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lOMoARcPSD|1277402
Riassunto Sociologia della comunicazione interpersonale
Federico Boni
Sociolinguistica (Università degli Studi di Milano)
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SOCIOLOGIA DELLA COMUNICAZIONE INTERPERSONALE
Situazione comunicativa: due individui, evidentemente con una certa intenzionalità,
dicono qualcosa e compiono determinati gesti (ridono, tirano un cuscino), all’interno di
un determinato contesto, che serve a comprendere ciò che sta succedendo. C’è quindi
un’intenzionalità, c’è un messaggio, verbale e non; perché il messaggio sia
comprensibile, ci sono alcuni codici che permettono ai parlanti di capirsi, e infine c’è un
contesto, che permette di codificare e capire bene l’atto comunicativo in corso. Sulla
base di questi elementi siamo ora in grado di arrivare a una definizione utile di
comunicazione: la comunicazione è l’emissione deliberata di un messaggio codificato
secondo certe regole socialmente riconosciute e rivolto a dei riceventi (qualificati o
meno).
• Deliberata: è necessario avere intenzione di esprimere qualcosa, e questo fa della
comunicazione un’azione sociale
• Messaggio: può essere verbale e non verbale
• Codici: una matrice di possibilità a cui attingiamo per formulare i contenuti delle
nostre interazione comunicative, secondo regole comuni e condivise
− analogici = i segni che noi utilizziamo hanno una qualche relazione con ciò a cui ci
riferiamo (assumo uno sguardo corrucciato con una persona che mi ha fatto arrabbiare)
−numerici = il rapporto tra la mia arrabbiatura e le parole che uso per descriverla è del
tutto arbitrario (per descrivere la mia arrabbiatura mi servo solo del linguaggio)
−linguistici, paralinguistici (beh, ehm ... ), cinesici (sguardo e movimenti di volto e
corpo), prossemica (gestione dello spazio intorno a noi), aptici (contatti corporei con
altre persone )
codificare un messaggio significa mettere insieme tutti i codici che scegliamo di
utilizzare per comporre un determinato contenuto. L’operazione di decodifica consiste
nel riconoscere i codici con cu p stato messo a punto il messaggio, e quindi
nell’interpretare il contenuto del messaggio stesso. Può capitare però che l’emittente
stesso produca un messaggio volontariamente ambiguo, così come può succedere che
il ricevente fraintenda consapevolmente ciò che gli viene comunicato.
Questa definizione distingue nettamente la comunicazione dall’informazione, che
consiste in una serie di
espressioni, non necessariamente verbali, trasmesse presumibilmente in maniera non
intenzionale da parte dell’emittente, e che ci informano sulle caratteristiche
dell’emittente stessi e sulle circostanze in cui questo opera. Certo, le informazioni
possono venire manipolate per trasmette informazioni false, anche se il controllo di
questi aspetti è altamente variabile. Di fatto, nelle normali interazioni quotidiane, gli
individui fanno uso di un misto di comunicazione e informazione, e quindi di messaggi
emessi deliberatamente (non necessariamente veritieri) e di altri su cui il controllo è
minimo o nullo. Nella comunicazione un elemento fondamentale è la fiducia, grazie alla
quale portiamo a conclusione la maggior parte dei processi comunicativi che ci vedono
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coinvolti. È bene sottolineare come l’idea di un frame che incornicia le nostre interazioni
comunicative non si ponga tanto il problema della “verità” o della “falsità” di un
messaggio, quanto su come e in quale misura dobbiamo essere coinvolti
nell’interazione in corso (—> l’operazione di incornicia mento di una situazione è
un’esperienza assolutamente normale e quotidiana).
Non si può non comunicare. Il termine “comunicazione” trae la propria origine dalla
radice sanscrita com, il cui significato di “mettere in comune” si è trasferito al latino
communis (comune). Alla base della comunicazione ci sono quindi le idee di reciprocità
e di vincolo, che sono anche alla base della vita sociale. Questa idea della condivisione
non deve necessariamente evocare scenari idilliaci dove tutti vivono in una “comunità
felice”, spesso comunicare significa entrare in conflitto, litigare, essere in disaccordo.
Una questione controversa è quella dell’intenzionalità della comunicazione, che risulta
essere un elemento determinante.
Secondo la scuola di Palo Alto la comunicazione va intesa come comportamento in
senso lato, senza quindi che ci sia bisogno di voler comunicare per farlo.
Risulta praticamente impossibile non comunicare. Esistono numerosi modelli dell’atto
comunicativo, una formulazione piuttosto comune vede la comunicazione come una
relazione in cui qualcuno invia un messaggio a qualcun altro, il messaggio deve essere
costruito per mezzo di una serie di codici che siano almeno in parte condivisi da coloro
che sono impegnati nell’atto comunicativo e viene trasmetto attraverso uno o più canali,
ovvero apparati fisici che possono essere naturali. Il tutto avviene all’interno di un
contesto che fa da cornice.
Roman Jakobson ha legato a questi elementi altrettante funzioni, partendo dal
presupposto che la comunicazione non solo si compone di diversi elementi, ma
risponde anche a determinate funzioni, ciascuna legata ai singoli costituenti del
processo comunicativo. A seconda della preparazione della preponderanza di uno degli
elementi della comunicazione, avremo la preponderanza di una delle seguenti
espressioni:
1. Espressiva o emotiva
Si lega all’emittente e quindi si concentra sulla possibilità che ha questi di esprimere i
propri sentimenti, le proprie emozioni e i propri stati d’animo nel corso della
comunicazione;
2. Conativa
In questo caso l’attenzione è centrata sul ricevete e sulla possibilità di influenzarne
l’azione e il comportamento in generale;
3. Poetica
È la funzione legata al messaggio, a proposito del quale ci informa sull’organizzazione,
la struttura interna, la coerenza narrativa, etc.
4. Referenziale
Si riferisce sopratutto al contesto, ovvero al mondo “là fuori” rispetto all’atto
comunicativo e che tale funzione proietta nel discorso attraverso l’uso di strumenti
linguistico come avverbi si spazio e di tempo;
5. Fàtica
È la funzione che si lega al canale e quindi si concentra sul contatto. Tipico della
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funzione fàtica è di stabilire, mantenere, verificare, interrompere o chiudere la
comunicazione, di centrarsi insomma sugli aspetti più attenti del contatto.
6. metalinguistica
Al centro dell’attenzione è il codice, che assurge esso stesso a oggetto del discorso.
Secondo gli autori della Scuola di Palo Alto, i codici vanno distinti tra analogici e
numerici. In un normale processo comunicativo possiamo sia riferirci a oggetti o
concetti rappresentandoli oppure nominandoli, parlandone. Nel primo caso si dice che
utilizziamo un codice analogico, cioè che i segni che noi utilizziamo per la nostra
rappresentazione hanno una qualche relazione con ciò a cui riferiamo. Nel caso in cui
per descrivere la mia arrabbiatura mi serva solo del linguaggio, si parlerà di codice
numerico.
I codici della comunicazione interpersonale, possono essere considerati anche secondo
altre prospettive. Una tipologia spesso citata parlando della comunicazione umana è
quella che prevede l’utilizzo di codici linguistici, paralinguistici, cinesici, prossimi e aptici.
Il codice linguistico si riferisce all’uso del linguaggio nel corso di un atto comunicativo; il
codice paralinguistico fa riferimento a tutti quei suoni che non rientrano propriamente
all’interno di una lingua. Il codice cinesico si riferisce allo sguardo e ai movimenti del
volto e del corpo. Con la prossima allarghiamo il campo alla gestione dello spazio
attorno a noi, a come cioè ci muoviamo nell’ambiente e naturalmente al modo in cui
manteniamo o meno le distante con le persone che si trovano nel nostro raggio di
azione. Il codice aptico si riferisce ai contatti corporei con altre persone.
L’utilizzo di un codice comunicativo non esclude l’altro, anzi spesso, ad esempio nel
corso di una conversazione, l’eventualità più normale è che facciamo uso di codici
linguistici, paralinguistici, cinetici, prossimi e aptici.
In un modello comunicativo più semplificato la questione dei codici è considerata
centrale: si tratta del modello codifica/decodifica, dove il primo termine consiste nella
“messa in codice” ovvero nella confezione del messaggio comunicativo, e al secondo si
riferisce alla sua ricezione e alla sua interpretazione.
L’operazione di decodifica consiste nel riconoscere i codici con cui è stato messo a
punto il messaggio, e quindi nell’interpretare il contenuto del messaggio stesso. Il
modello di codifica/decodifica vale tanto per la comunicazione interpersonale quanto
per la comunicazione tipica dei mezzi di comunicazione di massa e non.
La decodifica avviene mediante un processo dove dall’interpretazione si passa di fatto
all’uso, dove l’uso determina una produzione di “secondo livello”, con una “messa in
codice” che di fatto finisce per fare vita a un altro oggetto.
La sociologia si interroga sulla natura dell’azione degli individui nella società,
chiedendosi com’è che la società si tenga insieme e come sia possibile l’ordine sociale.
Thompson (1995) parla della compresenza di almeno 3 livelli di interazione
comunicativa:
1. L’interazione faccia a faccia: i parlanti sono presenti uno all’altro e partecipano
condividendo gli stessi riferimenti spazio-temporali; è inoltre dialogica, cioè permette
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un flusso bidirezionale tra emittente e ricevente; infine consente l’utilizzo di molteplici
codici comunicativi.
2. L’interazione mediata: avviene tramite strumenti per la comunicazione (lettere o
telefono); qui i partecipanti si trovano in ambienti diversi nello spazio e/o nel tempo, e i
codici a loro disposizione sono limitati.
3. La quasi-interazione mediata: riguarda la modalità di comunicazione stabilita dai
mezzi di comunicazione di massa (stampa, radio, tv) che presenta almeno un paio di
differenze: i codici prodotti dai diversi canali mediatici sono rivolti a un insieme di
riceventi infinito; è una sorta di monologo (è unidirezionale).
L’INTERAZIONE FACCIA A FACCIA
Durkheim, nello studiare il fenomeno della vita religiosa sostiene che tutte le religioni
hanno in comune almeno due elementi: un insieme di credenze (stati di opinione,
rappresentazioni) e un insieme di riti (comportamenti, dei modi di agire determinati
rigidamente). Con riferimento alle credenze vi è una distinzione profonda fra sacro e
profano. Il sacro è qualcosa di profondamente serio, rispettato, fuori dall’ordinario, da
avvicinare con la dovuta formalità e la dovuta deferenza. Il profano è tutto ciò che non è
sacro, è l’ordinario.
Secondo Durkheim esiste una realtà sovra individuale che ha un notevolissimo potere
su di noi: la società. Le divinità sono quindi i simboli della società. La società sviluppa
due forme di costrizioni:
− di tipo morale = la società prevede una serie di norme e valori condivisi, e
sono proprio le pratiche rituali a riaffermare tali norme morali, rafforzando il
senso di appartenenza degli individui
− di tipo cognitivo = si pensi agli strumenti di cui disponiamo per comunicare,
ad esempio il linguaggio. Insomma secondo Durkheim la società ha la priorità
sull’individuo, e costituisce una comunità morale che si esprime
simbolicamente attraverso la vita religiosa. E così, come il totemismo degli
indiani americani delle tribù australiane, il totem non solo dà il nome
ai vari clan divenendone l’emblema, ma rappresenta anche il mana, una sorta
di forza o di sostanza immateriale, allora vorrà dire che il totem è simbolo sia
del dio (il mana) che della società (il clan), e quindi, in ultima analisi, che dio e
società sono la stessa cosa.
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Ma come è possibile riportare il tutto alle nostre società contemporanee? Secondo
Durkheim si può considerare, in maniera idealtipica, un continuum tra due forme di
società:
• Società a “solidarietà meccanica”: è quella delle società primitive, dove le persone
sono alla continuamente presenza le une delle altre e fanno essenzialmente la stessa
cosa, più o meno nello stesso ambiente. Qui l’individuo ha scarsa importanza, la forza
del gruppo è tanto ampia che l’individuo non emerge. Sacro = totem
• Società a “solidarietà organica”: è quella delle società contemporanee, nelle quali le
persone sono disperse o separate tra loro dalla barriera della privacy e sottostanno a
una divisione del lavoro tale per cui ognuno ha competenze e compiti diversi. In questo
gruppo l’importanza del gruppo è inferiore, e la realizzazione della propria vocazione è
considerata fondamentale. Sacro = individuo stesso
Se Durkheim pensava ai grandi rituali della vita pubblica, alle grandi cerimonie collettive
della cosiddetta “religione civile”, Goffman studia i rituali della vita di tutti i giorni, che il
sociologo canadese definisce come una “standardizzazione”, ottenuta attraverso il
processo di socializzazione, del comportamento corporeo e vocale, una
standardizzazione che consente a tale comportamento di assumere una funzione
comunicativa specializzata.
Goffman definisce i rituali dell’interazione quotidiana come “rituali diffusi” del e nel
quotidiano, quelli il cui oggetto di culto è l’individuo e che di fatto hanno un ruolo molto
significativo nel costruire l’individualità.
Applicando dunque l’idea di Durkheim all’identità personale, Goffman distingue due
tipi di rituali della vita quotidiana:
− quelli di deferenza (manifestano all’interlocutore il nostro apprezzamento nei suoi
riguardi)
− quelli di contegno (sono rivolti a noi stessi per mostrare agli altri partecipanti la nostra
onorabilità e competenza interazionale)
Nel momento in cui compirò un atto rituale per concedere (o negare) la mia deferenza
(il mio apprezzamento) nei confronti di qualcuno, allo stesso tempo avrò mostrato agli
altri se il mio contegno è buono o cattivo, se è appropriato o meno alla situazione in
corso. Gli atti che compiamo (o che non compiamo) per esprimere il nostro contegno
sono talmente dati per scontati che è difficile vederli.
La deferenza va “guadagnata”, non possiamo attribuircela da soli. Questo fa sì che le
persone siano incoraggiate a incontrare altre persone, e con ciò la società si assicura
che gli individui stabiliranno delle interazioni tra loro. La deferenza si può esprimere
attraverso varie forme, ma le più importanti sono : rituali di discrezione (o negativi,
implicano una serie di proscrizioni = ci dicono quello che non bisogna fare) e rituali di
presentazione (o positivi, serie di prescrizioni = ci ordinano di fare qualcosa).
Questi due tipi di rituali si rifanno in qualche modo alla distinzione durkheimiana tra
rituali positivi e rituali negativi. I rituali positivi sono quelli che implicano una serie di
proscrizioni, ovvero ci dicono cosa non bisogna fare, mentre i rituali negativi consistono
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in una serie di prescrizioni, ovvero ci “ordinano” di fare qualcosa.
I rituali di diserzione comportano proscrizioni, implicano quelle forme di deferenza per
cui gli individui devono evitare di invadere e violare la “sera sacrale” attorno
all’individuo.
I rituali di presentazione implicano delle prescrizioni, sono quelli mediante i quali
“l’individuo rende testimonianza al destinatario del modo in cui lo considera e lo tratterà
nell’imminente interazione.”.
I rituali di presentazione si presentano sotto molteplici forme.
Violazioni e riparazioni rituali
Bisogna aggiungere che “quando distinguiamo fra quel che si può dire e fare a un
destinatario e quello che non si può, dovrebbe essere chiaro che fra queste due forme
di deferenza vi è un implicito contrasto e conflitto. Chiedere a una persona come sta, se
i suoi familiari stanno bene, o come vanno gli affari, significa testimoniarle il proprio
affettuoso interesse. Tuttavia, dimostrare questo interesse significa anche invadere la
sfera personale dell’individuo” (Goffman).
È molto semplice violare lo “spazio personale” di una persona. Ed è ancora più semplice
nell’ambito dei rituali di discrezione, la cui scorretta esecuzione, sia volontaria o
meno,comporta una vera e propria violazione dell’individuo e dei suoi “territori”.
I territori che sono continuamente esposti alla minaccia di violazioni e profanazioni da
parte di altri individui vengono definiti “territori del self” e ne esistono diversi tipi.
- Lo spazio personale: spazio che circonda l’individuo (o meglio, il possessore di
questo spazio), è una sorta di bolla e l’intrusione da parte di altri genera un notevole
fastidio.
- La nicchia: spazio ben delimitato all’interno del quale l’individuo ha pretese
temporanee ma esclusive (cabina telefonica, posto su treno o autobus). Per
salvaguardare la nostra nicchia temporanea dovremo occuparla. Inoltre la nicchia può
non essere solo di un unico individuo, ma può ricoprire lo spazio di due o
più persone (campo da tennis) questo spazio può anche comprendere un
“con” (coppia impegnata in effusioni amorose).
La nicchia può coincidere con lo spazio personale, vi è però una distinzione lo spazio
personale viaggia con l’individuo mentre la nicchia non lo segue.
- Lo spazio d’uso: territorio che un individuo può rivendicare per una necessità
strumentale (posso avvicinarmi a una persona con una accetta ma potrei farmi male)
- Il turno: “ordine in cui in una situazione specifica un rivendicante riceve rispetto ad
altri un bene di qualche tipo”; a tale ordine corrisponde in genere una serie di regole,
sulla base delle quali i partecipanti vengono suddivisi per categoria (entra prima chi
ha il pass) o individualmente (prima gli invalidi) o in ordine misto.
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- La guaina: corrisponde alla pelle e, per estensione, ai nostri vestiti. Il corpo e la sua
guaina è segmentato in maniera differente, un conto è toccare il gomito di una
donna, un conto è il seno
- La riserva di possesso: insieme di oggetti che può venire identificato con il sé (= il
possessore) come gli effetti personali.
- La riserva di informazione: controllo che l’individuo esercita su un insieme di fatti che
lo riguardano quando è insieme ad altri, potremmo definirla come la privacy. Un
esempio di violazione di tale spazio è una domanda come “a cosa stai pensando?”,
oppure frugare tra il contenuto della borsa di un’altra persona
- La riserva conversazionale: pretesa rivendicata da ciascuno di “controllare che può
invitarlo alla conversazione e il momento in cui può essere invitato a farlo”. È anche il
“diritto di un gruppo di individui, che hanno iniziato una conversazione, di proteggere
il loro circolo dall’ingresso e dall’ascolto di estranei”
Le marche sono dei contrassegni che indicano la presenza di un certo territorio,
possono essere:
− centrali (giacca segnaposto sulla poltrona del cinema)
− di confine (bracciolo della poltrona del cinema)
− incorporate (posso formare un libro per “marchiarlo” come mio)
Possiamo avere diversi tipi di violazione:
1. Posizione:si ha quando si colloca il proprio corpo vicino a una determinata area
2. Tocco: il nostro corpo può toccare e, quindi violare, il corpo di altre persone (caso
estremo è la violenza)
3. Penetrazione visiva: è la violazione dello spazio altrui penetrata con lo sguardo
4. Penetrazione sonora:si ha quando il nostro spazio viene invaso da suoni,grida,urli
5. Penetrazione conversazionale: si verifica quando qualcuno si rivolge a una persona
che non conosce, importunandola, oppure quando un individuo si inserisce nel bel
mezzo di una conversazione.
6. Secrezioni corporee:possiamo avere diversi tipi di contaminazione
− secrezioni che contaminano direttamente (saliva, feci, urina)
− mediante gli odori (puzza di sudore)
− mediante calore del corpo di un altro rimasto nella nostra maglia che ha indossato
per sbaglio
− segni corporei che rimandano a secrezioni (resti del cibo nel piatto)
Il ruolo di contaminante e di contaminato possono coincidere in una stessa persona;
in questo caso avremo dei casi di auto-contaminazione. In questo caso vi sono tre
categorie principali:
− Ci si sporca da soli
− Auto-degradazione, in cui un individuo si contamina volontariamente con le
impurità di altri
− Rinuncia al controllo della propria privacy, le persone con cui entriamo in contatto
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rispettano il nostro spazio ma siamo noi a rinunciarvi, come ad esempio quando si è
ubriachi.
La scorretta esecuzione di un rituale di discrezione, e quindi la mancata osservanza
delle sue prescrizioni, implica una violazione, può venire meno ai principi di rispetto
della privacy. Il “disturbatore” deve compiere la sua azione di disturbo in modo che
appaiano chiare le sue buone intenzioni, così che la “normalità” dell’interazione venga
riaffermata, si parla di “interscambio di riparazione”, dove giustificazione, scuse,
richieste e spiegazioni costituiscono il materiale utilizzato per riparare a una
potenziale rottura del normale andamento dell’interazione. Questo scambio serve
quindi a cambiare il significato che altrimenti prenderebbe un atto, trasformandolo da
offensivo in accettabile. Lo scambio di riparazione avviene attraverso un balletto
rituale che ha tratti molto simili a una conversazione dove ognuno dei partecipanti ha
un turno di parola, e tuttavia è molto più vicino a un’interazione strategica. Questo
può avvenire attraverso una serie di glosse del corpo, con le quali l’offensore virtuale
tenta di liberarsi dalle indesiderabili implicazioni caratteriali di ciò che sta facendo.
Ad esempio quando fissiamo una persona ed essa se ne accorge, lo sguardo viene
distolto immediatamente mostrandosi interessati per un altro fuoco di attenzione, qui
si parla di glosse di circospezione.
La stessa espressione assorta è quella che ostentiamo quando in ascensore fissiamo
l’indicatore dei piani, oppure leggiamo le istruzioni del carico in questo caso si parla
di glosse di orientamento.
Mentre se un pattinatore scivola sul ghiaccio ed esagera gli effetti della caduta,
rimanendo disteso sul ghiaccio più del dovuto si parla di glosse di esagerazione.
Il minuetto dello scambio riparatore viene punteggiato anche da quelle che sono le
sue mosse strutturali riconducibili essenzialmente a quattro passaggi:la riparazione,
l’accettazione, l’apprezzamento e la minimizzazione(la vittima mostra un
apprezzamento dell’apprezzamento). La riparazione e l’accettazione possono essere
attuate mediante gesti e azioni, senza che vi sia uso del registro linguistico. Lo
scambio di riparazione può offrire lo schema per alcuni tipi di interazione particolari
come le variazioni sul tema o le freddure.
Il “self” come artificio drammaturgico
“L’identità non è qualcosa di stabile e durevole nel tempo, ma un effetto strutturale
prodotto e riprodotto discontinuamente nei vari balletti cerimoniali della vota
quotidiana” (Giglioli). Nel caso dello scambio di riparazione, l’individuo può prendere le
distanze dal ruolo che sta impersonando, come sdoppiandosi. La parte più desiderabile
del nostro self è proprio quella che è caduta in errore, in quanto la parte vera di me sa
riconoscere che c‘è stato un errore.
Per spiegare come avvengono tutti questi balletti rituali nel corso dell’interazione
Goffman ricorre a una metafora, quella del teatro.
La rappresentazione teatrale ha bisogno di uno spazio di ribalta, dove avviene la
rappresentazione vera e propria, e di uno spazio di retroscena, dove gli attori si possono
preparare per la rappresentazione. Proprio per le funzioni che ricopre il retroscena
(luogo in cui possiamo prepararci adeguatamente), va protetto da incursioni indiscrete
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da parte di chi non vi è ammesso. Va detto che un luogo può funzionare da ribalta in
alcune situazioni, e da retroscena in altre (aula di lezione: ribalta per i partecipanti alla
lezione e retroscena quando la lezione è finita per fare commenti sul professore).
I media hanno avuto un ruolo determinante nell’abbattere i confini tra ribalta a
retroscena creando uno “spazio intermedio”, il luogo di fusione tra spazio pubblico e
spazio privato (= fuori onda). Secondo il canadese Joshua Meyrowitz in un epoca in cui
la comunicazione mediale è globalizzata, gli effetti di tale redifinizione del “senso del
luogo” sono riscontrabili in quasi tutti gli aspetti della vita sociale, Meyrowitx però ne
prende 3 a titolo di esempio:la confusione fra sfera maschile e femminile, quella tra
l’infanzia e il mondo adulto e la tendenziale perdita dell’aura dei leader politici,
abbassati al nostro livello del continuo scrutinio delle telecamere.
L’avvento dei media elettronici ha dato alle donne l’accesso a tutta una serie di
informazioni sulla sfera della maschilità che prima erano a esse del tutto negate e
viceversa. La conclusione è che i ruoli maschili e femminili si stanno fondendo. Non solo
le donne assomigliano di più agli uomini, ma aumentano anche le somiglianze
reciproche tra i due sessi. Tale dimensione, relativa alle identità di genere, si lega ad un
fenomeno relativo alla con(fusione) tra immaturità e maturità, tra mondo dei giovani e
mondo degli adulti. Secondo Meyrowitz le tradizionali tappe della socializzazione del
bambino nel mondo adulto sono state sconvolte dalla presenza della TV.
Infine è sottolineata la perdita dell’aura del leader politico nel momento in cui questi
viene scrutato dalle telecamere e dagli obiettivi delle macchine fotografiche. La
creazione di uno “spazio intermedio” assicura al pubblico dei media un accesso alle
informazioni sul leader politico assolutamente inedito. Con ciò non si vuole sostenere
che l’accesso al retroscena del leader politico giochi esclusiva ente a suo svantaggio: al
contrario, spesso i leader sfruttano questa possibilità di vicinanza espressiva ed emotiva
offerta dai media per mostrarsi più vicini ai propri elettori.
In alcuni casi può in effetti capitare che le telecamere colgano dei “fuori d’onda”
rendendo gli ambienti degli studi televisivi particolarmente malfidi e pericolosi.
Umberto Eco definisce “Neo TV” la televisione così come si è venuta a configurare
almeno dagli anni ottanta a oggi. Tra le caratteristiche della Neo TV Eco individua
l’autoriflessività, la confusione tra informazione ed evasione, tra informazione e finzione,
l’evidenza dell’enunciazione ovvero l’esibizione non solo contatto con il pubblico ma di
tutti quegli elementi prima riservati rigorosamente al “dietro alle quinte”.
È importante sottolineare come parlare di ribalta e di retroscena significhi centrare lo
sguardo sui modi in cui “viene assemblato il materiale liturgico prima della cerimonia”. Il
materiale liturgico di cui si parla consiste in tutto un’insieme di strumenti scenici di cui
fanno parte anche gli oggetti di cui ci circondiamo e con cui copriamo e addobbiamo il
nostro corpo, la nostra casa, il nostro luogo di lavoro. Gli oggetti sono degli strumenti di
cui ci serviamo per esprimere e comunicare informazioni che ci riguardano. Gli oggetti
parlano spesso di noi e per noi, vanno a costituire il canale comunicativo principale
(poster in casa, libri, dischi dicono molto dei miei gusti personali).
La distinzione tra uno spazio di ribalta e uno di retroscena è essenziale per la metafora
drammaturgia dell’interazione faccia a faccia, ma questa metafora non è completa se
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non si considerano anche gli attori. Avremo così la distinzione tra attore e personaggio,
che ricorda l’idea di Durkheim secondo cui l’uomo è duplice ma anche Mead disse
qualcosa di simile scomponendo il self in “Io” e “Me” dove il “Me” è quello che Mead
chiama il “looking-glass self” cioè il self come si offre al punto di vista degli altri e quindi
oggetto e non soggetto mentre l’”Io” è sempre la parte attica del sé. Con Goffman,
l’attore non è altro che una sorta di supporto biologico, che “tende ad avere un solo
aspetto, un aspetto nudo, non socializzato, di concentrazione:l’aspetto di qualcuno
impegnato in un compito difficile e traditore”. Con Goffman l’attore è una sorta di
supporto biologico, che “tende ad avere un solo aspetto non socializzato, di
concentrazione”. Al contrario, il personaggio è la parte sociale del self, “una figura
dotata di carattere positivo, il cui spirito , forza e altre qualità debbono essere evocati
dalla rappresentazione”.
“Non gli uomini e i loro momenti, ma i momenti e i loro uomini” così diceva Goffman,
questi momenti sono appunto le occasioni in cui si dà l’interazione faccia a faccia. ”Il
“materiale grezzo” dell’interazione faccia a faccia è costituito da “sguardi, gesti,
atteggiamenti e affermazioni verbali con cui gli individui, intenzionalmente o no,
alimentano continuamente la situazione”.
Ma se si parla di interazione faccia a faccia, uno dei suoi elementi principali è appunto la
“faccia”; con cui si intende un’immagine di se stessi, delineata in termini di attributi
sociali positivi. Il termine faccia può essere definito come il valore sociale positivo che
una persona rivendica per se stessa mediante la linea che gli altri riterranno che egli
abbia assunto durante un contatto particolare. Nel corso dei balletti rituali
dell’interazione possiamo “mantenere la faccia”, quando la linea di condotta portata
avanti è coerente con l’immagine che abbiamo inteso tenere, ma possiamo anche
“perderla”, quando non riusciamo a conservarla per una qualsiasi ragione (se facciamo
una gaffe).
L’interazione faccia a faccia può essere definita in senso stretto come ciò che traspira
unicamente nelle situazioni sociali, cioè in ambiti nei quali due o più individui sono
fisicamente l’uno alla presenza dell’altro.
Ma quali sono le situazioni più tipiche dell’interazione faccia a faccia?
• I singoli come unità veicolari: metafora mutuata dal traffico delle automobili, che ci
permette di considerare un individuo singolo che, ad esempio, sta camminando lungo
un marciapiede. Le regole del traffico relative alle unità veicolari comprendono almeno
2 processi:
− esternazione (una serie di espressioni gestuali e corporee che un individuo utilizza
intenzionalmente per rendere comprensibili alle altre persone elementi che altrimenti
non sarebbero disponibili)
− esplorazione (consiste nel controllo che l’individuo esercita costantemente sull’area
dove si trova) In questi casi un elemento importante che regge l’ordine dell’interazione
in corso è la fiducia.
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• Gli insiemi come unità di partecipazione: gli insiemi possono essere considerati come
unità di partecipazione, ovvero unità interazionali, tra le più tipiche e importanti della
vita pubblica. Rispetto al singolo l’insieme ha alcuni vantaggi: oltre a una minore
vulnerabilità, alcuni comportamenti che compiuti da soli verrebbero valutati
negativamente vengono maggiormente tollerati se chi li compie si trova in presenza di
altri. Se singolo, chi si comporta in modo discutibile è giudicato con maggiore severità.
Inoltre il solo fatto di essere un singolo può fornire alcune informazioni poco
desiderabili sull’individuo; significa dare un’immagine di sé “come di qualcuno
probabilmente incapace di trovare compagnia”. Il fatto di essere da soli o con qualcuno
comunica molto su di noi, che lo vogliamo o meno.
Tutti gli elementi significanti che comunicano o informano su un legame tra gli elementi
di un insieme sono i “segni di legame”, che si possono trovare sia in assenza dei due
“terminali”, sia in presenza di un solo terminale della relazione, sia nella presenza
contemporanea dei due terminali. I “segni di legame” sono dunque tutte queste
informazioni sui legami tra le persone che coinvolgono oggetti, espressioni e atti, con la
sola esclusione degli aspetti letterali delle loro affermazioni esplicite. In tutto questo non
interessa “il modo in cui i terminali comunicano dei fatti sulla loro relazione, ma il modo
in cui il loro comportamento in presenza reciproca può contenere le prove della loro
relazione”. La questione principale è che i segni di legame non comunicano messaggi
ma contengono prove.
Secondo Goffman, oltre ai singoli e agli insiemi, le più tipiche situazioni dell’interazione
faccia a faccia sono rappresentate dalle interazioni non focalizzate, cioè le situazioni in
cui si ha la mera copresenza di persone che entrano nel campo visivo le une delle altre,
e dalle interazioni focalizzate, cioè le interazioni nelle quali si ha un comune contro
visuale e cognitivo tra i partecipanti.
• L’interazione non focalizzata: situazione in cui si ha la compresenza di persone che
entrano più o meno fuggevolmente entro il campo visivo le une delle altre. È il
linguaggio espressivo dei corpi degli attori presenti in una situazione.
Quando gli individui si trovano l’uno in presenza dell’altro in circostante in cui non
venga richiesta una comunicazione verbale essi si impegnano in una comunicazione di
un certo tipo, la comprensione è legata ad alcuni elementi non necessariamente
connessi alle comunicazioni verbali. Questi comprendono il modo di vestirsi, il
comportamento, la posizione, gesti fisici, etc. Questi “segni espressivi incorporati”
forniscono determinate informazioni e producono le impressioni che le persone
presenti sulla scena interpretano per tutta la durata dell’interazione.
Un aspetto importante di questa interazione è il coinvolgimento degli attori, chi
partecipa a un’interazione non focalizzata è tenuto a mostrare un coinvolgimento
minimo, per evitare di apparire del tutto sfaccendato. È per questo motivo che nelle sale
d’aspetto non mancheranno mai riviste e giornali. Chi si trova in una situazione in cui
non ha un particolare scopo e però si trova in pubblico, e quindi nello spazio di ribalta,
deve comunque trovare un coinvolgimento minimo, con il quale mascherare il desiderio
di non far nulla.
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Si parla di auto-coinvolgimento riferendosi ad attività rivolte al proprio corpo o a
faccende che lo riguardano (sistemarsi il trucco), alcuni luoghi sono socialmente più
deputati di altri per forme di auto-coinvolgimento con il corpo come oggetto, ad
esempio in spiaggia dove ci si mette l’olio abbronzante.
Sono inoltre possibili situazioni in cui ci troviamo coinvolti in un’attività pensando che
nessuno ci guardi, salvo poi essere improvvisamente “scoperti” da qualcuno, allora sarà
nostro compito ostentare l’apparente normalità.
• L’interazione focalizzata: riguardai gruppi di individui che “si trasmettono l’un l’altro
una particolare autorizzazione a comunicare, e mantengono un tipo particolare di
attività reciproca che può escludere altri, presenti nella situazione”. L’individuo deve
mostrare che è consapevole della presenza di un estraneo, ma, subito dopo, distogliere
l’attenzione da lui per non invadere la sua privacy (= disattenzione civile). Questa regola
prevede diverse modalità di comportamento e quindi altrettante modalità con le quali
tali comportamenti possono venire interpretati.
In primo luogo, due passanti si guardano tra loro finché non giungono a due o tre metri
l’uno dall’altro, quando abbassano gli occhi, questo comportamento non marcato, è
quello più normale. Ma esiste anche una quantità div variazioni sul tema, il trattamento
della non-persona che consiste nell’ignorare manifestamente la presenza dell’altro,
come spesso facciamo se qualcuno ci importuna per strada.
La disattenzione civile è un comportamento riservato a chi mostra di saper tenere un
comportamento corretto in relazione al tipo di interazione in corso, si può anche avere
l’applicazione a contrario della norma, come quando fissiamo volutamente a lungo una
persona che ha violato una regola cerimoniale, in questi casi non viene pronunciata
nessuna parola eppure è evidente come questi atti trasudino informazioni e come
costituiscano un idioma cerimoniale che parla attraverso sguardi, atteggiamenti del
corpo, cenni, gesti ed altro.
Del resto lo sguardo rivolto a una persona può esprimere la nostra intenzione a
cominciare un’attività reciproca con questa. Il guardarsi negli occhi assume un ruolo
notevole nella “vita di comunicazione della comunità, nel senso che stabilisce una
sottintesa disponibilità verso dichiarazioni verbali”. Se ci vogliamo invece estraniare da
quanti ci stanno intorno, esprimiamo questa volontà mediante una “fissità anormale
dello sguardo”, evitando di incrociare il nostro sguardo con quello dei presenti (fingere
di non vedere qualcuno).
Terminiamo l’analisi dell’interazione focalizzata con due particolari situazioni che si
possono dare nel corso di un incontro. La prima è quella che riguarda le possibili
“digressioni dell’attenzione” rispetto al comune centro dell’attenzione, ad esempio
siamo a cena fuori con una persona e la nostra attenzione è concentrata più su quello
che dicono le persone al tavolo accanto. La seconda è quella delle “improprietà
situazioni”, le quali, benché non si adeguino all’ordine cerimoniale che sovrintende
l’interazione, hanno comunque molto da dire sulle interazioni di hai “sbaglia” il
comportamento.
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Ciò che abbiamo visto è una serie di situazioni in cui gli individui informano e
comunicano con le persone che si trovano alla loro portata circa numerosi aspetti del
loro self, del loro rapporto con gli altri e con la società in generale, della loro legittimità
a far parte del consesso sociale cui appartengono e così via.
Sapersi gestire e saper gestire un’interazione faccia a faccia significa dimostrare agli altri
di essere membri rispettabili della società, ma bisogna appunto saperlo dimostrare.
Chiunque può perdere, ogni tanto, il controllo della situazione in un’interazione faccia a
faccia, ma questo può capitare “a patto che si mostri di avere un self che ha capito di
aver perso il controllo, e lascia aperta la possibilità di essere più composto in futuro”. In
gioco c’è il mantenimento non solo della propria faccia, ma dell’interazione
comunicativa in generale: se siamo sorpresi a parlare in pubblico (anche da noi stessi),
smettiamo subito. Parlando da solo segnalo di non avere bisogno della compagnia dei
miei simili.
È talmente importante mostrare di essere “presenti alla situazione” che, spesso, gli atti
espressivi che compiamo sono più importanti dell’azione che dobbiamo svolgere.
I diversi tipi di interazioni faccia a faccia che abbiamo visto, che si svolgono nella ribalta
della vita sociale, sono tutti invariabilmente retti da una serie di nome che regolano
l’ordine dell’interazione, e si tratta di “regole che informano gli atti comunicativi, sia
espressivi che linguistici e, in particolare, gli atti il cui significato si estende oltre i circoli
di conversazione alla situazione generale”. In questo modo, la comunicazione
interpersonale, nei termini di interazione faccia a faccia, palesa quanto sia determinante
mostrare in ogni modo che siamo parte di un gruppo e ne siamo parte in piena regola.
Questa “coazione” a esibire normalità in ogni momento della nostra vita quotidiana
diviene uno degli oggettivi privilegiati dell’analisi della sociologia, come sostiene
Bennet Berger.
A proprio rischio e pericolo
L’interazione faccia a faccia costituisce un’arena pubblica dove gettiamo continuamente
il nostro self, e siamo quindi esposti continuamente ad una serie di pericoli, che vanno
da quelli relativi al “perdere la faccia” a quelli di mostrarne una non consona a quella
che consideriamo desiderabile, fino a arrivare ai pericoli relativi alle possibili violazioni
dei territori del nostro self. Come posso gestire il mio self?
• Distanza dal ruolo: a ognuno dei nostri status corrisponde un fare o un non fare (lo
status di figlio impone di obbedire al genitore). In ogni ruolo è incluso un fare, una serie
di azioni che sono le azioni appropriate a quel determinato ruolo. Il ruolo offre
un’indennità alla persona che lo ricopre.
La distanza dal ruolo di riferisce a comportamenti con cui il soggetti vuole inserire una
“zeppa” tra ciò che vuole essere e ciò che deve fare in una determinata situazione.
Ad esempio una giostra con dei cavalli, ci sono alcuni bambini la cui età varia dai 2 ai 13
anni, il comportamento, a seconda delle classi di età,varia quindi i più piccoli saranno
compresi nell’attività che stanno facendo mentre i più grandi manifesteranno una
distanza da quello stesso ruolo così bene esplicato dai più piccoli, dal momento che si
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vergogneranno di essere identificati con un’attività tipica dei bambini più piccoli.
Secondo Goffman non ci sono da una parte i ruoli e dall’altra la vera identità, se
avessimo un solo ruolo non potremmo esercitare la distanza da questo ruolo.
È possibile distanziarci dall’immagine del self implicita nell’esecuzione di un ruolo solo
perché abbiamo a disposizione altri ruoli. La distanza dal ruolo ci introduce quindi in
una situazione in cui l’individuo si presta a svolgere il suo ruolo, ma al tempo stesso
chiarisce, con determinati usi dell’espressione, al suo pubblico o a se stesso, che il suo
essere non è completamente assorbito in ciò che sta facendo.
(—> segno = stigma; ognuno di noi ha un proprio stigma)
Questa è una identità sociale virtuale, che va stinta dell’intensità sociale attuale, in cui la
categoria e gli attributi sono confermati. Quando l’estraneo che ci troviamo di fronte ha
dei segni che lo rendono in qualche modo “diverso” dagli altri, ci facciamo subito una
determinata idea di lui. Un segno di questo tipo è chiamato da Goffman “stigma” che
possiamo dividere in almeno tre categorie:
- le deformazioni fisiche,
- gli aspetti criticabili del carattere che vengono percepiti come mancanza di volontà,
passioni sfrenate o innaturali, credenze malefiche e dogmatiche, disonestà
- gli stigmi tribali della razza, della nazione e della religione
Ognuno di noi ha un suo proprio stigma e quindi ognuno di noi è in qualche modo uno
stigmatizzato. I normali e gli stigmatizzati non sono tanto persone quanto prospettive,
prodotte e riprodotte nel corso delle interazioni faccia a faccia durante gli incontri tra gli
uni e gli altri, con le loro debite norme e regole. Abbiamo un processo social e due assai
complesso in cui ciascun individuo partecipa in ambedue i ruoli, almeno per quello che
riguarda certe connessioni e durante certi periodi della vita. Essendo in gioco non tanto
individui concreti ma ruoli dell’interazione,spesso chi è stigmatizzato per un particolare
aspetto esprime e manifesta tutti i normali pregiudizi nei confronti di chi è stigmatizzato
per un altro aspetto. Dal punto di vista dell’interazione faccia a faccia è interessante
esaminare le situazioni in cui coloro che hanno uno stigma e i normali entrano in
contatto. Il problema è sempre quello del controllo dell’informazione legato allidentità
personale. La vita di chi tace una propria caratteristica considerata uno stigma può
essere vissuta pericolosamente, nel costante rischio del discredito. Tutti in scena, ma
anche tutti in arena, continuamente esposti a rischi e pericoli a cui esponiamo non solo
il nostro self ma anche l’apparente normalità. Le apparenze normali sono un concetto
che esprime du aspetti istinti dell’ordine dell’interazione ma profondamente correlati. Il
primo è relativo alla sicurezza fisica dei partecipanti all’interazione (molto volte nelle
relazioni in pubblico le persone sono costantemente esposte a una serie di pericoli in
ordine alla loro incolumità, nel momento in cui sono appunto gettate nell’arena
pubblica della ribalta della vita sociale. Il secondo aspetto relativo al concetto di
apparenze normali è un po' più inquietante del primo, e riguarda il senso coniglio degli
attori, la loro possibilità di definire univocamente una situazione.
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Apparente normalità: sono quelle apparenze che indicano che nessun aspetto insolito è
presente nella situazione, e che quindi l’attività in corso può procedere senza allarmi. In
questo gioca un ruolo fondamentale l’Umwelt, ovvero la sfera che circonda l’individuo a
cui possono arrivare le potenziali fonti di allarme e, in definitiva, l’ambiente stesso, il
mondo circostante all’individuo. Le persone devono non solo tenere sotto controllo
l’Umwelt, per accertarsi che non ci siano pericoli imminenti, ma anche per controllare le
proprie espressioni, in modo da informare gli altri occupanti l’Umwelt di non essere
potenziali fonti di pericolo.
Se uscito di casa dopo pochi metri mi rendo conto di avere dimenticato il telefono, non
tornerò indietro sui miei passi senza aver inscenato una piccola rappresentazione per
cominciare alle persone nella vicinanze che sono matto ma che ho cambiato direzione
perché ho dimenticato qualcosa. In questo modo scindendo e distanziando il mio
comportamento da quello che potrebbe apparire un self poco edotto sulle regole
dell’ordine dell’interazione, avrò informato gli astanti circa la normalità del mio agire e
della situazione in generale.
Una persona che ha cercato di aprire l’auto sbagliata, si allontanerà dalla portiera, darà
un occhiata alla chiave mentre scuote la testa con un aria corrucciata per esserci reso
conto di aver commesso un errore.(tratto da Goffman 1971)
Tutti questi comportamenti riguardano l’interazione faccia a faccia, anche con le nuove
tecnologie della comunicazione, quelle che permettono l’interazione mediata è
necessario adottare tutta una serie di glosse del corpo che informo gli altri circa la
normalità nostra e della situazione.
Ad esempio se consideriamo la possibilità offertaci dagli auricolari per telefoni cellulari
che ci consento di parlare senza portare il telefono alla bocca, vedere una persona che
parla senza interlocutori a cui rivolgersi per noi non è usuale quindi Goffman dice che il
primo pensiero è un attribuzione dell’immagine alla follia in quanto assistiamo una
scena per noi inusuale. Quello che si può dire della apparenze normali è che
l’interazione faccia a faccia si svolge all’interno di una cornice che è potenzialmente
pericolosa, sia per quanto riguarda l’incolumità dei partecipanti sia per quanto riguarda
l’intelligibilità di quanto sta accadendo. Le apparenze normali sono il prodotto di una
costruzione, a cui partecipano tutte le persone coinvolte nell’interazione. Ci mostrano
come l’ordine dell’interazione sia fragile. Il pericolo è dietro l’angolo, ed è interesse di
tutti scongiurarlo.
L’interazione faccia a faccia è potenzialmente pericolosa, ci viene strano pensare che gli
individui vadano alla ricerca volontaria del rischio.
Goffman parla di “attività fatidica” riferendosi a un’attività rischiosa e dall’esito incerto.
L’azione deve essere consequenziale, ovvero deve produrre delle conseguenze. Per
riferirsi a un’attività fatidica in cui ci impegniamo “gratuitamente” Goffman sceglie il
nome di “azione”. L’azione è un’attività rischiosa, consequenziale, intrapresa fine a se
stessa. Perché le persone dovrebbero impegnarsi nell’azione e/o nella ricerca del limite?
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Quando un soggetto si cimenta in un’azione è molto importante che questi mostri il
controllo di sé. È importante mostrare coraggio, costanza, integrità, cavalleria e
compostezza (= calma mentale + essere sempre all’erta). In definitiva l’azione serve a
ricreare, ricostruire il nostro self, a mostrare
che il nostro è un self che ha un carattere forte. Nel modello della ricerca del limite
proposto da Lyng alcune persone si cimentano in quest’attività per il bisogno di
autorealizzazione che hanno gli individui, e che si esplica ad esempio con un lavoro
creativo, attraverso il quale è possibile realizzare se stessi. Secondo Goffman però la
questione centrale è che l’azione è una richiesta che fa la società stessa agli
individui. Non è necessario che l’azione sia un gesto eroico.
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LE CORNICI E LE PARENTESI DELLA COMUNICAZIONE
Nell’interazione faccia a faccia non solo ci produciamo in una serie di comportamenti
rituali, ma produciamo e riproduciamo il nostro self, proteggendolo, sdoppiandolo,
rinforzandolo a seguito di attività rischiose, e tutto questo mentre ci prodighiamo a
salvare la faccia dei nostri interlocutori, a rassicurarli, a non disturbarli, a evitare sguardi
e contatti troppo indiscreti. Facendo riferimento alla distinzione tra comunicazione e
informazione, potremo parlare di
− informazione espressa: rientrano tutte le informazioni che trasudiamo. Riguardano
necessariamente la fonte d’espressione, non sono discorsive ma riguardano il rapporto
che esiste in generale tra quell’individuo e ciò che trapela
− informazione comunicata: è quella in cui gli individui non offrono espressioni, ma
offrono comunicazioni (come ad esempio l’accento). Ci si riferisce a un tipo particolare
di attività strumentale e precisamente all’uso del linguaggio o di segni equivalenti per
trasmettere informazioni
L’interazione faccia a faccia non è l’unica soluzione in cui un individuo può esprimere
informazioni: da questo punto di vista, anche l’interazione mediata può assolvere tale
compito, l’interazione faccia a faccia “riveste un’importanza particolare, perché, ogni
volta che un individuo può essere osservato direttamente, una grande quantità di ottime
informazioni espresse diviene accessibile”. L’informazione comunicata è quella in cui gli
individui non offrono espressioni ma offrono comunicazioni.
Il “grado zero” della comunicazione è l’intenzionalità di chi comunica: “il minimo che
l’atto di comunicare possa esprimere è che l’emittente ha la capacità e apparentemente
la volontà di comunicare”. Nel flusso dell’interazione faccia a faccia abbiamo un misto di
comunicazione e informazione. Spesso usiamo le une per controllare le altre; il tutto a
patto di non diventare troppo paranoici circa la possibilità di essere ingannati dai nostri
interlocutori —> “degenerazione dell’espressione”.
Tanto più l’osservatore sospetta che il soggetto parlante controllo l’espressione o tanto
più vuole difendersi da questa possibilità, tanto meno importanza egli attribuirà al
significato apparente della condotta del soggetto e tanto più tenterà di scoprire delle
espressioni che siano immuni dalla falsificazione e dissimulazione.
Sono situazioni tipiche, almeno fino a un certo livello di “sfiducia”. (—> sfiducia:
cerchiamo di capire se veramente la persona davanti a noi piante perché commossa o
se è una finta).
La “degenerazione dell’espressione” significa almeno una cosa: la “squalifica
dell’innocenza” nei processi della comunicazione interpersonale.
Per quanto riguarda il contesto è abbastanza facile capirne l’importanza per poter
comprendere un qualunque scambio comunicativo. È solo grazie al contesto che siamo
in grado di dare un senso a ciò che avviene nell’interazione faccia a faccia. Per
cominciare, cosa è il frame?
Il frame è una cornice, che mettiamo intorno agli eventi e che ci permette di rispondere
alla domanda “che cosa sta succedendo qui?”. È una cornice cognitiva, che orienta la
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comprensione dei messaggi e indica quale tipo di ragionamento impiegare per la loro
corretta interpretazione. Si tratta di un contesto di natura sociale.
Abbiamo una distinzione fra:
1. Frames primari: sono le cornici che organizzano il mondo della realtà quotidiana,
suddivisibili a loro volta fra:
− naturali (sono determinati dal mondo fisico: età, sesso, giorno e notte, luce e buio)
− sociali (sono determinati dal mondo sociale)
Per comprende un messaggio o un evento bisogna vederlo nella sua cornice primaria
2. Frames secondari: sono tutte le successive trasformazioni che possono subire i frames
primari, e quindi tutte le cornici che si possono sovrapporre alle cornici già esistenti.
Va aggiunto che, nonostante i frames siano cornici pienamente interpretabili, le
interpretazioni non sono lasciate del tutto alla libertà dell’individuo, bensì sono
orientate sulla base delle necessità del momento. Il frame presiede al rapporto tra
comportamento e significato.
Le cose si fanno un po’ più complesse se pensiamo alle possibili trasformazioni dei
frames primari e quindi i frames secondari. Secondo Goffman di fatto sono possibili due
categorie principali di trasformazioni:
− lecite o keyings (tutti sono a conoscenza della trasformazione dell’evento primario) =
situazioni in cui tutte le persone presenti alla situazione sono consapevoli della
trasformazione in atto: quando si gioca o quando si prendere parte ad una
competizione sportiva, dove il combattimento e la battaglia sono solo “imitati”. E ancora:
una rappresentazione teatrale, un film, una fiction televisiva sono tutte trasformazioni
lecite.
− illecite o fabrication (solo alcuni sono a conoscenza della trasformazione: truffe e
inganni) = non tutti i partecipanti a una determinata situazione sono al corrente della
trasformazione avvenuta. Per preparare una fabrication è necessario che due o più
individui comunichino tra loro di nascosto: questo tipo di comunicazione è la
“comunicazione collusiva”, ad esempio uno scherzo.
Non sono solo scherzi, truffe o inganni a rendere difficile la corretta interpretazione di
un frame: spesso possono capitare situazioni in cui una persona, pur senza essere
vittima di un inganno, “sbagli frame”.
Ci sono situazioni in cui si preferisce “autoingannarsi” (se mi sono presentato a una
riunione di lavoro con la patta aperta potrò sempre dirmi che nessuno se ne è accorto) e
a questo proposito possiamo parlare di ambiguità. Si parla invece di “esperienza
negativa” quando non sappiamo bene quale tipo di cornice dobbiamo applicare alla
situazione in corso, e ciò ci può portare a perdere il controllo. Normalmente in una
qualunque situazione comunicativa, siamo molto attenti a segnalare ai nostri
interlocutori quali sono le cornici giuste da applicare a quanto stiamo dicendo: i segni
che demarcano i “limiti dell’interpretazione” di quanto sta avvenendo sono come delle
parentesi, ma è possibile che queste parentesi non vengano segnalate. La possibilità di
un malinteso è dietro l’angolo, con tutti gli equivoci e le ambiguità che ne posso
derivare. Vi sono comunque dei limitiate possibilità di trasformare un evento e di
approvi cornici su cornici, questi limiti possono essere sia fisici che funzionali. I limiti
fisici stabiliscono che oltre un certo punto, non siamo più umanamente in grado di
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gestire troppe trasformazioni mentre i limiti sono funzionali ovvero senza un minimo di
fiducia nella apparenze normali la società non sarebbe letteralmente possibile “la vita
sociale è già abbastanza ambigua e assurda perché si possa desiderare di renderla
ancora più irreale”.
Le “scatole cinesi” della comunicazione
Abbiamo visto come i frames organizzino l’ ”apparenza normale” dell’interazione in
relazione al consenso cognitivo.
La comunicazione interpersonale verbale può essere sottoposta a diversi tipi di
incorniciamento metacomunicativo (un ordine può essere dato in modo non serio). Lo
stesso vale per quelle situazioni in cui un individuo presenta una scarsa padronanza
nella gestione del frame, e può capitare di non riuscire a gestire adeguatamente la
produzione di parole e discorsi.
Un’importante differenza che si può trovare, e che rende l’interazione verbale diversa da
tutte le attività dell’interazione faccia a faccia, è che proprio gli enunciati linguistici sono
connessi con il mondo circostante in maniera debole e vaga, e questo rende il parlare
più vulnerabile di altre attività alle trasformazioni, siano esse lecite o illecite.
Prendiamo come esempio un’interazione verbale come un litigio. Il litigio è un caso
interessante di definizione della situazione, poiché si arriva a un punto, e cioè quello in
cui i litiganti sono letteralmente arrabbiati, dal quale è molto difficile tornare indietro.
Si scivola per tappe successive a diverse situazioni, il cui punto di arrivo è l’ira e a questo
punto per tornare indietro bisognerebbe ripercorrere tutte le tappe a ritroso. Una
persona che da uno scoppio di ira torna immediatamente a un comportamento
tranquillo, verrebbe considerata folle o schizofrenica. A parte casi come questo, rimane
vero che una conversazione informale si mantiene su una dimensione di scioltezza tale
da renderla peculiare rispetto ad altri comportamenti del quotidiano.
La scioltezza nella conversazione informale è un elemento talmente comune che spesso,
se vogliamo essere seri nel corso di uno scambio verbale, dobbiamo inserire una
cornice adeguata allo scopo, del tipo “scherzi a parte” o “parlando sul serio”. Questo
dimostra come il discorso informale abbia minori connessioni al mondo di quanto non
ne abbiano altri tipi di espressioni verbali.
La modalità principale in cui avviene questo scambio verbale è quella di fornire un
resoconto di aspetti che ci riguardano o di fatti che ci sono accaduti. Tornando alla
metafora teatrale anche se ci impegneremo a fornire una versione dei fatti il più
possibile obiettiva e oggettiva in realtà quello che faremo sarà fornire una narrazione,
questa narrazione si dipanerà sulla base del codice e dello stile che sceglieremo di
utilizzare.Quali che siano gli stili e le scelte narrative che sceglieremo di adottare, il
nostro racconto subirà comunque una drammatizzazione. E come tutte le
drammatizzazioni di storie e ogni copione drammaturgico, come la suspance, uno degli
artifici narrativi più comuni utilizzati. Con questo artificio narrativo il parlante mette
l’interlocutore nella condizione di ascoltare quello che ha da dirgli. Se il parlante non
viene fermato allora avrà il diritto, e il dovere, si svelare quanto ha promesso di
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raccontare, sempre che l’interlocutore non conosca già la vicenda e sia interessato a
conoscerla.
Il problema si pone sul fatto che una conversazione sia improvvisata oppure sia
preparata.
Sembrerebbe che una conversazione informale sia quanto di più lontano ci sia da una
“scena preparata”, eppure dovremmo chiederci quante volte ci succede di indurre i
nostri interlocutori a farci i complimenti, di indirizzare il discorso verso un argomento
che ci sta a cuore —>parallelo tra improvvisazione e preparazione della conversazione.
Se i racconti possono imitare la vita, allo stesso modo la vita può imitare i racconti, e
anche là dove abbiamo dovuto improvvisare per far fronte a situazioni impreviste, per le
quali non avevamo un copione pronto, saremo in grado successivamente di ristabilire
una coerenza narrativa le cui forme e i cui ritmi saranno più quelli di un romanzo che
quelli della “vita reale”. Quando raccontiamo qualcosa della nostra esperienza o di noi
stessi, il nostro diventa il capitolo di un romanzo autobiografico i cui modelli sono tutte
quelle forme narrative drammatiche che troviamo nei film, nei romanzi, sui giornali, nelle
interviste, nei talkshow televisivi. La narrazione diviene così un aspetto fondamentale
della nostra vita, permettendoci di conferire un ordine e una coerenza a un mondo che
ne è privo, soprattutto un ordine e una coerenza a quello che ci riguarda, e che
cerchiamo di rendere in tutti i modi piacevole e interessante per chi ci ascolta mentre
lo raccontiamo.
Dalle cornici al “self”
Chi parla? E chi ascolta?
Il contesto ci permette di comprendere non solo che cosa accada nel corso di un evento
comunicativo, ma anche come si comportano e come si devono comportare i
partecipanti all’evento. Si è visto come in tutto questo gioco di incorniciamenti anche i
media giocano un ruolo non indifferente. Guardare la televisione può non sembrare la
stessa cosa di intrattenere una conversazione, eppure i modi narrativi con cui si
costruisce un racconto televisivo sono per noi particolarmente importanti, dal momento
che ci permettono di soddisfare il nostro bisogno di storie e perché ci consentono di
costruire le nostre storie esattamente con le stesse modalità.
Ma cosa ancora più importante è che le diverse cornici che mettiamo intorno al parlare
implicano una revisione non solo del concetto di contesto, ma anche di quelli di
emittente e ricevente.
Se il frame è una cornice attorno alla quale se ne può costruire un’altra, e poi un’altra
ancora, in un gioco che evoca appunto le scatole cinesi, allo stesso modo il self del
parlante assomiglia a una matrioska, ed è proprio nelle sue prese di distanza da quanto
dice, nelle sue “riduzioni di responsabilità” che possiamo vedere meglio in azione
questo gioco di incorniciamento, dobbiamo ammettere che il processo comunicativo è
un’esperienza stratificata.
I concetti di emittente e ricevente vanno deostruiti per formare concetti più raffinati.
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In relazione al concetto di emittente possiamo individuare almeno tre funzioni:
− l’animatore (emette fisicamente l’enunciato)
− il responsabile (l’entità sociale alla quale il messaggio può essere effettivamente
imputato)
− l’autore (formula materialmente il messaggio)
Non si parlerà più di emittente ma di “formato di produzione” dove peraltro le tre
funzioni possono coesistere o meno nello stesso emittente.
Anche il ricevente viene “scomposto” e vede:
− ascoltatori ratificati
− ascoltatori non ratificati
1. astanti = presenti, legittimamente, alla conversazione
pur senza prenderne parte
2. origlianti = si pensi alle spie o ai ficcanaso
L’auto-sarcasmo o l’auto-ironia implicano la divisione del parlante in molteplici identità.
È questa capacità di mantenere simultaneamente in vita più “voci”, di commentare la
nostra produzione mentre la stiamo producendo, di eseguire disinvoltamente continue
rotture di frame, tutte le caratteristiche proprie del parlato spontaneo e tipicamente
umane.
Come fare “footing” solo parlando
La decostruzione delle nozioni di emittente e ricevente comporta che la posizione del
parlante nei confronti dei suoi interlocutori possa cambiare con una certa frequenza nel
corso dell’interazione, e quindi debba venire definite ridefinita ripetutamente. Goffman
chiama questa attività di ridefinizione e di allineamento “footing” —> quando,
conversando con qualcuno, riporto quanto mi ha riferito un comune amico, io sono
l’animatore del messaggio, ma non ne sono il responsabile, quindi si ha lo spostamento
da una cornice all’altra.
Si tratta di un caso di quella “deresponsabilizzazione” del parlante per cui ci si può
parzialmente allontanare da quello che si sta dicendo, ad esempio se non si è l’autore o
il responsabile ultimo del messaggio che pure stiamo emettendo fisicamente. Come
spiega Goffman un cambiamento di footing implica un cambiamento nella posizione
che assumiamo nei nostri confronti e in quelli degli altri presenti espresso nel modo in
cui affrontiamo la produzione e la ricezione di un enunciato. Parlare del cambiamento di
footing è un altro modo di parlare di un mutamento del frame con il quale inquadriamo
gli eventi.
Il cambiamento di footing implica numerosi aspetti dell’atto comunicativo in corso, a
cominciare dalla “linea o la posizione o la postura o il self proiettato” —> cambiamento
delle caratteristiche foniche (altezza, volume, ritmo, accento, qualità tonale). Il volume
delle imprecazioni e dei borbottii è abbastanza elevato da essere udibile da quelle
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stesse persone che possono percepire la nostra situazione. Quello che succede è che
chi pronuncia il grido di reazione a una difficoltà improvvisa opera un cambiamento di
footing in cui chi parla incornicia ciò che sta accadendo in una cornice accettabile, che
di fatto ratifica l’azione come ragionevole. Ma quali sono questi gridi di reazione?
• L’esibizione di uno stato di transizione: espressioni come “brr” che pronunciamo per
esternare le nostre sensazione quando entriamo o usciamo da uno stato di disagio
dovuto alle condizioni naturali dell’ambiente. È molto probabile che i presenti provino
quantomeno le nostre stesse sensazioni, e magari si producano anch’essi in espressioni
simili
• Il grido rivelatore di una perdita di controllo: grido come “ops” che minimizza
l’incidente, poiché esprimendolo mostriamo ai presenti di essere consapevoli di quanto
ci è accaduto
• Il trasalimento da minaccia: espressioni come “uuh”, che benché esprimano sorpresa o
paura, esprimono anche il loro essere ragionevolmente sotto controllo
• I suoni di ribrezzo: suoni come “bleah” dove, pur trovandoci in presenza di qualcosa di
contaminante minimizziamo la portata di tale contaminazione, con un grido che non è
particolarmente serio
Se questi sono i gridi di reazione che emettiamo quando, pur in presenza di altri, non
siamo “con” loro, esistono anche i gridi che emettiamo quando costituiamo un
“insieme”. Si tratta di gridi come il grugnito da sforzo; l’esclamazione di dolore; il gemito
sessuale; i suggerimenti di presa di parola, infine le espressioni di gioia.
È importante sottolineare che in tutti questi casi, “ciò che è ritualizzata non è
un’espressione, ma un rapporto io-altro, una organizzazione internazionale”, e che
questo è possibile proprio grazie alle continue incassature del linguaggio nelle
situazioni sociali, che ci permettono di considerare come sociologicamente rilevanti
fenomeni quali il parlare da soli, un’imprecazione o un gemito.
Le parentesi della comunicazione
Mettere tra parentesi “ciò che tutti sanno”
Un’altra prospettiva che si propone di studiare come si dà la conoscenza quotidiana nel
contesto di un fatto comunicativo è quella dell’etnometodologia, che si concentra sula
logica dell’azione e del ragionamento pratico in ogni situazione della vita quotidiana, e
in particolare nelle interazioni comunicative faccia a faccia.
L’etnometodologia “cerca di considerare le attività pratiche, le circostanze pratiche e il
ragionamento sociologico pratico come argomenti di indagine empirica e cerca di
apprendere qualcosa su tali attività come fenomeni degni di studio in quanto tali. La sua
tesi fondamentale è che le attività attraverso cui i membri della società producono e
gestiscono situazioni di relazioni quotidiane organizzate sono identiche ai procedimenti
usati dai membri per renderle spiegabili” (Garfinkel). In sostanza l’oggetto dello studio è
lo studio (-logia) dei metodi (-metodo-) utilizzati dagli individui (etno-) per rendere
“spiegabile”, intellegibile la realtà che li circonda. Quello che fa l’etnometodologo è
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andare ad analizzare le spiegazioni e i resoconti forniti dagli stessi attori sociali, i quali a
loro volta li impiegano quotidianamente attingendoli da tutto quello che riguarda la
conoscenza di senso comune (= oggetto d’analisi = aspetti della conoscenza della vita
quotidiana che diamo per scontati, che costituiscono la banalità del quotidiano; “ciò che
tutti sanno” è quella serie di aspetti che normalmente mettiamo tra parentesi, ma se
togliamo le parentesi riusciamo a capire su che cosa si reggono le pratiche del
ragionamento quotidiano degli individui comuni).
Garfinkel si serviva spesso degli “esperimenti di rottura”, veniva chiesto ai suoi studenti
di “rompere” l’ordine cognitivo “normale” delle situazioni quotidiane più comuni, come
rispondere a una frase banale del tipo “Buona giornata” con una risposta quale “Buona
in che senso? E a quale parte della giornata ti riferisci?”. A essere “rotto” non è solo
l’ordine cognitivo delle malcapitate vittime, ma anche l’ordine morale: come se gli
individui non avessero il diritto di “togliere dalle parentesi” gli aspetti dati per scontati
della nostra realtà, sconvolgendo così l’ordine “naturale” del modo in cui conosciamo il
mondo e gli attribuiamo un senso. Il sociologo austriaco Alfred Schütz ha individuato
una serie di caratteristiche che costituiscono gli elementi principali della conoscenza
della vita quotidiana:
1. La reciprocità delle prospettive
2. L’oggettività delle apparenze
3. Le tipizzazioni
4. Realizzabilità e intenzionalità diretta a un fine
5. Fondo di conoscenza pratica in senso comune
Queste caratteristiche del ragionamento di senso comune hanno come effetto quello di
ridurre la complessità del reale, per assicurare tale riduzione della complessità,
prevedono l’utilizzo delle “glosse” ovvero di modi in cui una caratteristica solo parziale
della realtà viene ritenuta indicare la realtà più ampia che non si vede.
Ciò che non vediamo ma che possiamo inferire non ci pone alcun dubbio circa la sua
esistenza, e così diamo per scontata una notevole fetta del nostro mondo.
A partire dalle caratteristiche del ragionamento di senso comune individuate da Schütz,
Garfinkel cerca di capire quali sono le pratiche attraverso cui le persone producono
l’intelligibilità e l’oggettività del mondo sociale, intendendo tale produzione come il
risultato di pratiche sociali e non idi processi psicologici. Non si tratta di negare
oggettività e fatticità alle cose, ma solo di capire in che cosa consistano questa
oggettività e fatticità.
L’etnometodologia tratta i fatti sociali come realizzazioni (accomplishments), con
un’attenzione particolare alle pratiche e ai metodi. Il suo scopo è dunque quello di
analizzare le pratiche e i modi con cui gli individui costruiscono la stabilità del loro
mondo sociale e contemporaneamente lo rendono descrivibile, osservabile, oggetto di
resoconti.
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Come funzionano queste pratiche di accountability con cui rendiamo descrivibile e
intellegibile il nostro mondo? Secondo Garfinkel sono due le caratteristiche di tali
pratiche:
− indicalità: o indessicalità, vuol dire che il significato di ogni cosa, per essere compreso,
nominato, comunicato, deve essere riferito al contesto in cui questa cosa si trova. Il
contesto è fondamentale per la comprensione. un esempio sono le espressioni indicali
quali “io”, “tu” o avverbi di luogo come “qui” o “là” etc.
Per spiegare l’indicalità si fa riferimento alla nozione di frame
− riflessività: indica che le persone tendono inconsciamente a interpretare ciò che
accade in una determinata situazione come il caso particolare di un qualcosa di più
generale, secondo un tipo di ragionamento tautologico, circolare e autoevidente.
Per spiegare come procede la riflessività delle pratiche degli individui possiamo
presentare i risultati di due esperimenti condotti da Garfinkel.
1. Durante una causa giudiziarie in tribunale, i giurati popolari riuniti in camera di
consiglio furono sottoposti a osservazione per capire come essi giungessero a un
verdetto di condanna o di assoluzione. Garfinkel si accorse che il giudizio non fu mezzo
in base a una valutazione spassionata delle prove, ma in funzione della corrispondenza
del comportamento dell’indiziato a un’idea preconcetta di colpevolezza/innocenza, nel
senso che i giudici mostrarono di considerare la particolare vicenda in esame non come
un fatto a sé, ma come esempio specifico di una casistica più generale.
2. Alcuni ricercatori vennero incaricati della direzione di una clinica psichiatrica di
analizzare lo schedario dei pazienti e di ricostruire il modello di funzionamento
dell’unità sanitaria. Quello che emerse fu che, per svolgere il loro compito, i ricercatori
avevano inconsapevolmente già in mente le modalità di organizzazione che la loro
ricerca avrebbe dovuto invece rilevare.
Ma l’esempio più famoso in cui si vede all’opera la riflessività è quello di Agnes, un
diciannovenne che decise di cambiare sesso e che dovette rapidamente fornirsi di un
repertorio esperienziale autoriflessivo che definisse la sua costruzione come femmina.
Anche le maschilità e le femminilità messe in scena dagli attori sociali sono dei practical
accomplishment.
L’aspetto che va sottolineato di queste caratteristiche delle pratiche di accountability è
che proprio il loro successo mostra come l’operare di tali pratiche sia seen but
unnoticed, cioè visto senza essere notato. Le persone evitano accuratamente di
riconoscere l’indicabilità e la riflessività delle loro operazioni quotidiane, anche se
hanno sempre a che fare con esse. Cosa succede se ci rendiamo conto di questi aspetti?
Per saperlo dobbiamo operare nei termini della deformazione della realtà, che viene
praticata mediante quelli che Garfinkel chiama “esperimenti di rottura”: solo rompendo
l’ostinata familiarità della vita quotidiana è possibile comprendere come questa si
costituisca nel corso delle interazioni quotidiane degli individui. Con gli esperimenti di
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rottura Garfinkel intende manomettere volontariamente ella situazione percepita come
“normale” dagli attori ed osservare come questi vi reagiscono.
In alcuni esperimenti di rottura viene violato uno dei “metodi” di accountability più
comuni, cioè quello per cui diamo per scontati numerosi aspetti di scenario, noi
mettiamo tra parentesi moltissimi aspetti implicati in un discorso, senza nemmeno
evocarli.
Soggetto: “Ho forato una gomma l’altro giorno.”
Sperimentatore: “Che cosa vuoi dire con ho forato?”
Soggetto: “Cosa voglio dire? Forare una gomma significa forare una gomma. Niente di
particolare. Ecco ciò che intendevo. Che domanda assurda!”
il soggetto si altera per questa variazione della realtà.
Soggetto: “Ciao Marco. Come sta la tua ragazza?”
Sperimentatore: “Cosa vuoi dire con ‘Come sta?’. Vuoi dire fisicamente o mentalmente?”
Soggetto: “Voglio dire come si sente. Cosa ti prende?”
Sperimentatore: ”Niente semplicemente vuoi spiegare un po’ meglio quello che intendi
dire?”
Soggetto: “ Lascia perdere.. come va con le domande di iscrizione alla facoltà di
medicina?”
Sperimentatore: “Cosa vuoi dire con ‘Come va?’ ”
Soggetto: “Tu sai che intendo”
Sperimentatore: “no. Veramente non capisco”
Soggetto: “Cosa ti prende, non ti senti bene?”
Soggetto:”Come stai?”
Sperimentatore: “Come sto riguardo cosa? La mia salute, la mie finanze, la scuola, la mia
pace mentale, la mia..? ”
Soggetto: “Senti! Stavo solo cercando di essere cortese. Francamente non me ne
importa un accidente di come stai!”
Quando si rompono gli aspetti indicai e riflessivi su cui fondiamo i nostri atti
comunicativi non è solo l’ordine cognitivo a venire rotto. Le vittime degli esperimenti
riconosco di avere moralmente diritto all’intelligibilità di quanto viene detto, e quindi
all’ordine cognitivo si sovrappone un corrispondente morale: l’intelligibilità è un diritto,
e chi viola tale diritto deve delle spiegazioni. Al limite le spiegazioni erano già pronte
difatti le vittime avevano trovato i loro modi per rendere spiegabile quanto stava
accadendo. Insomma, l’ordine cognitivo viene subito ristabilito e proprio in virtù di una
cornice che sposta sull’ordine morale l’infrazione dell’offensore.
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In che modo allora riusciamo a mettere tra parentesi l’indicalità e la riflessività del
mondo reale? Tra le principali procedure del ragionamento di senso comune vanno
ricordate:
• la clausula dell’et cetera: tendenza delle persone a semplificare le implicazioni del loro
ambiente o delle proprie (e altrui) azioni mediante l’allusione a una capacità di saper
scendere più nel dettaglio
• le procedure ad hoc: procedure che servono a riconoscere e usare le regole
nell’esecuzione di un’attività che prevedere un comportamento regolato
• le pratiche di glossa: descrizioni e comportamenti in cui ci produciamo ogni volta che
facciamo qualcosa. Svolgere un’attività significa anche integrarla con una serie di
commenti e descrizioni che la mettono un rapporto con una qualche regola
Secondo Cicourel gli individui si dotano di una serie di procedure interpretative per
ottenere una comprensione intersoggettiva.
1. La reciprocità delle aspettative. Un interlocutore assume che, fino a prova contraria,
gli altri vedano le cose e diano significato agli oggetti nel suo stesso modo
2. Le forme normali. Interlocutore assume che esista un accordo comune sulle
“apparenze normali” della realtà sociale
3. Il principio degli “et cetera”. Il parlante assume che gli interlocutori “riempiano di
significato” eventuali lacune nelle conoscenze di senso comune comuni agli
interlocutori stessi
4. I vocabolari descrittivi come espressioni indicali.La procedura indicale inserita nella
sua dimensione più eminentemente linguistica
Tali proprietà sono state riviste e correte da Kjolseth, basandosi sul concetto di common
sense knowledge (“conoscenza di senso comune”) di Schütz.
a) Background knowledge = veri e propri universali conversazionali posseduti da ogni
individuo comunicativamente competente in ogni società
b) Foreground knowledge = conoscenze necessarie per distinguere situazioni
culturalmente riconosciute nelle quali valgono diverse pratiche conversazionali
c) Emergent ground knowledge = conoscenze specificamente necessarie per
riconoscere il “qui e ora” di una parte della conversazione, in quanto distinta da
precedenti e futuri episodi della conversazione
d) Trascendent ground knowledge = conoscenze potenzialmente necessarie in un dato
momento della conversazione
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LA CONVERSAZIONE
All’interno dell’etnometodologia è nata l’analisi della conversazione, che infatti
possiamo considerare “come un esito della ricerca etnometodologica sulle attività
ordinarie che costituiscono il nostro mondo sociale”.
L’analisi della conversazione si occupa delle normali situazioni conversazionali
considerandole come attività ordinarie del mondo sociale, che possono dirci qualcosa
su come lo stesso mondo sociale è organizzato. La conversazione verrà considerata
come una delle “attività ordinarie della nostra vita quotidiana attraverso le quali si
riproduce il mondo sociale come insieme ordinato”, intendendo il termine
conversazione come sinonimo di “interazione verbale”. L’analisi della conversazione
consiste nell’esplicitare il “lavoro” compiuto dai locutori nel sostenere un’interazione
verbale, organizzare il suo modo di procedere, negoziare alcuni nodi cruciali che la
strutturano. Un’attività in apparenza così libera si dimostra in realtà un luogo di
esecuzione di competenze acquisiste e rilevanti. Le conversazioni sono attività sociali
regolate.
Secondo i “conversazionisti” la conversazione è un’attività che presuppone anzitutto la
cooperazione tra i partecipanti, ma la sua natura + anche pianificatrice e contrattuale: chi
interviene in una conversazione si impegna in uno scambio, accordandosi a portare
avanti un discorso; questo discorso può essere una sfida (ciascuno cercherà di imporsi
dimostrando di essere il più brillante). Infine, la conversazione è anche una
negoziazione, dove i partecipanti devono assicurarsi il controllo della situazione (e la
gestione del “frame”), ma lo possono fare tenendo conto della natura collettiva della
situazione in corso. La conversazione dunque prevede un’organizzazione sequenziale
delle fasi:
1. apertura: esistono diversi modi rituali per aprire una conversazione, che riguardano
sia la comunicazione verbale che quella non verbale (postura del corpo, espressioni del
viso)
2. sviluppo: avviene tramite il “meccanismo del turno”, prevede che in una
conversazione i partecipanti parlino uno alla volta e, secondariamente, che il parlante
cambi. Tale meccanismo si può articolare in diversi modi: chi ha la parola può
selezionare il locutore successivo rivolgendogli una domanda; oppure un partecipante
alla conversazione può “auto- selezionarsi”, parlando per primo. Va inoltre considerato il
silenzio all’interno della conversazione: se questo si trova all’interno del turno di un
parlante, viene considerato come una pausa e quindi il turno non viene interrotto, ma se
si trova tra un turno e l’altro viene percepito come una “scorrettezza rituale” che va
riparata al più presto. Per evitare di essere interrotti esistono numerose strategie (“ho
due cose da dire ...”; si parla di “turno esteso” = racconto o barzelletta). Come è
possibile la perfetta sincronia nel passaggio da un turno all’altro?
La perfetta sincronia la si ha grazie a un altro meccanismo essenziale dell’organizzazione
della conversazione: le coppie adiacenti, ovvero sequenze composte da due enunciati
collocati l’uno accanto all’altro da due locutori diversi. È un organizzazione
conversazione molto comune.
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Secondo Schegloff le coppie adiacenti prevedono:
a) non terminalità (chi riceve una riposta dopo averla sollecitata non può non parlare)
b) non ripetibilità (non posso chiedere una cosa che ho appena chiesto)
c) pertinenza condizionale
Nel corso delle conversazioni ci sono talvolta delle occorrenze che non sembrano
essere parte dell’argomento centrale della conversazione stessa, ma che tuttavia rispetto
ad essa sono rilevanti e sono definite sequenze laterali
3. chiusura: le sequenze di chiusura sono altrettanto critiche di quelle di apertura (dare
un’occhiata all’orologio = non ho più tempo). Inoltre, per arrivare alla chiusura della
conversazione si passa in genere attraverso i cosiddetti “turni di pre-chiusura” (“bene,
allora ...”)
Un’altra caratteristica è quella delle sequenze laterali, come la sequenza di ritardo, che
soddisfa la domanda non con una risposta, ma con la promessa che si darà una risposta
non appena si riceverà la risposta alla propria domanda. Le sequenze laterali sono
tipiche anche dei rituali di chiusura, le sequenze di chiusura sono altrettanto critiche di
quelle di apertura: una conversazione va pure terminata ad un certo punto, tuttavia se
costituisce un’attività rituale non può essere interrotta senza alcuni rituali di chiusa.
Questi rituali possono essere rappresentati, di nuovo, da elementi verbali e non verbali,
come dare un occhiata all’orologio. La chiusura va quindi negoziata coordinatamente e
chi attacca bottone impedendoci di sospendere il meccanismo del turno non ci
permette di portare a termine tale negoziazione. Per arrivare alla chiusura della
conversazione si passa in genere attraverso i cosiddetti “turni di pre-chiusura” di cui
sono tipiche forme verbali come “bene,allora..” “ok..”. È possibile che in tali momenti
l’interlocutore non chiuda affatto, anzi approfitti di avere di nuovo la parola per dire
qualcosa che magari aspettava di dire da tempo.
Va considerato come la conversazione sia spesso caratterizzata dalle procedure di
correzione, che possono essere di due tipi: l’autocorrezione e l’eterocorrezione. Non
tutti possono correggere il proprio interlocutore (per lo più lo può fare un superiore, per
status gerarchico o per età), e prevede una serie di complessi “rituali di riparazione”.
Essere in disaccordo per essere d’accordo.
Anita Pomerantz compie una serie di osservazioni molto interessanti che riguardano il
modo in cui cerchiamo di mostrarci d’accordo con i nostri interlocutori.
In una normale conversazione è piuttosto tipico esprimere delle valutazioni; si cerca
sempre di evitare lo stato di disagio, e si cerca una continua conferma delle proprie
azioni e delle proprie considerazioni al fine di mantenere l’allineamento con i propri
interlocutori. Quando esprimiamo una valutazione, ci attendiamo una risposta dai nostri
interlocutori: la struttura di questo “scambio” prevede una prima valutazione fatta dal
parlante, e la risposta dell’interlocutore, che consiste in un’espressione di accordo o
disaccordo. Per dimostrarsi d’accordo, l’interlocutore può agire secondo l’”accordo
preferito” che consiste nell’essere d’accordo con la valutazione del primo parlante o nel
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mostrarsi in disaccordo, proprio per ribadire di essere d’accordo. Un altro caso è quello
del ’”accordo dispreferito”, in cui il parlante si produce in un’auto-svalutazione per la
quale è prevista, nel turno successivo, un’espressione di accordo o disaccordo.
Il discorso riportato. Molte volte noi non siamo gli autori di ciò che diciamo, ma solo
meri animatori. Questo fenomeno è stato definito da Bachtin come “dialogismo” o
“polifonia”, proprio a indicare la molteplicità degli autori presenti in uno stesso discorso.
Mizzau parla di discorso riportato (DR), distinguendo tra discorso diretto (DD), discorso
indiretto (DI) e discorso indiretto libero (DIL).
Nel ripetere un discorso fatto da altri, la prima questione che viene sottolineata è quella
dell’attendibilità di quanto (e di come) si è riportato. In una conversazione possiamo
anche riportare ciò che è appena stato pronunciato dal nostro interlocutore, per
segnalare che siamo d’accordo o in disaccordo (= “frasi eco”).
Le forme di ripetizione.
Le forme della ripetizione sono essenzialmente 3:
− l’auto-ripetizione = si ha quando lo stesso elemento formale riappare nel discorso del
parlante stesso (quando il parlante si ripete)
− l’etero-ripetizione = si ha quando lo stesso elemento formale riappare nel discorso
dell’interlocutore, che quindi ripete una parte o l’intero turno del parlante precedente
− la ripetizione polifonica = consiste nella “ripresa a distanza di sintagmi fissi, basati su
stereotipi, ruotine conversazionali, slogan proverbi, citazioni bibliche ...” (~ tormentoni
televisivi)
In generale, le ripetizioni hanno varie funzioni: in particolare servono come conferma
della ricezione; quale controllo della comprensione e come correzione.
Per ridere. Raccontare le barzellette.
Una barzelletta si costruisce narrativamente su una collisione tra due diversi frame tra
loro incompatibili. Raccontare una barzelletta significa anche esporsi a un rischio
interazionale; è evidente che vuole raccontare una barzelletta deve non solo
annunciarla, ma anche procedere nel racconto fino alla fine.
Va quindi scelto il momento per introdurla. i rischi non so però finiti, i presenti possono
ridere, ma non sono obbligati. Infine, al di là di questi problemi relativi al “mettersi in
gioco” quando si racconta (o si ascolta) una barzelletta, vale la pena sottolineare la
capacità della barzelletta di frustrare le aspettative e le attese dell’ascoltatore. In
definitiva, la barzelletta richiede un impegno conversazionale complesso, che coinvolge
chi la racconta e chi l’ascolta, e che richiede alcune competenze non solo
conversazionali ma anche cognitive.
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Conversazione e media
La conversazione nei programmi televisivi
Negli ultimi decenni si sono moltiplicati gli studi dedicati alle conversazioni presenti nei
testi mediali.
Le conversazioni telefoniche nei quiz televisivi rappresentano un tentativo di
raggiungere una dimensione sempre più interattiva con il pubblico; il telefono è ormai
lo strumento principale di molta TV che si vuole “vera”, “reale” ed è anche un’efficace
marca della diretta, ulteriore prova di interattività della conversazione audiovisiva.
Quando un programma televisivo fa ricorso alle telefonate tra conduttore e partecipante
da casa mette in scena una particolare cerimonia “religiosa”, in cui si celebra il contatto e
la vicinanza tra i partecipanti.
La conversazione telefonica non è immediatamente mirata alla vincita del premio per la
risposta corretta, “ma è piena di oggetti di scambio, il cui valore non è quello
economico di mercato ma quello morale di sociabilità”.
La struttura tipica della telefonata nei giochi televisivi è quella che vede:
1. Apertura: è un momento critico e importante, perché costituisce l’introduzione a quel
contatto di telespettatore con l’emittente.
le attività principali che vedono impegnati i partecipanti in questa prima fase sono
finalizzate a:
1. stabilire il contatto (ed accertare che questo sia avvenuto)
2. determinare l’identità del parlante
nel primo punto siamo in presenza della sequenza “chiamata/risposta”,in alcuni casi il
contatto non è immediato e sottolinea il momento critico di tale fase.
Una volta stabilito il contatto si passa alla “sequenza di identificazione” in cui viene
determinata l’identità del partecipante, la formula standard è quella del nome di
battesimo più luogo di residenza. I concorrenti per fortuna sono già abituati a questa
modalità di auto-presentazione.
2. Il gioco: ha una struttura tale per cui “se la risposta è positiva allora avvengono i rituali
di esultanza, con festeggiamenti, i complimenti e la gioia; se la risposta è negativa allora
avvengono i rituali di mestizia, con l’espressione di malinconia, dispiacere e tristezza”
domanda iniziale —> richiesta di aiuto —> aiuto o negazione dell’aiuto —> risposta alla domanda
Non è importante la correttezza della risposta, ma il gioco dell’interazione tra
concorrente e conduttore
3. La chiusura: prevede anch’essa una complessa attività rituale. L’uscita dalla
conversazione può essere “dilazionata”; questo può avvenire in diversi modi.
L’espansione della sequenza può avvenire dopo il commento negativo del conduttore, a
opera del conduttore stesso o ad opera del concorrente
L’uscita dalla conversazione può essere anche accelerata, sia mediante la sua
compressione, in cui il turno del conduttore esaurisce quelli che normalmente
sarebbero rituali celebrati in turni diversi, sia mediante la sua riduzione, cioè saltando un
passaggio successivo dopo il commento negativo.
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Infine si hanno delle chiusure “mute” quando alla risposta (in genere sbagliata) il
conduttore passa alla telefonata successiva.
Il conflitto nella comunicazione televisiva
Nelle conversazioni televisive, al pari di quanto avviene nelle normali situazioni della vita
quotidiana “ci sovrapponiamo alle parole dell’interlocutrice, togliamo la parola, ci
insultiamo, ci offendiamo, ci disconfermiamo, cerchiamo di discreditare, inganniamo,
facciamo insinuazioni malevole ...”. Queste situazioni conflittuali avvengono comunque
all’interno di un ordine rituale. Il conflitto può anche essere una “messa in scena” del
conflitto. Talvolta il conflitto non è tanto “messo in scena” quanto sottointeso. Esiste
inoltre il malinteso che può essere provocatorio o ironico. Il conduttore di un talk show
ha tra i propri compiti non detti anche quello di incrementare il conflitto, soprattutto là
dove questo stenti a crearsi nel corso della discussione
− Sollecitazione di una presa di posizione netta
nel chiedere di esprimersi nettamente se a favore o contro qualcuno che è intervenuto,
la conduttrice non fa che rinfocolare il conflitto e far emergere con più evidenza la
contrapposizione.
− Selezione di un ospite che ha manifestato il proprio disaccordo
la conduttrice non si limita a selezionare chi manifesta il proprio disaccordo con quanto
espresso precedentemente da altri, ma ne introduce l’intervento proprio sottolineando
tale disaccordo.
− Sollecitazione di un intervento provocatorio conflittuale
dopo un commento “a microfono spento” tra il pubblico la conduttrice invita l’autrice di
tale commento a ripeterlo al microfono.
− Contrapposizione diretta della conduttrice al parlante precedente
è la stessa conduttrice a contrapporsi a chi ha avuto l’ultimo turno di parola, ed è quindi
lei la protagonista della situazione conflittuale che si crea.
Va ricordato che le situazioni conflittuali televisive hanno connaturati alla propria logica
vari elementi di spettacolarizzazione, tra cui gli applausi.
La comunicazione mediata dal computer prevede molteplici espressioni linguistiche e
rituali.
Il più diffuso tipo di comunicazione al computer è probabilmente la posta elettronica,
che consiste nell’invio di un messaggio testuale ad un utente lontano in un momento di
propria scelta, un messaggio che il ricevente leggerà in un momento e in una situazione
di sua scelta, quando aprirà la propria casella di posta elettronica. Oggi è possibile
spedire testi multimediali, allegando o inserendo all’interno del contenuto della mail
messaggi vocali o musicali.
Un’altra forma di comunicazione al computer è quella delle mailing list che non sono
altro che un’estensione della posta elettronica ad una pluralità di riceventi.
Infine, una forma di comunicazione possibile al computer è quella del newsgroup: i
newsgroup sono delle specie di bacheche elettroniche a tema in cui ogni membro
iscritto può accedere sia per leggere, in un momento di propria scelta, i messaggi inviati
via e-mail dagli altri iscritti sia per inviarne di propri al fine di contribuire alla discussione
collettiva che contraddistingue ciascun particolare newsgroup.
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Queste tre forme hanno in comune il fatto di essere asincrone: gli utenti che le utilizzano
non sono compresente né in senso spaziale né in senso temporale, e inoltre la
spedizione e la lettura dei messaggi avvengono in momenti diversi.
Esistono delle forme della CMCche sono dette sincrone, esse sono:
− ICQ = “I seek you” (ti cerco), è un programma recente che consente di segnalare la
presenza in linea di altri utenti che dispongono dello stesso programma e di iniziare,
volendo, una discussione in tempo reale, sia mediante l’invio di messaggi alternati simili
a brevi mail, sia aprendo sullo schermo del proprio pc due finestre contigue, in ciascuna
delle quali i due utenti possono digitare i propri messaggi
− MUD = “multi users domain”, sono programmi nei quali gli utenti possono connettersi
e giocare. Ogni utente controlla un proprio alter ego attraverso il quale cammina,
interagisce con altri personaggi, esplora territori
− IRC = “Internet relay chat”, consiste in una chiacchierata fra utenti collegati ad Internet.
A differenza dei MUD, la “chiacchierata” avviene in “stanze vuote”, ed è essenzialmente
testuale
Rispetto alle forme asincrone, quelle sincrone permettono l’anonimità completa degli
utenti, che spesso fanno ricorso a nickname (soprannomi).
In questo tipo di comunicazione è interessante vedere la mancanza di tutti quei codici
della comunicazione non verbale che fanno diventare così significative le interazioni
comunicative tra parlanti in presenza (gesti, espressioni, tono di voce) —> emoticons.
Nelle conversazioni delle chat o rituali di entrata e di uscita sono complessi ed elaborati
almeno quanto quelli delle conversazioni offline.
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LINGUAGGIO E SOCIETÀ
Il linguaggio è forse il più importante sistema di comunicazione umana, la principale
forma di mediazione simbolica attraverso cui si costituisce e si trasmette il significato, è
sia un processo cognitivo sia un’attività simbolica. È uno strumento con cui “costruiamo”
e legittimiamo la realtà che ci circonda. Una comprensione del linguaggio è essenziale
per ogni comprensione della realtà della vita quotidiana. Il linguaggio costituisce anche
la prima fonte di socializzazione; esso è lo strumento principale attraverso cui il
bambino diviene essere sociale, tramite la trasmissione e l’assimilazione dei modelli di
vita e di comportamento, delle norme, delle regole e dei valori del contesto sociale di
appartenenza, nonché della sua cultura.
Da un punto di vista strettamente linguistico, il linguaggio viene considerato come un
sistema di suoni e simboli, analizzato entro quattro sfere tradizionali: fonetica, sintassi,
semantica e pragmatica. Saussure sottolinea come il linguaggio sia non individuale,
bensì una rappresentazione collettiva, e come esso vada distinto in langue e parole.
La lingua costituisce l’insieme delle abitudini linguistiche che ci permettono di
comprendere e di farci comprendere.
La parola è la realizzazione pratica della lingua, la concreta esecuzione linguistica
nell’uso quotidiano e individuale del linguaggio. Secondo Collins il parlare stesso può
essere analizzato come un rituale d’interazione e che le parole costituiscono “oggetti
sacri” che comunicano il senso di appartenenza al gruppo.
Richard Hudson delinea un mondo immaginario, questo mondo è limitato da confini
naturali ben definiti e invalicabili, in modo che nessuno possa uscirne e nessuno possa
entrarvi, portando quindi con sé una lingua differente; inoltre, in questo mondo fittizio
tutti i membri della comunità parlano la stessa lingua, con la stessa pronuncia. Presso
questi parlanti non esistono differenze tra situazioni comunicative formali e informali; ciò
significa che il contesto non ha alcuna influenza su ciò che dicono le persone, né nella
forma né nel contenuto. Non esistono indicatori per l’inizio, lo svolgimento e la fine di
una conversazione.
Può esistere una società del genere? Certo che no, anche Hudson sostiene che questo è
il modello cui fanno riferimento tutti quegli studiosi del linguaggio la cui attenzione è
dedicata esclusivamente alla lingua. Tale approccio è fatto proprio ad esempop da
Noam Chomsky che con la sua linguistica generativa trasformazionale si propone di
ricavare le “regole di una lingua X” ignorando completamente i contesti sociali in cui
essa viene appresa e usata.
Secondo Chomsky possedere un linguaggio significa possedere un sistema di regole
che generano una “lista” di coppie suono/significato. Tale lista di regole costituisce la
competenza linguistica distinta dall’esecuzione, che costituisce l’uso effettivo della
lingua.
La competenza linguistica comprende la conoscenza delle regole sintattiche, tra cui le
regole di riscrittura, che generano la struttura profonda sottostante a ogni frase, e le
regole di trasformazione, che trasformano appunto tale struttura profonda in struttura
superficiale.
A parte altri limiti attribuibili alla teoria di Chomsky, quelli che ci interessano sono la
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scarsa importanza attribuita al significato della comunicazione e l’idea che la struttura
profonda del linguaggio sia universale, nel senso che tutte le lingue si costituiscano a
partire da determinate capacità innate del cervello umano. Questo verrebbe dimostrato
dal fatto che, nonostante l’enorme complessità del sistema linguistico che stanno
apprendendo e il limitato tempo di apprendimento a loro disposizione, i bambini
imparano la lingua molto rapidamente.
Non tutti gli approcci psicologici al linguaggio tralasciano in maniera così netta lo studio
del contesto in cui si dà il linguaggio umano, specie nel momento del suo farsi, cioè nel
momento in cui il bambino sviluppa non solo le proprie competenze linguistiche, ma
anche quelle cognitive.
È importante considerare come Bruner e Vigotskij attribuiscono al contesto sociale
un’importanza centrale nello sviluppo linguistico e cognitivo del bambino. Uno degli
aspetti più interessanti della teoria di Bruner consiste nell’ipotesi che tutti i processi
mentali, incluso il linguaggio, abbiano un fondamento sociale, e che esista un’influenza
della cultura, che si realizza attraverso e relazioni sociali. Vigotskij ritiene che il
linguaggio entrale non solo per la sua funzione sociale, ma anche perché tramite la
comunicazione stabilisce nuove connessioni cerebrali e organizza qualitativamente le
categorie del pensiero.
Il linguaggio è importante a livello cognitivo, e questo linguaggio è inestricabilmente
legato a un altro livello, quello in cui l’interazione della società e della cultura con il
linguaggio stesso lega lo studio delle une a quello dell’altro.
La tesi della relatività linguistica sostiene che è esattamente il linguaggio a determinare
forme e modi di pensiero, motivazioni e modelli culturali, e quindi, le strutture sociali.
Le lingue europee sono caratterizzate da alcuni aspetti, tra cui:
− la segmentazione temporale in passato, presente, futuro
− la segmentazione temporale in unità temporali (ore, stagioni, anni)
− una rappresentazione spaziale a cui attinge tutta una produzione metaforica
La lingua Hopi (popolazione di amerindi in Arizona) è caratterizzata da:
− aspettualità
− espressioni temporali avverbiali e non sostantivi
− nessuna metafora spaziale
Gli Hopi non oggettivizzano il tempo, ma lo sentono come qualcosa di soggettivo.
Hanno questa concezione del tempo perché hanno una lingua caratterizzata in un certo
modo, così come noi abbiamo un’altra concezione del tempo perché la nostra lingua ha
determinate caratteristiche.
Whorf conclude che le strutture linguistiche e le norme culturali nascono e crescono
insieme.
Secondo Habermas l’acquisizione della competenza linguistica è resa possibile dalla
“struttura di intersoggettività” fra parlanti in grado di comprendersi reciprocamente. La
nozione stessa di “competenza linguistica” viene superata da quella di competenza
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comunicativa. Se la competenza del parlante si limitasse alla conoscenza delle regole
sintattiche che rendono possibile la produzione di un infinito numero di frasi, una
persona dotata di tale competenza sarebbe una sorta di “mostro culturale”.
Hymes ha elaborato il concetto di “competenza comunicativa”, che si riferisce alla
“competenza riguardo a quando parlare e quando tacere, e riguardo a che cosa dire, a
chi, quando, dove in qual modo”; competenza che ogni bambino acquisisce
interiorizzando “la conoscenza delle frasi non soltanto in quanto grammaticali, ma anche
in quanto appropriate”.
Secondo Goffman proprio il linguaggio potrebbe essere all’origine della
“socializzazione” del bambino all’acquisizione di un self. Il baby talk presuppone un
elaborato incassamento di ruoli sociali: per mezzo di esso il bambino non acquisisce
solo i ruoli di un “me” e di un “altro generalizzato” di cui parla Mead, ma anche una
competenza negli incassamenti, competenza tutta interazionale e sociale.
Il linguaggio costituisce “sia il contenuto sia lo strumento più importante della
socializzazione” e la natura stessa del linguaggio è profondamente radicata nel proprio
contesto sociale e interazionale.
Il linguaggio come interazione sociale
Il linguaggio come azione sociale
Secondo Wittgenstein parlare un linguaggio costituisce un’attività, e il significato di una
parola è il suo uso nel linguaggio stesso. Per comprendere il significato di quanto
espresso dal linguaggio è necessario conoscere le regole del gioco entro il quale il
linguaggio stesso viene usato. L’unità tra linguaggio e azione è il presupposto
fondamentale della teoria degli atti linguistici, elaborata da Austin e Searle, secondo cui
enunciare una frase significa anche compiere un’azione. In questo caso il dire diventa il
fare e il linguaggio diventa uno strumento dell’azione sociale. Austin distingue tre tipi di
atti linguistici: atto locutorio, illocutorio e perlocutorio.
L’atto locutorio —> l’azione che si compie nel parlare stesso, nonché la capacità del
linguaggio di descrivere stati di cose
L’atto illocutorio —> l’azione che compiamo è ordinare, consigliare, promettere, scusarsi,
etc
L’atto persecutorio —> consiste nella produzione, volontaria o involontaria, di
conseguenze sulla situazione, dove l’azione consiste quindi in ciò di cui ci rendiamo
responsabili se il nostro parlare produce un effetto extralinguistico, come convincere,
allarmare, rassicurare, etc.
Nella frase “tiassicuro che ti aspetto fuori” compio contemporaneamente tre atti distinti,
ossia tutti e tre.
Esistono anche degli atti linguistici indiretti, come nel caso in cui facciamo delle
domande quando in realtà stiamo facendo delle vere e proprie richieste (“puoi passarmi
il sale?”) oppure quando delle nostre affermazioni sono in realtà richieste (“qui dentro è
piano di spifferi” —> chiudi quella finestra) o ancora quando delle nostre domande sono
in realtà delle affermazioni (“Cosa sono, il tuo schiavo? —> prenditelo tu il sale)
Insomma se con i rituali dell’interazione faccia a faccia studiati da Goffman abbiamo
visto che spesso il fare è dire, ovvero si dice di più, talvolta, con una serie di gesti, di
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mosse, di sguardi, di movimenti impercettibili che con delle espressioni verbali, ora
vediamo che in alcuni casi il dire è fare, e quindi solo dicendo qualcosa compiamo
un’azione che riguarda noi come parlanti e i nostri interlocutori come riceventi del
messaggio. Gli atti linguistici mettono in risalto l’importanza della conoscenza delle
regole sociali che sottostanno all’esecuzioni di atti comunicativi.
Il linguaggio tra negoziazione e conflitto
Il linguaggio costituisce indubbiamente il perno attorno a cui si è venuta a formare la
“sociologia della vita quotidiana”, quell’approccio microinterazionista che ha permeato
gli sviluppi di correnti pur tra loro diverse come l’analisi goffmaniana, l’etnometodologia
e l’analisi delle conversazioni.
A seconda dei diversi autori, il linguaggio assume una valenza differente: in Goffman è
maggiormente rimarcata la dimensione di azione del linguaggio; in Garfinkel è
sottolineato soprattutto il costante rapporto tra il senso di ciò che si comunica e il
contesto.
L’etnometodologia si propone di capire come gli attori sociali usiamo die “metodi” per
rendere intelligibile la realtà, consideri centrale l’importanza del linguaggio, Da una
parte, esso è alla base della riflessività di tali “metodi”. La riflessività consiste
nell’interpretare quanto si dà in ogni determinata situazione, è una pratica non solo
quotidiana ma anche linguistica. Il linguaggio è alla base dell’ulteriore caratteristiche
della conoscenza di senso comune studiata dall’etnometodologia, l’indicalità, che
consiste nel dare per scontato che le persone, in ogni situazione, conoscano il contesto
necessario per la comprensione di una qualsiasi cosa particolare.
L’analisi della conversazione costituisce una delle principali applicazioni pratiche degli
studi etnometodologici. Gli studi dei conversazionisti si focalizzano sugli aspetti
negoziali della conversazione, come il meccanismo della presa dei turni e i meccanismi
di entrata e di uscita da una conversazione.
L’aspetto negoziale del linguaggio va quanto meno “integrato” con quello che
potremmo definire il suo aspetto complementare;la dimensione del conflitto.
La dimensione conflittuale entra in gioco nel momento in cui la “definizione della
situazione” diviene fondamentale per poter sostenere il nostro self nell’interazione con
gli altri; si tratta di una “sospensione delle ostilità”, dove i rituali della conversazione
permettono di instaurare l’interazione sociale (~ patti negoziati). Sudnow, in uno studio
intitolato Talk’s body sostiene che il linguaggio è “incarnato”: in definitiva, esso non
consiste tanto nelle sue parti formali (sostantivi, verbi, proposizioni ...), ma nella
corporeità coinvolta quando “gettiamo” il nostro self nella conversazione, adeguando i
ritmi del nostro discorso a quelli del nostro corpo, e viceversa.
Secondo Habermas la competenza comunicativa si fonda su una serie di universali
costitutivi del dialogo:in parte essi coincidono con le procedure interpretative di
Cicourel, ma prevedono anche un aspetto normativo.
Essa consiste nella competenza su tutto il “balletto rituale” della comunicazione, nei suoi
vari aspetti strategici, conflittuali, negoziali ed emozionali (nonché corporeo- gestuali).
La competenza comunicativa può essere vista come un “capitale linguistico” che i
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parlanti investono nei giochi contrattuali della vita sociale, sia nelle sue dimensioni più
locali e microintenzionali, sia in quelle più “globali”.
La nozione di “mercato linguistico” è stata proposta dal sociologo francese Bourdieu,
secondo la quale il mercato linguistico consisterebbe in un certo tipo di leggi di
formazione dei prezzi dei prodotti linguistici. Tali leggi variano a seconda dei vari
“mercati” delle diverse società, per cui, in società diverse, a una stessa produzione
linguistica non verrà attribuito lo stesso valore.
“Ciò che è raro non è la capacità di parlare, che è iscritta nel patrimonio biologico
quindi universale, dunque essenzialmente non distintiva, ma la competenza necessaria
per parlare la lingua legittima che ritraduce le distinzioni sociali nella logica
propriamente simbolica della distinzione. Parole e discorsi non sono solo segni
linguistici da decifrare, sono anche “segni di ricchezza destinati a essere valutati e stimati
e segni di autorità, il cui destino è quello di essere creduti e obbediti”.”
La competenza dominante può funzionare come capitale linguistico solo se si verificano
le condizioni necessarie. Parole e discorsi non sono solo segni linguistica decifrare. Si
crea una dinamica secondo la quale i piccolo borghesi, volendo assomigliare agli
appartenenti alle classi più alte, e allo stesso tempo distinguersi dalle classi popolari, si
producono in una continua attività di auto-correzioni, per ottenere quel capitale
linguistico proprio della upper class. Le classi interiori sono ridotte all’astensione o al
silenzio, mentre le classi superiori essendo già dotate di loro del capitale linguistico
possono permettersi di abbandonarsi a scorrettezze e imprecisioni linguistiche.
La teoria di Bourdieu del capitale (e del mercato) linguistico si lega anche alla teoria
degli atti linguistici: per avere il potere è necessario anche che chi è sottoposto a tale
potere riconosca l’autorità. Allo stesso modo l’atto linguistico si dà solo nel momento in
cui chi lo pronuncia è legittimato a farlo. Inoltre, l’atto linguistico è essenzialmente un
“rito di istituzione”, nel senso che istituisce, sancisce un determinato stato di cose,
sanziona lo status del ricevente dell’atto.
Disuguaglianze
Si è stabilito che la pronuncia degli abitanti di una grande città varia a seconda della
loro classe sociale. Questo è importante perché dimostra che “le variazioni fonologiche
non sono affatto libere, ma corrispondono alla struttura della stratificazione sociale e
possono quindi essere accuratamente descritte e valutate in un più ampio modello
sociolinguistico”.
Per Bernstein l’attenzione è concentrata sulla relazione tra disuguaglianza linguistica e
disuguaglianza sociale. Talvolta il linguaggio stesso può essere utilizzato proprio come
risorsa e strumento di differenziazione sociale o culturale, ad esempio come forma di
appartenenza “etnica” o sotto culturale.
Esamino la questione della “comunicazione interculturale” e quella della “competenza
comunicativa interculturale”
—> La comunicazione culturale è proprio uno scambio comunicativo tra “parlanti con
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background culturali diversi” a cui non è alieno spesso il fenomeno di
misscommunication, ovvero il fraintendimento, il malinteso e quindi il fallimento della
comunicazione.
—> competenza comunicativa interculturale = insieme di risorse (motivazioni,
conoscenze e abilità) che permettono uno scambio comunicativo efficace e appropriato
tra parlanti con background culturali diversi. Nel presentare una possibile teoria della
competenza comunicativa interculturale, Fabio Quassoli presenta almeno tre
formulazioni teoriche:
1. teoria di Wiemann: la competenza comunicativa è definita come abilità nello
scegliere la strategia migliore per conseguire obiettivi di carattere strumentale, salvare
la faccia, mantenere l’allineamento dei propri interlocutori entro gli obblighi normativi
contestualmente rilevanti
2. teoria di Spitzberg: riprende lo schema di Wiemann e lo inserisce in un modello
basato su tre dimensioni dell’agire comunicativo: motivazionale (bisogni che spingono
gli individui a interagire, grado di attrazione che provano per i propri interlocutori,
legami sociali ...), pratica (+ abilità sociali = capacità di raccogliere tutte le informazioni
utili, di porsi dal punto di vista del proprio interlocutore, di modificare il proprio
comportamento on the spot ...) e cognitiva (modalità comunicative dei propri
interlocutori, condivisione di un network comunicativo)
3. teoria dell’ Anxiety Uncertainty Management: si basa su quattro livelli analitici:
individuale (motivazioni e interpretazioni individuali), interpersonale (l’attore agisce per
nome e per conto di se stesso), intergruppo (l’attore agisce per nome e per conto di
gruppi), culturale (gli attori possono comunicare in modo simile o differente dai membri
di altre culture)
L’efficacia della comunicazione varia in funzione del grado di minimizzazione delle
incomprensioni e dell’accuratezza delle predizioni del comportamento altrui. L’ansia e
l’incertezza determinano il grado di attenzione vigile e di consapevolezza con cui gli
individui affrontano le situazioni comunicative. Un individuo che si sente incerto, sarà
effettivamente incerto nel comunicare e, al contrario, uno che si sente certo migliorerà
anche solo per questo motivo l’efficacia della propria performance.
La comunicazione interculturale si trova a fare i conti con una serie di produzioni
discorsive che vanno considerate con attenzione per la loro ambiguità di fondo.
a) Il primo tipo di discorso è quello del linguaggio politicamente corretto, il quale, pur
nato da intenzioni senza dubbio lodevoli (evitare forme di linguaggio considerate come
discriminatorie e offensive)
b) Il secondo tipo di discorso consiste nelle retoriche del multiculturalismo. L’equivoco
principale del multiculturalismo è quello di considerare gli individui di diversa
provenienza geografica che confluiscono in una stessa società come portatori di una
sorta di “purezza culturale” da salvaguardare e rispettare. Il fatto è che esistono persone,
non culture. Il multiculturalismo comporta il rischio di generare una sorta di
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“fondamentalismo culturale”, dove “gli esseri umani sono per natura portatori di cultura,
le culture sono distinte e incommensurabili”
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