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DOMANDE MANUALE RELAZIONI INTERNAZIONALI

DOMANDE MANUALE RELAZIONI INTERNAZIONALI
1.Tratti principali del realismo classico
Il realismo classico è uno degli approcci ‘’tradizionali’’ alle RI. Originariamente, è un
approccio normativo che si concentra sui valori politici centrali della sicurezza
nazionale e della sopravvivenza dello stato.
Le idee e le ipotesi su cui si basa il realismo sono: (1)visione pessimistica della natura
umana; (2)convinzione che le relazioni internazionali sono necessariamente
conflittuali e che i conflitti internazionali sfociano inevitabilmente in guerre; (3)alto
valore attribuito alla sicurezza nazionale e alla sopravvivenza degli stati;
(4)sostanziale scetticismo in merito alla possibilità che nella politica internazionale
possa verificarsi un processo evolutivo analogo a quello che si registra nella politica
interna.
Secondo i realisti, ciò che caratterizza la
natura umana è la preoccupazione per il proprio benessere nel quadro di relazioni
reciproche sostanzialmente competitive. Il desiderio di godere di una posizione di
vantaggio rispetto agli altri e non di essere assoggettati agli altri è dunque universale.
Questa visione pessimistica della natura umana (condivisa da tutti i realisti classici)
emerge con forte evidenza dalla teoria delle RI di Hans Morgenthau. Negli uomini e
nelle donne egli scorge una ‘’volontà di dominio’’ che si manifesta con particolare
vigore nella politica e soprattutto in quella internazionale. ‘’ La politica è una lotta per
esercitare il potere sugli altri; quale che sia la sua finalità ultima, l'obiettivo immediato
è il potere e i sistemi per acquisirlo, conservarlo e mostrarlo determinano le tecniche
del comportamento politico’’. La politica internazionale è dunque descritta come ‘’
politica di potenza’’. I realisti partono dal presupposto cruciale che la politica mondiale
è sinonimo di anarchia internazionale. Lo stato è il protagonista assoluto della politica
mondiale e le relazioni internazionali sono in primo luogo relazioni fra stati, ordinati
gerarchicamente. Lo scopo principale della politica estera è quello di proiettare e
difendere gli interessi dello stato. Per i realisti le relazioni internazionali si riducono a
una lotta tra le grandi potenze per conquistare predominio e sicurezza. Il nocciolo
normativo del realismo è costituito dalla sicurezza nazionale e dalla sopravvivenza
dello Stato, considerato essenziale per il benessere dei suoi cittadini: senza uno stato la
vita umana sarebbe solitaria, misera, ripugnante, rozza e breve. L’ interesse nazionale
è il parametro fondamentale per valutare la politica estera di uno stato. Il fatto che
tutti debbono perseguire il proprio interesse nazionale significa che gli accordi
internazionali sono provvisori e condizionati dall'effettiva volontà degli stati di
rispettarli. Non esistono obblighi internazionali nel senso morale del termine, ossia
vincoli di reciproco dovere tra stati indipendenti. L’ unica responsabilità fondamentale
degli statisti è quella di promuovere e difendere l'interesse nazionale con ogni mezzo.
Tuttavia, la maggior parte dei realisti sostiene nello stesso tempo che l'equilibrio fra le
grandi potenze costituisce un modo per limitare la guerra. Secondo la teoria realista, le
caratteristiche fondamentali delle relazioni internazionali restano le stesse: stati che
lottano per la sicurezza e per il predominio in un sistema internazionale anarchico. Ciò
significa che nella politica mondiale non ci può essere nessun cambiamento
progressivo paragonabile agli sviluppi che hanno contraddistinto la vita politica
interna e che la teoria realista delle RI è considerata valida in ogni tempo e in ogni
luogo perché i suddetti fatti fondamentali la politica mondiale sono immutabili. La
politica internazionale è sempre uguale a se stessa.
I realisti ritengono che l'obiettivo della potenza, i mezzi della potenza e gli usi della
potenza costituiscano la preoccupazione dominante dell'attività politica. La politica
internazionale e quindi concepita come’’ politica di potenza’’. la conduzione della
politica estera e un'attività strumentale, basata sul calcolo intelligente della propria
potenza e dei propri interessi in quanto contrapposti alla potenza e agli interessi di
rivali e concorrenti.
I realisti tengono in alta considerazione i valori della sicurezza nazionale, della
sopravvivenza degli stati, dell'ordine e della stabilità internazionali. In generale, essi
ritengono che tra stati indipendenti non esistano obblighi internazionali nel significato
morale della parola, ossia vincoli connessi a reciproci doveri. Per i realisti classici e
neoclassici, c'è una morale per la sfera privata e un'altra ben diversa morale per la
sfera pubblica. L’ etica politica consente azioni che sarebbero intollerabili alla luce
della morale privata.
3 tra i più importanti autori realisti classici del passato sono Tucidide, Machiavelli e
Hobbes.
Tucidide formulò due importanti tesi realistiche: la struttura del sistema
internazionale influisce sulle relazioni fra gli stati, compresa la guerra e il discorso
morale ha poco rilievo nelle relazioni tra gli stati. Per Tucidide le relazioni
internazionali erano le contrapposizioni e i conflitti inevitabili tre antiche città stato
greche e limitrofi imperi non-greci (Macedonia, Persia). Gli stati dell’Ellade e i loro
vicini non-greci erano profondamente diseguali: c’erano poche ‘’grandi potenze’’
(Atene, Sparta, impero persiano) e molte potenze più piccole e meno importanti (stati
insulari del mar Egeo). Questa disuguaglianza era considerata inevitabile e naturale. Se
gli Stati non si adattano alla realtà della forza diseguale mettono a rischio la propria
esistenza e spesso si condannano alla rovina. Tucidide, sottolinea così quanto limitate
siano le possibilità di scelta, quanto ristretto sia l'ambito di manovra per gli uomini di
Stato nella conduzione della politica estera e come non esistano decisioni senza
conseguenze, nei quali devono essere accuratamente vagliate dall'uomo politico. Preso
atto di ciò, Tucidide raccomanda un'etica della cautela e della prudenza nella
conduzione della politica estera in un mondo internazionale caratterizzato da grandi
disuguaglianze, ridotte possibilità di scelta e costante presenza di pericoli, inevitabile
contraltare di ogni opportunità. Lungimiranza, prudenza, cautela, discernimento sono i
tratti salienti dell’etica politica del realismo classico, etica che si distingue dalla
moralità privata ed al principio di giustizia. Nel suo famoso racconto della guerra del
Peloponneso Tucidide mette la sua filosofia realista in bocca ai governanti di Atene che
dialoga con quelli di Melo in un periodo di conflitto tra le due città-stato. I Meli si erano
appellati al principio di giustizia, sostenendo che i potenti ateniesi avrebbe dovuto
rispettare l’onore e la dignità di Melo in quanto stato indipendente. Ma secondo
Tucidide nelle relazioni internazionali vale un tipo speciale di giustizia che riguarda la
necessità che ciascuno si adatti alla realtà naturale della disuguaglianza delle forze. È
questa la più famosa enunciazione della concezione realista classica delle relazioni
internazionali: sostanzialmente, un’anarchia di stati separati ai quali non resta che
operare in conformità ai principi e alla prassi della politica di potenza, nell’ambito
della quale la sicurezza e la sopravvivenza sono i valori primari e la guerra è l’arbitro
inappellabile.
Tucidide sembra essere stato il primo a percepire l’Ellade classica
come un sistema internazionale dominato dalle grandi potenze.
Machiavelli: La forza e l’inganno sono gli strumenti principali della politica estera,
secondo gli insegnamenti politici di Machiavelli. Il valore politico supremo è la libertas
nazionale, ossia l’indipendenza politica, e la principale responsabilità di chi governa è
sempre quella di perseguire e difendere gli interessi del proprio stato, garantendone la
sopravvivenza. Il nocciolo della teoria realista di Machiavelli si concentra nel fatto che
gli uomini di Stato debbono essere al tempo stesso leoni e volpi. La teoria classica delle
RI è fondamentalmente una teoria della sopravvivenza. Il presupposto sostanziale del
pensiero di Machiavelli è che il mondo è un posto pericoloso quanto pieno di
opportunità. Per sperare di sopravvivere un individuo deve essere sempre
consapevole dei pericoli, prevederli e prendere le precauzioni necessarie per
fronteggiarli. E se poi aspira a godere della gloria riflessa che potere e ricchezza
possono arrecargli, deve saper riconoscere e sfruttare le opportunità che gli si
presentano con maggiore rapidità, abilità e se necessaria disonestà dei suoi rivali o
nemici. La conduzione della politica estera e dunque un'attività opportunistica basata
sul calcolo intelligente della propria forza dei propri interessi in quanto contrapposti a
quelli rivali concorrenti. La virtù virile dell'arte del governo che ha più probabilità di
sedurre la dea Fortuna, assicurando il successo politico, risiede nella capacità
dell'uomo di Stato realista di scorgere sfruttare le opportunità presenti in ogni
situazione politica. Soprattutto, secondo Machiavelli chi governa lo stato deve
guardarsi dall’operare in conformità ai principi dell'etica cristiana. Se chi governa non
conosce o non rispetta i precetti della politica di potenza, la sua politica fallirà con
conseguenze disastrose per la sicurezza e il benessere dei cittadini che da essa
dipendono in modo assoluto. I valori fondamentali cui si deve ispirare la politica estera
sono la sicurezza e la sopravvivenza. Machiavelli può essere visto come il primo
pensatore che rifiuta di riconoscere un sistema morale sovrastante. Chi governa deve
essere leone volpe perché da lui dipendono la sopravvivenza e la prosperità dei suoi
concittadini.
Hobbes: Thomas Hobbes pensa che per capire fino in fondo la natura della vita politica
è indispensabile immaginare di vivere in una situazione naturale, prima
dell’invenzione e dell’istituzione dello stato sovrano (stato di natura).
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Il realismo classico è uno degli approcci ‘’tradizionali’’ alle RI. Originariamente, è un
approccio normativo che si concentra sui valori politici centrali della sicurezza
nazionale e della sopravvivenza dello stato.
3 tra i più importanti autori realisti classici del passato sono Tucidide, Machiavelli e
Hobbes.
Questi tre realisti classici convergono che la condizione umana è una condizione di
insicurezza e conflitto con cui bisogna fare i conti. In secondo luogo, essi convergono
che c'è un corpo di conoscenza o saggezza politica con l'aiuto del quale affrontare il
problema della sicurezza e ciascuno di loro cerca di identificare le chiavi per accedervi.
Infine, essi convengono che non c'è modo di sfuggire a questa condizione umana che è
una caratteristica permanente della nostra esistenza. Dunque, sebbene vi sia un corpo
di saggezza politica non esiste soluzione permanente o definitiva ai problemi della
politica, compresa la politica internazionale.
Su questa stessa concezione equilibrata e alquanto pessimistica si basa la teoria RI del
più eminente realista classico del XX secolo, Hans Morgenthau.
Tucidide formulò due importanti tesi realistiche: la struttura del sistema
internazionale influisce sulle relazioni fra gli stati, compresa la guerra e il discorso
morale ha poco rilievo nelle relazioni tra gli stati. Per Tucidide le relazioni
internazionali erano le contrapposizioni e i conflitti inevitabili tre antiche città stato
greche e limitrofi imperi non-greci (Macedonia, Persia). Gli stati dell’Ellade e i loro
vicini non-greci erano profondamente diseguali: c’erano poche ‘’grandi potenze’’
(Atene, Sparta, impero persiano) e molte potenze più piccole e meno importanti (stati
insulari del mar Egeo). Questa disuguaglianza era considerata inevitabile e naturale. Se
gli Stati non si adattano alla realtà della forza diseguale mettono a rischio la propria
esistenza e spesso si condannano alla rovina. Tucidide, sottolinea così quanto limitate
siano le possibilità di scelta, quanto ristretto sia l'ambito di manovra per gli uomini di
Stato nella conduzione della politica estera e come non esistano decisioni senza
conseguenze, nei quali devono essere accuratamente vagliate dall'uomo politico. Preso
atto di ciò, Tucidide raccomanda un'etica della cautela e della prudenza nella
conduzione della politica estera in un mondo internazionale caratterizzato da grandi
disuguaglianze, ridotte possibilità di scelta e costante presenza di pericoli, inevitabile
contraltare di ogni opportunità. Lungimiranza, prudenza, cautela, discernimento sono i
tratti salienti dell’etica politica del realismo classico, etica che si distingue dalla
moralità privata ed al principio di giustizia. Nel suo famoso racconto della guerra del
Peloponneso Tucidide mette la sua filosofia realista in bocca ai governanti di Atene che
dialoga con quelli di Melo in un periodo di conflitto tra le due città-stato. I Meli si erano
appellati al principio di giustizia, sostenendo che i potenti ateniesi avrebbe dovuto
rispettare l’onore e la dignità di Melo in quanto stato indipendente. Ma secondo
Tucidide nelle relazioni internazionali vale un tipo speciale di giustizia che riguarda la
necessità che ciascuno si adatti alla realtà naturale della disuguaglianza delle forze. È
questa la più famosa enunciazione della concezione realista classica delle relazioni
internazionali: sostanzialmente, un’anarchia di stati separati ai quali non resta che
operare in conformità ai principi e alla prassi della politica di potenza, nell’ambito
della quale la sicurezza e la sopravvivenza sono i valori primari e la guerra è l’arbitro
inappellabile.
Tucidide sembra essere stato il primo a percepire l’Ellade classica
come un sistema internazionale dominato dalle grandi potenze.
Machiavelli: La forza e l’inganno sono gli strumenti principali della politica estera,
secondo gli insegnamenti politici di Machiavelli. Il valore politico supremo è la libertas
nazionale, ossia l’indipendenza politica, e la principale responsabilità di chi governa è
sempre quella di perseguire e difendere gli interessi del proprio stato, garantendone la
sopravvivenza. Il nocciolo della teoria realista di Machiavelli si concentra nel fatto che
gli uomini di Stato debbono essere al tempo stesso leoni e volpi. La teoria classica delle
RI è fondamentalmente una teoria della sopravvivenza. Il presupposto sostanziale del
pensiero di Machiavelli è che il mondo è un posto pericoloso quanto pieno di
opportunità. Per sperare di sopravvivere un individuo deve essere sempre
consapevole dei pericoli, prevederli e prendere le precauzioni necessarie per
fronteggiarli. E se poi aspira a godere della gloria riflessa che potere e ricchezza
possono arrecargli, deve saper riconoscere e sfruttare le opportunità che gli si
presentano con maggiore rapidità, abilità e se necessaria disonestà dei suoi rivali o
nemici. La conduzione della politica estera e dunque un'attività opportunistica basata
sul calcolo intelligente della propria forza dei propri interessi in quanto contrapposti a
quelli rivali concorrenti. La virtù virile dell'arte del governo che ha più probabilità di
sedurre la dea Fortuna, assicurando il successo politico, risiede nella capacità
dell'uomo di Stato realista di scorgere sfruttare le opportunità presenti in ogni
situazione politica. Soprattutto, secondo Machiavelli chi governa lo stato deve
guardarsi dall’operare in conformità ai principi dell'etica cristiana. Se chi governa non
conosce o non rispetta i precetti della politica di potenza, la sua politica fallirà con
conseguenze disastrose per la sicurezza e il benessere dei cittadini che da essa
dipendono in modo assoluto. I valori fondamentali cui si deve ispirare la politica estera
sono la sicurezza e la sopravvivenza. Machiavelli può essere visto come il primo
pensatore che rifiuta di riconoscere un sistema morale sovrastante. Chi governa deve
essere leone volpe perché da lui dipendono la sopravvivenza e la prosperità dei suoi
concittadini.
Hobbes: Thomas Hobbes pensa che per capire fino in fondo la natura della vita politica
è indispensabile immaginare di vivere in una situazione naturale, prima
dell’invenzione e dell’istituzione dello stato sovrano (stato di natura). Per Hobbes
quello dello stato di natura è per un essere umano una condizione di vita
estremamente sfavorevole caratterizzata da un permanente stato di guerra.
ovviamente non solo è auspicabile bensì è estremamente urgente fuggire una simile
condizione intollerabile. Secondo Hobbes l’unico modo per fuggire al suolo di natura e
approdare a condizioni di vita civili è rappresentato dalla creazione e dalla difesa dello
stato sovrano. A tal scopo, gli individui debbono sottoscrivere un patto di sicurezza che
garantisca l'incolumità di ciascuno rispetto alle minacce che gli altri possono recargli.
Gli individui cooperano politicamente perché temono di essere danneggiati o uccisi dai
loro vicini: ‘’ ciò che li civilizza è la paura della morte’’ e ciò che fondamentalmente
l'induce a istituire uno stato sovrano è la passione (emozione). Essi collaborano in
modo consapevole e collettivo per creare uno stato con un governo sovrano che
possegga l'autorità assoluta e il potere credibile necessari per proteggerli sia dai
disordini interni sia da nemici e dai pericoli esterni. Nella condizione civile, ossia di
pace ed ordine, gli individui possono perseguire e godere la ‘’ felicità’’. Tuttavia, l’atto
di istituire uno stato sovrano per sfuggire allo spaventoso stato di natura pone
automaticamente un grave problema politico: la creazione ipso facto di un altro stato
di natura, questa volta fra gli stati. Si tratta del ‘’ dilemma della sicurezza’’ che affligge
la politica mondiale: il conseguimento della sicurezza personale e della sicurezza
interna attraverso la creazione di uno stato è inevitabilmente accompagnato dalla
condizione di insicurezza nazionale e internazionale che fonda le sue radici
nell'anarchia del sistema degli stati. Non c'è modo di sfuggire al dilemma della
sicurezza internazionale perché non esiste possibilità di formare un governo mondiale.
Il punto chiave per quanto riguarda lo stato di natura internazionale e che si tratta di
una condizione di guerra, reale o potenziale, non c'è spazio per una pace
internazionale, ma c'è spazio solo per una pace interna entro i confini dello stato
sovrano.
Morgenthau: pensiero realista classico di un teorico RI del XX secolo, l’americano di
origine tedesca Hans Morgenthau. Morgenthau negli uomini delle donne scorge una ‘’
volontà di dominio’’ (animus dominandi) che si manifesta con particolare vigore nella
politica e soprattutto in quella internazionale. ‘’ La politica è una lotta per esercitare il
potere sugli altri; quale che sia la sua finalità ultima, l'obiettivo immediato è il potere e
i sistemi per acquisirlo, conservarlo e mostrarlo determinano le tecniche del
comportamento politico’’. L’umano animus dominandi porta inevitabilmente gli
individui a entrare in conflitto l’uno contro l’altro. Se desiderano godere di uno spazio
politico libero da ingerenze o controlli stranieri, gli individui dovranno organizzarsi in
uno stato abile ed efficace mediante il quale difendere i propri interessi. Il sistema
degli stati conduce, a livello internazionale, all'anarchia e al conflitto. A sua volta, la
lotta tra gli Stati da origine al problema di giustificare il potere nelle relazioni umane.
L’ etica politica consente comportamenti che non sarebbero tollerati dall'etica privata.
Per Morgenthau conformare l'etica politica quella privata è un grave errore
intellettuale perché non riconosce l'importante e sostanziale differenza tra la sfera
pubblica della politica alla sfera privata della vita individuale. Si tratta di una visione
sia irresponsabile perché ne deriverebbe una politica estera incauta, il cui esito
disastroso sarebbe pagato a caro prezzo dai concittadini, sia moralmente inaccettabile
perché una tale politica si rivelerebbe un fallimento anche sul piano morale dal
momento che sui capi politici grava l'impegnativa responsabilità di garantire la
sicurezza e il benessere del loro paese. A volte può essere necessario intraprendere
una politica estera e attività internazionali chiaramente inaccettabili secondo i precetti
amore privata o può essere necessario scegliere tra due beni il maggiore o fra due mali
il minore. Per Morgenthau il cuore dell'arte di governare e dunque la consapevolezza
che etica Powell litica ed etica privata sono cose diverse e che la prima non deve essere
ridotta la seconda e che il segreto di un'efficace e responsabile attività di governo
consiste nel riconoscere la realtà della politica di potenza e nell’imparare a farne il
miglior uso possibile. La consapevolezza che fini politici giustificano talvolta l'uso di
mezzi moralmente discutibili o addirittura condannabili conduce a un'etica
situazionista e definisce i tratti della ‘’saggezza politica’’.
Morgenthau compendia la sua teoria RI in ‘’sei principi di realismo politico’’:
1)La politica è il prodotto della natura umana, immutabile, fondamentalmente
egocentrica, egoistica;
2)La politica è una sfera d'azione autonoma non riconducibile all'economia o all'etica;
3)La ricerca del tornaconto personale è un dato di fatto della condizione umana. La
politica internazionale è un'arena nella quale si scontrano gli interessi degli stati;
4)Nelle relazioni internazionali l'etica è un'etica politica o dipendente dalle circostanze
specifiche dell'interazione, perciò è profondamente diversa dalla morale personale. Un
leader politico non ha la medesima libertà di cui gode il privato cittadino perché ha
responsabilità ben più grandi e diverse rispetto a quelle del cittadino: il leader politico
risponde delle sue azioni a tutta una popolazione ed è responsabile della sicurezza e
del benessere collettivi. Quando esercita la responsabilità politica, uno statista può
dover violare la morale privata per difendere la sicurezza nazionale e ciò potrebbe
essere assolutamente necessario;
5)I realisti rifiutano l'idea per cui certe nazioni possono imporre le proprie concezioni
ideologiche ad altri utilizzando a tal fine il loro potere in vere e proprie crociate e lo
fanno perché considerano questo genere di azioni pericolose per la pace e la sicurezza
internazionali e capaci di ritorcersi contro il paese che ha lanciato la crociata;
6)L’ azioni di governo è un'attività sobria e prosaica che richiede profonda conoscenza
dei limiti e delle imperfezioni umane. Questa consapevolezza pessimistica che gli
esseri umani sono ciò che sono è una verità difficile da accettare, che costituisce
nondimeno il cuore della politica internazionale.
2.Quali sono i tratti principali del Realismo di Tucidide
Tucidide formulò due importanti tesi realistiche: la struttura del sistema
internazionale influisce sulle relazioni fra gli Stati compresa la guerra e il discorso
morale ha poco rilievo nelle relazioni tra gli Stati. Per Tucidide le relazioni
internazionali erano le contrapposizioni e i conflitti inevitabili tre antiche città stato
greche e limitrofi imperi non-greci (Macedonia, Persia). Gli stati dell’Ellade e i loro
vicini non-greci erano profondamente diseguali: c’erano poche ‘’grandi potenze’’
(Atene, Sparta, impero persiano) e molte potenze più piccole e meno importanti (stati
insulari del mar Egeo). Questa disuguaglianza era considerata inevitabile e naturale. Se
gli Stati non si adattano alla realtà della forza diseguale mettono a rischio la propria
esistenza e spesso si condannano alla rovina. Tucidide, sottolinea così quanto limitate
siano le possibilità di scelta, quanto ristretto sia l'ambito di manovra per gli uomini di
Stato nella conduzione della politica estera e come non esistano decisioni senza
conseguenze, nei quali devono essere accuratamente vagliate dall'uomo politico. Preso
atto di ciò, Tucidide raccomanda un'etica della cautela e della prudenza nella
conduzione della politica estera in un mondo internazionale caratterizzato da grandi
disuguaglianze, ridotte possibilità di scelta e costante presenza di pericoli, inevitabile
contraltare di ogni opportunità. Lungimiranza, prudenza, cautela, discernimento sono i
tratti salienti dell’etica politica del realismo classico, etica che si distingue dalla
moralità privata ed al principio di giustizia. Nel suo famoso racconto della guerra del
Peloponneso Tucidide mette la sua filosofia realista in bocca ai governanti di Atene che
dialoga con quelli di Melo in un periodo di conflitto tra le due città-stato. I Meli si erano
appellati al principio di giustizia, sostenendo che i potenti ateniesi avrebbe dovuto
rispettare l’onore e la dignità di Melo in quanto stato indipendente. Ma secondo
Tucidide nelle relazioni internazionali vale un tipo speciale di giustizia che riguarda la
necessità che ciascuno si adatti alla realtà naturale della disuguaglianza delle forze. È
questa la più famosa enunciazione della concezione realista classica delle relazioni
internazionali: sostanzialmente, un’anarchia di stati separati ai quali non resta che
operare in conformità ai principi e alla prassi della politica di potenza, nell’ambito
della quale la sicurezza e la sopravvivenza sono i valori primari e la guerra è l’arbitro
inappellabile.
Tucidide sembra essere stato il primo a percepire l’Ellade classica
come un sistema internazionale dominato dalle grandi potenze.
3.Quali sono le principali differenze tra realismo classico ed il realismo strutturale
(neorealismo)
Kenneth Waltz inaugura una via del tutto nuova con il libro ‘’Theory of International
Politics’’ (1979) che propone una teoria realista sostanzialmente diversa identificata
con il termine ‘’neorealismo’’. Waltz del realismo classico fa propri alcuni presupposti
di fondo, ma si allontana da esso ignorandone le preoccupazioni normative e cercando
di mettere a punto una teoria scientifica delle RI. Waltz si propone di elaborare una
spiegazione scientifica del sistema politico internazionale. Secondo Waltz, la miglior
teoria RI è una teoria sistemica neorealista che concentri l’attenzione sulla ‘’struttura’’
del sistema internazionale, sulle sue unità interagenti, sui suoi aspetti permanenti e
quelli evolutivi. Waltz rifiuta le teorie del realismo classico come ‘’riduzioniste’’ e
propone invece quella che definisce una teoria ‘’sistemica’’. Nel neorealismo, la
questione analitica centrale riguarda perciò la struttura del sistema, che è esterna agli
attori, e in particolare la distribuzione relativa del potere. Secondo Waltz la struttura
agisce come selettore, premiando alcuni comportamenti e punendo altri.
La sua è essenzialmente una teoria in cui la struttura condiziona fortemente la politica.
Il sistema esercita il suo potere sugli attori politici principalmente in due modi:
attraverso la socializzazione e la competizione. Sotto questo importante aspetto, il
neorealismo è un esplicito allontanamento dal realismo classico che concentra
l'attenzione sulla politica e sull'etica dell'arte di governo.
Per Waltz gli stati adottano politiche di potenza e di ricerca della sicurezza, perché la
struttura del sistema internazionale li condiziona fortemente a comportarsi così.
Dunque, prende le distanze dal ragionamento del realismo classico basato sulla visione
della natura umana come ‘’semplicemente malvagia’’, considerate da Waltz
argomentazioni ‘’riduzioniste’’.
Prendendo nettamente le distanze dal realismo classico e non mostra praticamente
alcun interesse per l'etica del governare
4.Realismo strategico (Schelling)
Il realismo strategico è esemplificato dal pensiero di Thomas Schelling, il quale non
presta molta attenzione agli aspetti normativi del realismo. Il realismo strategico
concentra l'attenzione sui processi decisionali della politica estera. Il leader di uno
stato non può fare a meno di ragionare strategicamente, ossia strumentalmente.
Schelling si propone di fornire strumenti analitici per il pensiero strategico. Egli
considera la diplomazia e la politica estera, in particolare quella delle grandi potenze,
un’attività razionale-strumentale che può essere compresa più a fondo con l’ausilio di
un tipo di analisi logica definito ‘’teoria dei giochi’’.
Uno dei principali concetti utilizzati da Schelling è quello di ‘’ minaccia’’, in particolare
modo quella di tipo nucleare: la sua analisi riguarda infatti i modi in cui gli statisti
possono affrontare razionalmente la minaccia e i pericoli di una guerra nucleare.
Bisogna, quindi, chiedersi come usare in modo intelligente la propria forza per indurre
l'avversario militare a fare ciò che si vuole, dissuadendolo dal fare ciò che ci può
nuocere. Secondo il realismo strategico, ‘’ scegliere tra estremi’’ è sciocco e imprudente
a causa dell'alto livello di pericolo che comporta. Schelling identifica e sviscera con
grande acume vari meccanismi, stratagemmi e mosse che se attuate dai protagonisti
della scena politica possono promuovere la collaborazione ed evitare la catastrofe
nucleare. Per Schelling, la politica estera è un'attività razionale e informata,
tecnicamente strumentale, e quindi non comporta scelte morali. Il realismo strategico
è libero da considerazioni di carattere morale: ciò che conta non è l'eticità di una scelta
politica ma la sua possibilità di successo. I valori normativi in gioco nella politica estera
sono in gran parte dati per scontati, e ciò differenze in modo sostanziale il realismo
strategico dal realismo classico.
Uno degli strumenti cruciali della politica estera per una grande potenza è la forza
militare. Schelling osserva che c'è una differenza sostanziale fra forza bruta e
coercizione: ‘’ la forza bruta ha successo quando viene usata mentre la capacità di
colpire è più efficace quando viene tenuta in serbo. È la paura di subire un danno che
può indurre qualcuno a cedere’’. Una sua ulteriore considerazione è che per rendere
efficace l'uso del loro apparato coercitivo, dobbiamo sapere a che cosa un avversario
tiene di più e che cosa lo spaventa di più e dobbiamo anche fargli capire chiaramente
che cosa ci indurrà a colpirlo e che cosa invece ci tratterrà dal farlo. Gli attori coinvolti
devono essere lucidamente consapevoli dei pericoli (costi) e delle opportunità
(benefici) che hanno di fronte.
Schelling esprime poi un concetto fondamentalmente realista: affinché la coercizione
sia efficace come strumento di politica estera è necessario che i nostri interessi e quelli
del nostro avversario non siano totalmente contrapposti. La coercizione richiede che si
trovi un terreno di contrattazione. La percezione è un metodo per portare un
avversario sul terreno della contrattazione e indurlo a fare ciò che noi vogliamo che
faccia senza essere obbligati a costringerlo, e cioè a usare la forza bruta, opzione di
solito molto più facile, molto meno efficiente e molto più pericolosa.
Ci sono ovviamente analogie fra il realismo di Machiavelli e quello di Schelling. A
differenza del primo, tuttavia, il secondo non esplora l'etica della politica estera,
limitandosi a presupporre certi obiettivi di fondo: gli aspetti normativi della politica
estera e le giustificazioni di una strategia intelligente sono suggeriti implicitamente
dalle sue argomentazioni. Schelling parla senza mezzi termini della natura ‘’ sporca’’ ed
‘’estorsiva’’ del realismo strategico, ma non se ne domanda il perché o avanza una
giustificazione in merito. Il realismo strategico presuppone valori e comporta
implicazioni normative, ma non le esamina né le esplora diversamente dal realismo
classico. I valori sono assunti come dati e trattati strutturalmente. Lo scopo
fondamentale del comportarsi nel mondo in cui i responsabili della politica
dovrebbero comportarsi non è esplorato, chiarito e neppure indicato. Schelling
propone un'analisi strategica delle RI, ma non una teoria normativa. Su questo punto si
registra una differenza fondamentale fra il realismo classico da una parte e quello
contemporaneo dall'altra. I realisti classici sono consapevoli dei fondamentali valori in
gioco nella politica mondiale e se ne preoccupano esplicitamente: essi, dunque,
forniscono una teoria delle RI al tempo stesso politica ed etica. Viceversa, i realisti
contemporanei propongono un'analisi che riguarda essenzialmente le strutture e i
processi politici e ignora in larga misura gli scopi politici (valori).
5.Waltz e il concetto di struttura
Kenneth Waltz è il più eminente pensatore neorealista contemporaneo, che del
realismo classico fa propri alcuni presupposti di fondo, ma si allontana da quei filoni
ignorandone le preoccupazioni normative e cercando di mettere a punto una teoria
scientifica delle RI. In ‘’Theory of International Politics’’ (1979), Waltz si propone di
elaborare una spiegazione scientifica del sistema politico internazionale. Una teoria
come quella presentata nell’opera di Waltz può spiegare come certi tipi di esiti
tendono a ricorrere nel sistema internazionale. Secondo Waltz, la miglior teoria RI è
una teoria sistemica neorealista che concentri l'attenzione sulla struttura del sistema,
sulle sue unità interagenti, sui suoi aspetti permanenti e quelli evolutivi. Waltz rifiuta
le teorie del realismo classico e del liberalismo come ‘’ riduzioniste’’ e propone invece
quella che definisce una teoria ‘’ sistemica’’. Nel neorealismo, la questione analitica
centrale riguarda perciò la struttura del sistema, che è esterna agli attori, e in
particolare la distribuzione relativa del potere. La struttura agisce come selettore
premiando alcuni comportamenti e punendone altri. In questo senso, la teoria di Waltz
è affrancata dalla considerazione delle scelte degli attori. Waltz offre un idealtipo delle
reazioni degli stati all’anarchia internazionale.
Waltz aveva già posto alcune delle basi della sua teoria sistemica nel suo primo libro
‘’Man, the State and War’’. Il contributo centrale del libro è quello di distinguere le
teorie delle relazioni internazionali a seconda che cerchino risposte nell'uomo, nella
struttura dei singoli stati o nel sistema degli stati. In ‘’Man, the State and War’’, Waltz
concede che talvolta potrebbe essere necessario combinare aspetti tratti dei diversi
livelli per comprendere accuratamente le relazioni internazionali. pone però
chiaramente l'accento sulle teorie che concentrano l'attenzione sugli attributi del
livello di sistema.
Secondo la teoria neorealista di Waltz, una caratteristica saliente delle relazioni
internazionali è la struttura decentrata dell'anarchia degli stati. Sotto tutti i
fondamentali aspetti funzionali, le unità statuali sono simili nel senso che svolgono
tutti gli stessi compiti fondamentali. L’ unico aspetto sotto il quale differiscono in
misura significativa è la capacità di assolvere i propri compiti che varia enormemente
da un caso all'altro. Il mutamento a livello internazionale avviene quando le grandi
potenze sorgono e decadono e l'equilibrio di potenza si sposta conseguentemente. La
teoria strutturale di Waltz non è in grado di predire questi cambiamenti, ma per la
teoria il tipico tramite dei cambiamenti è la guerra tra grandi potenze. Gli stati che
contribuiscono in misura determinante a provocare cambiamenti nella struttura del
sistema internazionale sono le grandi potenze.
Waltz introduce una distinzione tra sistemi bipolari e sistemi multipolari. I sistemi
bipolari sono più stabili di quelli multipolari ed hanno quindi maggiori garanzie di
pace e sicurezza perché le potenze che si fronteggiano difendendo il sistema difendono
sé stesse. A differenza del realismo strategico di Schelling, l’approccio neorealista di
Waltz può dirci poco sui comportamenti che gli statisti dovrebbero assumere in
particolare circostanze. Il neorealismo di Waltz tieni meno di conto dell'arte di
governo e della diplomazia. La sua è essenzialmente una teoria in cui la struttura
condiziona fortemente la politica. Il sistema esercita il suo potere sugli attori politici
principalmente in due modi: attraverso la socializzazione e la competizione. Sotto
questo importante aspetto, il neorealismo è un esplicito allontanamento sia dal
realismo classico che concentra l'attenzione sulla politica e sull'etica dell'arte di
governo sia da Schelling che ipotizza il comportamento razionale dei decisori politici e
pone al centro dell'attenzione la scelta strategica.
Non è difficile scorgere un riconoscimento della dimensione etica della politica
internazionale pressoché identico a quello del realismo classico. I concetti chiave usati
da Waltz hanno un aspetto normativo. Egli si serve ad esempio del concetto di
sovranità statuale che significa possibilità di decidere; ogni stato è formalmente uguale
a tutti gli altri. Nessuno di essi ha il diritto di comandare e nessuno ha l'obbligo di
obbedire. Dichiarare che gli Stati sono eguali e l'indipendenza è un diritto equivale a
prendere atto della norma di una uguale sovranità statuale. Waltz presuppone inoltre
che per gli Stati vale la pena di battersi confermando i valori della sicurezza e della
sopravvivenza degli stati. In effetti, Waltz ha bisogno di ipotizzare che gli stati cerchino
di sopravvivere.
6.Realismo offensivo di Mearsheimer
In un saggio molto dibattuto John Mearsheimer fa propria la tesi neorealista di Waltz e
la applica sia al passato sia al futuro. Il neorealismo, per questo autore, è una teoria
generale che continua ad avere rilievo quando si tratta di spiegare le relazioni
internazionali e che può essere usata per predire il corso della storia internazionale al
di là della guerra fredda. Mearsheimer parte del ragionamento di Waltz e in merito alla
maggiore stabilità dei sistemi bipolari rispetto a quelli multipolari. Queste due
configurazioni sono considerate i principali tipi strutturali di equilibri di potenza che
siano possibili tra stati indipendenti. Tre sono le ragioni fondamentali per cui i sistemi
bipolari sono più stabili e pacifici di quelli multipolari. In primo luogo, il numero dei
conflitti tra grandi potenze è minore. In secondo luogo, è più facile gestire un sistema
efficace di deterrenza perché meno numerose sono le grandi potenze coinvolte. Infine,
dal momento che nel sistema predominano due sole grandi potenze, il rischio di errori
di valutazione di incidenti fortuiti è inferiore. In uno scenario multipolare i rischi di
grave crisi e guerre in Europa sarebbero probabilmente destinati a crescere in misura
rilevante. Mearsheimer ritiene che la distribuzione e la natura della forza militare
siano i fattori che maggiormente determinano il prevalere di condizioni di pace o di
guerra. La ‘’ lunga pace’’ tra il 1945 e il 1990 fu il frutto di tre elementi decisivi: il
bipolarismo della forza militare in Europa, la sostanziale equivalenza in termini di
forza militare tra Stati Uniti e Unione Sovietica e gli imponenti arsenali di armi nucleari
in possesso di ambedue le superpotenze.
Il ritiro delle superpotenze dal cuore dell’Europa, che darebbe origine a un sistema
multipolare formato da 5 potenze maggiori (Germania, Francia, Gran Bretagna,
Federazione russa e forse Italia) e da un numero consistente di potenze minori,
sarebbe incline all'instabilità facendo venire meno l'effetto pacificatore che le armi
nucleare hanno avuto sulla politica europea. Secondo Mearsheimer, dunque la guerra
fredda fu il principale artefice della trasformazione di una regione storicamente
violenta, anarchica e instabile in una molto pacifica. L’ Occidente ha interesse a
mantenere la pace in Europa e pertanto a mantenere l'ordine della guerra fredda: ogni
sviluppo che minaccia di farla finire è pericoloso.
Sulla stessa linea di Waltz, Mearsheimer considera il comportamento degli stati come
condizionato, quando non determinato, dalla struttura anarchica delle relazioni
internazionali. Mearsheimer definisce la teoria di Waltz realismo ‘’offensivo’’, perché
quest’ultimo ritiene che una potenza eccessiva, al di là di quello che è necessario per la
sicurezza e la sopravvivenza, sia controproducente, perché spinge gli altri stati a
ristabilire un equilibrio armandosi e formando alleanze. Mearsheimer conviene con
Waltz che l’anarchia costringe Gli Stati a competere tra loro in termini di potere, ma
sostiene che si ambiscono all'egemonia sull'intero sistema e che in ultima analisi sono
più aggressivi di come li dipinge Waltz. Mearsheimer limita la portata della sua tesi
osservando la massima aspirazione di un paese può essere solo quella di diventare
egemone nella propria regione del mondo in quanto gli oceani sono barriere
formidabili e nessuno stato è così potente da riuscire a neutralizzarle. Tuttavia, chi si
ha conquistato una posizione egemone nella propria regione può darsi da fare per
prevenire l'emergere di competitore alla pari in altre regioni del globo nel timore che
uno di questi, una volta consolidatosi, possa interferire nella propria sfera di influenza
e di controllo.
A giudizio di Mearsheimer, ogni stato aspira a diventare egemone nella sua regione
ecco perché Mearsheimer definisce realismo offensivo la sua teoria, basata sull'assunto
che le grandi potenze sono sempre alla caccia di opportunità per acquisire potere a
scapito dei loro rivali puntando in ultima analisi all'egemonia. Come altri realisti,
Mearsheimer è convinto che il suo ragionamento sia valido sempre e dovunque: la
lotta internazionale e il conflitto tra grandi potenze sono inevitabili.
-Realismo neoclassico
Il realismo neoclassico cerca di combinare le tesi strutturaliste di Waltz con l’interesse
del realismo classico per i fattori interni. Il realismo neoclassico attinge al mio
realismo quando riconosce l'importanza della struttura del sistema degli stati e del
loro potere relativo. Attinge anche al realismo classico sottolineando l'importanza dei
fattori interni. Tornando ai tre livelli di analisi di Waltz, il realismo neoclassico e quindi
un tentativo di connettere tutti e tre ma ponendo soprattutto l'accento sui livelli
nazionale e internazionale. I realisti neoclassici, pertanto, tentano di giungere a una
teoria realista che possa rispondere positivamente ad alcuni degli argomenti associati
al liberalismo. I suoi sostenitori scelgono una sorta di via di mezzo: la leadership dello
Stato produce effetti al tempo stesso la politica estera viene attuata entro l'insieme dei
vincoli generali posti dalla struttura anarchica del sistema internazionale. I realisti
neoclassici vogliono chiaramente mantenere il discorso strutturale del neorealismo,
ma vogliono anche aggiungere il discorso strumentale del ruolo di decisori della
politica estera e includere le caratteristiche interne degli stati su cui pone l'accento il
realismo classico. I neoclassici sostengono che l'anarchia e il potere relativo degli stati
non dettano la politica estera degli statisti. La struttura del sistema internazionale
pone i limiti all'azione degli stati ma in ultima istanza non determina le politiche e le
azioni dei loro leader. Di fronte all’anarchia, il comportamento dello Stato è
condizionato da preferenze interne. In particolare, i realisti neoclassici identificano
quattro gruppi di variabili interne: cultura strategica, le immagini e le percezioni dei
responsabili della politica estera, le istituzioni interne e i rapporti stato-società.
La differenza tra realismo classico e realismo neoclassico sta nell'interesse che se
mostrano nei confronti del l'aspetto normativo delle relazioni internazionali. I realisti
classici si riservano di giudicare il successo o il fallimento delle leadership sulla base di
standard etici. I neoclassici si concentrano invece sulla spiegazione di quanto accade in
conseguenza da un lato delle pressioni provenienti dalla struttura del sistema
internazionale e dall'altro delle decisioni adottate dagli statisti. Il realismo neoclassico
inoltre cerca di spiegare perché, come e a quali condizioni le caratteristiche interne
degli stati intervengono fra la definizione da parte dei leader delle minacce
internazionali e le effettive politiche diplomatiche, militari ed economiche
internazionali che quei leader perseguono. Da una parte, i realisti neoclassici hanno
riempito il vuoto lasciato dalle teorie neorealiste e hanno spiegato perché la politica
estera ha talvolta devia dalle predizioni di queste teorie. Dall’altra parte, i realisti
neoclassici continuano a confrontarsi con il problema di evitare spiegazioni ad hoc e a
combinare sistematicamente i fattori strutturali del sistema internazionale con i
processi della politica interna e le percezioni dei responsabili della politica estera.
Un contributo importante è venuto da Schweller che propone una teoria
dell’underbalancing. Il dilemma di Schweller è perché molti stati non riescono a
rispondere efficacemente a minacce esterne. Egli sostiene che ciò accade perché i
rapporti stato-società condizionano la scelta degli stati se controbilanciare le minacce
esterne o invece ‘’ sottobilanciare’’, ossia rinunciare a rispondere adeguatamente alla
pericolosa accumulazione di potenza da parte di altri stati. l’underbalancing ha luogo
quando nella società sono presenti profonde divisioni dovute a scarsa coesione sociale
e/o una frattura in seno all’élite. Perciò, solo quando i rapporti società-stato si
adattano al modello neorealista standard dell'attore unitario possiamo aspettarci che
le minacce esterni portino a un efficace bilanciamento.
Questo genere di analisi è influenzato dagli approcci liberali alle RI, che mettono in
risalto l'importanza delle condizioni interne dei paesi e si trova in netto contrasto con
tutti gli altri approcci realisti, neorealismo e realismo classico inclusi.
7. In che modo le istituzioni, secondo il liberalismo istituzionale, possono contribuire
alla diminuzione della conflittualità tra gli Stati
Secondo il liberalismo istituzionale le istituzioni internazionali contribuiscono a
promuovere la cooperazione tra gli stati, alleviando così quel clima di sfiducia e paura
reciproche che costituisce il problema tradizionalmente associato all’anarchia
internazionale.
Pur convenendo che le istituzioni internazionali possono rendere la cooperazione più
facile e assai più probabile, gli odierni liberali istituzionali non sostengono affatto che
se possano di per sé garantire una trasformazione qualitativa delle relazioni
internazionali che da una ‘’ giungla’’ le converta in ‘‘zoo’’. In ogni caso, gli organismi
internazionali hanno una propria autonoma importanza e possono promuovere la
cooperazione fra gli Stati.
Un’ istituzione internazionale può essere: un'organizzazione internazionale (es. NATO,
UE); un ‘’regime’’ internazionale, ovvero un complesso di regole che governa il
comportamento degli stati in settori particolari (es. WTO); istituzioni di natura diversa
dalle precedenti, ma di natura più fondamentale quale la sovranità statuale e
l'equilibrio di potenza (di cui i liberali istituzionali non si occupano molto).
Nel pensiero liberale delle istituzioni, è possibile identificare un'importante
evoluzione: negli anni ’70 e ‘80 del secolo scorso la letteratura ha cominciato a
focalizzarsi su più generali norme istituzionalizzate della cooperazione internazionale
(trasformazione dello studio delle organizzazioni internazionali nello studio dei regimi
internazionali).
L’ idea centrale era che stati auto-interessati creano
regimi internazionali per risolvere problemi di azione collettiva. Se ben congeniati, i
regimi hanno il vantaggio di risolvere i problemi del mantenimento degli impegni di
creare negoziazioni condotte con l'aspettativa che le parti avranno bisogno di
cooperare di nuovo in futuro.
I liberali istituzionali affermano che le istituzioni internazionali contribuiscono a
promuovere la cooperazione tra gli Stati e per avvalorare questa loro tesi si servono di
un approccio scientifico proponendo una misura empirica del livello di
istituzionalizzazione dei rapporti tra gli Stati e valutando poi quanto queste istituzioni
internazionali hanno contribuito a far progredire una politica di cooperazione.
Il livello di istituzionalizzazione può essere misurato secondo due criteri: ampiezza e
profondità. L’ ampiezza riguarda il numero di settori in cui sono presenti istituzioni
internazionali. Per misurare la profondità del processo di istituzionalizzazione sono
stati proposti tre parametri: comunanza (il grado con cui gli stati che fanno parte del
sistema condividono le aspettative di comportamenti appropriati e i criteri per
interpretare tali comportamenti); specificità (il grado con cui queste aspettative sono
esplicitate sotto forma di regole); autonomia (il grado in cui l'istituzione può
modificare le proprie regole senza dover aspettare che lo facciano gli agenti esterni).
Un modo per determinare con precisione il livello di istituzionalizzazione è scegliere
un gruppo di stati tra i quali esista manifestamente un alto livello di
istituzionalizzazione in termini sia di ampiezza che di profondità e poi valutare in quali
modi e con quali effetti le istituzioni operano. Per esempio, le istituzioni dell’UE hanno
svolto un ruolo decisivo nell'Europa occidentale dopo la fine della guerra fredda,
fungendo da ammortizzatori che hanno aiutato i paesi interessati ad assorbire le onde
d'urto provocate dalla fine della guerra fredda e dalla riunificazione della Germania.
La tesi proposta dai liberali istituzionali è che un alto livello di istituzionalizzazione
riduce significativamente gli effetti destabilizzanti dell'anarchia multipolare.
Le istituzioni: compensano la diffidenza tra di stati, alimentando un flusso di
informazioni che contribuisce a ridurre le reciproche paure degli Stati membri;
costituiscono un proficuo luogo di confronto e trattative; garantiscono continuità e un
senso di stabilità e alimentano uno spirito di cooperazione tra gli Stati che è di
reciproco vantaggio; aiutano a creare un clima in cui si sviluppano aspettative di pace
durevole.
Il pensiero del liberalismo istituzionale può essere così riassunto: le istituzioni
internazionali contribuiscono a promuovere la cooperazione tra gli stati, alleviando
così quel clima di sfiducia e paura reciproche che costituisce il problema
tradizionalmente associato all' anarchia internazionale. Il ruolo positivo delle
istituzioni internazionali per il progredire della cooperazione tra gli Stati è tuttora
messo in discussione dai realisti.
8.Pax democratica e liberalismo repubblicano. /Si descriva la cosiddetta pace
democratica facendo riferimento al liberalismo repubblicano e se ne analizzino le cause.
Il liberalismo repubblicano si basa sul presupposto che le democrazie liberali sono più
pacifiche e rispettose della legge di qualsiasi altro sistema politico. La tesi, formulata
per la prima volta da Immanuel Kant è che le democrazie liberali non si combattono fra
loro.
La risposta più esauriente al perché le democrazie vivano in pace è stata
formulata da Michael Doyle. La sua argomentazione si basa sulla classica
interpretazione liberale della riflessione di Immanuel Kant. Tre sono i fattori su cui
poggia la convinzione che le democrazie sono restie a farsi la guerra. Il primo fattore è
l'esistenza di una cultura politica interna che crede nella risoluzione pacifica delle
controversie perché i governi democratici sono controllati dai rispettivi cittadini, i
quali non sono favorevoli a guerre con altre democrazie. Il secondo fattore è la
presenza nelle democrazie di valori morali comuni che determinano la formazione di
un’‘’unione pacifica’’, ovvero una zona di pace basata sui fondamenti morali che
accomunano tutte le democrazie. La superiorità morale della risoluzione pacifica,
piuttosto che violenta, dei conflitti interni viene trasferita alle relazioni internazionali,
mentre la libertà di espressione e di comunicazione promuove la reciproca
comprensione a livello internazionale e contribuisce a garantire che gli uomini politici
agiscano in conformità alle opinioni dei cittadini. Infine, la pace fra democrazie è
rafforzata dalla cooperazione e dall'interdipendenza economica. Nell’ Unione pacifica è
possibile incoraggiare il cosiddetto ‘’ spirito del commercio’’, ossia il mutuo e reciproco
vantaggio per quanti sono coinvolti nella cooperazione e negli scambi economici
internazionali.
Fra i differenti filoni del liberalismo, quello repubblicano è quello con i più forti
connotati normativi. I liberali repubblicani ritengono che sia loro dovere promuovere
la democrazia in tutto il mondo perché così facendo si promuove la pace che è uno dei
più fondamentali tra tutti i valori politici. Sebbene la nuova ondata di
Sommario
a voce di sommario trovata.
post guerra fredda rafforzò l'ottimismo liberale, la maggior parte di loro è
consapevole della fragilità dei progressi democratici. L’ affermarsi di un'unione
pacifica globale che abbracci tutte le democrazie, vecchie e nuove, non è affatto
garantito. In realtà, quasi tutte le nuove democrazie mancano almeno due dei tre
requisiti per una pace democratica e invece di compiere progressi e se potrebbero
addirittura regredire verso regimi autoritari. Riguardo alla prima condizione è
evidente che nelle nuove democrazie non si siano ancora formate norme democratiche
per la pacifica risoluzione dei conflitti. Riguardo la seconda condizione, è ragionevole
sperare che gli Stati dell’Europa orientale vengano incorporati nell'area delle relazioni
pacifiche instauratesi fra le democrazie consolidate dell'Occidente. Venendo alla terza
e ultima condizione, sebbene alcune nuove democrazie dell'est Europa stiano per
essere integrate in queste reti economiche grazie all’ingresso nell'unione europea, i
complessi negoziati a proposito hanno dimostrato quali e quante difficoltà comporti
una stretta cooperazione economica tra paesi con livelli di sviluppo diversi. Pertanto,
l’espansione della ‘’ zona di pace’’ democratica cui hanno dato vita le democrazie
occidentali consolidate e tutt'altro che garantita.
La maggior parte dei liberali repubblicani sottolinea che la pace democratica è un
processo dinamico, la cui costruzione richiede un lungo periodo di tempo e in cui
possono verificarsi battute d'arresto o regressioni a forme autoritarie. Anche questa
versione dell'argomentazione dei liberali presenta un punto debole: essi debbono
ulteriormente esplicitare con maggiore chiarezza i modi in cui la democrazia conduce
alla pace e i criteri in base ai quali si possa concludere l'esistenza di una pace
democratica.
Nello stesso tempo molti studiosi hanno sostenuto che esiste un lato oscuro della
relazione fra democrazia e pace. Un ampio corpo di studi ha associato sia il processo di
democratizzazione sia la democrazia parziale con un rischio accresciuto di guerra
esterna e/o di guerra civile. Un altro pilone hai identificato una relazione curvilinea re
dove si allea tuo grazie dichiarate sia le vere democrazie sono relativamente pacifiche
all'interno, ma dove le democrazie parziali o i cosiddetti regimi intermedi (anocrazie)
sono particolarmente inclini al conflitto. La ragione è che questi regimi consentono
l'espressione del dissenso popolare ma sono privi della capacita di affrontarlo
efficacemente.
Il pensiero dei liberali repubblicani può essere sintetizzato nel modo seguente: le
democrazie non scendono in guerra l'una contro l'altra grazie a una cultura politica
interna che crede nella risoluzione pacifica dei conflitti, a valori morali condivisi e ai
vincoli reciprocamente vantaggiosi connessi alla cooperazione e al l'interdipendenza
economiche. Sono questi i tre pilastri su cui si basano le loro pacifiche relazioni. Per
queste ragioni è legittimo aspettarsi che un mondo di democrazie liberali consolidate
sia un mondo più pacifico.
-Liberalismo sociologico
Per i liberali sociologici le RI riguardano non solo le relazioni stato-stato, ma anche
quelle transnazionali, ossia tra persone, gruppi e organizzazioni appartenenti a paesi
diversi. Per i liberali sociologici, le relazioni transnazionali vanno acquisendo un peso
crescente nelle relazioni internazionali. Concentrando l’attenzione sulle relazioni
transnazionali, i liberali sociologici ritornano all'idea che le relazioni tra le persone
siano più cooperative e intrinsecamente pacifiche di quelle tra governi nazionali.
Negli anni ’50 Karl Deutsch cercò di misurare l'entità delle comunicazioni e delle
transazioni tra società. Secondo Deutsch, un alto livello di legami transnazionali tra
società determina un consolidamento di relazioni pacifiche che rappresenta qualcosa
di più della semplice assenza di guerra, fa nascere una comunità di sicurezza. La
comunità di sicurezza è un gruppo di stati talmente integrato che può esistere la
garanzia reale che i membri di quella comunità non combatteranno tra di loro
fisicamente, ma risolveranno le loro controversie in un altro modo. Gli Stati che
convivono in una comunità di sicurezza hanno creato non solo un ordine stabile ma, in
realtà, una pace stabile. Tra le condizioni che promuovono l'emergere di comunità di
sicurezza, egli indica le seguenti: accresciute comunicazioni sociali, maggiore mobilità
degli individui, legami economici più forti e una più ampia gamma di reciproche
transazioni umane. Molti liberali sociologici condividono l'idea che le relazioni
transnazionali tra individui di paesi differenti contribuiscano a creare nuove forme di
società umana che coesistono o addirittura possono entrare in competizione con lo
stato-nazione.
John Burton propone un ‘’modello a ragnatela’’ di relazioni transnazionali, con l'intento
di dimostrare che ogni stato-nazione consiste di molti gruppi differenti di individui con
differenti tipi di legami esterni e di interessi. La sovrapposizione delle appartenenze di
gruppo minimizza il rischio di conflitto grave tra due gruppi qualsiasi.
Secondo i liberali sociologici disegnando una mappa delle modalità di comunicazione e
di transazione tra i vari gruppi si ottiene un'immagine del mondo più aderente al vero,
in quanto idonea a rappresentare le effettive modalità di comportamento umano
piuttosto che artificiali confini di stati.
Oltre che sulle relazioni transnazionali a livello macro delle popolazioni umane,
Rosenau concentra l'attenzione su quelle intessuti a livello micro dagli individui. A suo
giudizio, le transazioni individuali esercitano ripercussioni importanti sulle questioni
globali. In primo luogo, gli individui hanno enormemente ampliato le loro attività
grazie ai più elevati livelli di istruzione, all'accesso ai mezzi di comunicazione
elettronici e ai viaggi all'estero. In secondo luogo, in un mondo sempre più complesso
la capacità degli stati di esercitare un'efficace attività di controllo e regolamentazione
sta diminuendo. Quello odierno e quindi un mondo di individui più informati e più
mobili, assai meno legati che in passato ai loro stati.
È quindi in atto una profonda trasformazione del sistema internazionale: il sistema
anarchico basato sulla centralità dello Stato non è scomparso, ma al suo interno sta
emergendo un nuovo ‘’ mondo multicentrico composto di collettività libere dalla
sovranità, che esiste autonomamente e in competizione col mondo stato-centri co di
attori vincolati dalla sovranità’’.
Egli sostiene dunque la tesi liberale che un mondo sempre più pluralista, caratterizzato
da reti transnazionali di individui e gruppi sarà necessariamente più pacifico. Solo in
rare circostanze i conflitti sfoceranno nell'uso della forza grazie alla crescita numerica
dei nuovi individui cosmopoliti che fanno parte di molti gruppi parzialmente dovrà
posti e che difficilmente saranno disposte a lasciarsi irreggimentare in schieramenti
contrapposti.
Le tesi del liberalismo sociologico possono essere sintetizzate nel modo seguente. Le
RI costituiscono un terreno di studio dove ci si occupa non solo delle relazioni tra
governi nazionali, ma anche di quelle tra singoli individui, gruppi e società. Le relazioni
tra gruppi di individui indipendenti e parzialmente sovrapposti sono necessariamente
più cooperative di quelle tra stati, perché questi ultimi sono entità chiuse, i cui
interessi, secondo il liberalismo sociologico, non si sovrappongono né si incrociano.
Pertanto, un mondo con un gran numero di reti transnazionali non può che essere più
pacifico.
-Liberalismo dell’interdipendenza
I liberali dell'interdipendenza si concentrano sugli enti sovranazionali.
La teorizzazione dell'interdipendenza appartiene chiaramente la tradizione liberale,
ma a causa della sua attenzione modo in cui i fattori economici influenzano le relazioni
politiche, può anche essere vista come parte delle prospettive EPI.
Richard Rosecrance ha analizzato gli effetti della maggiore interdipendenza sulle
politiche degli stati. Per i paesi altamente industrializzati gli strumenti più adeguati e
meno costosi per acquisire peso politico e prosperità sono lo sviluppo economico e il
commercio estero. La ragione principale, secondo Rosecrance, va ricercata nel
cambiamento del carattere e delle basi della produzione economica: nel mondo di oggi
le chiavi del successo sono rappresentate da forza lavoro qualificata, accesso
all'informazione e capitale finanziario e non più il possesso di territorio e di ingenti
risorse naturali. Secondo Rosecrance, alla fine della guerra fredda le grandi potenze si
stanno sempre più orientando verso l'opzione ‘’ stato commerciante’’. Questi liberali
sostengono che un alto livello di divisione del lavoro nell'economia internazionale
accresce l'interdipendenza tra gli Stati e che ciò scoraggia e riduce i conflitti violenti
tra di essi. Lo scenario in cui gli Stati moderni ritornino a una politica di riarmo e di
contrapposizioni violente non appare affatto probabile. È nei paesi meno sviluppati
che oggi scoppiano le guerre perché, secondo Rosecrance, a bassi i livelli di sviluppo
economico la terra continua a essere il fattore di produzione dominante.
Durante la Seconda guerra mondiale, David Mitrany propose una teoria funzionalista
dell'integrazione secondo la quale una maggiore interdipendenza, sotto forma di
legami transnazionali tra i paesi, dovrebbe condurre alla pace. Secondo Mitrany, tale
cooperazione dovrebbe essere gestita non dai politici, bensì da esperti, ossia da
persone tecnicamente preparate capaci di escogitare soluzioni adeguate per i problemi
più ricorrenti in varie aree funzionali. Quando dall'efficiente collaborazione tecnica ed
economica nelle organizzazioni internazionali scaturirà un miglioramento generale
delle condizioni di vita, i cittadini trasferiranno la loro lealtà dallo stato alle
organizzazioni internazionali. In questo modo, l’interdipendenza economica condurrà
all' integrazione politica e alla pace.
A Ernst Haas si deve una cosiddetta teoria neofunzionalista dell’integrazione
internazionale, ispirata dall’intensificazione della cooperazione tra i paesi dell’Europa
occidentale che ebbe inizio negli anni Cinquanta. Haas rifiuta l’idea che le questioni
‘’tecniche’’ possano essere separate dalla politica. Per promuovere l'integrazione è
necessario indurre le élite politiche, intrinsecamente interessate al proprio tornaconto,
hai intensificare i rapporti di cooperazione. L’ integrazione è un processo grazie al
quale gli attori politici si convincono a trasferire la loro lealtà verso un nuovo centro le
cui istituzioni posseggono o esigono giurisdizione sui preesistenti stati nazionali.
Tuttavia, quando nella seconda metà degli anni 60 la politica di cooperazione tra i
paesi dell’Europa occidentale entrò in una lunga fase di ristagno, i teorici
dell'integrazione furono costretti a rivedere le loro teorie. Haas, per esempio, si
convinse della necessità di subordinare la teoria dell'integrazione regionale a una
teoria generale dell'interdipendenza. Fu appunto alla formulazione di una teoria
generale dell'interdipendenza che si tentò di giungere nella fase successiva del
pensiero liberale.
Un tentativo di elaborare una teoria generale dell'interdipendenza complessa fu
compiuto verso la fine degli anni ‘70 da Robert Keohane e Joseph Nye Jr. Essi
sostengono che l'interdipendenza complessa del dopoguerra è qualitativamente
diversa da precedenti e più semplici tipi di interdipendenza. In precedenza, l’alta
politica della sicurezza e della sopravvivenza aveva la priorità rispetto alla bassa
politica dell'economia e delle questioni sociali. In situazioni di interdipendenza
complessa le cose non stanno più così per due ragioni. In primo luogo, le odierne
relazioni tra gli Stati non sono solo relazioni tra capi di Stato; esistono relazioni a molti
livelli differenti, gestite da un gran numero di esponenti e di funzionari dei vari
governi. In secondo luogo, numerose relazioni transnazionali sono portati avanti da
individui e gruppi al di fuori dei canali statuali. A ciò si aggiunge che la forza militare
intesa come strumento della politica perde buona parte della sua utilità. Di
conseguenza, le relazioni internazionali stanno diventando sempre più simili alla
politica interno. Inoltre, vanno acquisendo sempre maggiore importanza risorse
differenti dagli arsenali bellici disponibili. Infine, Gli Stati debbono occuparsi sempre di
più della bassa politica e sempre di meno dell'alta politica.
L’ interdipendenza complessa implica chiaramente relazioni molto più amichevoli e
cooperative tra gli Stati a causa della crescente frammentazione e diffusione del potere
negli affari economici, derivante dalla crescente interconnessione delle economie
nazionali. Secondo Keohane e Nye da ciò derivano numerose conseguenze. In primo
luogo, Gli Stati perseguono simultaneamente obiettivi differenti e altrettanto fanno gli
attori transnazionali, come le ONG e le società multinazionali. In secondo luogo, la
posizione di preminenza di uno stato riguarda perlopiù settori specifici. In terzo luogo,
l'importanza delle organizzazioni internazionali è destinata a crescere: sono le arene
politiche dove gli Stati deboli possono far sentire la propria voce, stimolando la
formazione di coalizioni e sovrintendendo alla messa appunto delle agende
internazionali.
Per quanto riguarda la dimensione temporale, l'interdipendenza complessa appare
correlata con la modernizzazione sociale, ossia con lo sviluppo a lungo termine dello
Stato del benessere. Per quanto riguarda invece la dimensione spaziale, si riscontra
soprattutto nei paesi industrializzati e pluralisti, in quanto l'importanza
dell'interdipendenza complessa cresce parallelamente all'evolversi della
modernizzazione.
Keohane e Nye si preoccupano però di sottolineare che il realismo non è né rilevante
né obsoleto poiché anche il mondo dei paesi industriali dell'occidente è tuttora un
mondo di stati. Per i realisti, qualsiasi problema può diventare una questione di vita o
di morte in un mondo anarchico. I liberali dell'interdipendenza replicano che questa
visione è troppo semplicistica e che molti dei problemi che compaiono sull'agenda
internazionale sono importanti questioni della vita di tutti i giorni.
Il liberalismo dell'interdipendenza può essere compendiato nel modo seguente: la
modernizzazione accresce il livello e l'ampiezza dell'interdipendenza tra gli Stati. In
una situazione di interdipendenza complessa, cresce l'importanza degli attori
transnazionali, la forza militare è uno strumento sempre meno utile e il benessere,
piuttosto che la sicurezza, sta diventando l'obiettivo e l'interesse prioritario degli stati.
Tutto ciò significa che le relazioni internazionali stanno diventando sempre più
cooperative.
-LE CRITICHE NEOREALISTE AL LIBERALISMO
Il principale antagonista del liberalismo è il neorealismo. Il primo grande dibattito
nelle RI ha diviso lo schieramento liberale in due gruppi: i liberali deboli che si sono
avvicinati allo schieramento realista e illiberale forti che continuano a farsi portavoce
di una visione più marcatamente liberale della politica mondiale. La natura umana, uno
dei principali punti di dissenso nei precedenti dibattiti, non è più il tema centrale della
discussione per due ordini di ragioni. Anzitutto, sia trai neorealisti sia fra i liberali è
cresciuta la consapevolezza che la natura umana è altamente complessa; la tensione
deve essere spostata verso il contesto sociale e politico per spiegare i moventi del
comportamento degli esseri umani, portati al bene quanto al male. La seconda ragione
è legata all'influenza esercitata dal movimento behaviorista nelle scienze politiche, che
indusse un numero crescente di studiosi a concentrare l'attenzione sull'analisi dei fatti
osservabili e dei dati misurabili nel mondo esterno, cioè sulle modalità del
comportamento umano.
I realisti classici hanno una concezione non progressiva della storia: Gli Stati
rimangono stati immersi in un immutabile sistema anarchico che li induce al self-help
e a salvaguardare la propria sicurezza dalla minaccia di potenziali nemici armandosi.
La sicurezza di uno stato è sinonimo di insicurezza per un altro. Il risultato finale può
essere una corsa al riarmo destinata a sfociare in una guerra. Per i liberali la storia è
almeno potenzialmente progressiva e basata su quattro presupposti. Ma i neorealisti
fanno notare che tali presupposti liberali esistono da lunghissimo tempo non sono mai
riuscite a impedire lo scoppio di violenti conflitti fra gli Stati. I neorealisti hanno anche
da ridire sul ruolo che i liberali attribuiscono alle istituzioni internazionali. La
cooperazione che gli Stati praticano attraverso tali istituzioni è frutto unicamente di
loro decisioni dettate da specifici interessi. Le istituzioni contano ben poco e se talvolta
esercitano un effetto indipendente sulle relazioni internazionali e probabile che questo
accada nelle aree della bassa politica e non dell'alta politica. Infine, i neorealisti
criticano il liberalismo repubblicano, sottolineando che esiste sempre la possibilità che
uno stato liberale o democratico regredisca all'autoritarismo o a qualche altra forma di
governo non democratica.
C’è dunque un filo rosso che attraversa le critiche dei realisti ai vari filoni del
liberalismo: la persistenza dell'anarchia e l'insicurezza che essa genera. Neppure le
democrazie liberali possono trascendere l'anarchia che non può essere rimossa: finché
questa prevale non c'è modo di sfuggire al self-help e al di là Imma della sicurezza.
La ritirata sulla linea del liberalismo debole
A queste obiezioni neorealiste, i liberali hanno reagito in due modi differenti. Un
gruppo adottato una strategia difensiva accettando parecchie delle argomentazioni
realiste, compresa quella sostanziale della persistenza dell'anarchia. Si tratta del
gruppo dei liberali deboli. Mentre i liberali forti ribadiscono che nel mondo si stanno
verificando dei cambiamenti fondamentali in linea con le aspettative dei liberali.
Il pensiero di Robert Keohane, uno degli studiosi protagonisti del dibattito tra liberali e
neorealisti, costituisce un esempio di come un liberale può ritoccare la propria visione
in modo da tener conto delle critiche realiste. Nel suo primo lavoro con Joseph Nye Jr,
inquadrabile nel filone del liberalismo sociologico, l'autore traccia un'importante
distinzione tra un paradigma stato-centrico e un paradigma di politica mondiale: il
primo concentrare la tensione sulle interazioni interstatuali, il secondo sulle
interazioni transnazionali, nelle quali attori diversi dai governi svolgono un ruolo
significativo.
9. Quali sono le origini storiche e gli assunti principali del filone del mercantilismo
Questa teoria è intimamente connessa con l’instaurazione del moderno stato sovrano
nel corso de XVI e del XVII secolo. Il mercantilismo esprime la visione del mondo delle
élites politiche protagoniste della costruzione dello stato moderno.
Il punto centrale del loro approccio è che l’economia costituisce uno strumento della
politica, un pilastro del potere politico. L’economia internazionale è concepita come un
terreno di scontro tra opposti interessi nazionali. Secondo il mercantilismo, la
ricchezza materiale accumulata da uno stato può essere usata per rafforzare un potere
politico-militare utilizzabile contro altri stati. La rivalità economica tra gli Stati può
assumere due forme differenti: mercantilismo difensivo o benigno: 1) gli stati badano
ai loro interessi economici nazionali perché tale politica è un ingrediente importante
della loro sicurezza nazionale; 2) mercantilismo aggressivo o riprovevole: gli stati
tentano di sfruttare l'economia internazionale attraverso politiche espansionistiche
(es. imperialismo delle potenze coloniali europee in Africa e in Asia).
Per i mercantilisti, forza economica e potere politico-militare sono obiettivi
complementari che si alimentano reciprocamente in un circolo virtuoso. Il
perseguimento della forza economica supporta lo sviluppo del potere militare e
politico dello stato, il quale esercita un’azione di controllo e di guida sugli interessi
economici privati. I mercantilisti contestano alla radice il pensiero liberale: accrescere
la ricchezza nazionale e rafforzare il potere politico-militare sono strategie
complementari utili per il medesimo scopo fondamentale, ovvero il rafforzamento
dello stato. La dipendenza economica dagli altri stati deve essere più possibile evitata.
Quando si manifesta un conflitto fra interessi economici e interessi di sicurezza, la
priorità spetta a questi ultimi. Di solito, ricchezza e potere possono essere perseguiti
contemporaneamente con reciproco vantaggio. I mercantilisti sostengono che
l’economia deve essere subordinata alla finalità primaria di accrescere il potere dello
stato. Il contenuto concreto delle politiche raccomandate per raggiungere tale scopo è
cambiato nel tempo.
Al mercantilismo si sono ispirati alcuni eminenti politici ed economisti. Alexander
Hamilton, uno dei padri fondatori degli Stati Uniti, era un fervente sostenitore del
mercantilismo inteso come un insieme di politiche protezionistiche mirante a
promuovere lo sviluppo dell'industria negli Stati Uniti.
I più recenti pensatori mercantilisti focalizzano l'attenzione sui successi conseguiti in
termini sviluppo da alcuni stati dell'est asiatico: Giappone, Corea del Sud e Taiwan.
Essi sottolineano che il successo economico è sempre stato accompagnato
dall'assunzione, da parte dello stato, di un forte ruolo di guida nella promozione dello
sviluppo economico.
-IL liberalismo economico
Il liberalismo economico nacque come critica al mercantilismo. I liberali economici
contestavano la totale subordinazione dell'economia alla politica. Essi ritengono che la
creazione di un mondo moderno sia una conseguenza di fattori interni al mercato.
Adam Smith sosteneva che i mercati tendono spontaneamente a espandersi in modo
da garantire il soddisfacimento dei bisogni umani. Al corpo delle idee liberali egli
aggiunge il concetto chiave del mercato quale principale fonte di progresso,
cooperazione e prosperità. Ogni interferenza politica o regolamentazione imposta
dallo stato è invece diseconomica, regressiva e potenzialmente foriera di conflitti.
L’economia liberale è stata definita una dottrina e un complesso di principi per
organizzare e gestire la crescita economica e il benessere individuale. Il concetto su cui
essa si basa è che, se lasciata a sé stessa, l'economia di mercato funziona
spontaneamente in conformità a proprio meccanismi o leggi, considerate un aspetto
intrinseco del processo della produzione e dello scambio. Secondo Paul Samuelson, in
un'economia mondiale basata sul libero commercio tutti i paesi beneficeranno della
specializzazione produttiva per la quale possiedono un vantaggio comparato (la
maggiore efficienza relativa), e la ricchezza globale aumenterà. Nella gestione degli
affari economici il vero protagonista è l'individuo, in quanto consumatore e in quanto
produttore. Il mercato è il terreno aperto dove gli individui si incontrano per
scambiare beni e servizi. L’individuo si comporta in modo razionale nel perseguimento
dei loro interessi economici e del proprio guadagno. Lo scambio attraverso il mercato
è un gioco a somma positiva: grazie all'aumento dell'efficienza, ciascuno guadagna
quanto punta. Secondo i liberali economici si può partire da questa concezione degli
individui come essere razionali ed egoisti per comprendere anche la politica (teoria
delle scelte razionali). La strada verso la prosperità umana passa attraverso
l'espansione dell'economia di mercato, ossia del capitalismo, a livello internazionale.
Tra i liberali economici ferve però un dibattito incessante sulla misura in cui le
interferenze politiche da parte dei governi possono essere necessarie. Agli inizi tutti
esaltavano il lasseiz-faire. Lasseiz-faire significa che lo stato deve limitarsi a
predisporre quei paletti minimali che sono necessari affinché il mercato possa
funzionare correttamente. Questa è la visione classica del liberalismo economico,
attualmente ripresentata con la denominazione di conservatorismo o neoliberalismo.
Alcuni liberali economici auspicano un più elevato grado di interferenza dello stato nel
mercato. Per prevenire o per porre rimedio ai casi in cui il mercato funziona in modo
difforme dalle aspettative di efficienza e di mutuo guadagno (ex. fallimenti del
mercato) possono essere necessarie misure politiche di regolamentazione. John Stuart
Mill era un liberale fautore della lasseiz-faire, ma al contempo esprimeva l'auspicio che
lo stato intervenisse, seppure in misura limitata, sulle condizioni di estrema
disuguaglianza in termini di reddito, ricchezza e potere che scorgeva intorno a sé nella
Gran Bretagna del XIX secolo (ex. in settori quali istruzione, aiuti ai più bisognosi). Nel
Novecento, Keynes era favorevole all'idea di un mercato saggiamente gestito dallo
stato: per migliorare gli aspetti negativi del mercato (che si presentano sotto forma di
rischio, incertezza e ignoranza) si rende necessaria una più lungimirante gestione
politica del mercato. Questa concezione positiva del ruolo dello stato segna un radicale
cambiamento di rotta nella dottrina economica liberale. Le idee keynesiane spianano
la strada a una teoria liberale significativamente riformata con un grado considerevole
di interferenza e controllo da parte dello stato. Dopo il successo nei due decenni
successivi alla Seconda guerra mondiale, negli anni ’80 il pendolo tornò a spostarsi
verso il liberalismo classico del lasseiz-faire nella convinzione che la globalizzazione
economica avrebbe significato prosperità per tutti.
In breve, i liberali economici affermano che l'economia di mercato è una sfera
autonoma della società, che funziona secondo proprie leggi. Nel corso del tempo, la
parte moderna dell'economia tende a ridurre l'importanza dei settori arretrati con
l'effetto di aumentare l'efficienza e quindi la ricchezza. Lo scambio economico è un
gioco a somma maggiore di zero, e il mercato tende spontaneamente a massimizzare i
benefici per gli individui razionali ed egoisti, per le famiglie e per le società che vi
operano. L'economia è una sfera di attività dove stati e individui cooperano a reciproco
vantaggio. L’economia internazionale dovrebbe quindi essere basata sul libero
scambio. Secondo i liberali economici classici, lo stato non deve intromettersi nel
funzionamento del mercato, a livello sia internazionale sia nazionale. Tuttavia, nel XX
secolo c’è stato un cambio di direzione.
10. Marxismo. / Si descrivano i tratti principali delle teorie marxiste dell’EPI
Il pensiero di Karl Marx in merito all’economica politica rappresenta sotto molti
aspetti una critica radicale del liberalismo economico. Marx respinge la visione liberale
ottimistica indica nell'economia un terreno di sfruttamento umano e di disuguaglianza
di classe (borghesia e proletariato). Secondo Marx, politica ed economia sono
strettamente collegate e il primato è assegnato alla seconda dimensione.
L’ economia capitalista si basa su due classi sociali antagoniste: la borghesia, che
possiede i mezzi di produzione e il proletariato che possiede la forza lavoro che vende
sul mercato. Il proletariato fornisce, in termini di lavoro, più di quanto riceve indietro
come retribuzione; di questo plusvalore si appropria la borghesia. Il profitto del
capitalista scaturisca dallo sfruttamento del lavoro.
Quella marxista è una concezione materialistica nel senso che si basa sull'idea che, in
qualsiasi società, l'attività fondamentale riguarda il modo in cui esseri umani
producono i loro mezzi di sussistenza. La produzione economica è la base di tutte le
altre attività umane comprese la politica. La borghesia, che governa l'economia
capitalista attraverso il controllo dei mezzi di produzione, tende a governare anche la
sfera politica dal momento che l'economia sta alla base della politica.
Sulla base dell'analisi marxista della politica interna è stata costruita una teoria
dell’EPI. Gli stati non sono attori autonomi, ma sono guidati dagli interessi delle
rispettive classi dominanti. Le lotte tra gli stati, comprese le guerre, devono pertanto
essere interpretate nel contesto economico della concorrenza tra le classi
capitalistiche dei differenti stati. In secondo luogo, in quanto sistema economico, il
capitalismo è un sistema espansivo, incessantemente proiettato alla ricerca di nuovi
mercati e di maggiori profitti. Poiché le classi sono trasversali rispetto agli stati, la lotta
di classe si è espansa attorno al mondo prima sotto forma di imperialismo e di
colonizzazione, oggi come globalizzazione economica guidata da società
multinazionali. Per i marxisti, la storia dell’EPI è dunque la storia dell'espansione
capitalistica sull'intero globo.
Lenin
analizzò questo processo, giungendo alla conclusione che l'espansione capitalistica
non può che creare disuguaglianza tra paesi. Secondo l’autore, nel regime capitalistico
disuguaglianze e conflitti per la ridefinizione delle sfere d'influenza internazionali sono
destinate a insorgere continuamente. La nozione di sviluppo diseguale segnala
l'esigenza di un'analisi storica dell'espansione capitalista. Gli avvenimenti debbono
sempre essere analizzati all'interno del loro specifico contesto storico.
Le tesi che stanno alla base del pensiero marxista possono essere compendiate nel
modo seguente. L’ economia è un terreno di sfruttamento e di diseguaglianza tra le
classi sociali (borghesia e proletariato). La politica è in larga misura determinata dal
contesto socioeconomico e la classe economica dominante e dominante anche sul
piano politico (borghesia= classe dirigente delle economie capitalistiche). Lo sviluppo
capitalistico globale e disomogeneo e destinato a provocare crisi e contraddizioni, sia
fra gli Stati sia fra le classi sociali. Le teorie marxiste dell’EPI si occupano dunque della
storia dell'espansione capitalistica globale, delle lotte tra classi estati alle quali essa ha
dato origine nelle diverse regioni del mondo, e delle modalità di una possibile
trasformazione rivoluzionaria.
Robert Cox: Cox teorizza una complessa interazione tra politica ed economia partendo
dal concetto di strutture storiche, definite come una particolare configurazione di forze
che interagiscono e che sono di tre tipi: capacità materiali, idee e istituzioni.
Le strutture storiche sono identificate a tre livelli differenti, denominati:
forze sociali ( è un altro modo di indicare il processo di produzione capitalistico);
forme di stato (indica i modi in cui gli Stati cambiano per effetto dell'interazione con le
forze sociali dello sviluppo capitalistico);
ordine mondiale (fa riferimento all'attuale organizzazione delle relazioni
internazionali, allo status del diritto internazionale e alle istituzioni internazionali).
Il compito dello studioso è scoprire come si svolgono le relazioni tra politica ed
economia nell'attuale fase della storia umana. Per quanto riguarda le forze sociali del
capitalismo, esse sono coinvolte nell’intenso processo di globalizzazione economica,
nel duplice aspetto di internazionalizzazione della produzione e dei movimenti
migratori dal sud al nord del mondo. La globalizzazione è alimentata dalle forze di
mercato, ma Cox prevede che i nuovi movimenti sociali che la contestano acquisiranno
via via sempre più forze.
In merito alle forme di stato si registrano cambiamenti dovuti ai differenti modi in cui
gli Stati partecipano all'economia politica globale. Gli stati competono per assicurarsi
posizioni di vantaggio partendo dal presupposto che l'integrazione nell'economia
globale sia inevitabile. Al contempo, cresce l'importanza delle grandi società
multinazionali e delle ONG.
Infine, per quanto concerne l'ordine mondiale, la tendenza a lungo termine sarà quella
di una progressiva erosione dell'attuale posizione di predominio globale degli Stati
Uniti.
Immanuel Wallerstein: Un altro recente approccio neomarxista è quello di Wallerstein
che adotta come punto di partenza il concetto di sistema-mondo. I sistemi-mondo sono
aree unificate, caratterizzate da strutture economiche e politiche particolari. Economia
e politica sono strettamente collegate: un sistema-mondo è definito da una peculiare
struttura economica e da una peculiare struttura politica, ciascuna dipendente
dall’altra. Nella storia umana sono esistiti due tipi fondamentali di sistema mondo:
1) gli imperi-mondo (es. antico impero di Roma), nei quali il controllo politico ed
economico è concentrato in un unico centro;
2) le economie-mondo, che sono unificate economicamente da un’unica divisione del
lavoro, mentre l’autorità politica è decentrata in una molteplicità di forme di governo,
in un sistema di stati.
L’economia- mondo capitalistica, al centro dell’analisi di Wallerstein, nacque e si
consolidò durante il lungo XVI secolo per poi espandersi in altre zone del mondo.
All’interno della divisione internazionale del lavoro si verificò un processo di
specializzazione. L’ economia-mondo capitalistica si articola in una gerarchia di:
-aree centrali (contengono le attività economiche più avanzate e complesse, gestite da
una borghesia locale);
-aree periferiche (situati in fondo alla struttura gerarchica, producono merci di base,
spesso sfruttando schiavi o manodopera coatta, la scarsa attività industriale esistente è
perlopiù controllata dai capitalisti dei paesi centrali);
-aree semiperiferiche (costituiscono, economicamente, una via di mezzo, nel senso che
si collocano a metà strada tra lo strato superiore dei paesi centrali e quelle inferiori dei
paesi periferici).
Un meccanismo fondamentale dell'economia-mondo capitalistica è quello dello
scambio diseguale che consente trasferimento di plusvalore dalla periferia al centro.
Gli effetti del meccanismo di trasferimento sono ulteriormente accentuati dalla forza
degli apparati statuali del centro e dalla debolezza di quelli della periferia. In tal modo,
il capitalismo comporta anche l'appropriazione da parte dei paesi del centro del
plusvalore prodotto dall'intera economia-mondo. La semiperiferia svolge una funzione
importante perché costituisce un fattore di stabilità politica, funge da ammortizzatore.
Wallerstein e altri neomarxisti qui si distaccano dal marxismo classico. La tesi della
teoria del sistema-mondo è che il capitalismo frena lo sviluppo.
Wallerstein sottolinea che il sistema capitalistico in quanto tale non cambia: esso era
ed è una gerarchia comprendente un centro, una semiperiferia e una periferia,
caratterizzata dallo scambio diseguale. Wallerstein interpreta la fine della guerra
fredda e la disgregazione blocco sovietico come una conseguenza dello sviluppo
dell'economia-mondo capitalistica. Tuttavia, la prospettiva a lungo termine rimane il
crollo del sistema capitalistico, a causa della continua è necessario ricerca di
espansioni che porterà crisi sempre più frequenti ed intense a causa delle risorse
limitate. Nel lungo termine la trasformazione del capitalismo è inevitabile.
11.Teoria della stabilità egemonica
La teoria della stabilità egemonica è stata proposta per la prima volta da Charles
Kindleberger, è stata sviluppata da Robert Gilpin ed è stata influenzata da diversi
dibattiti recenti.
L'esistenza di una potenza militarmente ed economicamente egemone è il presupposto
necessario per la creazione e il pieno sviluppo a livello globale di un'economia di
mercato liberale perché senza di essa è impossibile imporre l'adozione di norme
liberali in tutto il mondo. È questa, nella sua versione più schematica, la teoria della
stabilità egemonica che si rifà alla concezione mercantilista secondo cui la politica
deve farsi carico dell'economia. La teoria accoglie anche un importante elemento
liberale, cioè l'estensione dell'economia di mercato.
In realtà, affinché un ordine economico liberale possa nascere e consolidarsi a livello
mondiale, bisogna che la potenza egemonica sia anche disposto ad assumere il ruolo
egemonico e che si impegni convintamente a sostenere un ordine mondiale di tipo
liberale sia nelle fasi di espansione sia nelle fasi di recessione dell'economia mondiale.
Uno stato dominante ha bisogno di un certo numero di differenti risorse di potere per
svolgere il ruolo di Stato egemone. In aggiunta alla potenza militare, secondo Keohane
(teorico liberale), è necessario il controllo su quattro tipi di risorse economiche
mondiali: materie prime, capitali, mercati e vantaggio competitivo nella produzione di
merci di valore molto elevato.
Secondo la teoria della stabilità egemonica, la necessità che esista uno stato egemone
ha a che fare con la natura dei beni che esso fornisce. Un'economia liberale su scala
mondiale appartiene alla categoria dei cosiddetti beni pubblici o collettivi, categoria
nella quale rientrano bene i servizi che una volta forniti creano vantaggi per tutti. Una
caratteristica dei beni pubblici è la non-escludibilità: a nessuno può essere negato il
diritto di accedervi. (Un esempio di bene pubblico a livello internazionale è: stabilità
delle monete, sicurezza, pace). I problemi con i beni pubblici sono la disponibilità
insufficiente e ciò che gli economisti chiamano free riding, e cioè la possibilità di usarli
senza pagarli. I beni pubblici esistenti sono un invito al free riding. Dunque, un diffuso
free riding può comportare l’impossibilità di produrre i beni pubblici essenziali in
quantità sufficiente. È qui che entra in gioco il paese egemone: occorre una potenza
dominante che garantisca la disponibilità di quei beni e che si occupi dei problemi
creati dai free riders, per esempio penalizzandoli.
Per formulare la teoria della stabilità egemonica, Kindleberg ha usato uno studio della
grande depressione tra le due guerre e ha identificato un'impressionante coincidenza
tra egemonia liberale negli affari internazionali e stabilità economica. Due sono i più
importanti esempi storici di egemonie liberali: la Gran Bretagna nel periodo dalla fine
delle guerre napoleoniche alla Prima guerra mondiale (1815-1014) e gli Stati Uniti
dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La Gran Bretagna, come potenza
commerciale globale e imperiale, aveva un profondo interesse a mantenere
un'economia mondiale aperta basata sul libero scambio. Dopo la Seconda guerra
mondiale, Gli Stati Uniti presero l'iniziativa di creare il sistema di Bretton Woods, un
nuovo insieme di istituzioni di accordi sulla stabilità finanziaria. Quando negli anni 70
la bilancia commerciale americana cominciò ad andare il rosso, Gli Stati Uniti
adottarono politiche più orientate agli interessi nazionali, introducendo misure
protezionistiche e cominciando così a comportarsi da egemone predatore. Si apre così
una nuova era caratterizzato da crescente protezionismo, instabilità monetaria e crisi
economica.
Questi sviluppi hanno posto
la questione se sia concepibile una governance funzionante quando lo stato dominante
non adempie al suo ruolo di leader egemonico o non esiste nessun stato in grado di
assumersi la responsabilità di egemone.
Su questo punto, nei dibattiti sull'EPI si sono
scontrati negli anni '70/'80 realisti (ex. Gilpin) e liberali (ex. Keohane). Come ha
notato Keohane (1984) in After Egemony, la logica dell'azione collettiva e la
cooperazione nell'ambito dei regimi internazionali possono essere realizzate anche in
assenza di un potere egemonico (ex. un gruppo di stati può fornire un bene pubblico
altrettanto efficacemente quando esistono interessi comuni). Una volta che siano
create le necessarie istituzioni internazionali, queste hanno una propria persistenza,
operano indipendentemente dagli stati e sono in grado di promuovere la cooperazione
anche in presenza di un declino egemonico. Il dibattito sui regimi è stato al centro
dell'EPI negli anni '80 del secolo scorso. After Egemony di Keohane era una risposta al
vuoto di controllo (control gap) creato dalla crescente interdipendenza e
dall'indebolimento della potenza USA. Il vuoto avrebbe potuto essere colmato con la
creazione e il mantenimento di regimi, ossia intese implicite o esplicite sulle regole del
gioco in grado di contribuire e mantenere forme di cooperazione reciprocamente
vantaggiose (Cohen 2008). I regimi contribuiscono a risolvere il problema che sorge in
quanto spesso la cooperazione viene a mancare anche se cooperare è nell'interesse
della maggioranza degli stati (Keohane 1984) → relazioni internazionali anarchiche ≠
relazioni internazionali caotiche.
Sia i realisti sia i liberali all'interno dell'EPI hanno visto l’accresciuta cooperazione
internazionale come naturale nel periodo 1945-70: i realisti a causa dell’egemonia
americana, i liberali grazie alla più stretta interdipendenza. I regimi favorivano la
variabile intermedia (intervening variable), che spiegava perché la cooperazione fosse
continuata negli anni ‘70-‘80. La fine della guerra fredda ha significato un nuovo
formidabile impulso per l'ordine economico occidentale. Il fatto che negli anni ‘90
l'egemonia americana sembrasse nuovamente in una fase ascendente, ha reso il
dibattito sulla trasformazione del sistema meno prioritario, specialmente nell'ambito
dell'EPI statunitense. In questa riflessione teorica vi è un aspetto più generale: i teorici
delle RI soffrono per l'eccessiva vicinanza agli eventi che studiano.
Alla vigilia del XXI secolo quasi tutti i paesi erano ora desiderosi di essere parte del
sistema capitalistico occidentale della globalizzazione economica. In che misura il fatto
che molti stati che hanno intrapreso la modernizzazione (ex. Cina) si sono impegnati in
un processo di sorpasso economico minaccerà di egemonia statunitense e comporterà
una crisi per l'ordine globale capitalistico come predetto da alcuni osservatori?
Consideriamo, in primo luogo, la questione della potenza statunitense. Diversi
osservatori dibattono l'idea che la potenza economica degli Stati Uniti sia in netto
declino. Gli Stati Uniti restano molto forti per quanto attiene alle tradizionali risorse di
potere (forze armate, economia, tecnologia, territorio). Si è registrato un relativo
declino nelle condizioni economiche complessive, ma questo era probabilmente
inevitabile date le grandi disparità iniziali. Gli Stati Uniti continuano a esercitare una
leadership mondiale in aree caratterizzate da innovazione tecnologica e competitività,
sono particolarmente forti nei settori più avanzati e a elevato contenuto di
informazione e in risorse della potenza di tipo immateriale (ex. cultura popolare a
vocazione universalistica). I valori liberali in linea con l'ideologia americana permeano
anche alcune istituzioni internazionali (ex. FMI, WTO). Ciò conferisce agli Stati Uniti
una quantità rilevante di potere morbido o soft power. Se si accettano queste
argomentazioni, non si può che concludere che l'egemonia USA è tuttora molto forte:
l’ampia varietà di risorse della potenza possedute conferisce agli Stati Uniti la
possibilità di egemone globale più completo della storia (Brown 2013).
Il problema di quest'analisi è che si concentra soltanto sulle risorse della potenza
possedute da un paese in differenti campi. Un vero egemone di successo, però, deve
essere in grado e disposto a usare dalle risorse per la creazione di un'economia
mondiale efficace e stabile. Qui, i precedenti degli USA, sia prima che dopo la fine della
guerra fredda, sono meno spettacolari. Dunque, il problema è la capacità/volontà degli
Stati Uniti di assumersi la responsabilità di sostenere l'economia liberale su scala
mondiale. Più di recente, critiche analoghe sono state mosse contro l'amministrazione
Bush, Obama e Trump: gli Stati Uniti rimangono la più grande potenza al mondo, ma
non svolgono il ruolo di una leadership illuminata, restringendo anzi il loro orizzonte
alla mera soddisfazione delle esigenze di gruppi di interesse interni. Inoltre, l'accusa
rivolta al governo statunitense in occasione della crisi del 2008 fu di essersi
preoccupato troppo di mantenere alto il livello dell'attività economica interna e troppo
poco di introdurre una solida regolamentazione volta evitare l'eccesso di speculazione
finanziaria (Wade 2008).
La posizione neomarxista, come esposta da Robert Cox, condivide l'idea che il declino
economico relativo degli USA costituisca un problema per uno stabile ordine
economico. L'autore, però, pone l'accento sulla dimensione dialogica dell'egemonia. Un
ordine egemonico stabile si basa su un insieme condiviso di valori e interpretazioni,
derivato dai modi di agire e di pensare degli strati sociali dominanti dello stato
dominante. In altre parole, l'egemonia USA si è basata non solo sulla potenza materiale,
ma anche sul consenso, cioè su un modello di società che gli altri paesi trovano
attraente e desideravano emulare. Questa linea di pensiero è vicina l'idea liberale di
soft power, ma sottolinea anche una nozione di potere in termini di risorse combinate
con la capacità e la disponibilità di impegnare queste risorse nella costruzione di
un'economia mondiale stabile. Inoltre, molti marxisti vedono l'egemonia USA come un
veicolo per il controllo di stati più deboli da parte delle potenze occidentali (→
economia liberale mondiale = sinonimo negativo di controllo economico e politico del
mondo a proprio vantaggio da parte dell'élite capitalista).
Oggi, intorno alla potenza statunitense è sorto un nuovo dibattito. Benché alcuni
pensino che stiamo vivendo nell'epoca dell'impero USA, altri ritengono che il potere
americano sia piuttosto fragile e instabile. Da una parte, indubbiamente gli Stati Uniti
restano il numero uno in termini di risorse di potenza (in particolare potenza militare)
→ base della forza statunitense. Dall’altra, in tempi più recenti, gli Stati Uniti non sono
stati sempre capaci e desiderosi di fare buon uso delle proprie risorse. Per questa
ragione numerosi osservatori trovano che l'economia mondiale presenti una
situazione di crisi piuttosto che il quadro di uno stabile ordine egemonico → base della
debolezza statunitense. Data la situazione descritta, l'ordine capitalistico globale è in
crisi? La visione ottimistica mette in risalto il fatto che il sistema di governance, in
realtà, ha funzionato abbastanza bene, anche a fronte della crisi finanziaria e della
grande recessione che è seguita. Come osserva Ravenhill (2017) le politiche beggarthy-neighbour del periodo fra le due guerre (politiche tese a scaricare sugli altri paesi,
con dazi e simili, gli effetti della recessione) sono state in larga misura evitate. Questa
considerazione conferma l'idea che oggi i regimi internazionali siano più forti. Una
buona illustrazione di ciò è la differenza tra la natura de facto della cooperazione
internazionale durante la Pax britannica e la natura molto più istituzionalizzata della
cooperazione internazionale creata dopo la Seconda Guerra mondiale. Che cosa
possiamo imparare da queste discussioni in merito al più ampio dibattito sul rapporto
tra politica ed economia? In primo luogo, sebbene il realismo abbia ragione
nell'indicare la necessità di un quadro di riferimento politico per lo svolgimento
dell'attività economica, ciò non significa che esista un rapporto a senso unico in cui la
politica svolge un ruolo dominante rispetto all'economia. Al contrario, le due si
influenzano reciprocamente. In secondo luogo, il declino relativo degli Stati Uniti non
ha significato un crollo totale dell'economia liberale mondiale, ma è anche chiaro che
l'attuale regime liberale di regolazione deve essere modificato allo scopo di creare una
maggiore stabilità economica. Infine, una potenza egemone può accettare la
responsabilità di svolgere compiti internazionali di cui altri non possono occuparsi, ma
essa conterrà sempre una sostanziosa componente di interesse nazionale. È
impossibile decidere preventivamente quale faccia dell'egemonia prevarrà. In
conclusione, liberalismo, marxismo e realismo mercantilismo hanno, ciascuno, rivelato
un aspetto importante del rapporto tra politica ed economia. Ciascuna delle tre teorie
presenta però specifiche carenze che la rendono inadeguata spiegare, da sola, il
complesso rapporto tra politica ed economia. La regolamentazione politica crea i
presupposti per le attività economica (≠ mercantilismo: politica esercita un totale
controllo sull'economia), l'economia condiziona e influenza la politica (≠ marxismo:
economia determina le scelte politiche) e il mercato ha una propria dinamica
economica (≠ liberalismo: economia di mercato è una sfera autonoma della società).
Dopo il crollo di bretton Woods negli anni 70 il dibattito si è aperto tra chi riteneva che
la potenza economica americana fosse in declino, rischiando di trascinare con sé
l'intera impalcatura economica internazionale, e chi sosteneva che gli Stati Uniti
fossero ancora dominanti ed in grado di continuare a plasmare il volto economico
globale.
Il dibattito accademico ha messo in discussione la teoria della stabilità egemoniche
nella sua forma più ‘’ pura’’. In particolare3, si è analizzato il ruolo delle grandi
potenze, la cui partecipazione attiva e necessaria per il mantenimento dell'economia
liberale si è discusso dei regimi internazionali i quali sono stipulati non tanto grazie ad
un egemone ma proprio per i vuoti creati da esso. Infine, Robert Kehone ha sostenuto
che l’egemone è indispensabile per la creazione dell'infrastruttura economica
internazionale aperta ma una volta che le istituzioni internazionali sono state avviate il
sistema open reggere da solo.
GILPIN: Gilpin ha affrontato la stessa situazione portando il realismo nell'EPI. Per
Gilpin, gli stati sono chiaramente gli attori più importanti nelle relazioni internazionali,
ma le caratteristiche del sistema economico internazionale dipendono da quali sono gli
stati dominanti (teoria della stabilità egemonica).
12. Quali sono le più rilevanti critiche che gli studiosi costruttivisti rivolgono al
neorealismo
Il neorealismo rimane il principale antagonista intellettuale della teoria costruttivista.
Innanzitutto, i neorealisti mettono sotto accusa l’importanza che i costruttivisti
attribuiscono alle norme (in particolare quelle internazionali), le quali invece vengono
quasi sempre ignorate se contrastano con gli interessi degli stati più potenti. Inoltre,
secondo questi autori, cercare di infondere negli stati norme comunitarie grazie alla
reciproca interazione sociale è praticamente irrealizzabile, poiché l'effetto congiunto
di anarchia, capacità di offendere e incertezza sulle intenzioni altrui è tale che in ultima
analisi gli stati non hanno altra alternativa che competere aggressivamente fra loro e
comportarsi in modo egoistico. Per i neorealisti, il problema dell'incertezza che
riguarda le interazioni sia attuali sia future di altri stati (principale problema che gli
stati devono fronteggiare a causa dell'anarchia), non è sufficientemente analizzato dai
costruttivisti. Il problema dell'incertezza consiste nel fatto che, a causa dell'anarchia,
gli stati sono costantemente assillati dal desiderio di accrescere la propria sicurezza, e
ogni loro mossa in tale direzione può essere equivocata da altri stati. Il problema
dell'incertezza è significativamente aggravato dalla presenza, nelle relazioni tra molti
stati, di una pervasiva componente di dissimulazione (≠ costruttivisti, i quali tendono
a presumere che l'interazione sociale tra gli stati sia sempre sincera). A questa critica i
costruttivisti replicano che l'anarchia è un'entità più complessa di come la dipingono i
neorealisti, e che non necessariamente essa sfocia nel self-help, in atteggiamenti
aggressivi e nel rischio di conflitti armati. Se non si incorpora nell'analisi una
riflessione sulle idee, sull'integrazione sociale e sulla formazione di interessi e di
identità, non è possibile pervenire a una corretta comprensione della natura
dell'anarchia in un particolare periodo storico. L'eventualità che le professioni di
amicizia tra alcuni stati non sempre siano l'espressione di un effettivo impegno in tal
senso può essere affrontata analizzando con cura il grado di interiorizzazione
(hobbesiano, lockiano, kantiano). I neorealisti, a loro volta, possono ribattere che il
primo grado di interiorizzazione di Wendt è il più diffuso nel mondo reale e ciò
rappresenterebbe dunque un’implicita ammissione dell'importanza cruciale
dell'analisi neorealista dell'anarchia. Un'altra critica mossa dai neorealisti investe la
concezione costruttivista del cambiamento. I costruttivisti forniscono scarsi
chiarimenti sui motivi per cui certe concezioni si diffondono o regrediscono, arrivando
di solito la conclusione che cambiamenti del mondo materiale innescano cambiamenti
in quello ideazionale. Essi non riescono a spiegare come si formano le norme, come si
modellano le identità e come si determinano gli interessi. I costruttivisti respingono
l'accusa di ignorare il cambiamento. È piuttosto il neorealismo, affermano, che
sottovaluta il cambiamento dichiarando che le relazioni internazionali si risolvono, in
sostanza, nell’immutabile logica dell'anarchia. I costruttivisti studiano il cambiamento
attraverso l'analisi dell'interazione sociale. Riguardo ai meccanismi artefici del
cambiamento, alcuni costruttivisti citano fattori che coinvolgono l'istituzionalizzazione
della conoscenza, dei comportamenti e delle concezioni degli individui.
13.Costruttivismo
14.Cosa intende Wendt quando afferma l'anarchia è ciò che fanno gli Stati di essa
Quella di Wendt è un’analisi sistemica, che focalizza l’attenzione sull’interazione tra
stati in un sistema internazionale e ignora il ruolo dei fattori interni ai singoli stati.
Il nucleo centrale del ragionamento di Wendt è il rifiuto della tesi neorealista secondo
cui dall'anarchia non può che scaturire, per ogni stato, la tendenza a fare affidamento
sulle proprie forze. Per i neorealisti, identità e interessi sono elementi dati: ogni stato
sa che cos'è e che cosa vuole prima di avviare interazioni con gli altri stati. Per Wendt,
al contrario, è proprio l'interazione che crea e sostanzia una struttura di certe identità
e di certi interessi piuttosto che di altri; al di fuori di questo processo, una struttura
non ha esistenza né poteri causali. A ogni stato premono due cose: sopravvivenza e
sicurezza; su ciò neorealisti e costruttivisti sono d’accordo.
Sono i significati collettivi a costituire le strutture che organizzano le nostre azioni. Gli
attori acquisiscono le rispettive identità in quanto partecipano di tali significati
collettivi. Il punto di partenza di Wendt coincide con quello di Waltz: l'interazione tra
gli stati in un sistema caratterizzato dall'anarchia. Ma non è detto che l'anarchia debba
necessariamente condurre una politica di autosufficienza: solo un'ulteriore analisi
dell'interazione deduttiva fra gli Stati consente di scoprire quale specifica cultura
dell'anarchia si è sviluppata tra di essi. L’ autore propone di classificare l'anarchia in
tre tipi ideali: hobbesiana, lockiana e kantiana.
1)Hobbesiana: nella cultura hobbesiana la logica è quella della guerra di tutti contro
tutti: Gli Stati sono nemici e la guerra è endemica, perché il conflitto violento è uno
strumento di sopravvivenza(sistema degli stati fino al XVII secolo) ;
2)Lockiana: nella cultura lockiana, ogni stato considera tutti gli altri rivali, ma
riconosce loro il diritto all'esistenza (moderno sistema degli stati dopo la pace di
Westfalia del 1648)
3)Kantiana: nella cultura kantiana, gli stati cercano di risolvere pacificamente
eventuali controversie e si alleano in caso di minaccia da parte di terzi (situazione
affermatesi nel secondo dopoguerra tra le democrazie liberali consolidate).
Naturalmente, non è detto che le tre differenti culture dell’anarchia siano
interiorizzate nella medesima misura (cioè il modo in cui gli Stati si considerano l'un
l'altro può essere più o meno profondamente condiviso). Wendt propone di
distinguere tre livelli di ‘’interiorizzazione culturale’’: il primo è caratterizzato da un
grado relativamente debole di impegno nei confronti di idee condivise, il terzo da un
forte impegno. Si vieni così a determinare una matrice di 3 gradi di cooperazione per 3
gradi di interiorizzazione. Wendt conclude che il costruttivismo non si limita ad
aggiungere il ruolo delle idee alle teorie RI esistenti. Pertanto, in un sistema anarchico
ciascuno stato può possedere risorse militari di altro tipo che gli altri stati possono
considerare potenzialmente minacciose, ma ostilità e corsa al riarmo non sono esiti
inevitabili: l'interazione sociale tra gli Stati può anche condurre a una cultura
dell'anarchia più benevola e amichevole.