercio accumulavano moto denaro contante e andavano in contro alle
necessità della società. Inizialmente alla chiesa non interessava perché tanto erano già dannati, poi però ci
ripensarono perché gli ebrei iniziarono ad avere importanza speciale. Gli ebrei comunque applicavano tassi
più bassi rispetto i prestatori cristiani. I mercanti che già disponevano di grandi cifre di denaro erano
sistemati, ma le persone meno abbienti non sapevano a chi chiedere soldi.
I francescani però non sopportavano questa situazione e trovarono una soluzione: la creazione da parte di
Frate Angelo da Chivasso (beato e non santo perché era antisemita) di istituzioni che prestavano soldi, ma
gli interessi erano giustificati come pagamento dell’operato di coloro che lavorano all’interno del Monte.
I Monti di Pietà si diffusero molto sotto diverse forme (monti di frumento, che anziché dare soldi davano
grano, il Monte di Castagne ecc). In genere si dava come garanzia un oggetto anche di modesto valore. Nel
corso del XIX secolo si trasformarono in casse di risparmio (Istituto San Paolo che era un Monte di Pietà di
Torino). È un’istituzione che si dimostrò rispondente alle esigenze della popolazione.
Gli archivi sono importanti per studiare la società, per vedere come mai le persone chiedevano prestiti,
l’entità dei prestiti, gli oggetti che lasciavano in pegno ecc. ci danno una chiave per leggere la società
dell’epoca, per seguire le dinamiche interne della società. Sono archivi confluiti poi negli archivi di Stato, ma
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i casi più importanti sono ancora conservati dalle banche eredi dei monti di Pietà. Questi archivi sono
conservati con grande cura e resi accessibili agli studiosi.
La vasta documentazione delle arti, delle confraternite, dei monti di pietà e degli ospedali caratterizzano lo
sviluppo di una società urbana e ci consentono di studiarla in modo approfondito e nelle sue componenti
economicamente meno fortunate (le classi subalterne che normalmente non erano chiamati in causa nei
documenti alto-medievali).
MERCOLEDÌ 29 NOVEMBRE
Una conseguenza della maggiore interazione sociale fu un maggiore ricorso al testo scritto: in molte società
chiuse e poco numerose certi accordi erano sugellati da patti orali di tipo tradizionale, come una stretta di
mano in presenza di testimoni; in una società più numerosa e più complessa questi accordi erano più
difficili da mettere in pratica, il documento scritto garantisce meglio i diritti.
Con il basso medioevo si amplia e si rafforza l’influenza sociale dei notai, tecnici della scrittura che
assommano diverse capacità (l’alfabetizzazione, la conoscenza del diritto e del latino, lingua giuridica per
eccellenza, in quanto la volgarizzazione degli atti si manifesta solo nel ‘400). I notai sono gli eredi dei
tabelliones di età classica, degli scribi specializzati; il notaio assume un’importanza superiore nei secoli del
medioevo; era colui in grado di dare alla volontà espressa da parti private o un’autorità pubblica una forma
tale da garantirne la memoria in forme che abbiano un valore giuridico.
I notai si occupano dei libri iurium, dei cartulari, delle varie copiature dei codici degli statuti dopo le
reformatio, sono estremamente presenti.
A partire dal XII secolo acquisiscono un riconoscimento giuridico che li colloca in una posizione di maggiore
prestigio.
Dal punto di vista testuale notiamo una trasformazione nei documenti stessi: prima i documenti si
presentano come narrazioni fatte in prima persona, con la menzione del notaio a fine documento come
rogatus scriptis: è un mero recettore della volontà espressa da una delle parti. Dopo la sottoscrizione del
notaio seguono le sottoscrizioni dei testimoni, le quali danno un valore giuridico al documento. Il ruolo del
notaio è puramente meccanico, a dare valore giuridico è l’espressione della volontà delle parti e la
sottoscrizione dei testimoni.
Dalla seconda metà del XII secolo, con l’evoluzione della società comunali e la riscoperta del diritto romano,
l’atto notarile acquisisce il valore di strumentum publicum (strumento pubblico), qualificazione che nella
legislazione italiana rimane: essendo atto pubblico deve essere conservato in un archivio pubblico. Ciò
porta con sé il riconoscimento al suo redattore la publica fides, la fede pubblica: a garantire la validità
giuridica del documento non sono le sottoscrizioni, ma la sottoscrizione, la certificazione del notaio, che
diventa imperiale auctoritate publicus notarius.
Dal punto di vista testuale la struttura cambia: non è più una narrazione in prima persona, ma una
narrazione in terza persona dal punto di vista del notaio “X e Y si sono accordati”, i testimoni vengono citati,
ma non è più necessaria la sottoscrizione.
I notai si riallacciano all’autorità imperiale per garantire la validità dei loro documenti. Questa autorità può
essere concessa dall’imperatore, dai suoi delegati o da comuni che si arrogano il diritto di investire dei
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notai. L’investitura notarile assume una forma cerimoniane molto precisa, che rimanda all’investitura
nobiliare si supera una prova e qual ora venisse approvata veniva portato davanti ad un’autorità imperiale
(come i conti palatini, che ricevevano una ricompensa) e veniva consegnato una penna e un calamaio come
simbolo della professione. Da quel momento in poi è autorizzato a rogare atti in tutto l’Impero Romano.
La professione notarile assume una posizione pubblica che porta i notai a sviluppare sistemi finalizzati a
garantire la riconoscibilità e l’attendibilità dei loro atti (ancora oggi i notai appongono dei sigilli – timbri –
con il loro numero di matricola). All’epoca ricorrevano a sistemi grafici (come per i diplomi). Ogni notaio
elabora un proprio “logo” basato sull’elaborazione della parola ego (io), detto “ego monogrammato”.
Inizialmente erano molto semplici, pian piano svilupparono degli ego monogrammati che rimandavano al
campo in cui lavoravano più spesso (il professore mostra un ego a forma di barca di un notaio che lavorava
spesso con armatori navali).
L'ampia disparità nella distribuzione degli atti notarili a partire dal XII secolo in confronto ad altri tipi di
documenti risulta notevole: i registri archiviati presentano un'abbondante presenza di documenti notarili, i
quali costituiscono la maggioranza quantitativa e rappresentativa all'interno degli archivi stessi. La società
basso medievale aveva tante relazioni economiche che acquisivano complessità e intensità e richiedeva
documenti in settori che oggi escono dalle competenze del notaio (affittare una bottega, assumere un
apprendista, stabilire contratto medico-paziente, tra marito e moglie in cui ci si impegnava a non giocare a
dadi o non frequentare alte donne).
Grand parte dei documenti notarili riguardano il trasferimento di beni immobili (atti di compravendita), i
contratti commerciali che coprono tutte le attività (commercio al minuto o commercio internazionale)
grazie agli atti si sono potute individuare e studiare le tipologie di commerci. ???29.00
Il contratto di accomandita (accomentacio) che si concretizza con un accordo tra due parti, il cui primo
affida all’altro una determinata somma (in denaro contante o merci valutate per un certo importo) e colui
che riceve questa somma compie un viaggio commerciale. Al ritorno i proventi dell’operazione
commerciale, detratte le spese di viaggio, vengono suddivisi in ¾ al finanziatore e ¼ a chi ha compiuto il
viaggio. Era un contratto che consentiva a giovani di entrare senza avere un grande capitale nel mondo del
commercio a lungo raggio e che garantiva a chi investiva un buon ritorno. Si suddividevano i rischi.
Forme di associazione mercantile:

La “commenda”: deriva dal contratto di cortesia tipico del commercio ebreo. Tipica di grandi centri portuali come
Venezia, Genova e Pisa. Nella sua forma più semplice lega un mercante finanziatore (socio stans, che sta fermo),
che fornisce unicamente il capitale, a un mercante (socio itinerans) che compie il viaggio commerciale e si assume
tutti i rischi del viaggio. Quest'ultimo svolge una serie di operazioni commerciali, torna e presenta il suo
rendiconto. Tolte le spese e restituito il capitale, il guadagno è diviso a metà (o ¾ al finanziatore e ¼ al
viaggiatore).
Sembra ineguale, sfruttamento del lavoro di qualcun altro, ma in realtà i giovani mercanti, proprio grazie a questi
finanziatori, riescono ad entrare nel mondo commerciale.
Raramente però troviamo contratti così semplici. Più spesso sono intrecciati: un mercante è socio itinerans in uno e
stans in altro, un altro può raccogliere finanziamenti da più persone ecc. Si tratta comunque di un contratto molto
elastico ed efficiente che rimane in uso per moltissimo tempo e dà origine a un contratto ancora esistente e
fondamentale (SAS → società in accomandita semplice, che alla base sfrutta contratti di questo tipo), che dà il via allo
sviluppo commerciale delle città italiane.

La “compagnia”: molto in uso a Firenze e Siena e nelle città marittime toscane. È una forma associativa famigliare,
basata su vincoli di consanguineità in cui ciascun membro fornisce una parte del capitale. Con il ramificarsi delle
attività e diventa impossibile mantenere tutto all'interno della famiglia.
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Si affida la responsabilità di un'agenzia a un fattore, e spesso si combina un matrimonio con una delle figlie (non solo
vincolo di interesse ma anche di sangue).
Allargandosi il giro d'affari c'è bisogno di cifre più consistenti: si accettano depositi da chi non fa parte della
compagnia, detta “fuori corpo” (corpo capitale sociale). Questi forniscono il capitale e la compagnia lo restituisce
incrementato di interessi. Le compagnie fungono anche da grandi banche con interessi continentali.
Problemi delle compagnie: mentre la commenda si esaurisce in un'operazione (un contratto), le compagnie sono qualcosa di
permanente, e soprattutto tutti i soci sono solidalmente e illimitatamente responsabili per i debiti contratti da un altro socio:
tutta la compagnia in blocco è responsabile per le azioni di ogni singolo socio.
ex. in caso di assunzione di una cattiva partita, un affare non buono, c'è il rischio di fallimento che coinvolge tutti i soci che
devono pensare a rimediare. In più, quando qualche grosso affare va male, la notizia si diffonde e tutti i creditori si precipitano a
chiedere il rimborso dei loro depositi (come ciò che succede alle banche che vanno in crisi, tutti i clienti chiudono i conti e
ritirano i soldi).
Soluzione: la successiva generazione di compagnie, memore dei grandi fallimenti del XIII e XIV sec (come per i Peruzzi e gli
Acciaiuoli a Firenze), previene questi problemi creando compagnie più piccole e specializzate in un certo prodotto o in un certo
mercato, e soprattutto mantenendole separate (magari legate a una stessa persona ma questioni separate, così in caso di
fallimento non vengono coinvolte tutte).
Dal XIV secolo si sviluppa un contratto che darà origine al contratto di assicurazione, si presenta come un
contratto di vendita fittizia: c’è un accordo di vendita delle merci (mercante A che vende a mercante B della
merce), ma si impegna a riacquistare la merce ad un prezzo stabilito quando la nave sarà arrivata nel porto
di destinazione. È un premio di assicurazione sul carico, che porterà allo sviluppo di sistemi più raffinati per
assicurare i carichi mercantili.
Ciò si allaccia ai Monti di Pietà: bisognava aggirare il divieto relativo all’usura (retribuzione dei presiti). I
mercanti erano prestatori di denaro, dovevano farlo circolare. Allora i prestatori scrivevano solo la somma
da ricevere e non quella che avevano prestato (ma non era sicuro perché era comunque impugnabile
davanti ai tribunali ecclesiastici).
C’era bisogno di contratti validi che non fossero impugnabili davanti ai tribunali ecclesiastici. I notai sono
chiamati a risolvere questo problema con degli escamotage testuali. Innanzitutto, si scriveva che era un
prestito gratis et amore dei (gratuito e fatto per carità cristiana) e si usavano due escamotage:
- indicare la cifra prestata con al suo interno già gli interessi calcolati per la data prevista;
- esprimere la cifra prestata e quella da restituire in due valute diverse, nascondendo l’interesse
nel tasso di cambio.
Il commercio di denaro aveva un grande peso a livello internazionale: sia i re di Francia, sia quelli di
Inghilterra per finanziare i continui scontri dovevano ricorrere ai prestiti da parte di mercanti (spesso
italiani). A fine ‘200 i contribuenti più ricchi della Francia era Filippo degli Arcelli, usuraio piacentino. I re di
Inghilterra si indebitano più volte con i banchieri fiorentini e genovesi, in cambio di esenzioni fiscali di
materie prime dal regno. L’attività notarile consente di muovere il denaro in modo più agile e sicuro
rispetto le convenzioni e le applicazioni della normativa ecclesiastica.
Un altro settore nel quale i notai dimostrano molta inventiva è nell’ambito della capacità legale delle
donne. Sulla base delle tradizioni germaniche e del diritto romano le donne erano giuridicamente incapaci
per tutta la loro vita. Già in età tardo romana la posizione si era attenuta ma dal punto di vista legale
c’erano convenzioni in base alle quali i contratti stipulati con una controparte femminile dovevano avere
molte caratteristiche affinché fossero considerati validi (affinché, nel caso in cui qualcosa fosse andato
storto per la donna, questa, o altri per lei, avrebbe potuto dire che non è in grado di intendere e volere o
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che era stata raggirata e il contratto sarebbe stato dichiarato non valido), tra cui la rinuncia esplicita (scritta
sul documento) da parte della donna di avvalersi di norme che tutelavano le donne quando stipulavano
contratti: la lex iulia de fundo totali (legge risalente a Giulio Cesare) rendeva inattaccabile da un creditore la
dote di una donna. Valeva anche quando un uomo stipulava un contratto coinvolgendo la moglie (come
garante).
Una donna che stipulava un contratto senza un marito/padre/fratello aveva bisogno di due amici uomini
che le spiegassero ciò che stava per firmare. Tutto ciò è formalmente ritrovabile negli atti notarili.
Però se guardiamo in serie i contratti in cui compaiono delle donne, i nomi dei consiliatores sono sempre gli
stessi, erano spesso i vicini del notaio. Questo perché soprattutto in centri molto dinamici dal punto di vista
commerciale, in cui c’è molta mobilità dell’elemento maschile, dal punto di vista di un mercante la persona
più affidabile a cui assegnare i propri beni è la moglie, che ha interesse nel non dissiparlo. Quindi troviamo
molti atti in cui ci sono donne che in assenza del marito agiscono e sono consce di ciò che fanno e sanno
gestire gli affari perché lavorano a fianco dei mariti. In casi genovesi e veneziani ci sono mercantesse
espresse (dichiarate), che sono loro stesse che gestiscono un’attività commerciale.
Oppure gestiscono i beni in maniera punitiva nei confronti del marito, per escluderlo dal controllo del
patrimonio.
Ci sono contratti che vanno contro l’idea radicata di un medioevo bacchettone, rigido e legato ai canoni
della Chiesa, come accordi di convivenza, stipulati in situazioni d’oltre mare tra mercanti e donne del luogo
(vivranno come marito e moglie per un tot di anni). È un sistema applicato oltremare: gli insediamenti
erano popolati da giovani uomini, i quali avevano l’esigenza di una compagna, ma erano anche vincolati da
obblighi verso la famiglia: spesso era previsto un rientro a casa e un matrimonio combinato per ragioni
economiche.
C’è molta elasticità da parte dei notai. I notai rispondevano alle esigenze della società e dei clienti: gli atti
notarili ci consentono di avere una finestra sulla vita delle persone normali (la platea è molto più ampia di
un notaio attuale). Con il passare del tempo troviamo sempre più notai che rogano in comunità molto
piccole, questi atti ci danno informazioni sulla vita delle persone, sull’organizzazione della società, sugli
scambi.
Il documento notarile è un elemento di certezza che fa valere dei diritti.
1.10 come conservare gli atti
Come lavorava il notaio:
Nel medioevo il notaio non aveva uno studio, ma un banco, collocato in un punto di grande traffico (piazze
delle cattedrali, piazze dove si concentrano i commerci ecc) e la strumentazione era limitata. Il lavoro del
notaio si divideva in 3 fasi:
1. il notaio prendeva appunti (notule) sul manuale (o a seconda delle zone quadernetto, bastardello,
un piccolo registro stretto e lungo (foglio A4 piegato), che si potesse infilare in una tasca, o si
poteva tenere in mano) con i clienti presenti, tra cui: i nomi delle persone, la natura del contratto
(prestito, compravendita…), gli importi di denaro, i nomi dei testimoni, data e ora
2. successivamente, a casa prevedeva ad abbozzare il documento in un minutario o cartulare, un
registro cartaceo in cui faceva una prima stesura in cui inserisce i dati annotati sul manuale in una
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griglia testuale, che faceva riferimento alle leggi a cui fare riferimento. Lo faceva con le formule
ecceterate: tutte le parti ripetitive le accennava con le prime parole e scrivendo “eccetera”. La
minuta aveva una scrittura più corsiva, con 1.17 caratteri carolini adattati all’uso minuscola (su 3
linee) notarile corsiva (ha i vari legamenti) ???
3. redigeva (il notaio o uno scrivano per lui) il redatio in mundum su pergamena, il testo per esteso
con una calligrafia curata. Era scritto su pergamena e veniva consegnato alle parti. Oggi siamo
abituati che l’originale rimane al notaio e alle parti vengono consegnate delle copie, all’epoca il
notaio teneva la minuta e consegnava gli originali, che ne sono rimasti pochissimi tramite archivi
ecclesiastici o nobilirari. Dalle minute ci si rese conto che in realtà la terza fase del lavoro non
veniva effettuata perché i minutari erano considerati già validi. Siccome il cliente per avere il
mundum doveva pagare, molto spesso non lo richiedeva.
Un’attenzione particolare che doveva avere il notaio: con il complicarsi delle transazioni e l’aumento della
clientela i notai svilupparono sistemi per memorizzare ed evitare delle incorrettezze: ad esempio
evidenziare se un debito fosse già stato pagato, affinché non fosse possibile per chi doveva riscuotere il
debito farlo una seconda volta. I notai ricorrono alle lineature, ovvero dei segni che indicavano il
compimento (linee diagonali) o l’annullamento (onde) del contratto. Ciò che veniva fatto agli orginali: lo si
tagliava affinché il documento fossero annullato. Il notaio non poteva farlo sul cartulare quindi lo annullava
graficamente.
C’erano più documenti in una sola pagina (un cartulare conteneva 100-150 pagine) quindi in un solo
cartulare potevano esserci moltissimi atti compattati, che facevano guadagnare spazio. La quantità di
documenti ci fa capire l’importanza dei notai all’epoca.
Il più antico è nell’archivio di Genova, del notaio Giovanni Scriba, che copre un decennio 1154-1164
contiene quasi un migliaio di atti.
Il primo registro pervenuto fuori Genova è del 1237 di un notaio marsigliese.
Con il ‘300 a partire dai grandi centri mercantili troviamo serie continue di registri riguardanti rapporti di
credito, deposito di merci presso mercanti, atti relativi a compagnie commerciali e associazioni di capitali,
compravendite di grano e tessuti e così via.
Purtroppo, le perdite nell’ambito dei registri notarili furono consenti.
I documenti con importi superiori ad una certa cifra vennero copiati in serie conservate nell’archivio
pubblico.
La natura dei registri era promiscua e poteva contenere in ordine cronologico atti di privati vicino ad atti
ufficiali di collegi, organismi pubblici e autorità ecclesiastiche.
Invece i testamenti godevano di una particolare cura e venivano conservati in registri separati. Oltre
all’importanza legale, fornivano informazioni sui beni che stavano nella casa (nei testamenti c’erano degli
inventari di ciò che stava nella casa), si possono capire i costumi e il gusto dell’epoca e comprendere una
nuova mentalità tipica del basso-medioevo che dava molta importanza alla dimensione domestica.
La conservazione degli atti notarili ha subito perdite per il concetto stesso che presiedeva alla loro
conservazione: il notaio è persona di pubblica fides e conservava da sé i documenti. Solitamente quando
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morivano la professione veniva portata avanti dai figli e i registri si accumulavano nello studio di famiglia. Ci
furono eredi meno attenti nella gestione dell’archivio. Ma perché volevano curare l’aspetto della
conservazione di documenti in importanza pubblica i notai si organizzano in un collegio (che può essere una
confederazione, un’arte o un collegio vero e proprio). I suoi ruoli:
1. difendere i privilegi di cui i notai sono titolari
2. controllare l’accesso alla professione notarile: i figli dei notai erano privilegiati e avevano priorità
nell’ingresso del collegio, se fossero rimasti posti liberi avrebbero potuto essere assegnati a
candidati che non appartenevano a famiglie di notai. Compito del collegio era di tenere la matricola
e la registrazione dei figli dei notai
3. conservazione degli atti dei notai defunti nel caso in cui non ci fosse stato un erede o che questo
erede non avesse proseguito l’attività paterna. Non era solo per memoria, ma anche perché da una
minuta si poteva generare un originale, fatto redigere dai giudici tramite i notai conservatori per
essere usati come testimonianza valida giuridicamente. Ovviamente anche questi archivi vennero
spostati, incendiati, bombardati ecc e una parte dei registri andò perduta. In molte città i collegi
notarili rimasero ino all’età moderna gli unici e gelosi custodi degli atti che i provati stipulavano
presso loro. Nel Regno di Sicilia e in città lombarde, venete ed emiliane già dal ‘200 si istituì
l’obbligo della sottoscrizione dell’atto da parte di un’autorità pubblica (“giudici ai contratti” in
Sicilia, “vicedomini” a Trieste, ufficiali addetti ai memoriali a Bologna…). Spesso ciò comportava la
trascrizione integrale degli atti e al giorno d’oggi possiamo trovare lo stesso atto in un registro
notarile privato e parallelamente in un ufficio pubblico.
LUNEDÌ 4 DICEMBRE 2023
Dal XII/XIII secolo abbiamo una presenza crescente di archivi conservati dall’aristocrazia e dai mercanti (e
ricchi artigiani e imprenditori). Questi due gruppi iniziano ad organizzare e conservare gli archivi con
caratteristiche diverse:
L’aristocrazia
Un motivo per conservare i documenti è quello di garantire i propri diritti e mantenere memoria delle
proprie acquisizioni. Tra il X e l’XI secolo nelle famiglie aristocratiche cambia la trasmissione ereditaria, che
non è più ripartita in quote tra i figli (diritto germanico) ma è una trasmissione di tipo gentilizio: concerta
tutta l’eredità al primo genito maschio. In funzione di non disperdere il patrimonio e non intaccare la
posizione di forza che la famiglia può aver acquisito attraverso accumulo di proprietà, diritti e titoli, si cerca
di mantenere il patrimonio su un’unica persona.
Quest’esigenza si riflette nell’esigenza di conservare ordinatamente i documenti. Diventa sempre più
frequente trovare complessi documentari organizzati dalle famiglie aristocratiche. Questi ci sono spesso
arrivati tramite un istituto religioso (la famiglia si estingue e lasciano tutti i loro beni alla Chiesa, e con essi i
relativi documenti).
In altri casi questi documenti sono ancora nelle mani dei discendenti, in alcuni casi conservati nella
residenza principale, in altri casi dislocati nelle residenze di campagna. La scelta del luogo di conservazione
dipende dalle dimensioni dell’archivio, il quale spesso è molto ingombrante e così questi documenti sono
stati donati all’Archivio di Stato. Raramente le famiglie aristocratiche riescono a far risalire la loro
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discendenza prima del X secolo (momento in cui grazie ai Carolingi si crearono i primi titoli e così le prime
famiglie nobiliari).
L’insieme dei documenti con il passare del tempo acquisisce una struttura complessa perché in occasione
dei matrimoni (spesso attraverso il trasferimento di beni da una famiglia a un’altra sotto forma di beni
dotali) si produceva un corrispondente in documentazione da un archivio a un altro: i documenti relativi ai
beni che costituiscono la dote della sposa vengono estratti dall’archivio della famiglia della sposa e vengono
trasferiti nell’archivio della famiglia dello sposo. Per questa ragione l’archivio di una famiglia contiene
spezzoni di archivi di altre famiglie. Alla stessa maniera spesso accadeva che una famiglia finisse con
un’erede donna, così quando questa si sposava tutti i suoi beni e i relativi documenti passavano al marito (il
quale aggiungeva il cognome della moglie al proprio – o addirittura lo adottava come primo cognome – per
tramandare la memoria della famiglia della moglie. Un esempio sono i Grimaldi principi di Monaco: l’ultima
Grimaldi sposò un Polignac, il quale per contratto matrimoniale assunse il cognome di lei in quanto più
prestigioso).
Sono fonti di grande rilevanza per il ruolo politico che queste famiglie ebbero non solo nel medioevo ma
anche nell’età moderna.
Troviamo la documentazione riguardante diritti, titoli e beni fondiari, ma anche
- i carteggi, che dalla fine del medioevo diventa un elemento molto consistente (scambiarsi
lettere era la prima forma di comunicazione) che forniscono moltissime informazioni sulla vita e
sulle relazioni che permettono di vedere il dietro le quinte delle azioni diplomatiche e non solo.
Questi documenti forniscono molte informazioni dal punto di vista linguistico in quanto molti
nobili erano poliglotti e le loro lettere erano redatte in moltissime lingue, specialmente in
francese (la lingua accademica, della diplomazia e dell’aristocrazia) e in spagnolo (dovuta
all’influenza spagnola nel sud Italia)
- la documentazione amministrativa relative alle terre e alla loro gestione (contabilità dei fittavoli
dovuti per le terre che lavorano). Questi documenti ci danno molte informazioni sulle
coltivazioni (ad esempio nella prima età moderna ci sono documenti relativi all’introduzione del
mais)
Alcuni di questi signori non si limitano a sovraintendere ma si impegnano direttamente e scrivono
personalmente questi documenti. Ci troviamo davanti a testi che non essendo passati davanti a
professionisti della scrittura (come un notaio) non sono formalizzati e sono redatti in volgare, perché molti
di questi nobili sono alfabetizzati, ma sono illiterati (non sanno il latino).
Gli archivi dell’aristocrazia sono arrivati fino a noi spesso ben conservati.
I mercanti
Gli archivi mercantili hanno caratteristiche molto diverse: sono archivi d’impresa, concentrati sulla
conduzione degli affari e assume forme differenti.
- I carteggi erano fondamentali, le lettere non contenevano solo comunicazioni personali, ma
avevano un ruolo fondamentale per lo sviluppo degli affari: servivano per scambiare
informazioni tra il titolare dell’azienda mercantile e gli agenti sparsi sul territorio. Nel ‘200/’300
il commercio muta e la necessità di comunicare ne è conseguenza.
Nella fase iniziale il mercante viaggiava molto, intorno al XIII secolo abbiamo una progressiva
sedentarizzazione dei mercanti: tendono ad insediarsi in un centro economico e attraverso una
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-
rete di contratti e di contatti gestiscono i loro affari. Le persone che viaggiavano erano spesso
dei famigliari, in sistemi aziendali più vasti (molto diffusi in toscana) prevedevano persone
anche fuori dalla famiglia. Ciò implica un fitto scambio di lettere ed informazioni
sull’andamento del mercato e la domanda di determinati beni.
Le lettere di cambio che servono a spostare crediti (grandi o piccole cifre di denaro) senza
muovere fisicamente il metallo.
Una motivazione per cui gli italiani acquisiscono una superiorità rispetto i corrispettivi stranieri è perché
hanno sviluppato sistemi di contabilità (certificati dai libri contabili delle aziende) più sviluppati: già nel ‘300
i libri di conti italiani erano tenuti con la partita doppia (si mettono su due colonne le entrate e le uscite) (a
teorizzarlo fu un grande matematico, Luca Pacioli che a fine ‘400 ne spiega in un trattato l’utilizzo e il
funzionamento). Questi conti li troviamo nei registri dei mercanti, che si distinguono in 2 categorie:
- Libro mastro, libro principale, pubblico, che fa da pubblica fede. In Toscana era pacifico che le
registrazioni sul libro mastro avessero valore giuridico, mentre a Genova no, e si ricorreva
sempre al notaio.
- Libri segreti, (anche definiti a seconda del colore della loro legatura) altri registri che
contenevano la documentazione interna della compagnia. Qua sono contenute le contabilità
particolari e dettagliate da cui si traggono dati riassuntivi che vengono riportati nel libro
mastro.
Questa documentazione serviva a tenere la contabilità e il volume degli affari.
Questi registri però non sono arrivarti fino a noi, perché non era prevista una loro conservazione a lungo
termine. Le compagnie erano associazioni tra mercanti con una data di scadenza, dopo la quale ognuno
ritirava la sua somma iniziale messa come “corpus” e gli interessi. Gli archivi mercantili ci sono arrivati
tramite due canali di trasmissione:
1. Il canale giudiziario: i registri non venivano distrutti quando venivano sequestrati e diventavano
elementi di un dossier giudiziario quando le compagnie avevano dei problemi. Gli archivi che ci
sono arrivati segnano il fallimento della compagnia.
Le pratiche di mercatura sono delle enciclopedie redatte all’interno delle aziende per raccogliere gli
elementi che escono nel carteggio e le caratteristiche specifiche dell’attività commerciale. Ciò produce
molti testi interessanti e personali (come istruzioni da dare a un notaio per redigere il testamento,
genealogie e storie di famiglia) che sfociano in diari personali.
MERCOLEDÌ 6 DICEMBRE 2023
Le cronache
Sono una fonte di notevole importanza, perché molto spesso coprono periodi di cui non abbiamo a
disposizione la documentazione e ci consentono di integrare i dati che erogano dai documenti, tenendo
sempre presente la natura soggettiva della fonte (sono tutte marcate da diverse esigenze, ma soprattutto
essendo fonti soggettive, risentono della posizione, delle idee e delle esperienze dei loro autori). Cade la
distinzione rispetto ai documenti, che sono invece fonti oggettive.
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In particolare modo, le narrazioni storiche erano state proprie dell’altissimo medioevo, ma anche del
medioevo maturo e buona parte degli autori di questo tipo di testi erano appartenenti al mondo
ecclesiastico così come al mondo ecclesiastico faceva riferimento anche l’argomento di molte di queste
narrazioni (storie monastiche, fasti episcopali ecc); quindi i prodotti che rientrano ancora nell’ambito delle
fonti di matrice ecclesiastica; questo tipo di fonti continua ad essere prodotto anche durante il Medioevo
tardo (dal 200 in poi) ma tende a diventare marginale a livello di importanza, cioè i vescovi pur avendo
rafforzato la loro presa amministrativa sull’ambito della diocesi che presiedono, rispetto ai secoli dell’alto
Medioevo, hanno perso rilievo politico e quindi la storia della diocesi non ha più quell’interesse che poteva
avere nei primi secoli del medioevo. Un’eccezione chiarissima però, è quella romana, il liber pontificalis
infatti veniva continuamente aggiornato fino al pieno 400, perché le biografie dei papi invece hanno
rilevanza politica, soprattutto ora che il papa è il sovrano pontefice, cioè colui che guida la chiesa.
Altre sedi, in alcuni momenti, producono importanti cronache che legano la storia della diocesi a quella
della città: due sono gli esempi famosi, tra la fine 200 e il primo 300, rappresentati dalle cronache di Jacopo
da Varagine, vescovo di Genova e arcivescovo della città che fa della successione dei suoi predecessori, una
sorta di impalcatura cronologica sulla quale costruire una storia dalle sue origini fino alla sua perfectio, che
coincide con gli anni in cui Jacopo vive e quella di Galvano Fiamma, vescovo di Milano che inserisce la storia
della diocesi milanese in una storia più ampia e la lega alla storia della città. Queste opere rientrano in una
tipologia di grandi opere storiche che sono proprie degli appartenenti agli ordini minori (francescani e
domenicani), perché i frati francescani e domenicani, nel tardo 200 e nel 300, sono ormai coloro che
compongono buona parte del corpo accademico dei grandi centri universitari: la loro produzione
storiografica può essere definita di tipo accademico e mira a recuperare un’ampiezza a livello della
cristianitas; lo stesso Jacopo da Varagine che scrive la Cronaca di Genova, è anche l’autore di uno dei best
seller del tardo Medioevo e dell’età moderna, ovvero la leggenda aurea, ossia l’insieme delle vite dei santi
della Chiesa Cattolica, ma che comprende un’ampia digressione sulla storia della penisola dalla calata dei
longobardi fino al tardo ‘200.
In questo senso, Jacopo è perfettamente allineato con altri autori francescani come Martin Polono, che
scrive una cronaca universalis, una storia del mondo dall’origine fino ai suoi tempi oppure di un’altra opera
celebre dell’epoca, ossia lo Speculum historiale di Vincenzo di Beauvais, che inaugura una tipologia di
opere che avrà poi grande successo tanto nel tardo medioevo quanto nel corso dell’età moderna, che sono
i cosiddetti specula principum (specchi dei principi): sono delle opere in cui la narrazione di eventi e di
azioni di grandi personaggi della storia biblica, antica o la storia di secoli più recenti, vengono utilizzate per
fornire modelli etici di comportamento per coloro che sono investiti del compito di regnare e governare (si
offre al principe attraverso la lettura di questi testi, una serie di modelli di comportamento a cui fa
riferimento per prendere le proprie decisioni). Sono una tipologia di testi che avranno molto successo
nell’età moderna, soprattutto nella pedagogia riservata agli eredi al trono, possiamo arrivare addirittura al
XVII sec e agli scritti di Bossuet che compila una grande rassegna storica di storia della Francia
esplicitamente intitolata “Historia Regum Francorum Ad Usum Delphini” (ad uso del delfino), tutto questo
lavoro è studiato per la formazione del futuro re di Francia, è una tipologia di opere che inizia con queste
opere di grandi autori delle cronache di origine domenicana e francescana che contemperano nelle loro
opere diversi piani, vi è la narrazione storica, l’elemento agiografico, quello moralistico, pedagogico, quindi
sono narrazioni storiche che non sono destinate ad una semplice trasmissione di memoria dei fatti, ma li
selezionano e li interpretano sulla base dell’utilità della formazione dei lettori diretti e a coloro a cui i lettori
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si rivolgeranno (opere storiche con finalità utilitaristica, vogliono raccontare fatti e fornire strumenti “di
lavoro” a coloro che ne sono poi destinatari).
Una caratteristica che hanno, anche per la natura che gli ordini hanno assunto, è quella di tenere assieme la
visione degli eventi locali con un quadro generale a livello europeo. Questi frati, al contrario dei monaci
benedettini dell’epoca precedente, si spostano da un convento a un altro su distanze molto lunghe e hanno
un’esperienza diretta di ciò che accade anche molto lontano dalla città dove sono nati. Così quando
raccontano gli avvenimenti della loro città, lo fanno inserendo il tutto all’interno di un quadro generale,
applicando categorie di giudizio morale che derivano dagli insegnamenti della Chiesa e anche personali,
aggiungendo o facendo emergere anche tratti della loro personalità, del loro personale giudizio che emerge
molto bene in questo testo letto in aula:
Il professore legge dei passi da una cronaca di Salimbene da Parma, frate francescano di buona
famiglia parmense (entra in un ordine che sta ancora strutturandosi e ha molte esperienze perché
essendo brillante negli studi, viene poi mandato come rappresentate dell’ordine in diverse
occasioni e aveva modo di frequentare ad esempio la corte di Francia). Qui racconta degli episodi in
cui emerge anche la sua personalità: il primo è la figura di Federico II, morto da poco quando
l’autore scrive la sua cronaca, che ha avuto rapporti personali con l’imperatore (nei testi emerge
sempre che Federico II è piccolo di statura, ben fatto ma piccolino e si era precocemente
stempiato): vediamo che si era fatto frate contro la volontà della famiglia. C’è da un lato il giudizio
morale di condanna verso Federico II, nemico eccelso della Chiesa, ma allo stesso tempo esprime
un’opinione personale e dice che era un uomo eccezionale.
Vi è anche un’elaborazione critica di questi personaggi che scrivono; quindi, sono degli ecclesiastici ma
anche degli intellettuali, la stessa cosa avviene anche nei testi di Jacopo da Varagine e Galvano Fiamma.
Jacopo scrive la Leggenda Aurea per mettere ordine, in qualche modo, tutte le tradizioni sui santi che
circolano, per arrivare ad una versione attendibile delle vite: fa, con alcuni secoli di anticipo, un’operazione
simile a quella che faranno i bollandisti a partire dal tardo 700. Il tono di queste cronache è sempre un tono
che lega la storia locale con considerazioni di ordine generale, con il riferimento ad un quadro degli eventi
molto più ampio (di dimensione europea): è la tipologia della storia generale che sarà poi la tipologia
classica delle storie accademiche di età moderna, che vedranno affiancate storie dedicate ad una dinastia e
grandi storie generali.
La differenza con la storiografia laica, specialmente le prime generazioni di storiografici laici, risiede nel
collegamento che la storiografia ecclesiastica ha con la storia generale: soprattutto per il XII e la prima metà
del XIII sec, la storiografia laica infatti si concentra solo sulla dimensione locale (rimarrà caratteristica
dominante), perché gli autori delle prime opere storiografiche sono membri del ceto dirigente della città di
cui scrivono la storia. La compilazione più antica sono gli Annali Genovesi di Caffaro (che è stato più volte
console del comune, è stato ambasciatore, ha avuto ruoli politici importanti), il quale raccoglie le sue
memorie (muore ultra ottantenne) e le raccoglie anno per anno, in forma annalistica, legando la memoria
alla composizione dei collegi consolari che sono chiamati di anno in anno a governare la città di Genova: lo
fa inizialmente per iniziativa personale. Poco prima della morte, nel 1162, che Caffaro darà pubblica lettura
davanti ai magistrati del comune del testo che ha composto e questo verrà approvato e dichiarato parte
della documentazione del comune. Dall’anno dopo e fino a metà 500, il comune di Genova nomina un
cronachista, ovvero l’annalista del comune (qualcuno che sia incaricato di scrivere la cronaca). Questo
processo di approvazione di un testo originariamente composto per memoria privata, lo ritroviamo un
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secolo dopo a Padova con la cronaca della Marca Trevigiana di Rolandino da Padova, approvata dopo una
pubblica lettura, dai professori dell’università di Padova. Ciò accadde perché attraverso questi testi non si
costruisce solo la memoria della città, ma anche del suo ceto dirigente (abbiamo detto che ha avuto nel
corso della sua vita, notevoli ruoli politici). Quindi scrive un testo che può essere riconosciuto dai suoi pari
come una memoria collettiva di ciò che il loro ceto ha realizzato nel corso dei decenni per creare e
consolidare la città di Genova e affermare la sua supremazia.
Il testo di Caffaro ha infatti delle indicazioni che sono evidenti alla lettura moderna: innanzitutto, inizia il
suo racconto con il 1099, sappiamo dai testamenti che in realtà, il comune di Genova stava cercando di
costituirsi tra il 1097 e il 1098, però non aveva avuto successo. In seguito nel 1099 ci riprovano e riescono a
costituire il comune. Caffaro quindi decide di omettere il tentativo fallito e lega il successo dell’istituzione
del comune genovese alla prima crociata. In questo modo presenta il comune di Genova e la città di
Genova come delle istituzioni strettamente legata alla crociata e alla lotta per la fede: Genova combatte
per il bene della cristianità (vi è quindi una scelta ideologica molto forte, nel selezionare il 1099 e ciò è
provato da Caffaro, quando fra 1148 e 1154 tace completamente sugli avvenimenti: in quel periodo, in
conseguenza dell’eccessivo impegno finanziario per la spedizione in Spagna in alleanza con i sovrani
cristiani spagnoli contro i musulmani, il comune di Genova aveva avuto grossi problemi di bilancio (non era
stato possibile ripagare gli ingenti prestiti fatti dal comune con operatori privati). C’era quindi stato un
periodo di difficoltà che termina nel 1155 quando bisogna affrontare la minaccia del Barbarossa in Italia.
Caffaro a questo punto dice che semplicemente, di quegli anni, non aveva trovato informazioni importanti
che fosse importante ricordare. Poi con il 1155, racconta della ricostruzione delle mura cittadine alle quale
concorre tutta la popolazione secondo le proprie capacità (dando denaro, fornendo materiali e lavorando
personalmente) come “un risveglio primaverile” e da qui riparte il suo racconto. E’ evidente che Caffaro ha
uno scopo ben preciso: quello di costruire una storia di esaltazione di Genova e del suo ceto dirigente, nella
quale le parti negative non hanno spazio. Caffaro è fonte fondamentale per quanto riguarda la storia
genovese di questi anni, sia perché non abbiamo molti altri documenti oltre al suo racconto, sia perché il
suo scopo è celebrare il ceto dirigente di cui lui stesso fa parte. Lo stesso Caffaro aggiunge degli elementi di
altri due opere di cui lui stesso è autore, che si legano in modo diretto a quella che è la sua esperienza
personale; scrive una “Cronaca sulla liberazione delle città d’Oriente e una storia della presa di Almeria e
tortuosa”, che sono due momenti che si collocano ai due poli della vita di Caffaro: il primo è
rispettivamente il racconto della partecipazione genovese alla prima crociata, in forma di narrazione
personale, perché il giovane Caffaro aveva partecipato a quella spedizione, era stato il suo esordio nel
mondo della politica, il secondo è il racconto molto dettagliato della spedizione spagnola a cui Caffaro
partecipa come console del comune e ammiraglio della flotta, un uomo maturo che guarda gli eventi in
modo diverso. Entrambe queste opere sono a loro modo complementari al racconto degli annali, un
racconto che verrà proseguito dagli annalisti del comune fino alla metà del 500 (vi è un pezzo scoperto, ma
abbiamo un racconto piuttosto completo). Gli annalisti erano funzionari comunali, spesso giuristi del
comune (vengono dalla cancelleria comunale) che conoscevano bene la storia e sapevano valutare cosa
scrivere e cosa omettere (il modello del giurista annalista o giurista cronachista è tipico dell’Italia basso
medievale).
Storiografia del regno di Sicilia
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Tra regno e resto d’Italia c’è una grande differenza che abbiamo già riscontrato con la documentazione
cittadina, i libri iurium ecc, e si ribadisce anche in questo specifico settore della narrazione storica, perché
se in Italia centro settentrionale abbiamo le storie di centri medio piccoli, nel regno invece vi è come
riferimento la monarchia e come spazio geografico l’intero regno: abbiamo una storia del regno, non delle
città, perché a scrivere sono personaggi della corte reale che sono separati dalla città, a differenza degli
annalisti cittadini dell’Italia centro settentrionale, che sono partecipi della vita politica cittadina. La
storiografia francese, inglese ecc, è più simile alla storiografia del regno di Sicilia. Poi abbiamo alcuni esempi
di diari personali all’estero, è celebre il “giornale del borghese di Parigi”, che mescola il racconto degli
eventi storici (anni 20-30 del 400, ultima fase della guerra dei Cent’anni) e tutta una serie di indicazioni su
come si gestisce la casa indirizzata alla moglie, evidentemente più giovane. In Italia il ruolo che hanno le
città fa sì che siano protagoniste delle narrazioni, il fatto che il focus sia su centri come Bologna, Genova o
Milano, fa sì che nel momento in cui queste città interagiscono con le zone che le circondano, riusciamo a
ricavare informazioni anche sui centri minori che orbitano politicamente intorno a questi centri maggiori,
ecco perché sono preziose per la storia del territorio.
Abbiamo una produzione legata a quella che viene definita autopsia: si raccontano le cose di cui si è stati
protagonisti o testimoni diretti. La necessità di lasciare memoria (come fece Caffaro) la troviamo in altri
autori, come un anonimo romano che scrive una cronaca di Roma. Oppure la cronaca di Andrea Dandolo,
doge di Venezia che una volta diventato doge ordina di mettere ordine nell’insieme della normativa
veneziana creando i famosi libri commemoriali, in cui le disposizioni attuate dal gran consiglio vengono
riunite per materia e disposte in modo logico; ma sulla base della documentazione d’archivio riordinata
scrive a sua volta una cronaca di Venezia, una storia certamente celebrativa, che ci dà l’idea di come questi
personaggi politici che hanno una forte formazione giuridica, abbiano l’idea di dover lasciare una loro
versione dei fatti che venga tramandata e tuteli la memoria degli avvenimenti e dei suoi protagonisti.
Leggendoli dobbiamo ricordare che stiamo ascoltando la voce del potere.
Affianco ai cronisti ufficiali che usano il latino, data la loro formamentis (giuristi, notai), abbiamo delle
narrazioni che emergono da un’attività privata (come Caffaro e Rolandino da Padova) e nel loro caso i loro
testi vengono ufficializzati. Ricordiamo che Ludovico Antonio Muratori (segretario del duca di Modena)
non può accedere all’archivio dove sono conservati tali testi perché sono elementi comunali e quindi
riservati, specialmente ad un segretario straniero.
Affianco a questi documenti così ufficiali e importanti, ci sono poi cronache di memorie private (in ambito
toscano c’è un confine sottile tra la ricordanza famigliare e la cronaca), allo stesso modo ci sono autori che
scrivono nelle varie città italiane, si va da un autore tra i più antichi, un anonimo che scrive nella seconda
metà del XII sec in latino (forse è un giurista) e racconta la storia milanese negli anni del conflitto con
Federico Barbarossa, ad autori successivi che raccontano la storia a loro contemporanea non in latino ma in
volgare. Qui vi è una grande differenza perché il volgare è la lingua degli illetterati: sceglierla significa
amplificare il pubblico.
Il professore legge un passo di un anonimo romano che redige una cronaca e dice che ha scelto di
scrivere in volgare affinché più persone possano comprendere.
C’è una volontà di essere letti che è “parente” del coinvolgimento che queste persone hanno con le vicende
della loro città: sono dei patriotti animati dall’orgoglio cittadino che vogliono raccontare in modo che possa
essere capito da coloro che leggono il loro racconto. Lo fanno secondo diversi orientamenti culturali: ad
esempio Martino da Canal, uno dei primi cronisti veneziani, decide di scrivere in francese, essendo lingua di
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comunicazione internazionale, oltre ad essere la più piacevole da ascoltare che ci sia (torniamo al discorso
dei mercanti che usano il francese essendo lingua di comunicazione internazionale) quindi, la sua cronaca
può essere compresa ovunque e vuole portare l’esaltazione di Venezia in tutta Europa.
Ciò porta ad esiti molto diversi, quello meglio documentato è quello toscano (perché aveva un tasso di
alfabetizzazione molto alto). Nel ‘300 a Firenze abbiamo due esempi di opere:
-
-
La grande cronica di Giovanni Villani, che registra eventi del periodo 1265-1348, proseguita da
suo nipote Matteo, che riprende il lavoro dello zio che muore di peste nera. Villani scrive di
cose antecedenti la sua nascita (caratteristica di diverse cronache trecentesche, anche laiche)
appoggiandosi a cronache precedenti, dunque rifacendosi alle storie universali scritte dai frati
che raccontano la storia all’origine del mondo; anche i laici iniziano a premettere al racconto,
degli eventi a loro contemporanei, al contrario dei francescani o domenicani che usano ampi
excursus all’indietro fino all’origine del mondo, per dare un’impostazione morale alla loro
storiografia; questi autori li utilizzano solo per giustificare il successivo sviluppo e successo della
città di cui parlano. Quella del Villani ha una premessa breve ma che dal 1265 si appoggia a
commenti e cronache precedenti, dove ci racconta molte cose di cui parla Dante: quindi questa
cronaca venne usata dai dantisti per saperne di più dei personaggi di cui Dante parla.
Nei primi anni del’300 viene scritto da un fiorentino il libro del biadaiolo, il cui unico
argomento è un’accurata registrazione sull’andamento dei prezzi delle biade (cereali) e dei beni
alimentari a Firenze. Cosa tipica della storiografia: esaltazione del buon tempo antico, cioè sia
per Villani che per l’autore di quest’altro libro, ma anche per Dante i fiorentini di oggi sono dei
mollaccioni, cioè della gente che non sa gestire più gli affari, la città corrotta ecc. L’andamento
dei prezzi è legato all’andamento dei raccolti, in questo periodo si avvertivano i primi effetti del
cambiamento climatico che coincide con la piccola glaciazione. I prezzi molto alti sono
collegabili ad una minore resa agricola dovuta al clima. Ovviamente nel libro ciò viene
interpretato come una punizione divina e ad un’essenziale cattiveria dei mercanti (che non era
del tutto infondata in quanto spesso i mercanti trattenevano parte delle merci per creare una
grande domanda e poter rimettere in circolazione il bene a prezzi più alti). L’andamento dei
grani era anche importante perché una popolazione che mangiava ed era ben nutrita era più
tranquilla. Quindi il libro è importante per conoscere l’andamento della società.
Il fatto di essere esterni al governo dava agli autori di queste cronache private una maggiore libertà di
giudizio e di critica, che vediamo in alcuni dei loro testi, perché tanto l’anonimo romano quanto l’anonimo
fiorentino dimostrano una capacità di interpretare e guardare con occhio critico alla gestione del potere
che in altre cronache più legate ai circoli di potere stesso non possiamo trovare.
Il professore legge un brano su Cola di Rienzo, personaggio interessante, figlio di un notaio, una
persona colta e un pre umanista e soprattutto è un grande trascinatore di folle, che ha questo
sogno di riportare Roma alla grandezza che aveva avuto, di fatti nel brano indica ai romani i
monumenti, per mostrare cosa avessero fatto i loro antenati. Poi ci sarà una prima caduta, ma verrà
rimandato a Roma dove ci torna dopo alcuni anni: è un uomo completamente diverso da quello che
inizialmente l’anonimo aveva conosciuto e l’impatto con questo Cola cambiato è scioccante e
l’anonimo romano non nasconde il suo sconcerto. Viene descritto come un uomo in preda all’alcol,
che ha perso la sua lucidità e infatti finirà malissimo. Ancora più significativo è il brano di un autore
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fiorentino anonimo: abbiamo un racconto dove è evidente la critica nei confronti delle autorità, il
potestà ha trattenuto presso di sé quelli che erano stati accusati di una cospirazione, non li ha
sottoposti a interrogatori, anzi ha cenato piacevolmente con loro, e poi li ha lasciati andare,
essendo di famiglie grandi (differenza di trattamento tra grandi e chi non lo è).
Quindi da un lato abbiamo la grande storiografia degli ordini di tipo accademico con vasti orizzonti,
dall’altro la storiografia cittadina molto legata al locale e alle vicende politiche. Esterna è la storiografia più
privata nella quale si possono riscontrare elementi di critica. Di queste 3 linee avremo una prosecuzione
specialmente della prima, che influenzerà la successiva fase della storiografia colta italiana, quella
umanistica: l’ambizione degli umanisti è di scrivere non più di storie di città, ma storie generali, o storie di
singoli episodi considerati particolarmente rilevanti.
Flavio Biondo mette le basi per la nuova storiografia umanista distinguendo diversi periodi: la storia antica,
quella di Roma e della Grecia (che ancora non è stata riscoperta), la storia di mezzo (il medioevo) e la storia
contemporanea, cioè quella che stanno vivendo in quel periodo. Prendono come modello la storiografia
classica, in quanto stanno riscoprendo gli autori classici (vedi il De bello neapolitano, di Giovanni Gioviano
Pontano sulle guerre di Antonio il Magnanimo, prendendo a modello Giulio Cesare).
11 NOVEMBRE 2023
L’espansione commerciale genovese
Genova, a differenza di Venezia, puntava sul controllo delle rotte, piuttosto che sul controllo delle terre, per
questa ragione i porti erano i nodi della rete commerciale (e politica) genovese, che si estendeva dal bacino
del Mar Nero fino ai porti dell’Inghilterra meridionale e della costa fiamminga.
Il processo di conquista dei porti si svolge in più “tappe” ricostruibili grazie alla documentazione,
specialmente quella contenuta in:
- libri iurium (documentazione diplomatica ufficiale: trattati e concessioni che permettono di
ristabilire i legami stabiliti dal comune di Genova con le varie entità che controllavano i porti)
- atti notarili che a partire dal XIII secolo divennero fondamentali, sia quelli rogati a Genova sia
quelli dei notai genovesi che lavorano negli insediamenti oltremare. Gli atti notarili consentono
di integrare dati offerti dalla documentazione ufficiale perché hanno uno sguardo ravvicinato
sulla società. Iniziano a comparire in questi ambiti gli interpreti che servono a garantire la
piena comprensione tra parti che parlano lingue diverse, esponendo la questione delle “lingue
tramite” (gli interpreti non parlavano tutte le lingue, ma magari parlavano una lingua che
poteva essere usata come lingua franca: nel Mar Nero il persiano, l’armeno o il cumano erano
usati per un’intercomprensione tra persone con diverse formazioni culturali. Venne infatti
realizzato il primo esempio di vocabolario trilingue cumano-latino volgarizzato-persiano, il
codex cumanicus).
- Ad arricchire ulteriormente le conoscenze su Genova, contribuiscono gli annali di Caffaro e i
suoi successori che scrissero annali sincroni (contemporanei agli avvenimenti). Questa base
narrative pressoché continua si estende dal 1099 metà Cinquecento.
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Genova si identifica con l’immagine del porto e la sua lanterna, a differenza di Venezia che si identifica con
il palazzo dogale e la basilica di San Marco (che simboleggiano il potere politico e il santo patrono). Per
Genova tutti gli altri elementi
12 DICEMBRE 2023
Genova e l’Occidente
La conflittualità tra pisani e genovesi persiste e sfocia in un conflitto generale negli anni ’80 del ‘200.
L’evento decisivo fu la battaglia della Meloria (1284), che si svolse nelle acque prospicenti il porto pisano,
ampiamente documentata nelle cronache genovesi e in altre cronache coeve (Salimbene da Parma); Pisa
non riuscirà più a riprendersi dalla sconfitta.
Gli annali genovesi descrivono il prima e il dopo della battaglia (Salimbene riporta la scena della partenza
della flotta pisana, in cui l’arcivescovo Rainieri benedice la flotta in partenza e quando solleva il suo
pastorale e la croce cade in mare, un presagio sinistro).
Lo stratega genovese era Benedetto Zaccaria era il prototipo del mercante della grande espansione del
tempo e pare avesse studiato sul tacticon dell’imperatore Maurizio, testo di riferimento per la strategia
militare.
Nel 1285 una seconda spedizione navale genovese porta alla distruzione del porto pisano, porto lagunare
alla foce dell’Arno che oggi non esiste più. Dopo questo colpo si arriva ad un trattato di pace nel 1288
mediato dai fiorentini riportato dai libri iurium: la supremazia pisana in Sardegna sarebbe dovuta essere
trasferita a Genova, ma ciò venne applicato solo in parte: nel 1294 Sassari effettivamente entrò nell’orbita
genovese diventato un comune pationato (comune autonomo ma legato da patti al comune di Genova, che
in questo caso imponeva che il podestà di Sassari dovesse essere genovese).
Nel caso di Cagliari – porto chiave del Mediterraneo occidentale in quanto al centro del Mediterraneo e
vicina a due elementi economici importanti: le saline (fondamentale per la concia delle pelli e la
conservazione) e le miniere d’argento del Sulcis (attuale Iglesias) – le clausole del trattato di pace non
ebbero effetto: i cittadini pisani di Cigliari rifiutano di riconoscere la validità degli impegni presi da Pisa nei
confronti di Genova, autoproclamandosi comune autonomo.
In ogni caso l’interesse di Genova era di ridurre la capacità di intervento pisano in altre questioni piuttosto
che occupare la Sardegna meridionale.
La Corsica fu motivo principale del conflitto genovese-pisano (più della Sardegna), non tanto per le
produzioni ma per la sua posizione strategica: chi controlla le coste della Corsica può bloccare tutte le rotte
in entrata e in uscita per Genova e Pisa. Quindi altra conseguenza della sconfitta pisana fu consegnare la
Corsica, fondamentale specialmente dal 1282, durante il quale si verificò l’occupazione catalano aragonese
della Sicilia, evento che portò ad una radicale trasformazione negli equilibri mediterranei.
Fasi dell’espansione della corona Catalano-Aragonese:
1. Dalle origini al XIII secolo: la corona mira all’espansione nello spazio iberico e all’instaurazione della
casa di Barcellona sull’arco territoriale tra la valle dell’ebro alle Alpi occidentali (grande Occitania,
territorio unitario dal punto di vista culturale e linguistico)
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2. Dalla fine del XII secolo il progetto di consolidamento viene interrotto dalle conseguenze della
crociata anti-albigese promossa da Innocenzo III. La repressione dell’eresia catara fece crollare le
strutture politiche del mezzogiorno francese e riaprì l’area, che fino ad allora era stato sotto l’orbita
di Barcellona, al controllo del re di Francia.
A partire da Giacomo I il conquistatore la corona d’Aragona deve riprogettare la propria politica
d’espansione. Progetta innanzitutto il passaggio da potenza territoriale a potenza mediterranea. Conquista
innanzitutto le Baleari e regno di Valencia.
Nasce anche la politica pattista: una forma di accordo tra le ambizioni della monarchia, la quale contribuiva
con l’indirizzo politico, e gli interessi delle classi emergenti (ricca borghesia commerciale e casate
aristocratiche), i quali contribuivano con il capitale, impiegato in operazioni di espansione politica
finalizzate alla promozione degli interessi commerciali della borghesia.
Gli interventi in Sicilia non sono solo di interesse dinastico (Pietro III d’Aragona sposa Costanza figlia di
Manfredi di Svevia), ma anche di interesse economico (l’isola era molto ricca, ma era anche punto
strategico d’appoggio per l’Africa, specialmente l’Egitto).
Genova inizialmente non percepisce il controllo catalano aragonese come una minaccia (Genova stessa
aiutò Pietro I d’Aragona alla conquista in un’ottica anti-angioina: Carlo d’Angiò stava cercando di affermarsi
nella penisola come capo della parte Guelfa e Genova, in quanto Ghibellina, si sentiva minacciata), ma si
rivelò un punto di rottura degli equilibri mediterranei.
Genova era all’apogeo della sua potenza militare (nel 1298 sconfigge anche Venezia, con conseguenze
importanti dal punto di vista documentario: venne fatto prigioniero Marco Polo, che incontrò Rustichello da
Pisa, un poeta. Insieme scrivono in francese Il Milione). A fine ‘200 Genova si sente padrona del
Mediterraneo e Barcellona era una sua vecchia alleata, ma il bacino mediterraneo era troppo piccolo per
due grandi potenze mercantili.
I genovesi guardavano alle isole tirreniche come luoghi dove rifornirsi e come luoghi strategici, l’ottica
catalano aragonese invece combina i vantaggi mercantili agli interessi di affermazione politica, al fine di
controllare i territori. Nel 1297 Bonifacio VIII nel tentativo di ottenere la restituzione della Sicilia per suoi
protetti angioini, concede ai catalano-aragonesi licentia invadendi su Sardegna e Corsica, creando un regno
da barattare in cambio della Sicilia. I siciliani si rifiutano di tornare sotto gli angioini e proclamano il fratello
di Giacomo, don Federico che divenne Federico III. Ciò diede vita ad una guerra mediterranea dei 100 anni.
Un altro elemento condizionate nella politica genovese fu la ri-apertura a fine ‘200 della rotta verso
l’Atlantico (già usata dai Fenici), ma che non era stata percorsa perché lo stretto di Gibilterra erano sotto il
controllo musulmano. I sovrani castigliani riescono ad occupare Siviglia, sede di mercanti genovesi,
rendendo più facile per le navi cristiane effettuare questo tragitto. Dal 1278 abbiamo notizia di navi
genovesi nei porti inglesi e fiamminghi.
Ciò aumentò la conflittualità con la corona d’Aragona in quanto il progetto catalano-aragonese della
“diagonal insular” (cioè i tentativi catalani di assumere il controllo delle Baleari, della Sicilia, della Sardegna
e della Corsica per andare in direzione di Alessandria d’Egitto) e il progetto genovese (cioè la rotta
dall’Anatolia all’Atlantico) finiscono per incrociarsi e per entrare in conflitto. Inoltre, i tentativi catalani di
assumere il controllo della Corsica rinnovano la minaccia per le rotte in entrata e in uscita da Genova.
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I genovesi nel XIII secolo svilupparono tecniche costruttive innovative, legate alla tipologia di merci in cui
Genova si specializza, cioè:
1. quei beni che per essere redditizie devono essere commerciate in grandi quantità come il grando, il
vino, il sale e l’olio, (i veneziani invece sono i protagonisti del traffico di merci ad alto valore
aggiunto come le spezie e i tessuti pregiati)
2. quelle merci che diventano specialità dei genovesi nel commercio Atlantico (il guado, prodotto
nella Pianura Padana usato per la tintura del blu, e l’allume, sale usato come agente fissante che si
ricava attraverso la raffinazione dell’allumite, minerale che si trova in abbondanza dove ci sono
fenomeni di vulcanismo, specialmente dai giacimenti dell’occidente della Turchia, trasportati verso
i mercati inglese e fiammingo, due luoghi dove si sviluppa l’industria tessile).
Le galee erano poco adatte al trasporto di grandi carichi perché capacità poco ridotta. Inoltre, erano navi
non adatte alla navigazione nell’Atlantico perché richiedevano di tenersi vicino alle coste e avrebbero
imposto percorsi troppo lunghi. Le grandi navi a vela presentano dei vantaggi: sono molto alte e pesanti e
resistono alle condizioni della navigazione Atlantica e consentono di tagliare il golfo di Biscaglia partendo
dalla Spagna nord-occidentale e prendendo la volta a largo della Bretagna. Permettono anche di allargare i
periodi di navigazione: solitamente in inverno non si navigava, con queste grandi navi invece si poteva
navigare da febbraio ad ottobre.
Queste navi producono la grande trasformazione e i documenti notarili genovesi ne sono testimonianza:
danno descrizioni di queste navi: due ponti, possibilità di trasportare oltre 300 tonnellate di merce e 300
passeggeri oltre all’equipaggio. La rotta verso nord diventa consueta: ogni anno almeno 20 navi percorrono
questa rotta dai porti mediterranei. Il porto di Genova era meno praticato dalle navi genovesi rispetto in
precedenza: vanno dall’Anatolia all’Andalusia e poi verso nord. Quando tornano cariche da lana vanno a
porto pisano (di Firenze).
Tra le testimonianze troviamo uno scritto di Jacopo Doria risalente al 1291, che dà notizia della spedizione
dei fratelli Vivaldi che va a sud una volta passato lo stretto di Gibilterra. La spedizione non tornerà mai
indietro. Sollevò molti interrogativi sulla motivazione della spedizione: era volta ad una semplice
esplorazione? Era un tentativo di raggiungere i Paesi dell’oro (Golfo di Guinea)? O di circumnavigare l’Africa
per andare in India (Asia meridionale)? È possibile che questo documento, per coincidenza di tempi e per
presenza di riferimenti espliciti, abbia ispirato l’ultimo viaggio di Ulisse descritto da Dante.
In conseguenza dello sviluppo del commercio nel Mediterraneo nacque un conflitto aperto tra la corona
d’Aragona e Genova, specialmente da quando Giacomo III inizia a concretizzare il controllo sulla Sardegna:
nel 1323 ci fu la prima spedizione e già nel 1324 l’isola sembra essere sotto il controllo catalano aragonese.
Da quel momento in poi inizieranno le guerre di Sardegna volte alla conquista dell’isola, una vicenda che
sarà molto pesante dal punto di vista economico e umano per la Corona d’Aragona e che si estenderà per
più di 150 anni.
La parte nord della Sardegna, cioè il vecchio giudicato di Torres, era divisa tra il comune di Sassari e diverse
potenze locali.
A Cagliari i pisani tentarono un’ultima resistenza, guidati dai Doria, famiglia aristocratica genovese che
aveva grandi interessi economici in Sardegna.
La Corsica era divisa in 4 grandi insediamenti:
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1. Bonifacio, considerata uno dei punti fondamentali per il controllo della navigazione del
Mediterraneo occidentale. Bonifacio ha una parte quasi vuota e la città alta sulla rocca, nelle cui
scogliere c’è il porto. Genova manda via la popolazione originaria e ripopolando l’aera con coloni
liguri (la parlata tipica di Bonifacio appartiene alle lingue liguri, un gruppo diverso dalle parlate
corse, fortemente influenzate dal toscano).
2. Calvi nella quale si parlava dialetto ligure
3. Bastia ad Est
4. Ajaccio ad Ovest, ri-fondata nel 1492 e completa la rete di controllo della Corsica.
L’espansione ottomana cancella la presenza veneziana e genovese in oriente e chiude gli spazi commerciali.
Ciò venne vissuta come una grande minaccia dal punto di vista economico, ma non per l’esistenza stessa di
Genova. Invece la corona aragonese è vissuta come una minaccia sia dal punto di vista economico sia per
l’esistenza stessa del comune di Genova (infatti cercarono di assassinare Alfonso V).
Lo sviluppo della navigazione atlantica portò a una definizione migliore delle conoscenze cartografiche (le
carte nautiche diventano sempre più precise). Inoltre, le innovazioni nell’ingegneria navale portarono ad
una modifica dei porti. Venezia adattava le navi ai porti, limitando la portata delle sue navi affinché non
avessero problemi nel porto lagunare di Venezia e in quello di Alessandria, approdo principale dei
veneziani, ma con problemi di fondo particolari, quindi non potevano accogliere navi grandi.
I genovesi invece che puntarono sulle navi giganti e adattano i porti alle navi: se i porti d’arrivo erano
inadatti alle grandi navi, allora approdavano in altre città. Ad esempio, l’avamporto di Bruges, Sluis, oggi nei
Paesi Bassi, non era adatto a ricevere una grande nave perché si stava interrando: i fondali erano sabbiosi e
troppo bassi. I genovesi smisero di andarci e iniziarono ad attraccare nell’isola di Walcheren e spostarono la
base ad Anversa che è in acque profonde.
In Inghilterra il mercato principale è Londra, ma il porto più importante è Sandwich, vicino all’estuario del
Tamigi. Il vecchio ponte di Londra era uno sbarramento, bisognava passarci sotto usando piccole
imbarcazioni. e usare piccole chiatte. Ma Sandwich era sabbioso, quindi venne cambiato con Southampton,
che ha un porto naturale ottimo. Il Solent è un fiordo protetto dall’isola di Wight, che impedisce alle
tempeste atlantiche di entrare. Southampton divenne una delle città più ricche del regno e gli imprenditori
locali lucrarono sul trasporto via terra delle merci verso Londra. A Londra c’erano movimenti di tipo
xenofobo, aizzati dai locali per far derubare i mercanti stranieri, a Southampton invece non avvivano,
perché gli stranieri sono coloro che avevano portato la ricchezza e si cercava di farli rimanere e di favorirli.
Questo commercio del nord è alimentato nel corso del XV secolo dal regno musulmano di Granada. È
talmente connotato che in molti documenti notarili quando si fa riferimento a Granada lo si chiama il regno
della frutta. È la zona dove ci si procurano grandi quantità di datteri, fichi, uva passa… un commercio
fondamentale e molto redditizio all’epoca. Siccome nel nord la possibilità di avere della frutta era limitata
ad una stagione breve, era un prodotto di lusso e di ostentazione sociale. Una cassetta di fichi costava
l’equivalente di 15£, considerando che una rendita annua di 20£ era una somma adeguata a mantenere
uno stile di vita da gentiluomo. Il regno di Granada fu uno dei nodi fondamentali del commercio
mediterraneo fino alla sua fine (1492).
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Quando Colombo si rese conto (e ammise conto i suoi interessi) di aver scoperto un territorio nuovo,
Lisbona diventa la nuova Alessandria, ovvero il punto di snodo delle spezie (perché furono i portoghesi ad
arrivare per primi in India via mare) e Siviglia divenne il nuovo centro commerciale del mondo. Siviglia è
sede della più importante comunità genovese fuori Genova, già popolata prima della conquista spagnola (il
quartiere aveva così tanti abitanti che richiedeva due consoli). Il quartiere era in una posizione strategica,
ricevuto da Ferdinando III il Santo, ed era collocato tra il porto fluviale di Siviglia e la cattedrale (la strada
che passa di fronte alla cattedrale si chiama Calle Genova).
Le correnti di commercio cambiano e Genova ne rimane inserita. Molti finanziatori dei viaggi di Colombo
erano genovesi membri della Santa Hermandad, la confraternita dei mercanti di Siviglia.
13 DICEMBRE 2023
In Sardegna la penetrazione genovese avviene attraverso diverse forme, grazie a molte famiglie liguri, in
particolare i Doria, che si inseriscono nel contesto locale.
I Doria si interessano principalmente alla parte nord e si inseriscono in modo profondo nella realtà sarda,
con una politica autonoma rispetto il comune di Genova
Fonti:
-
-
Diplomatiche: liber privilegiornum della chiesa genovese: nel caso sardo i sovrani locali
soprattutto nella prima fase faticano a inserire nei loro progetti la struttura del comune e
trovano più semplice rapportarsi con istituzioni che conoscono (chiesa cattedrale e collegio dei
canonici). Contiene i documenti più antichi tra Genova e le libertà sarde. Poi ci sono i libri
iurium del comune, a partire dal XII secolo le relazioni diventano più intense e l’istituzione
comunale diventa qualcosa di più noto e abituale e i rapporti non sono più mediati dalla Chiesa,
ma sono direttamente tra i giudici e il comune. La redazione dei libri iurium non prevede la
cancellazione dei documenti originali e questi sono conservati nell’archivio genovese
Documenti di cancelleria: dal XIV secolo in poi (diversorum nell’archivio di Genova, registri
nell’Antico Archivio Regio a Cagliari, registri Sardinee nell’Archivo de la Corona de Aragon a
Barcellona)
A queste fonti ufficiali possiamo aggiungerne altre che provengono dall’amministrazione dei Doria in
Sardegna:
- Statuto di Castelsardo (all’epoca Castelgenovese) 1335: approvato da Cassano Doria che era
signore di Castelgenovese che ingloba materiale del periodo precedente. È scritto in
Logudorese. Ci sono giunti incompleti ma abbiamo comunque più di 100 capitoli
-
Statuti del Porto di Castelgenovese del 1435. Sono stati coinvolti nella vicenda dei Falsi
d’Arborea: l’archivio giudicale di Arborea era scomparso e nell’800 emersero dei documenti che
pareva venissero dall’archivio perduto, tra cui il testo degli Statuti del porto di Castelgenovese
del 1435. Ci fu un grande dibattito e anni dopo ci si rese conto che alcuni documenti erano falsi.
Negli anni ’50 dell’800 Ignazio Pillitto, per vendicarsi dell’appropriazione di lavoro fatta dagli
studiosi dell’accademia torinese, iniziò a usare le sue abilità per redigere documenti falsi
utilizzando fogli bianchi. Aveva lasciato indizi come il nome del poeta (Torbeno Fallitti).
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Pasquale Tola, studioso sassarese, aveva accusato la falsità di tali documenti, ma era stato
ignorato e veniva accusato di essere invidioso rispetto uno sviluppo letterario del cagliaritano.
Theodor Monsen identificò questi documenti come falsi e scoppiò lo scandalo. Nel giudizio di
falsità finirono tutti i documenti, tra cui gli Statuti del Porto di Castelgenovese. Ciò accadde
perché dei fogli bianchi degli Statuti del Porto di Castelgenovese erano stati usati da Ignazio
Pillitto per scrivere una cronaca della città di Plubium, città romana dove oggi sorge Ploaghe,
città natale di Spano, il quale aveva abboccato alla cronaca che dimostrava la sua ipotesi che
Ploaghe fosse l’antica città di Plubium.
Poi gli statuti vennero dopo 100 anni riabilitati e risiedono oggi nell’Archivio di Cagliari.
-
Documenti notarili: Oltre ai testi statutari abbiamo un minutario (cartulare) di un notaio
genovese, Francesco da Silva (conservato nell’archivio di Genova) che roga atti per la famiglia
doria e segue Brancaleone Doria I (immortalato da Dante anche se è ancora vivo nel 33° canto
dell’inferno, riservato ai traditori della famiglia in quanto secondo Dante aveva fatto
assassinare suo suocero Michele Zanche, che anch’egli si trova all’inferno). Brancaleone aveva
molto potere ed era precipito come una figura pericolosa da parte di coloro che avevano
interessi in Sardegna. Francesco da Silva seguì in Sardegna Brancaleone, il quale si comportava
come un sovrano, perché aveva dei diritti che gli permettevano di considerarsi come tale.
Anche l’archivio di Savona conserva molti atti notarili perché divenne principale terminale della
rotta Liguria-Sardegna.
Disponiamo di una documentazione piuttosto ampia.
- Enrico Besta e Arrigo Solmi: sono i primi a scrivere delle storie della Sardegna viste dal punto di
vista istituzionale e fondate su una rigorosa analisi dei documenti. Inaugurano un filone. C’era
una sorta di pregiudizio verso i sardi e la loro storia che Besta e Solmi iniziano a scalfire
- Geo Pistarino studio filologico del 1956 dedicato al nome dei mesi del calendario sardo ha
smontato secoli di elucubrazioni erudite sull’argomento. In Sardegna si applicava un calendario
diverso e aveva fatto sorgere le ipotesi più strane (andava da Caputanni – settembre – a
Triulas). Pistarino capì che ciò nasceva da un’elaborazione locale del calendario bizantino, che
iniziava con il 1° settembre. Poi si concentrò sui secoli XII e XIII sui documenti di cancelleria
diplomatica ricostruendo l’insieme dei rapporti tra Genova e Sardegna ed evidenziando
attraverso un’analisi testuale la compresenza di tradizioni diverse: la Sardegna ha mantenuto
tradizioni romano-germaniche (portata da Genova) e tradizioni bizantine, delle cancellerie
giudicali.
- Laura balletto: studi approfonditi nel fondo notarile genovese del XIII secolo, ricostruendo i
rapporti commerciali tra Genova e la Sardegna.
- Origone e Giovanna Petti Baldi si concentrano sul XIV secolo dal punto di vista giudicale
- Giuseppe Meloni si concentrano sul XIV secolo dal punto di vista aragonese
- Francesco Cesare Casula fece una sintesi delle acquisizioni
La Sardegna (specialmente il sassarese) è il centro del Mediterraneo occidentale su cui si concentrano le
ambizioni e i programmi di espansione delle grandi potenze commerciali del Mediterraneo Occidentale.
Quindi diventa fondamentale inserirsi nell’isola. Le forme per farlo sono
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L’alleanza iniziale tra Genova e Pisa ha come suo episodio fondatore la necessità di eliminare le basi
dell’Emiro di Denia aveva instaurato nelle coste sarde e che minacciavano la navigazione pisana e
genovese. Tra il 1114 e il 1115 pisani e genovesi eliminarono queste basi e poi penetrarono nella società,
legandosi attraverso i matrimoni. I Doria si legano alla dinastia regnante del giudicato di Torres: i Doria
acquisiscono titoli e beni all’interno della società sarda. Già a inizio ‘200 il radicamento è profondo.
La società giudicale messa in contatto con le realtà continentali si dimostra permeabile e le sue strutture
fragili (specialmente al vertice): le famiglie giudicali si lasciano coinvolgere nel gioco della politica dei 2
comuni vedendo manipolate (i giudici di Cagliari e Torres vengono coinvolti nelle questioni interne a Pisa).
La dinastia cagliaritana viene sostituita dai marchesi di Massa, i quali hanno cura nei confronti della
popolazione locale di presentarsi con le caratteristiche che avevano avuto i giudici e mantengono nel caso
cagliaritano l’abitudine di assumere nomi sardi per regnare e di alternare due nomi di regno (i giudici di
cagliarsi si chiamano Salusio e Torchitorio).
Nel nord i Doria mantengono le strutture amministrative tradizionali.
Momenti principali di penetrazione genovese nel territorio e nella società isolana:
 Accordi stabiliti con i giudici cagliaritani, testimoniati dai liber privilegiorum della Chiesa genovese.
Sono concessioni di “dominicalias”, cioè una curtis. Inizialmente si orientano verso Cagliari perché
ha una posizione strategica verso l’Africa, ha inoltre le saline e le miniere d’argento del Sulcis. I
pisani avranno la meglio a Cagliari e insediano una loro comunità: la città venne divisa infatti in una
Cagliari pisana e una Cagliari giudicale “sarda”
 I genovesi spostano più a nord le loro ambizioni e nel 1131 firmano i trattati di Comita II d’Arborea:
stabilisce un’alleanza secondo la quale pone sé stesso, suo figlio Barisone e tutto il suo giudicato
sotto la protezione del comune di Genova. Comita coltivava l’ambizione di allargare il giudicato
d’Arborea nelle terre del giudicato di Torres. Oltre che a concedere ai genovesi lo sfruttamento
delle eventuali miniere d’argento dell’Arborea (che in realtà non ci sono), fa anche dono delle
miniere di Torres (molto ricca). Si avvia un rapporto che avrà conseguenze complesse e non del
tutto positive per l’Arborea
 1164-1178: Barisone, figlio di Comita II si appoggia ai genovesi nel tentativo di ottenere il
riconoscimento della sua supremazia su tutta l’isola. Genova lo appoggia in un’ottica anti-pisana. Lo
fanno arrivare sul continente, pagano a suo nome un tributo di 4000 marche a Federico Barbarossa
e ottengono che l’imperatore lo proclami re di Sardegna – la corona era prodotta a Genova, ciò
significa che era tutto programmato.
I pisani contestano la validità dell’incoronazione e anche gli altri giudici sardi si rifiutano di
riconoscerlo Rex Sardinee. Barisone aveva preso degli impegni (le 4000 marche d’argento erano
state raccolte da dei finanziatori ai quali Barisone aveva dato dei titoli). Barisone venne quindi
sequestrato a Genova e fu costretto a consegnare i vari castelli.
 1256: ci fu un tentativo di convincere Guglielmo III Cepolla, giudice di Cagliari facente parte della
famiglia Massa, a passare dalla parte di Genova. I Massa sentivano la presenza pisana sempre più
stretta e soffocante. I genovesi però erano impegnati su troppi fronti e non riescono a sostenere in
modo adeguato l’impresa sarda. La reazione pisana blocca il progetto e il giudicato cade e viene
diviso in 3 (1 parte ai Della Gherardesca, 1 ai Capraia e 1 direttamente controllata dal comune di
Pisa).
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
1287-1288: dopo la battaglia della Meloria (1284) ci furono lunghe e complesse trattative che si
svolgono a Firenze per arrivare ad un trattato di pace ribadiscono ulteriormente le ambizioni da
parte di Genova: una delle clausole era che le città di Cagliari e Sassari passassero a Genova (cosa
che accadde solo con Sassari, che dal 1294 al 1323 è un comune pationato rispetto Genova).
In occasione delle trattative a Firenze Dante venne a conoscenza della figura di Brancaleone, il
quale faceva parte della delegazione genovese che trattava con i pisani e ne faceva parte come
rappresentante degli interessi del consortile dei Doria in Sardegna e non come membro dell’élite di
governo genovese.
I Doria sono più famiglie unite dal consortile: una caratteristica dei Doria è il mitico capostipite: una donna.
Fanno risalire la loro origine e i loro titoli ad Oria (o Orietta), figlia del visconte di Narbona (illi de Auria:
quelli di Oria, i discendenti di Oria).
I Doria in Sardegna hanno creato un complesso di beni ed interessi che si presenta come un’entità statale le
prime notizie dei beni fondiari dei Doria risalgono agli anni ’30 del XIII secolo.
Dopo il linciaggio di Barisone III di Torres Lacon de Thori nel 1236, il potere passa a sua sorella Adelasia,
durante cui giudicato avvengono le prime concessioni ai Doria. Adelasia rimane vedova di Ubaldo Visconti,
un pisano giudice di Gallura, e i Doria (apertamente ghibellini) fanno da tramite tra Federico II e Adelasia
per il matrimonio con suo figlio illegittimo Enzo, che diventa re di Sardegna. Il matrimonio rimane sulla
carta perché Enzo rimarrà sul continente e dopo la battaglia di Fossalta (1249) venne catturato dai
bolognesi, i quali lo tengono come ostaggio nel Palazzo di re Enzo in Piazza Maggiore.
Adelasia strinse un legame con il Michele Zanche, definito giudice di fatto in quanto maggiore consigliere
della giudicessa. Sassari è l’unico a svilupparsi come un comune e Michele era il leader riconosciuto
dell’oligarchia.
Negli anni ’70-80 del ‘200 vediamo sorgere molte nuove fondazioni ad opera dei Doria (Alghero,
Monteleone, Castelgenovese, Casteldoria). Queste 4 fondazioni sono a coppie:
1. sulla costa nord abbiamo Castelgenovese sulla costa e Casteldoria nell’entroterra,
2. nella costa ovest abbiamo Alghero sulla costa e Monteleone nell’entroterra.
Il popolamento: troviamo dei sardi attestati ma troviamo soprattutto un popolamento corso proveniente
da Bonifacio (la quale a sua volta era stata popolata da liguri) e persone che vengono dal continente (area
basso Piemonte ed Emilia occidentale).
Questa doppia presenza rispetta l’organizzazione che i Doria danno ai territori sotto il loro controllo:
mantengono inalterato per i soggetti sardi il sistema amministrativo tradizionale (le coronas – consigli
amministrativi che fungono anche da tribunali - composti dagli iuratos e presdietudi dai maiores).
Al di sopra di quest’organizzazione ci sono i podestà e i vicari che rappresentano l’autorità dei dominus.
L’attività di emanazione di una normativa statutaria rispecchia la presenza di una popolazione prettamente
continentale.
Brancaleone I è sardo per parte di madre (Preziosa, figlia di Mariano II di Torres) e Doria per parte di padre.
Nel 1299, dopo la morte di Adelasia, ottiene da Bonifacio VIII una bolla con la quale viene riconosciuto
come giudice, ma viene annullato l’anno successivo perché i Doria si schierano dalla parte di Federico III di
Trinacria degli angioini e i Doria vengono scomunicati.
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Brancaleone ne approfitta e tenta di ottenere un riconoscimento imperiale da parte di Enrico VII (Arrigo
VII), cosa che non avverrà, ma continuerà a considerarsi come tale (i suoi sigilli, di cui ne è sopravvissuto
solo uno ai bombardamenti della II guerra Mondiale, erano bulle in argento, un tipo di sigillo che rimanda
ad una condizione sovrana. Mostra da un lato l’Aquila dei Doria e dall’altra la torre di Torres. Lui si
considerava sovrano di Torres e si circonda di una corte con molti elementi sardi).
Tanto Brancaleone quanto i suoi successori si impegnano per sviluppare il territorio che controllano dal
punto di vista economico: l’attività agraria riceve un notevole impulso e c’è un incremento di scambio
commerciale con il continente:
- i prodotti agricoli raggiungono il continente per il tramite del porto di Savona
- i prodotti artigianali arrivano in terra sarda dal continente.
Ci furono concessioni sul commercio per l’abate di San Fruttuoso (abazia sulla quale i Doria hanno il
giuspatronato, lo ius patronatus, «diritto di patronato») al quale vengono assegnati dei beni fondiari in
Sardegna e lo autorizza ad esportare senza pagare dazio ciò che verrà prodotto da queste terre.
Il giudicato di Torres:
Una parte viene annessa al giudicato di Arborea, una parte va ai Doria, una parte comune di Sassari, una
parte ai Malaspina. Questa spartizione spiega come mai la vera ostilità nel ‘300 sarà tra l’oligarchia
sassarese e i Doria, che avevano interessi conflittuali: i Doria volevano consolidare i loro poteri nella
Sardegna nord-occidentale e l’oligarchia sassarese mirava ad allargarsi.
In realtà la parte che non riusciva a mettersi d’accordo era proprio l’oligarchia sassarese. Perché i Doria
erano disposti a mettersi d’accordo con i catalano-aragonesi. Inoltre i Doria si legano sempre di più al
giudicato di Arborea: Brancaleone III sposa Eleonora d’Arborea, giudicessa dell’Arborea. Dopo la morte di
suo fratello, Eleonora che si trovava a Genova torna in Sardegna perché il consiglio dell’Arborea ha
dichiarato che il figlio maggiore della coppia, Federico Doria, è il nuovo giudice.
Ciò crea problemi con la corona d’Aragona perché non chiedono il consenso a Pietro IV e la corte di
Barcellona è sospettosa. Brancaleone si reca a Barcellona per cercare di raggiungere un accordo ma viene
arrestato e tenuto prigioniero per 10 anni, usato come ostaggio nei confronti di Eleonora che ha assunto il
governo in nome di Federico. Egli muore e viene sostituito dal fratello Mariano V.
Nel 1388 ci fu l’ultima pax sardinee in cui viene stabilito un accordo e Brancaleone viene liberato. La pace
dura poco perché se i Doria erano disposti a essere vassalli della corona d’Aragona, il vero problema erano
gli Arborea che si consideravano dei sovrani e non accettavano di essere soggetti ad un altro sovrano e
Brancaleone si schiera dalla parte degli Arborea. Scrive anche una lettera, una rivendicazione di sovranità.
La Sardegna era al centro dei domini catalano-aragonesi e non prendevano in considerazione rinunciarvici.
Brancaleone viene messo fuorigioco all’inizio del ‘400 con la morte del figlio e della moglie, perché egli era
giudice di fatto, non aveva una legittimità sovrana (per di più era figlio illegittimo dei Doria) e il titolo viene
passato al Visconte di Narbona (imparentato con la famiglia giudicale)
Brancaleone e i suoi figli illegittimi si ritirano nelle terre a nord e continuano la resistenza verso le pressioni
dei ceti oligarchici di Sassari e Alghero, la quale era stata ripopolata con catalano-aragonesi.
Nel 1447 viene stretta un’alleanza tra il doge di Genova Giano Campofregoso e Alfonso V d’Aragona. Si
mette fine agli scontri e si cerca una composizione delle controversie economiche e in un capitolo si fa
menzione dei beni dei Doria in Sardegna che devono essere rispettati. Ma il trattato non viene ratificato da
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Genova, perché viene visto come se il doge volesse procurarsi l’appoggio del re per trasformare il dogato in
una signoria/regno.
Nel 1448 Nicoloso Doria, ultimo signore di Castelgenovese, decide di scendere a patti con i catalanoaragonesi e consegna la città in cambio di denaro.
I genovesi non avevano rinunciato alla Sardegna e nel 1454 Il doge Pietro Campofregoso fa un’alleanza con i
baroni ribelli del Regno di Napoli e garantisce appoggio militare genovese e l’invio di una flotta mandata
nelle acque napoletane. Il marchese di Crotone, capo dei congiurati che ambiva e diventare re di Napoli si
impegnava a consegnare la Sardegna ai genovesi una volta diventato re. L’impresa però fallì.
L’unione della corona di Castiglia con la Corona d’Aragona del 1479 e la costituzione della monarchia di
Spagna con un grande prevalere castigliano si presenta come la soluzione alle discordie in quanto la
Castiglia era antica alleata di Genova. Vengono chiusi i contenziosi e nel 1481 si riaprono i porti di Sardegna
alle navi genovesi, l’obbiettivo dei genovesi.
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