DOMANDE MANUALE RELAZIONI INTERNAZIONALI 1.Tratti principali del realismo classico Il realismo classico è uno degli approcci ‘’tradizionali’’ alle RI. Originariamente, è un approccio normativo che si concentra sui valori politici centrali della sicurezza nazionale e della sopravvivenza dello stato. Le idee e le ipotesi su cui si basa il realismo sono: (1)visione pessimistica della natura umana; (2)convinzione che le relazioni internazionali sono necessariamente conflittuali e che i conflitti internazionali sfociano inevitabilmente in guerre; (3)alto valore attribuito alla sicurezza nazionale e alla sopravvivenza degli stati; (4)sostanziale scetticismo in merito alla possibilità che nella politica internazionale possa verificarsi un processo evolutivo analogo a quello che si registra nella politica interna. Secondo i realisti, ciò che caratterizza la natura umana è la preoccupazione per il proprio benessere nel quadro di relazioni reciproche sostanzialmente competitive. Il desiderio di godere di una posizione di vantaggio rispetto agli altri e non di essere assoggettati agli altri è dunque universale. Questa visione pessimistica della natura umana (condivisa da tutti i realisti classici) emerge con forte evidenza dalla teoria delle RI di Hans Morgenthau. Negli uomini e nelle donne egli scorge una ‘’volontà di dominio’’ che si manifesta con particolare vigore nella politica e soprattutto in quella internazionale. ‘’ La politica è una lotta per esercitare il potere sugli altri; quale che sia la sua finalità ultima, l'obiettivo immediato è il potere e i sistemi per acquisirlo, conservarlo e mostrarlo determinano le tecniche del comportamento politico’’. La politica internazionale è dunque descritta come ‘’ politica di potenza’’. I realisti partono dal presupposto cruciale che la politica mondiale è sinonimo di anarchia internazionale. Lo stato è il protagonista assoluto della politica mondiale e le relazioni internazionali sono in primo luogo relazioni fra stati, ordinati gerarchicamente. Lo scopo principale della politica estera è quello di proiettare e difendere gli interessi dello stato. Per i realisti le relazioni internazionali si riducono a una lotta tra le grandi potenze per conquistare predominio e sicurezza. Il nocciolo normativo del realismo è costituito dalla sicurezza nazionale e dalla sopravvivenza dello Stato, considerato essenziale per il benessere dei suoi cittadini: senza uno stato la vita umana sarebbe solitaria, misera, ripugnante, rozza e breve. L’ interesse nazionale è il parametro fondamentale per valutare la politica estera di uno stato. Il fatto che tutti debbono perseguire il proprio interesse nazionale significa che gli accordi internazionali sono provvisori e condizionati dall'effettiva volontà degli stati di rispettarli. Non esistono obblighi internazionali nel senso morale del termine, ossia vincoli di reciproco dovere tra stati indipendenti. L’ unica responsabilità fondamentale degli statisti è quella di promuovere e difendere l'interesse nazionale con ogni mezzo. Tuttavia, la maggior parte dei realisti sostiene nello stesso tempo che l'equilibrio fra le grandi potenze costituisce un modo per limitare la guerra. Secondo la teoria realista, le caratteristiche fondamentali delle relazioni internazionali restano le stesse: stati che lottano per la sicurezza e per il predominio in un sistema internazionale anarchico. Ciò significa che nella politica mondiale non ci può essere nessun cambiamento progressivo paragonabile agli sviluppi che hanno contraddistinto la vita politica interna e che la teoria realista delle RI è considerata valida in ogni tempo e in ogni luogo perché i suddetti fatti fondamentali la politica mondiale sono immutabili. La politica internazionale è sempre uguale a se stessa. I realisti ritengono che l'obiettivo della potenza, i mezzi della potenza e gli usi della potenza costituiscano la preoccupazione dominante dell'attività politica. La politica internazionale e quindi concepita come’’ politica di potenza’’. la conduzione della politica estera e un'attività strumentale, basata sul calcolo intelligente della propria potenza e dei propri interessi in quanto contrapposti alla potenza e agli interessi di rivali e concorrenti. I realisti tengono in alta considerazione i valori della sicurezza nazionale, della sopravvivenza degli stati, dell'ordine e della stabilità internazionali. In generale, essi ritengono che tra stati indipendenti non esistano obblighi internazionali nel significato morale della parola, ossia vincoli connessi a reciproci doveri. Per i realisti classici e neoclassici, c'è una morale per la sfera privata e un'altra ben diversa morale per la sfera pubblica. L’ etica politica consente azioni che sarebbero intollerabili alla luce della morale privata. 3 tra i più importanti autori realisti classici del passato sono Tucidide, Machiavelli e Hobbes. Tucidide formulò due importanti tesi realistiche: la struttura del sistema internazionale influisce sulle relazioni fra gli stati, compresa la guerra e il discorso morale ha poco rilievo nelle relazioni tra gli stati. Per Tucidide le relazioni internazionali erano le contrapposizioni e i conflitti inevitabili tre antiche città stato greche e limitrofi imperi non-greci (Macedonia, Persia). Gli stati dell’Ellade e i loro vicini non-greci erano profondamente diseguali: c’erano poche ‘’grandi potenze’’ (Atene, Sparta, impero persiano) e molte potenze più piccole e meno importanti (stati insulari del mar Egeo). Questa disuguaglianza era considerata inevitabile e naturale. Se gli Stati non si adattano alla realtà della forza diseguale mettono a rischio la propria esistenza e spesso si condannano alla rovina. Tucidide, sottolinea così quanto limitate siano le possibilità di scelta, quanto ristretto sia l'ambito di manovra per gli uomini di Stato nella conduzione della politica estera e come non esistano decisioni senza conseguenze, nei quali devono essere accuratamente vagliate dall'uomo politico. Preso atto di ciò, Tucidide raccomanda un'etica della cautela e della prudenza nella conduzione della politica estera in un mondo internazionale caratterizzato da grandi disuguaglianze, ridotte possibilità di scelta e costante presenza di pericoli, inevitabile contraltare di ogni opportunità. Lungimiranza, prudenza, cautela, discernimento sono i tratti salienti dell’etica politica del realismo classico, etica che si distingue dalla moralità privata ed al principio di giustizia. Nel suo famoso racconto della guerra del Peloponneso Tucidide mette la sua filosofia realista in bocca ai governanti di Atene che dialoga con quelli di Melo in un periodo di conflitto tra le due città-stato. I Meli si erano appellati al principio di giustizia, sostenendo che i potenti ateniesi avrebbe dovuto rispettare l’onore e la dignità di Melo in quanto stato indipendente. Ma secondo Tucidide nelle relazioni internazionali vale un tipo speciale di giustizia che riguarda la necessità che ciascuno si adatti alla realtà naturale della disuguaglianza delle forze. È questa la più famosa enunciazione della concezione realista classica delle relazioni internazionali: sostanzialmente, un’anarchia di stati separati ai quali non resta che operare in conformità ai principi e alla prassi della politica di potenza, nell’ambito della quale la sicurezza e la sopravvivenza sono i valori primari e la guerra è l’arbitro inappellabile. Tucidide sembra essere stato il primo a percepire l’Ellade classica come un sistema internazionale dominato dalle grandi potenze. Machiavelli: La forza e l’inganno sono gli strumenti principali della politica estera, secondo gli insegnamenti politici di Machiavelli. Il valore politico supremo è la libertas nazionale, ossia l’indipendenza politica, e la principale responsabilità di chi governa è sempre quella di perseguire e difendere gli interessi del proprio stato, garantendone la sopravvivenza. Il nocciolo della teoria realista di Machiavelli si concentra nel fatto che gli uomini di Stato debbono essere al tempo stesso leoni e volpi. La teoria classica delle RI è fondamentalmente una teoria della sopravvivenza. Il presupposto sostanziale del pensiero di Machiavelli è che il mondo è un posto pericoloso quanto pieno di opportunità. Per sperare di sopravvivere un individuo deve essere sempre consapevole dei pericoli, prevederli e prendere le precauzioni necessarie per fronteggiarli. E se poi aspira a godere della gloria riflessa che potere e ricchezza possono arrecargli, deve saper riconoscere e sfruttare le opportunità che gli si presentano con maggiore rapidità, abilità e se necessaria disonestà dei suoi rivali o nemici. La conduzione della politica estera e dunque un'attività opportunistica basata sul calcolo intelligente della propria forza dei propri interessi in quanto contrapposti a quelli rivali concorrenti. La virtù virile dell'arte del governo che ha più probabilità di sedurre la dea Fortuna, assicurando il successo politico, risiede nella capacità dell'uomo di Stato realista di scorgere sfruttare le opportunità presenti in ogni situazione politica. Soprattutto, secondo Machiavelli chi governa lo stato deve guardarsi dall’operare in conformità ai principi dell'etica cristiana. Se chi governa non conosce o non rispetta i precetti della politica di potenza, la sua politica fallirà con conseguenze disastrose per la sicurezza e il benessere dei cittadini che da essa dipendono in modo assoluto. I valori fondamentali cui si deve ispirare la politica estera sono la sicurezza e la sopravvivenza. Machiavelli può essere visto come il primo pensatore che rifiuta di riconoscere un sistema morale sovrastante. Chi governa deve essere leone volpe perché da lui dipendono la sopravvivenza e la prosperità dei suoi concittadini. Hobbes: Thomas Hobbes pensa che per capire fino in fondo la natura della vita politica è indispensabile immaginare di vivere in una situazione naturale, prima dell’invenzione e dell’istituzione dello stato sovrano (stato di natura). ------------------------------------------------------------------------------------------------------ Il realismo classico è uno degli approcci ‘’tradizionali’’ alle RI. Originariamente, è un approccio normativo che si concentra sui valori politici centrali della sicurezza nazionale e della sopravvivenza dello stato. 3 tra i più importanti autori realisti classici del passato sono Tucidide, Machiavelli e Hobbes. Questi tre realisti classici convergono che la condizione umana è una condizione di insicurezza e conflitto con cui bisogna fare i conti. In secondo luogo, essi convergono che c'è un corpo di conoscenza o saggezza politica con l'aiuto del quale affrontare il problema della sicurezza e ciascuno di loro cerca di identificare le chiavi per accedervi. Infine, essi convengono che non c'è modo di sfuggire a questa condizione umana che è una caratteristica permanente della nostra esistenza. Dunque, sebbene vi sia un corpo di saggezza politica non esiste soluzione permanente o definitiva ai problemi della politica, compresa la politica internazionale. Su questa stessa concezione equilibrata e alquanto pessimistica si basa la teoria RI del più eminente realista classico del XX secolo, Hans Morgenthau. Tucidide formulò due importanti tesi realistiche: la struttura del sistema internazionale influisce sulle relazioni fra gli stati, compresa la guerra e il discorso morale ha poco rilievo nelle relazioni tra gli stati. Per Tucidide le relazioni internazionali erano le contrapposizioni e i conflitti inevitabili tre antiche città stato greche e limitrofi imperi non-greci (Macedonia, Persia). Gli stati dell’Ellade e i loro vicini non-greci erano profondamente diseguali: c’erano poche ‘’grandi potenze’’ (Atene, Sparta, impero persiano) e molte potenze più piccole e meno importanti (stati insulari del mar Egeo). Questa disuguaglianza era considerata inevitabile e naturale. Se gli Stati non si adattano alla realtà della forza diseguale mettono a rischio la propria esistenza e spesso si condannano alla rovina. Tucidide, sottolinea così quanto limitate siano le possibilità di scelta, quanto ristretto sia l'ambito di manovra per gli uomini di Stato nella conduzione della politica estera e come non esistano decisioni senza conseguenze, nei quali devono essere accuratamente vagliate dall'uomo politico. Preso atto di ciò, Tucidide raccomanda un'etica della cautela e della prudenza nella conduzione della politica estera in un mondo internazionale caratterizzato da grandi disuguaglianze, ridotte possibilità di scelta e costante presenza di pericoli, inevitabile contraltare di ogni opportunità. Lungimiranza, prudenza, cautela, discernimento sono i tratti salienti dell’etica politica del realismo classico, etica che si distingue dalla moralità privata ed al principio di giustizia. Nel suo famoso racconto della guerra del Peloponneso Tucidide mette la sua filosofia realista in bocca ai governanti di Atene che dialoga con quelli di Melo in un periodo di conflitto tra le due città-stato. I Meli si erano appellati al principio di giustizia, sostenendo che i potenti ateniesi avrebbe dovuto rispettare l’onore e la dignità di Melo in quanto stato indipendente. Ma secondo Tucidide nelle relazioni internazionali vale un tipo speciale di giustizia che riguarda la necessità che ciascuno si adatti alla realtà naturale della disuguaglianza delle forze. È questa la più famosa enunciazione della concezione realista classica delle relazioni internazionali: sostanzialmente, un’anarchia di stati separati ai quali non resta che operare in conformità ai principi e alla prassi della politica di potenza, nell’ambito della quale la sicurezza e la sopravvivenza sono i valori primari e la guerra è l’arbitro inappellabile. Tucidide sembra essere stato il primo a percepire l’Ellade classica come un sistema internazionale dominato dalle grandi potenze. Machiavelli: La forza e l’inganno sono gli strumenti principali della politica estera, secondo gli insegnamenti politici di Machiavelli. Il valore politico supremo è la libertas nazionale, ossia l’indipendenza politica, e la principale responsabilità di chi governa è sempre quella di perseguire e difendere gli interessi del proprio stato, garantendone la sopravvivenza. Il nocciolo della teoria realista di Machiavelli si concentra nel fatto che gli uomini di Stato debbono essere al tempo stesso leoni e volpi. La teoria classica delle RI è fondamentalmente una teoria della sopravvivenza. Il presupposto sostanziale del pensiero di Machiavelli è che il mondo è un posto pericoloso quanto pieno di opportunità. Per sperare di sopravvivere un individuo deve essere sempre consapevole dei pericoli, prevederli e prendere le precauzioni necessarie per fronteggiarli. E se poi aspira a godere della gloria riflessa che potere e ricchezza possono arrecargli, deve saper riconoscere e sfruttare le opportunità che gli si presentano con maggiore rapidità, abilità e se necessaria disonestà dei suoi rivali o nemici. La conduzione della politica estera e dunque un'attività opportunistica basata sul calcolo intelligente della propria forza dei propri interessi in quanto contrapposti a quelli rivali concorrenti. La virtù virile dell'arte del governo che ha più probabilità di sedurre la dea Fortuna, assicurando il successo politico, risiede nella capacità dell'uomo di Stato realista di scorgere sfruttare le opportunità presenti in ogni situazione politica. Soprattutto, secondo Machiavelli chi governa lo stato deve guardarsi dall’operare in conformità ai principi dell'etica cristiana. Se chi governa non conosce o non rispetta i precetti della politica di potenza, la sua politica fallirà con conseguenze disastrose per la sicurezza e il benessere dei cittadini che da essa dipendono in modo assoluto. I valori fondamentali cui si deve ispirare la politica estera sono la sicurezza e la sopravvivenza. Machiavelli può essere visto come il primo pensatore che rifiuta di riconoscere un sistema morale sovrastante. Chi governa deve essere leone volpe perché da lui dipendono la sopravvivenza e la prosperità dei suoi concittadini. Hobbes: Thomas Hobbes pensa che per capire fino in fondo la natura della vita politica è indispensabile immaginare di vivere in una situazione naturale, prima dell’invenzione e dell’istituzione dello stato sovrano (stato di natura). Per Hobbes quello dello stato di natura è per un essere umano una condizione di vita estremamente sfavorevole caratterizzata da un permanente stato di guerra. ovviamente non solo è auspicabile bensì è estremamente urgente fuggire una simile condizione intollerabile. Secondo Hobbes l’unico modo per fuggire al suolo di natura e approdare a condizioni di vita civili è rappresentato dalla creazione e dalla difesa dello stato sovrano. A tal scopo, gli individui debbono sottoscrivere un patto di sicurezza che garantisca l'incolumità di ciascuno rispetto alle minacce che gli altri possono recargli. Gli individui cooperano politicamente perché temono di essere danneggiati o uccisi dai loro vicini: ‘’ ciò che li civilizza è la paura della morte’’ e ciò che fondamentalmente l'induce a istituire uno stato sovrano è la passione (emozione). Essi collaborano in modo consapevole e collettivo per creare uno stato con un governo sovrano che possegga l'autorità assoluta e il potere credibile necessari per proteggerli sia dai disordini interni sia da nemici e dai pericoli esterni. Nella condizione civile, ossia di pace ed ordine, gli individui possono perseguire e godere la ‘’ felicità’’. Tuttavia, l’atto di istituire uno stato sovrano per sfuggire allo spaventoso stato di natura pone automaticamente un grave problema politico: la creazione ipso facto di un altro stato di natura, questa volta fra gli stati. Si tratta del ‘’ dilemma della sicurezza’’ che affligge la politica mondiale: il conseguimento della sicurezza personale e della sicurezza interna attraverso la creazione di uno stato è inevitabilmente accompagnato dalla condizione di insicurezza nazionale e internazionale che fonda le sue radici nell'anarchia del sistema degli stati. Non c'è modo di sfuggire al dilemma della sicurezza internazionale perché non esiste possibilità di formare un governo mondiale. Il punto chiave per quanto riguarda lo stato di natura internazionale e che si tratta di una condizione di guerra, reale o potenziale, non c'è spazio per una pace internazionale, ma c'è spazio solo per una pace interna entro i confini dello stato sovrano. Morgenthau: pensiero realista classico di un teorico RI del XX secolo, l’americano di origine tedesca Hans Morgenthau. Morgenthau negli uomini delle donne scorge una ‘’ volontà di dominio’’ (animus dominandi) che si manifesta con particolare vigore nella politica e soprattutto in quella internazionale. ‘’ La politica è una lotta per esercitare il potere sugli altri; quale che sia la sua finalità ultima, l'obiettivo immediato è il potere e i sistemi per acquisirlo, conservarlo e mostrarlo determinano le tecniche del comportamento politico’’. L’umano animus dominandi porta inevitabilmente gli individui a entrare in conflitto l’uno contro l’altro. Se desiderano godere di uno spazio politico libero da ingerenze o controlli stranieri, gli individui dovranno organizzarsi in uno stato abile ed efficace mediante il quale difendere i propri interessi. Il sistema degli stati conduce, a livello internazionale, all'anarchia e al conflitto. A sua volta, la lotta tra gli Stati da origine al problema di giustificare il potere nelle relazioni umane. L’ etica politica consente comportamenti che non sarebbero tollerati dall'etica privata. Per Morgenthau conformare l'etica politica quella privata è un grave errore intellettuale perché non riconosce l'importante e sostanziale differenza tra la sfera pubblica della politica alla sfera privata della vita individuale. Si tratta di una visione sia irresponsabile perché ne deriverebbe una politica estera incauta, il cui esito disastroso sarebbe pagato a caro prezzo dai concittadini, sia moralmente inaccettabile perché una tale politica si rivelerebbe un fallimento anche sul piano morale dal momento che sui capi politici grava l'impegnativa responsabilità di garantire la sicurezza e il benessere del loro paese. A volte può essere necessario intraprendere una politica estera e attività internazionali chiaramente inaccettabili secondo i precetti amore privata o può essere necessario scegliere tra due beni il maggiore o fra due mali il minore. Per Morgenthau il cuore dell'arte di governare e dunque la consapevolezza che etica Powell litica ed etica privata sono cose diverse e che la prima non deve essere ridotta la seconda e che il segreto di un'efficace e responsabile attività di governo consiste nel riconoscere la realtà della politica di potenza e nell’imparare a farne il miglior uso possibile. La consapevolezza che fini politici giustificano talvolta l'uso di mezzi moralmente discutibili o addirittura condannabili conduce a un'etica situazionista e definisce i tratti della ‘’saggezza politica’’. Morgenthau compendia la sua teoria RI in ‘’sei principi di realismo politico’’: 1)La politica è il prodotto della natura umana, immutabile, fondamentalmente egocentrica, egoistica; 2)La politica è una sfera d'azione autonoma non riconducibile all'economia o all'etica; 3)La ricerca del tornaconto personale è un dato di fatto della condizione umana. La politica internazionale è un'arena nella quale si scontrano gli interessi degli stati; 4)Nelle relazioni internazionali l'etica è un'etica politica o dipendente dalle circostanze specifiche dell'interazione, perciò è profondamente diversa dalla morale personale. Un leader politico non ha la medesima libertà di cui gode il privato cittadino perché ha responsabilità ben più grandi e diverse rispetto a quelle del cittadino: il leader politico risponde delle sue azioni a tutta una popolazione ed è responsabile della sicurezza e del benessere collettivi. Quando esercita la responsabilità politica, uno statista può dover violare la morale privata per difendere la sicurezza nazionale e ciò potrebbe essere assolutamente necessario; 5)I realisti rifiutano l'idea per cui certe nazioni possono imporre le proprie concezioni ideologiche ad altri utilizzando a tal fine il loro potere in vere e proprie crociate e lo fanno perché considerano questo genere di azioni pericolose per la pace e la sicurezza internazionali e capaci di ritorcersi contro il paese che ha lanciato la crociata; 6)L’ azioni di governo è un'attività sobria e prosaica che richiede profonda conoscenza dei limiti e delle imperfezioni umane. Questa consapevolezza pessimistica che gli esseri umani sono ciò che sono è una verità difficile da accettare, che costituisce nondimeno il cuore della politica internazionale. 2.Quali sono i tratti principali del Realismo di Tucidide Tucidide formulò due importanti tesi realistiche: la struttura del sistema internazionale influisce sulle relazioni fra gli Stati compresa la guerra e il discorso morale ha poco rilievo nelle relazioni tra gli Stati. Per Tucidide le relazioni internazionali erano le contrapposizioni e i conflitti inevitabili tre antiche città stato greche e limitrofi imperi non-greci (Macedonia, Persia). Gli stati dell’Ellade e i loro vicini non-greci erano profondamente diseguali: c’erano poche ‘’grandi potenze’’ (Atene, Sparta, impero persiano) e molte potenze più piccole e meno importanti (stati insulari del mar Egeo). Questa disuguaglianza era considerata inevitabile e naturale. Se gli Stati non si adattano alla realtà della forza diseguale mettono a rischio la propria esistenza e spesso si condannano alla rovina. Tucidide, sottolinea così quanto limitate siano le possibilità di scelta, quanto ristretto sia l'ambito di manovra per gli uomini di Stato nella conduzione della politica estera e come non esistano decisioni senza conseguenze, nei quali devono essere accuratamente vagliate dall'uomo politico. Preso atto di ciò, Tucidide raccomanda un'etica della cautela e della prudenza nella conduzione della politica estera in un mondo internazionale caratterizzato da grandi disuguaglianze, ridotte possibilità di scelta e costante presenza di pericoli, inevitabile contraltare di ogni opportunità. Lungimiranza, prudenza, cautela, discernimento sono i tratti salienti dell’etica politica del realismo classico, etica che si distingue dalla moralità privata ed al principio di giustizia. Nel suo famoso racconto della guerra del Peloponneso Tucidide mette la sua filosofia realista in bocca ai governanti di Atene che dialoga con quelli di Melo in un periodo di conflitto tra le due città-stato. I Meli si erano appellati al principio di giustizia, sostenendo che i potenti ateniesi avrebbe dovuto rispettare l’onore e la dignità di Melo in quanto stato indipendente. Ma secondo Tucidide nelle relazioni internazionali vale un tipo speciale di giustizia che riguarda la necessità che ciascuno si adatti alla realtà naturale della disuguaglianza delle forze. È questa la più famosa enunciazione della concezione realista classica delle relazioni internazionali: sostanzialmente, un’anarchia di stati separati ai quali non resta che operare in conformità ai principi e alla prassi della politica di potenza, nell’ambito della quale la sicurezza e la sopravvivenza sono i valori primari e la guerra è l’arbitro inappellabile. Tucidide sembra essere stato il primo a percepire l’Ellade classica come un sistema internazionale dominato dalle grandi potenze. 3.Quali sono le principali differenze tra realismo classico ed il realismo strutturale (neorealismo) Kenneth Waltz inaugura una via del tutto nuova con il libro ‘’Theory of International Politics’’ (1979) che propone una teoria realista sostanzialmente diversa identificata con il termine ‘’neorealismo’’. Waltz del realismo classico fa propri alcuni presupposti di fondo, ma si allontana da esso ignorandone le preoccupazioni normative e cercando di mettere a punto una teoria scientifica delle RI. Waltz si propone di elaborare una spiegazione scientifica del sistema politico internazionale. Secondo Waltz, la miglior teoria RI è una teoria sistemica neorealista che concentri l’attenzione sulla ‘’struttura’’ del sistema internazionale, sulle sue unità interagenti, sui suoi aspetti permanenti e quelli evolutivi. Waltz rifiuta le teorie del realismo classico come ‘’riduzioniste’’ e propone invece quella che definisce una teoria ‘’sistemica’’. Nel neorealismo, la questione analitica centrale riguarda perciò la struttura del sistema, che è esterna agli attori, e in particolare la distribuzione relativa del potere. Secondo Waltz la struttura agisce come selettore, premiando alcuni comportamenti e punendo altri. La sua è essenzialmente una teoria in cui la struttura condiziona fortemente la politica. Il sistema esercita il suo potere sugli attori politici principalmente in due modi: attraverso la socializzazione e la competizione. Sotto questo importante aspetto, il neorealismo è un esplicito allontanamento dal realismo classico che concentra l'attenzione sulla politica e sull'etica dell'arte di governo. Per Waltz gli stati adottano politiche di potenza e di ricerca della sicurezza, perché la struttura del sistema internazionale li condiziona fortemente a comportarsi così. Dunque, prende le distanze dal ragionamento del realismo classico basato sulla visione della natura umana come ‘’semplicemente malvagia’’, considerate da Waltz argomentazioni ‘’riduzioniste’’. Prendendo nettamente le distanze dal realismo classico e non mostra praticamente alcun interesse per l'etica del governare 4.Realismo strategico (Schelling) Il realismo strategico è esemplificato dal pensiero di Thomas Schelling, il quale non presta molta attenzione agli aspetti normativi del realismo. Il realismo strategico concentra l'attenzione sui processi decisionali della politica estera. Il leader di uno stato non può fare a meno di ragionare strategicamente, ossia strumentalmente. Schelling si propone di fornire strumenti analitici per il pensiero strategico. Egli considera la diplomazia e la politica estera, in particolare quella delle grandi potenze, un’attività razionale-strumentale che può essere compresa più a fondo con l’ausilio di un tipo di analisi logica definito ‘’teoria dei giochi’’. Uno dei principali concetti utilizzati da Schelling è quello di ‘’ minaccia’’, in particolare modo quella di tipo nucleare: la sua analisi riguarda infatti i modi in cui gli statisti possono affrontare razionalmente la minaccia e i pericoli di una guerra nucleare. Bisogna, quindi, chiedersi come usare in modo intelligente la propria forza per indurre l'avversario militare a fare ciò che si vuole, dissuadendolo dal fare ciò che ci può nuocere. Secondo il realismo strategico, ‘’ scegliere tra estremi’’ è sciocco e imprudente a causa dell'alto livello di pericolo che comporta. Schelling identifica e sviscera con grande acume vari meccanismi, stratagemmi e mosse che se attuate dai protagonisti della scena politica possono promuovere la collaborazione ed evitare la catastrofe nucleare. Per Schelling, la politica estera è un'attività razionale e informata, tecnicamente strumentale, e quindi non comporta scelte morali. Il realismo strategico è libero da considerazioni di carattere morale: ciò che conta non è l'eticità di una scelta politica ma la sua possibilità di successo. I valori normativi in gioco nella politica estera sono in gran parte dati per scontati, e ciò differenze in modo sostanziale il realismo strategico dal realismo classico. Uno degli strumenti cruciali della politica estera per una grande potenza è la forza militare. Schelling osserva che c'è una differenza sostanziale fra forza bruta e coercizione: ‘’ la forza bruta ha successo quando viene usata mentre la capacità di colpire è più efficace quando viene tenuta in serbo. È la paura di subire un danno che può indurre qualcuno a cedere’’. Una sua ulteriore considerazione è che per rendere efficace l'uso del loro apparato coercitivo, dobbiamo sapere a che cosa un avversario tiene di più e che cosa lo spaventa di più e dobbiamo anche fargli capire chiaramente che cosa ci indurrà a colpirlo e che cosa invece ci tratterrà dal farlo. Gli attori coinvolti devono essere lucidamente consapevoli dei pericoli (costi) e delle opportunità (benefici) che hanno di fronte. Schelling esprime poi un concetto fondamentalmente realista: affinché la coercizione sia efficace come strumento di politica estera è necessario che i nostri interessi e quelli del nostro avversario non siano totalmente contrapposti. La coercizione richiede che si trovi un terreno di contrattazione. La percezione è un metodo per portare un avversario sul terreno della contrattazione e indurlo a fare ciò che noi vogliamo che faccia senza essere obbligati a costringerlo, e cioè a usare la forza bruta, opzione di solito molto più facile, molto meno efficiente e molto più pericolosa. Ci sono ovviamente analogie fra il realismo di Machiavelli e quello di Schelling. A differenza del primo, tuttavia, il secondo non esplora l'etica della politica estera, limitandosi a presupporre certi obiettivi di fondo: gli aspetti normativi della politica estera e le giustificazioni di una strategia intelligente sono suggeriti implicitamente dalle sue argomentazioni. Schelling parla senza mezzi termini della natura ‘’ sporca’’ ed ‘’estorsiva’’ del realismo strategico, ma non se ne domanda il perché o avanza una giustificazione in merito. Il realismo strategico presuppone valori e comporta implicazioni normative, ma non le esamina né le esplora diversamente dal realismo classico. I valori sono assunti come dati e trattati strutturalmente. Lo scopo fondamentale del comportarsi nel mondo in cui i responsabili della politica dovrebbero comportarsi non è esplorato, chiarito e neppure indicato. Schelling propone un'analisi strategica delle RI, ma non una teoria normativa. Su questo punto si registra una differenza fondamentale fra il realismo classico da una parte e quello contemporaneo dall'altra. I realisti classici sono consapevoli dei fondamentali valori in gioco nella politica mondiale e se ne preoccupano esplicitamente: essi, dunque, forniscono una teoria delle RI al tempo stesso politica ed etica. Viceversa, i realisti contemporanei propongono un'analisi che riguarda essenzialmente le strutture e i processi politici e ignora in larga misura gli scopi politici (valori). 5.Waltz e il concetto di struttura Kenneth Waltz è il più eminente pensatore neorealista contemporaneo, che del realismo classico fa propri alcuni presupposti di fondo, ma si allontana da quei filoni ignorandone le preoccupazioni normative e cercando di mettere a punto una teoria scientifica delle RI. In ‘’Theory of International Politics’’ (1979), Waltz si propone di elaborare una spiegazione scientifica del sistema politico internazionale. Una teoria come quella presentata nell’opera di Waltz può spiegare come certi tipi di esiti tendono a ricorrere nel sistema internazionale. Secondo Waltz, la miglior teoria RI è una teoria sistemica neorealista che concentri l'attenzione sulla struttura del sistema, sulle sue unità interagenti, sui suoi aspetti permanenti e quelli evolutivi. Waltz rifiuta le teorie del realismo classico e del liberalismo come ‘’ riduzioniste’’ e propone invece quella che definisce una teoria ‘’ sistemica’’. Nel neorealismo, la questione analitica centrale riguarda perciò la struttura del sistema, che è esterna agli attori, e in particolare la distribuzione relativa del potere. La struttura agisce come selettore premiando alcuni comportamenti e punendone altri. In questo senso, la teoria di Waltz è affrancata dalla considerazione delle scelte degli attori. Waltz offre un idealtipo delle reazioni degli stati all’anarchia internazionale. Waltz aveva già posto alcune delle basi della sua teoria sistemica nel suo primo libro ‘’Man, the State and War’’. Il contributo centrale del libro è quello di distinguere le teorie delle relazioni internazionali a seconda che cerchino risposte nell'uomo, nella struttura dei singoli stati o nel sistema degli stati. In ‘’Man, the State and War’’, Waltz concede che talvolta potrebbe essere necessario combinare aspetti tratti dei diversi livelli per comprendere accuratamente le relazioni internazionali. pone però chiaramente l'accento sulle teorie che concentrano l'attenzione sugli attributi del livello di sistema. Secondo la teoria neorealista di Waltz, una caratteristica saliente delle relazioni internazionali è la struttura decentrata dell'anarchia degli stati. Sotto tutti i fondamentali aspetti funzionali, le unità statuali sono simili nel senso che svolgono tutti gli stessi compiti fondamentali. L’ unico aspetto sotto il quale differiscono in misura significativa è la capacità di assolvere i propri compiti che varia enormemente da un caso all'altro. Il mutamento a livello internazionale avviene quando le grandi potenze sorgono e decadono e l'equilibrio di potenza si sposta conseguentemente. La teoria strutturale di Waltz non è in grado di predire questi cambiamenti, ma per la teoria il tipico tramite dei cambiamenti è la guerra tra grandi potenze. Gli stati che contribuiscono in misura determinante a provocare cambiamenti nella struttura del sistema internazionale sono le grandi potenze. Waltz introduce una distinzione tra sistemi bipolari e sistemi multipolari. I sistemi bipolari sono più stabili di quelli multipolari ed hanno quindi maggiori garanzie di pace e sicurezza perché le potenze che si fronteggiano difendendo il sistema difendono sé stesse. A differenza del realismo strategico di Schelling, l’approccio neorealista di Waltz può dirci poco sui comportamenti che gli statisti dovrebbero assumere in particolare circostanze. Il neorealismo di Waltz tieni meno di conto dell'arte di governo e della diplomazia. La sua è essenzialmente una teoria in cui la struttura condiziona fortemente la politica. Il sistema esercita il suo potere sugli attori politici principalmente in due modi: attraverso la socializzazione e la competizione. Sotto questo importante aspetto, il neorealismo è un esplicito allontanamento sia dal realismo classico che concentra l'attenzione sulla politica e sull'etica dell'arte di governo sia da Schelling che ipotizza il comportamento razionale dei decisori politici e pone al centro dell'attenzione la scelta strategica. Non è difficile scorgere un riconoscimento della dimensione etica della politica internazionale pressoché identico a quello del realismo classico. I concetti chiave usati da Waltz hanno un aspetto normativo. Egli si serve ad esempio del concetto di sovranità statuale che significa possibilità di decidere; ogni stato è formalmente uguale a tutti gli altri. Nessuno di essi ha il diritto di comandare e nessuno ha l'obbligo di obbedire. Dichiarare che gli Stati sono eguali e l'indipendenza è un diritto equivale a prendere atto della norma di una uguale sovranità statuale. Waltz presuppone inoltre che per gli Stati vale la pena di battersi confermando i valori della sicurezza e della sopravvivenza degli stati. In effetti, Waltz ha bisogno di ipotizzare che gli stati cerchino di sopravvivere. 6.Realismo offensivo di Mearsheimer In un saggio molto dibattuto John Mearsheimer fa propria la tesi neorealista di Waltz e la applica sia al passato sia al futuro. Il neorealismo, per questo autore, è una teoria generale che continua ad avere rilievo quando si tratta di spiegare le relazioni internazionali e che può essere usata per predire il corso della storia internazionale al di là della guerra fredda. Mearsheimer parte del ragionamento di Waltz e in merito alla maggiore stabilità dei sistemi bipolari rispetto a quelli multipolari. Queste due configurazioni sono considerate i principali tipi strutturali di equilibri di potenza che siano possibili tra stati indipendenti. Tre sono le ragioni fondamentali per cui i sistemi bipolari sono più stabili e pacifici di quelli multipolari. In primo luogo, il numero dei conflitti tra grandi potenze è minore. In secondo luogo, è più facile gestire un sistema efficace di deterrenza perché meno numerose sono le grandi potenze coinvolte. Infine, dal momento che nel sistema predominano due sole grandi potenze, il rischio di errori di valutazione di incidenti fortuiti è inferiore. In uno scenario multipolare i rischi di grave crisi e guerre in Europa sarebbero probabilmente destinati a crescere in misura rilevante. Mearsheimer ritiene che la distribuzione e la natura della forza militare siano i fattori che maggiormente determinano il prevalere di condizioni di pace o di guerra. La ‘’ lunga pace’’ tra il 1945 e il 1990 fu il frutto di tre elementi decisivi: il bipolarismo della forza militare in Europa, la sostanziale equivalenza in termini di forza militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica e gli imponenti arsenali di armi nucleari in possesso di ambedue le superpotenze. Il ritiro delle superpotenze dal cuore dell’Europa, che darebbe origine a un sistema multipolare formato da 5 potenze maggiori (Germania, Francia, Gran Bretagna, Federazione russa e forse Italia) e da un numero consistente di potenze minori, sarebbe incline all'instabilità facendo venire meno l'effetto pacificatore che le armi nucleare hanno avuto sulla politica europea. Secondo Mearsheimer, dunque la guerra fredda fu il principale artefice della trasformazione di una regione storicamente violenta, anarchica e instabile in una molto pacifica. L’ Occidente ha interesse a mantenere la pace in Europa e pertanto a mantenere l'ordine della guerra fredda: ogni sviluppo che minaccia di farla finire è pericoloso. Sulla stessa linea di Waltz, Mearsheimer considera il comportamento degli stati come condizionato, quando non determinato, dalla struttura anarchica delle relazioni internazionali. Mearsheimer definisce la teoria di Waltz realismo ‘’offensivo’’, perché quest’ultimo ritiene che una potenza eccessiva, al di là di quello che è necessario per la sicurezza e la sopravvivenza, sia controproducente, perché spinge gli altri stati a ristabilire un equilibrio armandosi e formando alleanze. Mearsheimer conviene con Waltz che l’anarchia costringe Gli Stati a competere tra loro in termini di potere, ma sostiene che si ambiscono all'egemonia sull'intero sistema e che in ultima analisi sono più aggressivi di come li dipinge Waltz. Mearsheimer limita la portata della sua tesi osservando la massima aspirazione di un paese può essere solo quella di diventare egemone nella propria regione del mondo in quanto gli oceani sono barriere formidabili e nessuno stato è così potente da riuscire a neutralizzarle. Tuttavia, chi si ha conquistato una posizione egemone nella propria regione può darsi da fare per prevenire l'emergere di competitore alla pari in altre regioni del globo nel timore che uno di questi, una volta consolidatosi, possa interferire nella propria sfera di influenza e di controllo. A giudizio di Mearsheimer, ogni stato aspira a diventare egemone nella sua regione ecco perché Mearsheimer definisce realismo offensivo la sua teoria, basata sull'assunto che le grandi potenze sono sempre alla caccia di opportunità per acquisire potere a scapito dei loro rivali puntando in ultima analisi all'egemonia. Come altri realisti, Mearsheimer è convinto che il suo ragionamento sia valido sempre e dovunque: la lotta internazionale e il conflitto tra grandi potenze sono inevitabili. -Realismo neoclassico Il realismo neoclassico cerca di combinare le tesi strutturaliste di Waltz con l’interesse del realismo classico per i fattori interni. Il realismo neoclassico attinge al mio realismo quando riconosce l'importanza della struttura del sistema degli stati e del loro potere relativo. Attinge anche al realismo classico sottolineando l'importanza dei fattori interni. Tornando ai tre livelli di analisi di Waltz, il realismo neoclassico e quindi un tentativo di connettere tutti e tre ma ponendo soprattutto l'accento sui livelli nazionale e internazionale. I realisti neoclassici, pertanto, tentano di giungere a una teoria realista che possa rispondere positivamente ad alcuni degli argomenti associati al liberalismo. I suoi sostenitori scelgono una sorta di via di mezzo: la leadership dello Stato produce effetti al tempo stesso la politica estera viene attuata entro l'insieme dei vincoli generali posti dalla struttura anarchica del sistema internazionale. I realisti neoclassici vogliono chiaramente mantenere il discorso strutturale del neorealismo, ma vogliono anche aggiungere il discorso strumentale del ruolo di decisori della politica estera e includere le caratteristiche interne degli stati su cui pone l'accento il realismo classico. I neoclassici sostengono che l'anarchia e il potere relativo degli stati non dettano la politica estera degli statisti. La struttura del sistema internazionale pone i limiti all'azione degli stati ma in ultima istanza non determina le politiche e le azioni dei loro leader. Di fronte all’anarchia, il comportamento dello Stato è condizionato da preferenze interne. In particolare, i realisti neoclassici identificano quattro gruppi di variabili interne: cultura strategica, le immagini e le percezioni dei responsabili della politica estera, le istituzioni interne e i rapporti stato-società. La differenza tra realismo classico e realismo neoclassico sta nell'interesse che se mostrano nei confronti del l'aspetto normativo delle relazioni internazionali. I realisti classici si riservano di giudicare il successo o il fallimento delle leadership sulla base di standard etici. I neoclassici si concentrano invece sulla spiegazione di quanto accade in conseguenza da un lato delle pressioni provenienti dalla struttura del sistema internazionale e dall'altro delle decisioni adottate dagli statisti. Il realismo neoclassico inoltre cerca di spiegare perché, come e a quali condizioni le caratteristiche interne degli stati intervengono fra la definizione da parte dei leader delle minacce internazionali e le effettive politiche diplomatiche, militari ed economiche internazionali che quei leader perseguono. Da una parte, i realisti neoclassici hanno riempito il vuoto lasciato dalle teorie neorealiste e hanno spiegato perché la politica estera ha talvolta devia dalle predizioni di queste teorie. Dall’altra parte, i realisti neoclassici continuano a confrontarsi con il problema di evitare spiegazioni ad hoc e a combinare sistematicamente i fattori strutturali del sistema internazionale con i processi della politica interna e le percezioni dei responsabili della politica estera. Un contributo importante è venuto da Schweller che propone una teoria dell’underbalancing. Il dilemma di Schweller è perché molti stati non riescono a rispondere efficacemente a minacce esterne. Egli sostiene che ciò accade perché i rapporti stato-società condizionano la scelta degli stati se controbilanciare le minacce esterne o invece ‘’ sottobilanciare’’, ossia rinunciare a rispondere adeguatamente alla pericolosa accumulazione di potenza da parte di altri stati. l’underbalancing ha luogo quando nella società sono presenti profonde divisioni dovute a scarsa coesione sociale e/o una frattura in seno all’élite. Perciò, solo quando i rapporti società-stato si adattano al modello neorealista standard dell'attore unitario possiamo aspettarci che le minacce esterni portino a un efficace bilanciamento. Questo genere di analisi è influenzato dagli approcci liberali alle RI, che mettono in risalto l'importanza delle condizioni interne dei paesi e si trova in netto contrasto con tutti gli altri approcci realisti, neorealismo e realismo classico inclusi. 7. In che modo le istituzioni, secondo il liberalismo istituzionale, possono contribuire alla diminuzione della conflittualità tra gli Stati Secondo il liberalismo istituzionale le istituzioni internazionali contribuiscono a promuovere la cooperazione tra gli stati, alleviando così quel clima di sfiducia e paura reciproche che costituisce il problema tradizionalmente associato all’anarchia internazionale. Pur convenendo che le istituzioni internazionali possono rendere la cooperazione più facile e assai più probabile, gli odierni liberali istituzionali non sostengono affatto che se possano di per sé garantire una trasformazione qualitativa delle relazioni internazionali che da una ‘’ giungla’’ le converta in ‘‘zoo’’. In ogni caso, gli organismi internazionali hanno una propria autonoma importanza e possono promuovere la cooperazione fra gli Stati. Un’ istituzione internazionale può essere: un'organizzazione internazionale (es. NATO, UE); un ‘’regime’’ internazionale, ovvero un complesso di regole che governa il comportamento degli stati in settori particolari (es. WTO); istituzioni di natura diversa dalle precedenti, ma di natura più fondamentale quale la sovranità statuale e l'equilibrio di potenza (di cui i liberali istituzionali non si occupano molto). Nel pensiero liberale delle istituzioni, è possibile identificare un'importante evoluzione: negli anni ’70 e ‘80 del secolo scorso la letteratura ha cominciato a focalizzarsi su più generali norme istituzionalizzate della cooperazione internazionale (trasformazione dello studio delle organizzazioni internazionali nello studio dei regimi internazionali). L’ idea centrale era che stati auto-interessati creano regimi internazionali per risolvere problemi di azione collettiva. Se ben congeniati, i regimi hanno il vantaggio di risolvere i problemi del mantenimento degli impegni di creare negoziazioni condotte con l'aspettativa che le parti avranno bisogno di cooperare di nuovo in futuro. I liberali istituzionali affermano che le istituzioni internazionali contribuiscono a promuovere la cooperazione tra gli Stati e per avvalorare questa loro tesi si servono di un approccio scientifico proponendo una misura empirica del livello di istituzionalizzazione dei rapporti tra gli Stati e valutando poi quanto queste istituzioni internazionali hanno contribuito a far progredire una politica di cooperazione. Il livello di istituzionalizzazione può essere misurato secondo due criteri: ampiezza e profondità. L’ ampiezza riguarda il numero di settori in cui sono presenti istituzioni internazionali. Per misurare la profondità del processo di istituzionalizzazione sono stati proposti tre parametri: comunanza (il grado con cui gli stati che fanno parte del sistema condividono le aspettative di comportamenti appropriati e i criteri per interpretare tali comportamenti); specificità (il grado con cui queste aspettative sono esplicitate sotto forma di regole); autonomia (il grado in cui l'istituzione può modificare le proprie regole senza dover aspettare che lo facciano gli agenti esterni). Un modo per determinare con precisione il livello di istituzionalizzazione è scegliere un gruppo di stati tra i quali esista manifestamente un alto livello di istituzionalizzazione in termini sia di ampiezza che di profondità e poi valutare in quali modi e con quali effetti le istituzioni operano. Per esempio, le istituzioni dell’UE hanno svolto un ruolo decisivo nell'Europa occidentale dopo la fine della guerra fredda, fungendo da ammortizzatori che hanno aiutato i paesi interessati ad assorbire le onde d'urto provocate dalla fine della guerra fredda e dalla riunificazione della Germania. La tesi proposta dai liberali istituzionali è che un alto livello di istituzionalizzazione riduce significativamente gli effetti destabilizzanti dell'anarchia multipolare. Le istituzioni: compensano la diffidenza tra di stati, alimentando un flusso di informazioni che contribuisce a ridurre le reciproche paure degli Stati membri; costituiscono un proficuo luogo di confronto e trattative; garantiscono continuità e un senso di stabilità e alimentano uno spirito di cooperazione tra gli Stati che è di reciproco vantaggio; aiutano a creare un clima in cui si sviluppano aspettative di pace durevole. Il pensiero del liberalismo istituzionale può essere così riassunto: le istituzioni internazionali contribuiscono a promuovere la cooperazione tra gli stati, alleviando così quel clima di sfiducia e paura reciproche che costituisce il problema tradizionalmente associato all' anarchia internazionale. Il ruolo positivo delle istituzioni internazionali per il progredire della cooperazione tra gli Stati è tuttora messo in discussione dai realisti. 8.Pax democratica e liberalismo repubblicano. /Si descriva la cosiddetta pace democratica facendo riferimento al liberalismo repubblicano e se ne analizzino le cause. Il liberalismo repubblicano si basa sul presupposto che le democrazie liberali sono più pacifiche e rispettose della legge di qualsiasi altro sistema politico. La tesi, formulata per la prima volta da Immanuel Kant è che le democrazie liberali non si combattono fra loro. La risposta più esauriente al perché le democrazie vivano in pace è stata formulata da Michael Doyle. La sua argomentazione si basa sulla classica interpretazione liberale della riflessione di Immanuel Kant. Tre sono i fattori su cui poggia la convinzione che le democrazie sono restie a farsi la guerra. Il primo fattore è l'esistenza di una cultura politica interna che crede nella risoluzione pacifica delle controversie perché i governi democratici sono controllati dai rispettivi cittadini, i quali non sono favorevoli a guerre con altre democrazie. Il secondo fattore è la presenza nelle democrazie di valori morali comuni che determinano la formazione di un’‘’unione pacifica’’, ovvero una zona di pace basata sui fondamenti morali che accomunano tutte le democrazie. La superiorità morale della risoluzione pacifica, piuttosto che violenta, dei conflitti interni viene trasferita alle relazioni internazionali, mentre la libertà di espressione e di comunicazione promuove la reciproca comprensione a livello internazionale e contribuisce a garantire che gli uomini politici agiscano in conformità alle opinioni dei cittadini. Infine, la pace fra democrazie è rafforzata dalla cooperazione e dall'interdipendenza economica. Nell’ Unione pacifica è possibile incoraggiare il cosiddetto ‘’ spirito del commercio’’, ossia il mutuo e reciproco vantaggio per quanti sono coinvolti nella cooperazione e negli scambi economici internazionali. Fra i differenti filoni del liberalismo, quello repubblicano è quello con i più forti connotati normativi. I liberali repubblicani ritengono che sia loro dovere promuovere la democrazia in tutto il mondo perché così facendo si promuove la pace che è uno dei più fondamentali tra tutti i valori politici. Sebbene la nuova ondata di Sommario a voce di sommario trovata. post guerra fredda rafforzò l'ottimismo liberale, la maggior parte di loro è consapevole della fragilità dei progressi democratici. L’ affermarsi di un'unione pacifica globale che abbracci tutte le democrazie, vecchie e nuove, non è affatto garantito. In realtà, quasi tutte le nuove democrazie mancano almeno due dei tre requisiti per una pace democratica e invece di compiere progressi e se potrebbero addirittura regredire verso regimi autoritari. Riguardo alla prima condizione è evidente che nelle nuove democrazie non si siano ancora formate norme democratiche per la pacifica risoluzione dei conflitti. Riguardo la seconda condizione, è ragionevole sperare che gli Stati dell’Europa orientale vengano incorporati nell'area delle relazioni pacifiche instauratesi fra le democrazie consolidate dell'Occidente. Venendo alla terza e ultima condizione, sebbene alcune nuove democrazie dell'est Europa stiano per essere integrate in queste reti economiche grazie all’ingresso nell'unione europea, i complessi negoziati a proposito hanno dimostrato quali e quante difficoltà comporti una stretta cooperazione economica tra paesi con livelli di sviluppo diversi. Pertanto, l’espansione della ‘’ zona di pace’’ democratica cui hanno dato vita le democrazie occidentali consolidate e tutt'altro che garantita. La maggior parte dei liberali repubblicani sottolinea che la pace democratica è un processo dinamico, la cui costruzione richiede un lungo periodo di tempo e in cui possono verificarsi battute d'arresto o regressioni a forme autoritarie. Anche questa versione dell'argomentazione dei liberali presenta un punto debole: essi debbono ulteriormente esplicitare con maggiore chiarezza i modi in cui la democrazia conduce alla pace e i criteri in base ai quali si possa concludere l'esistenza di una pace democratica. Nello stesso tempo molti studiosi hanno sostenuto che esiste un lato oscuro della relazione fra democrazia e pace. Un ampio corpo di studi ha associato sia il processo di democratizzazione sia la democrazia parziale con un rischio accresciuto di guerra esterna e/o di guerra civile. Un altro pilone hai identificato una relazione curvilinea re dove si allea tuo grazie dichiarate sia le vere democrazie sono relativamente pacifiche all'interno, ma dove le democrazie parziali o i cosiddetti regimi intermedi (anocrazie) sono particolarmente inclini al conflitto. La ragione è che questi regimi consentono l'espressione del dissenso popolare ma sono privi della capacita di affrontarlo efficacemente. Il pensiero dei liberali repubblicani può essere sintetizzato nel modo seguente: le democrazie non scendono in guerra l'una contro l'altra grazie a una cultura politica interna che crede nella risoluzione pacifica dei conflitti, a valori morali condivisi e ai vincoli reciprocamente vantaggiosi connessi alla cooperazione e al l'interdipendenza economiche. Sono questi i tre pilastri su cui si basano le loro pacifiche relazioni. Per queste ragioni è legittimo aspettarsi che un mondo di democrazie liberali consolidate sia un mondo più pacifico. -Liberalismo sociologico Per i liberali sociologici le RI riguardano non solo le relazioni stato-stato, ma anche quelle transnazionali, ossia tra persone, gruppi e organizzazioni appartenenti a paesi diversi. Per i liberali sociologici, le relazioni transnazionali vanno acquisendo un peso crescente nelle relazioni internazionali. Concentrando l’attenzione sulle relazioni transnazionali, i liberali sociologici ritornano all'idea che le relazioni tra le persone siano più cooperative e intrinsecamente pacifiche di quelle tra governi nazionali. Negli anni ’50 Karl Deutsch cercò di misurare l'entità delle comunicazioni e delle transazioni tra società. Secondo Deutsch, un alto livello di legami transnazionali tra società determina un consolidamento di relazioni pacifiche che rappresenta qualcosa di più della semplice assenza di guerra, fa nascere una comunità di sicurezza. La comunità di sicurezza è un gruppo di stati talmente integrato che può esistere la garanzia reale che i membri di quella comunità non combatteranno tra di loro fisicamente, ma risolveranno le loro controversie in un altro modo. Gli Stati che convivono in una comunità di sicurezza hanno creato non solo un ordine stabile ma, in realtà, una pace stabile. Tra le condizioni che promuovono l'emergere di comunità di sicurezza, egli indica le seguenti: accresciute comunicazioni sociali, maggiore mobilità degli individui, legami economici più forti e una più ampia gamma di reciproche transazioni umane. Molti liberali sociologici condividono l'idea che le relazioni transnazionali tra individui di paesi differenti contribuiscano a creare nuove forme di società umana che coesistono o addirittura possono entrare in competizione con lo stato-nazione. John Burton propone un ‘’modello a ragnatela’’ di relazioni transnazionali, con l'intento di dimostrare che ogni stato-nazione consiste di molti gruppi differenti di individui con differenti tipi di legami esterni e di interessi. La sovrapposizione delle appartenenze di gruppo minimizza il rischio di conflitto grave tra due gruppi qualsiasi. Secondo i liberali sociologici disegnando una mappa delle modalità di comunicazione e di transazione tra i vari gruppi si ottiene un'immagine del mondo più aderente al vero, in quanto idonea a rappresentare le effettive modalità di comportamento umano piuttosto che artificiali confini di stati. Oltre che sulle relazioni transnazionali a livello macro delle popolazioni umane, Rosenau concentra l'attenzione su quelle intessuti a livello micro dagli individui. A suo giudizio, le transazioni individuali esercitano ripercussioni importanti sulle questioni globali. In primo luogo, gli individui hanno enormemente ampliato le loro attività grazie ai più elevati livelli di istruzione, all'accesso ai mezzi di comunicazione elettronici e ai viaggi all'estero. In secondo luogo, in un mondo sempre più complesso la capacità degli stati di esercitare un'efficace attività di controllo e regolamentazione sta diminuendo. Quello odierno e quindi un mondo di individui più informati e più mobili, assai meno legati che in passato ai loro stati. È quindi in atto una profonda trasformazione del sistema internazionale: il sistema anarchico basato sulla centralità dello Stato non è scomparso, ma al suo interno sta emergendo un nuovo ‘’ mondo multicentrico composto di collettività libere dalla sovranità, che esiste autonomamente e in competizione col mondo stato-centri co di attori vincolati dalla sovranità’’. Egli sostiene dunque la tesi liberale che un mondo sempre più pluralista, caratterizzato da reti transnazionali di individui e gruppi sarà necessariamente più pacifico. Solo in rare circostanze i conflitti sfoceranno nell'uso della forza grazie alla crescita numerica dei nuovi individui cosmopoliti che fanno parte di molti gruppi parzialmente dovrà posti e che difficilmente saranno disposte a lasciarsi irreggimentare in schieramenti contrapposti. Le tesi del liberalismo sociologico possono essere sintetizzate nel modo seguente. Le RI costituiscono un terreno di studio dove ci si occupa non solo delle relazioni tra governi nazionali, ma anche di quelle tra singoli individui, gruppi e società. Le relazioni tra gruppi di individui indipendenti e parzialmente sovrapposti sono necessariamente più cooperative di quelle tra stati, perché questi ultimi sono entità chiuse, i cui interessi, secondo il liberalismo sociologico, non si sovrappongono né si incrociano. Pertanto, un mondo con un gran numero di reti transnazionali non può che essere più pacifico. -Liberalismo dell’interdipendenza I liberali dell'interdipendenza si concentrano sugli enti sovranazionali. La teorizzazione dell'interdipendenza appartiene chiaramente la tradizione liberale, ma a causa della sua attenzione modo in cui i fattori economici influenzano le relazioni politiche, può anche essere vista come parte delle prospettive EPI. Richard Rosecrance ha analizzato gli effetti della maggiore interdipendenza sulle politiche degli stati. Per i paesi altamente industrializzati gli strumenti più adeguati e meno costosi per acquisire peso politico e prosperità sono lo sviluppo economico e il commercio estero. La ragione principale, secondo Rosecrance, va ricercata nel cambiamento del carattere e delle basi della produzione economica: nel mondo di oggi le chiavi del successo sono rappresentate da forza lavoro qualificata, accesso all'informazione e capitale finanziario e non più il possesso di territorio e di ingenti risorse naturali. Secondo Rosecrance, alla fine della guerra fredda le grandi potenze si stanno sempre più orientando verso l'opzione ‘’ stato commerciante’’. Questi liberali sostengono che un alto livello di divisione del lavoro nell'economia internazionale accresce l'interdipendenza tra gli Stati e che ciò scoraggia e riduce i conflitti violenti tra di essi. Lo scenario in cui gli Stati moderni ritornino a una politica di riarmo e di contrapposizioni violente non appare affatto probabile. È nei paesi meno sviluppati che oggi scoppiano le guerre perché, secondo Rosecrance, a bassi i livelli di sviluppo economico la terra continua a essere il fattore di produzione dominante. Durante la Seconda guerra mondiale, David Mitrany propose una teoria funzionalista dell'integrazione secondo la quale una maggiore interdipendenza, sotto forma di legami transnazionali tra i paesi, dovrebbe condurre alla pace. Secondo Mitrany, tale cooperazione dovrebbe essere gestita non dai politici, bensì da esperti, ossia da persone tecnicamente preparate capaci di escogitare soluzioni adeguate per i problemi più ricorrenti in varie aree funzionali. Quando dall'efficiente collaborazione tecnica ed economica nelle organizzazioni internazionali scaturirà un miglioramento generale delle condizioni di vita, i cittadini trasferiranno la loro lealtà dallo stato alle organizzazioni internazionali. In questo modo, l’interdipendenza economica condurrà all' integrazione politica e alla pace. A Ernst Haas si deve una cosiddetta teoria neofunzionalista dell’integrazione internazionale, ispirata dall’intensificazione della cooperazione tra i paesi dell’Europa occidentale che ebbe inizio negli anni Cinquanta. Haas rifiuta l’idea che le questioni ‘’tecniche’’ possano essere separate dalla politica. Per promuovere l'integrazione è necessario indurre le élite politiche, intrinsecamente interessate al proprio tornaconto, hai intensificare i rapporti di cooperazione. L’ integrazione è un processo grazie al quale gli attori politici si convincono a trasferire la loro lealtà verso un nuovo centro le cui istituzioni posseggono o esigono giurisdizione sui preesistenti stati nazionali. Tuttavia, quando nella seconda metà degli anni 60 la politica di cooperazione tra i paesi dell’Europa occidentale entrò in una lunga fase di ristagno, i teorici dell'integrazione furono costretti a rivedere le loro teorie. Haas, per esempio, si convinse della necessità di subordinare la teoria dell'integrazione regionale a una teoria generale dell'interdipendenza. Fu appunto alla formulazione di una teoria generale dell'interdipendenza che si tentò di giungere nella fase successiva del pensiero liberale. Un tentativo di elaborare una teoria generale dell'interdipendenza complessa fu compiuto verso la fine degli anni ‘70 da Robert Keohane e Joseph Nye Jr. Essi sostengono che l'interdipendenza complessa del dopoguerra è qualitativamente diversa da precedenti e più semplici tipi di interdipendenza. In precedenza, l’alta politica della sicurezza e della sopravvivenza aveva la priorità rispetto alla bassa politica dell'economia e delle questioni sociali. In situazioni di interdipendenza complessa le cose non stanno più così per due ragioni. In primo luogo, le odierne relazioni tra gli Stati non sono solo relazioni tra capi di Stato; esistono relazioni a molti livelli differenti, gestite da un gran numero di esponenti e di funzionari dei vari governi. In secondo luogo, numerose relazioni transnazionali sono portati avanti da individui e gruppi al di fuori dei canali statuali. A ciò si aggiunge che la forza militare intesa come strumento della politica perde buona parte della sua utilità. Di conseguenza, le relazioni internazionali stanno diventando sempre più simili alla politica interno. Inoltre, vanno acquisendo sempre maggiore importanza risorse differenti dagli arsenali bellici disponibili. Infine, Gli Stati debbono occuparsi sempre di più della bassa politica e sempre di meno dell'alta politica. L’ interdipendenza complessa implica chiaramente relazioni molto più amichevoli e cooperative tra gli Stati a causa della crescente frammentazione e diffusione del potere negli affari economici, derivante dalla crescente interconnessione delle economie nazionali. Secondo Keohane e Nye da ciò derivano numerose conseguenze. In primo luogo, Gli Stati perseguono simultaneamente obiettivi differenti e altrettanto fanno gli attori transnazionali, come le ONG e le società multinazionali. In secondo luogo, la posizione di preminenza di uno stato riguarda perlopiù settori specifici. In terzo luogo, l'importanza delle organizzazioni internazionali è destinata a crescere: sono le arene politiche dove gli Stati deboli possono far sentire la propria voce, stimolando la formazione di coalizioni e sovrintendendo alla messa appunto delle agende internazionali. Per quanto riguarda la dimensione temporale, l'interdipendenza complessa appare correlata con la modernizzazione sociale, ossia con lo sviluppo a lungo termine dello Stato del benessere. Per quanto riguarda invece la dimensione spaziale, si riscontra soprattutto nei paesi industrializzati e pluralisti, in quanto l'importanza dell'interdipendenza complessa cresce parallelamente all'evolversi della modernizzazione. Keohane e Nye si preoccupano però di sottolineare che il realismo non è né rilevante né obsoleto poiché anche il mondo dei paesi industriali dell'occidente è tuttora un mondo di stati. Per i realisti, qualsiasi problema può diventare una questione di vita o di morte in un mondo anarchico. I liberali dell'interdipendenza replicano che questa visione è troppo semplicistica e che molti dei problemi che compaiono sull'agenda internazionale sono importanti questioni della vita di tutti i giorni. Il liberalismo dell'interdipendenza può essere compendiato nel modo seguente: la modernizzazione accresce il livello e l'ampiezza dell'interdipendenza tra gli Stati. In una situazione di interdipendenza complessa, cresce l'importanza degli attori transnazionali, la forza militare è uno strumento sempre meno utile e il benessere, piuttosto che la sicurezza, sta diventando l'obiettivo e l'interesse prioritario degli stati. Tutto ciò significa che le relazioni internazionali stanno diventando sempre più cooperative. -LE CRITICHE NEOREALISTE AL LIBERALISMO Il principale antagonista del liberalismo è il neorealismo. Il primo grande dibattito nelle RI ha diviso lo schieramento liberale in due gruppi: i liberali deboli che si sono avvicinati allo schieramento realista e illiberale forti che continuano a farsi portavoce di una visione più marcatamente liberale della politica mondiale. La natura umana, uno dei principali punti di dissenso nei precedenti dibattiti, non è più il tema centrale della discussione per due ordini di ragioni. Anzitutto, sia trai neorealisti sia fra i liberali è cresciuta la consapevolezza che la natura umana è altamente complessa; la tensione deve essere spostata verso il contesto sociale e politico per spiegare i moventi del comportamento degli esseri umani, portati al bene quanto al male. La seconda ragione è legata all'influenza esercitata dal movimento behaviorista nelle scienze politiche, che indusse un numero crescente di studiosi a concentrare l'attenzione sull'analisi dei fatti osservabili e dei dati misurabili nel mondo esterno, cioè sulle modalità del comportamento umano. I realisti classici hanno una concezione non progressiva della storia: Gli Stati rimangono stati immersi in un immutabile sistema anarchico che li induce al self-help e a salvaguardare la propria sicurezza dalla minaccia di potenziali nemici armandosi. La sicurezza di uno stato è sinonimo di insicurezza per un altro. Il risultato finale può essere una corsa al riarmo destinata a sfociare in una guerra. Per i liberali la storia è almeno potenzialmente progressiva e basata su quattro presupposti. Ma i neorealisti fanno notare che tali presupposti liberali esistono da lunghissimo tempo non sono mai riuscite a impedire lo scoppio di violenti conflitti fra gli Stati. I neorealisti hanno anche da ridire sul ruolo che i liberali attribuiscono alle istituzioni internazionali. La cooperazione che gli Stati praticano attraverso tali istituzioni è frutto unicamente di loro decisioni dettate da specifici interessi. Le istituzioni contano ben poco e se talvolta esercitano un effetto indipendente sulle relazioni internazionali e probabile che questo accada nelle aree della bassa politica e non dell'alta politica. Infine, i neorealisti criticano il liberalismo repubblicano, sottolineando che esiste sempre la possibilità che uno stato liberale o democratico regredisca all'autoritarismo o a qualche altra forma di governo non democratica. C’è dunque un filo rosso che attraversa le critiche dei realisti ai vari filoni del liberalismo: la persistenza dell'anarchia e l'insicurezza che essa genera. Neppure le democrazie liberali possono trascendere l'anarchia che non può essere rimossa: finché questa prevale non c'è modo di sfuggire al self-help e al di là Imma della sicurezza. La ritirata sulla linea del liberalismo debole A queste obiezioni neorealiste, i liberali hanno reagito in due modi differenti. Un gruppo adottato una strategia difensiva accettando parecchie delle argomentazioni realiste, compresa quella sostanziale della persistenza dell'anarchia. Si tratta del gruppo dei liberali deboli. Mentre i liberali forti ribadiscono che nel mondo si stanno verificando dei cambiamenti fondamentali in linea con le aspettative dei liberali. Il pensiero di Robert Keohane, uno degli studiosi protagonisti del dibattito tra liberali e neorealisti, costituisce un esempio di come un liberale può ritoccare la propria visione in modo da tener conto delle critiche realiste. Nel suo primo lavoro con Joseph Nye Jr, inquadrabile nel filone del liberalismo sociologico, l'autore traccia un'importante distinzione tra un paradigma stato-centrico e un paradigma di politica mondiale: il primo concentrare la tensione sulle interazioni interstatuali, il secondo sulle interazioni transnazionali, nelle quali attori diversi dai governi svolgono un ruolo significativo. 9. Quali sono le origini storiche e gli assunti principali del filone del mercantilismo Questa teoria è intimamente connessa con l’instaurazione del moderno stato sovrano nel corso de XVI e del XVII secolo. Il mercantilismo esprime la visione del mondo delle élites politiche protagoniste della costruzione dello stato moderno. Il punto centrale del loro approccio è che l’economia costituisce uno strumento della politica, un pilastro del potere politico. L’economia internazionale è concepita come un terreno di scontro tra opposti interessi nazionali. Secondo il mercantilismo, la ricchezza materiale accumulata da uno stato può essere usata per rafforzare un potere politico-militare utilizzabile contro altri stati. La rivalità economica tra gli Stati può assumere due forme differenti: mercantilismo difensivo o benigno: 1) gli stati badano ai loro interessi economici nazionali perché tale politica è un ingrediente importante della loro sicurezza nazionale; 2) mercantilismo aggressivo o riprovevole: gli stati tentano di sfruttare l'economia internazionale attraverso politiche espansionistiche (es. imperialismo delle potenze coloniali europee in Africa e in Asia). Per i mercantilisti, forza economica e potere politico-militare sono obiettivi complementari che si alimentano reciprocamente in un circolo virtuoso. Il perseguimento della forza economica supporta lo sviluppo del potere militare e politico dello stato, il quale esercita un’azione di controllo e di guida sugli interessi economici privati. I mercantilisti contestano alla radice il pensiero liberale: accrescere la ricchezza nazionale e rafforzare il potere politico-militare sono strategie complementari utili per il medesimo scopo fondamentale, ovvero il rafforzamento dello stato. La dipendenza economica dagli altri stati deve essere più possibile evitata. Quando si manifesta un conflitto fra interessi economici e interessi di sicurezza, la priorità spetta a questi ultimi. Di solito, ricchezza e potere possono essere perseguiti contemporaneamente con reciproco vantaggio. I mercantilisti sostengono che l’economia deve essere subordinata alla finalità primaria di accrescere il potere dello stato. Il contenuto concreto delle politiche raccomandate per raggiungere tale scopo è cambiato nel tempo. Al mercantilismo si sono ispirati alcuni eminenti politici ed economisti. Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, era un fervente sostenitore del mercantilismo inteso come un insieme di politiche protezionistiche mirante a promuovere lo sviluppo dell'industria negli Stati Uniti. I più recenti pensatori mercantilisti focalizzano l'attenzione sui successi conseguiti in termini sviluppo da alcuni stati dell'est asiatico: Giappone, Corea del Sud e Taiwan. Essi sottolineano che il successo economico è sempre stato accompagnato dall'assunzione, da parte dello stato, di un forte ruolo di guida nella promozione dello sviluppo economico. -IL liberalismo economico Il liberalismo economico nacque come critica al mercantilismo. I liberali economici contestavano la totale subordinazione dell'economia alla politica. Essi ritengono che la creazione di un mondo moderno sia una conseguenza di fattori interni al mercato. Adam Smith sosteneva che i mercati tendono spontaneamente a espandersi in modo da garantire il soddisfacimento dei bisogni umani. Al corpo delle idee liberali egli aggiunge il concetto chiave del mercato quale principale fonte di progresso, cooperazione e prosperità. Ogni interferenza politica o regolamentazione imposta dallo stato è invece diseconomica, regressiva e potenzialmente foriera di conflitti. L’economia liberale è stata definita una dottrina e un complesso di principi per organizzare e gestire la crescita economica e il benessere individuale. Il concetto su cui essa si basa è che, se lasciata a sé stessa, l'economia di mercato funziona spontaneamente in conformità a proprio meccanismi o leggi, considerate un aspetto intrinseco del processo della produzione e dello scambio. Secondo Paul Samuelson, in un'economia mondiale basata sul libero commercio tutti i paesi beneficeranno della specializzazione produttiva per la quale possiedono un vantaggio comparato (la maggiore efficienza relativa), e la ricchezza globale aumenterà. Nella gestione degli affari economici il vero protagonista è l'individuo, in quanto consumatore e in quanto produttore. Il mercato è il terreno aperto dove gli individui si incontrano per scambiare beni e servizi. L’individuo si comporta in modo razionale nel perseguimento dei loro interessi economici e del proprio guadagno. Lo scambio attraverso il mercato è un gioco a somma positiva: grazie all'aumento dell'efficienza, ciascuno guadagna quanto punta. Secondo i liberali economici si può partire da questa concezione degli individui come essere razionali ed egoisti per comprendere anche la politica (teoria delle scelte razionali). La strada verso la prosperità umana passa attraverso l'espansione dell'economia di mercato, ossia del capitalismo, a livello internazionale. Tra i liberali economici ferve però un dibattito incessante sulla misura in cui le interferenze politiche da parte dei governi possono essere necessarie. Agli inizi tutti esaltavano il lasseiz-faire. Lasseiz-faire significa che lo stato deve limitarsi a predisporre quei paletti minimali che sono necessari affinché il mercato possa funzionare correttamente. Questa è la visione classica del liberalismo economico, attualmente ripresentata con la denominazione di conservatorismo o neoliberalismo. Alcuni liberali economici auspicano un più elevato grado di interferenza dello stato nel mercato. Per prevenire o per porre rimedio ai casi in cui il mercato funziona in modo difforme dalle aspettative di efficienza e di mutuo guadagno (ex. fallimenti del mercato) possono essere necessarie misure politiche di regolamentazione. John Stuart Mill era un liberale fautore della lasseiz-faire, ma al contempo esprimeva l'auspicio che lo stato intervenisse, seppure in misura limitata, sulle condizioni di estrema disuguaglianza in termini di reddito, ricchezza e potere che scorgeva intorno a sé nella Gran Bretagna del XIX secolo (ex. in settori quali istruzione, aiuti ai più bisognosi). Nel Novecento, Keynes era favorevole all'idea di un mercato saggiamente gestito dallo stato: per migliorare gli aspetti negativi del mercato (che si presentano sotto forma di rischio, incertezza e ignoranza) si rende necessaria una più lungimirante gestione politica del mercato. Questa concezione positiva del ruolo dello stato segna un radicale cambiamento di rotta nella dottrina economica liberale. Le idee keynesiane spianano la strada a una teoria liberale significativamente riformata con un grado considerevole di interferenza e controllo da parte dello stato. Dopo il successo nei due decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, negli anni ’80 il pendolo tornò a spostarsi verso il liberalismo classico del lasseiz-faire nella convinzione che la globalizzazione economica avrebbe significato prosperità per tutti. In breve, i liberali economici affermano che l'economia di mercato è una sfera autonoma della società, che funziona secondo proprie leggi. Nel corso del tempo, la parte moderna dell'economia tende a ridurre l'importanza dei settori arretrati con l'effetto di aumentare l'efficienza e quindi la ricchezza. Lo scambio economico è un gioco a somma maggiore di zero, e il mercato tende spontaneamente a massimizzare i benefici per gli individui razionali ed egoisti, per le famiglie e per le società che vi operano. L'economia è una sfera di attività dove stati e individui cooperano a reciproco vantaggio. L’economia internazionale dovrebbe quindi essere basata sul libero scambio. Secondo i liberali economici classici, lo stato non deve intromettersi nel funzionamento del mercato, a livello sia internazionale sia nazionale. Tuttavia, nel XX secolo c’è stato un cambio di direzione. 10. Marxismo. / Si descrivano i tratti principali delle teorie marxiste dell’EPI Il pensiero di Karl Marx in merito all’economica politica rappresenta sotto molti aspetti una critica radicale del liberalismo economico. Marx respinge la visione liberale ottimistica indica nell'economia un terreno di sfruttamento umano e di disuguaglianza di classe (borghesia e proletariato). Secondo Marx, politica ed economia sono strettamente collegate e il primato è assegnato alla seconda dimensione. L’ economia capitalista si basa su due classi sociali antagoniste: la borghesia, che possiede i mezzi di produzione e il proletariato che possiede la forza lavoro che vende sul mercato. Il proletariato fornisce, in termini di lavoro, più di quanto riceve indietro come retribuzione; di questo plusvalore si appropria la borghesia. Il profitto del capitalista scaturisca dallo sfruttamento del lavoro. Quella marxista è una concezione materialistica nel senso che si basa sull'idea che, in qualsiasi società, l'attività fondamentale riguarda il modo in cui esseri umani producono i loro mezzi di sussistenza. La produzione economica è la base di tutte le altre attività umane comprese la politica. La borghesia, che governa l'economia capitalista attraverso il controllo dei mezzi di produzione, tende a governare anche la sfera politica dal momento che l'economia sta alla base della politica. Sulla base dell'analisi marxista della politica interna è stata costruita una teoria dell’EPI. Gli stati non sono attori autonomi, ma sono guidati dagli interessi delle rispettive classi dominanti. Le lotte tra gli stati, comprese le guerre, devono pertanto essere interpretate nel contesto economico della concorrenza tra le classi capitalistiche dei differenti stati. In secondo luogo, in quanto sistema economico, il capitalismo è un sistema espansivo, incessantemente proiettato alla ricerca di nuovi mercati e di maggiori profitti. Poiché le classi sono trasversali rispetto agli stati, la lotta di classe si è espansa attorno al mondo prima sotto forma di imperialismo e di colonizzazione, oggi come globalizzazione economica guidata da società multinazionali. Per i marxisti, la storia dell’EPI è dunque la storia dell'espansione capitalistica sull'intero globo. Lenin analizzò questo processo, giungendo alla conclusione che l'espansione capitalistica non può che creare disuguaglianza tra paesi. Secondo l’autore, nel regime capitalistico disuguaglianze e conflitti per la ridefinizione delle sfere d'influenza internazionali sono destinate a insorgere continuamente. La nozione di sviluppo diseguale segnala l'esigenza di un'analisi storica dell'espansione capitalista. Gli avvenimenti debbono sempre essere analizzati all'interno del loro specifico contesto storico. Le tesi che stanno alla base del pensiero marxista possono essere compendiate nel modo seguente. L’ economia è un terreno di sfruttamento e di diseguaglianza tra le classi sociali (borghesia e proletariato). La politica è in larga misura determinata dal contesto socioeconomico e la classe economica dominante e dominante anche sul piano politico (borghesia= classe dirigente delle economie capitalistiche). Lo sviluppo capitalistico globale e disomogeneo e destinato a provocare crisi e contraddizioni, sia fra gli Stati sia fra le classi sociali. Le teorie marxiste dell’EPI si occupano dunque della storia dell'espansione capitalistica globale, delle lotte tra classi estati alle quali essa ha dato origine nelle diverse regioni del mondo, e delle modalità di una possibile trasformazione rivoluzionaria. Robert Cox: Cox teorizza una complessa interazione tra politica ed economia partendo dal concetto di strutture storiche, definite come una particolare configurazione di forze che interagiscono e che sono di tre tipi: capacità materiali, idee e istituzioni. Le strutture storiche sono identificate a tre livelli differenti, denominati: forze sociali ( è un altro modo di indicare il processo di produzione capitalistico); forme di stato (indica i modi in cui gli Stati cambiano per effetto dell'interazione con le forze sociali dello sviluppo capitalistico); ordine mondiale (fa riferimento all'attuale organizzazione delle relazioni internazionali, allo status del diritto internazionale e alle istituzioni internazionali). Il compito dello studioso è scoprire come si svolgono le relazioni tra politica ed economia nell'attuale fase della storia umana. Per quanto riguarda le forze sociali del capitalismo, esse sono coinvolte nell’intenso processo di globalizzazione economica, nel duplice aspetto di internazionalizzazione della produzione e dei movimenti migratori dal sud al nord del mondo. La globalizzazione è alimentata dalle forze di mercato, ma Cox prevede che i nuovi movimenti sociali che la contestano acquisiranno via via sempre più forze. In merito alle forme di stato si registrano cambiamenti dovuti ai differenti modi in cui gli Stati partecipano all'economia politica globale. Gli stati competono per assicurarsi posizioni di vantaggio partendo dal presupposto che l'integrazione nell'economia globale sia inevitabile. Al contempo, cresce l'importanza delle grandi società multinazionali e delle ONG. Infine, per quanto concerne l'ordine mondiale, la tendenza a lungo termine sarà quella di una progressiva erosione dell'attuale posizione di predominio globale degli Stati Uniti. Immanuel Wallerstein: Un altro recente approccio neomarxista è quello di Wallerstein che adotta come punto di partenza il concetto di sistema-mondo. I sistemi-mondo sono aree unificate, caratterizzate da strutture economiche e politiche particolari. Economia e politica sono strettamente collegate: un sistema-mondo è definito da una peculiare struttura economica e da una peculiare struttura politica, ciascuna dipendente dall’altra. Nella storia umana sono esistiti due tipi fondamentali di sistema mondo: 1) gli imperi-mondo (es. antico impero di Roma), nei quali il controllo politico ed economico è concentrato in un unico centro; 2) le economie-mondo, che sono unificate economicamente da un’unica divisione del lavoro, mentre l’autorità politica è decentrata in una molteplicità di forme di governo, in un sistema di stati. L’economia- mondo capitalistica, al centro dell’analisi di Wallerstein, nacque e si consolidò durante il lungo XVI secolo per poi espandersi in altre zone del mondo. All’interno della divisione internazionale del lavoro si verificò un processo di specializzazione. L’ economia-mondo capitalistica si articola in una gerarchia di: -aree centrali (contengono le attività economiche più avanzate e complesse, gestite da una borghesia locale); -aree periferiche (situati in fondo alla struttura gerarchica, producono merci di base, spesso sfruttando schiavi o manodopera coatta, la scarsa attività industriale esistente è perlopiù controllata dai capitalisti dei paesi centrali); -aree semiperiferiche (costituiscono, economicamente, una via di mezzo, nel senso che si collocano a metà strada tra lo strato superiore dei paesi centrali e quelle inferiori dei paesi periferici). Un meccanismo fondamentale dell'economia-mondo capitalistica è quello dello scambio diseguale che consente trasferimento di plusvalore dalla periferia al centro. Gli effetti del meccanismo di trasferimento sono ulteriormente accentuati dalla forza degli apparati statuali del centro e dalla debolezza di quelli della periferia. In tal modo, il capitalismo comporta anche l'appropriazione da parte dei paesi del centro del plusvalore prodotto dall'intera economia-mondo. La semiperiferia svolge una funzione importante perché costituisce un fattore di stabilità politica, funge da ammortizzatore. Wallerstein e altri neomarxisti qui si distaccano dal marxismo classico. La tesi della teoria del sistema-mondo è che il capitalismo frena lo sviluppo. Wallerstein sottolinea che il sistema capitalistico in quanto tale non cambia: esso era ed è una gerarchia comprendente un centro, una semiperiferia e una periferia, caratterizzata dallo scambio diseguale. Wallerstein interpreta la fine della guerra fredda e la disgregazione blocco sovietico come una conseguenza dello sviluppo dell'economia-mondo capitalistica. Tuttavia, la prospettiva a lungo termine rimane il crollo del sistema capitalistico, a causa della continua è necessario ricerca di espansioni che porterà crisi sempre più frequenti ed intense a causa delle risorse limitate. Nel lungo termine la trasformazione del capitalismo è inevitabile. 11.Teoria della stabilità egemonica La teoria della stabilità egemonica è stata proposta per la prima volta da Charles Kindleberger, è stata sviluppata da Robert Gilpin ed è stata influenzata da diversi dibattiti recenti. L'esistenza di una potenza militarmente ed economicamente egemone è il presupposto necessario per la creazione e il pieno sviluppo a livello globale di un'economia di mercato liberale perché senza di essa è impossibile imporre l'adozione di norme liberali in tutto il mondo. È questa, nella sua versione più schematica, la teoria della stabilità egemonica che si rifà alla concezione mercantilista secondo cui la politica deve farsi carico dell'economia. La teoria accoglie anche un importante elemento liberale, cioè l'estensione dell'economia di mercato. In realtà, affinché un ordine economico liberale possa nascere e consolidarsi a livello mondiale, bisogna che la potenza egemonica sia anche disposto ad assumere il ruolo egemonico e che si impegni convintamente a sostenere un ordine mondiale di tipo liberale sia nelle fasi di espansione sia nelle fasi di recessione dell'economia mondiale. Uno stato dominante ha bisogno di un certo numero di differenti risorse di potere per svolgere il ruolo di Stato egemone. In aggiunta alla potenza militare, secondo Keohane (teorico liberale), è necessario il controllo su quattro tipi di risorse economiche mondiali: materie prime, capitali, mercati e vantaggio competitivo nella produzione di merci di valore molto elevato. Secondo la teoria della stabilità egemonica, la necessità che esista uno stato egemone ha a che fare con la natura dei beni che esso fornisce. Un'economia liberale su scala mondiale appartiene alla categoria dei cosiddetti beni pubblici o collettivi, categoria nella quale rientrano bene i servizi che una volta forniti creano vantaggi per tutti. Una caratteristica dei beni pubblici è la non-escludibilità: a nessuno può essere negato il diritto di accedervi. (Un esempio di bene pubblico a livello internazionale è: stabilità delle monete, sicurezza, pace). I problemi con i beni pubblici sono la disponibilità insufficiente e ciò che gli economisti chiamano free riding, e cioè la possibilità di usarli senza pagarli. I beni pubblici esistenti sono un invito al free riding. Dunque, un diffuso free riding può comportare l’impossibilità di produrre i beni pubblici essenziali in quantità sufficiente. È qui che entra in gioco il paese egemone: occorre una potenza dominante che garantisca la disponibilità di quei beni e che si occupi dei problemi creati dai free riders, per esempio penalizzandoli. Per formulare la teoria della stabilità egemonica, Kindleberg ha usato uno studio della grande depressione tra le due guerre e ha identificato un'impressionante coincidenza tra egemonia liberale negli affari internazionali e stabilità economica. Due sono i più importanti esempi storici di egemonie liberali: la Gran Bretagna nel periodo dalla fine delle guerre napoleoniche alla Prima guerra mondiale (1815-1014) e gli Stati Uniti dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La Gran Bretagna, come potenza commerciale globale e imperiale, aveva un profondo interesse a mantenere un'economia mondiale aperta basata sul libero scambio. Dopo la Seconda guerra mondiale, Gli Stati Uniti presero l'iniziativa di creare il sistema di Bretton Woods, un nuovo insieme di istituzioni di accordi sulla stabilità finanziaria. Quando negli anni 70 la bilancia commerciale americana cominciò ad andare il rosso, Gli Stati Uniti adottarono politiche più orientate agli interessi nazionali, introducendo misure protezionistiche e cominciando così a comportarsi da egemone predatore. Si apre così una nuova era caratterizzato da crescente protezionismo, instabilità monetaria e crisi economica. Questi sviluppi hanno posto la questione se sia concepibile una governance funzionante quando lo stato dominante non adempie al suo ruolo di leader egemonico o non esiste nessun stato in grado di assumersi la responsabilità di egemone. Su questo punto, nei dibattiti sull'EPI si sono scontrati negli anni '70/'80 realisti (ex. Gilpin) e liberali (ex. Keohane). Come ha notato Keohane (1984) in After Egemony, la logica dell'azione collettiva e la cooperazione nell'ambito dei regimi internazionali possono essere realizzate anche in assenza di un potere egemonico (ex. un gruppo di stati può fornire un bene pubblico altrettanto efficacemente quando esistono interessi comuni). Una volta che siano create le necessarie istituzioni internazionali, queste hanno una propria persistenza, operano indipendentemente dagli stati e sono in grado di promuovere la cooperazione anche in presenza di un declino egemonico. Il dibattito sui regimi è stato al centro dell'EPI negli anni '80 del secolo scorso. After Egemony di Keohane era una risposta al vuoto di controllo (control gap) creato dalla crescente interdipendenza e dall'indebolimento della potenza USA. Il vuoto avrebbe potuto essere colmato con la creazione e il mantenimento di regimi, ossia intese implicite o esplicite sulle regole del gioco in grado di contribuire e mantenere forme di cooperazione reciprocamente vantaggiose (Cohen 2008). I regimi contribuiscono a risolvere il problema che sorge in quanto spesso la cooperazione viene a mancare anche se cooperare è nell'interesse della maggioranza degli stati (Keohane 1984) → relazioni internazionali anarchiche ≠ relazioni internazionali caotiche. Sia i realisti sia i liberali all'interno dell'EPI hanno visto l’accresciuta cooperazione internazionale come naturale nel periodo 1945-70: i realisti a causa dell’egemonia americana, i liberali grazie alla più stretta interdipendenza. I regimi favorivano la variabile intermedia (intervening variable), che spiegava perché la cooperazione fosse continuata negli anni ‘70-‘80. La fine della guerra fredda ha significato un nuovo formidabile impulso per l'ordine economico occidentale. Il fatto che negli anni ‘90 l'egemonia americana sembrasse nuovamente in una fase ascendente, ha reso il dibattito sulla trasformazione del sistema meno prioritario, specialmente nell'ambito dell'EPI statunitense. In questa riflessione teorica vi è un aspetto più generale: i teorici delle RI soffrono per l'eccessiva vicinanza agli eventi che studiano. Alla vigilia del XXI secolo quasi tutti i paesi erano ora desiderosi di essere parte del sistema capitalistico occidentale della globalizzazione economica. In che misura il fatto che molti stati che hanno intrapreso la modernizzazione (ex. Cina) si sono impegnati in un processo di sorpasso economico minaccerà di egemonia statunitense e comporterà una crisi per l'ordine globale capitalistico come predetto da alcuni osservatori? Consideriamo, in primo luogo, la questione della potenza statunitense. Diversi osservatori dibattono l'idea che la potenza economica degli Stati Uniti sia in netto declino. Gli Stati Uniti restano molto forti per quanto attiene alle tradizionali risorse di potere (forze armate, economia, tecnologia, territorio). Si è registrato un relativo declino nelle condizioni economiche complessive, ma questo era probabilmente inevitabile date le grandi disparità iniziali. Gli Stati Uniti continuano a esercitare una leadership mondiale in aree caratterizzate da innovazione tecnologica e competitività, sono particolarmente forti nei settori più avanzati e a elevato contenuto di informazione e in risorse della potenza di tipo immateriale (ex. cultura popolare a vocazione universalistica). I valori liberali in linea con l'ideologia americana permeano anche alcune istituzioni internazionali (ex. FMI, WTO). Ciò conferisce agli Stati Uniti una quantità rilevante di potere morbido o soft power. Se si accettano queste argomentazioni, non si può che concludere che l'egemonia USA è tuttora molto forte: l’ampia varietà di risorse della potenza possedute conferisce agli Stati Uniti la possibilità di egemone globale più completo della storia (Brown 2013). Il problema di quest'analisi è che si concentra soltanto sulle risorse della potenza possedute da un paese in differenti campi. Un vero egemone di successo, però, deve essere in grado e disposto a usare dalle risorse per la creazione di un'economia mondiale efficace e stabile. Qui, i precedenti degli USA, sia prima che dopo la fine della guerra fredda, sono meno spettacolari. Dunque, il problema è la capacità/volontà degli Stati Uniti di assumersi la responsabilità di sostenere l'economia liberale su scala mondiale. Più di recente, critiche analoghe sono state mosse contro l'amministrazione Bush, Obama e Trump: gli Stati Uniti rimangono la più grande potenza al mondo, ma non svolgono il ruolo di una leadership illuminata, restringendo anzi il loro orizzonte alla mera soddisfazione delle esigenze di gruppi di interesse interni. Inoltre, l'accusa rivolta al governo statunitense in occasione della crisi del 2008 fu di essersi preoccupato troppo di mantenere alto il livello dell'attività economica interna e troppo poco di introdurre una solida regolamentazione volta evitare l'eccesso di speculazione finanziaria (Wade 2008). La posizione neomarxista, come esposta da Robert Cox, condivide l'idea che il declino economico relativo degli USA costituisca un problema per uno stabile ordine economico. L'autore, però, pone l'accento sulla dimensione dialogica dell'egemonia. Un ordine egemonico stabile si basa su un insieme condiviso di valori e interpretazioni, derivato dai modi di agire e di pensare degli strati sociali dominanti dello stato dominante. In altre parole, l'egemonia USA si è basata non solo sulla potenza materiale, ma anche sul consenso, cioè su un modello di società che gli altri paesi trovano attraente e desideravano emulare. Questa linea di pensiero è vicina l'idea liberale di soft power, ma sottolinea anche una nozione di potere in termini di risorse combinate con la capacità e la disponibilità di impegnare queste risorse nella costruzione di un'economia mondiale stabile. Inoltre, molti marxisti vedono l'egemonia USA come un veicolo per il controllo di stati più deboli da parte delle potenze occidentali (→ economia liberale mondiale = sinonimo negativo di controllo economico e politico del mondo a proprio vantaggio da parte dell'élite capitalista). Oggi, intorno alla potenza statunitense è sorto un nuovo dibattito. Benché alcuni pensino che stiamo vivendo nell'epoca dell'impero USA, altri ritengono che il potere americano sia piuttosto fragile e instabile. Da una parte, indubbiamente gli Stati Uniti restano il numero uno in termini di risorse di potenza (in particolare potenza militare) → base della forza statunitense. Dall’altra, in tempi più recenti, gli Stati Uniti non sono stati sempre capaci e desiderosi di fare buon uso delle proprie risorse. Per questa ragione numerosi osservatori trovano che l'economia mondiale presenti una situazione di crisi piuttosto che il quadro di uno stabile ordine egemonico → base della debolezza statunitense. Data la situazione descritta, l'ordine capitalistico globale è in crisi? La visione ottimistica mette in risalto il fatto che il sistema di governance, in realtà, ha funzionato abbastanza bene, anche a fronte della crisi finanziaria e della grande recessione che è seguita. Come osserva Ravenhill (2017) le politiche beggarthy-neighbour del periodo fra le due guerre (politiche tese a scaricare sugli altri paesi, con dazi e simili, gli effetti della recessione) sono state in larga misura evitate. Questa considerazione conferma l'idea che oggi i regimi internazionali siano più forti. Una buona illustrazione di ciò è la differenza tra la natura de facto della cooperazione internazionale durante la Pax britannica e la natura molto più istituzionalizzata della cooperazione internazionale creata dopo la Seconda Guerra mondiale. Che cosa possiamo imparare da queste discussioni in merito al più ampio dibattito sul rapporto tra politica ed economia? In primo luogo, sebbene il realismo abbia ragione nell'indicare la necessità di un quadro di riferimento politico per lo svolgimento dell'attività economica, ciò non significa che esista un rapporto a senso unico in cui la politica svolge un ruolo dominante rispetto all'economia. Al contrario, le due si influenzano reciprocamente. In secondo luogo, il declino relativo degli Stati Uniti non ha significato un crollo totale dell'economia liberale mondiale, ma è anche chiaro che l'attuale regime liberale di regolazione deve essere modificato allo scopo di creare una maggiore stabilità economica. Infine, una potenza egemone può accettare la responsabilità di svolgere compiti internazionali di cui altri non possono occuparsi, ma essa conterrà sempre una sostanziosa componente di interesse nazionale. È impossibile decidere preventivamente quale faccia dell'egemonia prevarrà. In conclusione, liberalismo, marxismo e realismo mercantilismo hanno, ciascuno, rivelato un aspetto importante del rapporto tra politica ed economia. Ciascuna delle tre teorie presenta però specifiche carenze che la rendono inadeguata spiegare, da sola, il complesso rapporto tra politica ed economia. La regolamentazione politica crea i presupposti per le attività economica (≠ mercantilismo: politica esercita un totale controllo sull'economia), l'economia condiziona e influenza la politica (≠ marxismo: economia determina le scelte politiche) e il mercato ha una propria dinamica economica (≠ liberalismo: economia di mercato è una sfera autonoma della società). Dopo il crollo di bretton Woods negli anni 70 il dibattito si è aperto tra chi riteneva che la potenza economica americana fosse in declino, rischiando di trascinare con sé l'intera impalcatura economica internazionale, e chi sosteneva che gli Stati Uniti fossero ancora dominanti ed in grado di continuare a plasmare il volto economico globale. Il dibattito accademico ha messo in discussione la teoria della stabilità egemoniche nella sua forma più ‘’ pura’’. In particolare3, si è analizzato il ruolo delle grandi potenze, la cui partecipazione attiva e necessaria per il mantenimento dell'economia liberale si è discusso dei regimi internazionali i quali sono stipulati non tanto grazie ad un egemone ma proprio per i vuoti creati da esso. Infine, Robert Kehone ha sostenuto che l’egemone è indispensabile per la creazione dell'infrastruttura economica internazionale aperta ma una volta che le istituzioni internazionali sono state avviate il sistema open reggere da solo. GILPIN: Gilpin ha affrontato la stessa situazione portando il realismo nell'EPI. Per Gilpin, gli stati sono chiaramente gli attori più importanti nelle relazioni internazionali, ma le caratteristiche del sistema economico internazionale dipendono da quali sono gli stati dominanti (teoria della stabilità egemonica). 12. Quali sono le più rilevanti critiche che gli studiosi costruttivisti rivolgono al neorealismo Il neorealismo rimane il principale antagonista intellettuale della teoria costruttivista. Innanzitutto, i neorealisti mettono sotto accusa l’importanza che i costruttivisti attribuiscono alle norme (in particolare quelle internazionali), le quali invece vengono quasi sempre ignorate se contrastano con gli interessi degli stati più potenti. Inoltre, secondo questi autori, cercare di infondere negli stati norme comunitarie grazie alla reciproca interazione sociale è praticamente irrealizzabile, poiché l'effetto congiunto di anarchia, capacità di offendere e incertezza sulle intenzioni altrui è tale che in ultima analisi gli stati non hanno altra alternativa che competere aggressivamente fra loro e comportarsi in modo egoistico. Per i neorealisti, il problema dell'incertezza che riguarda le interazioni sia attuali sia future di altri stati (principale problema che gli stati devono fronteggiare a causa dell'anarchia), non è sufficientemente analizzato dai costruttivisti. Il problema dell'incertezza consiste nel fatto che, a causa dell'anarchia, gli stati sono costantemente assillati dal desiderio di accrescere la propria sicurezza, e ogni loro mossa in tale direzione può essere equivocata da altri stati. Il problema dell'incertezza è significativamente aggravato dalla presenza, nelle relazioni tra molti stati, di una pervasiva componente di dissimulazione (≠ costruttivisti, i quali tendono a presumere che l'interazione sociale tra gli stati sia sempre sincera). A questa critica i costruttivisti replicano che l'anarchia è un'entità più complessa di come la dipingono i neorealisti, e che non necessariamente essa sfocia nel self-help, in atteggiamenti aggressivi e nel rischio di conflitti armati. Se non si incorpora nell'analisi una riflessione sulle idee, sull'integrazione sociale e sulla formazione di interessi e di identità, non è possibile pervenire a una corretta comprensione della natura dell'anarchia in un particolare periodo storico. L'eventualità che le professioni di amicizia tra alcuni stati non sempre siano l'espressione di un effettivo impegno in tal senso può essere affrontata analizzando con cura il grado di interiorizzazione (hobbesiano, lockiano, kantiano). I neorealisti, a loro volta, possono ribattere che il primo grado di interiorizzazione di Wendt è il più diffuso nel mondo reale e ciò rappresenterebbe dunque un’implicita ammissione dell'importanza cruciale dell'analisi neorealista dell'anarchia. Un'altra critica mossa dai neorealisti investe la concezione costruttivista del cambiamento. I costruttivisti forniscono scarsi chiarimenti sui motivi per cui certe concezioni si diffondono o regrediscono, arrivando di solito la conclusione che cambiamenti del mondo materiale innescano cambiamenti in quello ideazionale. Essi non riescono a spiegare come si formano le norme, come si modellano le identità e come si determinano gli interessi. I costruttivisti respingono l'accusa di ignorare il cambiamento. È piuttosto il neorealismo, affermano, che sottovaluta il cambiamento dichiarando che le relazioni internazionali si risolvono, in sostanza, nell’immutabile logica dell'anarchia. I costruttivisti studiano il cambiamento attraverso l'analisi dell'interazione sociale. Riguardo ai meccanismi artefici del cambiamento, alcuni costruttivisti citano fattori che coinvolgono l'istituzionalizzazione della conoscenza, dei comportamenti e delle concezioni degli individui. 13.Costruttivismo 14.Cosa intende Wendt quando afferma l'anarchia è ciò che fanno gli Stati di essa Quella di Wendt è un’analisi sistemica, che focalizza l’attenzione sull’interazione tra stati in un sistema internazionale e ignora il ruolo dei fattori interni ai singoli stati. Il nucleo centrale del ragionamento di Wendt è il rifiuto della tesi neorealista secondo cui dall'anarchia non può che scaturire, per ogni stato, la tendenza a fare affidamento sulle proprie forze. Per i neorealisti, identità e interessi sono elementi dati: ogni stato sa che cos'è e che cosa vuole prima di avviare interazioni con gli altri stati. Per Wendt, al contrario, è proprio l'interazione che crea e sostanzia una struttura di certe identità e di certi interessi piuttosto che di altri; al di fuori di questo processo, una struttura non ha esistenza né poteri causali. A ogni stato premono due cose: sopravvivenza e sicurezza; su ciò neorealisti e costruttivisti sono d’accordo. Sono i significati collettivi a costituire le strutture che organizzano le nostre azioni. Gli attori acquisiscono le rispettive identità in quanto partecipano di tali significati collettivi. Il punto di partenza di Wendt coincide con quello di Waltz: l'interazione tra gli stati in un sistema caratterizzato dall'anarchia. Ma non è detto che l'anarchia debba necessariamente condurre una politica di autosufficienza: solo un'ulteriore analisi dell'interazione deduttiva fra gli Stati consente di scoprire quale specifica cultura dell'anarchia si è sviluppata tra di essi. L’ autore propone di classificare l'anarchia in tre tipi ideali: hobbesiana, lockiana e kantiana. 1)Hobbesiana: nella cultura hobbesiana la logica è quella della guerra di tutti contro tutti: Gli Stati sono nemici e la guerra è endemica, perché il conflitto violento è uno strumento di sopravvivenza(sistema degli stati fino al XVII secolo) ; 2)Lockiana: nella cultura lockiana, ogni stato considera tutti gli altri rivali, ma riconosce loro il diritto all'esistenza (moderno sistema degli stati dopo la pace di Westfalia del 1648) 3)Kantiana: nella cultura kantiana, gli stati cercano di risolvere pacificamente eventuali controversie e si alleano in caso di minaccia da parte di terzi (situazione affermatesi nel secondo dopoguerra tra le democrazie liberali consolidate). Naturalmente, non è detto che le tre differenti culture dell’anarchia siano interiorizzate nella medesima misura (cioè il modo in cui gli Stati si considerano l'un l'altro può essere più o meno profondamente condiviso). Wendt propone di distinguere tre livelli di ‘’interiorizzazione culturale’’: il primo è caratterizzato da un grado relativamente debole di impegno nei confronti di idee condivise, il terzo da un forte impegno. Si vieni così a determinare una matrice di 3 gradi di cooperazione per 3 gradi di interiorizzazione. Wendt conclude che il costruttivismo non si limita ad aggiungere il ruolo delle idee alle teorie RI esistenti. Pertanto, in un sistema anarchico ciascuno stato può possedere risorse militari di altro tipo che gli altri stati possono considerare potenzialmente minacciose, ma ostilità e corsa al riarmo non sono esiti inevitabili: l'interazione sociale tra gli Stati può anche condurre a una cultura dell'anarchia più benevola e amichevole.