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Combatti ragazzo, combatti - Isabella Tokos 3A

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Vola come una farfalla, pungi come l’ape. Combatti ragazzo, combatti!
Cassius Clay è un nome da schiavo. Io non l’ho scelto e non lo voglio. Io sono Muhammad Ali,
un nome libero. Vuol dire amato da Dio. Voglio che la gente lo usi quando mi parla e parla di me.
Nel 1960, all’età di soli 18 anni, Muhammad Ali (alias Cassius Marcellus Clay) vinceva la
Medaglia d’oro ai Giochi Olimpici di Roma. Erano soltanto 7 anni da quando aveva cominciato i
suoi allenamenti di combattimento per la boxe e nonostante aver odiato ogni minuto di allenamento
la sua volontà gli diede sempre forza e coraggio, mentre la sua mente gli sussurrava: ‘Non smettere.
Soffri ora e vivi il resto della tua vita come un campione”. E così fu: con 61 incontri di cui 56
vittoriosi, si guadagnò il soprannome con cui tutt’ora è conosciuto: The Greatest, il migliore,
proprio come lui stesso si definiva: Io sono il più grande, l’ho detto prima ancora di sapere che lo
fossi. È difficile essere umili quando si è grandi come lo sono io. Le mie sofferenze fisiche sono
state ripagate da quello che sono riuscito ad ottenere nella vita. Un uomo che non è coraggioso
abbastanza da assumersi dei rischi, non otterrà mai niente.
La sua fermezza e il suo ottimismo sono stati, sono e probabilmente saranno sempre un supporto,
una fonte di speranza per chi l’ha persa o non l’ha mai avuta, non solo nella continua battaglia
contro il razzismo (sempre a cuore del boxeur afroamericano), ma, alla fine, in ogni aspetto delle
nostre vite, perché, come lo stesso Ali diceva, se la mia mente può immaginarlo e il mio cuore
sognarlo, allora posso raggiungerlo; infatti, nulla è impossibile: impossibile è solo una parola
pronunciata da piccoli uomini che trovano più facile vivere nel mondo che gli è stato dato, piuttosto
che cercare di cambiarlo. Impossibile non è un dato di fatto, è un opinione. Impossibile non è una
regola, è una sfida. Impossibile non è uguale per tutti. Impossibile non è per sempre. E certamente è
la costanza, la perseveranza anche nei momenti di difficoltà, di disperazione, che sancisce il destino
dell’obiettivo di ciascuno di noi, qualunque esso sia: non conto i miei esercizi per gli addominali.
Inizio a contare solo quando inizia a fare male perché sono gli unici che contano.
E le parole spesso velate di ironia di Muhammad Ali incoraggiano, danno la spinta necessaria
per andare avanti, per non lasciarsi vinti, abbattuti sul ring della vita: se possono trarre la
penicillina da del pane ammuffito, sicuramente potranno tirare fuori qualcosa da te. In effetti, forse
l’insegnamento più valoroso e umano sostenuto dal pugile in ogni attimo della sua esistenza è
quello del rifiuto della resa, sottolineato dalla sua vita da guerriero e dalla sua incessante battaglia
per promuovere i propri ideali e per vincere uno dei suoi nemici, forse il peggiore: il morbo di
Parkinson, che lo ha accompagnato fino al suo ultimo respiro. Ma, come il campione sostiene,
dentro un ring o fuori, non c’è niente di male a cadere. È sbagliato rimanere a terra. Solo un uomo
che sappia che vuol dire essere sconfitto può scendere fino al fondo della sua anima e venire su con
quell’oncia di potenza necessaria per vincere quando il combattimento è pari. I campioni non si
costruiscono in palestra. Si costruiscono dall’interno, partendo da qualcosa che hanno nel
profondo: un desiderio, un sogno, una visione. Devono avere resistenza fino all’ultimo minuto,
devono essere veloci, devono avere l’abilità e la volontà. Ma la volontà deve essere più forte
dell’abilità. Non ho mai permesso a nessuno di dirmi di non credere in me stesso.
Nel 1964, a 22 anni, si scontra con Sonny Liston, a quel tempo invincibile, e, con il suo stile da
combattimento unico e inimitabile del ‘pungi come un’ape, vola come una farfalla’ e i suoi riflessi
fulminei, tra l’ammirazione e l’entusiasmo del mondo, guadagna la vittoria insieme al suo primo
titolo mondiale, che avrebbe avviato definitivamente la sua carriera sportiva.
La sua impetuosa ascesa ebbe, però, un momento di brusco arresto di circa quattro anni, a
partire dal 1967, anno in cui venne chiamato alle armi dagli Stati Uniti per combattere nella guerra
del Vietnam. Muhammad Ali si era da poco convertito alla religione islamica e le sue convinzioni
religiose e spirituali gli vietarono di rispondere alla leva militare. Infatti, secondo il campione,
L’Islam non è odio: Dio non sta con gli assassini. La spiritualità è riconoscere la luce divina che è
dentro di noi. Essa non appartiene a nessuna religione in particolare, ma appartiene a tutti. Fiumi,
stagni, laghi e corsi d’acqua, tutti hanno nomi diversi ma tutti contengono acqua. Proprio come le
religioni: hanno nomi diversi, ma tutte contengono delle verità. Per questa ragione, quindi, la sua
motivazione per il rifiuto di combattere una guerra non sua, contro persone che nemmeno
conosceva e con cui non aveva alcun debito in sospeso, sarebbe stata: Dov’è il Vietnam? In tv. Non
ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato ‘negro’. A causa della sua ostinazione,
le ripercussioni del suo gesto furono alquanto gravi: dopo esser stato arrestato e accusato di
renitenza alla leva, fu privato del suo titolo mondiale. Avrebbe ripreso a tutti combattere solo nel
1971.
A differenza di molti atleti suoi contemporanei, lui non lasciò troppo spazio ai manager, ma si
impegnò in prima persona a far sentire la propria voce, non solo su argomenti relativi allo sport e in
particolare al pugilato, ma a tematiche di ogni tipo. Sicuramente, però, la sua prediletta era
influenzata dalla sua epoca e dall’infanzia: egli trascorse i primi anni di vita in un ambiente
dominato dalla segregazione razziale; anche la madre di Ali, Odessa, raccontò un episodio a tal
proposito: al giovane figlio venne negata una bottiglietta d’acqua all’ interno di un negozio ‘per via
del suo colore. Quella vicenda lo colpì profondamente’. E quella vicenda fu una delle tante che
avrebbero spinto il campione a gettare la sua stessa Medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi di Roma
nel fiume Ohio (solo nel 1996 avrebbe ottenuto una Medaglia sostitutiva). In uno dei suoi discorsi,
poi, avrebbe pronunciato: Odiare le persone a causa del loro colore è sbagliato. E non importa
quale colore uno odia. È semplicemente sbagliato. E con la sua carriera sportiva, egli riuscì a
mutare il ruolo e l’immagine degli atleti afroamericani negli Stati Uniti d’America, diventando,
inoltre, un punto di riferimento per la perpetua lotta per la libertà e l’uguaglianza tre le persone,
indipendentemente dal colore della pelle, dalla religione o dall’etnia.
Muhammad Ali ha dimostrato che, per chi lo desidera veramente e combatte fino alla fine per i
propri ideali, qualsiasi cosa è possibile e che l’uomo che non ha fantasia non ha ali per volare
poiché un gallo canta soltanto quando vede la luce. Mettilo nell’oscurità e lui non canterà mai. Io
ho visto la luce e sto cantando.
Roma, 28/04/2020
Isabella Tokos, 3A
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