Ápeiron Mi è capitato molte volte di ripensare a questa frase: "Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus", chiedendomi il suo senso. Letteralmente vuol dire: “La rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”. Umberto Eco chiude così Il nome della rosa, il suo capolavoro di linguistica. Nell’impermanenza della vita tutto finisce e, dunque, come dire delle cose quando queste hanno perduto il senso dell’esistere e non ne resta che il nome? Finisce il tempo mai esistito davvero, la convenzione che ci fa dire adesso un eterno divenire? Anche il ricordo è presente che cambia, mai uguale a se stesso, come la storia, secondo il punto di vista. Tra la vita e il vissuto c’è la poesia, la parola che ci suona il corpo, che ci fa vibrare l’essere, che sorprende nello slancio a dare il nome a un frammento vissuto, fotogramma emotivo che dilata lo spazio interiore fino all’ultimo orizzonte e si attualizza nella nostra mente. «L’essere per me è l’essere della significanza», scriveva Lacan (psicanalista e filosofo), e, dunque, con l’arte della parola proviamo a dare un significato alle nostre verità inconsce. Forse è soltanto un’illusione. Nel percorso che resta da fare, sul binario che tende all’infinito (inganno del finito), urge togliere il superfluo, salvare il tempo concesso all’essenza. Non è facile tendere all’epifania di un verso, lasciarsi andare a quello che preme per inserirsi tra i silenzi in sosta. Un prima e un poi non esistono nel concepimento di una visione totalizzante, nella dimensione intera dell’arte che ci consente la contemporaneità di realtà e illusione, ragione e follia, così come l’amore più grande può fare. La parola ci smuove portandoci a considerare il noi oltre l’io mutevole, egosensibile ed ego-sostenibile, verso la logica dell’illogico e il mistero di una poesia che tenti di rendere comprensibile l’incomprensibile, in un percorso di piena libertà: linguaggio che non spieghi, che non descriva ma riveli ciò che il pensiero nasconde. Patrizia Stefanelli