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scrivere poesia

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FARE POESIA
PREMESSA
Inizia il nostro cammino “insieme” nel mondo della poesia.
E’ auspicabile una forma di apprendimento collaborativo tra quanti frequentano il forum e l’integrazione tra studio della
teoria e le applicazioni pratiche. Sarà la circolarità delle conoscenze ad arricchire il nostro percorso poetico.
Ogni lezione sarà organizzata in due parti:
- UNA TEORICA il più possibile sintetica
- UNA PRATICA di esercitazione.
LEZIONE 1 - TEORIA
CHE COS’E’ LA POESIA?
Ai fini del nostro studio la poesia è un genere letterario il cui testo è suddiviso in versi.
CHE COS’E’ UN VERSO?
E’ una riga di scrittura, interrotta da un a capo, che viene un po’ prima del margine destro della pagina e che spesso non
coincide con la fine della frase. Il verso è l’unità di base nella scansione in versi, è in rapporto agli altri, ma è
concepibile ed analizzabile anche da solo.
CHE COS’E’ LA STROFA?
E’ un raggruppamento di versi.
CHE COS’E’ LA METRICA?
La metrica è l’arte dei versi; cioè insegna il modo di comporre e misurare i versi, determinandone le leggi e gli
elementi.
La metrica si divide in:
prosodia = studia gli elementi del verso ( sillabe, accenti ….) e ciò che lo rapporta ad altri versi (es. rime)
forme metriche = studiano le strutture testuali (es. ode, canzone, sonetto ….)
PROSODIA: LA SILLABAZIONE
CHE COS’E’ LA SILLABA?
E’ l’unione di più lettere (vocali e consonanti) che si pronunciano con una sola emissione di voce.
REGOLE PER CONTARE LE SILLABE:
Ecco le regole generali per sillabare in modo corretto le parole italiana 1:
[…]
• una vocale, quando è all’inizio di parola ed è seguita da una sola consonante, fa sillaba a sé: a-mi-co;
•
le vocali di un dittongo o di un trittongo non possono mai essere divisi e, quindi, formano una sola sillaba: aiuo-la, pie-de.
Erroneamente alcuni gruppi di vocali possono essere presi per dittonghi. Per non sbagliare è importante sapere che non
forma dittongo il gruppo costituito dalla vocale i seguita da un’altra vocale nelle parole composte in cui la i appartiene
alla prima parte del composto e le altre vocali alla seconda parte: ri-u-sci-re, chi-un-que. Allo stesso modo non forma
dittongo e quindi è separabile dal resto la i seguita da altre vocali nelle parole derivate, se la forma primitiva della
parola era accentuata sulla i e perciò non poteva formare dittongo: spi-a-re (da spì-a);
• due vocali in iato (Quando due vocali, una finale di parola e l'altra iniziale della parola seguente, s'incontrano,
si ha l'iato (dal latino: hiare: stare a bocca aperta). possono essere divise: ma-e-stro, e-ro-e;
•
una consonante semplice posta tra due vocali o seguita da vocale forma sempre sillaba con la vocale che
segue: pa-lo, a-mo-re, fi-lo-so-fo;
1 Tratte da “La grammatica della lingua italiana”, M. Sensini, Oscar Mondadori, pagg. 37-38
1
•
•
le consonanti doppie si dividono sempre fra due sillabe, cioè una sta con la vocale che precede e l’altra con
quella che segue: bal-lo, car-ret-tie-re.
•
i gruppi di due o più consonanti diverse tra loro e consecutive formano sillaba con la vocale che le segue se
costituiscono un gruppo che può trovarsi all’inizio di una parola: ca-pri-no, de-sti-no, di-ma-gri-re (in italiano
esistono parole che iniziano con pri-, sti-, gri-: primo, stima, grigio);
•
i gruppi di due o più consonanti diverse tra loro e consecutive si dividono in modo che la prima consonante del
gruppo vada con la vocale precedente e l’altra o le altre con la vocale della sillaba che segue se non
costituiscono un gruppo che può trovarsi all’inizio di una parola. Ciò succede, in particolare, con i gruppi
consonantici bd, bs, cm, cn, ct, dm, gm, lm, mb, mp, nc, nt ecc.: bac-te-rio, im-por-tan-za, dif-te-ri-te, com-bina-zio-ne;
•
la s seguita da una o più consonanti forma sillaba con la vocale che segue (la cosiddetta s preconsonantica):
ri-spo-sta, e-sclu-sio-ne;
•
le parole composte con i prefissi trans-, tras-, dis-, cis-, in- e simili si possono dividere secondo le regole
citate, oppure, specialmente se nella parola i due componenti sono sentiti ancora come distinti, conservando
integro il prefisso: così si può sillabare tanto tras-por-ta-re quanto tra-spor-ta-re, tanto dis-per-de-re quanto disper-de-re. La tendenza della lingua, tuttavia, è quella di rispettare le regole generali: tra-spor-ta-re, di-sper-dere, di-spor-si;
i digrammi e i trigrammi non si dividono mai: in-ge-gno, bi-scia, fi-glia-stro.”
Preciso alcuni termini.
I dittonghi sono delle unità sillabiche composte di una i o una u semiconsonantiche + una vocale che può essere
accentata o no.
I dittonghi si dividono in due gruppi: i dittonghi ascendenti e i dittonghi discendenti.
I dittonghi ascendenti sono quelli che presentano la semiconsonante i o u prima della vocale.
Es.: piede, piove, chiesa, piazza, fiume,
quello, questo, muoversi, palio, nuotare.
I dittonghi discendenti sono quelli che presentano prima la vocale e poi la i o la u semiconsonante. In questo caso le
semiconsonanti sono chiamate più correttamente semivocali.
Es.: laurea, pausa, poi, mai, altrui, eucalipto, sei.
i trittonghi, che sono composti da tre vocali pronunciate con una sola emissione di voce e formano una sola sillaba.
Sono formati da i e u semiconsonantiche + vocale accentata o da i semiconsonantica + vocale accentata + i
semivocalica.
Es.: buoi, suoi, miei, tuoi.
Lo iato avviene quando due vocali che sono una di seguito all’altra nel corpo della parola non vengono pronunciate con
una sola emissione di voce, come nel caso dei dittonghi, e quindi non costituiscono un’unica sillaba, ma due.
Questo succede:
1-quando si incontrano le vocali a,e,o: e-ro-e, bo-a-to, pa-e-se;
2- quando una delle due vocali è una i o una u sulla quale cade l’accento: vì-a, spì-a, scì-a, pa-ù-ra.
In questo caso lo iato rimane anche nelle parole che derivano da quelle che portano tali vocali accentate: vi-a-le, spi-ata, pa-u-ro-so.
3- dopo i prefissi ri-, bi-, e tri-. Es.: ri-u-sci-re, bi-en-na-le, tri-an-go-lo.
4- in parole derivate dal latino dove la u in una sequenza –uo, anche se non accentata, non è consonantica: in-no-cu-o.
Da notare come l’incontro della i con un’altra vocale non formi né un dittongo né uno iato quando la i stessa segue la c,
la g, e i gruppi gruppo gl e sc. In questo caso la i è solo un segno grafico che serve per dare un suono dolce alle lettere e
i gruppi suddetti.
Es.: sciarpa, ciabatta, bacio, ciurma, foglia, giorno, giacca, figlio.
I digrammi sono rappresentati dai gruppi ch, gh, ci, gi, gl, gn, sc.
Se il digramma gl, oltre che da una i è seguito da un’altra vocale, il gruppo gli forma un trigramma.
DALLA SILLABA AL VERSO
Se la capacità di riconoscere correttamente le sillabe che compongono una parola è importante in grammatica, essa è
2
ancora più importante nella metrica, perché i versi italiani fondano la loro identità di base proprio sul numero di sillabe
che li compongono. Da questo fatto deriva il concetto di sillabismo valido in poesia, e che Beltrami esemplifica così:
due serie sono composte dallo stesso numero di sillabe se l’ultima tonica è nella stessa posizione 2
Quindi, due versi saranno dello stesso tipo se porteranno l’ultima accento sulla sillaba che occupa la stessa posizione. In
italiano, i casi normali sono tre:
1- all’ultima sillaba tonica segue una sillaba atona. In questo caso il verso ha uscita piana ed è detto verso piano.
2la serie (il verso) termina con l’ultima sillaba tonica. In questo caso il verso ha uscita tronca ed è detto verso
tronco
3all’ultima sillaba tonica seguono due sillabe atone. In questo caso il verso ha uscita ed è detto verso sdrucciolo.
4- Rarissimo il caso di tre sillabe atone dopo l’ultima sillaba tonica (verso bisdrucciolo).
Nella metrica italiana, essendo la lingua stessa più ricca di parole con uscita piana, si è deciso di dare il nome al verso
sulla base dell’uscita piana.
Perciò se, ad esempio, un verso è scomponibile in una serie dove l’ultimo accento cade sulla decima sillaba, allora il
verso sarà un endecasillabo.
Mi- ri-tro-vai- per-u-na –sel-va oscu-ra
L’endecasillabo potrà essere
•
tronco, quindi essere scomposto in una serie di dieci sillabe;
Van - da - San - Gui – do in - du - pli - ce - fi - làr,
•
sdrucciolo, quindi essere scomposto in una serie di dodici sillabe;
Ec - co - l’ac - qua - che - scro - scia e il - tuon - che - brón - to - la:
•
bisdrucciolo, quindi essere composto in una serie di tredici sillabe; ma se l’ultima sillaba accentata
occupa la decima posizione, sarà sempre e comunque un endecasillabo.
Se–ca-drò-com-bat-te-ndo a-mi-co-vén-di-ca-mi
E lo stesso discorso vale per tutti gli altri versi tradizionali.
Dall’applicazione del concetto di sillabismo deriva che la nostra tradizione poetica è isosillabica, cioè possiede tipi di
versi basati sullo stesso numero di sillabe.
Ma la poesia italiana possiede anche un’esperienza anisosillabica, cioè ha prodotto forme di versificazione che,
partendo da un verso base, ammettevano una certa oscillazione del numero di sillabe (una o due in genere), senza
perdere l’impressione di avere a che fare sempre con lo stesso tipo di verso base. Questo avvenne soprattutto nella
poesia delle origini, dove l’attenzione era più spostata sulla rima che sul numero di sillabe. Nell’ambito della
versificazione libera moderna l’anisosillabismo può esistere anche senza doversi poggiare sulla maggiore importanza
della rima.
Le regole grammaticali che ho esposto per dividere correttamente una parola in sillabe, però, di solito non sono mai
sufficienti per determinare il numero di sillabe che compongono i versi in una poesia.
Se per esempio, sappiamo che la Divina Commedia di Dante è scritta con la forma metrica della terzina che consiste di
endecasillabi, ci aspettiamo che ogni verso sia di undici sillabe. E, seguendo solamente le regole suddette, se il conto
delle sillabe ci ridà con il primo verso:
Nel – mez- zo – del – cam – min – di – no – stra – vi – ta (undici sillabe)
già con il secondo verso non ci tornano le undici sillabe che ci aspettiamo. Infatti:
mi – ri – tro – vai – per – u – na – sel – va – o – scu – ra (dodici sillabe).
Il fatto è che quando tutte le vocali in un verso sono separate almeno da una consonante la scansione metrica
corrisponde con quella grammaticale.
Di- me- me-des-mo- me-co- mi –ver-go-gno (Rvf. 1, 11)
2
“Gli strumenti della poesia”, Pietro G. Beltrami, Ed. Il Mulino, pag.32.
3
Quando ciò non avviene, le regole grammaticali non sono più sufficienti a spiegare la scansione metrica. Alle
regole esposte bisogna aggiungere l’influenza di alcuni fenomeni che comportano una variazione del numero di sillabe
rispetto alla norma.
I fenomeni contemplati dalla metrica (o istituti metrici) più importanti sotto questo aspetto sono quattro:
• la sinalèfe,
• la dialèfe,
• la sinèresi e
• la dièresi.
Che vedremo nella prossima lezione.
LEZIONE 1
-
PRATICA
1) Presentati agli altri amici del forum con un ACROSTICO.
CHE COS’E’ UN ACROSTICO? E’ un componimento poetico in cui le iniziali dei singoli versi, lette
nell’ordine, formano una o più parole, come per esempio il nome di una persona.
ES: (IVANA)
I nventar
V ersi
A nnaspando
N ell’
A nimo.
2) Dividi in sillabe questa poesia di Vincenzo Cardarelli: AUTUNNO
Autunno. Già lo sentimmo venire
nel vento d’agosto,
nelle pioggie di settembre
torrenziali e piangenti,
e un brivido percorse la terra
che ora, nuda e triste,
accoglie un sole smarrito.
Ora passa e declina,
in quest’autunno che incede
con lentezza indicibile,
il miglior tempo della nostra vita
e lungamente ci dice addio.
3) Reinventa la poesia “AUTUNNO” con la tecnica del RICALCO.
COME SI FA IL RICALCO?
Fare il ricalco di una poesia, significa riscriverne il testo poetico, sostituendo alcune parole e/o anche tutte, ed
anche avvicinarsi allo stile del poeta ed al suo contenuto, lasciando libera la propria creatività.
LEZIONE 2
SILLABISMO E ACCENTO
(TEORIA)
Nella lezione precedente abbiamo visto che i versi italiani sono caratterizzati dal numero di sillabe e come il computo
delle stesse dipenda anche dalla posizione dell’ultima tonica. Ogni parola ha una sillaba più “forte” delle altre su cui
cade l’accento (detto ICTUS). Per questo la metrica viene chiamata sillabico - accentuativa.
4
Per facilitare la sillabazione di un verso, esso va considerato come una “sola lunga parola”, per cui si avrà una filza di
sillabe. Poi si legga questo verso ritmicamente, come se fosse una filastrocca, una di quelle che i bambini chiamano
“conte”.
ESEMPIO:
Dolce e chiara è la notte e senza vento (Leopardi)
Se contiamo le sillabe grammaticali, otteniamo 14 sillabe:
Dol-ce-e-chia-ra-è-la-not-te-e-sen-za-ven-to
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14
Uniamolo, ora, come se fosse una lunga parola e proviamolo a scandire ritmicamente, come se fosse una filastrocca:
Dolceechiaraèlanottesenzavento
ci verrà spontaneo dividerlo così
Dol/ce/chia/raè/la/not/te/sen/za/ven/to
Ecco cosa è successo:
Dol-ce_e-chia-ra_è-la-not-te_e–sen-za-ven-to
1
2
3
4 5 6
7
8 9 10 11
Abbiamo unito alcune vocali, quelle segnalate con la lineetta blu, per un arteficio di nome SINALEFE.
Questo per spiegare che il computo metrico delle sillabe non corrisponde sempre a quello grammaticale, poiché è
soggetto alle figure metriche:
 SINALEFE




DIALEFE
SINERESI
DIERESI
IATO
SINALEFE
Si ha le sinafele quando la vocale finale di una parola e l’iniziale di quella seguente si contraggono in un’unica
sillaba. Nel testo poetico la sinalefe non è segnalata da alcuna convenzione. Nei manuali di metrica, e in sede di analisi,
si può usare un arco che sottende le parti interessate, o un angolo con il vertice rivolto in alto (^) segnato sopra.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. (Petrarca, Canzoniere, I, 1)
Voi-ch’a-scol–ta–te^in–ri–me–spar–se^il–suo–no.
DIALEFE
Si ha la dialefe quando in un verso la vocale finale di una parola e la vocale iniziale di quella seguente rimangono
separate e contano per due sillabe,
Nel testo poetico la dialefe non è segnalata da alcuna convenzione. Nei manuali di metrica, e in sede di analisi, si usa un
angolo con il vertice rivolto in basso (Ú) posto tra le vocali interessate al fenomeno, o una barretta verticale o qualche
altro segno.
che la diritta via Ú era smarrita. (Dante, Inferno, I, 3)
(Dialefe tra “via” e “era”)
SINERESI
In senso stretto, si dice sineresi il fenomeno per il quale un nesso di due vocali che dovrebbe essere diviso in due
sillabe vale una sola sillaba, per la sineresi non è previsto alcun segno convenzionale che la segnali.
Questi parea che contra me venisse (Dante, Inferno I, 46)
parea, secondo la grammatica, ha tre sillabe, in questo verso ne ha due soltanto.
Un fenomeno nel quale in parte rientra la sineresi è dato dalla regola per la quale, in un verso, i nessi di vocale tonica e
atona in fine di parola
come via, mai, mia, tua, tuo, suo, poi, voi, lui, lei, ecc. –
che valgono due sillabe alla fine del verso, valgono una sillaba quando si trovano all’interno.
Per esempio, la parola via vale due sillabe a fine verso, una sillaba all’interno del verso. Dalla grammatica sappiamo
che la parola ha normalmente due sillabe, quindi possiamo dire che la sua scansione sillabica rimane immutata a fine
verso, mentre all’interno del verso subisce il fenomeno della sineresi.
che la diritta via era smarrita. (Dante, Inferno, I, 3)
5
via si trova all’interno del verso quindi è considerato formato da una sola sillaba
che- la- di-rit-ta- via- e-ra –smar-ri-ta.
La stessa cosa vale per parole come spia, mio, suo ecc.
DIERESI
La dieresi è il fenomeno per il quale un nesso di due vocali, normalmente monosillabico, vale due sillabe.
Nei testi poetici per la dieresi è previsto un segno, detto dieresi grafica, consistente in due punti (..) che sormontano una
vocale del nesso interessato.
For-se- per-ché -del-la- fa-tal -quï-e-te (Foscolo “Alla sera”)
il dittongo ie qui viene separato per dieresi.
All'interno di un verso due vocali di solito sono considerate facenti parti di una stessa sillaba, quindi o sono
dittonghi o sono iati 3che formano sineresi; se c'è un caso di dieresi si può segnalare con l'apposito segno diacritico.
La parola poi, invece, contiene il dittongo oi e la grammatica, dalle regole che abbiamo sopra descritto, ci dice che essa
è monosillabica. Quindi all’interno del verso verrà rispettata la sua scansione sillabica normale, mentre a fine verso,
valendo due sillabe, subirà il fenomeno della dieresi. La stessa cosa vale per parole come mai, lui, lei ecc. Ma a fine
verso, non si usa mai rilevare la divisione del nesso in due sillabe con la dieresi grafica.
ESEMPI:
primavera per me non è pur mai (Rvf. 9, 14); il nesso ai di mai è a fine verso, quindi mai risulta bisillabo.
pri-ma-ve-ra- per- me- non- è- pur- ma-i (endecasillabo)
ch’un dì cacciando sì com’io solea (Rvf. 23, 148); il nesso ea di solea è a fine verso, quindi solea è trisillabo.
ch’un- dì- cac-cia-ndo- sì- com’-io- sol-e-a. (endecasillabo)
Amor vien nel bel viso di costei (Rvf. 13, 2); il nesso ei di costei è a fine verso, quindi costei è trisillabo.
A-mor vien- nel -bel –vi-so- di –cos-te-i. (endecasillabo)
e all’interno dei versi la situazione cambia:
ma dentro dove già mai non aggiorna (Rvf. 9, 7); qui mai è un monosillabo.
di che sperato avea già lor corona (Rvf. 23, 44); qui avea è un bisillabo.
et aperta la via per gli occhi al core (Rvf. 3, 10); qui via è un monosillabo.
IATO: Si ha lo IATO quando, per ragioni metriche, le vocali si considerano in due sillabe distinte.
Quindi si verifica lo iato in presenza di dialefe e di dieresi.
AFERESI, APOCOPE, EPITESI E SINCOPE
Comuni nella tradizione poetica italiana sono altri fenomeni linguistici che permettono di variare la scansione in sillabe
nelle parole in modo da permettere un aggiustamento del numero delle stesse per adeguarle alle esigenze strutturali del
verso. Essi sono:
l’afèresi,
l’apòcope,
l’epìtesi (o paragòge) e
la sìncope.
• L’aferesi è la caduta della vocale o di una sillaba all’inizio di parola. Per esempio: rena per “arena”, verno per
“inverno”.
• La sincope è la caduta di una vocale interna di parola. Per esempio: lettre per “lettere”, spirto per “spirito”,
medesmo per “medesimo”.
• L’apocope è la caduta di una vocale a fine di parola. Per esempio: amor per “amore”, vuol per “vuole”, ancor
per “ancora”. Molto comune nella tradizione poetica italiana anche l’utilizzo delle forme apocopate per fornire
rime tronche, del tipo cuor: amor, utilizzate fino al primo Novecento, poi cadute decisamente in disuso, o
comunque spesso sentite come leziose nell’ambito dell’attuale versificazione libera.
3
Nel senso di due "vocali forti", non nel senso di due vocali separate da un accento.
6
•
L’epitesi (o paragoge) è l’aggiunta di una vocale a fine di parola. Per esempio: fue per “fu”, tue per “tu”, piue
per “più”
Per ulteriori approfondimenti si consiglia il testo “Glli strumenti della poesia” di Pietro G. Beltrami. Ed. Il Mulino
VERSI IMPARISILLABI E VERSI PARISILLABI
Sono chiamati versi parisillabi i versi con numero pari di sillabe, imparisillabi i versi con un numero dispari di sillabe.
Da notare che la tradizione italiana non usa combinare insieme versi imparisillabi e versi parisillabi.
L’ACCENTO
In italiano l’accento è quella caratteristica per la quale, in una parola, noi pronunciamo con maggiore forza una sillaba
rispetto alle altre, o meglio, pronunciamo con maggiore intensità la vocale di quella determinata sillaba. Questa
insistenza è detta accento tonico, o accento.
La sillaba sulla quale c’è l’accento tonico è detta tonica, mentre le altre sillabe non accentate sono dette atone.
Non c’è sempre perfetta coincidenza tra gli accenti che sono utili all’identificazione del verso e quelli che sono
comunque rilevabili nell’enunciato, e talvolta capita addirittura che un accento metrico si trovi su una sillaba che
normalmente non è accentata. Anche per questi motivi, i metricologi preferiscono usare il termine ictus invece di
accento.
Nella costituzione ed identificazione di un verso, oltre al numero di sillabe ha importanza fondamentale la disposizione
degli accenti. Quando si dice, per esempio, che un verso ha accento sulla 6° e sulla 10°, s’intende dire che esso possiede
la sesta e la decima sillaba toniche. Si definisce schema accentuativo di un verso la disposizione degli accenti essenziale
all’identificazione del verso stesso. Gli accenti, così, si distinguono in principali e secondari. Gli accenti principali sono
quegli accenti la cui corretta disposizione è essenziale per la correttezza del verso. Se questi accenti non sono disposti
nel modo idoneo, il verso, dal punto di vista della tradizione, non è corretto. Gli accenti secondari sono gli accenti non
essenziali alla definizione del verso, ma importanti per il ritmo dello stesso.
Ma com’è possibile individuare gli accenti metrici di un verso. Riporto la soluzione proposta dal Beltrami che
riprende quella di Marco Praloran in uno studio del 1988. Essenzialmente si fa coincidere l’accento metrico con
l’accento della parola e si definisce quali parole sono di regola atone e quali no.
Di regola sono atoni e non portano l’accento metrico: gli articoli, le preposizioni, le congiunzioni, i pronomi
personali monosillabici seguiti dal verbo; non in posizione non enfatica; gli aggettivi possessivi in posizione debole,
cioè seguiti dal sostantivo (mia vita); gli aggettivi di una sillaba seguiti dal sostantivo (gran dono); gli ausiliari di una
sillaba seguiti dal participio (è stato) ; gli ausiliari bisillabici quando il loro accento precede quello del participio (l’avea
fatto).
Gli aggettivi possessivi in posizione forte diventano tonici (in vita mia è tonico); e gli ausiliari bisillabici diventano
tonici se il loro accento non precede quello del participio (in abbia travolto è tonico); tonico anche non in posizione
enfatica.
Non raramente, nel linguaggio poetico capita d’imbattersi in alcune parole che presentano un’accentazione diversa da
quella usuale, cioè la sillaba tonica è diversa da quella della parola “normale”. Tale spostamento avviene per esigenze
ritmiche e metriche, e non a caso, ma basandosi sulle doppie forme delle parole nel linguaggio poetico.
Uno spostamento d’accento indietro, in sillabe precedenti la sillaba accentata d’origine, è detta sìstole. Es.: “pièta”
invece di “pietà”; “podèsta” invece di “podestà”.
Uno spostamento d’accento in avanti, in sillabe successive alla sillaba accentata d’origine, è detta diàstole. Es.: “umìle”
invece di “ùmile”; “simìle” invece di “sìmile”.
IL RITMO:
La poesia nasce come voce, e solo successivamente diventa voce scritta. Credo che ogni poesia, anche la più
"intimista", vada immaginata come detta a voce. E che leggere con la voce le poesie sia un esercizio importante.
Lo specifico della poesia sembra collegato alla presenza di un ritmo.
Il ritmo della poesia non è un gioco vano. Se la poesia è poesia, e non è l'esercizietto di stile e di retorica, il ritmo delle
parole accompagna il ritmo dell'emozione (emozione è parola scivolosa, lo so, ma la comunicazione poetica è
intrinsecamente comunicazione emotiva).
Non serve essere grandi attori per leggere poesia. Serve capire, stupirsi, amare e abbandonarsi.
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Credo che l'interpretazione della poesia sia un punto di mediazione fra lettura e scrittura. E’ come la musica: un
compositore di musica, un autore, comincia certamente con l'ascoltare. Poi, impara a suonare uno strumento e quindi a
interpretare. Infine, se ha talento e ispirazione, comincia a comporre musica sua.
Anche chi non "diventerà poeta", comunque, nell'interpretazione della poesia compie già un atto creativo. La poesia
interpretata appartiene all'autore e al lettore-ricreatore come la musica interpretata appartiene all'autore e al pianistaesecutore.
Una poesia può lasciarvi anche incerti o e smarriti per gli infiniti echi che suscita in voi.
Ma se "non capite le parole", o se la sintassi vi sembra un garbuglio, diffidate. Non è ingarbugliando le carte che si fa
poesia. Il poeta non ha nulla da nascondere, ha solo da rivelare quel pochissimo (una fessura, uno spiraglio) che ha visto
e che vuol farvi vedere. Può essere che un poeta giochi a nascondino per stile, ma lo scopo è sempre rivelare.
Il ritmo della parola è dunque il ritmo dell'emozione.
Le poesie non vanno lette come fossero prosa: "state attenti a non marcare con la voce la fine del verso". Questa
preoccupazione deriva probabilmente dalla necessità di evitare una lettura troppo cantilenata della poesia, ma rischia, se
spinta all'estremo, di vanificare l'intenzione del poeta. D'accordo, non dobbiamo leggere le poesie come filastrocche da
civette sul comò, ma ci sarà pure una ragione se chi le ha scritte è "andato a capo ogni tanto"…
La lettura migliore è quella che, tenendo ben conto del verso, tende ad assorbirne il ritmo, ad armonizzarsi su di esso.
Se una persona ci legge a voce alta una poesia sballandone completamente il ritmo, noi ci accorgiamo che quella
persona fondamentalmente non capisce ciò che sta leggendo.
LEZIONE 2 PRATICA:
1. Leggere a voce alta la seguente poesia di G. Carducci:
NEVICATA
Lenta fiocca la neve pe 'l cielo cinerëo: gridi,
suoni di vita piú non salgono da la città,
non d'erbaiola il grido o corrente rumore di carro,
non d'amor la canzon ilare e di gioventù.
Da la torre di piazza roche per 1'aëre le ore
gemon, come sospir d'un mondo lungi dal dí.
Picchiano uccelli raminghi a' vetri appannati: gli amici
spiriti reduci son, guardano e chiamano a me.
In breve, o cari, in breve - tu càlmati, indomito cuore –
giú al silenzio verrò, ne 1'ombra riposerò.
2. Eseguire la sillabazione del testo indicando le forme metriche rilevate
3. Crea una POESIA LISTA.
E’ una poesia in cui si inserisce una lista per fare ordine nella memoria personale, relativamente ad un tema scelto.
Per esempio, scegli uno dei temi sotto:
“dolcezze” - “ i propri ricordi” - le cose che mi rendono felice - le tristezze – i pensieri del sabato )) – ciò che
sono – ciò che purtroppo non sono – ciò che voglio - ciò che ho voluto – ciò che ho – ciò che desidero –ciò che ancora
sono ecc… poi fai una tua lista personale.
Esempio:
Dolcezze di Corrado Covoni
Il mare al tramonto
La voce di un’amica
Il volto di mia madre
La rosa gialla del mio giardino
Il calore del sole.
LEZIONE 3 TEORIA
PROSODIA: I VERSI ITALIANI - LA STROFA - LA RIMA -L’ENJAMBEMENT
I principali VERSI italiani si dividono in:
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PARISILLABI - IMPARISILLABI a seconda che abbiano un numero pari o dispari di sillabe
(vedere lezione 2) e a seconda del tipo di parola con cui terminano:
se terminano con una parola tronca sono tronchi
se terminano con una piana sono piani
e sono sdruccioli se terminano con una parola sdrucciola
per tronca si intende una parola con accento sull'ultima sillaba (cit-tà)
piana è una parola con accento sulla penultima (quasi tutte le parole italiane es. se-dia)
sdrucciola è una parola con accento sulla terzultima (ta-vo-lo)
questo aspetto è importante, in quanto gli accenti sono di fondamentale importanza nei versi
I principali versi italiani sono:
-
bisillabo: accento sulla 1^
Bisillabo
Die1- tro
qual1-che
ve1-tro
qual1-che
vi1-so
bian1-co (Cesareo)
- trisillabo o ternario: accento sulla 2^
Trisillabo
Si- ta2-ce,
non- get2-ta
più- nul2-la,
si- ta2-ce
non- s'o2-de
ru-mo2-re
di- sor2-ta (Palazzeschi)
- quaternario: accento sulla 1^ e la 3^
Quadrisillabo o Quaternario
Da1-mi-gel3-la
tut1-ta- bel3-la,
ver1-sa,- ver3-sa
quel1-buon- vi3-no (Chiabrera)
- quinario: accenti sulla 1^o sulla 2^ e sulla 4^
Quinario
Cit-tà2 – ga-gliar4-da
cit-tà2- cor-te4-se
per1-la- del- Gar4-da
fi1-glia- del-l'i4-ta-lo
nos1-tro- pa-e4-se (Prati)
9
- senario: accenti sulla 2^ e 5^
Senario
Fra-tel2-li d'Ita5-lia,
l'Ita2-lia-s'è -des5-ta,
del-l'el2-mo di Sci5-pio
s'è -cin2-ta -la –tes5-ta (Mameli)
- settenario: accenti su una delle prime 4 sillabe e sulla 6^
Settenario
Perché mostrarmi a dito?
Son io forse schernito
perché Neera ammiro
e sua beltà desiro
già vecchio divenuto? (Chiabrera)
- ottonario: accenti sulla 3^ e 7^ oppure sulla 4^ e 7^
Ottonario
Su 'l castello di Verona
batte il sole a mezzogiorno,
da la Chiusa al pian rintrona
solitario un suon di corno,
mormorando per l'aprico
verde il grande Adige va;
ed il re Tëodorico
vecchio e triste al bagno sta. (Carducci)
- novenario: accenti su 2^, 5^, 8^
Novenario
C'è una voce nella mia vita
Che avverto nel punto che muore;
voce stanca, voce smarrita
col tremito del batticuore. (Pascoli)
- decasillabo: accenti su 3^, 6^ e 9^
Decasillabo
S'ode a destra uno squillo di tromba;
a sinistra risponde uno squillo:
d'ambo i lati calpesto rimbomba
da cavalli e da fanti il terren.
Quinci spunta per l'aria un vessilli;
quindi un altro s'avanza spiegato:
ecco appare un drappello schierato;
ecco un altro che incontro gli vien. (Manzoni)
-endecasillabo: accenti su 6^ e 10^ oppure su 4^, 8^ e 10^, o ancora su 4^, 7^e 10^
Endecasillabo
La donne, i cavallier, l'arme, gli amori,
le cortesie, l'audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d'Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
10
seguendo l'ire e i giovanil furori
d'Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano. (Ariosto)
Per altri tipi di versi si rimanda a testi specifici.
LA STROFA
Dunque: più parole formano un verso, più versi formano una strofa. E così come i versi prendono il nome dal numero
delle sillabe ritmiche che li compongono, le strofe prendono il nome dal numero di versi da cui sono formate. Si
comincia con il distico:
Nella torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto. (Pascoli)
Poi c'è la terzina:
Lo maggior corno della fiamma antica
cominciò a crollarsi mormorando
pur come quella cui vento affatica. (Dante)
Quattro versi formano una quartina:
A te che, padre sei,
volgo dolente il ciglio;
pietà d'un mesto figlio,
che chiede libertà. (Metastasio)
Non c'è una strofa di cinque versi (o almeno, non ha un nome), ma c'è di sei, la sestina:
La vïoletta
che in sull'erbetta
s'apre al mattin novella,
di', non è cosa
tutta odorosa,
tutta leggiadra e bella? (Chiabrera)
Anche la strofa di sette versi non esiste, e si passa all'ottava, di otto versi:
Canto l'arme pietose e 'l capitano
che 'l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co 'l senno e con la mano,
molto soffrì nel glorïoso acquisto;
e in van l'Inferno gli s'oppose, e in vano
s'armò d'Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni ridusse i suoi compagni erranti. (Tasso)
I raggruppamenti di versi superiori a otto non hanno un nome ben definito, e si dirà: strofa di cinque versi, di nove versi,
ecc.
LA RIMA
Si definisce rima l'identità di una o più sillabe a partire dall'ultima vocale accentata.
La rima non deve essere confusa con l'assonanza= somiglianza di sillabe finali
es. sole- amore, il suono dell vocali è simile ma cambia la consonante.
Allo stesso modo la rima non va confusa con la consonanza che le è molto più simile
nella consonanza cambia l'accento della vocale :
es. cuòre amóre
i suoni delle o sono diversi, quindi non si ha una rima.
Le rime convenzionalmente si indicano con le lettere dell'alfabero (maiuscole)
spesso si usa indicare con la minuscola un'assonanza
in base allo schema delle rime (come sono ordinate) si avranno le seguenti rime:
AA= rima baciata ( cioè un verso rima con quello immediatamente seguente)
ABAB= rima alternata ( cioè un verso non rima con quello immediatamente seguente, ma con
quello successivo a questo)
11
ABBA= rima chiusa o incrociata ( in un gruppo di 4 versi, il primo rima con il quarto ed il
secondo con il terzo)
ABC ABC=rima ripetuta (si hanno quando in una poesia, i versi con la stessa uscita occupano la
stessa posizione in strofe diverse)
ABC CBA= rima invertita (cioè al passaggio da una strofa all’altra si inverte la posizione delle
rime)
particolare è la rima incatenata o terza rima introdotta da Dante nella Commedia
lo schema è:
ABA BCB CDC DED EFE ecc..
Rima costante: Essa collega tutte le strofe di un testo nella stessa posizione. Nelle varie strofe, le
altre rime cambiano, ma questa rimane appunto, costante.
Nella rimalmezzo invece si ha una specie di rima baciata, solo che l'ultima parola del verso rima
con una parola interna al verso successivo
Esempio di Leopardi:
“passata è la tempesta
odo augelli far festa, e la gallina…”
la rima è tra: tempesta, festa
Infine se non vi è rima si avranno i versi sciolti e i versi liberi
Attenzione a non confonderli:
i versi sciolti sono tutti di pari numero di sillabe [es. i sepolcri sono scritti in endecasillabi sciolti,
tutti endecasillabi senza rima;
invece i versi liberi non sono tutti uguali, ma misti, per es. metà endecasillabi, metà settenari o
anche più tipi e tutti senza rima, oppure con qualche rima ma senza uno schema fisso, di fatto
ogni verso ha le sue regole metriche, non si deve pensare ai versi liberi come a dei versi senza
regole, solo che non hanno uno schema fisso
ma sono disposti liberamente (tipici della poesia contemporanea)
PROSODIA: L’ENJAMBEMENT
In poesia si ha l'enjambemant quando in un verso non è contenuto compiutamente un concetto che si completa nel verso
successivo.
Il concetto di enjambement si applica a gruppi di parole che sono sentiti come fortemente uniti sia per motivi semantici
sia per motivi sintattici.
Ecco un esempio, tratto da I sepolcri del Foscolo, in cui il ricorso all'enjambement si verifica in ogni verso:
A egregie cose il forte animo accendono / l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella / e santa fanno al peregrin la terra /
che la ricetta. Io, quando il monumento / vidi ove posa il corpo di quel grande...
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La discordanza tra pausa metrica e pausa sintattica che l'enjambement determina serve a dare maggiore ampiezza e
musicalità al ritmo poetico.
A tal proposito, ci viene in aiuto Sandro Orlando, che nel suo manuale di metrica italiana riporta alcuni casi dei più
comuni enjambement presenti nella tradizione poetica italiana e fa alcune utili precisazioni:
“[…]
- quelli che legano aggettivo + sostantivo appartenenti a versi differenti ma consecutivi, come in Petrarca (RVF XLIII
1-2): Il figliuol di Latona avea già nove / volte guardato dal balcon sovrano;
- sostantivo + complemento di specificazione come, ad esempio, nel foscoliano Alla sera 11-12: […] e van con lui le
torme / delle cure onde meco egli si strugge;
- preposizione (articolata) + sostantivo: è il caso di Dante (Pg XX 4-5): Mossimi; e ‘l duca mio si mosse per li / luoghi
spediti pur lungo la roccia.
Questo modulo non si realizza solamente tra versi differenti ma trova impiego, seppure eccezionale, anche in unità
strofiche diverse […]”
(S. Orlando, “Manuale di metrica italiana”, Ed. Bompiani, pag.33)
Ma i gruppi scindibili sono anche: verbo + avverbio, ausiliare + participio passato del verbo e altri.
Vediamo un altro esempio illustre, “L’infinito” di Leopardi:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo; ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir fra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio;
e il naufragar m’è dolce in questo mare.
Qui possiamo riconoscere degli enjambement forti, del tipo sostantivo + aggettivo tra il quarto e il quinto verso: “[…]
interminati / spazi […]”; tra il quinto e il sesto verso: “[…] sovrumani / silenzi […]”; tra il nono e decimo verso: “[…]
io quello / infinito silenzio”; tra il tredicesimo e il quattordicesimo verso: “[…] Così tra questa / immensità […]”.
Altro enjambement forte è del tipo sostantivo + complemento di specificazione fra secondo e terzo verso: “[…] che da
tanta parte / dell’ultimo orizzonte […]”.
Un altro enjambement, ma di tipo diverso, è d’intensità un po’ più lieve è dato tra il settimo e l’ottavo verso: “[…] ove
per poco / il cor non si spaura. […]”; e ancora tra sesto e settimo: “e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo;
[…]”. Invece tra il penultimo e l’ultimo verso non c’è enjambement, e neppure tra terzo e quarto, dove alla fine del
terzo si ha la conclusione del primo periodo.
LEZIONE 3 PRATICA
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1. Leggere a voce alta la poesia di Giovanni Pascoli: “La mia sera”
METRO: cinque strofe ciascuna di sette novenari e un senario con schema ABABCDCd (dove d è sempre sera)
MESSAGGIO
In questa poesia Pascoli vuole trasmettere i suoi sentimenti verso la pace e la tranquillità che gli sono trasmesse dalla
sera, in contrasto con il temporale ed il frastuono che hanno caratterizzato il giorno. E’ evidente anche il riferimento alla
sua vita che ha conosciuto momenti di violenta "bufera", mentre la pace della sera gli ricorda la sua infanzia serena e il
dolce rapporto con la madre.
La mia sera
Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c'è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!
Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell'aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell'umida sera.
E', quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d'oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell'ultima sera.
Che voli di rondini intorno!
Che gridi nell'aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l'ebbero intera.
Nè io ... che voli, che gridi,
mia limpida sera!
Don ... Don ... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra ...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch'io torni com'era ...
sentivo mia madre ... poi nulla ...
sul far della sera.
2. Scegliere uno o più tipi di rima e creare una poesia a tema libero.
LEZIONE 4 TEORIA
PROSODIA: IL COMPONIMENTO
Più parole formano un verso, più versi formano una strofa, più strofe formano un componimento poetico.
Analizzeremo i seguenti componimenti poetici:IL SONETTO - LA CANZONE - LA BALLATA – L’EPIGRAMMA
IL SONETTO
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E’ una poesia di 14 versi raccolti in due quartine e 2 terzine, con uno schema di rime variabile. Le quartine hanno due
sole rime ripetute secondo lo schema ABAB-ABAB oppure ABBA-ABBA; le terzine rimano secondo gli schemi CDECDE, oppure CDE-EDC, oppure CDC-DCD o ancora CDC-EDE.
Ecco un esempio:
Forse perché della fatal quïete
tu sei l'immago, a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi estive e i zeffiri sereni,
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre e lunghe all'universo meni,
sempre scendi invocata e le secrete
vie del mio cor soavemente tieni.
Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo, e van con lui le torme
delle cure onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto guerrier ch'entro mi rugge. (Foscolo)
I versi sono tutti endecasillabi, la sequenza delle rime è: ABAB ABAB CDC DCD.
LA CANZONE
La canzone antica è composta da una strofa detta stanza (cioè una struttura di più versi cui è associato un determinato
schema di rime), che si ripete alcune volte con identico schema rimico, e si conclude normalmente – ma non sempre –
da una strofa più breve della stanza, detta congedo o commiato (nelle canzoni più antiche il congedo era raro, e anche in
seguito si trovano alcune canzoni che ne sono prive).
I versi utilizzati nella canzone antica sono endecasillabi e settenari
La stanza ha un numero variabile di versi. Il numero di ripetizioni delle stanze è variabile.Dal Cinquecento ha subito
delle modifiche e nell’Ottocento si è evoluta in canzone libera o leopardiana, dove endecasillabi e settenari si
alternano senza schemi fissi.
Canzone leopardiana
A Silvia
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
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Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
(Giacomo Leopardi, A Silvia)
LA BALLATA
La ballata (o ‘canzone a ballo’) è una forma di poesia legata, in origine, al canto e ai movimenti delle danze.
Di solito la ballata è composta di endecasillabi o settenari soli, qualche volta di endecasillabi misti a settenari. Consta di
un numero indeterminato di strove dette stanze, tutte della medesima struttura, preceduto da una strofa più breve detta
ripresa, perché ripetuta alla fine di ogni stanza.
Nella riproposizione delle ballate antiche, le più interessanti da un punto di vista tecnico sono quelle del
Pascoli.Esempio:
Sogno d’un dì d’estate.
Quanto scampanellare
tremulo di cicale!
Stridule per filare
moveva il maestrale
le foglie accartocciate.
Scendea tra gli olmi il sole
in fascie polverose:
erano in ciel due sole
nuvole, tenui, rose:
due bianche spennellate
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in tutto il ciel turchino.
Siepi di melograno,
fratte di tamerice,
il palpito lontano
d’una trebbïatrice,
l’angelus argentino…
dov’ero? Le campane
mi dissero dov’ero,
piangendo mentre un cane
latrava al forestiero,
che andava a capo chino.”
(Beltrami, ‘Gli strumenti della poesia’, Il Mulino, pag. 126)
L’EPIGRAMMA
La parola “epigramma” deriva dal latino “epigramma” ripresa dal greco “epígramma” (“scritto sopra, sovrapposto”) che
deriva da “epigráphein” che significa “scrivere sopra”.
Lo ritroviamo in origine nel mondo classico come genere lirico. Dapprima esso si sviluppò come iscrizione sepolcrale,
funeraria con carattere commemorativo e celebrativo.
In seguito, nella letteratura ellenistica e romana, diviene un breve componimento vario per metro ed argomento.
In età imperiale, esso assume toni mordaci e satirici, atti ad esprimere pensieri sarcastici e polemici, a volte anche
affettivi.
Il genere è passato nella nostra tradizione poetica mantenendo la vena polemica, ed il carattere arguto e pungente del
pensiero. Le caratteristiche necessarie per scrivere un epigramma sono la brevità ed il tono. Questo deve essere o
sarcastico o polemico, o anche più semplicemente e meno aspramente pungente e vivace, e deve evidenziare nella
rapida conclusione la battuta mordace, la sentenza tagliente, il giudizio vivido, lo spirito arguto e veloce, l’ironia.
Il metro è rimasto ampiamente vario, così come la disposizione delle rime e la loro presenza.
Possiamo trovare semplici quartine del tipo ABBA o ABAB, o anche solo una coppia di endecasillabi rimati o senza
rima. Possiamo trovare il metro dello strambotto, o strutture metriche che imitano altre forme, e nel Novecento il verso
libero, dall’uso dei più vari versi canonici a imitazioni di tali versi etc.
Nel Settecento si assiste ad un maggior proliferare di epigrammi in relazione a tematiche sociali, politiche e personali.
Esempi:
Il De Sanctis, nella sua “Storia della letteratura italiana”, esaminando la poetica di Vittorio Alfieri e la nuova asprezza
dei suoi versi riporta tre suoi epigrammi:
“Tratta la parola come non fosse suono, e si diletta di lacerare i ben costrutti orecchi italiani; e a quelli che strillano dà
la baia”:
Mi trovan duro?
Anch’io lo so:
pensar li fo.
Taccia ho d’oscuro?
Mi schiarirà
poi libertà.
In epoca contemporanea:
In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza,
il più colpevole son io, inaridito dall’amarezza
(“A me”, di P.P. Pasolini)
LEZIONE 4 PRATICA:
- Provare a comporre uno o più SONETTi collettivi (a più mani) nel forum. Poi li sottoporrò alla supervisione
dell’esperto Fabio Martini.
17
LEZIONE 5
FIGURE DI CONTENUTO
Servono ad esprimere in modo più calzante e suggestivo un’idea, utilizzando un’immagine che ha con essa una
relazione di somiglianza. Tra le più usate dai poeti troviamo: similitudine, metafora, personificazione, metonimia,
sinèddoche, sinestesia, perifrasi, iperbole, enjambement.(vedi lezione
LA SIMILITUDINE
Consiste nel paragonare persone, animali, sentimenti per associazione di idee, è introdotta da come, sembra, pare, è
simile, somiglia ecc….
Esempio:
Nella destra scotea la spaventosa
peliaca trave; come viva fiamma,
o come disco di nascente Sole
balenava il suo scudo… (Omero, Iliade, Libro XXII, vv171-174; traduzione di V. Monti)
LA METAFORA
Consiste nel trasferire a un termine il significato di un altro termine con cui ha un rapporto di somiglianza. In breve, è
una similitudine senza il termine di paragone: tu sei (simile a) un dio.
Esempio:
Tu fior de la mia pianta
(figlio) (padre)
Percossa e inaridita,
tu de l’inutil vita
estremo unico fior,… (G. Carducci, Pianto Antico, vv 9-12)
LA PERSONIFICAZIONE
Personificazione: consiste nell’attribuire a cose e ad animali azioni o sentimenti umani.
Esempi:
Mentre il cipresso nella notte nera
scagliasi al vento, piange alla bufera. (G. Pascoli, Fides, vv7-8)
*****************
Sul sentiero bruciato
ho visto il buon lucertolone
(goccia di coccodrillo) meditare. (F. Garcia Lorca, La lucertola vecchia, vv1-4)
LA METONIMIA
Consiste nell’esprimere un’idea, con una parola adoperata per indicare un’idea differente, ma avente con la prima un
rapporto di dipendenza.
- nominare l’autore invece dell’opera “E’ un Picasso”
- nominare la materia invece dell’oggetto “E’ un bronzo di Riace”
- nominare il contenente invece del contenuto (“bere un bicchierino”)
- nominare un luogo invece delle persone che vi si trovano (“La platea applaudì”)
Esempio:
ma per le vie del borgo
dal ribollir de’ tini(dal mosto che bolle nei tini) il contenente per il
contenuto
va l’aspro odor de i vini
l’anime a rallegrar. (G. Carducci, San Martino, vv 5-8)
LA SINEDDOCHE
E’ la sostituzione di parole con altre dal significato più ristretto o più ampio.
- nominare la parte per il tutto ( tetto per casa)
18
nominare il tutto per la parte (mondo per gli uomini)
nominare il singolare per il plurale (occhio per occhi)
nominare il plurale per il singolare (fami per fame)
nominare il genere per la specie (animale per uomo)
nominare la specie per il genere ( pane per cibo)
nominare un numero determinato per un numero indeterminato (cento per molte)
Esempio:
O animal grazioso e benigno
(persona)
il genere per la specie
che visitando vai per l’aer perso
noi che tignemmo il mondo di sanguigno:… (Dante, Inferno, Canto V, vv 88-90)
LA SINESTESIA
Si parla di sinestesia, quando si associano due o più percezioni relative a sensi diversi.
Esempio:
Alle fronde dei salici
…All’urlo nero della madre che andava incontro al figlio crocifisso sul palo del telegrafo? S. Quasimodo
profumo fresco (olfatto e tatto)
colori chiassosi (vista e udito)
muto sapore (udito e gusto)
PERIFRASI
Consiste nell'indicare una persona o una cosa con un giro di parole.
Esempio:
Tu pria che l'erbe inaridisse il verno
(l'autunno)
(G. Leopardi, A Silvia, v 40)
IPERBOLE
Consiste nell'esagerare o ridurre, oltre i limiti normali, la qualità di una persona, animale, cosa o un'idea.
Esempio:
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo;... (G. Leopardi, L'infinito, vv 4-7)
ESEMPIO DI POESIA CON FIGURE RETORICHE:
Il gelsomino notturno
E s'aprono i fiori notturni,
nell'ora che penso a' miei cari.
Sono apparse in mezzo ai viburni
le farfalle crepuscolari.
Da un pezzo si tacquero i gridi:
là sola una casa bisbiglia
Sotto l'ali dormono i nidi,
come gli occhi sotto le ciglia.
Dai calici rossi si esala
l'odore di fragole rosse.
Splende un lume là nella sala.
Nasce l'erba sopra le fosse.
Un'ape tardiva sussurra
Trovando già prese le celle.
La Chioccetta per l'aia azzurra
va col suo pigolìo di stelle.
Per tutta la notte si esala
l'odore che passa col vento.
Passa il lume su per la scala;
19
(ENJAMBLEMENT: (Dal francese enjamber,
"oltrepassare"): si ha un enjambement quando la
fine di un verso non coincide con la fine di una
frase e la frase continua nel verso seguente.
. Personificazione: consiste nell’attribuire a cose e ad
animali azioni o sentimenti umani.
Metonimia
Consiste nella sostituzione di un termine con un altro, con cui è in rapporto: la
causa per l’effetto, l’effetto per la causa, la materia per l’oggetto, il contenente
per il contenuto, lo strumento al posto della persona, l’astratto per il concreto,
il concreto per l’astratto, il simbolo per la cosa simbolizzata.
Sinestesia
Consiste nel creare un’immagine associando termini che
appartengono a sfere sensoriali diverse.
brilla al primo piano; s'è spento...
E' l'alba: si chiudono i petali
un poco gualciti: si cova,
dentro l'urna molle e segreta,
non so che felicità nuova.
(Giovanni Pascoli, Canti di Castelvecchio,
1903)
Lezione 5 ESERCITAZIONI POSSIBILI:
(Enjambement)
Metafora
Consiste nel trasferire a un termine il
significato di un altro termine con cui ha un
rapporto di somiglianza. In breve, è una
similitudine senza il termine di paragone: tu sei
(simile a) un dio.
-
Scegliere un oggetto o un ambiente e provare a descriverl0 usando la sinestesia.
-
Scegliere un oggetto affettivamente importante (una persona amata, un animale, la libertà, la musica ecc…) e
provare a parlarne come se fosse un’altra cosa. Non utilizzare termini di comparazione abusati: cercare di
vedere nuovi rapporti di somiglianza tra le cose.
-
Comporre una poesia a scelta utilizzando una o più figure retoriche.
LEZIONE 6
Figure retoriche:
FIGURE DI PAROLA E DI PENSIERO
Il poeta ottiene speciali effetti o disponendo con una tecnica particolare le parole nel verso (Figure di parola) o
arricchendo di sfumature personali le proprie idee (Figure di pensiero).
1. FIGURE DI PAROLA: allitterazioni, anafora, paronomasia, anastrofe, onomatopea, raddoppiamento ed altre.
ALLITTERAZIONI
Consiste nel ripetere le stesse lettere (vocale, consonante o sillaba) all’inizio, ma anche all’interno di due o più parole
successive legate dal senso.
ESEMPI:
Col mare
mi sono fatto
una bara
di freschezza.
(G. Ungaretti, Universo)
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.
(G. Pascoli, La mia sera, vv 13-16)
ANAFORA
Consiste nella ripetizione di una o più parole all’inizio di più versi o enunciati successivi.
Per esempio: Dante:
“Per me si va nella città dolente,
per me si va nell’eterno dolore,
per me si va tra la perduta gente”.
OPPURE:
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
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Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
(G. D’Annunzio, La pioggia nel pineto, vv8-32)
Come l’allitterazione, così l’anafora spesso viene usata nel linguaggio pubblicitario per richiamare l’attenzione
dell’ascoltatore.
“Fiesta ti tenta tre volte tanto”
PARONOMASIA
Consiste nell’accostare due parole che presentano suoni simili con un significato diverso, ma che a volte hanno anche
un legame etimologico.
ESEMPI:
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi,…
(G. Leopardi, L’infinito, vv 5-6)
Tu, placido e pallido ulivo,
non dare a noi nulla;…
(G. Pascoli, La canzone dell’ulivo, vv 60-61)
Scrisse musiche inedite, inaudite,
oggi sepolte in un baule o andate
al macero…
(E. Montale, Xenia I, 13, vv4-6)
ANASTROFE
Consiste nell'invertire l'ordine naturale delle parole all'interno di un verso.
Esempi:
Mi scosse, e mi corse
le vene il ribrezzo.
Passata m'è forse
rasente, col rezzo
dell'ombra sua nera,
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la morte...
(G. Pascoli, Il brivido, vv 1-6)
Odono i monti e le valli e le selve
e i fonti e i fiumi e l'isole del mare.
(G. D'Annunzio, L'oleandro, vv 374-375)
Cercavano il miglio gli uccelli
ed erano subito di neve;
(S. Quasimodo, Antico inverno, vv 5-6)
ONOMATOPEA
Consiste nel riprodurre e nell'imitare, mediante i suoni della lingua, suoni naturali e rumori reali. Ad esempio, nei versi
che seguono, G. Pascoli, riproduce suggestivamente il rumore del tuono inserendo all'interno delle parole suoni che
richiamano il suo significato:
.......... il tuono rimbombò di schianto:
rimbombò, rimbalzò, rotolò cupo,
ANCORA ESEMPI
…ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
(E. Montale, Meriggiare pallido e assorto, vv 3-4)
Le vele le vele le vele
che schioccano e frustano al vento
(D. Campana, Barche amarrate, vv 1-2)
RADDOPPIAMENTO
Forma di ripetizione che consiste nel raddoppiare una o più parole, due o più volte, senza l'intervallo d'altre parole,
all'inizio, alla fine o all'interno di un verso.
Amore, amore, assai lungi volasti
dal petto mio, che fu sì caldo un giorno...
(G. Leopardi, La vita solitaria, 39-40)
[...]
io voglio io voglio adagiarmi
in un tedio che duri infinito.
(G. Carducci, Alla stazione in una mattina d'autunno, 59-60)
Ma non per me, non per me piango; io piango
per questa madre che, tra l'acqua spera,
per questo padre che desìa, nel fango;
(G. Pascoli, Il giorno dei Morti, 160-162)
2. FIGURE DI PENSIERO :
antitesi, eufemismo, ossimoro.
ANTITESI
Consiste nell'accostare due parole o concetti di senso opposto.
Esempi:
- Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'etterno consiglio,...(Dante, Paradiso, C. XXXIII, vv 1-3)
So che non foco, ma ghiaccio eravate,
o mie candide fedi giovanili,
sotto il cui manto vissi
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come un tronco sepolto nella neve:
(V. Cardarelli, Illusa gioventù, vv 7-10)
EUFEMISMO
Consiste nell'attenuare un'espressione troppo cruda o realistica o inopportuna.
Esempi:
Quando rispuosi, cominciai: - Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo! (l'adulterio e quindi la perdizione eterna)
(Dante, Inferno, V, vv.112-114)
...
i' so' colei che ti die' tanta guerra,
et compie' mia giornata inanzi sera
(morii prematuramente)
(F. Petrarca, Levommi il mio penser in parte ov'era, vv 7-8)
OSSIMORO
Consiste nell'accostare due termini che hanno significato opposto e che si contraddicono. (ragazzo di cent’anni –
dolcezza amara)
Esempi:
Figure di Neumi elle sono
in questa concordia discorde.
(G. D'Annunzio, Undulna, vv. 41-42)
Cessate d'uccidere i morti...
(G. Ungaretti, Non gridate più, v. 1)
ESERCITAZIONI a scelta:
- Scegliere una figura di parola o di pensiero (es. anafora) e comporre una poesia a tema libero.
- Componi una poesia in cui utilizzi diverse figure di parola o di pensiero, a tema libero.
LEZIONE 7
Figure retoriche:
FIGURE DI SENTIMENTO
1.Apostrofe:
figura retorica che consiste nell’interrompere il filo del discorso per rivolgersi direttamente a una persona, anche
assente.
Esempio:
Ahi, serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello! (Dante, Purgatorio, Canto VI, vv 76-78)
2. Epifonema:
Consiste nell'esprimere un motto sentenzioso che, solitamente, chiude con enfasi un discorso.
Esempi:
E pur la segue ancor il desir vano,
e nel seguirla se stesso alosinga,
dicendo: Il tempo alfine il tutto acquista.
(Matteo Maria Boiardo, Amorum liber tertius, CXLI, 12-14)
Quant'è bella giovinezza,
che si fugge tuttavia!
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c'è certezza.
(Lorenzo il Magnifico, Canzona di Bacco, 1-4)
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3. Ipotiposi
Consiste nel rappresentare vivamente una persona, un animale, una cosa, un avvenimento.
Esempi:
Tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: Rio Bo,
un vigile cipresso.
(A. Palazzeschi, Rio Bo, vv 1-5)
Il portiere caduto alla difesa
ultima vana, contro terra cela
la faccia, a non veder l'amara luce.
Il compagno in ginocchio che l'induce,
con parole e con mano, a rilevarsi,
scopre pieni di lacrime i suoi occhi.
(U. Saba, Goal, vv 1-6)
4. Esclamazione
Consiste nell’esprimere con enfasi uno stato d’animo in forma esclamativa.
Esempi:
Tornami a mente il dì che la battaglia
d’amor sentii la prima volta, e dissi:
Oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!
(G. Leopardi, Il primo amore, vv 1-3)
Ahi quanto egli era nell’aspetto fiero!
E quanto mi parea nell’atto acerbo,
con l’ali aperte e sopra i piè leggiero! (Dante, Inferno, Canto XXI, vv 31-33)
5. Interrogazione
Consiste in una domanda in cui è insita la risposta: interrogazione fatta non per rivolgere una vera
domanda, ma per esprimere ironia, meraviglia, sarcasmo, rimprovero o altri sentimenti.
Esempi:
O Nerina! e di te forse non odo
questi luoghi parlar? caduta forse
dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
che qui sola di te la ricordanza
trovo, dolcezza mia?...
(G. Leopardi, Le ricordanze, vv 136-140)
O piccola Maria,
di versi a te che importa?
Esce la poesia,
o piccola Maria,
quando malinconia
batte del cor la porta.
O piccola Maria,
di versi a te che importa?
(G. Carducci, Alla signorina Maria A.)
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Esercitazione: Inventa qualche verso utilizzando le figure retoriche conosciute fino ad ora, a tua
scelta.
LEZIONE 8
IL VERSO LIBERO ITALIANO
Il ricorso a una poesia libera da schemi metrici , con invenzioni e scelte sempre diverse, non è stato un fenomeno
completamente nuovo, che la poetica italiana ha vissuto solamente a partire dal XIX secolo. Lungo tutta la tradizione
poetica italiana troviamo alcuni generi di poesia che non avevano uno schema metrico ben definito, e per motivi
differenti il grado di libertà di questi era maggiore di quello delle forme metriche. In alcuni di questi generi la libertà
può essere rappresentata dalla libera disposizione dei versi, o dalla mancanza di rime o delle strofe, o da una
combinazione di questi elementi. La pratica consapevole del verso libero si ha nell’ultimo ventennio del XIX secolo, in
Francia, e la disputa per promuoverlo fu affrontata da un gruppo di poeti fra i quali spiccava Gustave Khan. Ma questo
nome è più che altro un riferimento storico, perché il verso libero aveva già fatto la sua comparsa, e già viveva, nelle
opere dei francesi Rimbaud e Laforgue, nella poesia in prosa di Baudelaire e nell’opera del poeta americano Walt
Whitman – che ebbe forti influenze su D’Annunzio – il quale usò versi lunghi ispirati dalla struttura della prosa biblica,
con numerose allitterazioni e ripetizioni di cadenze. Il senso del verso libero era quello di rivendicare il rifiuto della
tradizione e la possibilità, da parte del poeta, di poter costruire il proprio linguaggio, la propria “metrica”, fino al punto
in cui ogni poesia può rappresentare un linguaggio poetico a sé stante.
La storia del verso libero, la sua adozione più autentica nel panorama italiano, passò attraverso la rivolta
antidannunziana di altri autori, come Lucini e i Crepuscolari. Gian Pietro Lucini fu poeta la cui opera vede l’abbandono
progressivo delle forme metriche tradizionali. Marinetti scrisse :” “Non cerco misure prestabilite (versi), non seguenze
numerate di misure (strofe), non assegnati e complicati modi di accento, di rima, di elisioni, di dieresi: ma è verso,
strofe, poema logico e naturale, POESIA, insomma, ciò che viene espresso con ingenuità, o con una raffinatezza in quel
modo nativo e sonoro su cui la gamma risuoni e la plastica informi: ciò che rende un concetto ed un pensiero poetico in
tutte le loro sfumature, in quel suono ed in quel colore per cui hanno vita e vibrazioni le idee rappresentate.” (“Manuale
di metrica italiana”, M. Pazzaglia, Sansoni Editore, pag.174). E’ chiaro che il verso libero, caratteristico della poesia
contemporanea, nasce da un rifiuto di una tradizione metrica esistente, pertanto solamente attraverso la conoscenza del
passato si può diventare creativi.
SUGGERIMENTI
Voglio riportare qui alcuni suggerimenti che ho ascoltato in un seminario tenuto da Davide Rondoni, direttore del centro
di poesia contemporanea di Bologna, che possono essere utili a chi intraprende uno studio serio e faticoso sulla poesia.
“ Nella poesia la punteggiatura è importante come le parole e non va messa a caso, ad esempio il punto è un
accrescitivo della parola che lo precede….
Il titolo della poesia, appartiene alla poesia stessa, non deve essere troppo esplicativo del contentuto.
Il testo è come un teatro dove avvengono delle cose. E il lettore che legge la poesia deve poter vedere la situazione che
il poeta vuole proporci.
La situazione che viene descritta parte da una descrizione oggettiva per poi agganciarsi alla scena interiore dell’autore.
Con la poesia si deve tirare in ballo il lettore che deve riscire a far proprie le immagini del poeta. Non solo, si deve
lasciare spazio anche all’interpretazione del lettore, senza tirare delle conclusioni.
La poesia deve provocare movimento in chi legge, quindi non deve dire tutto.
Il realismo della poesia è la quantità di vita sentita che la poesia riesce a trasmettere in chi legge.
E’ bene anche utilizzare un linguaggio contemporaneo, legato alla nostra epoca, non si può oggi scrivere come
Carducci “s’asconde”, questo andava bene per il tempo in cui lui è vissuto.
E nella ricerca delle parole, si deve cercare di esprimere un concetto con pochi elementi.
La poesia non è solo sentimento, la poesia è un’azione teatrale dove “il testo deve accadere” (descrivere i gesti, le
azioni…es. “carezza la testa” ) e non sprecare mille parole per dire ad esempio “mi sono innamorato di te” 
Per intraprendere il cammino in poesia è necessario leggere molto molto, di tutto, poi magari ogni persona trova un
maestro, un poeta preferito al quale si ispira, così come hanno fatto tutti i grandi poeti.
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Ora, uno o più libri che possono aiutare a capire la poesia contemporanea e a cercare un proprio stile , un proprio
movimento di scrittura.
LIBRI DI POESIA:
1. “Il cacciatore franco” di Giorgio Caproni
2. “Per il battesimo dei nostri frammenti” di Mario Luzi
3. “Stella variabile” di Vittorio Sereni
SAGGISTICA:
1. “Il pensiero dominante” di Rondoni – Loi
2. “La naturalezza della poesia” di Mario Luzi
3. “Vero o verso” di Mario Luzi
4. “La scatola nera” di G. Caproni
5. “L’uso della poesia e dei poemi” Eliot
6. “Il bosco sacro” Eliot
7. “Non una vita soltanto” di D. Rondoni
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