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La nascita della Meccanica Quantistica

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INDICE DELLA PARTE II
Cap. 1 - Le radici della meccanica quantistica (1900-1925)
p. 118
La radiazione del corpo nero e i quanti di luce p. 119 - I modelli
atomici p. 124 - Il modello atomico di Thomson p. 125 - La teoria di Rutherford p. 127 - L’atomo di Bohr p. 129 - Condizioni
di quantizzazione di Sommerfeld e generalizzazione della teoria
p. 136 - L’altra strada: Ehrenfest ed Einstein p. 140 - Il principio di corrispondenza p. 145 - Bohr e la tavola periodica p. 146 Effetto Zeeman anomalo p. 148 - Gli esperimenti di SternGerlach e di Compton p. 151 - Il principio di esclusione e lo
spin dell’elettrone p. 153 - La teoria della radiazione di BohrKramers-Slater e le onde di de Broglie p. 156
Cap. 2 - Introduzione storica, traduzione e note di commento all’articolo “Über die
quantentheoretische Umdeutung kinematischer und mechanischer Beziehungen” di W. Heisenberg
p. 161
Heisenberg e la via verso la teoria delle matrici p. 162 - Precedenti ricerche di Heisenberg p. 162 - “Reinterpretazione quantistica delle relazioni cinematiche e meccaniche” di W. Heisenberg p. 171
Cap. 3 - Introduzione storica, traduzione e note di commento all’articolo “Quantisierung als Eigenwertproblem – Erste Mitteilung” di E. Schrödinger
p. 190
Schrödinger e la via verso la meccanica ondulatoria p. 191 - “La
quantizzazione come problema agli autovalori - Prima comunicazione” di E. Schrödinger p. 197
Cap. 4 - Storiografia della meccanica quantistica
p. 218
Introduzione p. 219 - A che serve la storia della scienza? p. 219
- Storia della scienza o storia della scienza? p. 220 - Storiografia
della meccanica quantistica p. 221
Bibliografia
p. 230
117
PARTE II
LA NASCITA DELLA MECCANICA QUANTISTICA
(1900-1926)
di Francesco La Teana
*
*
Preside dell’Istituto Tecnico Commerciale “A. Gramsci” di Milano.
118
INDICE DELLA PARTE II
Cap. 1 - Le radici della meccanica quantistica (1900-1925)
p. 120
La radiazione del corpo nero e i quanti di luce p. 121 - I modelli
atomici p. 126 - Il modello atomico di Thomson p. 127 - La teoria di Rutherford p. 129 - L’atomo di Bohr p. 131 - Condizioni
di quantizzazione di Sommerfeld e generalizzazione della teoria
p. 138 - L’altra strada: Ehrenfest ed Einstein p. 142 - Il principio di corrispondenza p. 147 - Bohr e la tavola periodica p. 148 Effetto Zeeman anomalo p. 150 - Gli esperimenti di SternGerlach e di Compton p. 153 - Il principio di esclusione e lo
spin dell’elettrone p. 155 - La teoria della radiazione di BohrKramers-Slater e le onde di de Broglie p. 158
Cap. 2 - Introduzione storica, traduzione e note di commento all’articolo “Über die
quantentheoretische Umdeutung kinematischer und mechanischer Beziehungen” di W. Heisenberg
p. 163
Heisenberg e la via verso la teoria delle matrici p. 164 - Precedenti ricerche di Heisenberg p. 164 - “Reinterpretazione quantistica delle relazioni cinematiche e meccaniche” di W. Heisenberg p. 173
Cap. 3 - Introduzione storica, traduzione e note di commento all’articolo “Quantisierung als Eigenwertproblem – Erste Mitteilung” di E. Schrödinger
p. 192
Schrödinger e la via verso la meccanica ondulatoria p. 193 - “La
quantizzazione come problema agli autovalori - Prima comunicazione” di E. Schrödinger p. 199
Cap. 4 - Storiografia della meccanica quantistica
p. 220
Introduzione p. 221 - A che serve la storia della scienza? p. 221
- Storia della scienza o storia della scienza? p. 222 - Storiografia
della meccanica quantistica p. 223
Bibliografia
p. 232
119
CAP. 1
LE RADICI DELLA MECCANICA QUANTISTICA 1900-1925
120
La radiazione del corpo nero e i quanti di luce
Il problema dello studio dell’emissione della radiazione da parte di un corpo riscaldato fu posto in maniera quantitativa per la prima volta da Kirchhoff [Kirchhoff,
1859]. Egli stabilì che il rapporto tra potere emissivo - quantità di energia emessa
dall’unità di superficie, nell’unità di tempo, per una data lunghezza d’onda, ad una certa
temperatura – e potere assorbente non dipendeva dal corpo utilizzato, ma solo dalla lunghezza d’onda della radiazione emessa o assorbita e dalla temperatura,1 cioè:
e
   , T  .
a
L’anno successivo lo stesso autore [Kirchhoff, 1860, sez. 1], denominò “corpo nero” un corpo ideale in grado di assorbire radiazioni di tutte le lunghezze d’onda. Per un
corpo nero a=1 e il potere emissivo coincide con la funzione universale (,T). Lo studio dell’emissione elettromagnetica di un corpo nero riscaldato avrebbe quindi consentito di trovare la funzione (,T), e avrebbe anche aperto la strada alla comprensione dei
meccanismi di emissione della materia.
Nel 1879 Stefan propose la seguente legge che legava la densità di radiazione calcolata su tutto lo spettro delle frequenze alla temperatura del corpo emittente [Stefan,
1879]:
=T4 ,
dove =cost.
Qualche anno dopo Boltzmann, riprendendo un suggerimento del fisico fiorentino
Bartoli [Bartoli, 1876], che aveva tentato di trattare il problema unendo considerazioni
termodinamiche ad altre di natura elettrodinamica, ricavò teoricamente la formula precedente, denominata per questo legge di Stefan-Boltzmann [Boltzmann, 1884].
Nel 1893 W. Wien invece di considerare la densità di energia su tutte le frequenze
dello spettro, cominciò a lavorare con la densità di energia suddivisa tra le varie lunghezze d’onda. In una serie di articoli pubblicati tra il 1893 e il 1896, approdò ad importanti risultati [Wien, 1893, 1894, 1896]. Stabilì che la densità di energia doveva avere la
forma:
u   3 f  / T  ,
quindi tentò di ricavare esplicitamente la funzione u, ottenendo:
(




 u  a 3 exp  b  .
 T
Dal 1895 Planck cominciò ad occuparsi dell’argomento con una serie di articoli
finalizzati a fornire una base teorica all’equazione (1). Il suo percorso, fino al 1900, si
può così schematizzare:
- introduzione dell’oscillatore armonico o risonatore come modello di struttura della
materia. Tale scelta era dettata dal fatto che la “radiazione nera” era indipendente dal
corpo emittente e quindi l’oscillatore rappresentava il modello più semplice possibile.
- Fusione tra valutazioni elettromagnetiche e considerazioni termodinamiche.
- Introduzione del carattere irreversibile dell’entropia, partendo dal modello meccanico
1
Le formule che seguono non sono riportate tutte nella esatta forma in cui si sono presentate storicamente, ma sono state trasformate nella notazione moderna per uniformità e facilità di lettura.
121
reversibile dell’oscillatore senza fare uso di metodi statistici.
Egli concluse che la radiazione emessa per unità di tempo da un dipolo, classicamente è
data da:

8 2e 2 2
Eem 

3
=energia media dell’oscillatore;
3mc
la radiazione assorbita per unità di tempo è:
Eass 
e 2
3m
u  , T  ;
poiché, in condizioni di equilibrio Eem=Eass, si ha:
(2)
8 2
u  , T   3  .
c
Dalla (2) conseguiva quindi che, per trovare la funzione u(,T), bisognava calcolare l’energia media  degli oscillatori. Utilizzando il valore classico =kT, fornito dal teorema di equipartizione dell’energia, si sarebbe ottenuta la formula:
(3)
u  , T  
8 2 k
T,
c3
che rappresenta la formula di Rayleigh-Jeans.2
Ma Planck non poteva scegliere questa strada per due motivi:
- innanzitutto perché era convinto che la legge corretta fosse quella di Wien. Il non averla ottenuta inficiava pesantemente ai suoi occhi questa via.
- Come abbiamo detto, una delle finalità di Planck era quella di ottenere l’irreversibilità
macroscopica partendo dalla reversibilità microscopica, quindi la strada giusta doveva
essere necessariamente quella di trovare un legame tra energia degli oscillatori (descritti da leggi reversibili) ed entropia (irreversibile).
Seguendo un ragionamento che non riportiamo, Planck arrivò alla relazione:
d 2S
a
 ,
2
d

(4)
e quindi:
S=entropia,
dove a=1/ e =cost.
=1/
dS
 a ln 
d
Poiché, da considerazioni termodinamiche si sapeva che
dS 1
 ,
d T
unendo le ultime due equazioni, ottenne
(5)
(6)
2
1
 a ln  ,
T
Klein [Klein, 1962, 1965, 1966], suggerisce che Planck conoscesse l’articolo di Rayleigh [Rayleigh,
1900], ma non vi aveva dato eccessiva importanza; secondo ter Haar [ter Haar, 1967, p. 9] non lo conosceva. In quest’ultimo libro si possono trovare le traduzioni in inglese dei due articoli di Planck del
1900 di cui trattiamo, oltre che di diversi altri articoli fondamentali.
122
e quindi:
(7)

1

e

1
aT
.
Sostituendo quest’ultima nella (2), ricavò la legge di Wien, come voleva dimostrare:
u  , T  
8 2 1  aT
e .
c3 
1
Questa era quindi la situazione intorno alla metà dell’anno 1900: Rayleigh e Jeans
avevano messo a punto la legge (3) partendo dall’analisi della radiazione dentro la cavità, calcolando il numero di onde stazionarie che si potevano formare all’interno e utilizzando il teorema di equipartizione dell’energia. Planck aveva trovato basi più solide per
la legge di Wien (1), utilizzando la (2) e trovando la relazione tra l’entropia e l’energia
media di un oscillatore. L’esistenza di formule così differenti tra di loro, come ha mostrato Kangro [Kangro, 1970], è dovuta essenzialmente al fatto che i risultati sperimentali, fino al 1900, non raggiungevano la necessaria precisione per potere permettere una
scelta tra le teorie.3 Proprio in quell’anno, però, Rubens e Kurlbaum effettuarono una
serie di rilevazioni che indicavano piuttosto chiaramente l’erroneità della legge di Wien
[Kurlbaum, Rubens, 1900]. Lo stesso Rubens parlò dei suoi risultati a Planck verso gli
inizi di ottobre, prima della loro pubblicazione, così Planck, che aveva impostato il suo
intervento alla seduta della Società Tedesca di Fisica, prevista per il 19 ottobre, sul calcolo della legge di Wien che abbiamo considerato prima, fu costretto a riesaminare velocemente tutto.
Egli partì dalla constatazione che le osservazioni di Kurlbaum e Rubens avevano
mostrato che “la legge di distribuzione dell’energia di Wien non è valida in generale,
…, ma che al massimo ha il carattere di caso limite” [Planck 1900a, p. 202] per basse
temperature e corte lunghezze d’onda. Procedendo quindi per tentativi, cercò, tra le varie alternative alla formula (4), quella che meglio descriveva i dati sperimentali. Così la
scelta, tra le funzioni che conducevano ad S come funzione logaritmica di  (com’era
suggerito da considerazioni di probabilità), cadde su:
d 2S


.
2
d
    
Ricorrendo allo stesso procedimento che abbiamo descritto in precedenza per ricavare la legge di Wien, Planck ottenne:
 3
u  , T  

.
e T 1
Nei due mesi successivi Planck lavorò duramente per trovare una spiegazione teorica della sua formula. I risultati furono presentati il 14 dicembre alla Società Tedesca di
Fisica con un intervento sulla “teoria della legge di distribuzione energetica dello spettro
normale” [Planck, 1900b], di cui riassumiamo i punti fondamentali:
3
In realtà fu subito chiaro che la legge di Rayleigh-Jeans non rappresentava bene i dati per alte T.
123
- la chiave di soluzione del problema è rappresentata ancora dalla relazione tra entropia
ed energia media dell’oscillatore.
- Egli inserisce idee probabilistiche per mezzo della formula di Boltzmann:
dove S= entropia dello stato,
W=probabilità dello stato,
k=costante di Boltzmann.
S=klnW,
- Considera l’energia come “composta da un numero di parti uguali” e introduce la costante h, che “moltiplicata per la frequenza comune  degli oscillatori fornisce
l’elemento di energia ”, [Planck, 1900b, p. 239].
- Calcola quindi il numero di modi possibili in cui si possono distribuire P elementi di
energia su N risonatori pervenendo così alla sua famosa legge:
8h 3
1
u  , T  
.
3
h kT
c e
1
Per ottenere questo risultato, Planck dovette compiere due “rivoluzioni”:
- l’introduzione della quantizzazione dell’energia degli oscillatori;
- l’uso della statistica.
Per quanto riguarda il primo punto, vi è stata una disputa tra coloro i quali, come
Klein [Klein, 1962], Hermann [Hermann, 1971], Jammer [Jammer, 1966], Whittaker
[Whittaker, 1954], hanno asserito che Planck ha introdotto la quantizzazione
dell’energia per gli oscillatori armonici; chi, come Kuhn [Kuhn, 1978], ha sostenuto che
la quantizzazione fu introdotta solo nel 1905 da Einstein; e chi, come Mc Kinnon, con
cui concordiamo [Mac Kinnon, 1982], ha osservato che Planck introdusse certamente la
quantizzazione dell’energia degli oscillatori armonici, ma essa valeva solo per gli oscillatori raggruppati. In particolare essa non valeva per ogni singolo risonatore e sicuramente non valeva per l’energia radiante. In altri termini Planck introdusse la quantizzazione, ma “in definitiva non credette che l’energia radiante fosse composta di unità discrete di valore E=h”, [Mac Kinnon, 1982, p. 139]. D’altra parte lo stesso Boltzmann
aveva già utilizzato lo stratagemma di considerare l’energia formata da quantità finite,
però, una volta esaurita la loro funzione di artificio di calcolo, le aveva fatte tendere a
zero, ritornando al continuo. L’importanza della teoria, secondo Planck, consisteva
nell’aver trovato una legge di obiettiva validità, senza ambiguità con i dati sperimentali
e all’avere scoperto due costanti fisiche naturali. Come ha fatto notare Mac Kinnon,
Planck, in una sua nota autobiografica [Planck, 1950], “non reclamava credito per avere
introdotto l’idea che l’energia sia composta di unità discrete. Questo fatto lo attribuisce
ad Einstein. Il credito da lui reclamato è per la scoperta della legge che porta il suo nome e per le costanti h e k”. [Mac Kinnon, 1982, p. 129].
La vera rottura nel lavoro del 1900, secondo l’opinione dell’autore, era stata operata nei confronti del ruolo della statistica. Infatti, in tutta la precedente produzione
scientifica Planck si era sempre mantenuto contrario, per motivi di principio,
all’approccio statistico verso la termodinamica. Era inammissibile, secondo lui, fondare
leggi fisiche universali su basi probabilistiche, in quanto le leggi originate dal caso ammettono sempre eccezioni, mentre quelle universali sono sempre valide. Così, non riuscendo a trovare alcuna via di uscita per fornire spiegazioni teoriche alla sua legge, alla
fine decise di accettare un’impostazione basata sulla probabilità.
Negli anni immediatamente successivi, nessuno riprese l’ipotesi di quantizzazione
degli oscillatori avanzata da Planck, finché nel 1905 Einstein non pubblicò un articolo
124
[Einstein, 1905], in cui esponeva forti dubbi che la teoria elettromagnetica classica potesse spiegare una serie di fenomeni da lui esaminati. Egli, a conclusione del lavoro,
trattò la fluorescenza, la fotoelettricità e la fotoionizzazione, stabilendo che potevano
essere spiegate solo considerando la radiazione in termini particellari. In realtà quindi, al
contrario di quanto si ritiene comunemente, l’effetto fotoelettrico fu solo uno dei fenomeni presi in considerazione per verificare il punto centrale della questione rappresentato dall’impossibilità di inquadrare all’interno della teoria classica la radiazione del corpo nero e dall’introduzione del concetto di quanto di luce.
Fin dall’inizio Einstein4 chiarisce che la sua posizione è molto più radicale di
quella di Planck: “... è pensabile che la teoria della luce, fondata su funzioni spaziali
continue, possa entrare in conflitto con l’esperienza, qualora venga applicata ai fenomeni di emissione e trasformazione della luce. Infatti mi sembra che le osservazioni compiute sulla radiazione di corpo nero, la fotoluminescenza, l’emissione di raggi catodici
tramite luce ultravioletta ed altri gruppi di fenomeni relativi all’emissione ovvero alla
trasformazione della luce, risultino molto più comprensibili se vengono considerate in
base all’ipotesi che l’energia sia distribuita nello spazio in modo discontinuo”. Infine
espone la sua proposta: “quando un raggio di luce si espande partendo da un punto,
l’energia non si distribuisce su volumi sempre più grandi, bensì rimane costituita da un
numero finito di quanti di energia localizzati nello spazio, che si muovono senza suddividersi e non possono essere assorbiti o emessi parzialmente”, [Einstein, 1905, p. 46].
Einstein mostra che la legge di Rayleigh-Jeans (3) è in contraddizione con i dati
sperimentali e conduce a una densità di energia infinita per le alte frequenze. Quindi evidenzia che per piccole lunghezze d’onda e basse temperature la legge di Planck conduce a quella di Wien. Pertanto, tenendo conto dei limiti della sua validità, egli sceglie
di utilizzare l’equazione (1) di Wien. Combinando assieme le equazioni (1), (2), (5), (6)
e (7), dopo alcuni passaggi perviene alla relazione:
(8)
E V
S  S0 
ln
a V0
dove S= entropia in un volume V
S0= entropia in un volume V0
E= energia totale della radiazione contenuta in
un volume V
a= cost.= h/k.
Confrontandola con la formula che regola il cambiamento di entropia per un gas perfetto di n particelle:
V
S  S0  nk ln ,
V0
Einstein conclude che, se nella (8) si sostituisce a=h/k, il fattore moltiplicativo diventa
Ek/h e le due equazione coincidono, a patto che si interpreti la radiazione elettromagnetica come composta da particelle di energia5 h. Quindi Einstein, trattando i tre fenomeni anzidetti con l’ipotesi dei quanti, dimostra che: nella fluorescenza la luce emessa ha una frequenza più bassa di quella incidente (regola di Stokes); nell’effetto fotoelettrico l’energia degli elettroni liberati dal metallo è indipendente dall’intensità della
luce incidente sullo stesso, ed è legata alla frequenza tramite l’equazione:
4
Per le citazioni che seguono facciamo riferimento alla traduzione italiana di [Einstein, 1905].
Energia totale
E
5
In tal caso, infatti,

 numero di particelle =n.
h Energia del singolo quanto
125
E=h-,
=energia necessaria per liberare un elettrone;
infine nella fotoionizzazione la frequenza deve superare un certo valore di soglia.
Due anni dopo Einstein ritorna sul problema dei quanti, applicandolo al calcolo
del calore specifico. La legge classica di Dulong-Petit stabiliva che la capacità termica
delle sostanze elementari era costante e indipendente dal tipo di materiale. In realtà si
sapeva che a temperature normali il calore specifico era pari circa a 6 cal, mentre a basse temperature tendeva a zero. Ricordiamo che il calore specifico è definito come:
(9)
cv 
U
.
T
Se una molecola di un cristallo può vibrare in tre dimensioni, con un’energia totale kT
per ogni direzione, allora per N molecole avremo U=3NkT, e quindi, dal punto di vista
classico:
 3NkT 
cv 
 3Nk  5,94 cal .
T
Einstein pose, in accordo con la teoria di Planck, l’energia media di ogni oscillatore uguale a:
h
  h
,
e kT  1
quindi, per N molecole si ha U=3N. Sostituendo nella (9) ed effettuando la derivazione
si ottiene:
(10)
h
kT
e
 h 
.
cv  3 Nk  
2
 kT   h

 e kT  1




2
Si può dimostrare che la (10) approssima la legge di Dulong-Petit e fornisce il valore di
5,94 cal per grandi valori di h/kT, mentre tende a zero per bassi valori di h/kT.
Con quest’ulteriore applicazione, cominciava a crescere sia il numero dei successi
dell’ipotesi quantistica, che quello dei fisici che la prendevano in considerazione.
I modelli atomici
Agli inizi del XX secolo furono realizzati numerosi esperimenti legati ai fenomeni
scoperti intorno alla fine dell’800. Ci riferiamo all’effetto Zeeman, a quello fotoelettrico
e termoelettronico, alla radioattività, ai raggi X, alle particelle  e , ai raggi canale e
così via. I risultati di questi esperimenti portarono ad ipotesi sui costituenti ultimi della
materia e alla creazione dei primi modelli atomici dotati di una certa consistenza anche
quantitativo-matematica. In realtà, come ha fatto notare Heilbron, ai primi del ’900 la
fisica atomica ancora non esisteva come disciplina a sé stante, nel senso che “non vi erano istituti dedicati al suo studio, né congressi per discuterne… e – cosa più interessante – non vi erano rubriche riservate ad essa in nessuna delle maggiori classificazioni per
soggetto o estratti. L’atomo di Thomson, ad esempio, era riportato sotto la voce “fisica
chimica” nel Fortschritte der Physik, e sotto “teoria elettrica” nel Beiblätter” [Heilbron,
126
1977, p. 48].
Erano state effettuate alcune misure, come il rapporto e/m dell’elettrone, da parte
di J.J. Thomson nel 1897, ed erano note alcune proprietà generali degli atomi: la loro
stabilità, il fatto che fossero elettricamente neutri e che contenessero corpuscoli negativi. I problemi, comunque, erano tutti aperti. Si conoscevano solo costanti caratteristiche
dell’elettrone e non era facile passare da queste al calcolo della grandezza e della struttura interna dell’atomo. Sulla carica positiva non si sapeva quasi nulla. Non era noto il
numero di elettroni presenti nell’atomo, ma, secondo le prime stime, doveva essere pari a circa 1000 volte il peso atomico di ciascun elemento. Infine vi era il problema del
collasso elettronico cui doveva essere soggetto qualsiasi sistema di elettroni in moto,
man mano che questi emettevano radiazione a causa della loro accelerazione.
I primi dieci anni del secolo sono segnati dalla predominanza, in campo atomico,
della scuola inglese. Essa ruotava intorno alle figure carismatiche di Thomson a Cambridge e di Rutherford a Manchester mentre l’attività era imperniata sugli esperimenti
condotti nei due laboratori universitari. A Cambridge furono effettuate prevalentemente
misure sui raggi canale (ioni positivi di idrogeno) e sulle particelle  (elettroni), a Manchester invece le prove vertevano, ad opera di Geiger, Marsden e dello stesso Rutherford, sullo scattering delle particelle  (ioni positivi di elio dotati di doppia carica).
Qui, per brevità, tralasciamo tutte le teorie elaborate in precedenza e trattiamo direttamente il primo modello atomico di rilievo del ’900.
Il modello atomico di Thomson
Il modello di atomo proposto da Thomson nel 1904 aveva la struttura di una distribuzione sferica diffusa di carica positiva al cui interno gli elettroni si disponevano ad
eguale intervallo angolare su anelli in rapida rotazione. L’immagine era tratta da un modello analogo proposto da Lord Kelvin [Kelvin, 1902], con la variante degli elettroni in
equilibrio dinamico anziché statico. Dal punto di vista matematico, la parte fondamentale del lavoro di Thomson era rappresentata dalla dimostrazione della stabilità.6
Secondo Thomson: “L’ipotesi che gli atomi degli elementi contengano un certo
numero di corpuscoli carichi di elettricità negativa, immersi in una sfera uniformemente
positiva, suggerisce, fra gli altri interessanti problemi, quello della stabilità di un anello
di n particelle negative all’interno di una sfera positiva…Si può scrivere l’espressione
matematica dell’attrazione subita da ogni corpuscolo da parte della carica positiva, nonché quella della repulsione esercitata su un corpuscolo da parte degli altri (n-1)” [Thomson 1904, p. 237]. Thomson suppose che gli n corpuscoli fossero distribuiti in maniera
equidistante l’uno dall’altro su una circonferenza di raggio a. Se b è il raggio della sfera
di carica positiva, le forze agenti su ogni corpuscolo devono equilibrarsi. Allora, consi6
Intendiamo riferirci alla stabilità meccanica, perché al problema del collasso elettronico veniva data minore importanza dall’autore che lo aveva già affrontato nel lavoro “The magnetic properties of systems
of corpuscles describing circular orbits”, [Thomson, 1903]. In quest’articolo Thomson aveva ripreso
una dimostrazione di Larmor [Larmor, 1900], secondo la quale, se si assume che la somma delle accelerazioni degli elettroni su un anello sia nulla, allora la radiazione emessa dal sistema è pari a quella prodotta da una particella singola avente accelerazione media uguale al quadrato del rapporto tra raggio atomico a e lunghezza d’onda irradiata, (a/)2. Questo rapporto valeva circa 10-3, per cui la radiazione
emessa era un milionesimo di quella di una singola particella e quindi trascurabile. In realtà Thomson
aveva dimostrato che questo numero doveva essere ancora più piccolo perché, per n elettroni, esso non
era uguale a (a/)2, ma variava come (a/)2n, quindi andava rapidamente a zero al crescere di n.
127
derando le proiezioni su una linea retta che congiunge il centro della configurazione con
l’n-esimo corpuscolo negativo, la forza attrattiva esercitata sul corpuscolo da parte della
carica positiva (che è pari a e2a/b3 – dove e è la carica positiva) deve equilibrare la
e2
forza repulsiva esercitata dalle altre cariche negative, uguale a
S n (dove
4a 2
n  1 ) più la forza centrifuga dovuta alla rota
2
 ...  cosec
S n  cosec  cosec
n
n
n
zione  dell’anello:
e 2 a
b3
 ma 2 
e2
Sn
4a 2
(m=massa del corpuscolo).
Da quest’equazione Thomson potè calcolare il valore della frequenza di rotazione
dell’anello, con la conseguenza che, se n6, il sistema poteva essere stabile a patto che
un certo numero di cariche negative, disposte anch’esse su anelli, fossero situate nel
centro della configurazione.7 Quindi, man mano che si aggiungevano nuovi corpuscoli
sull’anello più esterno, per ragioni di stabilità, bisognava inserirne altri anche negli anelli interni. Si può vedere questo meccanismo se consideriamo il suo tentativo di costruzione della tavola periodica. Ad esempio, per passare dall’elemento con 59 corpuscoli a
quello con 67 egli usa lo schema:
numero di corpuscoli
Anello n. 5
...........
...........
anello n. 2
anello n. 1
59
20
16
13
8
2
60
20
16
13
8
3
61
20
16
13
9
3
62
20
17
13
9
3
63
20
17
13
10
3
64
20
17
13
10
4
65
20
17
14
10
4
66
20
17
14
10
5
67
20
17
15
10
5
L’elemento con 59 corpuscoli è molto instabile e quindi è facile che espella un
corpuscolo; l’elemento n. 60 diventa più stabile del precedente perché è stato aggiunto
un corpuscolo internamente; la stabilità aumenta fino all’elemento n. 67; a partire dal n.
68 si ha di nuovo instabilità perché bisogna aggiungere un corpuscolo all’anello più esterno, portandoli a 21.
Considerando invece la tavola periodica in verticale, per colonne, si passa da un
elemento a quello superiore nella stessa colonna, aggiungendo un anello. Quindi, faranno parte della stessa colonna, ed evidenzieranno affinità di comportamento, gli elementi
con numero di corpuscoli pari a 60, 40, 24, 11, 3, come è mostrato di seguito:
numero di corpuscoli
Anello n. 5
Anello n. 4
Anello n. 3
Anello n. 2
Anello n. 1
7
60
20
16
13
8
3
40
24
11
3
16
13
8
3
13
8
3
8
3
3
Heilbron fa notare lo strano uso della frequenza, che non viene utilizzata da Thomson per calcolare le
frequenze spettrali emesse, ma solo per dimostrare la possibile stabilità del suo modello. [Heilbron,
1977, p. 55].
128
Per quanto riguarda invece la natura dell’elettricità positiva, nel 1905 egli la descrisse [Thomson 1905, p. 49] come una specie di malta priva di massa che teneva insieme i corpuscoli e la collegò alla sua teoria dell’elettricità ad un fluido.8 Partendo da
un’analogia idrodinamica descrisse il campo elettrico e i corpuscoli come tubi di Faraday: la particella carica negativamente era la parte terminale di un tubo di Faraday molto concentrata e dotata di massa, mentre la carica positiva era rappresentata dall’altra estremità del tubo ed era diffusa su un volume molto maggiore e priva di massa. Secondo
Falconer [Falconer, 1988], questo era solo il primo passo verso una teoria unificata della
materia in cui il mondo era descritto da due entità: i corpuscoli elettrici e la materia. La
carica corpuscolare era la parte terminale di un tubo di Faraday mentre la massa era
rappresentata dalla quantità di etere racchiuso nel tubo stesso.
Nel 1906 Thomson portò a termine uno studio comparato sui dati sperimentali allora disponibili per calcolare il numero n di elettroni contenuti nell’atomo [Thomson,
1906]. Due indizi facevano propendere per l’esistenza di molti elettroni nell’atomo. Le
migliaia di righe degli spettri di emissione lasciavano immaginare l’esistenza di almeno
altrettanti elettroni radianti; inoltre si poteva evitare il collasso elettronico solo ipotizzando n molto grande. Usando il fenomeno della dispersione della luce nei gas (dati di
Rayleigh e Ketteler), lo scattering dei raggi X nei gas (dati di Barkla) e l’assorbimento
dei raggi  nei gas (dati di Becquerel e Rutherford), ottenne lo stesso risultato con tutte
le serie di dati: il numero di elettroni era dello stesso ordine di grandezza del peso atomico. Quindi vi fu una forte riduzione del numero dei corpuscoli presenti nell’atomo e
questo, naturalmente, riproponeva problemi di stabilità. Thomson si convinse che una
migliore comprensione della struttura atomica poteva essere raggiunta solo per mezzo di
una precisazione della natura dell’elettricità positiva, per cui, a partire da quell’anno si
occupò principalmente di misure sui cosiddetti raggi canale.
Già dal 1902 Wien [Wien, 1902] aveva stabilito che i raggi canale dovevano avere
una natura particellare ed essere costituiti da ioni positivi con un rapporto carica/massa
pari al massimo a 104, cioè pari al valore dello ione idrogeno. I risultati degli esperimenti sui raggi canale portarono Thomson ad ipotizzare, nel 1909, anche se solo come ipotesi provvisoria, che le cariche positive potessero avere anche una “struttura molecolare” [Thomson, 1910a]. Ma, come vedremo nel seguito, essa fu rapidamente abbandonata dall’autore.
La teoria di Rutherford
Negli stessi anni Rutherford indagava sulle proprietà delle particelle  emesse
dalle sostanze radioattive. Nel 1906 gli esperimenti di scattering attraverso fogli di mica
[Rutherford, 1906] evidenziarono una deflessione di circa 2°. Rutherford calcolò che,
per ottenere un valore simile, era necessario un fortissimo campo elettrico dell’ordine di
circa 100 milioni di V/cm. Nel 1908 Geiger e Marsden [Geiger, Marsden, 1908] erano
giunti a conclusione che le particelle dovevano essere atomi di elio dotati di doppia
carica positiva. L’anno successivo gli stessi autori, nel loro famosissimo esperimento
[Geiger, Marsden, 1910] osservarono che i raggi  diffusi attraverso sottili lamine di
oro presentavano un comportamento inatteso, evidenziando in alcuni casi - una particel8
La teoria dell’elettricità ad un fluido supponeva che le elettrizzazioni, positive o negative, fossero causate dall’eccesso o dalla mancanza di fluido elettrico, rispetto alla quantità naturale che rendeva i corpi
neutri.
129
la ogni 8000 - un angolo di deflessione superiore a 90°, cioè riemergendo dal lato di incidenza.
Una prima spiegazione del fenomeno fu avanzata da Thomson per i raggi  Nel
1910 egli calcolò teoricamente la deflessione media di elettroni che attraversano lamine
sottili di materia, partendo dall’ipotesi che ciascuna particella fosse soggetta ad una successione di piccole deflessioni, che sommandosi potevano dar luogo anche a grandi angoli [Thomson, 1910b]. L’espressione della deflessione media forniva anche un metodo
per calcolare il numero N0 degli elettroni presenti in un atomo. Thomson concludeva
l’articolo annunciando che era “in fase di svolgimento da parte di Mr. Crowther al Cavendish Laboratory” [Thomson, 1910b, p. 467]. un esperimento atto a provare la sua teoria. I risultati dell’esperimento di Crowther [Crowther, 1910], pubblicati nello stesso
anno, sembrarono confermare la teoria dello scattering multiplo applicato agli elettroni.
Mentre, per il calcolo del numero di elettroni nell’atomo, ottenne:
- ipotizzando che le cariche positive fossero distribuite uniformemente all’interno
dell’atomo:
numero di elettroni
 3;
peso atomico
- ipotizzando che le cariche positive fossero granulari, il rapporto N0/P cresceva rapidamente al crescere del peso atomico.
Poiché quest’ultimo risultato era in contrasto con tutti i dati allora disponibili, sembrava
evidente che bisognava abbandonare la teoria di una struttura granulare dell’elettricità
positiva e tornare al concetto di carica diffusa del modello atomico del 1904.
Lo stesso anno Geiger provò ad applicare la teoria dello scattering multiplo di
Thomson alle particelle , ottenendo che la probabilità di uno scattering multiplo con
angoli maggiori di 90°, come quelli osservati da lui e Marsden, era “piccolissima e di un
ordine di grandezza diverso da quello suggerito dagli esperimenti sulla riflessione”
[Geiger 1910, p. 500].
Rutherford, invece, formulò il cosiddetto modello saturniano,9 dal momento che,
secondo lui, un fenomeno simile comportava inevitabilmente l’esistenza di un campo
elettrico molto più intenso di quello fornito dalla nuvola carica dell’atomo di Thomson,
come aveva già fatto notare in precedenza. “Per spiegare questi ed altri risultati, è necessario ipotizzare che la particella carica  passi attraverso un intenso campo elettrico
nell’atomo. Lo scattering della particella elettrica è considerato per un tipo di atomo che
consiste di una carica elettrica centrale concentrata in un punto e circondata da una distribuzione sferica uniforme di un’eguale quantità di elettricità opposta” [Rutherford,
1911, p. 19]. I grandi angoli di diffusione, secondo Rutherford, si potevano spiegare soltanto ipotizzando un unico scontro tra una particella  e un singolo nucleo.
La reazione al modello di Rutherford fu di indifferenza. Al Congresso Solvay del
1911 egli non fu neanche menzionato, mentre a quello del 1913 “il principale contributo sulla modellistica atomica fu un lungo lavoro di Thomson sul suo modello, mentre
del modello di Rutherford si parlò brevemente solo in sede di discussione” [Tagliaferri,
1985, p. 153].
Non deve meravigliare questo tipo di risposta, perché la situazione non era affatto
chiara per i seguenti motivi:
9
Un modello analogo era già stato presentato nel 1904 dal fisico giapponese Hantaro Nagaoka [Nagaoka,
1904], che aveva supposto un nucleo carico positivamente attorno al quale si disponevano, su un anello
simile a quello del pianeta Saturno, le cariche negative.
130
- mentre la teoria dello scattering delle particelle di Rutherford funzionava bene, non
si poteva dire lo stesso per il modello atomico da essa ricavato. Questo era infatti instabile, sia da un punto di vista meccanico che radiativo, e Rutherford non aveva minimamente affrontato il problema.
- A “complicare” la questione erano intervenuti anche gli esperimenti di Wilson con la
“camera a nebbia” [Wilson C.T.R., 1912], che consentivano una visualizzazione della
traiettoria delle particelle. Questi esperimenti avevano mostrato che, se per le particelle la teoria più idonea a rappresentare i dati era quella di Rutherford, per le particelle
 solo raramente si verificavano singole deflessioni, mentre erano più frequenti le
successioni di piccole deflessioni.
- Infine, secondo la teoria di Rutherford gli elettroni avevano maggiori probabilità delle
particelle di subire singole deflessioni con grandi angoli, ma nella pratica si osservava il contrario.
Così sembrava che la teoria di Rutherford descrivesse bene il comportamento delle particelle , ma non quello delle , mentre l’opposto accadeva alla teoria di Thomson.
Quest’ultimo, per far rientrare la spiegazione delle particelle nella sua teoria, arrivò ad
ipotizzare che le grandi deflessioni “devono essere piuttosto attribuite a forze particolari
che entrano in gioco quando due particelle si avvicinano l’una all’altra a una distanza
inferiore ad un certo limite”.10 In ogni caso la situazione era molto ingarbugliata, né i
dati sperimentali fornivano un efficace criterio di scelta.
L’atomo di Bohr
Ipotesi di Planck
Rutherford trovò un alleato prezioso in Bohr, che elaborò la sua teoria nel 1913.
Egli formulò la sua proposta operando un collegamento tra la modellistica atomica e
l’ipotesi quantistica di Planck. Quest’ultima non aveva ricevuto una grande attenzione
da parte della comunità scientifica. I due articoli di Einstein del 1905 e del 1907 avevano aggravato ancora di più i problemi della fisica classica, con la teorizzazione dei
quanti di luce [Einstein, 1905] e con la loro applicazione a nuovi contesti come quello
dei calori specifici [Einstein, 1907]. Egli dimostrò che non si trattava solo di un’idea di
secondaria importanza, ma aveva certamente un carattere più profondo, e contribuì a focalizzare l’attenzione sugli aspetti rilevanti del problema. A partire dal 1906 l’interesse
verso la costante h cominciò gradualmente a crescere. Come hanno mostrato D. Longo e
N. Robotti [Longo, Robotti, 1981], i lavori dei ricercatori furono essenzialmente di
quattro tipi, tendenti rispettivamente a:
- mettere in luce le incoerenze e i limiti dell’ipotesi quantistica;
- trovare una spiegazione classica;
10
[Thomson, 1921, p. 26]. La ricerca di nuove forze particolari e il desiderio di dare una spiegazione
classica a fenomeni che sembravano rifuggirla lo portarono all’ideazione di un altro modello atomico in
cui, oltre alla forza elettrica (non agente più in tutto lo spazio, ma confinata all’interno di due coni opposti centrati sulle particelle), era presente una seconda forza attrattiva variabile come 1/r3 e agente in
tutto lo spazio. In tal modo egli poté dimostrare che la costante di Planck era una grandezza dipendente
dalla particolare struttura dell’atomo, che l’energia non era quantizzata, ma, più semplicemente, il lavoro necessario ad estrarre una particella al di fuori del cono era pari a h, e quindi l’atomo poteva assorbire solo quantitativi di energia multipli di questa grandezza. [Thomson, 1913]. Questa teoria fu accolta
con entusiasmo da parte della rivista Nature (Nature, 92, (1913), p. 305), che arrivò a predirne un lungo
successo.
131
- dare coerenza all’ipotesi quantistica;
- effettuare nuove applicazioni di h a campi differenti.
Ad ogni modo vi fu una crescita di attenzione sull’ipotesi di Planck e sul finire del 1911
il I Congresso Solvay [Broglie de, Langevin, 1912] ne sancì ufficialmente l’importanza.
Bohr a Cambridge e Manchester
Bohr si era laureato a Copenhagen nel maggio del 1911, svolgendo una tesi sulla
teoria elettronica dei metalli. Una volta conseguito il dottorato, ricevette una borsa di
studio all’estero, scegliendo di recarsi a Cambridge presso il laboratorio di Thomson.
Nel settembre del 1911 si trasferì al Cavendish Laboratory dove subì il notevole impatto
dell’incontro con la personalità di Thomson e le sue aspettative ebbero immediata soddisfazione dal momento che “Thomson lo accolse con cortesia, e promise di leggere la
sua tesi”,11 [Heilbron, Kuhn, 1969, p. 223]. Però, dopo sei settimane, Thomson ancora
non era riuscito a mantenere fede alla promessa e il suo atteggiamento nelle conversazioni interpersonali cominciava a destare qualche perplessità in Bohr12.
Bohr lavorò coscienziosamente durante la sua permanenza a Cambridge seguendo
seminari di Jeans e di Larmor sull’elettricità e due corsi di Thomson, mentre i suoi interessi di ricerca continuavano ad essere rivolti alla teoria elettronica dei metalli.
Bohr, a metà marzo 1912, lasciò Cambridge per trasferirsi a Manchester presso il
laboratorio di Rutherford, dopo avere assistito ad un suo seminario nel dicembre e dopo
avere preso accordi con lui.13 Anche qui, come a Cambridge, oltre a svolgere i compiti
assegnatigli nel laboratorio, non mutò il suo interessamento verso la teoria elettronica
dei metalli, fino a quando, agli inizi di giugno, la lettura di un articolo di Darwin [Darwin, 1912] non gli fece balenare una “piccola idea per capire l’assorbimento delle particelle ” [lettera di N. Bohr a H. Bohr del 12/6/1912 cit. in Heilbron, Kuhn, 1969, p.
237]. Questa piccola idea diede il via a molte nuove ipotesi che lo portarono a scrivere,
nel giro di un mese, un Memorandum inviato a Rutherford il 6 luglio 1912.
Il Memorandum del 1912
Bohr affronta subito il problema dell’instabilità meccanica dell’atomo di Rutherford.14 Egli conclude rapidamente che “un anello… [di elettroni] non possiede stabilità
in senso meccanico ordinario,…, e la questione della stabilità deve quindi essere trattata
11
Nel 1962 Bohr ha affermato: “Io consideravo innanzitutto Cambridge come il centro della fisica, e
Thomson come un uomo meraviglioso,.., un genio che aveva mostrato la via a tutti”, [intervista a N.
Bohr, cit. in Heilbron, Kuhn, 1969, p. 223].
12
Bohr confidava, in una lettera al fratello, che Thomson, sebbene amichevole e interessato alle questioni,
invariabilmente “interrompeva a metà un discorso, dopo un attimo di conversazione, quando i suoi pensieri andavano su qualcosa che lo interessava”. [Lettera a H. Bohr del 23/10/1911, cit. in Heilbron,
Kuhn, 1969, p. 225].
13
Secondo Heilbron e Kuhn, più che per dissapori con Thomson, Bohr prese questa decisione per
l’attrazione verso la grande personalità di Rutherford. [Heilbron, Kuhn, 1969, pp. 233-234].
14
Secondo Heilbron e Kuhn, “l’instabilità radiativa è una caratteristica di ogni modello che utilizza elettroni in moto, come facevano tutti i modelli contemporanei. Quindi l’instabilità radiativa, diversamente
da quella meccanica, non distingue l’atomo di Rutherford da quello di Thomson…. Il problema
dell’instabilità radiativa era ben noto e sembra che abbia causato poco interesse. Le perdite per radiazione diminuivano rapidamente…man mano che il numero di elettroni in un anello aumentava… Non
stiamo suggerendo, certamente, che il problema dell’instabilità radiativa non fosse importante sia per
Bohr che per lo sviluppo della teoria quantistica; noi sottolineiamo solo che, diversamente
dall’instabilità meccanica, essa non giocò un ruolo particolare nella scelta di Bohr e nello sviluppo iniziale dell’atomo di Rutherford”, [Heilbron, Kuhn, 1969, p. 241, nota 81].
132
da un punto di vista differente. Si vede immediatamente che vi è una differenza essenziale tra la stabilità di anelli che contengono un diverso numero di elettroni, giacché si
può dimostrare che l’energia di un elettrone nell’anello… è negativa se n, ma positiva se n>7, e che quindi un elettrone di un anello contenente più di sette elettroni può lasciare l’atomo” [Heilbron, Kuhn, 1969, p. 245].15 Quest’ultima osservazione per Bohr
era un motivo sufficiente per preferire il modello di Rutherford a quello di Thomson in
quanto lasciava intravedere la possibilità di una migliore spiegazione della legge di costruzione della tavola periodica e delle proprietà chimiche degli atomi.
Bohr espone quindi il suo metodo di soluzione dei problemi di instabilità. Senza
alcun criterio di selezione, afferma, ogni anello elettronico possiede infinite frequenze
di rotazione e infiniti raggi possibili; egli propone l’ipotesi che, per gli anelli stabili, il
rapporto tra energia cinetica degli elettroni e loro frequenza di rotazione possa avere solo valori ben definiti, dati dalla relazione T/=K, dove K è una quantità legata in qualche
modo ancora non specificato alla costante h di Planck.
Alla fine del mese di luglio 1912 Bohr lasciò Manchester per tornare a Copenhagen, dopo avere già compiuto i primi passi verso l’atomo quantizzato, ma senza avere
ancora operato alcun collegamento con la spettroscopia. Tornato a Copenhagen, e diventato assistente di Knudsen, cominciò a procedere con molta lentezza, tanto che, prima dell’inverno, chiese di essere esonerato dagli impegni didattici per concentrarsi sul
proprio lavoro di ricerca.
Proprio in questo periodo vi fu un nuovo impulso alla soluzione del problema a
seguito della lettura di alcuni lavori di Nicholson [Nicholson, 1912a, b].16 Questi aveva
calcolato il rapporto tra energia potenziale di un anello di 5 elettroni (corrispondente,
secondo la teoria di Nicholson, all’atomo di “protofluorine” neutro, un elemento base
presente nella corona solare) e frequenza di rotazione , ottenendo il valore di circa 25h.
Gli stessi calcoli, effettuati per gli ioni con carica singola e doppia del “protofluorine”,
diedero i valori di 22h e 18h. Nicholson stabilì che questi valori rappresentavano i primi
tre elementi della sequenza armonica 25,22,18,13,7,0. Infine calcolò il momento angolare degli atomi di “nebulium” e “coronium”, ottenendo un valore multiplo intero di h/2.
Naturalmente Bohr fu immediatamente impressionato dalla somiglianza tra la sua proposta di porre il rapporto tra energia cinetica e frequenza uguale a K (T/=K), e quella di
Nicholson in cui il rapporto tra energia potenziale e frequenza era pari a h (E/=h),
dove  assumeva i valori 25, 22, 18. Questi calcoli, secondo Heilbron e Kuhn, avrebbero
potuto essere rigettati “come pura numerologia, se non fossero risultati in impressionante accordo con i dati sperimentali” [Heilbron, Kuhn, 1969, p. 259]. Ma, oltre a quanto
già detto, vi fu un’altra intuizione di Nicholson ad avere influenzato Bohr. Ci riferiamo
in particolare all’affermazione di Nicholson secondo cui: “siamo portati a supporre che
le linee di una serie possano non essere emesse dallo stesso atomo, ma da atomi il cui
momento angolare interno è diminuito, a causa della radiazione o altro, di varie quantità
discrete da qualche valore standard. Per esempio, da questo punto di vista, vi sono vari
tipi di atomi di idrogeno, identici per quanto riguarda le proprietà chimiche ed anche il
peso, ma differenti in riferimento ai moti interni” [Nicholson, 1912b, pp. 729-730].
15
Heilbron e Kuhn fanno notare che questo non è vero e che è una conseguenza di una svista nel calcolo
da parte di Bohr.
16
Con questi articoli Nicholson tentò di effettuare lo studio della materia in condizioni limiti come nelle
stelle, in modo da individuare quelli che considerava gli atomi semplici costituenti la materia, come il
“protofluorine” o il “nebulium”. L’aspetto più interessante per Bohr era il fatto che Nicholson utilizzava
un modello saturniano alla Ru-therford.
133
Come si vede, il passo da questo concetto a quello di stati atomici eccitati è breve.
“Costituzione di atomi e molecole”
L’anello di congiunzione che ancora mancava alla soluzione definitiva era la formula di Balmer. Esiste una serie di aneddoti secondo cui Bohr all’epoca non conosceva
la formula in questione, che gli fu indicata da H.M. Hansen. Lo stesso Bohr, diversi anni dopo, avvalorò questa tesi dichiarando: “Non appena vidi la formula di Balmer tutto
mi fu immediatamente chiaro”, [Rosenfeld, 1963, p. XXXIX].
Di fatto, nell’aprile del 1913 inviò il primo della famosa triade di articoli dedicati
alla “Costituzione di atomi e molecole” [Bohr, 1913a, b, c], che rivoluzionarono la fisica dell’atomo.
Nel primo articolo Bohr affronta il problema di un atomo contenente un solo elettrone. Classicamente, se non vi fossero perdite dovute ad irraggiamento, l’elettrone descriverebbe orbite stazionarie ellittiche, con il nucleo in uno dei due fuochi e sarebbero
valide le relazioni di Keplero:
dove = frequenza di rivoluzione;
1/ 2
3/ 2
W= energia di legame dell’elettrone;
2
W
(11)

1/ 2
e= carica dell’elettrone;
 eEm
E= carica del nucleo;
m= massa dell’elettrone;
eE
2a 
(12)
2a= asse maggiore dell’orbita.
W
Come si vede, sia la (11) che la (12) dipendono dall’energia W, ed è proprio nel
calcolo di W che Bohr si allontana dalla strada classica e presenta un primo meccanismo
per l’emissione della radiazione. Ipotizziamo, dice, che il nucleo e l’elettrone inizialmente siano posti a grande distanza; che, successivamente, l’elettrone venga catturato e
nello stato finale ruoti attorno al nucleo Ipotizziamo inoltre che, durante l’atto della cattura, l’elettrone perda una quantità di energia, emessa sotto forma di radiazione omogenea di frequenza , pari a h, dove  è un numero intero e h è la costante di Planck. Allora, l’energia di legame dell’elettrone sarà proprio uguale alla quantità emessa, cioè a
W=h, mentre  avrà un valore medio tra la frequenza iniziale dell’elettrone (zero) e
1

quella finale di rivoluzione attorno al nucleo (), cioè 0     , quindi si avrà:
2
2
1
(13)
W  h  .
2
Combinando assieme le formule (11), (12) e (13) si ottiene:
(14)
W 
2 2 me 2 E 2
4 2 me 2 E 2
.


,
 2h2
 3h3
La prima fornisce gli stati energetici dell’atomo di idrogeno, la seconda le frequenze di
rivoluzione dell’elettrone. Al variare di  otteniamo una serie di configurazioni del sistema, che corrispondono ai possibili stati stazionari.
Al di là del carattere un po’ misterioso e “ad hoc” della formula (13), va evidenziato che Bohr è ancora legato alla convinzione allora dominante che i fenomeni di emissione fossero connessi con quelli di ionizzazione e di ricombinazione degli atomi.
134
Come hanno fatto notare Heilbron e Kuhn “dall’equazione (14) Bohr avrebbe raggiunto
la formula di Balmer con un facile passaggio”, (ponendo e=E),…, egli “comunque non
poteva prendere questa strada diretta, perché era stata sbarrata dalla sua derivazione della condizione quantistica, eq. (13). Se il processo di radiazione è quello in cui un elettrone libero viene legato nel -esimo livello energetico,…, emettendo durante il processo  quanti tutti di frequenza /2, allora l’atomo non emetterà allo stesso tempo le diverse linee descritte dalla formula di Balmer” [Heilbron, Kuhn, 1969, pp. 269-270].
Cioè, se la cattura di un elettrone dava luogo ogni volta all’emissione dello stesso quantitativo di energia e della stessa frequenza, allora, da dove provenivano tutte le altre frequenze che si osservavano negli spettri? Così, in modo ancora più misterioso, egli presenta un secondo meccanismo di emissione come transizione tra stati eccitati, che resterà poi quello definitivo e che decreterà l’abbandono dell’uguaglianza tra frequenza
meccanica dell’elettrone e frequenza irradiata. Egli introduce due ipotesi:
- l’equilibrio negli stati stazionari può essere affrontato con le leggi della meccanica
classica, mentre il passaggio tra diversi stati stazionari no;
- quest’ultimo processo dà luogo ad emissione di radiazione la cui frequenza è data dalla
relazione di Planck W 2  W1  h .


Ponendo nella (14) e=E, si ottiene:
W 
2 2 me 4
,
h 2 2
e la differenza di energia tra due stati 1 e 2 sarà:
W 2  W 1 
2 2 me 4  1
1 
 2  2  .
2
h
  2 1 
Ma, per la relazione di Planck, questa quantità deve essere uguale a h, per cui si ricava:

(15)
2 2 me 4  1
1
 2  2  .
3
h
  2 1 
La (15), per 2=2 fornisce la serie di Balmer, mentre il valore di
2 2 me 4
era in buon
h3
accordo con quello allora noto della costante di Rydberg.
Di seguito Bohr fornisce una differente ‘dimostrazione’ della formula di Balmer e
una prima approssimata formulazione del principio di corrispondenza. Riportiamo il ragionamento dell’autore per la grande importanza rivestita negli anni successivi dal prin1
cipio. Supponiamo di usare, al posto della (13), W  h  , la relazione più generale
2
W  f ( )h .
(13’)
Allora, per le frequenze di emissione, si ottiene la
(15’)

 2 me 2 E 2 
2h
3
1
1 
 2
 .
 2
 f ( 2 ) f ( 1 ) 
135
Da quest’ultima è possibile ricavare la formula di Balmer solo se si pone f()=c
(dove c=cost.). Per determinare il valore della costante c, immaginiamo che il sistema
passi dallo stato 1=N a 2=N-1. Sostituendo nella (15’) f(1)=cN e f(2)=c(N-1), si ottengono le frequenze di emissione:
 2 me 2 E 2  2 N  1 

.

2c 2 h3  N 2 ( N  1) 2 
1

2
dobbiamo sostituire f()=c e, nella seconda delle equazioni (14), al posto di
Mentre, per le frequenze di rivoluzione - poiché, in base alla (13’), al posto di
3
4
 2 f 3 ( )  2c 3 3 - si ottiene:
N 
 2 me 2 E 2
2c 3 h 3 N 3
,  N 1 
 2 me 2 E 2
2c 3 h 3 ( N  1) 3
.
A questo punto Bohr introduce il ragionamento di corrispondenza. Supponiamo
N

 1 . In realtà dobbiamo anche aspettarci che
 1,
 N 1
N

 2c ; quest’ultima è uguale a uno solo se c=½.
quindi, svolgendo i calcoli si ha17
N
Ma, se nella (13’) si pone c=½, poiché f()=c, si ottiene di nuovo l’equazione (13). Il
che N sia grande, allora
punto più importante da segnalare è il cosiddetto ragionamento di corrispondenza, per il
quale, se si considerano alti livelli energetici (N grande), allora

 1 , cioè la frequenN
za emessa coincide con la frequenza di rivoluzione e quindi i calcoli della teoria quantistica coincidono con quelli della teoria classica.
Il secondo articolo della triade di Bohr contiene il tentativo di arrivare ad una
spiegazione della tavola periodica, mentre il terzo tratta dei legami molecolari. Questi
due articoli sono stati pubblicati successivamente (settembre e novembre) al lavoro
sull’atomo di idrogeno (luglio), sebbene contengano materiale precedente, che risale al
Memorandum inviato a Rutherford nel 1912.
La costruzione degli atomi superiori viene operata da Bohr in base a quattro ipotesi: “primo, tutti gli elettroni giacciono nello stesso piano attraverso il nucleo; secondo,
la popolazione degli anelli interni aumenta con il numero atomico; terzo, ogni elettroh
; e quarto, fra tutte
ne… possiede nel suo stato fondamentale il momento angolare 1 
2
le possibili combinazioni soddisfacenti la condizione del momento angolare, quella caratterizzata dall’energia più bassa rappresenta lo stato fondamentale” [Heilbron, 1977,
p. 71]. Arriva così alla costruzione della tavola periodica e alla sistemazione degli elettroni, procedendo in modo abile, ma spesso contraddittorio, soprattutto per quanto riguarda la quarta ipotesi, che dovette essere messa spesso da parte per fare largo
17

N

 2 me 2 E 2 
2c 2 h 3
2 N  1  2c 3 h 3 N 3
( 2 N  1) N 3
2 NN 3


c

 c  2c .
 2

2
2
2 2
N 2 ( N  1) 2
N 2N 2
 N ( N  1)   me E
136
all’evidenza dei dati chimici in contrasto con essa. Egli arrivò al seguente risultato:
H
He
Li
Be
B
C
N
O
1(1)
2(2)
3(2,1)
4(2,2)
5(2,3)
6(2,4)
7(4,3)
8(4,2,2)
F
Ne
Na
Mg
Al
Si
P
S
9(4,4,1)
10(8,2)
11(8,2,1)
12(8,2,2)
13(8,2,3)
14(8,2,4)
15(8,4,3)
16(8,4,2,2)
Cl
Ar
K
Ca
Sc
Ti
V
Cr
17(8,4,4,1)
18(8,8,2)
19(8,8,2,1)
20(8,8,2,2)
21(8,8,2,3)
22(8,8,2,4)
23(8,8,4,3)
24(8,8,4,2,2)
(Fuori parentesi è indicato il numero atomico, in parentesi le popolazioni degli anelli, dal più interno al
più esterno.)
È da notare che, il passaggio da un atomo a quello successivo, comporta il riempimento degli anelli interni proprio come nel modello di Thomson, fino a formare un
gruppo di otto atomi. Questo causa una ciclicità legata al numero otto che lo apparenta
più strettamente alla periodicità della tavola degli elementi. Infine l’affinità tra gli elementi di gruppi diversi è dovuta all’uguaglianza del numero di elettroni presenti
nell’anello più esterno, mentre nell’atomo di Thomson era data dalla struttura degli elettroni interni.
Accoglienza e conferme sperimentali
Ben presto vi fu l’occasione per discutere in pubblico la proposta di Bohr; infatti,
nel settembre 1913 si tenne a Birmingham l’83° Meeting della British Association for
the Advancement of Science. Bohr fu invitato a partecipare, dietro segnalazione di Rutherford, che sponsorizzò il suo lavoro. Il suo articolo fu introdotto in modo molto positivo, con le seguenti parole, da parte di Jeans: “[Il dr. Bohr è] arrivato ad una convincente e brillante spiegazione delle leggi delle serie spettrali… I risultati ottenuti,…, sono di
gran lunga troppo significativi per potere essere ritenuti soltanto fortuiti. Per il momento
sarebbe sciocco negare che vi siano ancora difficoltà da superare che sembrano enormi”.17 Proprio su queste difficoltà si appuntò il discorso di Lorentz che “prese la parola
per chiedere come si giustificasse l’atomo di Bohr da un punto di vista meccanico. Il dr.
Bohr riconobbe che questa parte della sua teoria non era completa”.17 In seguito intervenne Thomson che non fece alcun riferimento alla teoria di Bohr – anche se era ben
nota e palese la sua avversione verso la teoria quantistica - perché in quell’occasione,
per la prima volta, presentava il suo nuovo modello di atomo di cui abbiamo già riferito
(ved. nota 10).
La posizione di Einstein è riportata in una lettera di G. de Hevesy a Bohr del 23
settembre, in cui de Hevesy raccontava di avere incontrato Einstein in occasione
dell’85a Assemblea degli Scienziati Tedeschi tenutasi a Vienna dal 21 al 28 settembre
1913, e di avergli chiesto cosa ne pensasse della teoria di Bohr. Einstein rispose che “se
è giusta è molto interessante ed importante,…, e che egli aveva avuto idee molto simili
parecchi anni prima, ma non aveva avuto il coraggio di svilupparle”[Lettera di G. de
Hevesy a N. Bohr del 23/9/13, cit. in Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte I, p. 201].
Sul fronte opposto, riportiamo la dura presa di posizione di Max von Laue che affermò:
“Tutto ciò è privo di senso! Le equazioni di Maxwell sono valide in tutte le circostanze.
17
Il resoconto di questo Meeting è stato pubblicato su Nature, 92 (1913), pp. 305-306.
137
Un elettrone su un’orbita circolare deve emettere radiazione” [cit in Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte I, p. 201].
Al di là delle reazioni immediate, ben presto cominciarono ad arrivare le prime
conferme sperimentali, che decretarono inequivocabilmente il successo della teoria. Citiamo, senza soffermarci ad esaminarli, i principali risultati sperimentali, rinviando ad
altri testi per una trattazione più dettagliata dell’argomento.18
- Innanzitutto vi era il problema di alcune linee spettrali, fino ad allora attribuite
all’idrogeno, che non erano previste dalla formula di Bohr e che egli aveva attribuito
all’elio ionizzato. Questa ipotesi fu sottoposta a verifica da parte di Evans [Evans,
1913] e, dopo un dibattito epistolare tra Bohr e Fowler sulla rivista Nature [Fowler,
1913a], [Bohr, 1913d], [Fowler, 1913b], tutti concordarono sulla loro appartenenza allo spettro dell’elio ionizzato.
- Verso la fine del 1913 Moseley pubblicò i primi risultati della sua indagine sugli spettri di alta frequenza (raggi X) [Moseley, 1913]. Egli aveva fotografato le linee principali degli spettri X di molti elementi, ottenendo risultati in accordo con la teoria di
Bohr.
- Sempre verso la fine del 1913 Stark aveva rilevato sperimentalmente che se gli atomi
erano immersi in un campo elettrico e si guardava in una direzione perpendicolare al
campo stesso, le linee H e H venivano scisse in 5 componenti polarizzate, mentre la
distanza tra le componenti sembrava, in prima approssimazione, proporzionale
all’intensità del campo applicato [Stark, 1913].19 Bohr dichiarò che l’effetto non poteva essere classico ma doveva dipendere necessariamente dalla natura quantistica
dell’atomo e riuscì a calcolare la separazione delle linee di Balmer per effetto Stark
[Bohr, 1914].
- Infine, nel 1914 J. Franck e G. Hertz, studiando la collisione di elettroni liberi contro
atomi, arrivarono a risultati in accordo con l’esistenza di diversi stati stazionari negli
atomi, prevista dalla teoria di Bohr [Franck, Hertz, 1914a, b].
Condizioni di quantizzazione di Sommerfeld e generalizzazione della
teoria
Com’è noto, la teoria di Bohr fornì risultati in accordo con l’esperienza solo nel
caso dell’atomo di idrogeno e degli atomi idrogenoidi. Vi era comunque, già nel 1913,
un fatto sperimentale relativo all’atomo di idrogeno, che questa non riusciva a prevedere
né a spiegare. Fin dal 1887 Michelson e Morley [Michelson, Morley, 1887] avevano
scoperto che la linea H, corrispondente all’emissione tra i livelli n=3 e n=2
dell’idrogeno, quando era osservata con uno spettroscopio ad alta risoluzione, risultava
costituita in realtà da due righe molto vicine. Negli anni successivi era stata misurata la
distanza tra le due linee con un risultato di circa 0,3 cm-1. “La struttura fine osservata
18
Si legga ad esempio [Tagliaferri, 1985, pp. 188-199], [Heilbron, 1977, pp. 74-78], [Mehra, Rechenberg,
1982, vol. 1 parte I, pp. 190-200]. Per quanto riguarda il background filosofico di Bohr si veda [Favrholdt, 1985] e anche [Petruccioli, 1988], che presenta uno spaccato del lavoro di Bohr dal 1913 al
1927. Sul modello atomico ved. anche [Heilbron, 1985], [Petruccioli, 1985] e [Robotti, 1976].
19
Nello stesso periodo il fisico italiano A. Lo Surdo presentò una nota [Lo Surdo, 1913], in cui descriveva lo stesso fenomeno da lui osservato casualmente e indipendentemente da Stark. Il fisico Garbasso
propose [Garbasso, 1914] che al fenomeno fosse dato il nome di “effetto Stark-Lo Surdo”, e da qui
nacque una velenosa polemica su questioni di primogenitura. Comunque il premio Nobel nel 1920 fu
assegnato al solo Stark, anche se molti continuarono a chiamarlo effetto Stark-Lo Surdo.
138
avrebbe potuto rappresentare un problema reale per la teoria di Bohr, che non sembrava
capace di spiegare il fenomeno. Comunque, essa non fu considerata come un’anomalia e
non impedì la rapida accettazione della teoria” [Kragh, 1985, p. 69]. Lo stesso Bohr nel
1915 [Bohr, 1915] suggerì che il doppietto potesse essere conseguenza della variazione
relativistica della massa dell’elettrone lungo un’orbita ellittica, ma non tentò di approfondire l’idea. Chi lo fece fu Sommerfeld.
Oltre al problema della struttura fine, vi erano anche altre incognite, come quella
della generalizzazione delle condizioni quantistiche, della loro applicazione a sistemi
complessi e della individuazione delle grandezze soggette a quantizzazione ad attendere
ancora una risposta. Già nel 1911 Planck [Planck, 1911] era giunto a conclusione che la
quantizzazione dell’energia, per l’oscillatore armonico, era solo un aspetto specifico di
un principio più generale secondo il quale l’integrale:
 dpdq ,
calcolato nello spazio delle fasi (q=posizione, p=impulso) aveva una grandezza minima
pari a h. Nello stesso anno Poincaré al Congresso Solvay, aveva posto il problema
dell’estensione di questo risultato a sistemi con più gradi di libertà [Broglie de, Langevin, 1912, p. 120]. Per arrivare alla soluzione, bisognò attendere fino al 1915, quando
ben quattro fisici, in maniera autonoma e indipendente l’uno dall’altro, arrivarono a
scrivere le condizioni di quantizzazione per un numero qualsiasi di gradi di libertà. Furono, rispettivamente, citati secondo l’ordine temporale di apparizione degli articoli sulle riviste, W. Wilson [Wilson W., 1915], J. Ishiwara [Ishiwara, 1915], M. Planck
[Planck, 1915a, b] e A. Sommerfeld [Sommerfeld, 1915b]. Noi ci soffermiamo solo sul
lavoro di Sommerfeld e rimandiamo ai testi già citati di Tagliaferri e Mehra, Rechenberg per la trattazione degli altri, perché l’articolo di Sommerfeld ebbe un’immediata
ricaduta sulla trattazione dell’atomo di idrogeno.
Sommerfeld fece notare che, per sistemi periodici ad un grado di libertà,
l’integrale doppio di Planck si riduceva all’integrale di linea
 pdq  nh .
Secondo il fisico tedesco, nel caso di sistemi con f gradi di libertà, la stessa relazione
doveva essere scritta f volte, una per ciascuno di essi. Egli applicò le condizioni di quantizzazione al moto kepleriano a due gradi di libertà:
 p d  nh
e
 p dr  n' h .
r
Mentre l’integrazione della prima portava alla quantizzazione del momento angolare, la
seconda forniva la seguente formula:
(16)
1  
2
n2
n  n'2
,
dove  eccentricità dell’orbita
n, n’= numeri interi,
grazie alla quale egli potè ricavare i valori dell’energia:
2 2 me 4
Wn   2
2
h n  n'
Dal momento che n+n’ è un numero intero, i livelli energetici risultavano gli stessi
dell’atomo di Bohr e quindi la formula non spiegava la struttura fine. Sommerfeld, lungi
139
dal perdersi d’animo, considerò questo risultato “come una convincente conferma
dell’estensione dell’ipotesi quantistica alla componente radiale, o dell’applicazione di
questa ipotesi ai due gradi di libertà del nostro problema” [Sommerfeld, 1915b, p. 439].
In ogni caso la formula (16) contribuì ad approfondire l’analisi delle orbite elettroniche.
Il motivo per cui le regole di quantizzazione con più gradi di libertà non portarono
ad un aumento delle orbite elettroniche permesse è dovuto al fatto che il sistema scelto
era degenere.20
Sommerfeld ottenne la soluzione cercata, quando provò ad applicare il suggerimento di Bohr di considerare la variazione relativistica della massa dell’elettrone
[Sommerfeld, 1915a]. Percorrendo lo stesso cammino precedente, ottenne la seguente
formula per l’energia:

2 2 m e 4 Z 2 
Z 2  1 n' 

1
(17) W   2 e
    ...

2
h n  n'  n  n'  4 n 

2e 2
dove  
=costante di
hc
struttura fine
Se ci si limita a considerare solo il primo termine in parentesi quadra, si ottengono
i livelli di Bohr; con il secondo termine si hanno differenti livelli al variare dei numeri
quantici n ed n’.
Per mezzo dell’equazione (17) e della condizione quantistica di Bohr-Planck, egli
potè calcolare i nuovi livelli energetici e tentare di fornire una spiegazione della struttura fine dell’idrogeno [Sommerfeld, 1916a, b]. Consideriamo, ad esempio, il caso della
linea H (dal livello n=3 a quello n=2).
Secondo la teoria di Bohr:
2me 4  1
1 
E 3  E 2  
 2  2 ,
2
h
2 
3
quindi, poiché
h 3,2   E 3  E 2  ,
si otteneva una sola frequenza.
Secondo la teoria di Sommerfeld:
il livello n=3 si scinde in tre stati (n=3, k=3), (n=3, k=2), (n=3, k=1)e il livello n=2 in
due stati (n=2, k=2) e (n=2, k=1). Questi corrispondono alle orbite indicate in figura:
n=3, k=3
20
n=3, k=2
n=3, k=1
n=2, k=2
n=2, k=1
Se le due frequenze del moto sono incommensurabili (cioè il loro rapporto è un numero irrazionale),
allora la quantità  1 k 1   2 k 2 , dove k1 e k2 sono interi, non è ulteriormente semplificabile. Se 1=b2 (b
intero), allora 1k1   2 k 2   2 bk1  k 2   c 2 , (c intero), quindi, in realtà si ha una sola frequenza, un
solo moto periodico e una sola condizione quantistica. In tal caso si dice che il sistema è degenere.
140
Si utilizza, quindi, la condizione di Bohr-Planck, riscritta con i nuovi numeri quantici:
E n, k   E n' , k '  h .
Se tutte le transizioni possibili si verificassero con uguale probabilità, osserveremmo sei
componenti anzichè due, come si può notare nella figura seguente.
Teoria di Bohr
Teoria di Sommerfeld
Ia
IIa
k=3
n=3
n=3
Ic
k=1
n=2
IIb
Ib
k=2
IIc
k=2
n=2
k=1
Il problema era che, sia la teoria di Bohr che quella di Sommerfeld, non facevano
alcuna previsione sulle intensità delle linee emesse. Per questo Sommerfeld fu costretto
ad introdurre delle condizioni sulle intensità alquanto arbitrarie. Utilizzando tali ipotesi
egli ottenne che, dei sei possibili salti quantici, solo 5 avevano probabilità di verificarsi
con intensità differenti, come mostrato in figura:
Ia

Ib
IIb
Ic
IIc

L’altezza delle linee indica l’intensità della riga;
 I cerchietti rappresentano la media pesata del
gruppo di righe
Quindi Sommerfeld concluse che il doppietto era formato in realtà da un numero
maggiore di righe e le due osservate rappresentavano la media delle componenti.
Egli ottenne, per  (la differenza tra le due componenti medie del doppietto H,
espressa in numero d’onde) il valore di 0,365 cm-1.
Questo risultato fu sottoposto ad osservazione da parte di Paschen21 [Paschen,
1916], che ottenne il valore di =(0,36450,0045) cm-1. Secondo Kragh, però, “il suo
calcolo di  era lontano dall’essere meramente sperimentale, ma dipendeva in manie21
Esperimenti simili furono effettuati anche da E.J. Evans e C. Croxson [Evans, Croxson, 1916], con risultati in accordo meno stretto di quelli di Paschen. Sulla nascita della teoria di Sommerfeld ved. Anche
[Nisio, 1973].
141
ra cruciale dalla teoria di Sommerfeld” [Kragh, 1985a, p. 76].
Il successo della teoria di Sommerfeld fu immediato, anche se, a causa della situazione bellica, l’attività scientifica era portata avanti solo da coloro i quali non erano
coinvolti nelle operazioni militari.
Dopo le prime applicazioni vi fu un notevole miglioramento del metodo matematico, grazie all’introduzione dell’uso delle equazioni di Hamilton-Jacobi e delle variabili
azione-angolo. P.S. Epstein fu uno dei primi ad utilizzare la teoria di Sommerfeld, per
spiegare l’effetto Stark nell’atomo di idrogeno [Epstein, 1916]. Egli studiò l’atomo di
idrogeno immerso in un campo elettrico omogeneo, scrivendo l’equazione di moto
dell’elettrone in coordinate paraboliche. Con queste coordinate l’hamiltoniana risultava
composta dalla somma di tre parti, ciascuna delle quali dipendeva da una sola variabile
e la trattazione si semplificava trasformandosi in un problema a variabili separabili. Applicando quindi le condizioni di quantizzazione e le regole di selezione di Sommerfeld,
Epstein arrivò ad una descrizione molto dettagliata dell’effetto Stark.
Contemporaneamente, dietro suggerimento di Sommerfeld [intervista a P.S. Epstein del 25 /5/62, cit. in Mehra, Rechenberg, 1982, vol.1 parte I, p. 225, nota 355] anche Schwarzschild si occupò dello stesso problema [Schwarzschild, 1916]. Egli utilizzò
un metodo messo a punto da Jacobi per il problema di Keplero, che consisteva nell’uso
di variabili angolari e di azione al posto delle classiche posizioni e quantità di moto. Si
poteva passare dalle variabili classiche a quelle di azione-angolo (o a qualsiasi altra
coppia di variabili), per mezzo di una trasformazione canonica. Il grande vantaggio delle nuove variabili era legato al fatto che, una volta applicate le condizioni di quantizzazione all’integrale di azione, si otteneva direttamente l’espressione dell’energia e quindi
delle frequenze.
Subito dopo, Debye applicò il metodo di Schwarzschild allo studio dell’effetto
Zeeman nell’atomo di idrogeno [Debye, 1916], confermandone le grandi potenzialità.
Infine lo stesso Sommerfeld, per mezzo delle equazioni di Hamilton-Jacobi, affrontò la correzione relativistica nell’effetto Zeeman con campi elettrici e magnetici non
omogenei [Sommerfeld, 1916c]. Per arrivare alla soluzione, Sommerfeld utilizzò un
metodo di integrazione in campo complesso che consentiva una grande semplificazione
nel calcolo delle soluzioni dipendenti dalla distanza dal nucleo r. Questo tipo di integrazione, assieme all’uso delle variabili di azione-angolo e alle condizioni quantistiche,
rappresentarono per qualche anno lo standard di calcolo nei problemi atomici, standard
decretato anche dallo straordinario successo del libro di Sommerfeld, Atombau und
Spektrallinien, pubblicato nel 1919, su cui si formò la maggior parte dei fisici negli anni
’20.
L’altra strada: Ehrenfest ed Einstein
A questo punto è doveroso considerare due contributi non collegabili alla modellistica atomica, prodotti rispettivamente da Ehrenfest, per quanto riguarda la teoria delle
trasformazioni adiabatiche, e da Einstein, per ciò che concerne la teoria della radiazione
e l’introduzione dei coefficienti di transizione. La radice comune di questi lavori è rappresentata dalla legge di radiazione del corpo nero di Planck e il metodo con cui vengono affrontati i problemi quantistici è in linea con l’approccio statistico-termodinamico di
Planck. Questi lavori possono essere ritenuti come la naturale evoluzione del filone di
142
studio sulla radiazione di corpo nero.22
Già nel 1905 Ehrenfest [Ehrenfest, 1905] aveva tentato di chiarire il rapporto tra il
lavoro di Planck e quello di Boltzmann relativamente al teorema H.23 Dopo essere ritornato sul lavoro di Planck nell’anno successivo [Ehrenfest, 1906], Ehrenfest, poco
prima del Congresso Solvay pubblicò un articolo [Ehrenfest, 1911] che chiariva gran
parte dei punti dibattuti al convegno, anche se non ebbe alcuna influenza su tali discussioni perchè egli non vi partecipò e il suo lavoro era completamente sconosciuto. In
quest’articolo egli provò che:
- se si voleva ottenere la distribuzione di Planck era indispensabile utilizzare quantità
discrete di energia h;
- per evitare il classico problema dell’energia infinita, bisognava associare qualche peso
particolare al livello zero dell’energia;24
- la proporzionalità tra energia dei quanti e loro frequenza era una conseguenza della II
legge della termodinamica, nella sua forma statistica.
Egli aveva dimostrato quest’ultimo punto analizzando gli effetti di una trasformazione
adiabatica su un corpo nero. In particolare trovò che, se le pareti della cavità riflettente
sono avvicinate tra di loro in modo infinitamente lento, il rapporto tra l’energia di ogni
vibrazione propria e la rispettiva frequenza E/ risultava costante, era cioè un “invariante adiabatico”.
Quest’ultima scoperta, naturalmente, risultò la più attraente da indagare ed Ehrenfest vi ritornò per tentare di verificare se l’invarianza adiabatica fosse una proprietà generale valida per qualsiasi sistema periodico e non solo per l’oscillatore armonico. Egli
arrivò al risultato già alla fine del 1912, come risulta dalle lettere inviate a Lorentz e a
Joffe [Lettere di P. Ehrenfest a H.A. Lorentz del 23/12/12 e a A.F. Joffe del 20/2/13 cit.
in Klein, 1970, p. 261], anche se aspettò quasi un anno prima di pubblicarlo [Ehrenfest,
1913]. Nella lettera a Joffe, in particolare, si sofferma sulle conclusioni cui era pervenuto. Il tentativo di generalizzazione dell’invarianza adiabatica ottenuta per l’oscillatore
armonico lo porta a stabilire che in un gas soggetto a trasformazione adiabatica si ha
T /   cost. (dove T = energia cinetica media delle molecole, = frequenza delle collisioni con le pareti). Egli inoltre scrive il suo teorema nella forma:

T /   T  
 Tdt
0


  Tdt
(= periodo)
0
e quindi:

 '  Tdt  0
dove ’= variazione adiabatica;
0
22
Un’analisi dettagliata dei lavori di Ehrenfest di cui tratteremo si può trovare in [Klein, 1970].
Ricordiamo che il teorema H di Boltzmann stabiliva che la distribuzione maxwelliana delle velocità
non solo era stazionaria, ma rappresentava anche la distribuzione più probabile, alla quale tendeva un
gas al passare del tempo. Boltzmann aveva dimostrato che la probabilità di una determinata distribuzione di velocità era data da e-H, dove H  N 1 log N 1  N 2 log N 2  ... (N1,N2, …= numeri di molecole
con velocità v1,v2,…), e che qualsiasi distribuzione evolveva nel tempo in modo tale che il valore –H
aumentava, tendendo così alla distribuzione maxwelliana. Su questo teorema basò l’interpretazione
dell’irreversibiltà termodinamica.
24
Ehrenfest fu il primo ad usare in questo articolo l’espressione di “catastrofe dell’ultravioletto”.
23
143
pervenendo così ad un’espressione strettamente somigliante al principio di minima azione.25 Non meraviglia quindi molto la reazione di Ehrenfest quando, nel 1913, seppe
del primo articolo di Bohr sulla struttura atomica. Il 25 agosto scrisse infatti a Lorentz:
“Il lavoro di Bohr sulla teoria quantistica della formula di Balmer mi ha condotto alla
disperazione, se questo è il modo per raggiungere lo scopo, devo smettere di far fisica”
[Lettera di P. Ehrenfest a H.A. Lorentz del 25/8/13, cit. in Klein, 1970, p. 278]. Secondo
Klein, “nel dicembre del 1912, P. Ehrenfest aveva trovato il risultato cercato a lungo.
Questo risultato aveva molteplici aspetti. In primo luogo era un teorema rigoroso di
meccanica classica, allo stato attuale un caso speciale di un teorema dimostrato per primo da Boltzmann. Questo teorema asseriva che, per ogni sistema periodico la cui energia dipende da certi parametri, l’integrale temporale dell’energia cinetica su un periodo
è invariante quando i parametri sono cambiati adiabaticamente (cioè con sufficiente lentezza). Ehrenfest, comunque, vi vide molto di più. Egli aveva forti ragioni per credere
che queste quantità adiabaticamente invarianti erano la chiave per generalizzare la base
statistica della seconda legge della termodinamica, in modo da renderla resistente agli
effetti dirompenti della teoria quantistica… E quindi, Ehrenfest ipotizzò che se si voleva
costruire una teoria quantistica per sistemi più generali degli oscillatori di Planck, bisognava farlo quantizzando gli appropriati invarianti adiabatici” [Klein, 1970, p. 264].
Cioè egli considerava il suo teorema come la chiave di volta per arrivare ad una generalizzazione della teoria quantistica basata sulla fisica classica.
Il lavoro di Ehrenfest rimase praticamente sconosciuto soprattutto a causa del fatto che l’unico articolo dedicato interamente agli invarianti adiabatici era stato pubblicato sulla rivista dell’Accademia di Amsterdam che non aveva una grande diffusione. Così, nel 1916, dopo la pubblicazione dei lavori di Sommerfeld egli si fece vivo con
quest’ultimo per complimentarsi26 e colse l’occasione per richiamare la sua attenzione
sulla connessione tra il lavoro di Sommerfeld e l’ipotesi adiabatica. Ehrenfest pensò che
fosse giunto il momento buono per far conoscere il suo lavoro ad un pubblico più vasto
e preparò un’esposizione sistematica della sua teoria curandone in modo particolare la
diffusione.27 Rispetto al suo articolo del 1913 Ehrenfest aggiunse la dimostrazione
dell’invarianza adiabatica delle condizioni quantistiche di Sommerfeld:
P
 '   2Tdt  0
(P= periodo),
0
P
P
0
0
 2Tdt    p
h
h
q h dt    p h dq h    dp h dq h .
h
h
I lavori di Ehrenfest entusiasmarono Bohr,28 ma lasciarono piuttosto indifferente
25
Il contenuto della lettera è tratto da [Klein 1970, pp. 261-262].
Notiamo che Ehrenfest ancora non aveva cambiato opinione sul modello di Bohr, da lui definito “completamente mostruoso”, [lettera di P. Ehrenfest ad A. Sommerfeld del maggio 1916, cit. in Klein, 1970,
p. 286].
27
L’articolo uscì sulla rivista dell’Accademia olandese, ma, quasi contemporaneamente, fu pubblicato su
Annalen der Physik e su Philosophical Magazine. [Ehrenfest, 1916a, b, 1917].
28
Nel 1916 Bohr comunicò a Sommerfeld di lavorare su un’esposizione logica della teoria quantistica
nella quale aveva “fatto molto uso dell’idea di Ehrenfest sulle trasformazioni adiabatiche, un’idea che
mi sembra molto importante e fondamentale” [lettera di N. Bohr ad A. Sommerfeld del marzo 1916, cit.
in Mehra, Rechenberg 1982, vol. 1 parte I, p. 231].
26
144
Sommerfeld29, perché, secondo il fisico tedesco, gli invarianti adiabatici non aggiungevano nulla, dal punto di vista della potenzialità di calcolo, a quanto già non fosse ottenibile con i metodi utilizzati fino ad allora.
Ben altre possibilità celavano invece i contributi di Einstein. Egli è considerato
dagli storici il padre spirituale dell’altro filone di ricerca che ha condotto alla meccanica
ondulatoria, partendo dalla teoria di Planck, utilizzando metodi di termodinamica statistica e studiando i processi di emissione e assorbimento della radiazione. Alla base del
lavoro di Einstein vi era la convinzione che la radiazione avesse una natura duale, presentandosi sia sotto forma ondulatoria che particellare.30 Nei secoli passati la teoria ondulatoria aveva ottenuto grandi successi, ma vi erano ancora alcuni fenomeni che essa
non spiegava. Così, dopo avere chiaramente asserito, nel suo famoso articolo del 1905
sull’effetto fotoelettrico [Einstein, 1905], che la radiazione elettromagnetica viene emessa sotto forma di quanti di energia h, nel 1909 prevede che “la prossima fase dello
sviluppo della fisica teorica ci porterà una teoria della luce che può essere interpretata
come una specie di fusione della teoria ondulatoria ed emissiva” [Einstein, 1909]. In
quest’articolo Einstein provò ad invertire il ragionamento di Planck, partendo dalla legge di distribuzione spettrale, considerata corretta grazie al suo accordo con l’esperienza,
e analizzando le conseguenze che questa poteva avere sulla natura della radiazione.
Come hanno fatto notare Mehra-Rechenberg e Klein, sia la legge di Planck [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte I, p. 239] che l’interpretazione statistica della seconda legge
della termodinamica [Klein, 1964, p. 17] hanno sempre occupato un ruolo centrale nelle
idee di Einstein.
Dopo avere abbandonato per qualche anno gli studi sulla teoria dei quanti per dedicarsi interamente a quelli di relatività generale, Einstein, tra il 1916 e il 1917, ritorna
sul problema della radiazione con due articoli molto famosi [Einstein, 1916, 1917].31
Egli prende lo spunto dal Principio di Boltzmann che fornisce la probabilità che
un atomo si trovi nello stato di energia n:
pn= peso statistico dello stato n
n= energia dello stato n
k= costante di Blotzmann
T= temperatura
  
Wn  p n exp  n 
 kT 
Assume quindi la validità delle ipotesi di Bohr che un atomo possa restare in uno
stato stazionario o passare da uno stato all’altro emettendo o assorbendo radiazione, ed
afferma che si possono verificare i seguenti casi:
a) Emissione spontanea. È il passaggio da uno stato m ad uno stato n (m>n) senza al29
L’opinione di Klein, che condividiamo, è che Sommerfeld “non sembrava pensare che le idee adiabatiche di Ehrenfest portassero maggior luce sulle condizioni quantistiche” [Klein, 1970, p. 291].
30
Per la trattazione approfondita del tema onda-corpuscolo nell’opera di Einstein ved. [Klein, 1964],
mentre per l’analisi delle attitudini verso la dualità onda-corpuscolo dal 1900 al 1920 ved. [Hendry,
1980]. La figura di Einstein è magistralmente tracciata in [Pais, 1986], mentre le sue posizioni riguardo
alla meccanica quantistica sono riportate in [Pais, 1979].
31
Nel seguito faremo riferimento all’impostazione del secondo articolo citato.
145
cuna stimolazione esterna. La probabilità dW che questo fenomeno avvenga nel tempo
dt è data da:
dW  Amn dt
Amn = costante di proporzionalità caratteristica degli indici m, n.
b) Processi radiativi indotti. In presenza di un campo elettromagnetico esterno di densità  sono possibili due casi:
- assorbimento indotto (passaggio dallo stato n allo stato m con assorbimento di
radiazione):
dW  Bnm dt
- emissione indotta (passaggio dallo stato m allo stato n con emissione di radiazione):
dW  Bmn dt .
In condizioni di equilibrio deve valere il principio di Boltzmann, e, inoltre, il numero di
transizioni n m deve eguagliare quello delle transizioni m  n, quindi:
(18)


p n e   n / kT Bnm   p m e   m / kT Bmn   Amn ,
da questa equazione, risolvendo rispetto a  e, ricordando che p n Bnm  p m Bmn , si ottiene:32
Amn / Bmn
   m  n  / kT
.
e
1
Confrontando questa formula con quella ottenuta da Planck, che Einstein scrive:

 3
e h / kT  1
,
si vede che risultano uguali se:
Amn / Bmn   3
 m   n  h .
Nella seconda parte dell’articolo Einstein si concentra su ciò che egli stesso definì
“il risultato più importante” [Einstein, 1917, p. 127]: la dimostrazione che ogni singola
radiazione monocromatica cedeva all’atomo investito una quantità di moto pari a h/c e
che l’emissione spontanea generava un effetto di rinculo sull’atomo emittente. È facile
capire che questo per Einstein fosse il risultato più importante, dal momento che rappresentava la dimostrazione della natura particellare della radiazione.
Non ci soffermiamo su questa parte e concludiamo l’excursus sul lavoro di Einstein riassumendo i meriti dei suoi due articoli:
- avere riottenuto la legge di Planck partendo da semplici e ragionevoli ipotesi statistiche;
- avere ricavato nello stesso modo il postulato di Bohr-Planck sull’emissione di radiazione;
32
Quest’ultima condizione deriva dalla (18) ipotizzando che, per T ,  
146
- avere introdotto per la prima volta le costanti di transizione, che verranno subito interpretate e utilizzate come probabilità di transizione;
- avere predetto che sia gli atomi investiti da radiazione sia quelli emittenti ricevevano
una quantità di moto.
Il principio di corrispondenza
Il primo fisico ad utilizzare i lavori di Einstein ed Ehrenfest fu proprio Bohr nel
1918 [Bohr, 1918a].33 Dell’articolo di Einstein, Bohr usò soltanto l’idea dei coefficienti
legati alle probabilità di transizione quantistica, mentre la parte che Einstein aveva giudicato più importante, cioè la natura duale della radiazione elettromagnetica non fu presa in considerazione. Com’è noto, Bohr era contrario all’ipotesi dei fotoni, e soltanto de
Broglie, qualche anno più tardi, riprese e generalizzò l’idea di Einstein applicandola a
tutte le particelle e stabilendo la simmetria tra la dualità della radiazione e quella delle
altre particelle.
Bohr prende l’avvio dai sistemi ad un grado di libertà. Egli afferma che “il moto
di un sistema atomico negli stati stazionari può essere calcolato applicando direttamente
la meccanica ordinaria, non solo sotto condizioni esterne costanti, ma in generale anche
durante una lenta e uniforme variazione di queste condizioni” [Bohr 1918, pp.101-102].
Questa è una conseguenza del principio adiabatico di Ehrenfest, che egli preferisce
chiamare principio di ‘trasformabilità meccanica’,34 la cui importanza consiste nel “fissare gli stati stazionari di un sistema atomico tra la moltitudine continua di moti meccanicamente possibili” [Bohr 1918, pp. 102]. Bohr dimostra quindi che, in una trasformazione adiabatica, si ha:
(19)
dove, E = variazione dell’energia durante la trasformazione,
I = variazione dell’azione durante la trasformazione,
 = frequenza del moto.
E  I
Se consideriamo una transizione tra gli stati n’ ed n” in cui:
 n’, n” sono numeri grandi;
 n’- n” è piccolo in confronto a n’ ed n”,
in tali condizioni, usando la proprietà (19), la frequenza emessa tra i due stati sarà data
da:
(20)

1
E ' E"   I ' I "  n'n" .
h
h
Classicamente: lo spostamento di una particella soggetta a moto periodico può essere
sempre espresso per mezzo di una serie di Fourier:
33
Nel seguito faremo riferimento alla versione dell’articolo di Bohr pubblicato in [Van der Waerden,
1967]. È bene notare che il termine Principio di Corrispondenza fu usato da Bohr solo nel 1920 [Bohr,
1920]. Sull’uso del principio di corrispondenza come principio guida negli anni ’20 ved. [Rüdinger,
1985] e [Petruccioli, 1988].
34
In accordo con le linee di argomentazione di Bohr che sono eminentemente meccaniche e non termodinamiche.
147
(21)
   C cos 2 t  c  .
L’elettrodinamica classica prevede che:
- le frequenze emesse siano , cioè multipli della frequenza di vibrazione ;
- le intensità delle righe emesse siano date dal quadrato delle ampiezze di vibrazione
C.
Quantisticamente, secondo Bohr si ha, (nei limiti indicati prima):
- le frequenze emesse sono date - in base alla (20) - da   n'n" , che coincidono
con quelle classiche quando n'n"   ;
- il termine C rappresenterà la probabilità di emissione spontanea dallo stato n a
quello n- molto vicino.35
In sintesi Bohr stabilì che, per alti numeri quantici che differiscono poco l’uno
dall’altro:
1
- la frequenza quantistica   E ' E" coincide con la frequenza classica di rotazione
h
dell’elettrone;
- l’intensità della radiazione classica serve anche a prevedere l’intensità quantistica.
Restava da definire come si potesse calcolare l’intensità in generale, anche al di
fuori dei limiti fissati da Bohr. Egli risolse la questione semplicemente affermando che
“anche per piccoli valori di n l’ampiezza delle vibrazioni armoniche corrispondente ad
un certo valore di  darà in qualche modo una misura della probabilità di transizione tra
due stati per i quali n’- n” sia uguale a . Così, in generale, vi sarà una certa probabilità
per un sistema atomico in uno stato stazionario, di passare spontaneamente a qualsiasi
altro stato di minore energia, ma se, per tutti i moti di un dato sistema, i coefficienti C
nella (21) sono nulli per certi valori di , ci dobbiamo aspettare che non sarà possibile
alcuna transizione per cui n’- n” sia uguale ad uno di questi valori” [Bohr, 1918, pp.
110-111].
Bohr e la tavola periodica
Il principio di corrispondenza fu usato per calcolare le intensità (e le polarizzazioni) delle righe spettrali, ma ad esso, secondo il parere dell’autore, bisognava ascrivere
un’importanza maggiore, in quanto poteva essere utilizzato come chiave di volta per
capire il funzionamento della tavola periodica.
In quegli anni vi erano stati diversi tentativi di spiegazione della tavola degli elementi da parte di L. Vegard [Vegard, 1917a, b], di R. Ladenburg [Ladenburg, 1920] e
di I. Langmuir [Langmuir, 1919], ma nessuno era stato generalmente accettato. Il lato
debole di queste proposte era rappresentato dal loro carattere empirico e dall’assenza di
un substrato teorico esplicativo. Come abbiamo visto, lo stesso Bohr aveva subito tentato di affrontare il problema, nel 1913, senza raggiungere risultati soddisfacenti. Avendo
adesso, a suo giudizio, nel principio di corrispondenza, lo strumento adatto per fornire
quel fondamento teorico che mancava, affrontò di nuovo il problema in due lettere in35
In tal modo Bohr formula l’ipotesi intuitiva che, la maggiore o minore intensità di una linea deve essere
necessariamente legata alla maggiore o minore probabilità che la transizione si verifichi e trova un metodo per formulare delle previsioni sulle intensità che non erano state fornite né dal suo modello del
1913 né da quello successivo di Sommerfeld.
148
viate, nel 1921, alla rivista Nature [Bohr, 1921a, b]. Queste suscitarono subito un grande interesse e crearono notevoli aspettative in tutti, perchè sembrava che si limitassero a
fornire i risultati di una grande mole di calcoli senza entrare in alcun dettaglio. Landé
così gli scrisse: “Mi sembra che, fino alla pubblicazione dei tuoi calcoli dettagliati, non
ha alcun senso lavorare teoricamente sulla teoria atomica” [Lettera di A. Landé a N.
Bohr del 21/2/21, cit. in Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte II, p. 343]. Per avere
un’esposizione completa della nuova teoria36 bisognò aspettare un anno dalla pubblicazione della sua prima lettera [Bohr, 1922]. Per capire l’entusiasmo suscitato
dall’articolo di Bohr basti considerare che quando, dal 12 al 22 giugno del 1922 egli si
recò a Göttingen per una serie di seminari, più di un centinaio di persone vi assistettero.
Se poi si scorre l’elenco nominativo dei partecipanti si comprende immediatamente
l’importanza data alla vicenda da tutti: da Göttingen parteciparono tra gli altri R. Courant, D. Hilbert, C. Runge, J. Franck e M. Born, assieme agli studenti F. Hund, P. Jordan e R. Minkowski; da München arrivarono A. Sommerfeld e W. Heisenberg; da
Hamburg, W. Lenz e W. Pauli; da Frankfurt, A. Landé, W. Gerlach ed E. Madelung; da
Leiden, P. Ehrenfest; da Copenhagen, O. Klein e W. Oseen.37
La teoria presentata da Bohr all’uditorio in realtà risultò composta da un miscuglio di ragionamenti teorici e di evidenze empiriche ricavate dalla chimica e dalla spettroscopia. La struttura concettuale della teoria è stata rappresentata da Kragh con il seguente schema [Kragh, 1985b, p. 59]:
CONCETTI
CONCETTI GENERALI
Principio di
Costruzione
Principio di
Corrispondenza
EMPIRICI
Colori ionici
Evidenze
chimiche
Teoria del
Sistema
Periodico
Orbite
penetranti
Proprietà
magnetiche
polarizzabilità
Volumi atomici
Spettri ottici
Potenziali
ionizzazione
Concetti di
simmetria
Spettri a raggi X
Il funzionamento dei concetti teorici generali può essere così riassunto:
Principio di costruzione. Lo riportiamo con le stesse parole dell’autore: “la struttura di
un atomo, di numero atomico Z, può essere considerata come il risultato della successiva aggiunta di Z elettroni ad un semplice nucleo… l’aggiunta dell’elettrone p ad un
atomo parzialmente completato con p-1 elettroni legati, lascerà immutati i numeri
quantici dei p-1 elettroni” [Kragh, 1985b, p. 54]. Bohr fece uso dei due numeri quantici n (numero quantico principale = 1,2,3,…) e k (numero quantico azimutale =
36
37
Per una trattazione esauriente della teoria di Bohr ved. [Kragh, 1979].
R. Minkowski e E. Hückel hanno curato la stesura degli appunti dei seminari, pubblicati in [Bohr,
1977, pp. 341-419].
149
1,2,3,…,n). Il numero quantico principale aumenta di un’unità ogni volta che nella tavola degli elementi ha inizio un nuovo periodo.
Principio di Corrispondenza. La costruzione del sistema periodico avveniva per aggiunte successive di un elettrone per volta. La sua cattura doveva obbedire al principio di
corrispondenza, nel senso che tra tutti gli stati possibili in cui il nuovo elettrone poteva
finire, bisognava scegliere quelli compatibili con il principio e rigettare quelli incompatibili. Per chiarire meglio questo concetto bisogna ricordare che un sistema atomico
può essere descritto per mezzo della serie di Fourier (21), dove i coefficienti C sono
legati, come abbiamo detto, alle probabilità di transizione. L’assenza di qualche termine C implicava che la probabilità relativa fosse nulla e che quindi la transizione stessa fosse proibita. Con queste precisazioni si può capire cosa intendesse Bohr per stati
compatibili con il Principio, tuttavia va sottolineato che l’operazione restava piuttosto
vaga e nebulosa, dal momento che il procedimento consentiva di trovare i salti proibiti, ma non gli stati proibiti. In ogni caso quando Bohr affermava di avere ottenuto i
suoi risultati “per mezzo di un esame più approfondito del processo di legame
dell’elettrone” [Bohr, 1921a, p.105], certamente non intendeva parlare di analisi di tipo matematico, ma piuttosto di una specie di applicazione intuitiva del principio di
corrispondenza.
Orbite penetranti. Il concetto è stato elaborato contemporaneamente da Bohr e da
Schrödinger [Schrödinger, 1921]. In pratica, per rendere conto dello spettro del sodio
era necessario ipotizzare che l’elettrone di valenza avesse un’orbita tale da penetrare
all’interno del core (nucleo + orbite dei due elettroni interni). Questo elettrone non doveva essere associato ad uno stato 11 come era stato ipotizzato in passato, ma 21
(Schrödinger), oppure 31 (Bohr). Con l’ipotesi delle orbite penetranti Bohr riuscì a
spiegare la struttura dei cosiddetti elementi del gruppo di transizione - dal Calcio
(Z=20) al Rame (Z=29).
Così, usando questi tre concetti teorici, assieme a considerazioni generali legate
alla simmetria e alle conoscenze empiriche acquisite fino ad allora, Bohr riuscì a ricostruire tutta la tavola periodica, sistemando le configurazioni elettroniche per mezzo dei
numeri quantici n e k. La teoria, nonostante una certa delusione conseguente alla scoperta dell’assenza delle basi matematiche cui la gente aveva pensato dopo la lettura delle
due lettere a Nature, fu subito accettata in maniera generalizzata, anche grazie alla personalità e al grande prestigio di cui godeva l’autore.
Effetto Zeeman anomalo
Punto di vista classico
Nei primi anni ’20, lo sviluppo delle ricerche legate all’effetto Zeeman anomalo
ebbero una notevole importanza sull’evoluzione della modellistica atomica, soprattutto
per impulso di Sommerfeld e di Landé.
L’effetto Zeeman, scoperto nel 1896 da Pieter Zeeman [P. Zeeman, 1896, 1897a,
b] si ha quando un atomo è immerso in un campo magnetico esterno e le singole linee
spettrali si scindono in righe doppie o triple (effetto Zeeman normale). La prima spiegazione teorica fu data da Lorentz nel 1897 [Lorentz, 1897]. Egli mostrò come questo fenomeno fosse in accordo con la sua teoria dell’elettrone e, tramite considerazioni teori-
150
che, predisse che la luce doveva essere polarizzata circolarmente se osservata parallelamente alle linee di forza del campo magnetico e linearmente se osservata perpendicolarmente ad esse. Dopo l’enunciazione del teorema di Larmor avvenuta nello stesso anno [Larmor, 1897], fu facile stabilire che il moto di un elettrone in un campo magnetico
è rappresentato da un moto lineare lungo la direzione del campo, avente frequenza immutata 0, e due moti circolari, ad angoli retti rispetto al campo, aventi frequenze 
eH
e , dove  
è data dal teorema di Larmor. Negli anni immediatamente
4mc
successivi però si scoprì che il problema non era così semplice e che le linee in generale
si suddividevano in più di tre componenti, mentre la loro separazione era diversa da 
(effetto Zeeman anomalo). Infine nel 1913 Paschen e Back [Paschen, Back, 1913] scoprirono che, aumentando ulteriormente l’intensità del campo magnetico, i multipletti si
trasformavano di nuovo in tripletti (effetto Paschen-Back).
Una sistemazione teorica, dal punto di vista classico, fu data da Woldemar Voigt.
Egli, nel 1907 [Voigt, 1907], aveva elaborato una convincente spiegazione dell’effetto
Zeeman anomalo e nel 1913 [Voigt, 1913a, b, c] spiegò anche l’effetto Paschen-Back.
Prime spiegazioni da un punto di vista quantistico
L’avvento della teoria quantistica naturalmente imponeva la ricerca di una soluzione nell’ambito della teoria stessa. Come abbiamo già detto, nel 1916 Debye [Debye,
1916] e Sommerfeld [Sommerfeld, 1916c] fornirono una spiegazione dell’effetto Zeeman normale usando la quantizzazione spaziale, cioè la quantizzazione della proiezione
del momento angolare dell’elettrone di valenza lungo l’asse del campo magnetico.
Sommerfeld introdusse il numero quantico magnetico m che poteva variare come m=0,
e trovò la seguente formula per l’energia nell’effetto Zeeman normale:
E=E0+mhL,
dove E0= energia non perturbata,
m= numero quantico magnetico,
L= frequenza di Larmor.
Al variare dei tre valori di m si hanno i tripletti, però non vi è alcuna previsione
dell’effetto Zeeman anomalo.
Nel 1920 Sommerfeld [Sommerfeld, 1920] cambiò metodo e programma di lavoro. Anzichè creare modelli atomici più o meno complessi, dai quali dedurre i dati sperimentali, provò ad invertire la procedura, tentando di trovare, tra i dati sperimentali, delle
regolarità con cui effettuare la costruzione dei modelli teorici. Una conseguenza di questo nuovo metodo fu l’introduzione di un nuovo numero quantico j, che al momento non
riuscì ad associare ad alcuna grandezza fisica dell’atomo. Sintetizzò quindi le regolarità
osservate nei dati sperimentali per mezzo di cinque leggi spettroscopiche.38
Qualche giorno prima della pubblicazione del lavoro di Sommerfeld, era arrivato
a Monaco il giovane e promettente studente di 19 anni, W. Heisenberg. Sommerfeld,
per saggiarne le capacità, gli assegnò il compito di correlare una serie di dati sperimentali che egli non era riuscito ad interpretare con i suoi numeri quantici interni [Cassidy,
1996, p. 135]. Heisenberg concluse che i dati potevano essere compresi assegnando ai
numeri quantici dei valori seminteri (1/2, 3/2, 5/2,...) anzichè interi. Sommerfeld fu ten38
Rimandiamo a [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte 2, pp. 462-463] per la descrizione di tali leggi.
Un resoconto dal punto di vista sperimentale sull’effetto Zeeman nell’atomo di idrogeno, dalla sua scoperta fino al 1925, è riportato in [Robotti, 1992].
151
tato di bloccare il lavoro di Heisenberg, dopo avere giudicato eretica la proposta, senonchè un altro fisico era arrivato alle stesse conclusioni. Landé aveva infatti trovato [Landé, 1921] una formula analoga a quella di Sommerfeld – a meno di un fattore g - valida
sia per l’effetto Zeeman normale che anomalo:
E  E i  gmh L .
Per g=1 si ottiene l’effetto Zeeman normale, altrimenti si ha quello anomalo. Ma
l’innovazione più importante era l’associazione del nuovo numero quantico j, introdotto
da Sommerfeld, con il momento angolare totale dell’atomo. La spiegazione degli effetti
Zeeman normale ed anomalo si otteneva tramite il numero quantico m che rappresentava la proiezione del momento angolare totale lungo la direzione del campo magnetico.
Se esso assumeva i valori m=0, j (per un totale di 2j+1 valori), si ottenevano
i singoletti e i tripletti; per m = j, si avevano i doppietti. Così i
numeri quantici seminteri si riaffacciavano sulla scena e cominciavano a reclamare il
loro diritto di esistenza, anche se ancora erano rifiutati da tutti.
Il modello “Atomrumpf” di Heisenberg e il modello vettoriale di Landé
Mentre Sommerfeld tentava di tradurre la teoria classica di Voigt in una corrispondente teoria quantistica, Heisenberg arrivò ad una nuova formula per l’effetto Zeeman [Heisenberg, 1922], usando un modello di atomo detto Atomrumpf (tradotto in inglese come core e in italiano corrispondente all’incirca a parte o zona centrale
dell’atomo).
In pratica, poichè ogni atomo si ottiene dal precedente aggiungendo un elettrone
esterno, Heisenberg considerò un modello composto da uno o due elettroni più esterni e
dal resto dell’atomo interno, detto appunto core, che si comportava come una specie di
palla rotante. Egli ipotizzò che l’elettrone esterno avesse un momento angolare pari a k1/2, mentre il core ne aveva uno pari a ½. La cosa più straordinaria era il fatto che questo modello spiegava praticamente tutto ciò che si conosceva all’epoca sull’effetto Zeeman. Come ha fatto notare Cassidy, il modello è un’evidente dimostrazione dello stile
spregiudicato di fare fisica di Heisenberg. “In questa capacità di adottare soluzioni senza lasciarsi condizionare dal sapere accettato consistette gran parte della genialità di
Heisemberg. La sua audacia, figlia di un intelletto brillante, dell’ambizione oltrechè
dell’ignoranza e indipendenza propria della gioventù, lo accompagnò per tutta la carriera e distinse il suo stile coraggioso e intuitivo di far fisica dall’approccio più prudente,
tradizionale e razionale della maggior parte dei suoi colleghi” [Cassidy, 1996, p. 142;
cfr. anche Cassidy, 1979].
L’anno successivo Landé sistematizzò il lavoro di Heisenberg elaborando il cosiddetto modello vettoriale [Landé, 1923]. Egli introdusse tre grandezze vettoriali R, K,
e J corrispondenti rispettivamente al momento angolare del core (R), al momento angolare dell’elettrone (K) e alla loro somma che rappresentava il momento angolare totale
dell’atomo (J). A questi erano associati i numeri quantici n (numero quantico principale), k (numero quantico azimutale), j (numero quantico interno) ed r (numero quantico
relativo al core), che potevano avere i valori:
1
K k ,
2
 j per multipletti dispari
J  1
j  per multipletti pari,
 2
152
R
1
r.
2
Gli esperimenti di Stern-Gerlach e di Compton
A questo punto bisogna ricordare due famosi esperimenti svoltisi tra il 1922 e il
1923: l’esperimento di Stern-Gerlach e quello di Compton. L’esperimento di SternGerlach riguardava la verifica dell’ipotesi di quantizzazione spaziale. Questa, come abbiamo ricordato prima, era stata introdotta nel 1916 da Sommerfeld [Sommerfeld,
1916a] e prevedeva che per un atomo immerso in un campo magnetico esterno, diretto
lungo l’asse z, l’orbita dell’elettrone, individuata tramite un vettore perpendicolare al
piano dell’orbita, potesse assumere solo un certo numero discreto di angoli con l’asse
stesso. Questa idea aveva portato ad un’ottima descrizione dell’effetto Zeeman e
dell’effetto Stark per l’atomo di idrogeno, ma nessuno aveva mai provato a fornirne una
dimostrazione sperimentale.
Stern nel 1920 si stava occupando di misure sulla velocità di un fascio di atomi di
argento [Stern, 1920], inviato su una lastra di vetro raffreddata, dove poteva essere osservato sotto forma di una macchia scura. Egli pensò che lo stesso apparato, opportunamente potenziato, avrebbe potuto essere usato per evidenziare l’esistenza della quantizzazione spaziale. Le previsioni classiche e quantistiche per questo fenomeno erano
così differenti da non lasciare grandi margini di dubbio sui risultati. Secondo la teoria
classica, un’orbita elettronica immersa in un campo magnetico si sarebbe comportata
esattamente come una trottola immersa nel campo gravitazionale, cioè avrebbe evidenziato un moto di precessione attorno alla direzione del campo (precessione di Larmor).
Secondo l’ipotesi di Sommerfeld, l’orbita avrebbe potuto solo allinearsi al campo (+1),
disporsi perpendicolarmente ad esso (0) - cioè con il campo magnetico giacente nel piano dell’orbita - oppure allinearsi, ma con verso opposto a quello del campo (-1). Classicamente un fascio di atomi di argento inviato tra le espansioni polari di un forte campo
magnetico non avrebbe subito influenze significative, continuando a presentarsi sempre
come una macchia scura, mentre quantisticamente, per effetto della quantizzazione spaziale, si doveva scindere in due macchie simmetriche rispetto alla posizione in assenza
di campo.39
In realtà, la semplicità concettuale dello schema teorico nascondeva grandi difficoltà economiche e sperimentali che furono superate, almeno per la parte economica,
solo grazie all’aiuto di diverse società pubbliche e private.40 I loro sforzi furono premiati
nel 1922, quando osservarono che “il pennello atomico in un campo magnetico si scinde
in due pennelli...Con questi risultati abbiamo la diretta prova sperimentale della quantizzazione direzionale in un campo magnetico” [Gerlach, Stern, 1922, pp. 351-352].
L’effetto Compton41 è dato dalla diffusione dei raggi X in varie direzioni da parte
della materia. In pratica si invia un fascio di raggi X su uno strato di materiale e si studia il comportamento della radiazione diffusa nei diversi angoli intorno all’apparato.
Secondo la teoria classica gli elettroni eccitati dalle onde elettromagnetiche di frequenza
 avrebbero dovuto emettere radiazione secondaria della stessa frequenza di quella inci39
Bohr nel 1918 aveva escluso la possibilità che il campo magnetico potesse giacere nel piano
dell’orbita, perché ciò avrebbe reso instabile il moto dell’elettrone [Bohr, 1918b].
40
Einstein fece avere fondi dal Kaiser-Wilhelm-Institut für Physik, mentre la compagnia Hartmann und
Braun regalò un potente elettromagnete, ecc. cit. in [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte II, pp. 439440].
41
Per maggiori dettagli sulla storia dell’effetto Compton, si può consultare [Stuewer, 1975], mentre
l’interpretazione dell’effetto, da un punto di vista classico, semiclassico e quantistico, è stata indagata
da [Ianniello, Sebastiani, 1987].
153
dente. In realtà Compton osservò che la radiazione secondaria aveva una frequenza inferiore alla primaria e in diversi casi si osservava anche l’emissione di elettroni.
Fin dall’inizio della sua carriera Compton si era occupato di misurazioni spettrali
sui raggi X [Compton, 1916a, b] o sui raggi  [Compton, 1921a, b]. In queste ultime esperienze aveva trovato che la radiazione diffusa aveva frequenza più bassa di quella originaria – era più “soffice”. Egli comunque aveva interpretato la radiazione secondaria
come un nuovo tipo di radiazione fluorescente, perché classicamente non si capiva come il processo di diffusione potesse cambiare la frequenza della radiazione incidente.
Nel 1922 fu invitato a far parte di una Commissione della Divisione di Scienze Fisiche del National Research Council [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte II, p. 521]
e fu incaricato di preparare un rapporto sullo stato della ricerca sui raggi X. Le conclusioni di questo rapporto evidenziavano già un primo cambiamento nella posizione di
Compton. Egli ribadiva che le ultime misurazioni avevano mostrato chiaramente un
cambiamento della lunghezza d’onda della radiazione diffusa, ma concludeva che le
possibili interpretazioni di questo fenomeno potevano essere due: o la radiazione secondaria era un nuovo tipo di radiazione fluorescente, o doveva esser collegata a qualche
nuova ipotesi quantistica. La nuova ipotesi era espressa in questo modo: “Supponiamo
che ogni elettrone, quando diffonde i raggi X, riceva un quanto di energia e lo irradi di
nuovo in una direzione definita. Il momento ricevuto dall’elettrone di scattering da parte
della radiazione sarà allora h/c... Questo produrrà una velocità in avanti che causerà
un effetto Doppler osservato sui raggi diffusi nelle diverse direzioni. Inoltre, man mano
che l’elettrone irradia un quanto di energia verso l’osservatore, il principio di conservazione del momento richiede che l’elettrone rinculi con un momento h’/c, dove ’ è la
frequenza media della radiazione diffusa.” [Compton, 1922, p. 18].
Nello stesso periodo Debye si occupava dello stesso fenomeno e stava preparando
un articolo in cui faceva il punto sulla situazione della ricerca [Debye, 1923]. Egli “metteva in evidenza quattro nodi: primo, il fatto che comparisse più radiazione secondaria
nella direzione in avanti (=0°) che all’indietro (=180°); secondo, la radiazione in avanti possedeva una lunghezza d’onda inferiore a quella della radiazione all’indietro;
terzo, l’energia totale della radiazione diffusa era inferiore al valore ottenuto dalla teoria
classica dello scattering di massa ...; quarto, assieme ai raggi X diffusi comparivano nei
vari angoli elettroni, che diminuivano quanto più piccola era la lunghezza d’onda della
radiazione incidente”. [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte II, p. 528]. Anche Debye
analizzò la soluzione quantistica auspicando una maggiore indagine sperimentale sul fenomeno. Questa indagine era stata già effettuata parallelamente da Compton, che, quasi
contemporaneamente, pubblicò il suo articolo di interpretazione dell’effetto [Compton,
1923]. In questo lavoro Compton ruppe completamente gli indugi, abbandonando la teoria elettromagnetica classica, e abbracciando la teoria particellare della luce di Einstein,
l’unica, secondo lui, in grado di spiegare tutti i fenomeni. La spiegazione è presentata
con queste parole dall’autore: “[Un elettrone investito dalla radiazione] diffonderà il
raggio in qualche direzione definita, ad un certo angolo rispetto al fascio incidente...
Come conseguenza l’elettrone diffondente subirà un rinculo con un momento uguale al
cambiamento di momento dei raggi X. L’energia del raggio diffuso sarà uguale a quella
del raggio incidente meno l’energia cinetica di rinculo dell’elettrone; e poiché il raggio
diffuso deve essere un quanto completo, la frequenza sarà ridotta dello stesso rapporto
dell’energia. Così secondo la teoria quantistica dovremmo aspettarci che la lunghezza
d’onda dai raggi X diffusi sia maggiore di quella dei raggi incidenti”. [Compton, 1923,
p. 485].
154
L’esperimento e la sua spiegazione ebbero una risonanza mondiale, anche se non
tutti ne accettarono immediatamente le conclusioni. In particolare, negli Stati Uniti,
William Duane e George Lindenberg Clark misero alla prova l’esperimento di Compton, utilizzando un apparato simile, senza però riuscire a rilevare l’esistenza della radiazione diffusa con lunghezza d’onda maggiore [Clark, Duane, 1923a, b]. Compton fece rilevare che in realtà l’apparato da lui usato era più sensibile di quello di Duane [Mehra, Rechenberg, 1982, vol.1 parte II, p. 528]. Sommerfeld invece accettò immediatamente con entusiasmo la spiegazione offerta da Compton e preparò un aggiornamento
per la quarta edizione del suo libro Atombau und Spektrallinien inserendo un capitolo
intitolato La struttura quantistica della luce in cui discuteva dell’effetto Doppler e
dell’effetto Compton [Sommerfeld, 1924].
Il principio di esclusione e lo spin dell’elettrone
La strada della descrizione atomica per mezzo delle varie combinazioni di diversi
numeri quantici, che aveva portato alla costruzione della tavola periodica da parte di
Bohr, continuava ad essere battuta ancora da molti. Nel 1924 Dauvillier e L. de Broglie
avevano dimostrato che lo schema di Bohr non si prestava bene ad una descrizione dei
dati sperimentali sui raggi X [Broglie de, Dauvillier, 1924; Dauvillier 1924]. Nello stesso anno Edmund C. Stoner utilizzò il numero quantico interno j proposto da Sommerfeld in aggiunta ai due numeri quantici n e k già usati da Bohr per una revisione della
tavola periodica [Stoner, 1924]. L’introduzione di j comportò la suddivisione di ogni
sottolivello nk in un numero superiore di sottolivelli nkj. Egli introdusse due ipotesi:
primo, “il numero di elettroni in ogni livello completato è uguale al doppio della somma
dei numeri quantici interni ... 2, 8(2+2+4), 18(2+2+4+4+6), 32 ...”; secondo, anche “il
numero di elettroni associato separatamente ad ogni sottolivello è uguale al doppio del
numero quantico interno” [Stoner, 1924, p. 722]. La differenza tra i due schemi di riempimento delle orbite è mostrata nelle tabelle:
BOHR
Numero di elettroni
1
s
s
2
p
s
3
p
d
s
p
4
d f
2
4
4
6
6
6
8
8
8 8
(nel lavoro di Bohr vi erano diverse eccezioni allo schema di graduale riempimento dei sottolivelli, per
cui quello riportato è indicativo)
STONER
s
l 1
j 1
Numero di elettroni
2
p1 p2
2
1 2
d2
2
3
3
4
2
4
6
6
8
4
d3
f3
3
f4
4
(le tabelle sono adattate da [Hund, 1980, p. 104 e p. 113])
Più o meno alle stesse conclusioni di Stoner era pervenuto qualche mese prima
J.D. Main Smith, anche se i suoi articoli erano passati inosservati perchè pubblicati sulla
rivista Chemistry and Industry, non letta dai fisici [Main Smith, 1924]. Lo schema di
Stoner-Main Smith fu riconosciuto superiore a quello di Bohr da un punto di vista empi-
155
rico, anche se non possedeva le basi teoriche del primo. Queste furono gettate dal lavoro
di Pauli.42
Pauli era sempre stato molto critico nei confronti del modello di HeisenbergLandé per diversi motivi. La sua avversione a qualsiasi tipo di modello, l’introduzione
dei numeri quantici seminteri, infine il sistema di accoppiamento magnetico che prevedeva il cambiamento di mezza unità del numero quantico j, sembravano a Pauli delle
imposizioni troppo arbitrarie e non suffragate da alcun elemento teorico a fondamento
della spiegazione.43 La situazione del periodo era descritta da Pauli a Born nel modo seguente: “I fisici atomici in Germania in questo momento sono divisi in due classi. La
prima calcola un certo problema dapprima con valori seminteri dei numeri quantici e,
se non vi è accordo con l’esperienza, lo calcola con i numeri quantici interi. Il secondo
gruppo effettua dapprima il calcolo con i numeri interi e quindi, se non funziona, con
quelli seminteri. Comunque, entrambi i gruppi di fisici atomici evidenziano una proprietà comune: nessun argomento a priori può essere dedotto dalle loro teorie riguardo a
quali numeri quantici e quali atomi vadano calcolati con valori seminteri e quali con valori interi” [lettera di W. Pauli a M. Born del 21/2/24 cit. in Mac Kinnon, 1982, pp. 202203]. Vi era inoltre il problema dei doppietti, descritto dettagliatamente da Forman
[Forman, 1968], che possiamo riassumere dicendo che intorno al 1924 era accettata
l’esistenza di due diversi tipi di doppietti: il primo, dovuto al cambiamento di massa per
effetto relativistico del moto dell’elettrone; il secondo, causato dall’interazione tra
l’elettrone ottico e il core dell’atomo. Nel primo caso i doppietti sembravano dipendere
dalla quarta potenza della carica atomica Z4, nel secondo caso si aveva una dipendenza
dal numero quantico azimutale k. Ma, se i doppietti potevano essere spiegati come un
effetto relativistico, allora il metodo di individuare le orbite con i numeri quantici doveva essere reinterpretato. Nel 1925 Pauli pubblicò due articoli in cui elaborò la sua proposta di soluzione agli interrogativi posti finora.
Nel primo articolo, in base a considerazioni di simmetria, giunse alle seguenti
conclusioni: “si suppone che le configurazioni elettroniche chiuse non contribuiscano
per niente al momento magnetico e al momento angolare dell’atomo. In particolare, nel
caso degli elementi alcali, i valori del momento angolare degli atomi e il loro shift energetico in presenza di un campo magnetico esterno, saranno considerati dipendenti solo
dall’elettrone di serie ... La struttura a doppietto degli spettri degli alcali ... è dovuta, secondo questo punto di vista, ad un peculiare tipo di duplicità delle proprietà quantoteoriche dell’elettrone di serie, non descrivibile classicamente” [Pauli, 1925a, p. 385].
Nel secondo articolo sistematizzò le conclusioni del primo, ampliandole [Pauli,
1925b]. Il modello è il seguente:
- il core dell’atomo non contribuisce alle proprietà atomiche, avendo momento angolare
e magnetico nulli;
- le proprietà spettroscopiche dipendono solo dall’elettrone ottico;
- il suo stato è descritto dai quattro numeri quantici:
n, numero quantico principale,
k1, numero quantico azimutale,
k2, nuovo numero quantico ausiliario,
42
La nostra impostazione del lavoro di Pauli riassume quella di [Mac Kinnon, 1982]. L’origine del principio di esclusione è indagata in [Heilbron, 1983], mentre il rapporto Bohr-Pauli è analizzato in [Hendry, 1984].
43
Per l’analisi minuziosa della posizione di Pauli nei confronti del modello atomico core ved. [Mehra,
Rechenberg, 1982, vol. 1 parte II, pp. 491-505].
156
m1, componente di k1 lungo il campo magnetico;
- “non possono esistere due o più elettroni equivalenti in un atomo, per i quali, in presenza di forti campi, i valori di tutti i numeri quantici n, k1, k2, m1 (o, equivalentemente, n, k1, m1, m2) coincidano. Se l’atomo contiene un elettrone per il quale questi numeri quantici assumono valori definiti (in un campo esterno), allora questo stato è occupato”, [Pauli, 1925b, p. 776].
Con queste regole lo schema di Stoner riceveva una notevole sistemazione, ma Pauli
che “aveva ripetutamente criticato Heisenberg per l’uso di formule che avevano poca o
nessuna giustificazione teorica”, adesso si trovava nella posizione scomoda di dovere
“attribuire un significato fondamentale ad una regola che non aveva giustificazione deduttiva e che sembrava possedere un significato puramente formale”, [Mac Kinnon,
1982, p. 205]. Pauli che sentiva in maniera particolare questo problema si giustificò affermando che “l’interpretazione che serve come mio punto di partenza, è senza dubbio
nonsenso ... Comunque credo che quello che faccio non rappresenti maggiore nonsenso
della precedente interpretazione della struttura complessa. Il mio nonsenso è condiviso
dall’attuale abituale nonsenso. Per questo motivo credo che questo nonsenso debba essere considerato necessario allo stato attuale del problema. Il fisico che dovesse riuscire
a sommare questi due nonsenso, sarà quello che raggiungerà la verità”, [lettera di W.
Pauli a M. Born, cit. in Mac Kinnon, 1982, p. 206].
Il primo ad ipotizzare che il quarto numero quantico proposto da Pauli dovesse essere associato alla rotazione dell’elettrone su se stesso fu Ralph de Laer Kronig, anche
se non fu il primo in assoluto ad averne ipotizzato la rotazione. Nel 1921 A. Compton
aveva già considerato l’elettrone come una sfera di dimensioni finite dotato di rotazione
attorno ad un suo asse passante per il centro [Compton, 1921c], aveva quindi ipotizzato
un momento angolare pari a h/2 e di conseguenza vi aveva associato un momento magnetico intrinseco. Infine, da considerazioni relativistiche riguardanti la velocità periferica della sfera, aveva ricavato per il raggio della particella un valore superiore a 10-11
cm, che sembrava in accordo con gli esperimenti di scattering. Ad ogni modo certamente Kronig non aveva in mente l’articolo di Compton, ma stava solo cercando di fornire
un’interpretazione al quarto numero quantico.44 Kronig suppose che il momento angola1 h
re intrinseco avesse un valore pari a
, e che potesse assumere la posizione parallela
2 2
e antiparallela al campo magnetico interno dell’atomo. Procedette al calcolo degli stati
energetici e dimostrò che la differenza tra i doppietti obbediva alla legge Z4. “Così
l’ipotesi di un momento angolare intrinseco dell’elettrone permise a Kronig di ottenere
la formula essenzialmente relativistica senza alcuna considerazione relativistica”, [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte II, p. 692]. Kronig informò subito Landé del risultato e insieme decisero di sentire l’opinione di Pauli in proposito. Pauli gelò l’entusiasmo
di Kronig affermando di non credere che la natura si comportasse in quel modo. Per
Mehra e Rechenberg i motivi di questo rifiuto sono legati ancora una volta a considerazioni di tipo relativistico, dato che, una particella rotante su se stessa, con velocità confrontabile a quella della luce, non può avere un momento magnetico costante. Quindi un
elettrone rotante sul proprio asse non può avere né un momento angolare intrinseco, né
un momento magnetico costanti, come aveva invece ipotizzato Kronig. A riprova della
natura relativistica dell’opposizione, Mehra e Rechenberg ricordano che lo stesso Pauli,
in un articolo precedente, aveva già ipotizzato un momento angolare intrinseco per il
44
Tutta la vicenda di Kronig è tratta da [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 1 parte II, pp. 690-694]
157
nucleo dell’atomo che, con la sua massa migliaia di volte superiore a quella
dell’elettrone non poneva problemi relativistici [Pauli, 1924].
Kronig chiese un parere anche a Kramers e ad Heisenberg, ma, dopo avere ottenuto reazioni molto fredde, smise di pensare alla faccenda senza avere pubblicato nulla
sull’argomento.
La questione fu ripresa verso la fine del 1925 da Uhlenbeck e Goudsmit [Goudsmit, Uhlenbeck, 1925], che supportati anche da Ehrenfest associarono definitivamente
il quarto numero quantico con lo spin dell’elettrone.
La teoria della radiazione di Bohr-Kramers-Slater e le onde di de
Broglie
Lo sviluppo che abbiamo seguito ci ha condotti fino al momento della formulazione della meccanica delle matrici, ma adesso dobbiamo fare un passo indietro per analizzare un’altra linea evolutiva partita dall’articolo di Einstein del 1917 [Einstein, 1917]
e portata avanti in due modi differenti da Bohr e da de Broglie. I modelli visti finora erano impostati sull’accoppiamento magnetico tra le varie componenti atomiche, soprattutto perché il problema di base era quello di trovare la spiegazione dell’effetto Zeeman.
Bohr invece aveva più volte asserito che la comprensione degli spettri atomici e della
struttura atomica doveva passare necessariamente attraverso la spiegazione
dell’interazione tra radiazione e materia e, partendo da questa convinzione, elaborò, nel
1924, assieme a Kramers e Slater, la teoria della radiazione, [Bohr, Kramers, Slater,
1924].45 Essa più che altro rappresentava un programma di lavoro per il futuro,46 dato
che non aveva alcuna formulazione matematica – l’unica formula presente in tutto
l’articolo era h=E1-E2. La vita della teoria fu abbastanza breve se si considera che, nel
giro di un anno fu sconfessata dallo stesso Bohr; storicamente però riveste una notevole
importanza perché in questo lavoro troviamo anticipati o appena abbozzati quasi tutti i
temi che verranno ripresi successivamente quando l’interpretazione di GöttingenCopenhagen della meccanica quantistica risulterà vincente.
Gli autori partono dal punto di approdo di Einstein del 1917 ribaltandone il risultato. Il punto debole della teoria - secondo Einstein, il carattere casuale delle transizioni
quantistiche – diventa l’elemento portante della nuova. Einstein aveva concluso dicendo
che “la debolezza della teoria è dovuta al fatto che lascia la durata e la direzione dei
processi elementari al caso”, [Einstein, 1917, p. 128]. Bohr, Kramers e Slater riconoscono prudentemente che “allo stato attuale della scienza sembra necessario, per quanto
riguarda il verificarsi dei processi di transizione, accontentarsi di considerazioni di probabilità”, [Bohr, Kramers, Slater, 1924, p. 162]; subito dopo abbandonano la prudenza
iniziale, ammettendo che la difficoltà di descrizione dell’intervallo temporale in cui ha
luogo l’emissione “ha rafforzato il dubbio, espresso da diverse parti, che
l’interpretazione dettagliata dell’interazione tra materia e radiazione, possa essere fornita in termini di una descrizione causale nello spazio e nel tempo, del tipo finora usato
45
D’ora in poi, per le citazioni da questo articolo, faremo riferimento alla ristampa del lavoro apparsa su
[Van der Waerden, 1967, pp. 159-176]. Sulle figure di Slater e Kramers ved. anche [Konno, 1983] e
[Radder, 1982, 1983]. Per un’analisi della teoria di Bohr, Kramers e Slater ved. [Hendry, 1981].
46
Il programma fu parzialmente portato avanti sia da Kramers, con la teoria della dispersione che utilizzava il concetto di oscillatore virtuale, sia da Heisenberg, che nell’articolo sulle matrici userà un modello di atomo, descritto tramite gli sviluppi in serie di Fourier, che rappresentano la matematizzazione degli oscillatori virtuali.
158
per l’interpretazione dei fenomeni naturali”, [Bohr, Kramers, Slater, 1924, p. 164]. Troviamo espresso in chiara evidenza un primo punto di scontro tra Einstein e Bohr, che si
svilupperà in maniera palese dal 1927 in poi, sul carattere acausale della nuova meccanica quantistica. In realtà tale presa di posizione sembra quantomeno prematura nel
1924.47
Le ipotesi di base dei tre autori sono le seguenti:
- un “atomo in un certo stato stazionario comunicherà continuamente con altri atomi attraverso un meccanismo spazio-temporale che è virtualmente equivalente al campo di
radiazione che, secondo la teoria classica, avrebbe origine da oscillatori armonici virtuali corrispondenti alle varie transizioni possibili con gli altri stati stazionari”, [Bohr,
Kramers, Slater, 1924, p. 164]. Cioè ogni atomo era equivalente ad un insieme di oscillatori virtuali aventi frequenze pari a quelle delle transizioni possibili dallo stato
stazionario in questione a tutti gli altri stati.
- “Il verificarsi di processi di transizione,..., è collegato a questo meccanismo tramite
leggi di probabilità analoghe a quelle della teoria di Einstein ... Le transizioni, denominate in questa teoria spontanee, sono, dal nostro punto di vista, considerate indotte
dal campo virtuale di radiazione connesso con gli oscillatori armonici virtuali associati
al moto dello stesso atomo. D’altra parte, le transizioni indotte della teoria di Einstein,
si hanno in conseguenza della radiazione virtuale presente nello spazio circostante dovuta ad altri atomi”, [Bohr, Kramers, Slater, 1924, pp. 164-165]. Quindi l’emissione
spontanea dipende dal campo virtuale dello stesso atomo, mentre le transizioni indotte
dipendono dai campi virtuali degli altri atomi.
Il campo di radiazione virtuale di un atomo poteva allora indurre una transizione
in un altro atomo, determinando, ad esempio, assorbimento senza che il primo atomo
avesse emesso alcuna radiazione reale. Conseguentemente l’energia non si conservava
nei singoli eventi atomici ma solo statisticamente su scala maggiore. Inoltre era necessario abbandonare l’ipotesi dei quanti di luce avanzata da Einstein, visto che la conservazione dell’energia e della quantità di moto erano caratteristiche peculiari del concetto di
particella. Per questi motivi “la diffusione della radiazione da parte degli elettroni [effetto Compton] è da noi considerato come un fenomeno continuo a cui ciascuno degli elettroni illuminati contribuisce tramite l’emissione di piccole onde secondarie coerenti”,
[Bohr, Kramers, Slater, 1924, p. 173].
M.J. Klein ha descritto la grande eccitazione prodotta dall’articolo di Bohr, Kramers e Slater [Klein, 1970]. I più interpretarono la situazione come uno scontro tra due
ipotesi differenti: i quanti di luce e Einstein da una parte, Bohr, la radiazione e la non
conservazione di energia-momento dall’altra. In realtà vi era molto di più, vi era il cambiamento operato dai fisici di Copenhagen sul ruolo delle teorie fisiche, che da descrizione e spiegazione dei fatti della natura, diventavano delle relazioni formali in cui le
“leggi basilari della teoria erano interpretate formalmente, in termini della loro funzione
all’interno della teoria, piuttosto che in termini di qualche diretta corrispondenza tra
leggi di base e classe di fenomeni che avrebbero dovuto descrivere”, [Mac Kinnon,
47
Tale era l’opinione di Einstein, che, in una lettera scritta alla famiglia Born esprime con queste parole il
suo pensiero sul problema della causalità: “le idee di Bohr sulla radiazione m’interessano molto, ma non
vorrei lasciarmi indurre ad abbandonare la causalità rigorosa senza aver prima lottato in modo assai diverso da come s’è fatto finora. L’idea che un elettrone esposto a una radiazione possa scegliere liberamente l’istante e la direzione in cui spiccare il salto è per me intollerabile. Se così fosse, preferirei fare il
ciabattino, o magari il biscazziere, anziché il fisico”, [Lettera di A. Einstein ai coniugi Born del 29/4/24
in Einstein, Born, 1973, p. 98].
159
1982, p. 190].
Ben diverso è l’approccio di de Broglie48 al problema. Anch’egli si riallaccia al
lavoro di Einstein, ma, diversamente da Bohr, si raccorda ai risultati considerati più importanti sia da parte del fisico tedesco che da parte sua. Ipotizza i quanti di luce come
particelle realmente esistenti, dotate di impulso, accetta come provata dai fatti la dualità
onda-corpuscolo per la radiazione e la estende anche agli elettroni.
Nel 1922 de Broglie effettuò un tentativo per comprendere perché l’ipotesi dei
quanti di luce sembrava adattarsi alla legge di Wien piuttosto che a quella di Planck
[Broglie de, 1922]. Quindi, nel 1923, nel corso di tre sedute dell’Accademia delle Scenze di Parigi, pose le basi del suo lavoro [Broglie de, 1923a, b, c]. Successivamente riassunse questi tre lavori in un articolo pubblicato su Philosophical Magazine [Broglie de,
1924],49 a cui faremo riferimento nel seguito.
Dopo avere ribadito che solo l’ipotesi particellare sui quanti di luce era in grado di
spiegare i recenti risultati (effetto fotoelettrico ed effetto Compton) e dopo avere trattato la radiazione di corpo nero come gas di quanti di luce, de Broglie affronta il problema
della dualità onda-corpuscolo per un corpo qualsiasi. Egli considera un corpo avente
massa a riposo m0, dotato di velocità v= c ( 1). Secondo la teoria della relatività questo corpo è dotato di energia interna pari a m0c2. Ma la relazione quantistica, secondo de
Broglie, permette di associare a questa energia interna un fenomeno periodico interno
E=h0. Per cui la frequenza di tale fenomeno sarà h0=m0c2, cioè:
m0c 2
0 
.
h
Se si calcola la frequenza in riferimento ad un osservatore stazionario, si hanno
due possibilità.
m0
Utilizzando l’energia. L’energia della particella è data da E=mc2, poiché m 
,
1  2
si ha:
m0c 2
E
,
1  2
ma, dal momento che E=h, si avrà:
h 
m0c 2

0
1  2
,
per cui:
(22)
1  2
.
Usando le trasformazioni di Lorentz. Ricordando che la formula di dilatazione degli
48
49
Per un’analisi critica del lavoro di de Broglie ved. [Mac Kinnon, 1976].
Una traduzione commentata criticamente e inquadrata storicamente di questo articolo e del discorso di
de Broglie in occasione del conferimento del premio Nobel [Broglie de, 1929], si ha in [Boffi, 1989].
160
intervalli temporali fornisce  ' 
ha
0
1  2
e che la frequenza è l’inverso del periodo, si
1
1
1

, cioè:
 ' 0 1   2
(23)
 '  0 1   2 .
Confrontando la (22) con la (23), sembra che la frequenza misurata dall’osservatore fisso abbia una diversa dipendenza da 1   2 . De Broglie risolve questo paradosso affermando che il corpo, cui è associata un’onda che viaggia alla stessa velocità del corpo
v= c , di frequenza , data dalla (22), è sede di un ulteriore fenomeno ondulatorio interno le cui onde viaggiano alla velocità v’=c/, e la cui frequenza ’ è data dalla (23). In
altri termini l’onda di frequenza  viaggia alla velocità di gruppo, inferiore a c e trasporta energia, mentre l’onda ’ è solo un’onda di fase che può anche avere una velocità superiore a c in quanto non trasporta energia. Successivamente egli applica questo risultato al moto dell’elettrone lungo un’orbita, sviluppa l’analogia tra il principio di Fermat
che regola il cammino ottico di un raggio luminoso e il principio di Maupertuis che descrive la traiettoria di una particella, concludendo che, se un elettrone parte da un punto
A, allora l’onda di fase associata ad esso, viaggiando a velocità maggiore di c, percorrerà tutto il cammino e lo incontrerà di nuovo in un punto A’, dove ovviamente dovrà ritrovarlo in fase con se stessa. Era naturale a questo punto fare l’associazione tra
l’impulso di una particella e la sua lunghezza d’onda:
p
h

.
Di fatto già si era creata nel mondo scientifico quella spaccatura, che di lì a poco
sarebbe emersa con chiarezza dopo la formulazione di due teorie, la meccanica delle
matrici e quella ondulatoria,51 che spiegavano gli stessi fenomeni fisici da due angolature diverse, con due differenti filosofie scientifiche dietro le spalle e, soprattutto, dopo il
prevalere dell’interpretazione di Göttingen-Copenhagen. Questa impostazione discordante ha creato un solco nel mondo scientifico che arriva fino ai giorni nostri, e separa
chi crede che la teoria quantistica sia provvisoria, nel senso che le limitazioni da essa
imposte alla conoscenza del mondo siano dovute alla nostra attuale ignoranza e una futura teoria supererà l’apparato probabilistico, e chi crede che invece sia definitiva, nel
senso che la limitazione della conoscenza del mondo non è legata all’attuale stato dei
lavori, ma è intimamente connessa con la struttura reale del mondo.
Volendo riassumere sinteticamente le caratteristiche dei due gruppi intorno al
1925, abbiamo, secondo lo schema suggerito da Forman e Raman [Forman, Raman,
1969, p. 298]:
51
In realtà, in un primo momento, le teorie sembravano addirittura tre, considerando l’ulteriore diverso
approccio di Dirac, [Dirac, 1926], cfr. [De Maria, La Teana, 1983]. Comunque in breve tempo fu chiaro
che il punto di vista di Dirac era analogo a quello di Heisenberg.
161
Bohr e altri
Contro
quanti di luce
descrizione nello spazio-tempo
descrizione per mezzo di equazioni differenziali
completa continuità e causalità
162
Einstein e altri
Pro.
CAP. 2
INTRODUZIONE STORICA, TRADUZIONE E NOTE DI COMMENTO
ALL’ARTICOLO “ÜBER DIE QUANTENTHEORETISCHE UMDEUTUNG KINEMATISCHER UND MECHANISCHER
BEZIEHUNGEN” DI W. HEISENBERG
163
Heisenberg e la via verso la teoria delle matrici
Le “novità” metodologiche più importanti dell’articolo di Heisenberg sono essenzialmente due:
- dal punto di vista fisico, l’avere abbracciato la cosiddetta filosofia degli osservabili;
- dal punto di vista matematico, la scoperta di un nuovo metodo che prometteva di risolvere le anomalie della vecchia teoria dei quanti, anche se, allo stato di sviluppo a
cui l’aveva portato l’autore, presentava numerose incognite circa le sue possibilità di
applicazione generalizzata, dal momento che forniva sempre infinite equazioni con infinite incognite.
Nelle prossime pagine, attraverso una rapida analisi dei suoi lavori precedenti e di
quelli degli autori che hanno avuto maggiore influenza su di lui, tenteremo di mostrare
come Heisenberg sia arrivato a queste conclusioni. Mostreremo come talvolta egli abbia
applicato idee già formulate in precedenza da altri, talora abbia avuto intuizioni originali, mentre in altri casi ha usato tracce di pensieri nuovi che circolavano negli ambienti di
avanguardia della ricerca, pronti per essere raccolti dai più ricettivi. Vedremo come
Heisenberg abbia attraversato un lento processo di distacco dalla vecchia teoria dei
quanti, dopo averne tentato diversi “aggiustamenti”. Questo allontanamento progressivo
ha visto l’intreccio di differenti motivi conduttori: l’abbandono dell’uso dei modelli atomici, il crescente rilievo dato alle incongruenze della vecchia teoria, la costante ricerca di metodi matematici alternativi a quelli usati fino ad allora.
La separazione si fa definitiva grazie alla collaborazione con Kramers sulla teoria
della dispersione. In questo lavoro troviamo tutti gli ingredienti utilizzati da Heisenberg
per la creazione della meccanica delle matrici. Sarà questo articolo a dargli la consapevolezza dell’esistenza degli elementi costitutivi di un nuovo potente metodo di indagine
della fisica atomica.
Precedenti ricerche di Heisenberg
L’atomo di elio
La stima dei livelli energetici dell’elio è stata una delle prime questioni di cui si è
occupato Heisenberg, dopo la sua nomina ad assistente di Born. In questo problema particolare la vecchia teoria di Bohr-Sommerfeld non aveva ottenuto gli stessi successi
conseguiti nel trattamento dell’atomo di idrogeno.
Dopo la formulazione della teoria atomica di Bohr si erano avvicendati diversi
modelli per l’elio e per la molecola di idrogeno H2: da quello dello stesso Bohr [Bohr,
1913b] del 1913 (un nucleo dotato di carica doppia e due elettroni ruotanti sulla stessa
orbita, nello stesso verso, ma su punti orbitali opposti), che aveva manifestato incongruenze con i dati sperimentali, a quello di Epstein-Sommerfeld [Sommerfeld, 1918] del
1918 (un nucleo e due elettroni, di cui uno legato strettamente e in vicinanza del nucleo,
l’altro su un’orbita più ampia). Il raffronto tra i dati teorici e quelli sperimentali non era
stato molto incoraggiante, tanto che lo stesso Sommerfeld nel 1919 concludeva: “Non
dobbiamo essere sorpresi se non abbiamo raggiunto il nostro scopo (la spiegazione dello
spettro dell’elio, n.d.t.), dal momento che anche gli astronomi ancora non hanno risolto
in maniera soddisfacente il problema dei tre corpi, nonostante secoli di sforzi” [Sommerfeld, 1919, p. 70]. Qualche relativo successo era stato ottenuto dal modello di Landé
[Landé, 1920] tra il 1919 e il 1920 (un sistema interno composto da un elettrone orbi-
164
tante intorno ad un nucleo con doppia carica, e il secondo elettrone ruotante attorno a
tutto il sistema interno), con un discreto accordo per i termini d e p, ma un forte disaccordo per i termini s.
In quegli anni l’attività sperimentale continuò a fornire sempre nuovi dati con cui
fare i conti. Ad esempio il valore del potenziale di ionizzazione dell’elio (25,4±0,25 V)
misurato nel 1919 da J. Franck e P. Knipping [Kranck, Knipping, 1919], era risultato
diverso tanto da quello previsto dalla teoria di Bohr (28,77 V), quanto da quella di Landé (30 V).
Heisenberg cominciò ad occuparsi del problema dell’elio verso la fine del 1922.
In una lettera a Sommerfeld scrisse di essere certo che il modello di Bohr era sbagliato e
di essere in grado di portare a termine con successo i calcoli impiegando numeri quantici seminteri. Dopo alcuni giorni Heisenberg scrisse di nuovo a Sommerfeld [cit. in Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 2, p. 88], riferendo di avere calcolato per il potenziale di ionizzazione un valore di 24,6 V, che si accordava con il nuovo risultato sperimentale di
24,5 V ottenuto nel frattempo da T. Lyman nel 1922 [Lyman, 1922].
Heisenberg, reso ottimista dai risultati precedenti, si rivolse a Born e, insieme, decisero di affrontare il problema dell’elio in modo esauriente con il calcolo di tutti i livelli energetici. Il lavoro [Born, Heisenberg, 1923b] venne svolto con molta meticolosità,
utilizzando la teoria delle perturbazioni, però le conclusioni furono in completo disaccordo con l’esperienza, tanto che gli stessi autori conclusero che “il risultato della nostra
ricerca è completamente negativo” [Born, Heisenberg, 1923b, p. 242].
La conclusione sfavorevole cominciò a gettare anche ombre sulla teoria delle perturbazioni, che era il metodo matematico con cui Born e Heisenberg speravano di ottenere la soluzione del problema atomico.
La teoria delle perturbazioni
Il principale promotore dell’uso della teoria delle perturbazioni nella fisica
dell’atomo era Bohr, che, nel corso dei suoi seminari del 1922 tenuti a Göttingen aveva
toccato questo argomento. Le ragioni di queste attenzioni erano semplici. Come aveva
fatto rilevare Sommerfeld nel 1919, dal momento che neanche gli astronomi, dopo secoli di sforzi, erano riusciti a risolvere completamente il problema dei tre corpi, non conveniva seguire il loro esempio cercando scorciatoie o esemplificazioni per mezzo della
teoria delle perturbazioni? Così tra il 1922 e il 1923 a Göttingen vi fu un grande interesse per lo studio dei metodi utilizzati in meccanica celeste e le possibilità di sviluppo della teoria caricarono di aspettative positive Heisenberg. Nel dicembre del 1922 egli scriveva a Sommerfeld: “Da quando ho cominciato a studiare in modo intensivo e dettagliato la Meccanica Celeste di Poincaré (stimolato dai seminari privati a casa di Born), trovo che complessivamente non esista una reale difficoltà di principio per la soluzione del
problema a più corpi nella teoria quantistica; per esempio, credo che la soluzione completa dell’atomo di sodio sia ben lungi dall’essere priva di speranza. Moltissimo è contenuto nel libro di Poincaré”, [lettera di Heisenberg a Sommerfeld, del 4/12/1922, cit. in
Mehra, Rechenberg 1982, vol 2, p. 82]. In particolare Born e Heisenberg appuntarono la
loro attenzione sul cosiddetto metodo di Bohlin1 [Bohlin, 1888] riportato sul testo di
Poincaré.
1
Essenzialmente il metodo si applica al problema dei tre corpi, in presenza di qualche moto degenere
(cioè dello stesso ordine di grandezza). In tal caso vi sono notevoli semplificazioni e il problema può
essere affrontato matematicamente.
165
Il primo tentativo di applicazione della teoria delle perturbazioni fu un’indagine
sulle relazioni di fase (ricerche di periodicità) nell’atomo di elio e nella molecola di idrogeno [Born, Heisenberg, 1923a]. Per mezzo del metodo di Bohlin gli autori dimostrarono che i sistemi a più elettroni continuavano ad essere periodici e conclusero con
la fiducia di poter fare passi in avanti nei calcoli dell’atomo di elio. Come abbiamo visto
nel paragrafo precedente, i risultati non furono pari alle loro speranze, per cui il metodo
delle perturbazioni cessò di essere considerato come una specie di panacea dei problemi
atomici. Però, prima di essere abbandonato furono fatti diversi altri tentativi di applicazione.
I numeri quantici
Questi tentativi ci portano ad un altro problema in discussione, che ha visti, schierati su parti opposte, Bohr e Heisenberg-Born. Intorno al 1923 la comunità scientifica
cominciava ormai a pensare che la vecchia teoria dei quanti non fosse adeguata a descrivere i fenomeni atomici, però, mentre per Born e Heisenberg diversi risultati dimostravano che si doveva approntare la nuova teoria utilizzando anche numeri quantici frazionari, per Bohr era necessario mantenere ancora numeri quantici interi.
Le argomentazioni addotte dai fisici di Göttingen a favore dei numeri quantici frazionari erano diverse:
- Landé nel 1922 [Landé, 1922] aveva ottenuto un discreto successo nella spiegazione
della maggior parte delle linee complesse dei multipletti e del loro effetto Zeeman anomalo in termini di numeri quantici seminteri;
- la spiegazione dell’energia dello stato fondamentale dell’elio sembrava richiedere
l’uso dei numeri quantici seminteri;
- Hund nel gennaio del 1924 aveva effettuato calcoli sistematici sulle orbite permesse,
su quelle proibite e sulla grandezza degli ioni. Il risultato era stato che con i numeri
quantici interi si incontravano grandi difficoltà e contraddizioni, mentre con quelli seminteri questo non succedeva. Heisenberg, in una lettera a Landé, scriveva che “Mr.
Hund ha realmente investigato sine ira et studio (in modo imparziale, n.d.t.) tutta la
tavola periodica per k interi e seminteri, e alla fine questa ha deciso convincentemente
a favore dei numeri seminteri. Anche Bohr dovrà crederci”, [cit. in Mehra, Rechenberg, 1982, vol 2, p. 103].
Così Heisenberg e Born, in un articolo, affrontarono, sempre con il metodo delle
perturbazioni applicato a molecole arbitrarie, la questione dei numeri quantici frazionari
[Born, Heisenberg, 1924a, 1924c]. Gli autori ripresero questo tema in un altro lavoro
comune, sulla deformabilità degli ioni sottoposti all’azione di un campo elettrico e sulla
sua influenza sulle proprietà chimiche e ottiche della materia, problema riaffrontato successivamente dal solo Heisenberg [Born, Heisenberg, 1924b], [Heisenberg, 1924]. In
questi articoli furono confrontate le polarizzabilità dei gas nobili con quelle degli alcali
ionizzati una volta (che diventavano così, dal punto di vista delle proprietà spettroscopiche, simili ai gas nobili). Dal momento che la carica nucleare dei gas nobili era inferiore
a quella degli alcali, la polarizzabilità avrebbe dovuto essere maggiore. Ma si poteva
giungere a questa conclusione solo usando numeri quantici k seminteri. Born e Heisenberg concludevano che “dalle costanti di deformazione dei gas nobili e degli ioni simili
ai gas nobili segue una valutazione semintera del numero quantico k” [Born, Heisenberg, 1924b, p. 397].
166
Le equazioni alle differenze
Così, nel 1924, la necessità di introdurre numeri quantici seminteri veniva considerata a Göttingen come un forte indizio dell’insuccesso della vecchia teoria dei quanti
e dell’urgenza di sostituirla. Secondo Born, il primo passo verso la nuova teoria doveva
essere quello di trovare uno schema matematico differente da quelli usati in passato che
non avevano dato i risultati aspettati. Così, una volta diminuita la credibilità dei metodi
di perturbazione, rivolse la sua attenzione verso le cosiddette equazioni alle differenze.
Anche in questo caso il motivo era abbastanza semplice ed era una conseguenza del
principio di corrispondenza. Nel campo di validità della meccanica classica, cioè per alti
numeri quantici e nel continuo, si applicano le equazioni differenziali. Ad esempio la
1 dW
formula per il calcolo delle frequenze classiche è data da  n ,    n  
.
h dn
Quando si passa a bassi numeri quantici, l’equazione differenziale non vale più, ma vie1
ne sostituita dalla formula di Einstein-Bohr  n, n     W n   W n    , dove
h
compaiono delle differenze finite al posto del rapporto differenziale. Allora perché non
generalizzare questi fatti accettati ormai unanimemente e trovare il modo di sostituire in
generale, nel campo di validità della meccanica quantistica, le equazioni differenziali
classiche con equazioni alle differenze?
Così, durante il semestre invernale 1923-24, nei seminari di Born si cominciò a
discutere sul modo di rendere discreta la descrizione matematica dei fenomeni quantistici [Mehra, Rechenberg, 1982, vol 2, p.79, nota 113]. Nello stesso periodo a Göttingen
vi fu anche un seminario di R. Courant e C.L. Siegel sulle “Equazioni alle differenze”
[Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 2, p.79] a cui parteciparono sia Heisenberg che Born. Il
9 ottobre 1923 Heisenberg scrive a Pauli riferendo che “Born ha formulato il nostro
programma di lavoro per il futuro immediato con la frase discretizzazione della fisica
atomica” [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 2, p. 106]. I concetti appresi furono applicati
da Heisenberg all’effetto Zeeman anomalo affrontato esprimendo l’hamiltoniana quantistica come un’equazione alle differenze. I risultati di questa ricerca vennero esposti il 5
novembre 1923 al meeting della sezione della Bassa Sassonia della Società Tedesca di
Fisica [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 2, p. 115]. Nel frattempo Born affrontò il problema delle equazioni alle differenze, arrivando, durante il 1924, a stabilire una regola
di discretizzazione [Born, 1924], che, come vedremo nell’articolo di Heisenberg, ebbe
un’importanza fondamentale per la nascita della meccanica delle matrici, avendo consentito di trovare le nuove condizioni di quantizzazione.
Il principio di corrispondenza
Nel settembre del 1924 Heisenberg si reca a Copenhagen per il semestre invernale. L’incontro con Bohr ha un notevole impatto sul giovane fisico, che, come primo impegno della sua permanenza in Olanda, imposta un lavoro sul principio di corrispondenza [Heisenberg, 1925]. Lo scopo di Heisenberg è quello di renderlo più preciso, trasformandolo in uno strumento matematico definito, in grado di fornire risultati quantitativi univoci. Egli procede secondo tre passi specifici:
- descrizione del fenomeno secondo la teoria classica;
- sua analisi dal punto di vista quantistico;
- evidenziazione delle corrispondenze e delle analogie.
167
Non entriamo nel merito della maggiore precisazione del principio operata da Heisenberg, ma facciamo solo rilevare che egli riuscì a spiegare le regole di somma empiriche
dell’intensità, dimostrando così che la sua applicazione, forniva dei risultati definiti.
Tentiamo di riassumere le convinzioni che si erano consolidate in Heisenberg,
come risultato dei lavori effettuati fino al 1924, prima della svolta operata dagli articoli
sulla dispersione:
- la vecchia teoria quantistica aveva dimostrato la propria applicabilità solo nel caso
dell’atomo di idrogeno o degli atomi idrogenoidi; in tutti gli altri casi aveva fallito,
pertanto bisognava sostituirla con una nuova meccanica quantistica.
- La costruzione della nuova teoria doveva avvenire sulla base della necessità di introdurre:
 i numeri quantici frazionari;
 un nuovo schema matematico, anche se ancora non si era in grado di precisare quale fosse. La teoria delle perturbazioni non aveva fornito i risultati sperati. Il metodo
delle equazioni alle differenze era ancora in fase di sviluppo e non si poteva prevedere dove avrebbe condotto.
- In ogni caso la nuova teoria doveva fare i conti con il principio di corrispondenza.
La teoria della dispersione prima di Kramers
Il fenomeno della dispersione (dipendenza dell’indice di rifrazione di un mezzo
dalla lunghezza d’onda della luce incidente) era noto da molto tempo ed era stato spiegato classicamente da Lorentz nel 1892 [Lorentz, 1892]. La formula per la polarizzabilif
e2
tà (   2  2 l 2 , dove le fl rappresentano le varie forze di legame degli elet4 m e
 0l  
troni agli atomi) ricavata dal fisico rendeva conto tanto della dispersione normale, quanto di quella anomala (il fenomeno di assorbimento in corrispondenza di alcune frequenze caratteristiche del mezzo). Essa era stata ottenuta considerando la materia costituita
da molecole, con gli elettroni legati in modo elastico (oscillatori armonici con frequenza
di oscillazione 0l). Il campo elettrico della radiazione incidente costringeva gli elettroni
ad oscillare con una frequenza differente da quella propria causando uno spostamento
medio dalla propria posizione di equilibrio, provocando così un momento elettrico indotto su ogni molecola e quindi una deformazione della molecola stessa. La polarizzabilità allora era un indice della deformabilità della molecola.
Come abbiamo detto, la formula di Lorentz era in buon accordo con i fenomeni
osservati, però, la nascita della teoria dei quanti poneva diversi problemi. Innanzitutto
essa era stata derivata da ipotesi classiche, mentre, per ragioni di coerenza interna, avrebbe dovuto essere sviluppata da considerazioni interamente quantistiche. Inoltre,
mentre classicamente un oscillatore armonico con frequenza di oscillazione 0 poteva
emettere solo onde della stessa frequenza, quantisticamente le frequenze emesse non
corrispondevano più a quelle di vibrazione.
Nel 1921 Ladenburg, partendo da considerazioni quantistiche, basate sui coefficienti di emissione di Einstein, calcolò il numero N di elettroni che contribuiscono alla
dispersione [Ladenburg, 1921]:
dove Ni= numero di elettroni nello stato i,
me c 3
gk
N  Ni
a
ki
gk,gi= pesi statistici dei relativi stati.
gi
8 2 e 2  ik2
168
Per mezzo di questa formula, trovò la polarizzabilità [Ladenburg, Reiche, 1923]:

c3
8 2
a ki
2
2
ki   
  
k
2
ki
aki=coefficienti di Einstein di emissione
spontanea dallo stato k allo stato i
Questa fu verificata sperimentalmente dallo stesso Ladenburg, che ottenne un buon accordo con i dati su diversi vapori e gas.
La teoria della dispersione di Kramers
Nel 1924 Bohr, Kramers e Slater formularono la teoria della radiazione [Bohr,
Kramers, Slater, 1924], di cui abbiamo già parlato e a cui rimandiamo per una migliore
comprensione del lavoro di Kramers.
Nonostante la conoscenza dell’effetto Compton, la teoria della radiazione fu salutata come un grande progresso dai fisici di Copenhagen e Göttingen.2 Kramers [Kramers, 1924a,1924b], che, fra i tre autori, continuò a difendere più strenuamente la teoria, anche quando, un anno dopo, era stata ripudiata dallo stesso Bohr, la utilizzò immediatamente per riprendere e generalizzare la teoria della dispersione di Ladenburg.
Kramers, partendo dal concetto di oscillatore virtuale, ipotizzò un meccanismo di
interazione tra radiazione e materia analogo a quello classico, sostituendo gli oscillatori
della meccanica classica con gli oscillatori virtuali. In questo modo ottenne la formula:

a la
a le'
P
3c 3 
 





E
8 2  l ( la ) 2 [( la ) 2   2 ] l ' ( le' ) 2 [( le' ) 2   2 ] 
Essa rappresentava una generalizzazione di quella di Ladenburg nel senso che:
- la prima sommatoria rende conto degli atomi che: inizialmente si trovano nello stato
fondamentale; vengono poi eccitati dalla radiazione incidente e, dopo averla assorbita,
diventano sorgenti di onde secondarie coerenti (cioè emettono la stessa frequenza incidente). Se si prende in considerazione solo questo fenomeno, si ottiene la formula di
Ladenburg.
- La seconda sommatoria rende conto degli atomi che si trovano già in stati eccitati e ai
quali la radiazione incidente fa compiere delle emissioni indotte.
Dal punto di vista sperimentale non vi era alcuna evidenza in favore della teoria di
Kramers, ma essa fu accolta dai fisici come un importante passo in avanti. Questa reazione era avvalorata dal fatto che nello stesso anno altri fisici arrivarono alla stessa formula partendo da presupposti, e usando ragionamenti, diversi.
Molto importante fu la derivazione della formula di Kramers fatta da Born. Egli,
partì ancora da uno schema perturbativo per sistemi multiperiodici e ricavò la formula
di Kramers dopo avere stabilito la sua regola di discretizzazione. Descriviamo con le
2
Secondo Van der Waerden questo fatto non deve sorprendere perché “nell’articolo dei tre autori (Bohr,
Kramers e Slater, n.d.t.), possiamo distinguere tre idee fondamentali:
1. l’idea di Slater di un “campo di radiazione virtuale”,
2. la conservazione statistica dell’energia e del momento,
3. l’indipendenza statistica dei processi di emissione e di assorbimento in atomi distanti”, [Van der Waerden, 1967, p. 12].
L’esperimento sull’effetto Compton aveva dimostrato l’erroneità dei punti 2. e 3., ma non del punto 1.
Ora, sia la teoria della dispersione di Kramers che quella successiva di Kramers-Heisenberg “sono basate sull’idea 1., ma non su 2. e 3.” [ibid. p. 14].
169
parole dello stesso autore [Born 1924, p. 387] l’ultima scoperta: “siamo quasi costretti
ad adottare la regola di rimpiazzare una quantità calcolata classicamente, della forma:
 
k
 1 d

J k h d
con la media lineare, o con il quoziente differenza:
1
k
0 
1

d    n      n  ”.
J k
h
Come abbiamo già detto, questa regola rappresentò un grande successo di Born,
soprattutto alla luce dell’influenza che ebbe su Heisenberg nella costruzione della sua
teoria. Essa fu inoltre un importante passo intermedio verso il perfezionamento del metodo matematico impostato sull’uso delle equazioni alle differenze al posto delle equazioni differenziali.
La teoria della dispersione di Kramers-Heisenberg
In questo lavoro [Kramers, Heisenberg, 1924] Kramers e Heisenberg estendono
ulteriormente il campo di applicabilità della relazione di Kramers al caso di scattering
incoerente, cioè al caso in cui le frequenze emesse differiscono da quelle delle onde incidenti. Essi seguono strettamente l’analogia con la meccanica classica, fino a giungere
ad espressioni contenenti termini simili a quelli previsti dalla regola di discretizzazione
di Born e, grazie ad essa, li traducono nell’espressione quantistica.
Con l’articolo di Heisenberg e Kramers si diffuse la sensazione di avere compiuto
un ulteriore progresso verso la spiegazione del fenomeno della dispersione. Su Heisenberg esso ebbe una grandissima influenza. Lo convinse sempre di più che era possibile
analizzare la struttura dell’atomo e i meccanismi della radiazione, senza utilizzare la
vecchia teoria quantistica e senza ipotizzare alcun tipo di modello atomico. Lo persuase,
inoltre, che quella era la strada buona per la creazione del nuovo metodo matematico
cercato. Innanzitutto esso aveva dimostrato che il filone delle equazioni alle differenze,
culminato nella regola di discretizzazione di Born, funzionava bene. Ma non vi era solo
questo, perché, come lo stesso Heisenberg ricordò in seguito: “ho trovato nelle formule
ricavate dalla mia collaborazione con Kramers, una matematica che, in un certo senso,
lavorava automaticamente, indipendentemente da tutti i modelli fisici. Questo schema
matematico aveva per me un’attrazione magica, ed ero affascinato dal pensiero che forse qui si potevano scorgere i primi fili di un’enorme rete di relazioni nascoste” [Rozental, 1967, p.98]. Heisenberg si riferisce qui all’uso delle serie di Fourier, che nel lavoro
con Kramers erano state introdotte nell’espressione del momento elettrico dell’atomo:
P0 n, t    An, n    exp2i n, n   t 

P0= momento elettrico dell’atomo
A(n,n-)= ampiezza di transizione tra
gli stati n ed n-
Esse sono collegate direttamente al campo di radiazione virtuale della teoria di
Bohr-Kramers-Slater e sostituiscono gli oscillatori classici, se, al posto dell’ampiezza di
oscillazione, legata all’orbita, sostituiamo l’ampiezza di transizione tra due livelli diversi, e, al posto della frequenza di oscillazione, sostituiamo la frequenza di transizione tra
due livelli. L’importanza delle serie di Fourier crebbe sempre di più, tanto che, come af-
170
fermò lo stesso autore, “si poteva vedere che le componenti di Fourier erano la realtà, e non le orbite” (grassetto nostro) [cit. in Mehra, Rechenberg, 1982, p. 189].
Conclusioni
Una volta tornato a Göttingen, Heisenberg raccoglie le idee sulla meccanica quantistica e, nel giro di un paio di mesi, termina il suo celebre articolo. Tentiamo di riassumere i punti fermi a cui era giunto dopo il suo soggiorno a Copenhagen.
- Necessità di abbandono della vecchia teoria. In particolare Heisenberg era convinto
della urgenza di abbandonare il vecchio modo di fare fisica per mezzo dei modelli, con
tutto il loro armamentario di concetti non osservabili.3
- Il carattere fondamentale del principio di corrispondenza. Esso rappresentava l’unico
punto di riferimento costante citato da Heisenberg in quasi tutti i suoi lavori. Era considerato sia come una specie di guida verso la costruzione della teoria sia come una
prova a posteriori per verificare che essa funzionasse. Proprio per la sua importanza
Heisenberg aveva sentito il bisogno di renderlo più definito e preciso.
- Dal punto di vista matematico:
 la teoria delle perturbazioni non aveva risposto alle aspettative, mentre le equazioni alle differenze avevano dato buoni risultati per le formule della dispersione.
 Heisenberg e Kramers avevano impiegato con successo una nuovo procedimento basato sull’impostazione classica di un problema, fino ad arrivare ad espressioni alle quali si poteva applicare la regola di discretizzazione di Born per
trovare le corrispondenti espressioni quantistiche.
 Heisenberg era convinto del ruolo fondamentale rivestito dalle serie di Fourier.
Solo che, una volta sostituite le ampiezze e le frequenze di oscillazione con quelle di transizione, restava aperto il problema di come si doveva lavorare con queste, cioè con quale matematica bisognava trattarle. Partendo dal tentativo di dare
una risposta a quest’ultima domanda Heisenberg si avviò alla soluzione della
meccanica quantistica.
Riassunto dell’articolo di Heisenberg
Introduzione. L’autore parte dalla critica al modello atomico di Bohr che faceva uso di
grandezze non osservabili come posizione, orbita e periodo di rivoluzione dell’elettrone.
Sottolinea che esso funzionava bene solo nel caso dell’atomo di idrogeno e del suo effetto Stark. Assume come fondamento della nuova teoria la relazione sulla frequenza
E 2  E1  h e la teoria della dispersione di Kramers.
3
In realtà l’idea di utilizzare solo elementi osservabili non passò attraverso discussioni e seminari come le
altre intuizioni conduttrici del periodo. L’unica traccia che possiamo trovare è in una frase di Kramers
nella sua seconda lettera a Nature sulla teoria della dispersione [Kramers, 1924b, p. 311]: “la formula
della dispersione…possiede il vantaggio…di contenere solo quantità che permettono un’interpretazione
fisica diretta”. Mentre, subito dopo, l’autore chiarisce, a proposito dell’uso dei modelli, che “la notazione di ‘oscillatori virtuali’…non significa l’introduzione di alcun meccanismo ipotetico aggiuntivo, ma è
inteso solo come una terminologia adatta a descrivere certe caratteristiche fondamentali della connessione tra la descrizione dei fenomeni ottici e l’interpretazione teorica degli spettri”. Il venir meno della
visualizzazione spazio-temporale è stato analizzato da [Miller, 1978], mentre la nascita della teoria delle
matrici è stata indagata, da un punto di vista più attento ai risvolti filosofici, da [Beller, 1983] e [Mc
Kinnon, 1977].
171
Paragrafo 1. Heisenberg affronta la cosiddetta cinematica del problema (definizione
sua). Considera l’espansione in serie di Fourier di una qualsiasi grandezza classica x e
trova, per mezzo di alcune regole di combinazione, la corrispondente quantistica. Una
volta ottenuta la quantità x(t), l’autore ricava x2, x3 e così via. Alla fine del paragrafo
Heisenberg fa notare che, mentre classicamente xy è sempre uguale a yx, quantisticamente questo non avviene più.
Paragrafo 2. Imposta la soluzione dinamica del problema. Nella teoria di Bohr si risolveva l’equazione di moto x  f ( x)  0 e si imponeva la condizione di quantizzazione:
 pdq  nh . Heisenberg propone di mantenere lo stesso metodo, dopo avere sostituito al
posto di x e di tutte le altre grandezze, le espansioni in serie di Fourier quantistiche trovate al paragrafo 1 e dopo avere modificato la condizione di quantizzazione. Infine
l’autore mostra la connessione tra la sua teoria e quella della dispersione di Kramers.
Paragrafo 3. Come semplici applicazioni della teoria, Heisenberg trova le soluzioni per
due tipi di oscillatori anarmonici e per il rotatore rigido.
172
”REINTERPRETAZIONE QUANTISTICA DELLE RELAZIONI
CINEMATICHE E MECCANICHE”
(“Über die quantentheoretische Umdeutung kinematischer und mechanischer Beziehungen”,
Zeitschrift für Physik, 33, 879-893. Ricevuto il 29 luglio 1925, pubblicato il 18 settembre
1925).4
W. HEISENBERG
Il presente articolo tenta di stabilire una base per la meccanica quantistica fondata esclusivamente su relazioni tra grandezze in linea di principio osservabili.
È ben noto che le regole formali usate nella teoria quantistica per calcolare grandezze osservabili (come l’energia dell’atomo di idrogeno) possono essere seriamente
criticate sulla base del fatto che esse contengono, come elementi fondamentali, relazioni
tra grandezze apparentemente inosservabili in linea di principio (cioè posizione e periodo di rivoluzione dell’elettrone). Così queste regole mancano di un’evidente base fisica,
a meno che non si voglia sperare che le grandezze finora inosservabili possano in seguito entrare a far parte del regno della determinazione sperimentale. Questa speranza potrebbe essere giustificata se le regole suddette fossero consistenti internamente ed applicabili ad una gamma chiaramente definita di problemi di meccanica quantistica.
L’esperienza invece dimostra che, per mezzo di queste regole formali della teoria quantistica, possono essere trattati soltanto l’atomo di idrogeno ed il relativo effetto Stark.
Sorgono difficoltà fondamentali già nel problema dei “campi incrociati” (atomo di idrogeno immerso in campi elettrici e magnetici aventi diverse direzioni). Neanche la reazione degli atomi a campi variabili periodicamente può essere descritta per mezzo di
queste regole. Infine, l’estensione delle regole quantistiche al trattamento di atomi con
più elettroni si è dimostrata irrealizzabile.5
È diventato usuale considerare il fallimento delle regole quantistiche come una
deviazione dalla meccanica classica, dal momento che le regole stesse sono state derivate dalla meccanica classica. Questo quadro ha, in ogni modo, poco significato se si pensa che la condizione sulla frequenza di Einstein-Bohr (che è valida in tutti i casi) rappresenta già un allontanamento completo dalla meccanica classica, o piuttosto (usando il
punto di vista della teoria ondulatoria) dalla cinematica sottostante a tale meccanica, che
la validità della meccanica classica non può essere mantenuta in maniera semplice neanche per i più elementari problemi teorici quantistici. In questa situazione sembra sensato rinunciare alla speranza di osservare grandezze finora inosservabili (come la posizione e il periodo dell’elettrone) e ammettere che l’accordo parziale delle regole quantistiche con l’esperienza sia più o meno fortuito. Sembra invece più ragionevole tentare di
fondare una meccanica quantistica teorica, analoga alla meccanica classica, ma in cui
siano presenti solo relazioni tra grandezze osservabili. È possibile considerare la condi4
5
D’ora in poi le note indicate con gli asterischi rappresenteranno quelle originali dell’autore.
L’introduzione critica è impostata su due concetti fondamentali:
- tutta l’impalcatura della fisica atomica di Bohr è basata su elementi inosservabili quali posizione e periodo di rivoluzione degli elettroni. Secondo l’autore queste quantità resteranno inosservabili anche in
futuro.
- Al di là del punto precedente, resta il fatto indiscutibile che la teoria funziona bene solo per il caso
dell’atomo di idrogeno e del suo effetto Stark.
173
zione sulla frequenza e la teoria della dispersione di Kramers, con i suoi sviluppi in lavori recenti, come i primi passi più importanti verso tale meccanica quantistica.6 In
questo lavoro, tenteremo di stabilire alcune nuove relazioni meccanico-quantistiche e le
applicheremo alla trattazione dettagliata di pochi problemi speciali. Ci limiteremo a
problemi con un grado di libertà.
§ 1. Nella teoria classica, la radiazione emessa da un elettrone in moto (nella zona
ondulatoria, cioè nella regione in cui E ed H sono dello stesso ordine di grandezza di
1/r) non è determinata completamente dalle espressioni
E
e
r rv’,
r c2
3
H
e
v’ r  ,
r c2
2
ma occorrono termini addizionali del successivo ordine di approssimazione, cioè termini della forma
ev’ v / rc 3
che può essere chiamata ‘radiazione di quadripolo’. Negli ordini superiori, compaiono
termini come
e v’ v 2 / rc 4 ;
in questo modo l’approssimazione può essere effettuata per ordini arbitrariamente alti.
(Sono stati utilizzati i seguenti simboli: E, H rappresentano l’intensità del campo in un
certo punto, r il vettore tra questo punto e la posizione dell’elettrone, v la velocità ed e
la carica dell’elettrone).
Ci si può chiedere quale forma dovrebbero assumere questi termini di ordine superiore nella teoria quantistica. Le approssimazioni di ordine superiore possono essere
calcolate facilmente nella teoria classica se il moto dell’elettrone è espresso come
un’espansione in serie di Fourier, e ci si può aspettare un risultato simile nella teoria
quantistica.7 Questo punto non ha niente a che fare con l’elettrodinamica, ma piuttosto e questo sembra particolarmente importante - è di natura puramente cinematica. Possiamo porre la questione nella sua forma più semplice in questi termini: se invece di una

H.A. Kramers, Nature 113 (1924) 673.
M. Born, Zs. f. Phys. 26 (1924) 379. H.A. Kramers e W. Heisenberg, Zs. f. Phys. 31 (1925) 681. M.
Born e P. Jordan, Zs. f. Phys. (in corso di pubblicazione) [33 (1925) 479; articolo 7a].
6
Heisenberg prosegue la sua critica fino alla rinuncia della speranza di potere osservare quantità attualmente inosservabili. Nella seconda parte espone invece la sua proposta: stabilire una meccanica quantistica basata solo su relazioni tra quantità osservabili. I passi più importanti verso la nuova teoria, dal
punto di vista della nuova impostazione in termini di osservabili, sono rappresentati:
- dalla relazione di Einstein-Bohr
E 2  E 1  h ,
che contiene solo quantità osservabili;
- dai recenti lavori sulla teoria della dispersione di Kramers.
7
Heisenberg pone subito in risalto il punto fondamentale del suo metodo: l’uso degli sviluppi in serie di
Fourier. Egli afferma che la teoria classica della radiazione emessa da un elettrone (Lorentz) permette il
calcolo completo (quindi non solo del momento di dipolo, ma anche di quadripolo e di momenti maggiori) della radiazione, solo se si utilizza il moto espresso in serie di Fourier. Egli, quindi, si muoverà in
analogia all’esempio classico.

174
grandezza classica x(t), abbiamo una grandezza quantistica, quale grandezza quantistica
comparirà al posto di x2(t)?8
Prima di poter rispondere a questa domanda, è necessario ricordare che nella teoria quantistica non è stato possibile associare, tramite grandezze osservabili, l’elettrone
con un punto nello spazio, in funzione del tempo. In ogni caso, anche nella teoria quantistica è possibile attribuire l’emissione di radiazione ad un elettrone. Per descrivere
questa radiazione, le frequenze devono presentarsi come funzioni di due variabili9. Nella teoria quantistica queste funzioni hanno la forma
 n ,n    
1
W  n   W  n     ,
h
e nella teoria classica hanno la forma
 n ,    n  
1 dW
.
h dn
(Qui si ha nh=J, dove J è una delle costanti canoniche).
Per confrontare la frequenza nella teoria classica e in quella quantistica, si possono scrivere le regole di combinazione:
Classiche:
  n ,     n ,      n ,    .
Quantistiche
 n , n      n   , n        n , n     
oppure
 n   , n        n, n      n, n     . 10
Per completare la descrizione della radiazione è necessario avere non solo le frequenze, ma anche le ampiezze. Le ampiezze, che determinano sia la polarizzazione che
la fase, possono essere trattate come vettori complessi, ciascuno specificato da sei componenti indipendenti.11 Poiché le ampiezze sono anche funzioni delle due variabili n ed
, la parte della radiazione corrispondente è data dalle seguenti espressioni:
8
L’autore sottolinea come questo modo di procedere non abbia niente a che vedere con l’elettrodinamica
(e difatti non vi è il minimo accenno alle cause del moto e alle forze in gioco), ma soltanto con la cinematica perché tenta di ottenere il risultato, partendo dalla sola descrizione formale matematica del moto.
È un metodo analogo a quello classico di Lorentz, che, partendo dal moto dell’elettrone, giungeva alla
descrizione della radiazione emessa. Il problema diventa quindi quello di trovare le grandezze da sostituire a quelle classiche x(t), x2(t), e così via.
9
Mentre nella teoria della radiazione classica le frequenze emesse dipendono da una sola variabile (la
frequenza del moto dell’elettrone), nella teoria quantistica dipendono sempre da due variabili, cioè dai
due livelli energetici.
10
La regola di combinazione classica segue direttamente da
 n,     n  ,
infatti
 n,     n,     n    n       n    n,     .
Invece quelle quantistiche si comprendono facilmente per mezzo dei salti quantici.
11
Heisenberg introduce inizialmente la rappresentazione delle ampiezze per mezzo di vettori complessi,
ma in seguito la abbandonerà.
175
Quantistiche:
Re Un, n    e i n , n  t

Classiche:
Re U  n  e i  n  t


(1)

(2)
A prima vista la fase (contenuta in U) sembrerebbe essere sprovvista di significato
fisico nella teoria quantistica, poiché in questa teoria le frequenze non sono in generale
confrontabili con le loro armoniche. Comunque vedremo subito che anche nella teoria
quantistica la fase ha un significato analogo a quello della teoria classica. Una data
grandezza x(t) nella teoria classica, può essere rappresentata da un set di quantità della
forma
U n  e i n t ,
che, a seconda che il moto sia periodico o no, possono essere combinate in una somma
o in un integrale che rappresenta x(t):

x n , t     U  n  e i  n t

oppure
(2a)

xn, t    U n  e i  n t d .

Sembra impossibile realizzare in maniera univoca e quindi significativa una combinazione simile per le corrispondenti grandezze quantistiche, a causa del peso uguale
delle variabili n e n-Comunque si può considerare l’insieme delle grandezze
Un, n    e i n , n  t
come una rappresentazione della grandezza x(t) e poi tentare di rispondere alla questione precedente: come deve essere rappresentata la grandezza x2(t)?
La risposta nella teoria classica è ovviamente:
B  n e i  n  t 




U  U  - e i  n      t
(3)
oppure



U

U
 -
e
i
 n 
  
t
d ,
(4)
 
di modo che

x 2 t     B  n  e i n t
(5)

o, rispettivamente,

  B  n  e i n t d .

176
(6)
Nella teoria quantistica, sembra che l’ipotesi più semplice e naturale sia quella di sostituire le equazioni (3) e (4) con:

Bn, n -   e i  n, n   t    Un, n -   Un -  , n -  
(7)

oppure

  Un, n    Un   , n    e i n , n   t d ;

(8)
e infatti questo tipo di combinazione è una conseguenza quasi necessaria delle regole di
combinazione della frequenza.12 Adottando le ipotesi (7) e (8), si riconosce che le fasi
della U quantistica hanno un grande significato fisico proprio come le loro analoghe
classiche. Soltanto l’origine della scala del tempo, e quindi un fattore di fase comune a
tutte le U, è arbitrario e di conseguenza privo di significato fisico; ma le fasi delle singole U entrano in modo essenziale nella grandezza B.* Al momento attuale sembra poco
probabile un’interpretazione geometrica di queste relazioni quantistiche di fase, analoga
a quella della teoria classica.
Se inoltre cerchiamo una rappresentazione della grandezza x 3  t  troviamo senza
difficoltà:
Classica:
 
C(n,  )    ,  U n  U  n  U    n 
(9)
 
Quantistica:
 
Cn, n       ,  Un, n    Un   , n      Un     , n   
(10)
 
oppure le corrispondenti forme integrali.
In modo analogo si può trovare una rappresentazione quantistica di tutte le grandezze della forma x n  t  , e, per una qualsiasi funzione f  x t   , si può sempre trovare la
corrispondente espressione quantistica, sempre che sia possibile espandere la funzione
in serie di potenze di x. Comunque vi è una rilevante difficoltà se consideriamo due
grandezze x(t), y(t) e calcoliamo il loro prodotto x(t)y(t). Se x(t) è caratterizzata da U, e
y(t) da B, otteniamo le seguenti rappresentazioni per x(t)y(t):
12
Se scrivessimo direttamente l’espressione quantistica per analogia alla (3), avremmo:
i  n , n   t
Bn, n    e
  Un, n   Un, n     ei n, n      n, n      t

e quindi


  n , n      n , n      n , n       ,
ma, dalle regole di combinazione formulate prima da Heisenberg, sappiamo che:
 n , n      n , n      n   , n    ,
e in questo senso le (7) e (8) sono conseguenze quasi necessarie delle regole di combinazione.
*
Cf. anche H.A. Kramers e W. Heisenberg, loc. cit. Le fasi entrano essenzialmente nell’espressione lì usata per il momento di scattering indotto.
177
Classica:

C  n     U n  B   n  .

Quantistica:

Cn, n       Un, n    Bn   , n    .

Mentre nella teoria classica x(t)y(t) è sempre uguale a y(t)x(t), questo non è necessariamente vero nella teoria quantistica. - In casi particolari, ad esempio
nell’espressione x(t)x2(t), questa difficoltà non si presenta.
Se si è interessati a prodotti della forma
v t  v '  t  ,
come nel problema posto all’inizio di questa sezione, allora nella teoria quantistica il
vv'v' v  , affinché vv’ rappresenti il coeffiprodotto vv' dovrebbe essere sostituito da
2
1 2
ciente differenziale di 2 v . In modo analogo sembrerebbe sempre possibile trovare espressioni naturali per i valori medi quantistici, sebbene essi possano essere ancora più
ipotetici delle formule (7) e (8).
A prescindere dalla difficoltà appena menzionata, formule del tipo (7), (8) dovrebbero essere sufficienti in generale ad esprimere l’interazione degli elettroni in un
atomo in termini delle ampiezze caratteristiche degli elettroni.
§ 2. Dopo queste considerazioni, concernenti la cinematica della teoria quantistica, poniamo la nostra attenzione al problema dinamico che ha come scopo la determinazione delle U, , W dalla conoscenza delle forze del sistema. Nella teoria precedente
questo problema era risolto in due fasi:
1. integrazione dell’equazione di moto
x ' ' f  x   0
(11)
2. determinazione delle costanti per il moto periodico tramite13
 pdq   mx ' dx  J   nh .
(12)
Se si cerca di costruire un formalismo quantistico corrispondente il più possibile a
quello della meccanica classica, è molto naturale trasportare direttamente nella teoria
quantistica l’equazione del moto (11). A questo punto, comunque, è necessario - per
non allontanarci dalla solida base fornita da quelle grandezze che sono in linea di principio osservabili - sostituire le grandezze x e f(x) con le loro corrispondenti quantistiche
fornite nel § 1. Nella teoria classica è possibile ottenere la soluzione della (11) dapprima
13
Per integrare un’equazione di moto, si ha bisogno di un certo numero di costanti di integrazione. Generalmente si tratta di posizioni e momenti iniziali. Ad esempio, nel caso dell’oscillatore armonico, la soluzione ha la forma:


x  a cos 0t  
a=cost., =cost.,
dove le costanti di integrazione sono date dall’ampiezza e dalla fase.
Nei sistemi multiperiodici l’ampiezza a può essere rimpiazzata dall’integrale di azione J, a cui si riferisce, appunto, Heisenberg.
178
esprimendo x in serie di Fourier o per mezzo di integrali di Fourier con coefficienti (e
frequenze) indeterminati. In generale otteniamo un set infinito di equazioni contenenti
infinite incognite, oppure equazioni integrali, che possono essere ridotte a semplici relazioni ricorsive per la U solo in casi speciali. Nella teoria quantistica al momento siamo
costretti ad adottare questo metodo di soluzione dell’equazione (11) poiché, come è stato detto prima, non è possibile definire una funzione quantistica analoga alla funzione
x(n,t), in modo diretto.
Di conseguenza è possibile trovare la soluzione quantistica della (11) solo nei casi
più semplici. Prima di considerare questi semplici esempi, diamo una reinterpretazione
quantistica della determinazione della costante del moto periodico, fornita dalla (12).
Assumiamo che (classicamente) il moto sia periodico:

x    a  n eint
(13)

quindi

mx ' m  a  ni n ei n t

e
 mx 'dx   mx '

dt  2m  a  n a   n 2 n .
2

Inoltre, poiché a  n  a  n (dal momento che x deve essere reale) segue che14
 mx '

2
dt  2m  a  n  2 n .
2
(14)

Nella teoria precedente questo integrale di fase era posto di solito uguale ad un
multiplo intero di h, cioè, uguale ad nh, ma questa condizione non si adatta in maniera
naturale al calcolo dinamico. Essa sembra, anche se la si considera dal punto di vista
adottato finora, arbitraria nel senso del principio di corrispondenza, poiché da questo
punto di vista le J sono determinate come multipli di h soltanto a meno di una costante
additiva. Invece della (14) sarebbe più naturale scrivere
d
d
 nh   mx '2 dt ,
dn
dn
cioè,

h  2m 


2
d
 n a
dn

(15)
2
14
Poiché  mx ' dt   m  a i e i t  dt , svolgendo il quadrato e integrando, si vede facilmente che


2
it
ix
tutti i termini in cui compare il fattore e
si annullano, dal momento che e  cos x  i sen x , che,
integrato su un ciclo completo ha valore nullo. Restano solo i termini  a   a   2  2 , quindi:

2 
 m 2  a   a   2 dt 
0

2


m 2  a   a   2  2m  a   a   2  .

179
 
Una condizione simile ovviamente determina le a solo a meno di una costante, e
in pratica questa indeterminazione ha dato luogo a difficoltà legate all’esistenza di numeri quantici semi-interi.15
L’unicità perduta viene reintrodotta automaticamente, se scopriamo una relazione
quantistica, corrispondente alle (14) e (15), contenente solo grandezze osservabili.
Dobbiamo ammettere che soltanto l’equazione (15) ha una riformulazione quantistica16 semplice correlata alla teoria della dispersione di Kramers:*



h  4m  a  n , n     n , n     a  n , n     n , n    .17
0
2
2
(16)
Questa relazione è sufficiente per calcolare le a in modo univoco poiché le costanti indeterminate contenute nelle grandezze a sono fissate automaticamente dall’esistenza di
uno stato di base, da cui non viene emessa alcuna radiazione. Denotiamo questo stato
fondamentale con n0; allora dovremmo avere
a  n0 , n0     0 (per >0).
Quindi possiamo aspettarci che la questione della quantizzazione intera o semintera non sorga in una meccanica quantistica basata solo su relazioni tra grandezze osservabili.
Le equazioni (11) e (16), nei casi risolvibili, contengono una completa determinazione non solo dei valori delle frequenze e delle energie, ma anche delle probabilità di
transizione quantistiche. Comunque, allo stato attuale è possibile ottenere delle soluzioni solo nei casi più semplici. In molti sistemi, e.g. l’atomo di idrogeno, nasce una com15
Il problema in discussione è duplice: 1) quello dell’esistenza delle costanti semintere e, 2), quello delle
costanti introdotte dal procedimento di integrazione. 1) Nella teoria di Bohr si ipotizzava che la variabile di azione J, calcolata su un’orbita, potesse avere solo valori multipli interi della costante h, cioè J=nh.
In realtà alcuni risultati sperimentali avevano messo in dubbio la validità del postulato di Bohr, dal momento che talvolta era necessario supporre l’esistenza di valori seminteri. 2) La determinazione dei valori di n, avveniva a meno di una costante, introdotta dall’integrazione stessa. Heisenberg propone di
sostituire l’equazione (12), avente forma integrale, con una in cui compaiono entrambe i membri differenziati, eliminando così le costanti introdotte dall’integrazione. In tal modo giungeva alla (15), alla
quale si può applicare la regola di discretizzazione appena trovata da Born, che conduce alla relazione
(16). La relazione (16), già ottenuta dalla teoria della dispersione di Kramers, da una parte non esclude
la possibilità di valori seminteri, dall’altra permette un calcolo univoco delle ampiezze di transizione a,
fissando uno stato fondamentale, dal quale non vi è possibilità di emissione di radiazione.
16
Come abbiamo visto, Born [Born, 1924] aveva trovato la regola applicabile ai sistemi multiperiodici,
con cui si poteva passare dalle formule classiche, con una struttura particolare, indicata dalla regola
stessa, a quelle quantistiche, per mezzo della seguente sostituzione:
  J ,   1 d
1


 ( n,  )   n      n  , dove  può essere una qualsiasi quantità fisica esprih dn
J
h
mibile in funzione dell’azione J. Nella (15) la funzione corrispondente a è :


 n  a   n ,   a  n ,   ,
a cui corrisponde la (16), per mezzo dell’applicazione della regola di Born.
*
Questa relazione è stata già derivata tramite considerazioni sulla dispersione da W. Kuhn, Zs. Phys. 33
(1925) 408, e W. Thomas, Naturwiss. 13 (1925) 627.
2
17
2
Per errore Heisenberg ha trascritto in questa formula  n, n    a n, n    , anziché
2
 n   , n  a n   , n  . In realtà, quando, nelle pagine seguenti effettuerà le applicazioni per
2
l’oscillatore anarmonico e per il rotatore rigido, userà quella esatta.
180
plicazione particolare poiché le soluzioni corrispondono ad un moto che è in parte periodico e in parte aperiodico. Come conseguenza di questa proprietà, le serie quantistiche (7), (8) e l’equazione (16) si scompongono in una somma e un integrale. In meccanica quantistica tale scomposizione in un ‘moto periodico e aperiodico’ non può essere
generalizzata.
Ciononostante, le equazioni (11) e (16) potrebbero essere considerate, almeno in
linea di principio, una soddisfacente soluzione del problema dinamico, se fosse possibile dimostrare che questa soluzione è in accordo con le relazioni quantistiche conosciute
al momento (o almeno non le contraddice). Si dovrebbe stabilire, per esempio, che
l’introduzione di una piccola perturbazione in un problema dinamico porta a termini aggiuntivi nell’energia, o nella frequenza, dello stesso tipo di quelli trovati da Kramers e
Born - ma non del tipo di quelli forniti dalla teoria classica. Bisogna inoltre esaminare
se l’equazione (11), nella forma quantistica attuale, può dar luogo all’integrale
dell’energia 12 mx' 2 U  x   cost. , e se l’energia così derivata soddisfa la condizione
W  h , in analogia alla condizione classica   W J . Una risposta generale a queste questioni chiarirebbe le connessioni intrinseche tra le precedenti investigazioni quanto-meccaniche e aprirebbe la via verso una meccanica quantistica consistente basata solo su grandezze osservabili. A parte una generale connessione tra la formula della dispersione di Kramers e le equazioni (11) e (16), possiamo rispondere alle precedenti
domande solo per casi molto speciali che possono essere risolti con semplici relazioni
ricorsive.
Il collegamento generale tra la teoria della dispersione di Kramers e le nostre equazioni (11) e (16) è il seguente. Dall’equazione (11) (più precisamente dall’analoga
quantistica) si trova, proprio come nella teoria classica, che l’elettrone oscillante si
comporta come un elettrone libero quando è sottoposto all’azione della luce di frequenza molto maggiore di qualsiasi frequenza propria del sistema. Questo risultato segue anche dalla teoria della dispersione di Kramers se in più si tiene conto dell’equazione (16).
Infatti, Kramers trova per il momento indotto da un’onda della forma Ecos2t:
2
2
2   a n   , n   n   , n  a n, n     n, n    

M  e E cos 2t   
,
h 0   2 n   , n    2
 2 n, n      2 
2
di modo che per     n , n    ,


2 Ee 2 cos 2t 
2
2
M 

 a n   , n   n   , n   a n, n     n, n    ,
2
 h
0
che, grazie all’equazione (16) diventa18
e 2 E cos 2t
M 
.
4 2 m 2
§ 3. Adesso, come semplice esempio, sarà trattato l’oscillatore anarmonico:
18
Heisenberg mostra come applicando la sua equazione (16) alla teoria della dispersione di Kramers, si
e E cos 2t
2
ritrova la formula M  
, già verificata sperimentalmente da Thomson nel 1903 per lo
2
2
4 m
scattering di raggi X da parte di elettroni liberi e provando così che, anche nella sua teoria, l’elettrone
oscillante si comporta come un elettrone libero quando è sottoposto all’azione della luce di frequenza
molto maggiore delle autofrequenze del sistema.
181
x '' 02 x  x 2  0 .
(17)
Classicamente, quest’equazione è soddisfatta da una soluzione della forma
x  a 0  a1 cos t  a 2 cos 2t  2 a 3 cos 3t  ...  1 a cos t ,
dove le a sono serie di potenze di , i cui primi termini sono indipendenti da  Tentiamo di trovare quantisticamente un’espressione analoga, rappresentando x con termini
della forma

an,n
an,ncosn,nt
an,ncosn,n-2t
an,n-cosn,n-t
Le formule ricorsive che determinano le a e le  (fino ai termini di ordine
esclusi), in accordo con le equazioni (3), (4), o (7), (8), sono:19
Classiche:
 a 0 ( n )  21 a12 ( n )  0;
2
0
 4
 9
 2   02  0;
2
2
  02  a 2  n  21 a12  0;
(18)
  02  a 3  n  a1 a 2  0;
........................................
Quantistiche
19
Si perviene alle formule (18) partendo dalla soluzione:
 1
x  a 0  a1 cos t  a 2 cos 2t   a 3 cos 3t  ...  
2
a  cos t
e sostituendola nella (17). Poiché:
x   a1 2 cos t  4 2 a 2 cos 2t  9 2 2 a 3 cos 3t  ...
x   a0  a1 cos t   a2 cos 2t   a3 cos 3t  2a0 a1 cos t  2 a0 a2 cos 2t 
2
2 2
2
2
2 2
2
4 2
2
2
 2 a0 a3 cos a3t  2a1a2 cos t cos 2t  2 a1a3 cos t cos 3t  2 a2 a3 cos 3t
si ottiene:
3
2
3
  a1 2 cos t   02 a1 cos t     02 a0  4 2 a2 cos 2t   02 a2 cos 2t  a12 cos 2 t   ...  0 ,
dove abbiamo ordinato in base ai coefficienti crescenti e ci siamo limitati a riportare solo i primi due
termini. Uguagliando a zero di volta in volta i coefficienti di 0, 1, 2…, si ottiene:
2
2
2
2
 0)
    0 a1 cos t  0
e quindi
   0  0
0
1

)
1
2
 0 a0

 4 a 2 cos 2t   0 a 2 cos 2t  a1 cos t  0
2
2
2
2
 4 2  02 a 2  12 a12  0
 4
2

  0 a 2  a 0 0  0
2
e così via per tutte le altre.
182
2
conduce a:
 02 a0 n   14 a 2 n  1, n   a 2 n, n  1  0;
  2 n, n  1   02  0;
  n, n  2   an, n  2  an, n  1an  1, n  2  0;
  n, n  3   an, n  3  an, n  1an  1, n  3 
2
2
0
2
1
2
2
0
(19)
1
2
 12 a n, n  2 a n  2, n  3  0;
..............................................................................................................................
La condizione quantistica addizionale è:
Classica (J=nh):
d  1 2
2
1  2m
.

4  a
dJ 
Quantistica:



h  m a n   , n  n   , n  a n, n     n, n    .20
0
2
2
Otteniamo al primo ordine, sia classicamente che quantisticamente
a12  n
a 2 n, n  1 
oppure
n  cost h .
(20)
m 0
Nella teoria quantistica, la costante nell’equazione (20) può essere determinata
dalla condizione che a(no,no-1) dovrebbe annullarsi nello stato fondamentale. Se numeriamo le n in modo tale che nello stato fondamentale n sia nullo, cioè no=0, allora
a2(n,n-1)=nh/mo.21
20
In realtà le formule complete sono:
1  2m
d

dJ

 14 
2  2
2
 a  ,
2
e

2  2
h  m  
0
 a n   , n 
2
2
ma Heisenberg omette i termini con 
21



 n   , n   a n , n     n , n    ,

Se nell’equazione h  m  a n   , n   n   , n   a n, n     n, n    , denotiamo lo stato
0
2
2
fondamentale con n0 e ipotizziamo che in questo stato l’atomo possa solo assorbire, ma non emettere
radiazione, si ha, limitandoci al primo ordine della sommatoria:


h  m a n0  1, n0   n0  1, n0   a n0 , n0  1  n0 , n0  1 .
2
2
Il secondo termine a destra si annulla, dal momento che rappresenta l’emissione di radiazione, quindi
(ponendo n0 uguale a zero):
h
2
2
a 1,0  
.
h  m a 1,0   1.0  ;
m 0
Analogamente si calcola a(2,1):


183
Segue così, dalle relazioni ricorsive (18), che nella teoria classica il coefficiente a
1

ha (al primo ordine in ) la forma     n 2 , dove  rappresenta un fattore indipendente da n. Nella teoria quantistica, l’equazione (19) implica22
a n, n        
n!
,
n   !
(21)
dove  è lo stesso fattore proporzionale indipendente da n. Naturalmente, per grandi
valori di n il valore quantistico di a tende asintoticamente al valore classico.
Un ovvio passo successivo sarebbe quello di cercare di inserire l’espressione classica per l’energia
23
2
2 2
3
1
1
1
2 mx '  2 m 0 x  3 mx  W ,
perché nel presente calcolo di prima approssimazione essa è costante, anche quando è
trattata quantisticamente. Il suo valore è dato dalle (19), (20) e (21):24


a 2,1
h  m a 2,1  2,1  a1,0   1,0  ;
2
2
2

2h
m 0
,
dove abbiamo sostituito (2,1) con 0 in base alla seconda equazione delle (19). In generale si ottiene:
nh
2
.
a n, n  1 
m 0
22
Classicamente si aveva:
dove  1 
a1   1 n ,
h
m 0
,
dalla terza equazione delle (18) si ha:
a2
 2 1
1 2
2
a2 3 0  a1 ;
a2  1 2 
n;
2
6 0
6 02
dalla quarta si ha:
aa
 3 1 3
2
8 0 a3  a1a 2 ;
a 3  1 22 
n ;
8 0 48 04
in generale si ottiene:
a 2   2  n 2
a 3   3 n3 ;
a     n  .
23
Con un procedimento analogo, quantisticamente si ricava la (21).
Classicamente l’energia si ottiene moltiplicando l’equazione dell’oscillatore anarmonico (17) per mx :
mxx  m 0 xx  mxx  0 ,
2
2
considerando che quest’espressione equivale a:
d 1
1
1

mx 2  m 02 x 2  mx 3   0 ,

dt  2
2
3

si ricava:
1
1
1 3
2
2 2
W  mx  m 0 x  mx  cost.
2
2
3
24
Partendo sempre dalla soluzione, e limitandoci alla prima approssimazione in , si ha:
x  a 0  a1 cos t  a 2 cos 2t  ...
x   a1 sen t  2a2 sen 2t  ... ,
2
2 2
2
2
x  a1  sen t  4 a1a 2  sen t sen 2t  ... ,
184
Classicamente:
W=nho/2 



(22)
Quantisticamente, dalle (7) e (8):
W   n  21  h 0 / 2
(23)
(sono stati esclusi termini dell’ordine di 2).
Così, dal presente punto di vista, anche l’energia dell’oscillatore armonico non è
data dalla ‘meccanica classica’, cioè dall’eq. (22), ma ha la forma (23).
Adesso sarà effettuato il calcolo più preciso per il semplice esempio
dell’oscillatore anarmonico
x' ' 02 x  x 3  0 ,
prendendo in considerazione approssimazioni di ordine maggiore per W, a, 
Classicamente, in questo caso si può porre
x=a1cost+a3cos3t+2a5cos5t+...,
quantisticamente tentiamo di porre per analogia
a(n,n-1)cos(n,n-1)t;
a(n,n-3)cos(n,n-3)t;
….
Le grandezze a sono ancora una volta serie di potenze di  il cui primo termine ha
la forma, come nell’eq. (21),
a n, n        
n!
,
n   !
come si trova calcolando le equazioni corrispondenti a (18) e (19).
Se si esegue il calcolo di  ed a dalle equazioni (18) e (19), fino all’ordine 2 o 
rispettivamente, si ottiene25
x  a1 cos t  2a0 a1 cos t  2a1a2 cos t cos 2t  ... ,
2
2
2
x  a1 cos t  ... ,
3
3
3
sostituendo nell’espressione dell’energia, dal momento che    0 , e a1 
2
nh
2
m 0
, si ottiene:
nh 0
.
2
Procedendo in modo analogo per il caso quantistico e ricordando le (19) e la (21), si ottiene la (23).
25
Heisenberg arriva alle equazioni (24) e (25) con un procedimento abbastanza lungo che non riportiamo
per esteso, ma di cui ci limitiamo a riassumere i passi fondamentali.
Come aveva fatto nel precedente esempio, parte dalla soluzione:
W 
x  a1 cos t  a 3 cos 3t   a 5 cos 5t  ... ,
2
ricava:
x   a1 2 cos t  a3 9 2 cos 3t  2 a5 25 2 cos 5t  ... ,
185
3h 2
17n 2  7  ...
 n, n  1   0  

8 02 m
256 05 m 2  2
3nh
2
(24)
 3a13  6a1a322  3a12 a3 
 a13  6a12 a3  3a12 a52 

cos

t



 cos 3t 
4
4




2
2
2
2 2
 6a a   3a1 a3  3a1a3  
 1 5
 cos 5t  ...
4


3
x 
2
3
Sostituendo nell’equazione del moto: x   0 x  x  0 e, limitandosi ai termini in 2 , ottiene le rela-
zioni:
  2   2 a  3 a 3  3 2 a 2 a  cos t  0
0 1
1
1 3

4
4

1
3
 9 2   2 a  a 3  a 2 a  cos 3t  0
0
3
1
1 3

4
2

3
3
 25 2   2 a  a 2 a  a a 2  3 2 a 2 a  cos 5t  0
0 5
1 3
1 3
1 7

4
4
4

(a)
(b)
(c)
Riscrive queste relazioni quantisticamente sostituendo al posto di a1, a3 e a5, rispettivamente, a(n,n-1),
a(n,n-3), a(n,n-5); al posto di 3 e 5rispettivamente, (n,n-1), (n,n-3), (n,n-5); al posto di:
3
a1 , nella (a):
1
3
[ a n, n  1an  1, n an, n  1  an, n  1a n  1, n a n, n  1 
 a n, n  1a n  1, n  2 an  2, n  1 ]
2
a1 a3 ,
nella (b):
1
[ a n, n  1a n  1, n  2 a n  2, n  1  a n, n  1a n  1, n  2 a n  2, n  1 
3
 a n, n  3a n  3, n  2 a n  2, n  1]
e così via. Ricava quindi la condizione quantistica:
2


2
2
 mx dt    m  a2 1 2  1 sen 2  1t dt ,

 0

ottenendo classicamente:

h  2  2  12
 0
e quantisticamente:



d 2
a 2 1 2  1 0
dn


h  4  2 a n  2  1, n   n  2  1, n   a n, n  2  1  n, n  2  1 .
 0
2
2
A questo punto, utilizzando l’equazione:
a  n, n        n  ...
o l’equivalente quantistica:
a n, n       
arriva alle equazioni (24), (25) e (26).
186
n!
n    !
a n, n  1 

3nh
nh 
1  
 ... 
3

 0 m 
16 0 m


h3
1
39n  1h 

 .



a n, n  3 
n
n

n


1
2
1

3


32  3 07 m 3
m
32

0


(25)
(26)
L’energia, definita come il termine costante nell’espressione
1
2
mx '2  21 m 02 x 2  41 mx 4 ,
(non ho potuto provare in generale che tutti i termini periodici si annullano, ma ciò è
avvenuto per tutti i termini calcolati) diventa
W
 n  21  h 0
2

3 n 2  n 
1
2
2
0
h2
8  4  m
2

2
h3
512  m
3
5
0
2
17n 3  512 n 2  592 n  212 
(27)
Quest’energia può essere determinata anche con il metodo di Kramers-Born, trattando il termine 41 mx 4 come una perturbazione per l’oscillatore armonico. Mi pare che
il fatto di ottenere lo stesso risultato (27) dia un notevole supporto alle equazioni assunte qui come base della meccanica quantistica. Inoltre, l’energia calcolata dalla (27) soddisfa la relazione (cfr. eq. 24):
 n, n  1 1
 W  n  W  n  1  ,
2
h
che può essere considerata come una condizione necessaria per la possibilità di un calcolo delle probabilità di transizione in accordo alle equazioni (11) e (16).
In conclusione consideriamo il caso del rotatore e poniamo l’attenzione sulla relazione
tra le equazioni (7), (8) e la formula dell’intensità per l’effetto Zeeman* e per i multipletti.**
Consideriamo il rotatore rappresentato da un elettrone che gira attorno ad un nucleo a
distanza costante a. Sia classicamente che quantisticamente, le ‘equazioni del moto’
stabiliscono semplicemente che l’elettrone effettua una rotazione piana, uniforme, ad
una distanza a e con una velocità angolare  attorno al nucleo. La ‘condizione quantistica’ (16) dà, in accordo con la (12),
h
d
 2ma 2   ,
dn
e, in accordo con la (16),
h  2ma 2  n  1, n  a 2  n, n  1  ,
per cui, in entrambi i casi segue:
*
S. Goudsmit e R. de L. Kronig, Naturwiss. 13 (1925) 90; H. Hönl, Zs. f. Phys. 31 (1925) 340.
R. de L. Kronig, Zs. f. Phys. 31 (1925) 885; A. Sommerfeld e H. Hönl, Sitzungsber. d. Preuss. Akad. d.
Wiss. (1925) 141; H. N. Russell, Nature 115 (1925) 835.
**
187
 n, n  1 
hn  cost.
.
2ma 2
La condizione che la radiazione dovrebbe annullarsi nello stato fondamentale
(no=0) porta alla formula:26
hn
 n, n  1 
.
(28)
2ma 2
L’energia è
W  21 mv 2 ,
oppure, dalle equazioni (7), (8),
m 2  2  n, n  1   2  n  1, n
h2
W a
 2 2 n2  n 
2
2
8 ma
1
2
,
(29)
che, di nuovo, soddisfa la condizione (n,n-1)=(2h)[W(n)-W(n-1)].27 In appoggio alla
validità della formula (28) e (29), che differisce da quelle della teoria usuale, si potrebbe
26
La condizione quantistica per il rotatore rigido, si ricava da:
 p  d nh ,
2
Dove a=raggio di rotazione
m=massa del rotatore
=velocità angolare
2
2
 ma d  2ma   nh
0
quindi:
h
da cui si ottiene:


d
2ma 2 ,
dn


h  2m a 2 n  1, n   a 2 n, n  1 .
Se consideriamo che nello stato fondamentale (n=0) l’atomo non emette si ha:
h
per (1,0):
,
 1,0  
2ma 2
per (2,1):


 2,1 
h  2m a 2 2,1  a 2 1,0  , da cui
2h
2ma 2
 n, n  1 
e quindi:
Se in generale poniamo:
(1,0)=cost.,
allora:
 2,1 
h
 cost.
2ma 2
n  1h  cost. ,
 n, n  1 
2ma 2
e quindi:
 n, n  1 
27
Poiché Wcl 
n  cost.h
2ma 2


1
1
2
2 2
ma  , e ricordando che Wqu   2 n, n  1   2 n  1, n  ,
2
2
si ha:
188
,
nh
2ma 2
.
ricordare che, in accordo con Kratzer*, molti spettri a bande (inclusi gli spettri per i quali l’esistenza di un momento dell’elettrone è improbabile) sembrano richiedere formule
del tipo (28), (29), che, per evitare una rottura con la teoria della meccanica classica, finora si tentava di spiegare per mezzo della quantizzazione semi-intera.
Per arrivare alla formula di Goudsmit-Kronig-Hönl per il rotatore dobbiamo lasciare il
campo dei problemi con un grado di libertà. Assumiamo che il rotatore abbia una direzione nello spazio soggetta ad una lentissima precessione v attorno all’asse z di un
campo esterno. Sia m il numero quantistico corrispondente a questa precessione. Il moto
è allora rappresentato dalle grandezze
a n, n  1; m, m cos  n, n  1 t ;
bn, n  1; m, m  1 ei   n , n 1 v  t ;
bn, n  1; m  1, m  ei  n , n 1 v  t .
z:
x+iy:
Le equazioni del moto sono semplicemente
x2+y2+z2 = a2,
la (7) conduce a **
 a n, n  1; m, m  b n, n  1; m, m  1  b (n, n  1; m, m  1) 
1 1
2 2
2
2
2
 12 a 2 n  1, n; m, m   b 2 n  1, n; m  1, m   b 2 n  1, n; m  1, m    a 2 .

2
n, n  1  

2 
 2ma 
hn
2
 n  1h 
 n  1, n   
 ,
 2ma 2 
2
2
e quindi:
Wqu 
2
2
m 2  hn 
 n  1h   ,

a 

2
2
4
 2ma   2ma 


da cui:
Wqu 
h2
8 2 ma 2
 n2  n 


1
.
2
Poiché:
W n  
h2  2
1
n  n ,e
2
2 
2
8 ma 
1

2


n

1

n

1

,

2 
8 ma 
h2 
1
1
2
W n   W n  1  2 2  n 2  n   n  1  n  1  
2
2
8 ma 
W n  1 
h
2
2
2
e, infine:
W n   W n  1   n, n  1
h
.
2
*
Cfr. per esempio, B.A. Kratzer, Sitzungsber. d. Bayr. Akad. (1922) p. 107.
**
L’equazione (30) è essenzialmente identica alle regole della somma Ornstein-Burger.
189
(30)
a n, n  1; m, m a n  1, n  2; m, m  b n, n  1; m, m  1 b n  1, n  2; m  1, m +
b n , n  1; m, m  1 b n  1, n  2; m  1, m .
(31)
1
2
La condizione quantistica si ottiene anche dalla (16):
2mb 2  n, n  1; m, m  1  n , n  1  b 2  n, n  1; m  1, m  n, n  1    m  cost  h . (32)
Le relazioni classiche corrispondenti a queste equazioni sono
a 02  b12  b21  a 2 ;
a 02  b1b1;
2m b21  b21     m  cost  h.
1
2
1
4
(33)
Esse sono sufficienti a determinare univocamente ao, b1, b-1 (a meno della costante incognita sommata a m).
La più semplice soluzione delle equazioni quantistiche (30), (31), (32) che si presenta è:
 n  m  1 n  m
b n, n  1; m, m  1  a
4 n 
1
2
n
 n  m n  m  1
b n, n  1; m  1, m  a
4 n 
1
2
n
 n  m  1 n  m
a n, n  1; m, m  a
 n  21  n
;
;
.
Queste espressioni28 sono in accordo con la formula di Goudsmit, Kronig e Hönl. In ogni caso, non si vede facilmente come queste espressioni rappresentino l’unica soluzioIl problema è quello di un elettrone che ruota con velocità angolare n su un’orbita di raggio a. In presenza di un debole campo magnetico l’orbita ha una lenta rotazione attorno all’asse z. Heisenberg aveva
già affrontato e risolto questo problema nel 1922 assieme a Sommerfeld [Heisenberg, Sommerfeld,
1922]. Classicamente le coordinate sono date dalle equazioni:
n = frequenza dell’atomo non perturbato
z  a0 cos nt 
n+, n- = frequenze associate alla precesx  iy  b 1 expi  n    t   b 1 exp i  n    t 
sione di Larmor.
28
Dal momento che deve essere verificata l’equazione:
2
2
2
x y z a
si ha:
2

 

 b1 cos n    t  b1 cos   n  t   ib1 sen  n    t  b1 sen    n  t 
x  iy  b 1 cos n    t  i sen  n    t  b 1 cos   n  t  i sen    n  t 
da cui:

x  y  b1 cos n    t  b1 cos   n  t
dopo alcuni passaggi si ricava:
2
2
2  b1 sen n    t  b1 sen   n  t 2
x  y  b1  b1  2b1b1 cos 2 n .
2
2
2
2
Sostituendo nell’equazione:
190
ne delle equazioni (30), (31), (32) - sebbene ciò mi sembri verosimile da considerazioni
sulle condizioni al contorno (l’annullarsi di a e b al ‘contorno’; cfr. i lavori di Kronig,
Sommerfeld e Hönl, Russell citati prima).
Considerazioni simili alle precedenti, applicate alla formula dell’intensità dei multipletti, portano al risultato che queste regole per le intensità sono in accordo con le equazioni
(7) e (16). Questo risultato può ancora essere considerato come un supporto alla validità
dell’equazione cinematica (7).
La questione se il metodo qui proposto, per determinare i dati quantistici, usando relazioni tra grandezze osservabili, possa essere considerato soddisfacente in linea di principio, o se esso rappresenti solo un approccio molto grossolano al problema fisico di costruire una meccanica quantistica teorica, problema ovviamente molto sentito al momento, può essere decisa solo dopo una ricerca matematica più approfondita sul procedimento utilizzato molto superficialmente qui.
Göttingen, Istituto di Fisica Teorica.
2
2
2
x y z a
si ottiene:
2
4b1b1  a02  cos 2  nt  b21  b21  a 2  2b1b1   0 ,
dalla quale si ricava:
1 a2  b2  b2  a2 ;
1
1
2 0
1 a2  b b .
1 1
4 0
Queste relazioni, tradotte nella notazione quantistica forniscono le (30) e (31). È facile poi trovare la
condizione quantistica (32). Queste ultime sono tre equazioni nelle tre incognite b(n,n-1;m,m-1), b(n,nnh
1;m-1,m) e a(n,n-1;m,m), che, una volta risolte, ricordando che  n, n  1 
, forniscono i va2ma 2
lori per le intensità del rotatore nell’effetto Zeeman. Come fa notare lo stesso Heisenberg, le tre soluzioni non sono le uniche possibili.
191
CAP. 3
INTRODUZIONE STORICA, TRADUZIONE E NOTE DI COMMENTO
ALL’ARTICOLO “QUANTISIERUNG ALS
EIGENWERTPROBLEM – ERSTE MITTEILUNG”
DI E. SCHRÖDINGER
192
Schrödinger e la via verso la meccanica ondulatoria
Per comprendere come Schrödinger arrivò alla formulazione della meccanica ondulatoria conviene partire proprio dalle sue parole: “non nasconderò il fatto che devo il
primo impulso alla nascita di questo lavoro per lo più alla notevole tesi di L. de Broglie;
sono stato portato alle considerazioni precedenti riflettendo sulla distribuzione spaziale
delle «onde di fase»… Recentemente ho dimostrato che si può fondare la teoria dei gas
di Einstein su considerazioni che introducono delle vibrazioni proprie stazionarie, che
obbediscono alla legge di dispersione delle onde di fase di de Broglie: le osservazioni
che abbiamo sviluppato prima nel caso dell’atomo potrebbero essere ritenute come una
diretta generalizzazione delle nostre considerazioni sulla teoria dei gas”, [Schrödinger,
1926c, pp. 372-373].
Gli stessi concetti ribadì di lì a poco (23 aprile 1926) in una lettera ad Einstein: “Il
tuo consenso e quello di Planck è per me più importante di quello del resto del mondo.
Inoltre, l’intera questione non sarebbe stata ancora, e forse mai, sviluppata (intendo dire
non da me) se l’importanza delle idee di de Broglie non mi fosse stata messa sotto il naso dal tuo secondo articolo sulla degenerazione”, [Lettera di Schrödinger ad Einstein del
23 aprile 1926 cit. in Przibram, 1963, p. 24].
Da queste citazioni si deduce che:
- l’impulso alla nascita della meccanica ondulatoria è stato dato dal lavoro di de Broglie,
la cui importanza è stata suggerita da Einstein con l’articolo sui gas ideali [Einstein,
1925];
- Schrödinger fa diretto riferimento ad un suo articolo di statistica [Schrödinger, 1926b],
considerando l’attuale lavoro “come una diretta generalizzazione delle nostre considerazioni sulla teoria dei gas”.
Mentre la prima affermazione rappresenta un leale riconoscimento dell’influenza di de
Broglie ed Einstein, la seconda suggerisce che il filone di ricerca seguito al momento da
Schrödinger non era quello della meccanica atomica, ma piuttosto quello della statistica.
Alla stessa conclusione si giunge prendendo in esame la sua attività durante il 1925.
Attività di Schrödinger del 1925 nel campo della statistica
Nel 1924 Einstein aveva sviluppato una nuova teoria dei gas ideali [Einstein,
1924a], ricavando la legge sulla radiazione del corpo nero di Planck grazie ad una nuova statistica dei quanti di luce, basata su un lavoro di S. N. Bose [Bose, 1924].
Nello stesso, anno un secondo articolo di Einstein [Einstein, 1924b] generò una
notevole discussione tra i fisici che si occupavano di statistica, tra cui vi era Schrödinger. Nel febbraio 1925 Schrödinger scrisse ad Einstein [Mehra, Rechenberg, 1982, vol.
5 parte 2, p. 386], per illustrargli alcune sue perplessità riguardo al secondo articolo;
Einstein rispose il 28 febbraio 1925 [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 5 parte 2, p. 387].
Schrödinger non riuscì a replicare prima del 3 novembre 1925, ma, nel frattempo, lavorò attivamente nel campo della statistica pubblicando, nel luglio del 1925, un articolo
sulla definizione statistica di entropia nei gas ideali [Schrödinger, 1925]. Il 26 settembre
1925 Einstein scrisse a Schrödinger [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 5 parte 2, p. 397],
una seconda lettera in cui, partendo dall’articolo di Schrödinger appena pubblicato,
muoveva una seria critica alla teoria quantistica dei gas e proponeva lo sviluppo di una
linea alternativa. Il 3 novembre Schrödinger rispose ad Einstein [Mehra, Rechenberg,
1982, vol. 5 parte 2, p. 398], assicurando che quanto prima avrebbe riflettuto sulle sue
193
parole; dopo soli dieci giorni gli scrisse di nuovo, affermando di avere sviluppato la linea proposta da Einstein. Gli esponeva le sue conclusioni e proponeva di pubblicare un
articolo a due firme, giacché l’idea originaria era stata di Einstein. Einstein rispose rifiutando cortesemente la sua offerta e quindi l’articolo uscì con la sola firma di Schrödinger [Schrödinger, 1926a]. Nell’introduzione comunque l’autore chiarì molto esplicitamente l’apporto di Einstein con queste parole: “Il prof. Einstein è stato così gentile da
darmi per lettera il seguente suggerimento, che dovrebbe essere praticamente scevro da
ipotesi specifiche: poiché, a seguito dell’ipotesi fondamentale di Planck, N! stati del sistema gassoso coincidono sempre, gli stati permessi di energia Un del gas devono esistere ad intervalli, di modo che la differenza di volume nello spazio delle fasi associato diventa costante ed uguale a N!h3N. Se solo si aggiunge l’ipotesi che lo stato di minima
energia sia U0=0, allora si fissano in maniera univoca gli stati energetici del sistema, e si
può calcolare il suo intero comportamento statistico” [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 5
parte 2, p. 399].
La svolta ondulatoria (novembre 1925)
Nel mese di novembre la situazione cambiò, come afferma lo stesso autore nella
già citata lettera del 3 novembre ad Einstein, a seguito della lettura della tesi di de Broglie: “Pochi giorni fa ho letto con il massimo interesse l’ingegnosa tesi di L. de Broglie,
di cui sono finalmente venuto in possesso. Grazie ad essa il paragrafo 8 del tuo secondo
articolo sulla degenerazione mi è diventato chiaro per la prima volta” [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 5 parte 2, p. 412].
Schrödinger rilevò subito la somiglianza tra le regole di quantizzazione di de Broglie e un fattore da lui trovato nel 1922.1 Infatti, sempre nella stessa lettera ad Einstein
del 3 novembre, scrisse: “L’interpretazione di de Broglie delle regole quantistiche, mi
sembra collegata in qualche modo alla mia nota su Zeitschrift für Physik 12 (1922), 13”
[Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 5 parte 2, p. 415]. In quell’articolo Schrödinger aveva
compiuto un’applicazione della teoria generalizzata di gravitazione ed elettricità di H.
Weyl che lo aveva condotto all’esistenza del seguente fattore di misura lungo un’orbita:
  i dxi
e 
dove i=potenziali elettrodinamici.
“Ora”, spiegava Schrödinger, “la proprietà delle orbite quantistiche che è annunciata nel titolo2 e che mi pare così notevole è che le condizioni quantistiche “genuine”,
cioè quelle che bastano per determinare l’energia e lo spettro, sono anche sufficienti a
rendere l’esponente del fattore di misura un multiplo intero di h/ per tutti i periodi approssimati del sistema” [Schrödinger, 1922, p. 14, nota 44]. In altre parole, quando
l’elettrone torna nella posizione originaria, dopo avere percorso un’orbita, il fattore di
 h /    i dxi
misura diventa e
.
“Sarebbe difficile credere”, secondo Schrödinger, “che questo risultato sia solo
una conseguenza matematica accidentale delle condizioni quantistiche e priva di un più
1
Sulla somiglianza tra il fattore trovato da Schrödinger nel 1922 e le regole quantistiche di de Broglie,
nonché sulla relativa importanza che questa ha avuto sul lavoro di Schrödinger, si veda [Forman, Raman, 1969]. Sulla reazione di Schrödinger alle tesi di de Broglie ved. anche [Hanle, 1977], mentre la
corrispondenza tra Schrödinger e Einstein è riportata in [Hanle, 1979].
2
Il titolo dell’articolo in questione era “Über eine bemerkenswerte Eigenschaft der Quantenbahnen eines
einzelnen Elektrons” (Una notevole proprietà delle orbite quantistiche di un singolo elettrone) [Schrödinger, 1922].
194
profondo significato fisico” [Schrödinger, 1922, p. 22]. Solo che a quel tempo Schrödinger non riuscì a trovare il “significato fisico più profondo”. Egli assegnò alla costanh
. Come fanno notare Forman e Raman “se scriviamo – ma Schröte  il valore  
2i
dinger non lo fece – l’espressione della traccia usando questo valore per 
l  l0 e

2i
 i dxi
h

,
otteniamo un’espressione che ha una stretta rassomiglianza con quella familiare
dell’ampiezza di un’onda” [Forman, Raman 1969, p. 309]. In altri termini Schrödinger
era arrivato ad un passo dall’associare un’onda all’elettrone già nel 1922. La cosa fu notata in seguito anche da F. London, che il 10 dicembre 1926, scrisse questa lettera a
Schrödinger:
“Caro professore,
oggi devo farti un discorso serio. Conosci un certo Sig. Schrödinger che nell’anno
1922 (Zeits. F. Phys., 12) descrisse una “notevole proprietà delle orbite quantistiche?…Tu hai avuto nelle tue mani il carattere di risonanza del postulato quantistico
molto tempo prima di de Broglie… Confessa immediatamente che, come un prete, hai
tenuto segreta la verità che avevi in mano e rendi noto ai tuoi contemporanei tutto ciò
che sai!”, [Lettera di F. London a E. Schrödinger del 10 dicembre 1926, cit. in Forman,
Raman, 1969, p. 304].
Ritornando comunque al novembre 1925, Schrödinger riconobbe questa somiglianza con il suo vecchio lavoro, così cominciò a riflettere sul modo di “visualizzare
l’onda di fase di un elettrone su orbite di Keplero”, [Lettera di Schrödinger a Landè del
16 novembre 1925, cit. in Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 5 parte 2, p. 416]. Nel frattempo, però, oltre ad effettuare le prime prove con l’ipotesi di de Broglie in campo atomico, continuò a sviluppare il filone statistico con un articolo, presentato per la pubblicazione il 15 dicembre 1925, intitolato “Sulla teoria dei gas di Einstein” [Schrödinger
1926b]. Si può desumere il ragionamento di Schrödinger dall’introduzione dell’articolo:
- Einstein ha recentemente proposto di applicare una nuova statistica al moto di molecole gassose;
- poiché il nostro senso scientifico rifiuta l’accettazione acritica di una nuova teoria,
senza ulteriori investigazioni, egli suggerisce il seguente ragionamento/prova:
 se la nuova statistica applicata ai gas fornisce la teoria di Einstein;
 e la nuova statistica applicata ai quanti conduce alla legge di radiazione di
Planck;
 allora, dal momento che i due fenomeni obbediscono alle stessi leggi statistiche,
bisogna costruire l’immagine del gas in accordo con quella della radiazione nella
cavità, che è quella di onde, alle quali Planck ha imposto l’ipotesi di quantizzazione.
- Il tutto porta a prendere seriamente in considerazione la teoria ondulatoria dei corpuscoli in moto proposta da de Broglie.
- Quindi, partendo dall’ipotesi ondulatoria di de Broglie, egli intende arrivare alla teoria
dei gas di Einstein e alla legge sulla radiazione di Planck, senza passare attraverso il
metodo di conteggio usato da Bose nel suo lavoro.
195
Contemporaneamente Schrödinger cominciò ad allargare il suo fronte d’indagine,3
tentando di applicare le ipotesi di de Broglie anche al campo atomico, e in particolare
all’atomo di idrogeno trattato in maniera relativistica.4
Schrödinger partì dalle relazioni di de Broglie:
h 
u
c


dove: c=velocità della luce nel vuoto
v= velocità dell’elettrone
u= velocità di fase dell’onda associata all’elettrone
= frequenza dell’onda associata
al-l’elettrone
=v/c,
mc 2
1  2
Energia
c 2 mc 2 1   2


Momento
v
mv 1   2
trasformandole, per un elettrone legato al nucleo, nelle seguenti:
mc 2
h 
u
c


1  2

e2
r
c 2 mc 2 1   2  e 2 r
,

v
mv 1   2
combinò quindi le due, eliminando la velocità dell’elettrone v:
uc
h mc 2
h
mc 2  e 2 mc 2 r

2
1
inserì poi quest’espressione nell’equazione ondulatoria relativistica:
 
1
u2
  2
 2
 t
3

 .

Vi sono due testimonianze di Debye, nel 1964, e di Bloch, nel 1976 - riportate in [Mehra,Rechenberg
1982, vol. 5 parte 2, p. 419-422] - secondo le quali Schrödinger fu spinto a prendere in considerazione
l’equazione ondulatoria dalle parole di Debye. Secondo queste testimonianze le cose andarono pressappoco in questo modo: Debye e Schrödinger, durante una conversazione svoltasi verso la fine del 1925,
parlarono dell’importanza delle nuove idee di de Broglie e Debye gli chiese di tenere un seminario su di
esse. Debye gli fornì il lavoro del fisico francese e dopo pochi giorni Schrödinger tenne il seminario (testimonianza di Debye, ibid. pp. 419-420). Durante la discussione Debye fece notare che “per trattare
propriamente con le onde, bisognava avere un’equazione ondulatoria” (testimonianza di Bloch, ibid. p.
420). L’osservazione evidentemente fece molta impressione su Schrödinger che poche settimane dopo
tenne un altro seminario iniziando con queste parole: “Il mio collega Debye ha suggerito che bisognerebbe avere un’equazione ondulatoria; bene io ne ho trovata una” (testimonianza di Bloch, ibid. p. 421).
Comunque, oltre a queste due testimonianze fornite a quasi mezzo secolo di distanza, non esiste alcun’altra riconferma di tali fatti. Lasciamo pertanto l’argomento in sospeso, limitandoci a porre le domande se Schrödinger avesse realmente bisogno di uno stimolo esterno per tentare la ricerca di
un’equazione ondulatoria, e se, conoscendo la sua proverbiale correttezza, si può ipotizzare che abbia
tralasciato di menzionare un suggerimento così importante, come sembrerebbe aver fatto.
4
Questo primo tentativo di Schrödinger è riportato in un memorandum di tre pagine di suoi appunti originali intitolato “H-Atom Eigenschwingungen” (Atomo di Idrogeno-Autovibrazioni) e analizzato in dettaglio in [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 5 parte 2, p. 423-430].
196
Trasformando il risultato in coordinate polari e ipotizzando una dipendenza del tipo:
  Sn  ,   r
ottenne l’equazione differenziale, per la sola variabile radiale:
d 2 r 2 d 
2B C 

  A 
 2  r  0 ,
2
r dr 
r
dr
r 
dove le grandezze A, B e C risultano uguali (a parte un fattore moltiplicativo) alle analoghe grandezze ricavate da Sommerfeld per mezzo della sua teoria relativistica
dell’atomo di idrogeno [Sommerfeld, 1919].
Schrödinger effettuò la sostituzione:
 r  r U ,
uguale a quella che utilizzerà nella trattazione non relativistica, pervenendo così ad
un’equazione differenziale di Laplace. A questo punto, con l’aiuto del testo di Schlesinger, poté impostare la soluzione. Non fu necessario comunque arrivare fino al termine,
perché, non appena ebbe calcolato i livelli energetici, si rese conto che erano diversi da
quelli ottenuti con la teoria di Sommerfeld.
Schrödinger fu molto contrariato dai risultati ottenuti e abbandonò il suo tentativo
per un po’ di tempo. Da lì a poco, però, durante una vacanza ad Arosa, nel periodo di
Natale 1925, ritornò sul suo lavoro e tentò l’approccio non relativistico.
Gli appunti di questo periodo sono contenuti nel notebook intitolato “Eigenwertproblem des Atoms. I”. Oltre a questo vi sono altri due quaderni di appunti “Eigenwertproblem des Atoms. II” e “III”, che coprono praticamente la sua produzione dei primi
mesi del 1926 sulla meccanica ondulatoria.
Il contenuto del notebook I è analizzato in estremo dettaglio nell’opera più volte
citata di Mehra, Rechenberg [Mehra, Rechenberg, 1982, vol. 5 parte 2, pp. 465-496], alla quale rimandiamo chi volesse approfondire i vari tentativi compiuti da Schrödinger
per giungere alla soluzione riportata nella I Comunicazione. Noi ci fermiamo a questo
punto riassumendo brevemente le tappe che hanno portato alla nascita della meccanica
ondulatoria:
- durante tutto il 1925 gli interessi di Schrödinger sono rivolti essenzialmente alla meccanica statistica e alla teoria dei gas ideali di Einstein.
- Verso la fine di ottobre legge la tesi di de Broglie che gli apre immediatamente nuove
prospettive.
- Schrödinger riconosce subito la somiglianza con un suo lavoro del 1922 e prova ad
applicare le ipotesi di de Broglie alla statistica dei gas ideali di Bose-Einstein.
- Successivamente rivolge le sue attenzioni verso la meccanica atomica alla ricerca di
un’equazione ondulatoria relativistica, ma non ottiene risultati corretti.
- Dopo aver lasciato da parte il problema per un certo tempo, vi ritorna, durante una vacanza del Natale 1925, pervenendo alla soluzione non relativistica della sua equazione
ondulatoria.
- Il 26 gennaio 1926 spedisce per la pubblicazione il suo primo articolo della serie
“Quantizzazione come problema agli autovalori”.5
5
Per non rallentare eccessivamente la leggibilità del lavoro abbiamo volutamente omesso diverse questioni dibattute in campo storico: ad esempio il problema se Schrödinger scrisse l’equazione relativistica
durante le vacanze di Natale 1925 - come sostengono L. Wessels [Wessels, 1979], e H. Kragh [Kragh,
197
Riassunto dell’articolo di Schrödinger
Paragrafo 1: l’autore imposta il problema variazionale applicato all’atomo di idrogeno
senza relatività o perturbazioni, fino a pervenire alla sua famosa equazione - eq. (5). Ne
trova quindi la soluzione grazie ad un metodo di integrazione in campo complesso riportato su un testo di Schlesinger da lui utilizzato.
Paragrafo 2: Schrödinger mostra che i livelli energetici da lui ottenuti coincidono con i
ben noti livelli di Bohr, corrispondenti alla serie di Balmer; quindi dimostra che l’ordine
di grandezza della zona in cui la soluzione è diversa da zero, è uguale a quello dell’asse
maggiore dell’ellisse nell’atomo di Bohr.
Paragrafo 3: chiude l’articolo un paragrafo di commento ai risultati ottenuti. Schrödinger asserisce di aver preferito un’impostazione matematica “perfettamente neutra” perché mette in evidenza la parte essenziale della questione, rappresentata
dall’eliminazione delle misteriose condizioni quantistiche che adesso sono una conseguenza naturale della teoria. Riferisce di essere stato spinto al suo lavoro riflettendo sulla distribuzione spaziale delle onde di fase di de Broglie, ma, al contrario di de Broglie,
che aveva immaginato delle onde progressive, egli pensava piuttosto ad onde stazionarie. Ricorda di avere utilizzato lo stesso concetto di recente per affrontare la teoria dei
gas di Einstein. Infine fa alcune considerazioni sui meccanismi di emissione elettromagnetica negli atomi, ipotizzando un processo simile ai battimenti che si creano quando
vengono messe in vibrazione due frequenze vicine.
1982] - o prima - come sostengono J. Mehra e H. Rechenberg; il problema di se e quanto Schrödinger fu
aiutato dai suoi colleghi a trovare la soluzione matematica dell’equazione differenziale; etc.
198
“LA QUANTIZZAZIONE COME PROBLEMA AGLI AUTOVALORI
PRIMA COMUNICAZIONE”.
(“Quantisierung als Eigenwertproblem – Erste Mitteilung”, Annalen der Physik, (4), 79, 361376. Ricevuto il 27 gennaio 1926, pubblicato il 13 marzo 1926). 6,7
E. SCHRÖDINGER
§ 1. In questa comunicazione vorrei mostrare subito, per mezzo dell’esempio più
semplice possibile di un atomo di idrogeno (senza relatività né perturbazioni), che le regole abituali di quantizzazione possono essere sostituite da un’altra condizione, nella
quale non vi è più alcuna questione di “numeri interi”. Questi numeri interi si introducono nello stesso modo naturale dei numeri interi di nodi di una corda vibrante. Questa
nuova idea è suscettibile di generalizzazioni estese ed io credo che si avvicini molto alla
vera essenza delle condizioni dei quanti.
La forma abituale di queste condizioni si riallaccia all’equazione alle derivate parziali di Hamilton:
(1)
 S 
H  q,   E .
 q 
Di solito si cerca una soluzione di quest’equazione sotto forma di una somma di funzioni, ciascuna dipendente da una sola variabile indipendente q.
Introduciamo ora, al posto di S una nuova incognita  tale che  si presenti sotto
la forma di un prodotto di funzioni di ciascuna delle coordinate. Cioè poniamo:8
(2)
S  K log 

K è una costante avente le dimensioni di un’azione, che è necessario introdurre per ragioni dimensionali. Si ottiene così:
(1’)
 K  
H q ,
  E.
  q 
Noi non tenteremo di risolvere l’equazione (1’), ma la utilizzeremo per formulare la seguente condizione. L’equazione (1’) può essere scritta sotto la forma: una forma quadratica di  e delle sue derivate prime = 0. Questo è sempre esatto se non si considera la
variazione della massa con la velocità, e resta ancora vero, almeno nel caso di un solo
elettrone, allorché si tiene conto di questa variazione. Cerchiamo allora le funzioni  reali, finite, univoche e due volte derivabili in tutto lo spazio delle configurazioni, che
6
Solo dopo avere finito il mio lavoro sono venuto a conoscenza dell’esistenza di una traduzione e commento di questo e di altri due articoli di Schrödinger del 1926 [Boffi, 1991], di cui non ho potuto usufruire prima. Raccomando senz’altro la lettura di questo quaderno a chi volesse approfondire lo studio
dell’opera di Schrödinger durante il 1926.
7
D’ora in poi, con gli asterischi saranno indicate le note originali dell’autore.
8
Secondo F. Kubli [Kubli, 1970], Schrödinger derivò questa trasformazione da quella analoga effettuata
da A. Sommerfeld e J. Runge in un articolo del 1911 [Runge, Sommerfeld, 1911]. Questa possibilità è
confermata dal fatto che Schrödinger citerà questo articolo nella sua “Seconda Comunicazione” [Schrödinger, 1926d, p. 496, nota 1].
199
conducono ad un estremo per l’integrale della forma quadratica che stiamo definendo*.
Noi sostituiamo la ricerca delle condizioni quantistiche con questo problema di calcolo
variazionale.10
Per H prenderemo subito la funzione di HAMILTON di un moto di KEPLERO e mostreremo che si può soddisfare la condizione precedente per tutti i valori positivi di E,
ma che se E è negativo, non esiste soluzione, tranne che per una serie discreta di valori
di questa costante. In altre parole, il problema del calcolo delle variazioni enunciato, ha
uno spettro discreto e nello stesso tempo uno spettro continuo di valori propri. Lo spettro discreto corrisponde ai termini di BALMER, mentre lo spettro continuo caratterizza le
energie delle traiettorie iperboliche. Per ottenere un’effettiva corrispondenza numerica
bisognerà dare alla costante K il valore h/2.
La scelta del sistema di coordinate non ha alcuna importanza per stabilire le equazioni del nostro problema; prendiamo dunque, per semplificare, un sistema di coordinate cartesiane ortogonali. La (1’) nel nostro caso, allora, si scrive (e, m rappresentano la
carica e la massa dell’elettrone):11
 
  

  
 x 
 y
2
(1’’)
2

e2  2
2m 
  

  0
  


E

r 
K 2 
 z 

2

Mi rendo perfettamente conto che questo modo di formulare il problema non è unico.
Il calcolo variazionale è stato uno degli strumenti di analisi più potenti e più utilizzati per oltre due secoli. Dal punto di vista puramente matematico il problema classico del calcolo variazionale consiste nel
considerare qualche quantità (lunghezza d’arco, area superficiale, tempi di percorrenza, ecc.) dipendente
dall’intera curva e nel cercare poi, tra tutte le curve, quella che minimizza la quantità in questione. Il
calcolo variazionale ha anche giocato un ruolo importante nell’unificazione della meccanica e come
guida all’interpretazione di molti fenomeni fisici. Per esempio si è trovato (Principio di Hamilton), che
se la configurazione di un sistema di particelle in moto è governata dalle mutue attrazioni gravitazionali, allora le loro traiettorie saranno curve che minimizzano l’integrale rispetto al tempo della differenza
tra l’energia cinetica e potenziale del sistema (azione). Inoltre Einstein, nel suo lavoro sulla relatività
generale, ha fatto un uso estensivo del calcolo delle variazioni e appunto, grazie ad esso, Schrödinger
scopre la sua famosa equazione d’onda.
11
A questo punto si è già verificato il passaggio cruciale dalla meccanica classica a quella ondulatoria,
rappresentato dalla condizione (2). Infatti classicamente il problema si pone in questi termini:
 S 
T q ,   U  q   W ,
 q 
S
dove
 p . In coordinate cartesiane si ha:
q
10
2
2
2
1  S   S   S  
          U x , y , z  E ,
2 m  x   y   z  


che è l’equazione differenziale alle derivate parziali di Hamilton-Jacobi per la funzione azione. Fin qui
la procedura è completamente classica; Schrödinger pone però la condizione (2), che, introdotta
2
e
S K 
nell’equazione precedente - considerando che px 

eU  
- la trasforma in:
x  x
r
2
2
e  2
2m 
        
         2  E     0
r 
K 
 x   y    z 
2
2
che è un’equazione ondulatoria.
200
r  x2  y2  z2 .
Il nostro problema variazionale è definito da
   2    2    2 2m 
e2

  
J    dxdydz 
  
  2 E 
r
K 
 x   y   z 
(3)
 2
    0
 
con l’integrale esteso a tutto lo spazio. Con i procedimenti abituali si ricava


1
2m 
e2
  dxdydz   2  E 
J   df
2
r
n
K 

(4)
 
    0
 
Ciò porta dunque a scrivere innanzitutto che12
12
Forniamo qui di seguito qualche cenno di calcolo variazionale, rimandando ai testi classici per un approfondimento del problema. La nostra impostazione è tratta da [Goldstein 1990, pag. 32 segg]. Per
semplicità consideriamo il problema nella forma unidimensionale. Uno dei problemi principali del calcolo delle variazioni è quello di trovare la curva in corrispondenza alla quale un dato integrale di linea
assume un valore estremo, max o min.
x2


J   f  , , x dx
(a)
x1
Cerchiamo quindi una curva =(x), nell’intervallo tra x1 e x2, tale che l’integrale di linea di una certa
d
funzione f(’,x) dove  ' 
, abbia un valore estremo.
dx
Si possono individuare tutte le possibili curve (x) mediante un parametro , in modo che, diciamo per
=0, la curva corrispondente sia un estremo per l’integrale considerato. Ad esempio si può rappresentare y sotto la forma:
y(x,)=y(x,0)+x)
dove x) è una funzione arbitraria della x che si annulla per x=x1 e x=x2 .
Con queste imposizioni l’integrale (a) diventa:
x
J     x 2 f    x ,   ,  '  x ,   , x  dx , e la condizione di estremo è:
1
 J 
  0
     0
Procedendo alla differenziazione sotto il segno di integrale, si ha:
J

x2
 f 
x1
  
 

f  ' 
 dx .
 '  
La seconda parte dell’integrale è uguale a:
x2

f  '
x1  '

x2
dx  
f  
2
x1  '
x
dx 
f 
 ' 
x2
x2
 
x1
d  f  
x1 dx
 dx ,

  '  
dove, nell’ultimo passaggio, si è proceduto ad un’integrazione per parti. Il primo termine dell’ultimo
passaggio si annulla dal momento che
J



è nullo in x1 e x2. Quindi si ottiene:
 f d f  
 dx ,

x1 
dx  '  
x2
 
Moltiplicando entrambi i membri per d e calcolando le derivate per, si ha:
x 2  f
d f    
 J 
 

   ddx .
 
    0 x1   dx  '      0
201
 
(5)
2m 
e2 

  0
E

r 
K 2 
e quindi,

 df n  0 ,
(6)
con l’integrale esteso ad una superficie chiusa, situata all’infinito in tutte le direzioni.
(Constateremo più avanti che a causa di quest’ultima relazione bisognerà completare il
nostro problema con una condizione che fissi il comportamento di  all’infinito, affinché lo spettro continuo di autovalori menzionato prima, possa esistere realmente. Per il
momento lasceremo da parte questo dettaglio).
 J 
  
 d  J ,  d   , si ottiene:
   0
   0
x2 f
d f 
dx  0 .
J   

x1 
dx  ' 
Chiamando: 
Poiché  è arbitraria, la condizione precedente sarà verificata solo se:
f
d f
(b)

 0.
 dx  '
Se estendiamo il ragionamento svolto al caso di tre dimensioni, si otterranno per:


J   f x , y , z , x , y , z dxdydz , le seguenti condizioni:
f


  f    f 

 
  0 , (Equazione di Eulero).
 
x   x  y   y  z   z 
  f 
Nel nostro caso la f è:
2
2
e  2
2m 
        
f 
        2  E    ; applicando quindi l’Equazione di Eulero, si
R 
K 
 x   y   z 
2
2
avrà:
f

f
 x
 2
 2 x ;
2

e 

 ;
E

2 
R 
K 
2m
f
 y
 2 y ;
f
 z
 2 z
2
2
2


    f 
  2  2 ;   f   2  2 .

  2 2 ; 
x   x 
x
z   z 
z
y   y 
y
  f 
Sostituendo nell’equazione di Eulero si ha:
 
2
 
2
 
2
2m 
2
e 
2 2  2 2  2 2  2 2  E 
x
y
z
K 
R
2

e  
2m 
   0 ,
2   2  E 

K 
R  

   0

che è l’equazione (5). Invece le condizioni al contorno x1)=(x2)=0 portano all’integrale di superficie
(6).
202
Si può scrivere (per esempio) la soluzione della (5) in coordinate polari spaziali
r,ponendo  uguale ad un prodotto di una funzione di r, per una funzione di  e per
una funzione di . Il metodo è molto noto. La dipendenza delle variabili angolari sarà
descritta da una funzione sferica, mentre  dipenderà da r tramite una funzione che
chiameremo  e che soddisferà l’equazione differenziale seguente, facile da stabilire:13
(7)
d 2  2 d  2mE 2me 2 nn  1 
 0,


 2 
r dr  K 2
dr 2
K r
r 2 
n=0,1,2,3...
Come è ben noto, se si vuole ottenere una dipendenza univoca dagli angoli polari, è indispensabile dare ad n unicamente dei valori interi. - Cerchiamo le soluzioni della (7)
che restano finite per tutti i valori reali e non negativi di r. Nel piano della variabile
complessa r, l’equazione (7) ha due punti di singolarità*, uno per r=0, l’altro per r   ;
il secondo è un «punto di indeterminazione» (punto di singolarità essenziale) per tutti
gli integrali del problema, mentre il primo non lo è (per nessun integrale).14 Queste due
13
Il passaggio dall’equazione (5) all’equazione differenziale (7) è diventato ormai un calcolo classico il
cui sviluppo si può trovare su molti testi.
*
Sono debitore a HERMANN WEYL delle indicazioni necessarie per trattare l’equazione (7). Per quanto
riguarda i teoremi non dimostrati di cui faremo uso in seguito, il lettore può riferirsi a L. SCHLESINGER,
Differentialgleichungen, Sammlung Schubert, Nr 13, Göschen, 1900, in particolare i capitoli 3 e 5.
14
Per comprendere l’esistenza di singolarità in r=0 ed r   bisogna fare alcuni richiami. Data
l’equazione differenziale:
(24)
p0  r     p1  r     p2  r    0 ,
o l’analoga
(24’)
   p r     q r    0 ,
le proprietà della soluzione sono determinate da quelle di p(r) e q(r).
I punti r possono essere di due tipi:
- Se, per qualche r0 , p(r0) e q(r0) assumono un valore definito univocamente ( lim  lim ) e limitato
r  r0
r  r0
( lim   ) allora r0 è un punto ordinario;
r  r0
- Se, per r0 , p(r0) o q(r0) non assumono un valore definito univocamente o limitato, allora r0 è un punto
singolare.
I punti singolari, a loro volta, possono essere regolari o essenziali.
2
- Se, nella (24’) r0p(r0) e r0 q ( r0 ) hanno un valore definito univocamente e limitato, allora r0 è un
punto singolare regolare.
- Se non hanno un valore definito univocamente oppure non sono limitate, allora r0 è un punto singolare essenziale.
Verifichiamo ora che r=0 è un punto singolare regolare e che r=è un punto singolare essenziale.
Consideriamo il punto r=0. Dalla (25):
2  1 dU
2
e 

U  0 ,
E

2
2
dr
r
dr
K 
r 
2(  1)
2m 
e2 
, e q ( r )  2  E   , si ha p(0)e
si vede subito che, essendo p ( r ) 
r 
r
K 
2
(25)
d U


2m 
q(0)quindi r=0 è un punto singolare. Verifichiamo se è regolare o essenziale.
Si ha:
rp ( r )  2(  1)  cost.
r q(r ) 
2
2m
2
2
( re  r t ) ;
K2
203
singolarità formano precisamente i punti al contorno del nostro intervallo reale. Dunque, si dice che in casi analoghi la condizione che la funzione resti finita per questi
punti al contorno equivale ad una condizione ai limiti. In generale, la nostra equazione
non ha integrale che resti finito in ciascuno di questi due punti; un integrale simile non
esiste che per certi valori particolari di costanti dell’equazione data. Adesso non si tratta
altro che determinare queste costanti.
L’analisi che stiamo per riassumere, costituisce il punto centrale della presente
memoria.
Consideriamo innanzitutto il punto singolare r=0. L’equazione determinante,15
che individua il comportamento degli integrali in questo punto, è:
la prima espressione non dipende da r, la seconda si annulla per r=0, quindi, in ogni caso, si ha un valore finito e limitato e r=0 è un punto singolare regolare.
Per studiare il punto r   , bisogna operare la trasformazione r=1/t e verificare il comportamento per
t=0.
2
1
d2
d
2 d
4 d
3 d
t
r ;
 t
;

 2t
.
Poiché
dr
dt
dr 2
dt 2
dt
t
Sostituendo nell’equazione (25) si ha:
2
d U
(25’)
dt

2
2m e 2t  E 
2 dU
 2
U 0.
t4
t dt
K
Da questa si ottiene :
p ' (t )  
2
t
2 m ( E  e 2t )
,
q ' (t )  2
t4
K
e si vede che p’(o)=e q’(0)=quindi t=0 (r=è un punto singolare. Verifichiamo se è regolare o
essenziale.
Si ha:
1 1
2
p    2
t t
t
2
 1  2m ( E  e t )
;
q   2
2
6
t t K
t
1
15
per t=0 le due espressioni diventano infinite e quindi r= è un punto singolare essenziale.
La soluzione dell’equazione differenziale (7) può essere rappresentata come una serie di potenze che
inizia con un termine rn. È possibile dimostrare che, se nell’equazione differenziale generale:
(24’)
   p ( r )   q ( r )  0 ,
p(r) e q(r) hanno la forma seguente:
2
p( r ) 
p0  p1r  p2 r  ...
r
2
e
q(r ) 
q0  q1r  q2 r  ...
r
2
,
allora si può trovare il valore di n, cioè della potenza iniziale della serie, risolvendo l’equazione
determinante
(-1)+p0+q0=0.
Nel nostro caso si ha:
204
n(n-1)=0
(8)
ed ha come radici
n, 2=-(n+1)
(8’)
I due integrali canonici in questo punto appartengono dunque agli esponenti n e -(n+1).
Possiamo utilizzare soltanto il primo dal momento che n non può assumere valori negativi. Questo integrale appartiene al maggiore esponente; esso può dunque essere rappresentato da una serie di potenze che iniziano con un termine in rn. (Il secondo integrale,
che non ci interessa, può contenere eventualmente un logaritmo, essendo un numero intero la differenza tra gli esponenti). Poiché il secondo punto singolare è situato
all’infinito, la serie di potenze converge e rappresenta una trascendente intera. Possiamo dunque dire:
a meno di una costante, che non ha alcuna importanza, la soluzione cercata è una
trascendente intera, determinata univocamente ed appartenente all’esponente n, per
r=0.16
Si tratta di esaminare come si comporta questa funzione all’infinito nella direzione positiva dell’asse reale. A tale scopo, semplifichiamo l’equazione (7) sostituendovi
=rU,
(9)
1
scompaia. Come
r2
si vede facilmente, questo impone che sia uguale ad uno dei due valori n o -(n+1).
L’equazione (7) prende allora la forma:17
e scegliamo per un valore conveniente, in modo che il termine
2

2 me
2mE
  n( n  1)  2 r  2 r 2
2
K
K
 ' '  ' 
2

r
r




 0



quindi p0  2 , q0   n ( n  1) , e l’equazione determinante sarà:
(-1)+2-n(n+1)=0,
che è appunto l’equazione (8).
16
Poichè le radici dell’equazione caratteristica sono 1=n e -(n+1), le soluzioni, in vicinanza di r=0,
hanno la forma:
r
n

 a0  a1r  a2 r 2 . . .
 n 1



r
b0  b1r  b2 r 2  ... .
Scartando la seconda serie, la prima soluzione, convergente in tutto lo spazio rappresenta una funzione
trascendente intera (si definisce funzione trascendente intera una funzione esprimibile in serie di poten-
ze
f r  

 an r n , avente raggio di convergenza R   , cioè convergente alla f(r) per ogni r del
n0
dominio complesso).
205
d 2U 2  1 dU 2m 
e2 

U  0 .


E

r
dr K 2 
r 
dr 2
(7’)
Per r=0, i suoi integrali appartengono agli esponenti 0 e -2-1.18 Per il primo valore di
,=n, il primo di questi integrali è una trascendente intera, per il secondo valore di ,
=-(n+1), il secondo integrale è una trascendente intera; in ciascun caso, tramite la (9),
siamo condotti alla soluzione cercata, che è univoca. Non perdiamo alcuna soluzione,
dunque, limitandoci ad un solo valore di . Prendiamo dunque
=n.
(10)
In questo caso la soluzione U appartiene per r=0 all’esponente 0. I matematici chiamano le equazioni del tipo (7’) equazioni di LAPLACE. La forma generale di un’equazione
simile è

1  
1 
(7’’)
U ' ' 0  U ' 0  U  0.

r  
r
Nel nostro caso le costanti hanno i valori seguenti
17

Schrödinger usa l’artificio di sostituire   r U , per trasformare la (7) nella (7’) che è la cosiddetta
equazione di Laplace della quale il testo di Schlesinger, op. cit., riportava la soluzione.
Dimostrazione:

r U
'  r
 ' '   (  1) r
 1

U  r U'
 2
U  2r
 1

U ' r U ' '
sostituendo nella (7) si ottiene:
 (  1) r
 2
U  2r
 1

U ' r U ' '
2
r

r U ' '2(  1) r
r
 1
U ' (  1) r
 1
 2mE


U  r U '  
 2
 2mE
U  
 K
2
2
 K

2me

2
2

n( n  1) 
K r
2
2
2me

r
2
 r  U  0

n ( n  1) 
K r
r
2
 r  U  0 ,


dividendo per r
U ' '
2( + 1)
r
  (  1)  n( n  1) 2mE
U '

r

2
K
2


U  0 ,
2 
K r 
2 me
2
ponendo n si ha:
U ' '
2(  1)
r
18
U '
2m 
2
e 

U  0 .
E

2
K 
r 
L’equazione determinante della (7’) è  (   1)  2(  1)   0 , che ha le soluzioni 1=0 e 2=-2-1.
206
(11)
0=0,
1=2(+1),
0 
2 mE
,
K2
1 
2me2
.
K2
Questo tipo di equazione è relativamente facile da trattare poiché la trasformazione di
LAPLACE, che in generale ridà un’equazione del secondo ordine, conduce in questo caso
particolare ad un’equazione del primo ordine, risolvibile mediante quadrature. Questo
fatto permette di rappresentare le soluzioni della (7’’) con integrali nel dominio complesso. Io qui darò il risultato finale*. L’integrale
(12)
U   e zr  z  c1 
 1 1
z  c 
2
2 1
dz
L
preso lungo un cammino d’integrazione per il quale la
(13)
d


 dz  e  z  c   z  c  dz  0
1
zr
1
2
2
L
*
Cfr. L. SCHLESINGER, loc. cit. Questa teoria è dovuta a H. POINCARÉ e J. HORN.
207
è una soluzione della (7’’).19 Le costanti c1, c2,  hanno i valori seguenti. c1, e c2
sono le radici dell’equazione di secondo grado
19
Il passaggio dalla (7’) alla soluzione (12), che riportiamo di seguito, segue la trattazione di [Smirnov,
rU ' ' ( 0 r   1 )U ' ( 0 r   1 )U  0 ,
1978, pp. 400-402]. Consideriamo l’equazione (7’’)
0=0
0 
2 mE
1=2(+1)
1 
2 me
dove:
K
K
2
2
2
,
cerchiamo una soluzione della forma:
U ( r )   e  ( z ) dz ,
rz
(a)
L
dove v(z) è la funzione incognita e L il cammino di integrazione, indipendente da r. La trasformazione
integrale (a) è la trasformata di Laplace. Derivando la (a) rispetto a r, abbiamo:
U ' ( r )   e z ( z ) dz , U ' ' ( r )   e z  ( z ) dz .
rz
rz
L
2
L
Moltiplicando per r e integrando per parti si ottiene:
rU ( r )  L v ( z ) de  v ( z )e
rz

Qui v ( z )e
rz
L
rz

L
 L
dv ( z )
rz
e dz.
dz
indica l’incremento della funzione v(z)erz quando z descrive il contorno L. Analoga-
mente avremo:
rU ' ( r )  v ( z ) ze
rz
rU ' ' ( r )  v ( z ) z e
rz

 L
d [v ( z ) z ]

 L
d [v( z ) z ]
L
rz
e dz
dz
e
2
2
L
dz
rz
e dz .
Sostituiamo quindi le precedenti espressioni nella (7’’) rU ' ' 0 rU ' 1U ' 0 rU   1U  0 :
v( z ) z e 
2
2
rz
L
 L
d [v ( z ) z ]
dz
  0 v ( z )e
rz

L
e dz   0 v ( z ) ze
rz
  0 L
dv ( z )
dz
rz

L
  0 L
d [v ( z ) z ]
dz
e dz   1 L v ( z ) ze dz 
rz
rz
e dz   1 L v ( z )e dz  0 , da cui si ha:
rz
rz
d [v ( z ) z 2 ]
d [v ( z ) z ]
dv
 rz
[v ( z )e rz ( z 2   0 z   0 )]  L 
 0
 0
  1v ( z ) z   1v ( z ) e dz  0 .
L
dz
dz
dz


Perché questa sia verificata occorre che:
(b)
[v ( z )e rz ( z 2   0 z   0 )]L  0
e che
208
d [v ( z ) z 2 ]
d [v ( z ) z ]
dv
 0
 0
  1 v( z ) z   1 v( z )  0 .
dz
dz
dz
(c)
Svolgendo le derivate si ha:
2 zv  z
2
dv
dv
dv
  0v   0 z
 0
  1 vz   1 v  0
dz
dz
dz
(z   0 z   0 )
2
dv
 v ( z )( 2 z   0   1 z   1 )  0 ,
dz
da cui si ottiene:
1 dv ( 1  2) z  (1   0 )

,
v dz
( z  c1 )( z  c2 )
dove abbiamo supposto che l’equazione di secondo grado
z  0z  0  0
2
abbia delle radici distinte c1 e c2.
Decomponendo la frazione in termini semplici, si ha:
(d)
1 dv (1  1) ( 2  1)


,
v dz ( z  c1 ) ( z  c2 )
dove:  1 
( 1  2)c1  (1   0 )  (c1  c2 )
(c1  c2 )
2 
( 1  2)c2  (1   0 )  (c2  c1 )
(c2  c1 )
Integrando l’equazione (d) si ha:
dv
v
 1  1  2  1 
dz

 z  c1 z  c 2 
 
ln v  ln  z  c1 
 1 1
v   z  c1 
 1 1
(e)
 ln  z  c 2 
 2 1
 z  c 2 
2 1
,
quindi, per la (a), la soluzione sarà:
1  1
U ( r )   e rz ( z ) dz   e rz ( z  c1 )
L
2  1
( z  c2 )
L
mentre il cammino di integrazione, per la (b), dovrà essere scelto in modo che:
[v ( z )e rz ( z  c1 )( z  c2 )]L  0 ,
ricordando la (e), si avrà:
[( z  c1 )1 1 ( z  c2 ) 2 1 e rz ( z  c1 )( z  c2 )]L  0
[e rz ( z  c1 )1 ( z  c2 ) 2 ]L  0 ,
cioè:
d

zr

L dz [e ( z  c1 ) 1 ( z  c2 ) 2 ]dz  0 .
209
dz ;
z 2   0 z  0  0 ,
(14)
e
1  1c1
1 
(14’)
c1  c2
,
2 
1  1c2
c2  c1
.
Nel caso dell’equazione (7) noi abbiamo dunque da (11) e (10):
c1  
2mE
,
K2
c2  
2mE
;
K2
(14’’)
1 
me 2
K

2mE
me2
2  
 n  1.
K  2mE
 n1 ,
La rappresentazione integrale (12) permette di studiare non solo il modo in cui
l’insieme delle soluzioni si comporta asintoticamente quando r tende all’infinito in un
certo modo, ma anche di risolvere lo stesso problema per il caso di una soluzione particolare, cosa sempre molto più difficile.
Eliminiamo innanzitutto il caso in cui esiano deinumeri interi reali. Quando si presenta questo caso, esono sempre interi e reali entrambi e contemporaneamente; la condizione necessaria e sufficiente perché ciò si verifichi è
(15)
me 2
K

2mE
=numero intero reale.
Supponiamo ora che questa condizione (15) non sia realizzata.
Delineiamo il modo in cui si comporta asintoticamente l’insieme delle soluzioni
quando r tende all’infinito, - spostandoci, come supporremo sempre, lungo l’asse reale
positivo, - grazie al comportamento delle due soluzioni linearmente indipendenti U1 e
U2, che si ottengono quando si effettua l’integrazione lungo due particolari cammini
d’integrazione, definiti di seguito*. Questi due cammini hanno una parte comune: z viene dall’infinito e vi ritorna lungo lo stesso cammino in direzione tale che si abbia
(16)
lim e zr  0 ,
z 
il che significa che la parte reale di zr deve tendere verso l’infinito negativo.20 Ne consegue che la condizione (13) è verificata. Il resto dei cammini di integrazione è costitui-
*
Quando è soddisfatta la (15), almeno uno dei due cammini di integrazione forniti nel testo non può essere utilizzato perché conduce ad un risultato nullo.
20
Il cammino di integrazione deve soddisfare sia l’equazione (13) che la condizione (16). Per soddisfare
la (13) basta sceglierlo in maniera tale che la funzione e  z  c1  1  z  c2  2 si annulli ai suoi estremi. Normalmente si scelgono i cammini l1 ed l2 indicati nel disegno, rispettivamente per le soluzioni U1
e U2:
zr
210


to nel primo caso (soluzione U1) da una curva che circonda una volta il punto c1, e nel
secondo caso (soluzione U2) da un’altra curva che circonda ugualmente una volta il
punto c2.
Per dei valori molto grandi di r, reali e positivi, queste due soluzioni sono rappresentate asintoticamente (nel senso di POINCARÉ) da


U1  ec1r r 1  1 1 e 2i1  1 1 c1  c2 

(17)
U 2  e c2 r r  2  1
2
e
2i 2

 2 1
 1  2 c 2  c1 
1 1
limitandoci qui al primo termine delle serie asintotiche che derivano dalle potenze intere
e negative di r.21
l2


l1
•
È importante che l1 ed l2 racchiudano i punti di singolarità 1 e 2, altrimenti, per il teorema di Cauchy,
l’integrale della (12) si annulla e non si ottiene alcuna soluzione. l1 ed l2 assicurano inoltre la monodromia della funzione integranda, dal momento che non viene compiuto un giro completo attorno alle singolarità, e quindi l’argomento della funzione stessa non viene aumentato di 2. Per maggiori dettagli sui
cammini di integrazione si rimanda al testo [Smirnov, 1978, pp. 402-406].
21
Il passaggio dalla (12) alle soluzioni asintotiche (17) è molto lungo. Qui possiamo solo accennare ai
punti principali, rimandando al testo di Schlesinger già citato per la trattazione completa.
Nella (12) poniamo:
z  c1  t
c1  c2   da cui si ricava
z  c2  t  
z  t  c1 .
dz=dt
Questo cambiamento di variabile corrisponde ad uno spostamento dell’origine delle coordinate nel punto c1. Dalla (12) si ricava:
u1   e
(a)
r  t  c1    1
1
t
t    1 dt
2
k1

se t   , si può sviluppare t  

  1  k 0 f k t k , dove
  k 1  2  1... 2  k 
.
f 
2
2
(b)
k
k!
Dal momento che non è sempre t   , si prendono i primi n+1 componenti dello sviluppo più un resto:
 t     1  f 0  f 1 t  . . . f n t n  R n  t  ,
2
sostituendo quest’ultima nella (a) si ha:
u1  e
c1r
n
 f k  ert t 1  k 1dt  ec1r  ert t 1 1Rn  t  dt .
k 0
k1
k1
Se in quest’ultima equazione si pone:
rt   , da cui: t    r ; dt   d r ; d   rdt ; si ottiene:
(c)
u1  e
c1r  1
r
n
  1 1  k r  k f k  e    1  k 1 d
k 0
211

Distinguiamo adesso i due casi E›0 ed E‹0.
Sia dapprima:
1. E›0. - Osserviamo innanzitutto che in questo caso la condizione (15) non è soddisfatta automaticamente, dal momento che il primo membro è puramente immaginario.
Inoltre, dalla (14’’), anche c1 e c2 sono puramente immaginari. Poiché r è reale, gli esponenziali di (17) sono delle funzioni periodiche finite. I valori (14’’) di
emostrano che U1 e U2 tendono entrambi allo zero come r-n-1. Perciò lo stesso
deve accadere per la nostra soluzione trascendente intera U, di cui vogliamo analizzare
l’andamento, qualunque sia il modo in cui è ottenuta come combinazione lineare di U1 e
poniamo p   1  k , l’integrale nella (c) diventa:

 e   p 1d   e2ip  1  e   p 1d   e2ip  1  p  ,
(d)

0
dove, nell’ultimo passaggio, si è utilizzata la definizione di funzione  . Se, nella definizione della funzione , poniamo:
   g  1 


d  g  1 d
si ottiene:
  

 p  e g 1  p  1d
 p  g 1
0

 g  1  p   e g e p 1d ,
0
p
 g
a questo punto si possono sviluppare:  g  1 in serie binomiale, e
in serie di potenze di g, si otp
tiene:

p  p  1... p  k  1
 p  
k!
 g  1
k
k
k 0

  1
k
k 0

semplificando, al primo e secondo membro il termine comune 
0

 
  



g k   p  k 1
d
e 
k! 0
g k  1
, rimane:
k!
k


p p  1 ... p  k  1  p   p  k , dove  p  k   e   p  k 1d
0
dalla (d) abbiamo:


 e   p 1d  e2 i1  1  1  k    e2 i1  1 1 1  1 . . .  1  k  1  1 

sostituendo l’ultima espressione nella (c) si ottiene:
c r  1
u1  e 1 r
c r  1
u1  e 1 r
e
  1
n
1  k  k
k 0
2i 1
r


f k e 2i1  1 1 1  1...1  k  11  + secondo integrale

 1 1  1 1   1 r  k f k1 1  1...1  k  1 + secondo integrale
n

k
k 0
quando n   il secondo integrale si annulla perché R n  t   0 . Si può dimostrare che quando
r   si ha:
lim r
r 
n


u1e c1r r 1   1
1

e 2i
1


 1  1    1 r  k f k1 1  1...1  k  1  0
n
k

k 0
quindi, asintoticamente, si ha:
c r 1
u1e 1 r
  1
1
e
2i 1

 1 1    1 r
n
k 0
k
k
f k1 1  1...1  k  1 .
Quest’ultima espressione coincide con la (17) se si ricorda la definizione (b) di fk e ci si limita, come fa
Schrödinger, al termine k=0.
212
U2. Dunque, la relazione (9) mostra, se si tiene conto della (10), che la funzione , cioè
la soluzione trascendente intera dell’equazione primitiva (7), deve ugualmente tendere a
zero come 1/r, poiché essa deriva da U per una semplice moltiplicazione con rn. Possiamo dunque dire:
per un valore positivo qualunque di E, l’equazione differenziale di Eulero (6) relativa al nostro problema variazionionale, possiede soluzioni finite, univoche e continue
in tutto lo spazio e che, all’infinito, tendono verso lo zero come 1/r, oscillando continuamente.22 - Torneremo più avanti sulla condizione ai limiti (6).
2. E‹0. - In questo caso la possibilità (15) non è esclusa eo ipso; ammettiamo tuttavia per il momento che essa lo sia, cioè che si eliminino i valori interi e reali di
eIn questo caso, dalla (14’’) e (17) U1 cresce indefinitamente per r   , mentre
U2 tende esponenzialmente verso lo zero.23 La nostra trascendente intera U rimarrà finita solo se U è identica ad U2 a meno di un fattore numerico; lo stesso risultato vale per
. Ma questo non può verificarsi. Lo si vede nel modo seguente. Scegliamo come cammino di integrazione nella (12) un contorno chiuso che abbraccia entrambi i punti c1 e
c2; sulla superficie di RIEMANN della funzione da integrare, questo contorno sarà realmente chiuso a causa del fatto che la somma è un numero intero, e di conseguenza la condizione (13) sarà eo ipso soddisfatta. Si può mostrare allora facilmente che
l’integrale (12), preso lungo questo cammino chiuso, rappresenta effettivamente la nostra trascendente intera U. Essa si può cioè sviluppare in serie di potenze positive di r,
che converge in ogni caso per r sufficientemente piccolo; essa soddisfa dunque
l’equazione differenziale (7’), di conseguenza coincide con la serie che forma U. Dunque: U è rappresentata dalla (12), essendo L il cammino di integrazione un contorno
chiuso intorno ai due punti c1 e c2. Ma si può deformare questo contorno in modo che
esso appaia come una combinazione additiva dei due cammini di integrazione considerati prima corrispondenti ad U1 e U2, e questo con dei fattori non nulli, per esempio 1 ed
22
Nelle (17) la dipendenza da r è data da:
U1  e
(a)
c1r  1
r
c r 
U2  e 2 r 2 .
Se E>0 si hanno orbite iperboliche aperte. In tal caso c1 e c2, dalle (14’’) sono numeri immaginari pucr
cr
ri, quindi e 1 ed e 2 rappresentano funzioni periodiche. Ricordando che i valori di 1 e 2 sono:
me 2
1 
 n  1  n  1  i (parte immaginaria)
K 2mE
me 2
2  
 n  1  n  1  i (parte immaginaria) .
K 2 mE
Quindi la parte reale è rappresentata da n+1. Per cui, ritornando alle (a), si avrà che U1 e U2 tendono a
1
1



n
zero come r 1 e come r 2 , cioè come r-n-1. Ricordando che   r U  r n 1  ; quindi la 
r
r
tende a zero come r-1 oscillando continuamente.
23
Il caso E<0 corrisponde all’elettrone legato al nucleo. Ammettiamo che 1, 2c1, c2 non siano interi e
reali. Siccome, dalle (14’’), c2=-c1, si ha:
c r 
cr
U1  e 1 r 1
e 1   , quindi U 1  
per r  
U2  e
 c1r   2
r
e
213
 c1r
 0, quindi U 2  0
e. Per questo U deve contenere necessariamente U1, dunque non potrà mai coincidere con U2, c.v.d.
Con le ipotesi avanzate, la nostra trascendente intera U, la sola tra le soluzioni della (7’) che sia adatta al nostro scopo, non assume un valore finito quando r diventa molto grande. - Con la riserva di dimostrare che il nostro procedimento fornisce tutte le soluzioni linearmente indipendenti del problema, noi possiamo dunque concludere che:
il nostro problema variazionale non possiede soluzioni per valori di E negativi
che non soddisfano la condizione (15).
Adesso non ci resta che esaminare la serie discreta di valori negativi di E che soddisfano la condizione (15). In questo caso 1e 2 sono entrambi interi. Per non ottenere
un risultato nullo, bisognerà certamente modificare il primo dei due cammini di integrazione che ci ha fornito il sistema fondamentale di soluzioni U1 e U2. In effetti -1è
certamente positivo, di conseguenza il punto c1 non è né un punto di diramazione, né un
polo della funzione integranda: è uno zero ordinario. Il punto c2 può essere analogamente un punto regolare, se -1non è negativo. Comunque sia, si possono facilmente trovare in ogni caso, due cammini d’integrazione convenienti, ed effettuare lo stesso
l’integrazione per mezzo di funzioni note, riuscendo ad analizzare completamente il
comportamento della soluzione considerata.
Poniamo:
(15’)
me 2
K 2mE
 l;
l=1,2,3,4...
Si ottiene allora dalla (14’’)
(14’’’)
1-1=l+n, 2-1=-l+n.
Distinguiamo i due casi l  n ed l  n . Sia innanzitutto
a) l  n . - c1 e c2 perdono allora ogni carattere di punti singolari, ma sono, al contrario, qualificati per giocare il ruolo di punto iniziale o punto finale del cammino di integrazione, soddisfacendo alla condizione (13). Un altro punto ugualmente qualificato
per questo ruolo è l’infinito reale negativo. Ogni curva che racchiuda due di questi tre
punti conduce ad una soluzione e due qualsiasi di queste tre soluzioni sono sempre linearmente indipendenti, come si constata facilmente calcolando completamente gli integrali (12). In particolare, la soluzione trascendente intera è data dal cammino
d’integrazione che va da c1 a c2. In effetti, si vede senza bisogno di alcun calcolo che
questo integrale resta regolare per r=0. Insisto su questo punto, perché il calcolo effettivo dell’integrale può mascherare questo risultato. Al contrario, il calcolo mostra che
l’integrale in questione aumenta indefinitamente per r infinito positivo. Solo uno degli
altri due integrali resta finito quando r è molto grande, ma diventa anch’esso infinito
per r=0.
Di conseguenza, nel caso l  n il problema non ha soluzione.
b) l>n. - In questo caso, per la (14’’’), c1 è uno zero e c2 un polo della funzione da
integrare, almeno del primo ordine. Si ottengono due integrali indipendenti: uno corrispondente ad un cammino che parte da z=- e conduce a zero, prendendo la precauzione di evitare il polo; l’altro fornita dal residuo nel polo. Quest’ultimo rappresenta la trascendente intera. Scriviamola esplicitamente, dopo averla moltiplicata sempre per rn, ot-
214
tenendo da (9) e (10), la soluzione della nostra equazione iniziale (7). (La costante
moltiplicativa è stata scelta arbitrariamente in maniera conveniente). Si trova
l  n 1
 2mE 
( 2 x ) k  l  n 
n x
  f r
(18)
f ( x)  x e 

.
;
K 
k!  l  n  1  k 

k 0
La (18) rappresenta effettivamente la soluzione utilizzabile poiché resta finita per tutti i
valori reali non negativi di r. Inoltre essa si annulla esponenzialmente all’infinito, a dimostrazione che la condizione (6) sulla superficie all’infinito è soddisfatta. Riassumiamo i risultati nel caso dei valori di E negativi:
per E negativa, il nostro problema alle variazioni possiede soluzioni se e solo se
E soddisfa la condizione (15). In questo caso, il numero intero n, che dà l’ordine delle
funzioni sferiche di superficie che compaiono nella soluzione, deve assumere dei valori
più piccoli di l (ed esiste sempre almeno un valore che soddisfa queste condizioni). La
parte di soluzione che dipende da r è data dalla (18).
Calcolando il numero delle costanti delle funzioni sferiche di superficie (ve ne sono 2n+1), si ottiene quindi il risultato seguente:
per ogni combinazione permessa (n,l) la soluzione ottenuta contiene esattamente
2n+1 costanti arbitrarie; di conseguenza, per un valore di l assegnato essa ne contiene
l2 .
Abbiamo dunque dimostrato per grandi linee le affermazioni enunciate all’inizio,
relativamente allo spettro dei valori propri del nostro problema di calcolo variazionale,
tuttavia permangono ancora delle lacune.
Innanzitutto manca la dimostrazione che l’insieme di tutte le funzioni proprie indicate forma un sistema completo. Qui non mi occuperò di questo problema. Si può
supporre, dall’esperienza di casi analoghi, che non ci è sfuggito alcun autovalore.
In secondo luogo, bisogna ricordare che non si può affermare con sicurezza che le
autofunzioni corrispondenti ad E positivi soddisfino il nostro problema nella forma enunciata all’inizio; in effetti all’infinito esse si annullano come 1/r, dunque su una sfera

tende a zero come 1/r2. Ne consegue che all’infinito l’integrale
r
superficiale (6) è ancora dell’ordine di grandezza di d. Se si vuole dunque ottenere realmente uno spettro continuo bisogna aggiungere al problema una seconda condizione:
cioé che d si annulli all’infinito, o che tenda almeno verso un valore costante, qualunque sia la direzione nello spazio in cui ci si allontani; in quest’ultimo caso, le funzioni
sferiche di superficie porteranno all’annullamento dell’integrale (6).
di grande raggio,
§ 2. La condizione (15) fornisce
(19)
E l 
me 4
.
2K 2 l 2
Se si dà alla costante K, che siamo stati obbligati a introdurre nella (2) per ragioni dimensionali, il valore
(20)
K
h
2
215
si ottengono i livelli di energia ben noti di BOHR, corrispondenti ai termini di Balmer. Si
ha, infatti,
(19’)
2 2 me 4
E l 
h2l 2
Il nostro l è il numero quantico principale. n+1 è analogo al numero quantico azimutale
e si può paragonare la separazione di questo numero in altri due a cui conduce
l’espressione esatta delle funzioni sferiche di superficie, con la suddivisione del quanto
azimutale in un quanto «equatoriale» ed un quanto «polare». Questi numeri determinano qui il sistema di linee nodali sulla sfera. Analogamente, il «numero quantico radiale», l-n-1, determina esattamente il «numero di nodi sulla sfera»; in effetti ci si può facilmente convincere che la funzione f(x) della (18) possiede precisamente l-n-1 radici
reali e positive. - I valori positivi di E corrispondono all’insieme continuo di traiettorie
iperboliche, a cui si può attribuire in un certo senso il numero quantico radiale . Ciò
corrisponde, come abbiamo visto, al fatto che le rispettive soluzioni oscillino continuamente verso l’infinito.
È ancora interessante constatare che in generale il dominio in cui le funzioni (18)
sono sensibilmente diverse da zero, e nel quale esse oscillano è in ogni caso dello stesso
ordine di grandezza dell’asse maggiore dell’ellisse associata. L’argomento della funzione f, privo di costanti, si presenta sotto forma di prodotto tra il raggio vettore ed un
fattore che è, naturalmente, l’inverso di una lunghezza; il suo valore è dato da
(21)
K
K 2l
h2l
al


2
2
2 
4 me
l
2mE me
dove al è il semiasse della lma traiettoria ellittica. (Queste equazioni derivano dalla (19) e
e2
dalla ben nota relazione El 
). I numeri (21) danno l’ordine di grandezza del do2a l
minio delle radici per l ed n piccoli; in questo caso si può ammettere che le radici di f(x)
siano dell’ordine di grandezza dell’unità. Ciò non succede più evidentemente nel caso in
cui i coefficienti del polinomio siano dei numeri grandi. Non voglio discutere qui il problema del calcolo preciso di queste radici ma ho buone speranze che l’ipotesi precedente verrà confermata con molta esattezza.
§ 3. Si è evidentemente molto tentati di associare la funzione  ad un fenomeno di
vibrazione intra-atomico, avente un carattere di realtà molto più pronunciato di quello,
così spesso messo in dubbio attualmente, delle traiettorie elettroniche. Inizialmente avevo anche avuto l’intenzione di fondare la nuova concezione delle condizioni quantistiche su un’ipotesi di questo genere, che ha il vantaggio di essere sicuramente molto più
intuitiva di altre; ho preferito tuttavia la forma matematica perfettamente neutra utilizzata fin qui, perché ha il vantaggio di mettere più chiaramente in evidenza la parte essenziale della questione. Secondo me, il punto essenziale consiste nel fatto che nella nuova
concezione le regole dei quanti non contengono più traccia di questa misteriosa «condizione di numeri interi», che si trova, per così dire, posta su un altro piano: essa risulta
dal semplice fatto che una certa funzione spaziale resti finita e univoca in tutto lo spazio
delle configurazioni.
Non tenterò di discutere qui in modo più preciso le possibilità di rappresentazione
di un simile fenomeno di vibrazioni, prima di avere risolto con successo con i nuovi me-
216
todi, un certo numero di problemi particolari. Dopotutto, in effetti, è possibile che questi
metodi non apportino niente di nuovo e che il loro insieme alla fine non costituisca che
una teoria ricalcata sull’ordinaria teoria dei quanti. Per esempio, è veramente strano
constatare che se si risolve il problema relativistico di Keplero seguendo le indicazioni
precedenti, si trova che i due numeri quantici parziali (il quanto azimutale e il quanto
radiale) devono essere necessariamente semi-interi.
In ogni caso, mi sia permesso di aggiungere ancora qualche considerazione a proposito di questa rappresentazione ondulatoria di fenomeni intra-atomici. Innanzitutto,
non nasconderò il fatto che devo il primo impulso alla nascita di questo lavoro per lo
più alla notevole tesi di M. LOUIS DE BROGLIE;* sono stato portato alle considerazioni
precedenti riflettendo sulla distribuzione spaziale delle «onde di fase», per le quali M.
DE BROGLIE ha dimostrato esservene sempre, lungo la traiettoria, un numero intero per
periodo o quasi-periodo dell’elettrone. La principale differenza tra i suoi risultati e i nostri consiste nel fatto che DE BROGLIE immagina delle onde progressive, mentre, se si
interpretano le nostre formule nel senso di un’ipotesi ondulatoria, si è condotti a delle
vibrazioni proprie stazionarie. Recentemente ho dimostrato,**,24 che si può fondare la
teoria dei gas di Einstein su considerazioni che introducono delle vibrazioni proprie stazionarie, che obbediscono alla legge di dispersione delle onde di fase di de Broglie: le
osservazioni che abbiamo sviluppato prima nel caso dell’atomo potrebbero essere ritenute come una diretta generalizzazione delle nostre considerazioni sulla teoria dei gas.
Se si ammette che ciascuna funzione (18) moltiplicata per una funzione sferica di
superficie di ordine n descriva un fenomeno ondulatorio intra-atomico, bisognerà necessariamente ammettere che esiste una certa relazione tra la frequenza di questo fenomeno
e la grandezza E. Ora, nel problema delle vibrazioni, si è sempre abituati a trovare che il
parametro dell’equazione fondamentale (normalmente chiamato ) è proporzionale al
quadrato della frequenza. Ma nel nostro caso questo sembra impossibile: innanzitutto
perché per i valori negativi di E si sarebbe condotti a frequenze immaginarie; in secondo luogo, perché l’intuizione avverte il teorico che l’energia deve essere proporzionale
alla prima potenza della frequenza piuttosto che al suo quadrato.
La contraddizione si risolve nel modo seguente. Finora non abbiamo potuto definire un livello zero naturale del «parametro» E, della nostra equazione (5), soprattutto a
causa del fatto che la funzione incognita non è moltiplicata solo per E, ma anche per
un altro fattore, funzione di r, al quale si può aggiungere arbitrariamente una costante a
patto che si modifichi convenientemente il livello zero di E. Ne consegue che bisognerà
correggere «le previsioni del teorico delle vibrazioni» e ammettere che il quadrato della
frequenza non è proporzionale al parametro E stesso, cioè alla grandezza fisica che abbiamo chiamato e che continueremo a chiamare con questo nome, - ma ad E più una
certa costante. Ammettiamo ora che questa costante sia molto grande rispetto ai valori
assoluti di tutte le E negative che intervengono nel problema [e che sono già limitate
dalla condizione (15)]. In questo caso le frequenze sono reali ed in più i valori di E che
corrispondono a differenze di frequenze relativamente piccole, saranno effettivamente
proporzionali a queste differenze, con buona approssimazione. È tutto ciò che
«l’intuizione» di un teorico dei quanti può ragionevolmente esigere, fino a quando non
si sarà definito in modo più preciso un livello nullo per l’energia del sistema considerato.
*
L. DE BROGLIE, Ann. de Physique (10), 3, 1925, p. 22 (Thèse, Paris, 1924).
In pubblicazione su Physik. Zeitschr.
24
Si tratta dell’articolo [Schrödinger, 1926b].
**
217
L’ipotesi secondo cui la frequenza del fenomeno ondulatorio è data da una formula del tipo seguente:
(22)
  C' C  E  C' C 
C'
E ...,
2 C
dove C rappresenta una costante molto grande rispetto a tutte le E, possiede anche un
altro vantaggio molto prezioso: essa permette di comprendere la condizione sulle frequenze di BOHR. Secondo questa condizione le frequenze di emissione sono proporzionali alle differenze tra due valori di E; dunque dalla (22) esse saranno ugualmente proporzionali alle differenze tra due frequenze proprie  del nostro fenomeno ondulatorio.
Se le autofrequenze sono molto grandi rispetto alle frequenze di emissione, esse hanno
all’incirca lo stesso valore. Di conseguenza, le frequenze di emissione si presentano sotto la forma di «toni differenziali» bassi, formati a partire da oscillazioni proprie che si
inseguono con delle frequenze molto più elevate. È facilmente comprensibile che nel
momento in cui l’energia si trasporta da una vibrazione propria ad un’altra, appaia qualcosa a cui si dovrebbe attribuire una frequenza uguale alla differenza delle frequenze
fondamentali; questo qualcosa sarà l’onda luminosa corrispondente; basta immaginare
che esista un legame causale tra l’onda di luce ed i battimenti che si producono in ciascun punto dello spazio durante tutta la durata della transizione, e che la frequenza di
questa luce sia determinata dal numero di volte che l’intensità di questi battimenti ripete
il suo valore massimo al secondo.
Si può essere inclini a dubitare dell’esattezza delle considerazioni precedenti se si
tiene conto che sono basate sulla relazione (22), scritta nella sua forma approssimata
(cioè dall’estrazione della radice quadrata), cosa che conferirebbe in apparenza alla
condizione di BOHR stessa, il carattere di una formula approssimata. Ma questa difficoltà non è che apparente e la si può evitare completamente sviluppando la teoria ondulatoria sotto la sua forma relativistica, la sola che permette di penetrare più a fondo
nell’essenza stessa dei fenomeni esaminati. La grandissima costante additiva C è strettamente legata all’energia a riposo dell’elettrone, mc2. Analogamente la teoria relativistica chiarisce o evita la difficoltà legata alla costante h [già introdotta dalla (20)] che si
presenta una seconda volta ed in maniera indipendente. Purtroppo lo sviluppo rigoroso
di questa teoria incontra ancora all’ora attuale certe difficoltà non trascurabili, che
d’altronde abbiamo già segnalato prima.
È appena necessario sottolineare a quale punto una rappresentazione dei fenomeni
che faccia intervenire al posto di una transizione quantistica un semplice scambio di energia tra due forme di vibrazione distinte, sarà più facilmente accettabile
dell’immagine attuale di elettroni che saltano da un livello all’altro. Il cambiamento di
forma di un’oscillazione è un fenomeno che può avere luogo nello spazio e nel tempo;
può durare fintanto che dura sperimentalmente il processo dell’emissione (esperienze
sui raggi canale di W. Wien): tuttavia, se durante questa transizione si sottopone
l’atomo, per un tempo relativamente breve, all’azione di un campo elettrico che modifica le sue frequenze proprie, le frequenze dei battimenti saranno anch’esse modificate istantaneamente e la modificazione cesserà quando si sarà arrestata l’azione del campo
elettrico perturbatore. L’interpretazione corretta di questi fatti sperimentali incontra al
presente delle difficoltà considerevoli: si veda ad esempio la discussione di questi fatti
nel notissimo saggio di BOHR-KRAMERS-SLATER.
D’altra parte, la gioia che ci procura la possibilità di rappresentarci questi fenomeni sotto un aspetto più familiare e più intuitivo, non deve farci perdere di vista una
218
cosa fondamentale. La nostra rappresentazione ammette che quando un atomo non irradia, oscilla sempre con una frequenza propria unica; ma non bisogna dimenticare che
questa immagine, anche se fosse corretta e se la si dovesse mantenere, si allontana ancora molto dall’immagine normale di un sistema oscillante. Infatti, è noto che un sistema macroscopico non vibra in questo modo, ma fornisce in generale un insieme di vibrazioni proprie. Tuttavia non si può non concludere su questo punto che l’esistenza di
tutto un insieme di vibrazioni proprie non cambierebbe il fenomeno, giacché non farebbe apparire nessun’altra frequenza di battimento, oltre a quelle che l’atomo stesso può
emettere sperimentalmente. L’emissione simultanea per uno stesso atomo di più di questi raggi spettrali non sarà in contraddizione con l’esperienza. Si potrà benissimo immaginare che l’atomo oscilla con una sola frequenza propria unicamente quando si trova
nello stato normale (o approssimativamente, in certi stati «metastabili») e che non irradia, precisamente perchè, non disponendo che di una frequenza unica, non può provocare dei battimenti. L’eccitazione dell’atomo consisterà allora nella messa in oscillazione
di una o più altre vibrazioni proprie, cosa che provocherà la comparsa di battimenti,
dando luogo nelle loro vicinanze all’emissione di luce.
In ogni caso sono propenso a credere che in generale le funzioni proprie appartenenti alla stessa frequenza sono tutte eccitate simultaneamente. Infatti, il caso dei valori
propri multipli corrisponde, nel linguaggio della teoria ammessa finora, alla degenerazione del sistema considerato. La riduzione della quantizzazione dei sistemi degeneri
dovrà dunque corrispondere alla distribuzione arbitraria dell’energia tra le funzioni appartenenti ad uno stesso valore proprio.
Nota aggiunta per correzione il 28.II.1926.
Nel caso della meccanica classica dei sistemi conservativi si può dare al nostro
problema un enunciato più elegante del precedente, senza fare appello esplicitamente
all’equazione alle derivate parziali di HAMILTON. Sia T(q,p) l’energia cinetica espressa
in funzione delle coordinate e dei momenti, V l’energia potenziale, d l’elemento di volume della spazio delle configurazioni, «misurato in modo razionale», cioè uguale al
prodotto dq1dq2...dqn, diviso per la radice quadrata del discriminante della forma quadratica T(q,p). (Cf. GIBBS, Mécanique Statistique). Bisogna allora determinare  in modo che «l'integrale di Hamilton»

(23)
  

 d  K Tq , q    V 
2

2

sia stazionario, tenendo conto delle condizioni di normalizzazione
(24)
 d  1.
2
Gli autovalori di questo problema di calcolo variazionale sono i valori stazionari
dell’integrale (23) e, secondo le nostre ipotesi, forniscono i livelli quantici dell’energia.
Rimarchiamo infine, a proposito della (14’’), che la grandezza 2 rappresenta
B
l’espressione ben nota di Sommerfeld 
 C (cf. «Atombau», 4a ed., p. 775).
A
Zurigo, Istituto di Fisica dell’Università.
(Manoscritto ricevuto il 27 gennaio 1926).
219
CAP. 4
STORIOGRAFIA DELLA MECCANICA QUANTISTICA
220
Introduzione
In quest’ultimo capitolo tenteremo di fornire uno strumento agile che, partendo da
alcune domande fondamentali sulla disciplina (a che serve? Che tipo di storia?), dia uno
sguardo d’insieme ad alcune tra le risposte fornite e, di conseguenza, ai filoni di ricerca
che si sono sviluppati attorno alla storia della meccanica quantistica. Per raggiungere
questo scopo, faremo ampio riferimento al testo di Kragh [Kragh, 1990], (in pratica
spesso ci limiteremo a riassumerlo, soprattutto nella prima parte).
In particolare non si vuole dare un panorama completo della storiografia sulla
meccanica quantistica - a questo proposito chiediamo immediatamente scusa a quanti,
pur avendo dato contributi più o meno significativi, non sono stati da noi citati - né si
vuole dare un quadro esaustivo delle problematiche esistenti all’interno della disciplina;
troppo vasto è l’argomento e troppo limitato lo spazio a disposizione.
A che serve la storia della scienza?
Una delle domande che spesso si sentono rivolgere coloro i quali si occupano di
storia della scienza, riguarda il senso della disciplina, qual è la sua utilità, quale la giustificazione della sua esistenza. E che non si tratti di una domanda recente, è dimostrato
dal fatto che quasi tutti gli storici vecchi e nuovi hanno affrontato il problema e fornito
una propria risposta. Qui tenteremo di redigere un breve resoconto di alcune tra le opinioni espresse in merito al quesito.
Lo studio della storia può avere influenza sulla scienza attuale.
È una delle prime risposte fornite al problema. Mach ha impostato su questo presupposto lo studio dello sviluppo storico della meccanica classica [Mach, 1968]. Lo
stesso ha tentato di fare recentemente Truesdell [Truesdell, 1968]. In realtà è difficilissimo trovare casi di scienziati che siano stati aiutati nel loro lavoro quotidiano dallo studio della storia. In ogni caso questa resta un’opinione molto diffusa, come si può notare
anche dalle seguenti parole di Jammer: “La ricerca storica non è considerata come fine a
se stessa… Si spera che l’analisi storico-critica dei concetti e delle definizioni classiche
della massa… possano portare a comprendere più profondamente il significato del termine e a meglio intenderne l’importanza e il ruolo nella fisica”, [Jammer, 1974, p. 9].
La storia della scienza serve ad accrescere il prestigio sociale della scienza.
Questo concetto è stato sostenuto soprattutto nei paesi o nei periodi in cui si è avvertito un calo di attenzione nei confronti della scienza e, di conseguenza, anche una
diminuzione delle risorse finanziarie. Spesso è stato sostenuto da un ragionamento consequenziale di questo tipo: uno dei risultati della scienza pura è la tecnologia; la tecnologia porta un maggiore benessere; la storia della scienza serve per dimostrare come la
scienza produca benessere. È interessante notare come posizioni simili siano state sostenute sia negli Stati Uniti [Conant, 1961],1 che nell’Europa dell’Est [Mikulinsky, 1975].
Al di là del fatto che non è scontato che la scienza porti sempre con sé risultati tecnologici, e che la tecnologia non comporta necessariamente un maggiore benessere, resta la
1
Conant, grazie allo studio di casi storici, giunge a conclusione che “…una nazione, per primeggiare nella tecnologia e provvedere così al benessere e alla sicurezza del suo popolo, deve primeggiare nella
scienza. Così, in poche parole, si può riassumere una lunga storia che fornisce una risposta alla domanda: «perché più scienza?»”, [Conant, 1961, p. 327].
221
questione della liceità dello sfruttamento della storia della scienza per fini che non hanno nulla a che vedere con il suo oggetto.
La storia della scienza può adempiere ad importanti funzioni didattiche.
Questa risposta ha diverse varianti.
Dal punto di vista didattico vero e proprio, l’insegnamento della scienza impostato
storicamente è stato fonte di molte discussioni e vi sono molti argomenti a favore o contro.2 Uno dei più usuali è la presunta capacità della storia di rendere più umanistico, e
quindi più ‘soft’, l’impatto con la scienza, che notoriamente suscita reazioni piuttosto
ostiche in molti giovani [Woodall, 1967]. “Senza dubbio la storia della scienza può giocare un ruolo positivo nella didattica: può contribuire ad una concezione della scienza e
del metodo scientifico meno dogmatica e può agire come antidoto contro l’ortodossia e
l’entusiasmo acritico per la scienza; ma non tutta la didattica della storia della scienza
giocherà questo ruolo e certo non automaticamente, [Kragh, 1990, p. 40].
Oltre alla ricaduta didattica diretta sulla scienza, vi è quella indiretta legata alla
possibilità, per la storia della scienza, di costituire il background per lo studio di discipline quali la filosofia o la sociologia della scienza. In tal caso lo studioso può sfruttare
le conoscenze storiche generalizzandole in dottrine filosofiche, oppure convalidare o
confutare le dottrine filosofiche per mezzo dei casi storici.3 Anche in questo caso possiamo dire che le relazioni tra storia e filosofia sono molto complesse e non è facile trovare risposte definitive.
Infine vi è il punto di vista secondo cui la storia della scienza può contribuire al
superamento del gap esistente tra cultura scientifica e umanistica attraverso
un’evidenziazione degli aspetti umanistici della scienza. È questa l’angolatura scelta da
Snow in un suo famoso saggio [Snow, 1964].
La storia della scienza non ha bisogno di alcuna giustificazione pragmatica esterna al
suo ambito naturale.
Secondo questa posizione la storia della scienza, come la storia di altre attività
umane ha la sua finalità nella ricostruzione di tali attività e non deve cercare giustificazioni in altri campi o comunque all’esterno del suo ramo di applicazione. Nel 1961 Cohen scriveva: “non è certamente più necessario giustificare lo studio della storia della
scienza. Non abbiamo più bisogno di ‘scuse’ per indagare sulle origini e sullo sviluppo
di attività che hanno interessato per più di due millenni le migliori menti che il mondo
abbia conosciuto!”, [Cohen, 1961, p. 773].
Storia della scienza o storia della scienza?
Secondo la classificazione fatta da Kragh [Kragh, 1990, Cap. 2], la locuzione
“storia della scienza” è composta dalle parole “storia” e “scienza”. Per quanto riguarda
il primo termine, si è soliti distinguere tra due significati.
H1= rappresenta gli eventi del passato come sono realmente avvenuti, è la storia
‘oggettiva’. “Ma dal momento che noi abbiamo, e sempre avremo, soltanto una visione
limitata della realtà del passato, gran parte di ciò che accade sarà per sempre al di sopra
2
3
Si veda ad esempio [Brush, King, 1972] e [Brush, 1974].
Si veda [Wood, 1983].
222
di ogni nostra possibilità di comprensione”, [Kragh, 1990, p. 22], quindi non riusciremo
mai ad avere un quadro esatto (se pure esiste) di H1.
H2= è il risultato della ricerca storica che, per mezzo dell’analisi dei limitati dati a
disposizione, ricostruisce i fatti accaduti. H2 può benissimo essere rappresentata dagli
scritti che riguardano la storia ed è il massimo della conoscenza che possiamo avere di
H1.
Anche nel secondo termine, “scienza”, possiamo distinguere due livelli.4
S1= è la raccolta di tutte le teorie e dei dati che in un certo momento storico rappresentano il sapere scientifico riconosciuto ufficialmente dalla comunità. Esso si presenta come “un prodotto finito, come appare nei libri di testo e negli articoli”, [Kragh,
1990, p. 24].
S2= “è costituita dalle attività o dal modo di agire, dal comportamento degli scienziati, inclusi i fattori che li influenzano … In questa maniera S2 è scienza come modo di
agire umano … S2 include S1 come il risultato di un processo, ma il processo stesso non
viene contemplato in S1”, [Kragh, 1990, p. 25].
Dalle definizioni date risulta facile capire l’intestazione del paragrafo, perché:
H2S1= sarà la storia delle teorie, la storia dei dati, degli esperimenti, a prescindere
dai fattori esterni che possano averle influenzate o contribuito a farle nascere; è quella
che abbiamo denominato “storia della scienza” per enfatizzare la parola che si ritiene al
centro dell’attenzione.
H2S2= è la “storia della scienza” intesa come storia di un modo di agire umano,
soggetta quindi a influenze esterne al particolare ramo di applicazione. Secondo questa
ricostruzione le teorie che compaiono in S1 non sono le sole forme possibili, ma rappresentano il risultato di una selezione operata tra diverse alternative possibili, sulle quali
ha agito un filtro di condizionamento legato alle regole stabilite dalla comunità scientifica in quel preciso momento storico.
Tra i due estremi H2S1 e H2S2 vi sono numerose sfumature cui corrispondono differenti modi di intendere la storia della scienza e, conseguentemente, diversi risultati
nella ricerca. La stessa situazione si ritrova nella storiografia della meccanica quantistica.
Storiografia della meccanica quantistica
Le posizioni ideologiche e la creazione dei miti
Le ali estreme di H2S1 e di H2S2 sono occupate dagli ‘ideologi’ il cui scopo principale è la creazione o il mantenimento di un mito. Per ideologo intendiamo, seguendo
la definizione di Kragh [Kragh, 1990] e Althusser [Althusser, 1974], il sostenitore di
una dottrina che “legittima le vedute e gli interessi di qualche particolare gruppo sociale”, [Kragh, 1990, p. 119]. Nel caso della storia ‘interna’ (H2S1), il gruppo sociale è rappresentato dagli scienziati, nel caso della storia ‘esterna’ (H2S2), esso può essere allargato fino a comprendere l’intera nazione o il gruppo politico dominante. Il mito da difendere nella storia interna è quello della superiore concezione della disciplina scientifica e
della parte rilevante avuta dagli scienziati nel suo sviluppo. Il tutto è finalizzato a consolidare il prestigio degli scienziati come gruppo sociale. In quest’ottica la fedeltà della
ricostruzione storica diventa di secondaria importanza e, anzi, lo svolgimento dei fatti
viene stravolto proprio per corroborare gli assunti aprioristici dell’ideologia, poiché “u4
Questa classificazione è tratta da [Mc Mullin, 1970].
223
na dottrina ideologica deve anche dare un’immagine distorta o infedele della realtà cui
si riferisce”, [Kragh, 1990, p. 119]. Una delle ricostruzioni interne con caratteristiche di
questo tipo è il libro di Gamow, Biografia della fisica [Gamow, 1963], che citiamo anche per la vasta diffusione avuta presso il pubblico non specialista. Gli assunti fondamentali di questo testo sono rappresentati da:
- una visione cumulativa della conoscenza scientifica, alla cui crescita tutti gli scienziati
contribuiscono con il proprio mattoncino. Non esistono quasi mai dissidi o teorie contrastanti e tutti collaborano per il fine supremo del trionfo della verità;
- il cammino della scienza è teleologico perché tutti i contributi convergono verso la teoria ‘giusta’;
- le differenze tra gli scienziati tendono a scomparire e, laddove sussistono, la scelta per
la teoria corretta appare sempre ineluttabile e inequivocabile sotto i colpi dei dati sperimentali;
- gli scienziati sono sempre geniali e sregolati, come viene dimostrato per mezzo dei
numerosi aneddoti gustosi sulla loro vita.
L’ideologia esterna è normalmente connessa ad opere di natura nazionalistica.
In questo campo quasi ogni paese ha avuto il suo profeta. Così, nel 1916, il fisico
francese Picard, scrisse una storia della scienza in cui dimostrava che il meglio della fisica era opera dei francesi e la parte peggiore proveniva dai tedeschi.5 Un’operazione
analoga è stata effettuata da Lenard per quanto riguarda la scienza ariana rispetto a quella ebrea [Lenard, 1937]. L’Unione Sovietica ha avuto una posizione privilegiata in questo campo e la storia della scienza è stata sistematicamente usata ideologicamente sia
per dimostrare la superiorità del sistema politico, sia per aumentare l’orgoglio nazionalistico del popolo russo. Per avere una panoramica delle posizioni ufficiali della scienza
sovietica nei riguardi della meccanica quantistica è essenziale la lettura del volume curato da S. Tagliagambe [Tagliagambe, 1972].
Più recentemente il compito di salvare l’onore del materialismo dialettico è stato
assunto da nuovi esegeti della sua infallibilità [Woods, Grant, 1997]. Secondo questi autori “Max Planck nel 1900 aveva dimostrato che la teoria ondulatoria classica faceva
delle previsioni che non venivano confermate nella pratica e sviluppò la teoria secondo
cui la luce fosse composta da particelle discrete o ‘pacchetti’ (quanti)”, [Woods, Grant,
1997, p. 112]. E ancora “La maggior parte di questo secolo ha visto la fisica dominata
dalla teoria della relatività e dalla meccanica quantistica, le quali inizialmente vennero
totalmente rifiutate dall’establishment scientifico che si aggrappava alle vecchie idee”,
[Woods, Grant, 1997, p. 113]. E infine “Lo sviluppo della fisica quantistica rappresentò
un gigantesco passo in avanti della scienza, una rottura decisiva con il vecchio e paralizzante determinismo meccanico della fisica ‘classica’ (il metodo ‘metafisico’ come lo
avrebbe chiamato Engels). Al suo posto abbiamo un modo di vedere la natura molto
più flessibile, dinamico o – per dirlo con una parola – dialettico”, [Woods, Grant, 1997,
pp. 113-114].
La ricostruzione dei protagonisti
Una posizione molto vicina a quella ideologica è la ricostruzione storica fatta dagli stessi protagonisti della creazione della meccanica quantistica e, in modo particolare,
dai sostenitori dell’interpretazione vincente di Göttingen-Copenhagen, che rappresenta5
L’opera è stata ristampata in [Coleman, 1981].
224
no, in questo caso, il gruppo da legittimare e sostenere. Anche qui possiamo notare una
concezione di tipo teleologico, in cui tutti i contributi convergono verso la superiore sintesi della teoria vincente, come avviene nella ricostruzione fatta da Van der Waerden
[Van der Waerden, 1967]. La scelta degli articoli determinanti per lo sviluppo futuro
viene fatta solo sulla base della rilevanza avuta nei confronti della meccanica delle matrici, considerata come il momento di nascita della meccanica quantistica.
Un esempio di ricostruzione di un protagonista è dato da un articolo di Pauli del
1933 [Pauli, 1933], di cui citiamo alcuni passi iniziali. “L’ultima svolta decisiva della
teoria quantistica – afferma Pauli – avvenne con l’ipotesi di de Broglie delle onde materiali, la scoperta di Heisenberg della meccanica delle matrici, e l’equazione d’onda di
Schrödinger, quest’ultima fornendo la relazione fra i primi due ordini di idee. Con il
principio di indeterminazione di Heisenberg e le discussioni fondamentali di Bohr in
proposito, la fase iniziale di sviluppo della teoria giunse a termine. La teoria conduce
alla soluzione del problema a lungo cercata, e fornisce una descrizione corretta e completa dei fenomeni che la riguardano. La soluzione è ottenuta a costo di abbandonare la
descrizione causale e spazio-temporale classica della natura, che dipende dalla nostra
capacità di separare in modo unico l’osservatore e la cosa osservata”.6 Come fa notare
Cini, “in modo chiarissimo e sintetico troviamo qui espressi tre concetti:
- lo sviluppo della meccanica quantistica come processo cumulativo
- il carattere definitivo della meccanica quantistica così costruita
- l’impossibilità di una descrizione oggettiva della realtà in conseguenza
dell’impossibilità di una separazione univoca tra osservatore e oggetto osservato”,
[Cini, 1982, p. 254].
Noi aggiungiamo anche la cancellazione di posizioni diverse da quelle
dell’interpretazione ufficiale e l’ineluttabilità della scelta fatta.
Un altro esempio dello ‘spirito collaborativo’ esistente tra gli scienziati si deduce
dalle parole di Heisenberg, che così presenta la nascita della meccanica ondulatoria “A
questo punto venne in aiuto alla meccanica quantistica la meccanica ondulatoria, sviluppata frattanto da Schrödinger in base alle tesi di de Broglie… Dopoché Schrödinger
ebbe dimostrata l’equivalenza matematica della meccanica ondulatoria da lui trovata
con la meccanica quantistica, la feconda riunione di questi due differenti ordini di idee
fisiche permise di arrivare a uno straordinario ampliamento e arricchimento del formalismo quantistico”, [Heisenberg, 1933].
La ricostruzione interna
In questo gruppo sono collocate le posizioni che più si avvicinano a quella che
abbiamo definito come H2S1, cioè la storia delle teorie. Ad esso possiamo annoverare
alcuni tra i più bei testi storici e i più famosi classici della disciplina. Citiamo fra tutti i
testi di Jammer [Jammer, 1989], di Whittaker [Whittaker, 1954], di Hermann [Hermann, 1971], di Hund [Hund, 1980], di D’Abro [D’Abro, 1951], l’opera monumentale
di Mehra, Rechenberg, [Mehra, Rechenberg, 1982], e, in italiano, il testo di Tagliaferri
[Tagliaferri, 1985]. I caratteri distintivi che accomunano questi libri sono dati da una
minuziosa ricostruzione storica dei processi che hanno portato alla nascita delle teorie
(Jammer, Hermann, Whittaker, Mehra-Rechenberg, Tagliaferri); una dettagliata analisi
tecnico-matematica delle opere originali (Jammer, Whittaker, Hund, Hermann, Tagliaferri, Mehra-Rechenberg); una posizione problematica di non appiattimento delle diffe6
Traduzione tratta da [Cini, 1982, p. 254].
225
renze esistenti tra i vari personaggi storici e le diverse proposte formulate (tutti); in
qualche caso, il riconoscimento di possibili influenze, almeno di tipo filosofico, sulle
idee degli scienziati e, di conseguenza, dell’importanza sul loro lavoro (Jammer, MehraRechenberg); oppure, l’esplicito rifiuto di operare questo tipo di ricerca (Tagliaferri);7 o
semplicemente la sua non considerazione (Hund, Whittaker, D’Abro).
Un posto differente merita l’opera di D’Abro [D’Abro, 1951], che si prefigge scopi differenti dagli altri. L’autore di questo classico ha operato un notevole sforzo di divulgazione anche tecnica delle teorie, non considerate nel linguaggio con cui si sono
sviluppate nel determinato periodo storico, ma alla luce del nostro linguaggio moderno,
allo scopo di colmare il gap esistente tra vocabolario attualmente in vigore e vocabolario storicamente datato. Il tutto naturalmente va a vantaggio di una migliore comprensione dei temi trattati, ma a scapito del reale svolgimento storico dei fatti. Quindi al notevole sforzo di divulgazione corrisponde una diminuita attenzione verso la storia.
Una citazione a parte invece necessita l’opera gigantesca di Mehra e Rechenberg,
[Mehra, Rechenberg, 1982], che, con la sua minuziosità, completezza delle fonti, ricostruzione di tutti, anche dei più piccoli cammini alternativi, rappresenta una pietra miliare, un punto di riferimento a cui qualsiasi storico, o solo appassionato, non può non rapportarsi.
La rivoluzione kuhniana e la storia “esterna”
Dagli anni ’60 si è diffuso un altro approccio alla storia della scienza. Questa
nuova visuale è dovuta ad un riorientamento verificatosi nella disciplina a seguito della
pubblicazione del libro di Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche [Kuhn, 1969].
Prima dell’intervento di Kuhn lo sviluppo della scienza era generalmente considerato
come un processo cumulativo e progressivo. Lo scopo degli storici era quello di ricostruire, passo dopo passo, l’evoluzione teleologica di queste idee. Popper aveva individuato sia i criteri di demarcazione tra scienza e non-scienza sia quelli di scelta tra teorie
diverse, [Popper, 1970].
Kuhn rivoluzionò questo punto di vista mostrando che lo sviluppo della scienza è
rappresentato da una successione di periodi di scienza normale, durante i quali la comunità scientifica accetta un particolare corpus di idee come teoria ufficiale adatta a descrivere determinati fenomeni, e di periodi rivoluzionari in cui il paradigma fino ad allora dominante viene detronizzato a favore di un nuovo paradigma che cambia il punto
di vista sugli stessi fenomeni.
Il paradigma rappresenta una condizione di base per ogni tipo di ricerca e per ogni
ricercatore. Esso suggerisce le osservazioni da effettuare, le relazioni più importanti, le
soluzioni da adottare.
Dal punto di vista storico una delle conseguenze è la cosiddetta incommensurabilità degli standard di razionalità scientifica in paradigmi differenti. Nessun criterio logi7
Ad esempio, per quanto riguarda la possibilità di influenze di elementi esterni al campo della scienza
nella Germania di Weimar, Tagliaferri conclude: “Credo che per il momento sia preferibile accontentarsi di riconoscere che non esistono facili correlazioni nella storia della scienza, ed in particolare in quella
della fisica. L’assunzione (invero quasi sempre taciuta) di certi studi storici, secondo cui eguali stimoli
producono eguali reazioni nei cervelli di chi li riceve, può avere qualche significato statistico, ma mal si
applica ai funzionamenti – personali e individualistici – delle menti dei singoli scienziati. Quindi, come
ho già premesso, mi limito a sottolineare il fatto che i fisici dopo il 1918 si trovarono ad operare in un
ambiente diverso, meno ottimista e più inquieto intellettualmente di quello degli anni che avevano preceduto la prima guerra mondiale, e riprendo l’esposizione degli sviluppi interni alla fisica che condussero gradualmente alla formulazione di una nuova meccanica”, [Tagliaferri, 1985, p. 244].
226
co può essere utile per confrontare paradigmi di epoche diverse e ogni giudizio deve essere formulato nel particolare contesto storico, senza utilizzare categorie introdotte in
epoche successive. Naturalmente tutto ciò ha creato un profondo sospetto nei confronti
della nozione di ‘fatto oggettivo’ e di razionalità di sviluppo interno alla disciplina.
Accanto alla rivoluzione epistemologica introdotta da Kuhn, (spesso al di là delle
intenzioni dell’autore), negli anni ’60, sull’onda delle contestazioni sociali, anche la
produzione di scienza è stata sottoposta a critica e considerata come una delle tante attività umane, soggetta, al pari di tutte le altre, ad influenze (opinioni filosofiche degli
scienziati, loro credo politico, loro credo religioso, finanziamenti, appartenenza a particolari gruppi di ricerca, ecc.). Intorno agli anni ’70 si è molto dibattuto sul tipo di influenza che questi fattori possono avere sulle teorie e il mondo accademico si è diviso
tra chi credeva che tali elementi non avessero alcuna ripercussione sulla formulazione
delle teorie e chi riteneva che essi potessero influire sulla forma stessa delle teorie e sulla particolare impostazione scelta.
Al di là dell’adesione all’una o l’altra convinzione, il dibattito ha comunque avuto
il pregio di far rifiorire gli studi storici in tutto il mondo e di avere favorito la nascita di
alcune riviste attorno alle quali si è coagulata una nuova generazione di storici. Per
l’importanza che hanno rivestito e rivestono tuttora ricordiamo su tutte la rivista Historical Studies in the Physical Sciences, e, con un’impostazione più sociologica, la rivista
ISIS.
Su queste riviste hanno pubblicato i maggiori storici del mondo, che abbiamo già
citato più diffusamente nel corso della nostra ricostruzione.
In Italia, a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 ha suscitato una notevole eco, anche al di
fuori della ristretta cerchia intellettuale, la pubblicazione del libro L’ape e l’architetto
[Ciccotti, Cini, De Maria, Jona-Lasinio, 1976], mentre la rivista Testi & Contesti ha riunito gran parte degli storici impegnati su queste tematiche, e, in una serie di congressi
sono stati approfonditi i vari aspetti che legano la società alla scienza. Ricordiamo tra
gli altri il Workshop tenutosi a Lecce dal 3 al 6 settembre 1979, “The growth of quantum mechanics in the 20’s and the cultural, economic and social context of the Weimar
Republic and of the USA”, [De Maria, Donini, Fano, Forman, Heilbron, Linhart, Seidel,
Tonietti, 1980], e il Convegno “La ristrutturazione delle scienze tra le due guerre mondiali”, tenutosi a Firenze/Roma, 28 giugno-3 luglio 1980, [Baracca, Battimelli, Bergia,
De Maria, Donini, Rossi, Tonietti, 1984].
Tra le varie ricerche citiamo quelle pubblicate sulla rivista Testi & Contesti da E.
Donini [Donini, 1979] e da A. Baracca, R. Livi e S. Ruffo [Baracca, Livi, Ruffo, 1979,
1980]. Gli autori di quest’ultimo lavoro, analizzando lo stesso periodo da noi preso in
esame - 1900/1925 - si prefiggono lo scopo di “portare un contributo al dibattito ed agli
studi specifici sulla nascita e lo sviluppo della teoria dei quanti, stimolando però una riflessione interdisciplinare sui nessi tra lo sviluppo della scienza e quello delle strutture
economico-produttive”, [Baracca, Livi, Ruffo, 1979, p. 7]. In tal modo la ricostruzione
si svolge su due piani possibili di lettura. Da una parte si compie l’analisi dello sviluppo
della fisica, che non procede in maniera cumulativa, come accreditato dalla storiografia
accademica, ma per rotture e rivoluzioni, dall’altra, si effettua una ricostruzione della
razionalizzazione produttiva avvenuta nella Germania di Weimar, partendo dalla convinzione che un cambiamento dei modi di produzione porti con sé anche implicazioni
sulla pratica scientifica quotidiana. Naturalmente, secondo gli autori, ciò non significa
che “la Meccanica Quantistica è così perché le macchine funzionano in questo modo, o
in altri termini che il suo assetto e i suoi contenuti siano un prodotto della società”, [Ba-
227
racca, Livi, Ruffo, 1980, p. 68], in realtà il nesso, più sottile, è dato dal fatto che, “in
generale, assegnato un insieme di fenomeni definiti in un certo momento
dell’evoluzione della scienza, sia sempre possibile più di un quadro teorico capace di
renderne conto”, [Baracca, Livi, Ruffo, 1979, p. 11], e, “per una prassi scientifica che
rispondesse ad esigenze diverse, da un lato sarebbe stata diversa la ‘spiegazione’ dei fenomeni, dall’altro diversi sarebbero stati i fenomeni circoscritti e analizzati, gli aspetti
rilevanti, i legami e le correlazioni tra di essi”, [Baracca, Livi, Ruffo, 1980, p. 68]. Cioè
è la prassi scientifica che sceglie quali sono i fenomeni più importanti in un dato periodo storico, quali le relazioni tra di loro, quali le teorie che devono descriverli, ed è sulla
prassi scientifica che si ha l’influenza della società.
Uno sbocco naturale di questa impostazione è stato il testo di storia della meccanica quantistica della Donini uscito in quegli anni che - unico caso nel panorama editoriale italiano - presenta una ricostruzione interna alla fisica dei primi 27 anni del secolo
nella prospettiva della ristrutturazione operata negli anni ’20 a Weimar [Donini, 1982].
Negli anni ’80 il dibattito si è progressivamente affievolito, mentre alcuni autori
hanno continuato la loro ricerca e, tra gli ultimi sviluppi, citiamo il bel libro di M. Cini,
Un paradiso perduto, [Cini, 1994], nel quale il fisico romano arriva alla conclusione
delle ricerche iniziate oltre venti anni prima.
Al problema di stabilire il tipo di influenza esercitata dal contesto sociale sulla
scienza, Cini risponde con una teoria di crescita della conoscenza che gli permette di
uscire dalla genericità caratterizzante i vari tentativi di focalizzazione di questo legame.
Egli afferma che nella conoscenza vi sono due momenti: quello dell’apprendimento individuale e quello dell’apprendimento sociale.
Nell’apprendimento individuale, “il processo conoscitivo proietta le sue categorie
sulla realtà per ordinarla estraendone oggetti e relazioni. Inizia in questo modo la costruzione di un rapporto circolare fra soggetto e oggetto nel quale il primo inquadra il
secondo all’interno di immagini concettuali formulate in precedenza, e il secondo impone a quelle immagini vincoli che possono costringere il primo a ristrutturarle o a crearne
di nuove. Insomma, i ‘fatti’ sono sempre carichi di ‘teoria’, ma la ‘teoria’ deve accordarsi con i ‘fatti’”, [Cini, 1994, p. 183]. “L’oggetto ‘in sé’… è al tempo stesso
un’infinità di ‘oggetti’, nel senso che infinite e di infiniti tipi sono potenzialmente le relazioni che lo identificano come una parte definita della realtà… La conoscenza, dunque, è il risultato di una successione di scelte per mezzo delle quali il soggetto, selezionando fra queste infinite potenziali determinazioni, si costruisce un’immagine
dell’oggetto individuata soltanto da un numero ristretto di relazioni giudicate rilevanti…
Queste relazioni sono il risultato di scelte autonome”, [Cini, 1994, p. 184].
Nell’apprendimento sociale vi è un momento collettivo di “valutazione
dell’efficacia e della rilevanza di questa proposta rispetto al patrimonio conoscitivo socialmente condiviso, tramandato dalla memoria storica della comunità. Insomma la conoscenza deve essere riconosciuta come valida da un soggetto diverso, collettivo, che, a
seconda dei casi può essere l’intera comunità o un gruppo particolare socialmente investito dell’autorità di adempiere a questo compito”, [Cini, 1994, pp. 184-185].
Allora il quesito se la società influenzi o no la scienza non solo ha risposta positiva, ma si individuano anche in quali punti si hanno queste interazioni:
nell’apprendimento individuale vi sono tutti gli influssi di carattere personale, formati
dal proprio background culturale, sociale, religioso ecc., che sono difficilissimi quando
non impossibili da cogliere nella ricostruzione storica, e che hanno anche un’importanza
228
relativa nei confronti dell’apprendimento sociale in cui la comunità sceglie quale teoria,
tra le varie in gioco, debba essere considerata come quella ‘corretta’.
“Se si accetta la concezione standard della scienza… il momento della convalida
sociale dei contributi alla sua crescita è sostanzialmente irrilevante”, [Cini, 1994, p.
185]. Per concezione standard l’autore intende “la convinzione che la scienza sia
un’attività umana che ha per scopo di rappresentare fedelmente la realtà che ci circonda… Secondo questo modo di vedere, la conoscenza scientifica valida riproduce nelle
sue affermazioni la vera struttura di questo mondo… La scoperta di una legge è dunque
come la scoperta dell’America o come il ritrovamento di un reperto archeologico: tutte
cose che erano già là ad aspettare l’arrivo di qualcuno che si accorgesse della loro esistenza. Se queste fossero le caratteristiche della conoscenza scientifica, la sua crescita
dovrebbe essere un processo cumulativo di acquisizione di nuovi fatti, di eliminazione
di errori, di accertamento di dati imprecisi, accompagnato da una continua sostituzione
di costrutti teorici giudicati imperfetti o parziali con altri più adeguati e generali”, [Cini,
1994, p. 182]. Allora, se così stanno le cose, il momento di convalida sociale è inessenziale perché “la comunità si limita a prendere atto della corrispondenza fra il procedimento seguito dal singolo ricercatore per ottenere un determinato risultato e il ‘Metodo
scientifico’ che ne garantisce l’oggettività e la razionalità… Le cose tuttavia cambiano
radicalmente se si riconosce che il metodo universale per raggiungere la verità non esiste. In questo caso il massimo di ‘oggettività’ raggiungibile è assicurato soltanto
dall’intersoggettività del giudizio di validità della conoscenza espresso dalla comunità
dei depositari del sapere”, [Cini, 1994, p. 185].
Non ci addentriamo ulteriormente nella teoria dei livelli di conoscenza dell’autore,
per la quale rimandiamo al testo.
Un libro che abbiamo già citato e che vogliamo ricordare per l’impostazione di tipo storico-filosofica, dei problemi legati allo sviluppo della Meccanica Quantistica è
quello di Mac Kinnon, [Mac Kinnon, 1982].
La ricerca di Forman
Concludiamo la nostra veloce carrellata, con il riassunto di due articoli di P. Forman. In realtà per inquadrare meglio il lavoro di questo storico statunitense bisognerebbe fare anche riferimento alla corrente dei post-moderni, ma ci limitiamo solo a segnalare un articolo di Tian Yu Cao, [Cao, 1993], per chi desideri avere un panorama di questo importante movimento e delle sue ricadute sulla storia della scienza. Il lavoro di P.
Forman sulla nascita della meccanica quantistica, ha rivestito notevole importanza, come si può evincere dal numero di citazioni che ha ricevuto in tutto il mondo, dal grande
dibattito suscitato e dal carattere rivoluzionario avuto nei confronti della precedente ricerca storica.
In un primo articolo [Forman, 1971] l’autore ha mostrato come, negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, l’ambiente intellettuale tedesco, dominato da un’ondata di irrazionalismo, fosse profondamente ostile alla scienza.
L’abbandono della causalità da parte di un ampio settore di fisici teorici di lingua tedesca dell’Europa Centrale, fu anche motivato dal loro desiderio di uscire dall’isolamento
e rappresentò un aspetto del tentativo dei fisici di vincere l’ostilità nei loro riguardi per
mezzo di un rapido e radicale processo di adattamento al clima antiscientifico dominante. Così la natura non deterministica della nuova meccanica quantistica fu immediatamente riconosciuta, accettata e considerata inevitabile da una parte considerevole di fi-
229
sici teorici tedeschi spinti dal desiderio di riconquistare in quell’ambiente culturale la
considerazione e il prestigio di cui avevano goduto in precedenza.
Successivamente Forman ha effettuato una studio analogo sui circoli intellettuali
inglesi [Forman, 1978]. In particolare egli ha mostrato come fino alla fine degli anni ’20
in Inghilterra gli atteggiamenti irrazionalistici non erano affatto diffusi, mentre predominava, tra artisti e intellettuali, una valutazione fortemente positiva della fisica e un rispetto per la scienza come “disciplina pratica ed etica”, [Forman, 1978, p. 24]. Così, per
Forman, il fatto che, da una parte, l’ambiente in Inghilterra fosse in prevalenza antiirrazionalistico e favorevole allo sviluppo della scienza, e che, dall’altra, il rifiuto della
causalità non fosse caratteristico di quell’ambiente intellettuale, spiega la riluttanza dei
fisici teorici inglesi a modificare in modo radicale le basi epistemologiche della loro disciplina. In conclusione, in Gran Bretagna, dove l’ambiente intellettuale non creò alcun
tipo di pressione negativa sulla comunità scientifica, le posizioni di quasi tutti i fisici teorici inglesi erano “sia concettualmente che semanticamente”, [Forman, 1978, p. 32],
differenti da quelle dei loro colleghi tedeschi. Così il significato epistemologico - cioè
l’aspetto antideterministico ed acausale - della nuova meccanica quantistica “fu semplicemente trascurato, e venne acriticamente adottato il formalismo più congeniale, cioè il
formalismo ondulatorio”, [Forman, 1978, p. 38].
Questo sommario resoconto di due dei lavori di Forman serve più che altro a far
comprendere l’impostazione data e i temi trattati dall’autore. Così appare evidente che,
secondo la sua opinione, l’influenza della società sulle teorie scientifiche è molto rilevante e riguarda proprio l’impostazione strutturale delle stesse.
Si potrà anche non concordare con questo punto di vista, però, a riprova del fatto
che una ricostruzione storica esclusivamente interna alla logica della disciplina talvolta
non riesca a spiegare alcuni sviluppi verificatisi nella realtà, citiamo solo l’esempio della teoria della radiazione di Bohr-Kramers-Slater, che abbiamo già avuto modo di analizzare in precedenza. Come abbiamo fatto rilevare, nel 1924, la rinuncia, in linea di
principio, alla descrizione causale nello spazio e nel tempo e alla conservazione
dell’energia, è un’ipotesi quantomeno prematura non dettata né da conseguenze di precedenti elaborazioni teoriche, né dalla necessità di eventuali adattamenti a dati sperimentali. Tutta l’impostazione è aprioristica, non vi è alcun tentativo di matematizzazione e l’intera questione è fondata su ragionamenti qualitativi. Secondo Forman, “solo facendo riferimento al diffuso sentimento acausale si può capire l’immediato e vasto assenso ricevuto dalla teoria in Germania, anche se essa, di fatto, difficilmente poteva essere considerata una teoria, ma piuttosto un vago suggerimento di come, rinunciando alla causalità, si poteva tentare di dare una ‘formale’ descrizione dell’interazione tra atomi
e radiazione”, [Forman, 1971, p. 99]. Se ci si limita a considerare l’evoluzione interna
delle teorie, esso risulta slegato dal resto della ricerca operata da Bohr ed è molto difficile trovare valide motivazioni razionali sia all’idea avanzata dagli autori, sia al suo rapido successo.
Prima di chiudere questa breve rassegna vogliamo citare, per chi volesse seguire
la storia della discussione sui fondamenti della meccanica quantistica fino ai giorni nostri, entrare nelle complesse teorie delle variabili nascoste e capire molte altre questioni
fino ad ora appannaggio di pochi iniziati, il bel testo di Ghirardi [Ghirardi, 1997], esempio unico nel panorama della divulgazione scientifica (non solo italiano), per la sua
chiarezza, semplicità e comprensibilità, ma, al tempo stesso rigorosità e scrupolosità.
230
Ringraziamenti. Desidero ringraziare, per la lettura di una prima stesura di questo articolo e per gli utili suggerimenti che mi hanno fornito: M. Cini, M. De Maria, M. Fiumara e F. Iozzi.
Ringrazio in modo particolare P. Tucci, per il costante apporto e per la benevolenza manifestatami in questi anni. Senza il suo intervento, non sarebbe stata possibile la realizzazione di questo lavoro.
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