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Riassunto libro grande-parte skubiszewski
Storia dell'arte medievale i (Sapienza - Università di Roma)
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ROMA, L’ESARCATO DI RAVENNA ED I POSSEDIMENTI LONGOBARDI
A Roma già nel V secolo il patronato papale aveva preso il posto di quello imperiale e le fondazioni papali,
destinate ad assumere in seguito la massima importanza nella vita artistica della città, costituivano un filone
artistico che si distingueva per il fermo rispetto alla tradizione locale. Il crescente prestigio del papato
attirava numerosi Greci ed orientali. Questa migrazione costituiva un considerevole apporto al
consolidamento di quell’essenziale fondamento della civiltà tardo-imperiale che era l’ellenismo. In campo
architettonico la forza della continuità si manifestò soprattutto nella persistenza della basilica come tipo
fondamentale di edificio di culto. A testimonianza dell’attaccamento alla tradizione va ricordata la chiesa di
Sant’Agnese fuori le mura, eretta come santuario nel IV secolo ma interamente ricostruita da papa Onorio I
nella quale si notano delle caratteristiche nuove, apparse già nel secolo precedente e destinate a ripetersi
in seguito nelle altre basiliche romane. L’assenza del transetto nell’impianto basilicale diverrà sempre più
frequente. La navata principale è molto ampia rispetto a quelle laterali ed è separata dal nartece mediante
colonne, il che conferisce all’interno l’aspetto di un vano a pianta centrale; tutto l’insieme avvicina
Sant’Agnese alle chiese bizantine. Le navate laterali sono sormontate da matronei, motivo di origine
africana ed orientale, introdotto a Roma nel IV secolo. L’architettura di questo periodo tendeva a
ridimensionare, più che ad arricchire, i grandi impianti basilicali del IV_VI secolo. vi si notano dei
cambiamenti destinati a trasformare la basilica cristiana antica in un edificio medievale. Fu proprio a Roma
che si iniziò a dotare le chiese di cripte, innalzando il livello del coro e dell’altare e costruendo un corridoio
sotterraneo semicircolare, rasente il muro dell’interno dell’abside. Un passaggio sull’asse del coro si
staccava da questo corridoio in direzione della memoria del sento titolare della chiesa, situata al di sotto
dell’altare, dando comodo accesso alle reliquie. Il pellegrino che giungeva a termine della sua difficile
impresa poteva così prodigarsi a baciare le pietre del sacro avello, toccandolo ed adorandolo da vicino.
Nasceva così la cripta semi-anulare, primo tipo di cripta medievale. Roma viene generalmente accettata
come luogo di origine di questo tipo di cripta: alcuni esempi risalgono all’epoca di Onorio I (San Pancrazio),
altri sono databili all’VIII secolo, mentre nel corso del secolo successivo il tipo compare già molto di
frequente (in Santa Cecilia, in San Marco ed in Santa Prassede) per poi diffondersi anche nei territori
dell’esarcato. Tra le chiese di Roma che contrassegnano il passaggio dalla basilica paleocristiana all’edificio
medievale occorre ancora citare Santa Maria in Cosmedin, eretta nel quartiere greco ai tempi di Adriano I
(772-795), le cui navate terminano con tre absidi costruite all’interno della piatta parete di fondo della
chiesa. questa soluzione rimanda a prototipi orientali d’altronde assimilati abbastanza presto
dall’architettura occidentale. Le nuove basiliche non erano comunque molto numerose in quanto non
erano insolite né l’erezione di oratori a navata unica né la trasformazione in chiese cristiane degli antichi
edifici di culto pagano; l’esempio più spettacolare di questa pratica è costituito dal Pantheon, divenuto nel
610 chiesa di Santa Maria ad Martyres. Questa modesta attività architettonica non produsse particolari
cambiamenti nei metodi di costruzione: il mattone continuò ad essere il materiale principale; si possono
solo osservare una lenta decadenza tecnologica, l’impiego di materiale di spoglio ed il ruolo limitato della
decorazione scultorea.
All’altra estremità del territorio bizantino la situazione era molto differente. La Romagna offre infatti
l’immagine di un’attività architettonica abbastanza vivace ed è soprattutto in questa regione che la basilica
paleocristiana si è definitivamente trasformata in chiesa medioevale. I modelli erano ravennati ma subirono
considerevoli modificazioni. I tre monumenti, datati al VII-VIII secolo, che permettono di seguire questo
processo sono San Pietro in Silvis presso Bagnacavallo, San Pietro in Trento presso Coccolia e san Pancrazio
presso Russi. Il coro tripartito ravennate venne sostituito da una semplice parete di fondo con una sola
abside centrale che conservò tuttavia il proprio carattere tardo-antico. Le colonne si trasformarono in
pilastri privi di capitelli, talvolta rinforzati da esili semi-pilastri. È però soprattutto l’esterno che mostra i
cambiamenti formali più profondi: le strette finestre non hanno più nulla di simile alle grandi aperture delle
basiliche del tardo impero, le pareti sono cinte di lesene che salgono fino ai fregi ad arcate, formando un
coerente sistema di articolazione della parete basato sui ritmi verticali e sulle fughe di archi ciechi. È vero
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che questo apparato decorativo si rifaceva a modelli ravennati tardo-antichi, quali il battistero degli
Ortodossi, la basilica di San Francesco ed il Sacello di San Lorenzo (anche conosciuto come mausoleo di
Galla Placidia), e non era quindi un’invenzione degli architetti del VII-VIII secolo, ma è soltanto da questo
momento che lo si è consapevolmente impiegato come un nuovo linguaggio, presagio dell’articolazione
esterna delle pareti delle chiese preromaniche e romaniche dell’Italia settentrionale. Venivano anche
costruite delle chiese ad una sola navata ma queste pievi più semplici non presentano caratteri particolari e
vanno considerato come riduzioni delle strutture basilicali. L’unico monumento di un certo impegno
costruito in quest’epoca a Ravenna stessa, ossia il cosiddetto palazzo di Teodorico, si pone un po' al di fuori
dell’attività architettonica sin qui trattata. Si tratta della chiesa di San Salvatore, di cui sussiste soltanto la
facciata occidentale, e che, secondo una recente ipotesi, sarebbe stata eretta alla metà dell’VIII secolo,
durante il regno di Astolfo, come nuova cappella del palazzo ravennate, allora occupato dai Longobardi. La
facciata funge da rivestimento ad un nartece ed un eso-nartece, entrambi sormontati da una sala al primo
piano, e la composizione molto ricercata rispecchia fedelmente la notevole complessità dell’organismo che
costituiva la parte occidentale della chiesa, ai lati di un asse centrale costituito da due grandi aperture sono
disposte due serie di arcate più piccole, che conferiscono alla struttura un notevole senso di equilibrio. È
molto probabile che la monumentalità della composizione sia dovuta alla particolare funzione assolta dalla
chiesa di San Salvatore, che il re utilizzava per presentarsi al popolo nello splendore del proprio apparatus.
È legittimo osservare come in San Salvatore si incontrino la tradizione dell’arte ravennate antica e le
esigenze del fasto di cui già si circondavano i re germanici. Questo edificio occupa un posto molto
importante tra i monumenti del primo medioevo, innanzitutto perché segna l’adozione in architettura di
una facciata occidentale dalla composizione ben strutturata, capace di sottolineare l’ingresso principale
mediante una disposizione gerarchica di forme, e in secondo luogo perché proprio questa disposizione, con
la parte centrale leggermente aggettante e traforata da grandi aperture e con le sue file di arcate laterali
minori, è stata ripresa più tardi, divenendo lo schema di facciata preromanica e romanica più diffuso in
Italia.
L’architettura dei possedimenti longobardi presenta tuttavia un carattere più complesso di quella
dell’esarcato. Nell’Italia longobarda l’architettura non aveva un punto di riferimento altrettanto sicuro di
quello che a Roma o a Ravenna era rappresentato dall’arte abbastanza omogenea delle basiliche. Già prima
dell’invasione, questi territori, e Milano in particolare, presentavano delle correnti artistiche molto varie e
la diversificazione continuò ad aumentare in relazione con il progressivo ampliarsi delle relazioni esterne
dei Longobardi e con la sempre maggiore complessità della struttura interna dei loro stati. Quest’ultimo
fattori si rifletté soprattutto nella comparsa di differenti tipi di edificio. I committenti dei principali edifici
erano i sovrani, ossia i re (nell’Italia del Nord) ed i duchi di Spoleto e Benevento. Il compito di organizzare il
cantiere e di reclutare i muratori ricadeva sui magistri commacini, imprenditori e direttori dei lavori al
tempo stesso. Il lavoro dell’artista incominciò ad organizzarsi intorno ad una commissione specifica, la cui
esecuzione era assicurata da una équipe che raggruppava differenti artigiani, responsabili della costruzione
e dell’ornamentazione dell’edificio. L’attività di questi cantieri si sostituì al funzionamento delle
corporazioni artigianali romane scomparse con l’invasione e proseguì sino alla ricomparsa delle
corporazioni urbane, all’epoca della ripresa delle città avvenuta in Italia nel XII-XIII secolo ed in Europa del
Nord tra XIII e XIV secolo. Questa nuova organizzazione del lavoro artistico rifletteva senza dubbio una certa
frammentazione della società feudale. I cantieri che si organizzarono intorno alle cattedrali, ai monasteri ed
ai palazzi divennero così pressoché le uniche fonti di stabilità e di continuità del lavoro artistico, tanto più
importanti in quanto poco numerosi e sparsi attraverso enormi territori. In queste condizioni l’artista non
era in grado di sottrarsi ad un certo condizionamento sociale ed ideologico del proprio lavoro. Nell’alto
medioevo la funzione ed il programma dell’opera rispecchiavano direttamente le aspirazioni del
committente e le necessitò del beneficiario della fondazione. Bisogna inoltre notare la considerevole
quantità di tipi architettonici. La loro varietà rispondeva senza dubbio alla molteplicità delle funzioni degli
edifici e alle circostanze sempre differenti delle singole fondazioni. Tra gli edifici di culto, la chiesa a pianta
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basilicale mantenne il suo primato. Sebbene la cronologia di certi monumenti ponga dei problemi delicati,
non si può dubitare dell’esistenza di una tradizione ininterrotta tra le basiliche antiche e quelle di epoca
longobarda. Questo tipo architettonico era riservato in particolar modo alle cattedrali ed alle più importanti
fondazioni regie dei principali centri politici. Gli esempi più antichi di architettura basilicale sono noti
soltanto dalle fonti scritte (ad esempio San Pietro di Pavia), ma i monumenti successivi permettono
ugualmente di ricostruire a grandi linee l’evoluzione di questo tipo di edificio. Le basiliche del regno
longobardo presentavano una struttura relativamente semplice rispetto ai modelli antichi, ma al tempo
stesso più varia delle contemporanee basiliche ravennati. Il transetto scomparve, le tre navate potevano
essere separate sia mediante pilastri, come in San Giovanni Evangelista di Castelseprio (VII secolo), sia
mediante colonne, come in San Salvatore di Brescia, monumento molto verosimilmente databile all’epoca
carolingia, benché profondamente radicato nella tradizione longobarda. Le colonne provenivano sovente
da edifici romani. Occorre notare il ruolo sempre più importante delle lesene nell’articolazione dei muri
esterni, dove esse davano origine a grandi arcate cieche e poco profonde, in cui si aprivano delle finestre
che potevano anche disporsi su due file, conferendo all’edificio un carattere monumentale. Sebbene si
conoscano anche basiliche con una sola abside (San Giovanni Evangelista di Castelseprio) o terminate da un
coro trilobato, pianta anch’essa già nota nell’architettura antica dell’Italia del Nord, pare che la soluzione
preferita fosse la terminazione a tre absidi (Pavia, Brescia), un tipo di sistemazione ereditata
dall’architettura ravennate ed alto-adriatica del VI secolo. in connessione con la chiesa longobarda a tre
absidi nacque la cripta a galleria, che ebbe come conseguenza una nuova disposizione dello spazio interno
della parte orientale dell’edificio di culto. Il corridoio percorreva tutta la chiesa nel senso della larghezza e si
apriva sul lato Est con tre grandi absidi situate esattamente al di sotto delle absidi che concludevano le
navate dell’edificio, mentre nel muro Ovest erano ricavate delle nicchie. Questo tipo di cripta, destinato in
seguito a diffondersi con parecchie varianti in tutta l’Europa carolingia, prese molto forma nel corso dell’VIII
secolo, come indica il fatto che il più antico esempio conosciuto sia quello della chiesa di Santa Maria delle
Cacce di Pavia, probabilmente eretta alla metà di quel secolo. la cripta a galleria non aveva più l’unico scopo
di facilitare l’accesso alle reliquie, proprio della cripta semi-anulare, ma assicurava una maggiore quantità di
spazio intorno alla tomba del santo titolare, consentendo l’installazione di altari supplementari. Il clero dei
monasteri aveva così la possibilità di officiare le proprie messe private quotidiane in prossimità del luogo di
sepoltura del santo titolare. Il tipo di edificio più frequente nei territori longobardi era la chiesa a navata
unica, che rispondeva alla necessità di culto degli agglomerati meno importanti, e fungeva sovente da
oratorio monastico. Accanto a strutture molto semplici e a monumenti dalla spiccata individualità come
Santa Maria foris portas di Castelseprio, un gruppo di particolare interesse è quello delle chiese a navata
conclusa da un coro tripartito. Questa disposizione di ambienti era già nota con parecchie varianti
nell’architettura basilicale del V-VI secolo, soprattutto in Oriente; adattata allo spazio più semplice dei
piccoli oratori, non cessò di manifestarsi, prestandosi anzi alle soluzioni più disparate: dalle tre absidi
separate di San Michele alla Pusterla di Pavia, alle tre nicchie ricavate nello spessore del muro di fondo di
Santa Maria di Aurona a Milano. Nell’oratorio di Santa Maria in Valle di Cividale del Friuli, che secondo
L’Orange e Torp sarebbe stato eretto come cappella palatina durante il regno di Ratchis e di Astolfo, le tre
parti del coro, voltate a botte, sono separate da colonne. Basiliche e chiese a navata unica venivano
costruite anche nei territori del ducato di Benevento, con sensibili differenze rispetto all’architettura
longobarda dell’Italia settentrionale: l’articolazione delle pareti mediante lesene era impiegata raramente,
mentre i singoli elementi della costruzione, quali ad esempio i pilastri, palesavano grande semplicità.
Nell’architettura longobarda si osserva anche la comparsa di un tipo intermedio di edificio, nel quale la
navata centrale, terminata da un’abside, era fiancheggiata da lunghe cappelle, anch’esse concluse da
emicicli. Una struttura di questo genere è esemplificata dalla prima fase costruttiva della chiesa di san
Salvatore di Brescia, fondata nel 753 dal re Desiderio e verosimilmente consacrata nel 760. Questa chiesa
interessa gli storici dell’architettura anche in virtù della sua cripta, che esemplifica il terzo tipo di cripta
medievale, quella ad oratorio. La cripta ad oratorio era costituita da un grande vano posto al di sotto del
coro e dell’abside, suddiviso in tre piccole navate di uguale altezza mediante colonne su cui si scaricava il
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peso delle volte. È molto probabile che la cripta di San Salvatore sia stata aggiunta a questa chiesa ancora
prima della sua trasformazione in basilica, avvenuta all’inizio del IX secolo. La maggior diversificazione di
forme si riscontra senza dubbio negli edifici a pianta centrale. Di particolare importanza è un gruppo di
chiese a pianta centrale fondate dai sovrani longobardi, tra le quali Santa Matia in Pertica di Pavia venne
probabilmente eretta come mausoleo dinastico (dopo il 670). La più suntuosa di queste chiese, Santa Sofia
di Benevento, edificata tra il 760 ed il 768 dal duca Arechis con funzioni di cappella palatina, presenta un
tipo di struttura alquanto insolito: l’esagono centrali è circondato da un doppio ambulacro, mentre alle tre
absidi orientali si contrappone l’andamento spezzato dei muri Nord e Sud, che conferiscono un aspetto
stelliforme alla pianta dell’edificio. Le chiese longobarde a pianta centrale si ispiravano all’architettura
imperiale antica e bizantina. Il fondatore di Santa Sofia di Benevento intendeva imitare l’omonima chiesa
costantinopolitana. Questa cappella palatina longobarda rivela dunque un importante aspetto dei luoghi di
culto con le relative strutture, illustrando inoltre il procedimento seguito nella riproduzione del modello. Il
fatto che Bisanzio esercitasse un forte influsso sulla vita artistica dell’Italia meridionale longobarda si spiega
ricordando che a partire dal VI secolo un settore del sud della penisola era rimasto sotto la sovranità
dell’imperatore d’Oriente, il che permetteva l’incessante penetrazione dell’arte e della civiltà greca. Uno
dei più antichi esempi di influsso bizantino sull’architettura della Longobardia meridionale è rappresentato
dalla chiesa di Sant’Ilario a Part’Aurea di Benevento, eretta nella seconda metà del VII secolo: l’edificio
presenta due campate, pressoché quadrate, entrambe sormontate da una cupola poggiante su trombe. Un
altro monumento testimoniante i rapporti con il mondo bizantino era la chiesa di Santa Maria delle cinque
torri a Cassino, eretta alla fine dell’VIII secolo e distrutta nel 1944, la cui pianta era una croce greca inscritta
in un quadrato.
Benché abbastanza semplici e talora persino rozze all’esterno, le chiese del primo medioevo erano ben
strutturate e ricche di forme all’interno. All’organizzazione dello spazio partecipavano anche la decorazione
scultorea e quella pittorica. La scultura monumentale medievale era profondamente radicata nella
concezione di decorazione architettonica che era stata propria dell’antichità, benché le sue forme
espressive si siano poi rapidamente allontanate dai modelli antichi. Questo processo è illustrato nel modo
migliore dall’evoluzione del capitello: l’ornamentazione vegetale, semplificata ed appiattita, è andata
svanendo accanto alla solida tridimensionalità del “cesto”; le foglie corinzie si sono trasformate in angoli
smussati; benché i capitelli di ispirazione antica non siano del tutto scomparsi, i nuovi tipi hanno
progressivamente preso il sopravvento. La decorazione scultorea interna delle chiese era comunque
assicurata soprattutto da vari elementi che ne costituivano l’arredo liturgico. Tra il presbiterio e la navata si
stendeva una transenna (recinzione del coro) la cui funzione era quella di separare lo spazio riservato al
clero dalle parti dell’edificio accessibili ai laici. Questa transenna poteva assumere forme diverse a seconda
dell’importanza e delle dimensioni della chiesa; l’area da essa delimitata era sovente scompartita in modo
da riservare a certe funzioni uno spazio particolare (solea, schola cantorum). La struttura di una transenna
consisteva il più delle volte di lastre marmoree fissate tra colonnine infisse nel pavimento: il lato principale
assumeva sovente l’aspetto di una parete rialzata, distinguendosi per l’articolazione architettonica più
pronunciata, che comportava sovente una trabeazione (ad esempio San Leone di Leprignano); nelle chiese
ortodosse questa struttura si trasformò infine in iconostasi. Oltre alla transenna, erano ornati anche altri
elementi dell’arredo liturgico, quali i rivestimenti degli altari, i cibori, le vasche battesimali, i pozzi, gli
amboni e le tombe. Tutti gli elementi architettonici interni sin qui menzionati avevano in comune la
caratteristica di offrire alla decorazione soltanto una superficie piatta e ciò fu di importanza capitale per
l’evoluzione del linguaggio scultoreo dei primi secoli del medioevo, che si espresse quasi unicamente
mediante l’accentuazione del bassorilievo. Erano gli arredi liturgici della tarda antichità che avevano visto
nascere il repertorio di forme adottato per la decorazione delle grandi superfici lisce: dai vari sistemi di
articolazione dello spazio mediante cornici, listelli o motivi architettonici come le arcate, alle figure
geometriche come cerchi, losanghe e quadrati, dalla ricchissima gamma ornamentale comprendente
intrecci e racemi a tutta una serie di simboli come la croce, il crisma, il calice, il pavone e l’agnello. La
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decorazione scultorea del primo medioevo riprende questo repertorio, pur con una essenziale differenza
rispetto ai modelli antichi. A partire dal VII secolo viene infatti quasi abbandonato il modellato a più piani,
mentre qualsiasi forma, che si tratti di un elemento di articolazione, di un motivo ornamentale o di un
soggetto figurato, risulta sempre compresa tra due piani molto poco distanti l’uno dall’altro; il piano di
fondo e il piano della superficie esterna. Rari sono dunque gli esempi di modellato riproducente le forme
arrotondate dell’oggetto rappresentato. È giustificato supporre che certi atelier si ispirassero direttamente
ai modelli antichi, ma anche nelle opere del più alto livello l’appiattimento prevale su qualsiasi
ammorbidimento delle forme scultoree. Questo modo particolare di lavorare la pietra è all’origine di una
certa uniformità nei rilievi: una scena narrativa, una figura isolata o un piccolo motivo animale o vegetale
vengono indifferentemente disposti sulla superficie delle grandi lastre o degli elementi architettonici, con
l’aggiunta dell’effetto derivante dalla ripetizione dei motivi e dalla loro disposizione molto serrata, volta ad
evitare qualsiasi spazio vuoto. A questa legge non sfugge la figura umana, la cui resa viene ottenuta
presentandone la silhouette sul liscio fondo del rilievo, il che conduce inevitabilmente ad un totale
appiattimento del corpo. Per quanto concerne la tematica, questa decorazione si ricollega alla funzione
liturgica delle strutture e degli oggetti che essa ricopre. I due motivi più frequenti, ovvero il racemo vegetale
e l’ornato ad intreccio, hanno un profondo significato simbolico. Il primo, che può assumere forme
comprese tra il naturalismo e la stilizzazione quasi geometrica, designa l’attesissimo ambiente naturale del
cristiano, quello del regno di Dio: nel Nuovo Testamento Gesù è infatti il vero ceppo di vita e la vegetazione
simboleggia tutti coloro che vivono in lui per la salvezza. L’intreccio è il simbolo delle energie creatrici, del
movimento rinnovatore della natura e dell’esistenza stessa e, quando invade le transenne, gli altari e le
vasche battesimali, esso proclama la vita di coloro che si riuniscono intorno ai misteri della fede. In questa
foresta di vegetazione e di intrecci vengono inseriti vecchi temi di origine paleocristiana, quali l’anima
assetata di nutrimento spirituale, il Cristo del sacrificio, l’adorazione della croce, simboleggiati da due
pavoni affrontati nell’atto di bere da un calice, da cervi nell’atto di avvicinarsi ad una coppa, da uccelli
nell’atto di becchettare l’uva, dall’agnello di Dio, da agnelli e uccelli nell’atto di adorare la croce. Questi
differenti motivi si incontrano talvolta in composizioni più complesse, come quella della lastra di Sigualdo
(duomo di Cividale, circa 762-776), che esprime l’idea della dimensione cosmica della Salvezza. I grandi temi
cristologici e le scene narrative erano invece molto meno numerosi. Tra i rari esempi un posto di grande
rilievo è occupato dal rivestimento dell’altare eretto dal duca Ratchis (circa 737-744) per la chiesa di San
Giovanni a Cividale. Le quattro lastre evocano tre dogmi di maggiore importanza: l’incarnazione, la
redenzione, la seconda venuta del Salvatore e il suo potere universale. La scultura medievale in Italia ha
tratto le sue origini principalmente dalla decorazione in pietra delle chiese tardo-antiche, dalla quale ha
proseguito le funzioni e le forme fondamentali. Il fatto di essere sottoposto alle leggi di un’arte che in linea
di massima non si esprimeva più in forme tridimensionali, riservando la figura umana quasi unicamente alla
pittura, ha avuto come conseguenza la nascita del nuovo linguaggio descritto. Questa scultura subì anche
degli influssi esterni, come denotano ad esempio una certa impronta bizantina sulle lastre di Benevento,
Aquileia e Venezia, o certe affinità con l’arte merovingia e insulare. Con il passar del tempo le composizioni
si andarono progressivamente allontanando dal rigore classico, divenendo sempre più sovraccariche e
bilanciando la crescente diversificazione dei motivi con la semplificazione delle forme, ma pur nella
progressiva adesione ad un certo horror vacui, questa scultura non abbondonò mai la nitida struttura delle
forme come principio fondamentale della composizione, riuscendo anzi a tramandare questo principio al
periodo successivo.
Più ancora che nell’architettura o nella scultura, i legami di Roma con la tradizione mediterranea antica si
manifestano nel mosaico e nella pittura monumentale. I mosaici della basilica di Santa Agnese fuori le mura
(625-638), dell’oratorio di San Venanzio presso il battistero lateranense (642-649) e della chiesa di Santo
Stefano Rotondo (642-649) riprendono lo stile di raffigurazione umana introdotto a San Vitale di Ravenna
nelle scene con Giustiniano e Teodora (547) e a Sant’Apollinare Nuovo nella processione dei santi (circa
560) e riecheggiato anche a Roma nella decorazione dell’abside di San Teodoro (seconda metà del VI
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secolo) e nei mosaici dell’arco trionfale di San Lorenzo fuori le mura (579-590). Tra le pitture murali del VI
secolo che preannunciavano questo stile occorre citare in primissimo luogo una Maria Regina adorata da
sue angeli che rappresenta uno dei più antichi affreschi se non il più antico in assoluto della diaconia di
Santa Maria Antiqua a Roma, databile al secondo quarto del VI secolo. certe tarde pitture delle catacombe,
come ad esempio la Vergine in trono con la matrona Turtura del cimitero di Commodilla rivelano anch’esse
il medesimo linguaggio. I mosaici di Santa Agnese, di San Venanzio e di Santo Stefano Rotondo riprendono
uno stile che aveva già occupato un posto importante nell’arte del VI secolo. I personaggi conservano il
proprio volume ma al tempo stesso i contorni marcati ed il disegno lineare del volto e delle pieghe degli
indumenti incominciano a prendere il sopravvento sulla sottile gradazione dei colori. I santi dei mosaici del
VII secolo vengono presentati su di uno sfondo dorato, senza rapporti l’uno con l’altro: l’attitudine quanto
meno rigida, anche se non sempre frontale, il gesto rituale e lo sguardo fisso su qualche oggetto indefinito
situato al di sopra della linea dell’orizzonte, conferiscono a queste figure un’impronta ieratica, sebbene, in
virtù della loro struttura organica ed armoniosa, esse facciano pur sempre parte della grande tradizione
mediterranea di rappresentare l’uomo nelle sue sembianze vitali e naturali. Le rappresentazioni di Santa
Agnese, di San Venanzio e di Santo Stefano Rotondo proseguono la tendenza artistica aperta dalla
comparsa del “typos hieros” nel ritratto romano del IV secolo. le grandi superfici a colori uniformi e le linee
che dominano in queste figurazioni rientrano già nel linguaggio medievale, ma i legami formali con
l’antichità non sono del tutto perduti. Parecchi studiosi hanno giustamente accostato queste decorazioni
monumentali di Roma alle contemporanee opere greche, quali ad esempio i mosaici della chiesa di San
Demetrio di Salonicco e hanno parlato a proposito di influssi bizantini a Roma. Questa trasformazione delle
tradizioni classiche nella spiritualizzazione della rappresentazione umana costituiva soltanto una delle
numerose tendenze artistiche dell’inizio del medioevo. In Italia si può anche constatare un profondo
attaccamento ai fondamenti stessi dell’arte del tardo Impero, ovvero all’ellenismo, ed è soprattutto in
questo fenomeno che va riconosciuto l’apporto diretto degli artisti greci ed orientali: Roma non era infatti
più in grado di rinnovare da sola i propri fondamenti artistici. Sulla base dei mosaici questo atteggiamento ci
è noto solo in forma molto incompleta in quanto le decorazioni dell’arco trionfale della chiesa dei Santi
Cosma e Damiano (databili tra il 692 ed il 701) e dell’oratorio vaticano di papa Giovanni VII (705-707), che
ne sono le principali testimonianze, oltre ad appartenere a due stili differenti, si sono conservate soltanto in
frammenti e sono per di più in cattivo stato. È importante osservare che, per motivi tecnici, il mosaico mal
si confaceva alla raffigurazione classica, basata sulla sottile gradazione dei colori e sulla continuità delle
forme. La pittura murale permette al contrario di ripercorrere abbastanza precisamente l’evoluzione della
notevole rinascita dell’ellenismo sopravvenuta all’inizio del medioevo. La diaconia di Santa Maria Antiqua a
Roma (antico atrium del palazzo imperiale trasformato in edificio di culto nel VI secolo), in cui Nordhagen
ha riconosciuto otto differenti fasi di decorazione pittorica, è la più importante testimonianza di questo
processo. Come prima manifestazione del nuovo stile viene generalmente indicata una Annunciazione,
sovrapposta, verosimilmente nel primo terzo del VII secolo, alla Maria Regina del secolo precedente, e di
cui si sono conservate le teste della Vergine e dell’arcangelo Gabriele. L’efficace costruzione della figura,
che si avvale dei colori leggermente incupiti dall’uso di torni verdastri o lumeggiati dall’improvvisa
comparsa di tratti bianchi, riesce a rendere la plastica del volto rimandando ai migliori esempi della tarda
pittura ellenistica, quale la conosciamo dagli affreschi di Pompei. A Roma questa costruzione della figura
era già stata abbandonata da lungo tempo, ragion per cui si suppone che l’autore dell’Annunciazione
provenisse da un grande centro artistico mediterraneo in cui si coltivasse ancora la tradizione ellenistica.
Ai papi Martino I (649-655) e Giovanni VII (705-707) sono legati due periodi particolarmente importanti
della storia della decorazione pittorica di Santa Maria Antiqua. Sotto il pontificato del primo enne eseguito
un considerevole numero di affreschi, tra cui vanno ricordati una sant’Anna ed un ciclo sulla vita del Cristo
nel coro della chiesa, nonché una Vergine stante, una nuova Annunciazione e i Maccabei con Eleazar e
Solomone sui pilastri che separano la navata dal presbiterio. Queste pitture sono un documento
particolarmente prezioso per la storia delle correnti artistiche classicheggianti dell’Occidente, in quanto
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costituiscono il primo importante gruppo di opere che ci informi abbastanza dettagliatamente sulle
modalità di recepimento della tradizione greca all’inizio del medioevo. La composizione pone l’accento sul
significato del singolo personaggio che non su quello della narrazione nel suo complesso, una tendenza che
si manifesterà anche più tardi nelle scene dell’Antico Testamento dipinte all’epoca di Giovanni VII. Avviene
una certa monumentalizzazione della figura che non diventa comunque mai ieratica, come era invece
avvenuto per i santi di Santa Agnese fuori le mura, di San Venanzio e di Santo Stefano Rotondo: la struttura
organica del corpo rimane la trama essenziale della rappresentazione ed il volume dei volti, delle mani e
degli indumenti continua sempre ad essere reso dalla morbidezza del modellato. Ciò che distingue questo
ellenismo medioevale dal suo progenitore antico è soprattutto il modo di utilizzare i mezzi espressivi
pittorici: le linee sono più pronunciate e vengono utilizzate per accentuare i contorni e separare i colori,
assumendo sovente l’aspetto di tratti netti ed energici, il che si traduce in un certo grafismo ed in un
leggero irrigidimento delle forme. I valori espressivi dell’ellenismo medievale andarono notevolmente
aumentando con il tempo, come si può constatare prendendo in considerazione le pitture eseguite durante
il pontificato di Giovanni VII: una grande Crocifissione ed i santi stanti dell’arco trionfale, un ciclo
cristologico e i medaglioni con teste di apostoli sulle pareti laterali del coro, le scene dell’Antico Testamento
sulla recinzione del coro, rappresentazioni diverse, quali una Discesa di Cristo nel limbo, una piccola Vergine
con Bambino in una nicchia ed un’altra Annunciazione. La figura umana rappresentata negli affreschi di
Giovanni VII acquista una vitalità molto diversa da quella che caratterizza le raffigurazioni antiche, in quanto
le pennellate sono molto marcate e costruiscono le forme più per mezzo di sottili contrasti cromatici che
non con la gradazione dei toni. Un ruolo particolarmente importante spetta al bianco e ai colori chiari che
non sono più dei semplici mezzi per assicurare l’accuratezza del modellato, ma incominciano piuttosto a
separarsi dall’insieme dei colori e a formare una sorta di struttura lineare indipendente che conferisce alla
rappresentazione un accento dinamico del tutto particolare.
È però al di fuori di Roma, negli affreschi dell’oratorio di Santa Maria foris portas di Castelseprio, in
territorio longobardo, che il dinamismo e la potenza espressiva di questa nuova interpretazione
dell’ellenismo si manifestano nel migliore dei modi. L’abside di questa chiesa è decorata con un ciclo
dell’Infanzia di Cristo basato sul Nuovo Testamento e sugli Apocrifi. Nella storia della pittura il maestro di
Castelseprio si colloca ad un livello eccezionalmente alto: l’architettura ed il paesaggio in cui si svolgono gli
avvenimenti danno l’illusione dello spazio in un modo privo di equivalenti in tutta la pittura medievale. La
spigliatezza dei movimenti e dei gesti delle figure umane, al pari della resa accurata dei volumi,
conferiscono alle sceme l’impronta di una rara eleganza e fanno pensare ai capolavori della pittura classica,
quali gli affreschi di Pompei o quelli della casa romana presso la Farnesina. A Castelseprio gli elementi di
origine antica si associano alla tendenza a mettere in rilievo il movimento e la plasticità del corpo umano
per mezzo di un modellato che sa abilmente giocare sulla contrapposizione tra colori uniformi e tratti
lineari, con il risultato di ottenere una espressività dei personaggi ed un ritmo delle forme ancora più
marcati di quelli già osservati a Santa Maria Antiqua nelle pitture dell’epoca di Giovanni VII. L’eccellenza
dello stile fa di Castelseprio un monumento pittorico completamente isolato ed è da questo isolamento che
derivano le difficoltà di datazione e di interpretazione dell’opera. Weitzmann ha dimostrato che lo stile e
l’iconografia dell’opera appartengono alla medesima grande tradizione artistica bizantina manifestatasi a
Costantinopoli nel X secolo. I primi studiosi che si erano pronunciati su Castelseprio avevano collocato
queste pitture tra le più antiche manifestazioni dell’ellenismo medievale, ossia nel VII secolo, in relazione
ad affreschi del genere di quello raffigurante l’arcangelo Gabriele nella prima Annunciazione di Santa Maria
Antiqua. Oggi un numero sempre crescente di studiosi pone invece Castelseprio tra le testimonianze
dell’influsso bizantino in Italia più avanzate nel tempo.
In questo contesto occorre ancora evocare i frammenti di un ciclo cristologico dipinto nell’VIII secolo
nell’oratorio di San Saba a Roma, molto verosimilmente dovuto ad artisti greci che proseguivano anch’essi
la grande tradizione antica. Gli affreschi di Roma dell’epoca di Giovanni VII e quelli di Castelseprio
costituiscono l’ultimo capitolo dell’ellenismo che ancora sopravviveva nella pittura murale dell’Occidente.
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La maggior parte degli artisti attivi in Italia nell’VIII secolo si allontanò infatti a poco a poco dall’eredità
antica. A Roma i cambiamenti sopravvenuti nel linguaggio artistico sono rintracciabili in parecchi cicli di
affreschi, tra i quali il più significativo sembra essere quello della cappella dei Santi Quirico e Giulitta in
Santa Maria Antiqua, eseguito su incarico di Teodoto, primicerio della chiesa di Roma al tempo di papa
Zaccaria (741-752). La parete alle spalle dell’altare è occupata da una Maria Regina con santi e da un
Crocifissione caratterizzata da un’iconografia tipica della Palestina, mentre sulle pareti laterali è narrata la
storia dei santi patroni della cappella. Nelle immagini dominano pose ritmate e un po' manierate.
Particolarmente sintomatici di questa nuova fase pittorica sono i vivi contrasti cromatici tra i gialli, i rossi, i
blu e i verdi, che creano un’atmosfera coloristica molto marcata che si allontana definitivamente dall’uso
delle sfumature caratteristico degli affreschi dell’epoca di Giovanni VII o di Castelseprio. La costruzione
spaziale di queste immagini della metà dell’VIII secolo è piuttosto semplice poiché il paesaggio e
l’architettura vengono per lo più rimpiazzati da grandi superfici di colore uniforme, sovente sotto forma di
grandi bande orizzontali; i personaggi sono delineati su sfondi astratti e quasi interamente privi di quei
piccoli dettagli inseriti ancora tanto cari al maestro di Castelseprio. Uno stile narrativo abbastanza prossimo
a quello del ciclo dei Santi Quirico e Giulitta è noto anche dagli affreschi che narrano la vita di Sant’Erasmo
nella diaconia di Santa Maria in via Lata. Un passo decisivo verso le nuove forme è quello compiuto dal
pittore autore del Cristo in trono, circondato da santi, sulla parete nord della navata sinistra di Santa Maria
Antiqua (metà dell’VIII secolo). il contrasto tra linee e colori uniformi è qui ancora più pronunciato il che
priva le figure di volume e delle sembianze naturali del corpo umano, ma ancora più importante per
l’atmosfera di irrealtà e di lontananza che avvolge questi personaggi è il fatto che un simile modellato sia
strettamente associato a pose rigide e frontali. Alla ieraticità della composizione corrispondono la forte
espressività e la rigorosa linearità dei volti. A Roma la medesima ieraticità si osserva ad esempio in una
Maria Regina situata in una nicchia della basilica di San Clemente (oggi nella parte sotterranea dell’edificio).
Nacque così nel corso dell’VIII secolo un linguaggio che meglio si adattava a tradurre le realtà celesti che
non le forme derivate dalla tradizione illusionista e realista della pittura antica. Le grandi teofania e i santi
del paradiso iniziarono a svolgere un ruolo sempre più importante all’interno dei programmi iconografici,
divenendo le rappresentazioni da cui anche gli altri soggetti dipendevano. È importante sottolineare che
nell’VIII secolo questa nuova pittura era ancora fedele alla grande eredità antropocentrica dell’arte
mediterranea.
Due aspetti del santuario cristiano, ovvero la funzione liturgica e la simbolica escatologica, erano alla base
della concezione della decorazione pittorica dell’edificio e guidavano in particolare la scelta e la ripartizione
di soggetti e rappresentazioni. L’interno, rivestito di pitture i cui temi erano tratti dalla Bibbia, dalla
speculazione teologica e dalle vite dei santi, si trasformava agli occhi del fedele in un mondo sacro, senza
limiti né di tempo né di spazio. È importante sottolineare l’impatto che questa decorazione pittorica doveva
esercitare nell’animo di un laico del medioevo. Nella disposizione delle pitture venivano nondimeno
rispettati certi principi stabiliti ancora all’epoca della cristianità antica. La parte orientale della chiesa, in
particolare l’abside con l’arco trionfale, era riservata a soggetti che riflettessero il più importante messaggio
dogmatico della Chiesa. Si possono citare tra i più importanti: Maria Regina, il Trionfo della croce, l’ingresso
trionfale di un martire in cielo, l’ascesa al trono dell’Agnello dell’Apocalisse. Le teofanie e i grandi temi
dossologici decoravano anche le absidi dei martyria, degli oratori e dei battisteri. La navata della basilica era
per lo più riservata alla narrazione della vita di Cristo ma le scene cristologiche potevano comparire anche
sulle pareti del coro o nelle altre parti della chiesa. Negli oratori si constata la più grande varietà tematica:
cicli agiografici, visioni celesti e cicli sull’infanzia di Cristo. Le chiese che nel mondo cristiano occupavano
una posizione gerarchica privilegiata potevano talvolta ricevere una decorazione molto particolare. Nel 712
le pareti della chiesa di San Pietro in Vaticano vennero ad esempio rivestite di scene raffiguranti i sei concili
ecumenici: il papa ribadiva così il primato della propria Chiesa servendosi del programma iconografico
proprio della corte imperiale di Costantinopoli. Occupavano un posto importante anche la realizzazione di
icone e l’illustrazione dei libri, ma gli esempi di questi due settori artistici sono oggi troppo poco numerosi
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perché se ne possa ripercorrere dettagliatamente la storia all’inizio del medioevo. Malgrado l’iniziale
riluttanza dei cristiani a raffigurare il loro Dio, le immagini di Cristo, della Vergine, degli angeli e dei santi
erano note e sovente venerate in tutto il mondo mediterraneo già dal IV secolo. Nell’Oriente cristiano e a
Bisanzio godettero di particolare popolarità due categorie di icone: dapprima le effigi dei santi venerati nei
celebri martyria ed in seguito le immagini di Cristo e della Vergine, specialmente quelle che si riteneva
fossero state dipinte ancora dal vivo o quelle che si credeva non fossero state fatto dalla mano dell’uomo.
Le rappresentazioni più celebri erano ampiamente conosciute grazie all’esistenza di innumerevoli repliche,
il che contribuiva ad una certa durata dei tipi iconografici in campo pittorico. Il ruolo delle icone nella vita
religiosa di questa epoca era paragonabile a quello delle reliquie: oltre a venire portate in processione esse
accompagnavano l’imperatore nelle campagne militari. Roma non poteva vantarsi di possedere icone
altrettanto venerabili di quelle di Costantinopoli, per cui il culto delle immagini non ha mai assunto nella
Chiesa latina le proporzioni abnormi che aveva a Bisanzio ma la funzione delle immagini in Occidente non
differiva molto da quella propria dell’Oriente. Nell’VIII secolo, in occasione della celebrazione
dell’Assunzione, veniva portata in solenne processione l’immagine della Vergine conservata nella basilica di
Santa Maria Maggiore, la quale doveva proteggere la città contro i nemici.
I manoscritti illustrati del VII-VIII secolo costituiscono un insieme di opere incomparabilmente più disparato
delle poche icone citate. Gli studi degli ultimi decenni hanno permesso di ricostruire a grandi linee
l’evoluzione della miniatura in Italia e di riconoscere certe costanti del suo sviluppo. Si deve innanzitutto
constatare che questa miniatura ha mantenuto i principali sistemi decorativi del libro antico. Il ciclo
narrativo costituiva senza dubbio un mezzo decorativo particolarmente apprezzato. Un ciclo di questo
genere, illustrante la storia biblica della creazione del mondo al ritorno degli Ebrei verso la terra promessa,
ci è noto dal Pentateuco di Ashburnham, un manoscritto della prima metà del VII secolo attribuito in
passato ad ambiente nord-africano o iberico ma ultimamente assegnato all’Italia del Nord. Un evangelario
della fine del VI secolo che si ritiene portato in Gran Bretagna dalla missione di Agostino conserva ancora
due serie di immagini sulla vita di Cristo ed è anche decorato da un ritratto d’autore, benché sembri che
nella decorazione del libro pre-carolingio questo genere di immagini abbia svolto un ruolo abbastanza
limitato. I miniatori del VII-VIII secolo sapevano servirsi di motivi architettonici e geometrici per articolare la
pagina e per organizzare la composizione in modo da disporvi, oltre al testo in sé, elementi diversi quali
l’immagine a soggetto dogmatico, la scena narrativa, il simbolo e l’ornamento. Tra i differenti sistemi di
articolazione di una pagina di manoscritto occupano un posto particolarmente importante le tavole dei
canoni che si distinguono per la loro fedeltà ai modelli classici. I pittori di questa epoca si servivano anche
degli altri metodi di illustrazione di origine antica, quali la miniatura inserita nella colonna del testo o la
miniatura a margine. Nella miniatura italiana fece presto irruzione l’arte insulare. I primi esempi del suo
vocabolario erano usciti dalle mani dei monaci-irlandesi che lavoravano nelle abbazie d’Italia, come è il caso
della Cronaca di Orosio di Bobbio. L’evangelario dello scriba Valeriano, che costituisce una delle più antiche
testimonianze della profonda penetrazione della decorazione geometrizzante nella miniatura locale, è
databile già dall’inizio del VII secolo, mentre nell’VIII secolo i motivi di origine irlandese ebbero un ruolo
preminente nella decorazione delle iniziali. La grande miniatura, in cui la rappresentazione della figura
umana era invece una costante, rimase essenzialmente fedele alla tradizione mediterranea. Sebbene vi si
osservi talvolta un affievolimento dei valori pittorici, vi si nota anche la sopravvivenza di forme di
derivazione antica, senza dubbio rafforzare dai rapporti con l’arte bizantina. Benché ricche di notevoli
varianti e benché sovente modificate dagli influssi nordici, le forme di origine antica costituivano sempre
l’elemento essenziale del linguaggio artistico della miniatura in Italia, irradiandosi anche verso l’esterno e
contribuendo alla sopravvivenza delle tradizioni stilistiche e iconografiche mediterranee. La testimonianza
più celebre di questo fenomeno è rappresentata dal Codex Amiatinus, una Bibbia copiata in Northumbria
verso il 700.
Nel corso delle loro migrazioni i Longobardi non avevano praticato l’arte monumentale ma la loro civiltà
eccelleva nei diversi rami dell’artigianato. La storia dell’arte su occupa soprattutto della loro arte del
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metallo, poiché, di tutti i settori della produzione artigianale, essa è l’unica, con particolare riguardo per
l’oreficeria, ad essere abbastanza nota da permettere di ricostruire gli inizi dell’itinerario artistico di questo
popolo. Armi, bardature, gioielli e montature di vari oggetti in legno ed in osso compongono i materiali su
cui tale ricostruzione si basa. In Pannonia l’oreficeria longobarda si era espressa essenzialmente nelle forme
che, conformemente alla classificazione introdotta nel 1904 da Bernard Salin, prendono il nome di I stile
zoomorfo (o Salin I), uno stile nato alla fine del V secolo nei territori della Germania settentrionale e della
Danimarca, sotto l’influsso dell’arte provinciale del limes Romanus. Gli orafi germanici inventori di questo
stile si erano ispirati direttamente ai motivi zoomorfi romani, utilizzando la tecnica dell’intaglio “a cuneo”
diffusa negli atelier della Renania centro-settentrionale. Questa tecnica contribuì in modo decisivo alla
nascita delle forme fondamentali del I stile zoomorfo: sui gioielli comparivano animali frammentati, con le
diverse parti del corpo perse in una varietà di elementi ornamentali astratti, tra cui era particolarmente
frequente il motivo del nastro. Questa arte germanica, giunta in Pannonia al seguito dei Longobardi, trovò
sulle rive del Danubio le condizioni favorevoli per fiorire, poiché anche questo territorio nel corso del V
secolo aveva visto nascere la tendenza dell’astrazione nelle arti decorative ed in particolare nell’oreficeria.
Questo orientamento si era rafforzato con il passaggio per la Pannonia di altri popoli come i Goti che
praticavano l’intaglio “a cuneo” e si servivano di forme decorative geometriche. Il I stile zoomorfo è ben
attestato da numerosi oggetti rinvenuti nelle necropoli longobarde della Pannonia, soprattutto nella sua
variante B che si distingue per le forme zoomorfe ancora nettamente riconoscibili, benché appiattite. I
Longobardi portarono con sé questo stile in Italia, dove esso è noto da oggetti importati dalla Pannonia ed
in seguito da altri fabbricati sul posto da atelier che lavoravano per le corti principesche e per i nobili. Gli
esempi più importanti per la diffusione del I stile zoomorfo in Italia provengono dalle tombe longobarde del
VII secolo rinvenute a Castel Trosino, Nocera Umbra e Cividale del Friuli. L’ornamentazione tipica del I stile
zoomorfo non è tuttavia durata molto a lungo, in quanto il mondo artistico con cui i Longobardi si
trovarono a doversi confrontare in seguito all’invasione dell’Italia era talmente ricco ed evoluto che essi
non poterono sottrarsi al suo influsso. Ispirandosi all’intreccio, un motivo ornamentale di origine orientale, i
longobardi incominciarono a trasformare le forme del I stile in composizioni simmetriche a motivi astratti,
la cui connotazione zoomorfa divenne sempre meno riconoscibile. Nacque così il II stile, il cui repertorio
comprendeva il più delle volte cappi e numerose varianti di intreccio, costellati di forme zoomorfe isolate.
Tale repertorio è noto dalle fibule ma soprattutto dalle croci in lamina d’oro, un accessorio del vestiario
particolarmente caro agli abitanti del regno longobardo e delle regioni limitrofe. Questa fusione
dell’ornamento animalistico germanico e dell’intreccio risale agli anni che hanno seguito immediatamente
l’invasione longobarda del 568. I gioielli di tipo longobardo costituirono una parte molto limitata della
produzione artigianale in Italia, di cui l’ornamentazione germanica divenne un elemento sempre meno
significativo. L’arte del metallo longobarda, dopo essere rimasta fedele alle tradizioni germaniche per
almeno un secolo, dovette infine piegarsi all’influsso del nuovo ambiente. In Italia le necessità delle chiese
nel campo degli oggetti di culto non differivano molto da quelle sorte in tutto il mondo mediterraneo del IVV secolo. Un’idea dell’argenteria ecclesiastica di quest’epoca ci è fornita da un ricchissimo corredo di
recipienti eucaristici rinvenuto a Canoscio datato alla metà del V secolo ma ritenuto caratteristico dell’inizio
del VII secolo. Per quanto la datazione di questi oggetti rimanga oggetto di controversia, non se ne possono
mettere in dubbio né i rapporti con l’iconografia cristiana tardo-antica né la parentela con i recipienti simili
rinvenuti nell’Oriente cristiano. Al medesimo mondo artistico appartiene anche la croce argentea della
cattedrale di Ravenna, detta dell’arcivescovo Agnello. I doni degli imperatori alla chiesa di Roma, al pari
degli oggetti liturgici di origine bizantina che arrivavano in Italia per altre strade, non facevano che
rafforzare la tradizione classica nell’oreficeria italiana. Tra i più rilevanti esempi di queste importazioni
vanno annoverati la superba croce-reliquiario offerta dall’imperatore Giustino II (565-578) e dalla moglie
Sofia alla chiesa di San Pietro in Vaticano ed il vaso argenteo bizantino del VII secolo successivamente
utilizzato come reliquiario per la testa di San Sebastiano.
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Accanto alla tradizione classica romana, la seconda grande corrente artistica profondamente radicata
nell’oreficeria dell’Italia all’arrivo dei Longobardi era lo “stile policromo”. Questo consisteva semplicemente
in un tipo di decorazione derivante da un particolare procedimento tecnico che permetteva di incrostare
l’oggetto di pietre preziose o di paste vitree. Due erano i metodi utilizzati: con il primo si fissavano le pietre
sulla superficie dell’oggetto mediante incastonature, con il secondo si ricorreva alla tecnica della
“cloisonné”, inserendo le pietre in piccoli alveoli contigui. Questa decorazione si ispirava all’oreficeria del
VI-IV secolo a.C. dell’Asia Centrale, dell’Iran e dell’Altai. Nel corso dei primi secoli del d.C. essa si era diffusa
nelle province orientali dell’impero romano ma ancora di più nelle terre dei barbari insediati al nord del
Mar Nero, e nel I secolo era già nota nell’Occidente romano, dove era giunta attraverso strade molto
differenti. Furono però soprattutto i Goti, gli Unni e i Gepidi che contribuirono a diffonderla massicciamente
in Europa. Gli itinerari seguiti da questi popoli attraverso la regione del Danubio medio-inferiore sono
contrassegnati da numerosi ritrovamenti di gioielli, deposti nelle tombe o nascosti sotto terra durante le
guerre. Gli orafi barbarici sapevano perfettamente sfruttare i contrasti coloristici tra le pietre preziose ed il
metallo ed i loro prodotti si distinguevano per la notevole varietà delle forme. Gli esempi più compiuti di
questa gioielleria sono stati rinvenuti a Pietroasa. In alcune di queste opere la decorazione in “stile
policromo” convive con le vecchie tecniche diffuse nella parte orientale dell’impero, in primo luogo la
filigrana e lo sbalzo, in quanto, passando per le differenti province romane, gli orafi barbarici avevano anche
tratto ispirazione dalle opere classiche, arricchendo notevolmente il proprio repertorio di forme e tecniche.
Quando essi giunsero in Europa occidentale lo stile policromo di cui erano i principali portatori era perciò
già divenuto parte inseparabile di quel conglomerato di stili differenti così tipico della tarda antichità.
Questo stile decorativo fece molto presto la propria comparsa nell’arte cristiana, come è attestato dalle
croci gemmate raffigurate nelle pitture e nei mosaici a partire dalla fine del IV secolo, nonché dagli oggetti
liturgici del secolo successivo.
Agli Ostrogoti che nel 488 avevano invaso l’Italia era particolarmente familiare la tecnica del cloisonné e la
considerevole quantità di oggetti di questo genere databili all’epoca ostrogota testimonia l’entità
dell’influsso dell’arte di questo popolo sull’oreficeria tardo-antica dell’Italia. Tra gli esempi più importanti
vanno annoverate le superbe fibule a forma di aquila, a decorazione geometrizzante, e le fibule ansate a
decorazione zoomorfa e ad intreccio.
La terza componente dell’oreficeria tardo-antica in Italia, quella bizantina, era molto più complessa, in
quanto presupponeva fattori di natura molto diversa, quali le forme figurative del rilievo greco-romano, i
procedimenti tradizionali della gioielleria greca, ovvero la filigrana e la granulazione, nonché lo smalto, una
tecnica molto antica ma nuovamente ripresa dagli atelier bizantini a partire dal V secolo e destinata a
divenire in seguito il più caratteristico mezzo espressivo delle arti suntuarie bizantine. È dunque
comprensibile che l’oreficeria italiana del VII-VIII secolo sia divenuta il punto di incontro delle ispirazioni più
varie. Tale eterogeneità si constata innanzitutto nei corredi funerari del VII secolo che, accanto a lavori di
origine locale, comprendevano oggetti di varie provenienze: a titolo di esempio si può citare la tomba detta
di Gisulfo, da Cividale del Friuli contenente uno splendido smalto bizantino. Gli atelier dell’Italia iniziarono
molto presto ad assimilare e combinare questi differenti apporti. Una rimarchevole testimonianza
dell’adozione del rilievo di ispirazione antica da parte della corte longobarda è costituta dalla placca
frontale dell’elmo rinvenuto in Val di Nievole raffigurante il trionfo del re Agilulfo. Le figure risultano
semplificate rispetto ai modelli classici, ma l’iconografia continua ad essere in linea di massima quella delle
rappresentazioni imperiali del IV-VI secolo. questo elmo costituisce un caso isolato in quanto sembra che il
rilievo figurato venisse adottato quasi esclusivamente per decorare le piccole superfici dei gioielli ed in
particolare le piastre di ornamento del vestiario e della bardatura, nonché le croci in lamina d’oro che
venivano cucite sui lenzuoli funebri. Le croci in lamina d’oro erano sovente decorate con la testa del Cristo,
nel qual modo i corredi dei Longobardi mantenevano l’antica funzione apotropaica risalente alle origini
stesse della gioielleria barbarica. In quest’epoca gli atelier della penisola italiana iniziarono ad applicare allo
smalto la tecnica della cloisonné, ottenendo dei risultati simili ai più antichi lavori bizantini, benché
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imperfetti. L’affinità tra lo smalto italiano e quello bizantino nella seconda metà del VII secolo è
testimoniata da due orecchini rinvenuti a Senise (ora al Museo Archeologico di Napoli) e dalla fibula
rotonda proveniente da Canosa nota anche come fibula Castellani (ora al British Museum di Londra) tutti
decorati da teste umane. Il procedimento adottato dagli orafi del VII-VIII secolo era però l’incrostazione,
che, per lo meno all’inizio, non dimenticò mai le proprie origini orientali. La superba legatura aurea
dell’evangelario che nel 603 Gregorio Magno inviò alla regina Teodolinda, in occasione del battesimo con
rito cattolico del figlio Adaloaldo, nella lettera del donatore è infatti denominata “theca persica”, proprio
perché abbondantemente ornata di paste vitree inserite in cloisons (alveoli) e di pietre preziose
incastonate. È vero che questa decorazione tradisce il gusto al tempo stessi orientale e germanico
dell’orafo ma, d’altra parte, la composizione quasi monumentale delle grandi croci che occupano l’intera
superficie dei due piatti ed il moderato impiego delle pietre, sono testimonianza di uno spirito ancora
greco-romano. La legatura di Monza segna una data importante nella storia dell’oreficeria: proprio a partire
dall’inizio del VII secolo, l’incastonatura divenne la tecnica dominante nell’oreficeria. La croce votiva del re
Agilulfo, realizzata poco prima del 615, dimostra che gli orefici longobardi dell’epoca sapevano già
trasformare una piastra d’oro ricoperta di pietre incastonate in una composizione al tempo stesso
equilibrata e contrassegnata da una certa potenza espressiva. Il ruolo crescente dell’incastonatura e
dell’incrostazione nel campo dell’oreficeria religiosa non si spiega unicamente con la preoccupazione di
conferire un maggiore splendore agli oggetti di uso liturgico o con la frequente pratica della
tesaurizzazione. I popoli antichi attribuivano alle pietre preziose un valore simbolico e questo simbolismo
venne in seguito assimilato e persino sviluppato dagli scrittori ecclesiastici. Per i cristiani le pietre
simboleggiavano i valori morali e certe idee bibliche e potevano anche alludere a personaggi ben precisi,
Gesù Cristo e gli apostoli in primo luogo. Incastonate in un oggetto liturgico, esse divenivano così un
elemento topico della decorazione, al pari delle rappresentazioni figurate. Sembra che gli atelier che
lavoravano per la corte e per i nobili abbiano avuto un ruolo decisivo nell’assimilazione dell’incastonatura e
della incrostazione da parte dei Longobardi. La corona detta di Teodolinda, che è molto verosimilmente un
oggetto votivo offerto da questa regina alla basilica di San Giovanni di Monza, riprende la disposizione delle
pietre che era stata propria dei diademi delle principesse gote del IV secolo. Lo spirito inventivo degli orefici
longobardi si manifestò in modo rimarchevole nelle fibule rotonde, decorate principalmente con la tecnica
dell’incrostazione, arricchita però anche da altri procedimenti, quali l’incastonatura, la granulazione e la
filigrana. Grazie alla sempre nuova combinazione di queste tecniche la superficie delle fibule rotonde si
trasformò in un raffinatissimo gioco di colori e di effetti plastici. Gli esempi più belli provengono da Castel
Trosino, da Parma e da Torino-Lingotto. I grandi cabochons e gli altri importanti motivi decorativi distribuiti
al centro e sugli assi centrali della composizione sono sovente disposti in modo da formare una croce
mentre lo spazio compreso tra i bracci di questa croce è occupato da intrecci e motivi vegetali. Si tratta
dunque dei simboli cristiani della Salvezza e della vita eterna in paradiso: la fibula rimane sempre portatrice
di un simbolismo apotropaico, quale era stata per i Germani pagani, solo il contenuto del messaggio è
cambiato. La decorazione delle fibule rotonde trova analogie nei corrispondenti gioielli degli Alamanni, dei
Bavari, dei Franchi e anche degli Anglo-Sassoni. Questa affinità era da un lato il risultato dell’irradiazione
dell’oreficeria longobarda, mentre d’altro lato preannunciava la nuova comunità artistica che si andava
formando in Europa a dispetto di tutte le divisioni politiche ed etniche.
LA GALLIA MEROVINGIA, I FRANCHI E I GERMANI A EST DEL RENO
Gli esordi dell’architettura medievale nei territori dell’antica Gallia furono analoghi a quelli dell’architettura
dell’Italia longobarda, in quanto l’architettura merovingia mosse i primi passi a partire dal patrimonio
cristiano tardo-antico, giunto all’apice del proprio sviluppo con la basilica e con la sua decorazione. La
dinastia merovingia fu per quasi tre secoli il principale committente della Gallia: essendo anzi divenuta
cristiana già intorno all’anno 500 le sue prime fondazioni appartengono ancora interamente al mondo
tardo-antico cristiano. In Gallia il quadro del passaggio dall’antichità al medioevo è molto meno chiaro che
in Italia, soprattutto per il fatto che le costruzioni dei secoli successivi hanno quasi totalmente eclissato
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l’architettura merovingia, oggi ricostruita sulla base delle fonti scritti e di minute vestigia materiali. Pare che
le chiese del IV secolo fossero delle costruzioni semplici e di modeste dimensioni. Ancora alla fine del IV
secolo si insediavano le cattedrali nelle abitazioni dei fedeli (Auxerre), mentre le grandi basiliche avrebbero
iniziato a sorgere solo nel secolo successivo. Una delle più belle era la cattedrale di Lione. A giudicare da
alcuni resti rinvenuti nel corso degli scavi e tenendo conto della disposizione degli edifici adiacenti si può
pensare che questa chiesa fosse una basilica di considerevoli dimensioni. Occorre menzionare anche due
celebri esempi di chiese erette in onore di grandi santi patroni, ovvero a Sant-Martin di Tours, fondata dal
vescovo Perpetuo, e Saint-Julien di Brioude, costruita dopo il 470. Queste basiliche sono parzialmente note
grazie alle descrizioni lasciateci da Gregorio di Tours. Ben presto seguirono le fondazioni dei re, delle regine
e degli altri membri della dinastia merovingia. Una parte considerevole di queste basiliche del VI secolo
veniva eretta per commemorare le tombe o le reliquie dei grandi santi ed era quindi destinata ad accogliere
le folle dei pellegrini che affluivano verso i luoghi di culto. Tale era ad esempio la funzione della chiesa dei
Siants-Apotres di Parigi, divenuta in seguito Sainte-Genevieve (fondazione di Clodoveo I), di quella di SaintVincent et Saint-Croix di Parigi, divenuta in seguito Saint-Germain-des-Pres (fondazione di Childeberto I) e
di quella di Saint-Medard di Soisson (fondazione di Clotario I e di Sigiberto I). i sovrani contribuivano anche
all’erezione delle cattedrali, come nel caso di Ginevra (fondazione del re dei Burgundi Sigismondo, intorno
al 513-515), ma pare che queste ultime venissero più frequentemente costruite o ingrandite dai rispettivi
vescovi. Per le sue dimensioni e per la grandiosità della struttura a cinque navate, una delle più grandi
cattedrali della Gallia merovingia, quella di Parigi (VI secolo), imitava apertamente le grandi fondazioni
papali ed imperiali. La basilica merovingia eretta in onore di un santo era generalmente situata al di fuori
della cinta muraria, in vicinanza di un cimitero. La cattedrale si trovava invece abitualmente all’interno delle
mura e faceva parte di un insieme di edifici ecclesiastici detto “gruppo episcopale”: oltre alla cattedrale
propriamente detta (ecclesia maior) questo gruppo comprendeva una chiesa più piccola, sovente dedicata
alla Vergine, di cui si serviva il vescovo, un battistero ed un palazzo vescovile. La varietà degli edifici
rispecchiava quella delle cerimonie liturgiche.
Sulla base della pianta, le basiliche galliche, generalmente prive di transetto e con le navate concluse da
absidi, sono riconducibili ad una corrente dell’architettura occidentale formatasi sotto l’influsso orientale.
Una pianta di questo genere è ben illustrata dalla chiesa di Saint-Martin di Autun, fondata prima del 602
dalla regina Brunilde e dal vescovo Siagrio. Se si eccettuano però queste caratteristiche, le basiliche galliche
sono contraddistinte da alcune particolarità che rivelano la crescente diversificazione dell’arte occidentale
dopo la fine dell’antichità, particolarità destinate a permeare l’architettura carolingia e romanica della
Francia. Si pensi innanzitutto alla pratica di addossare una serie di arcate a colonne alle pareti interne ed
esterne dell’edificio. Questo arricchimento di origine orientale trasformava i muri lisci in superfici articolate,
conferendo un significato plastico e pittorico alle forme già puramente tettoniche dell’architettura. Se ne è
conservato un eccellente esempio nella chiesa di Saint-Pierre di Vienne, datata alla fine del VI secolo
benché molto rimaneggiata in epoca preromanica e romanica, ove la ricca articolazione delle pareti interne
è ottenuta mediante due ordini sovrapposti di arcate a colonne. Questa articolazione caratterizzava
profondamente anche l’interno di numerosi battisteri della Francia meridionale. L’effetto decorativo così
ottenuto poteva essere rafforzato dai mosaici e da stucchi inseriti nelle articolazioni dell’elevato interno e
controbilanciato all’esterno da una muratura con una forte tendenza all’ornamentazione. In tale apparato
decorativo le pietre da taglio formavano un vivace disegno geometrico.
La tendenza a nuove soluzioni si manifestava anche in certi elementi strutturali e nella composizione
volumetrica dell’edificio. Diverse fondazioni merovinge erano dotate di torri lignee, una particolarità
risalente all’epoca delle prime basiliche, come testimonia la chiesa di Saint-Martin di Tours, abbellita da una
torre occidentale e da una seconda, posta al di sopra della tomba del santo titolare e compresa nel
santuario. Questo elemento sarà destinato ad assumere in seguito una grande importanza nell’architettura
carolingia e preromanica. Pare anzi che dalle prime basiliche galliche abbia tratto ispirazione anche un altro
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elemento essenziale dell’architettura dell’alto medioevo, ossia il coro allungato o quadrato, staccato dal
corpo principale della chiesa.
Se le campagne edilizie portate a termine durante il regno dei primi sovrani merovingi avevano dotato il
paese di un considerevole numero di grandi chiese, una parte consistente degli investimenti del VII e
dell’VIII secolo fu destinata a riparare e modificare gli edifici già esistenti. L’architettura di questi due secoli
ci è nota da monumenti di minori dimensioni. Un esempio particolarmente eloquente di questa architettura
è il battistero di Poitiers. Eretto nella tarda antichità (forse nel IV secolo) e originariamente costituito da due
ambienti rettangolari introdotti da un portico tripartito o da una cella quadrata, esso venne in seguito
ridotto ad un solo ambiente rettangolare, provvisto di tre absidi. Non si conosce un altro monumento che
possa meglio illustrare la dipendenza dell’architettura merovingia da quella antica e, al tempo stesso, il suo
completo abbandono dei principi classici. Le colonne, i pilastri, gli archi a tutto sesto e “a mitra” e le cornici
costituiscono nell’insieme un vario repertorio di articolazioni spaziali che ha poco a che vedere con la
struttura dell’edificio e che si perde nelle superfici dei muri. Si tratta di un libero gioco di forme di origine
architettonica ma utilizzate a scopo decorativo. A tutto ciò si aggiunge il carattere ornamentale della
muratura, in cui l’apparato di pietre cubiche convive con timpani, placco, rosoni e fregi a tarsie incastrati
nei muri. La ricchezza coloristica che deriva dall’accostamento di materiali e di elementi così diversi
richiama certe opere realizzate nelle province romane, come ad esempio le fortificazioni della città di
Colonia. Questo stile “policromo”, proprio della facciavista delle murature di epoca merovingia, è stato
sovente paragonato alla tecnica dell’incrostazione utilizzata dagli orafi della tarda antichità. Sarebbe difficile
dimostrare l’influsso diretto di uno di questi settori artistici sull’altro ma la somiglianza delle forme è
innegabile e deriva da un medesimo gusto decorativo. Gli elementi di origine antica, quali i grandi capitelli
marmorei del V secolo reimpiegati all’interno del battistero di Poitiers, sono come le gemme e gli intagli
classici incastonati nelle opere di oreficeria dell’alto medioevo. È importante osservare che esiste un
notevole divario estetico tra questi muri policromi e le contemporanee costruzioni longobarde,
caratterizzate da un’articolazione molto più sobria, in quanto più “architettonica”.
Un’importante capitolo dell’architettura merovingia è costituito dai monasteri. Le comunità dei secoli IV-VI
non avevano ancora elaborato quello che chiamiamo abitualmente architettura monastica. Queste
comunità seguivano inizialmente l’esempio egiziano, vivendo in cenobia composti di differenti edifici
sommariamente costruiti, sovente semplici capanne e talvolta niente altro che ripari di fortuna. Tale era il
primo monastero di Tours fondato verso il 375 da San Martino, la più grande figura del monachesimo
occidentale prima di San Benedetto. I monaci si installavano anche nelle antiche ville romane, adattandole
alle loro necessità. Il VII secolo apportò grandi cambiamenti. Il monachesimo occidentale uscì dalla fase
iniziale della sua evoluzione e sopravvissero alle prove del periodo primitivo solo quelle regole che avevano
saputo abbinare armoniosamente l’ideale monastico e le esigenze della vita quotidiana. Le comunità
incominciarono a meglio organizzare la loro vita materiale e spirituale. Questa grande stabilizzazione si
espresse in due movimenti monastici, l’uno di origine irlandese, l’altro, benedettino, originario dell’Italia. I
due movimenti coabitarono in certe comunità che vivevano secondo la regola mista adottata soprattutto
dalle abbazie dipendenti da Luxeuil e fondate da membri della casa reale. Grazie alla generosità delle
donazioni, questi monasteri si trasformarono rapidamente in grandi centri economici ed artistici. L’insieme
di questi elementi contribuì in modo decisivo alla nascita dell’architettura monastica nel vero significato del
termine. Gli inizi di questa architettura sono ancora mal noti, il che permette di formulare soltanto alcune
considerazioni di natura generale. A causa del numero talvolta molto elevato dei monaci un insediamento
monastico poteva comprendere diverse chiese: nell’abbazia di Saint-Wandrille, fondata verso il 648, vi
furono inizialmente tre edifici di culto ed in seguito quattro. Queste chiese formavano dei vasti complessi
architettonici che, circondati da recinti fortificati, suscitavano l’ammirazione dei cronisti. Gli edifici di culto
propriamente detti non raggiungevano tuttavia la medesima levatura delle basiliche del V e VI secolo, né
delle chiese abbaziali erette più tardi in epoca carolingia. La pianta più frequente era quella con un
ambiente rettangolare concluso da un piccolo coro quadrato, come nella chiesa di Saint-Paul di Nivelles
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(abbazia fondata intorno al 640-650), oppure da un’abside semicircolare. Lungo la navata venivano anche
eretti dei portici che ospitavano una parte delle tombe dei fedeli. Le strutture basilicali si facevano
comunque lentamente strada.
Pare che l’architettura della Gallia merovingia non abbia conosciuto le cripte nel vero significato del
termine, in quanto il sarcofago contenente il corpo del santo veniva collocato nel coro della chiesa, o anche
in un oratorio funerario, destinato al tempo stesso ad ospitare le tombe dei fedeli che volevano essere
sepolti ad sanctos, ovvero in prossimità dei santi. Gli oratori funerari erano spesso degli edifici isolati eretti
in mezzo ai cimiteri. Tale è la situazione di un esempio conservatosi a Poitiers, noto come ipogeo delle Dune
o di Mellebaudo. Si tratta di un piccolo edificio fatto costruire intorno all’anno 700 da un abate di nome
Mellebaudo, composto di due ambienti rettangolari, semi-sotterraneo, accessibile mediante una scalinata.
Gli oratori funerari nettamente più importanti erano però quelli contigui alle chiese e situati al medesimo
livello dell’edificio principale, soluzione che preannunciava la cripta esterna carolingia. Il più celebre
esempio conosciuto è quello di Jouarre, dove un oratorio rettangolare era addossato alla parete di fondo
della chiesa di un convento femminile fondato intorno al 630. La trabeazione era sostenuta dalle sei
colonne che suddividono l’interno. L’edificio, eretto nell’ultimo terzo del VII secolo, subì delle importanti
trasformazioni nella seconda metà del secolo successivo, periodo a cui si possono datare la muratura
decorativa in opus reticulatum del muro occidentale, i capitelli e forse le volte. Un’idea dell’aspetto
primitivo di queste costruzioni ci è offerto dall’oratorio di Saint-Oyand, a Grenoble, che faceva
originariamente parte di un imponente complesso di edifici funerari antichi, situati in una necropoli galloromana. Nell’XI secolo esso venne incorporato come cripta nella chiesa di Saint-Laurent. Prima di questa
trasformazione romanica si possono però distinguere due fasi principali: dapprima, un superbo oratorio
funerario tardo-antico (VI secolo) con pianta a croce greca costituita da quattro bracci trilobati; poi un
oratorio pre-carolingio ancora oggi ben conservato al di sotto della chiesa romanica e considerevolmente
ridotto rispetto all’edificio precedente: solo il braccio orientale fu conservato e dotato di una piccola navata
munita sul lato occidentale di un’abside. La sua decorazione interna, comprendente degli stucchi ed un bel
colonnato addossato ai muri, è abitualmente datata alla seconda metà dell’VIII secolo.
Di pari passo con il propagarsi del cristianesimo al di fuori delle antiche frontiere romane, l’architettura
ecclesiastica raggiunse anche, benché con un processo molto lento, i Germani stanziati a Est del Reno. I
monumenti databili all’epoca delle prime missioni irlandesi sono estremamente rari. Le fondazioni religiose
aumentarono di numero alla vigilia dell’epoca carolingia, per effetto dell’attività dei missionari anglosassoni o originari delle regioni occidentali del regno franco. Le loro missioni si concentrarono inizialmente
sul consolidamento del cristianesimo nelle regioni situate lungo il Reno e l’alto Danubio, dove nel VI e nel
VII secolo si era avuta una recrudescenza del paganesimo. A questa prima fase corrispose la fondazione dei
monasteri di Echternach (intorno al 698) e di Reichenau-Mittelzell (intorno al 724). In seguito, il loro campo
di attività si estese a territori germanici privi di passato romano, come la Turingia e la Franconia. Le chiese
di Fritzlar (intorno al 732) e di Fulda (744) segnano gli inizi di questa grande espansione verso Est da parte
della civiltà latina. La maggioranza di queste piccole chiese riproduceva un tipo di struttura frequente nelle
regioni da più lungo tempo occupate dal regno franco, ossia una navata rettangolare conclusa da un coro
quadrato o da un’abside, mentre le costruzioni a tre navate costituivano un’eccezione.
La scultura della Francia merovingia si colloca sul prolungamento dell’arte tardo-antica. Occorre
innanzitutto ricordare che l’eredità antica della Gallia era diversa da quella dell’Italia; inoltre, l’approccio
alle fonti di ispirazione mediterranee fu molto diverso da un paese all’altro; infine, occorre osservare che si
conosco pochi esempi di plutei merovingi e pare che ciò non si unicamente il risultato di una successiva
distruzione dei monumenti. I due grandi centri scultore della Gallia antica, la Provenza e l’Aquitania, erano
ancora molto attivi quando i Franchi avevano incominciato a costruire ed abbellire le prime loro chiese e
furono proprio gli atelier dell’Aquitania a riassumere un ruolo centrale nel processo di trasmissione dei
modelli antichi agli scultori dell’alto medioevo. Una simile fedeltà alle forme antiche si manifestò soltanto
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nel campo abbastanza limitato dei capitelli, mentre altri settori della scultura subirono ben presto profonde
trasformazioni stilistiche. Uno dei documenti più antichi è il coperchio del sarcofago di Boezio, vescovo di
Carpentras e Venasque, morto nel 604. Tutti i motivi che lo decorano rientrano nel repertorio
dell’iconografia cristiana definitosi nel IV e nel V secolo, ma, per ciò che concerne lo stile, il coperchio di
Venasque appartiene già alla scultura del primo medioevo: i vecchi temi simbolici, resi con un debole
bassorilievo e fortemente geometrizzati, si sono infatti trasformati in una decorazione nuova, molto
differente da quella dei sarcofagi tardo-antichi. Questo linguaggio scultoreo dalle forme schiacciate e lineari
lo conosciamo già dall’Italia longobarda, ma nella Francia merovingia esso si fece più austero e pronunciato.
La migliore testimonianza di ciò la troviamo nella decorazione monumentale delle regioni centrosettentrionali del paese, dal momento che la Provenza ha invece conservato maggiori reminiscenze del
modellato antico. Una delle poche città in cui numerosi elementi scultorei in pietra si trovano ancora nella
posizione alla quale erano stati destinati è Poitiers. L’edificio più riccamente decorato è però l’ipogeo di
Mellebaudo. Su tre dei gradini della scalinata di accesso sono rappresentati dei serpenti intrecciati, dei
mostri marini e l’edera. Le iscrizioni, l’edera ed il crisma incisi sulla cornice della porta precisano che la
funzione dell’oratorio è quella di luogo di sepoltura e preghiera, di luogo che riconforta e rinsalda la fede in
Cristo e nella resurrezione. Tutto un complesso di sculture disposte intorno all’altare rappresenta infine i
principali oggetti di culto; la parte centrale è occupata da una grande croce. Tra il IV e l’VIII secolo il culto
della senta croce era il culto più importante della cristianità, la Francia merovingia ha preso parte molto
attivamente al suo sviluppo ed esso si esprimeva sotto dorma di croci monumentali, erette tanto
dall’interno quanto all’esterno delle chiese. Nell’ipogeo è anche presente il tema della gloria del Cristo,
come dimostrano le lastre incise con le rappresentazioni degli evangelisti e degli arcangeli. L’abate
Mellebaudo, autore di questo programma, intendeva identificare nella morte di Cristo sulla croce la fonte
di ogni santità e della vita eterna. Elbern pensa che l’idea di dotare questo oratorio funerario di una
decorazione di tale genere abbia tratto ispirazione dal culto del Santo Sepolcro di Gerusalemme. L’ipogeo di
Mellebaudo si inserirebbe perciò nell’immenso filone degli edifici antiche e medievali ispirati da quello che
era il più insigne santuario cristiano.
L’oratorio di Poitiers occupa un posto importante negli inizi, anche se timidi, della statuaria, che
incominciava allora ad emergere come genere artistico a sé stante, a partire dalle statue di culto e dai
reliquiari figurati. Un altro momento situato nella regione di Poitiers conferma questo interesse crescente
degli artisti pre-carolingi per i temi figurativi nella scultura: scavi recenti condotti nella chiesa merovingia di
Vouneuil-sous-Biard (VIII secolo) hanno rivelato resti importanti di una decorazione in stucco dipinto. Tra i
plutei, un eccellente esempio dell’influsso dell’ornamentazione geometrizzante sulla scultura merovingia è
quello di Saint-Denis, voluto verosimilmente da re Dagoberto I, intorno al 630, per abbellire la chiesa
dedicata al più grande dei martiri della Gallia. Le lastre di Saint-Denis illustrano anche l’affinità tra la
decorazione in pietra e l’arte dei metalli.
Sul pluteo di Saint-Pierre-aux-Nonnains di Metz, eseguito introno alla metà dell’VIII secolo, accanto ai già
noti motivi geometrici, vegetali e zoomorfi, ricompaiono dei vecchi simboli cristiani di origine mediterranea
e persino una rappresentazione del Cristo. Gli studiosi sono concordi nel ritenere che questo repertorio si
ispirasse direttamente ai modelli antichi e che vi si debba vedere annunciata la rinascita artistica dell’epoca
carolingia. Le lastre di Hornhausen in Turingia, che avrebbero originariamente costituito anch’esse il pluteo
di una chiesa, s situano al polo opposto della scultura pre-carolingia. Se è vero che la loro iconografia
comprende dei soggetti cristiani di origine mediterranea (cavalieri nell’atto di calpestare un serpente,
cervi), il modo di trattare questi temi con un bassorilievo, in cui la forma è descritta unicamente da linee,
dipende interamente dalla variante nordica del II stile zoomorfo.
Nel variegato quadro della scultura merovingia, la decorazione dei sarcofagi, delle lastre e delle stele
funerarie si distingue per la maggiore ricchezza delle forme e del repertorio iconografico. Delle due grandi
scuole a cui si deve la produzione dei sarcofagi della Gallia antica, quella provenzale e quella aquitana, è la
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seconda a fungere da tramite alla tradizione classica e l’epoca merovingia. I sarcofagi merovingi non
possono comunque essere considerati alla stregua di imitazioni: essi costituiscono in realtà un’espressione
artistica nettamente originale, nata nel corso di un processo di adattamento di modelli antichi e di selezione
e riduzione di temi decorativi. I sarcofagi e le tombe merovinge possono dividersi in più gruppi regionali. Il
repertorio proprio del Poitou, dove venivano decorati solo i coperchi, spaziava dalla decorazione imitante la
struttura architettonica del sarcofago gallo-romano all’ornamentazione geometrica e ai simboli propri
dell’arte funeraria cristiana, sovente riuniti in composizioni che esaltano l’opera vittoriosa della Croce. Tali
differenti tipi di decorazione sono ben illustrati dai sarcofagi provenienti dal cimitero di Antigny ed esposti
nel battistero di Poitiers. Un altro grande centro di produzione di sarcofagi era costituito da Parigi con la sua
regione, dove essi venivano realizzati in calcare locale o in gesso modellato. La decorazione dei sarcofagi
dell’Ile-de-France, che si estende anche sui fianchi della vasca, si distingue per esecuzione a debolissimo
bassorilievo, per l’esasperata linearità delle forme e per l’estrema semplificazione dei motivi decorativi. Sui
sarcofagi di questa regione trovano tuttavia delle formule iconografiche originali, quali ad esempio dei
gruppi di croci accompagnati da palme crocifere simboleggianti l’albero della vita. Per decorare i sarcofagi,
gli scalpellini merovingi si servivano sovente dell’incisione, un mezzo già noto agli scultori gallo-romani,
come dimostrano le lastre della cripta di Saint-Maximus. Un eccellente esempio di decorazione incisa di
epoca merovingia è il sarcofago di Charenton-sur-Cher, la cui iconografia si ispira direttamente all’arte
funeraria cristiana del tardo-antico. Se paragonati con questi sarcofagi delle regioni occidentali e
meridionali del regno merovingio, i monumenti funerari franchi della Renania formano un gruppo a parte:
innanzitutto perché si tratta di stele, ossia di monumenti molto simili ai cippi funerari romani e anche ai pali
lignei che venivano eretti su certe tombe “barbariche”; in secondo luogo perché recano sovente l’effigie del
defunto; infine perché, accanto a temi iconografici cristiani, essi sfoggiano ancora numerosi motivi di
origine pagana. Esistono pochi altri monumenti scultorei di questo periodo in cui l’incontro del mondo
mediterraneo con quello germanico sia altrettanto evidente. I monumenti renani sono caratterizzati da una
grande varietà iconografica. La stele di Moselkern presenta un quadrato attraversato dalle due diagonali e
sormontato da una crocefissione simbolica e tale composizione è qui utilizzata per simboleggiare la
Salvezza estesa all’intero universo. Certe lapidi mostrano invece un programma iconografico complesso, in
cui la raffigurazione del defunto, circondato da animali simbolici, si associa all’immagine del Cristo vincitore.
Questi territori situati a metà strada tra le antiche province romane e il mondo germanico hanno
contribuito alla nascita, nell’XI secolo, della lastra funeraria romanica. La stele franca con effige umana
costituisce senza dubbio un legame fra la tradizione figurativa dell’arte funeraria romana e quella delle
tombe medievali. Il mondo franco utilizzava lastre figurate per ricoprire le tombe già prima dell’espansione
di questo genere artistico in epoca romanica, come testimonia la lastra raffigurante santa Crodoara in veste
di badessa, una scultura di buon livello artistico, stilisticamente affine alla stele di Gondorf e datata da
Stiennon alla prima metà dell’VIII secolo.
La pittura del VII e dell’VIII secolo ci è pervenuta unicamente sotto forma di manoscritti miniati. Tranne rare
eccezioni, la miniatura era opera di ambienti monastici, in quanto è nella cornice dell’universo monastico
che circolavano i differenti modelli, in seguito copiati, trasformati e trasmessi alle generazioni successive. In
diversi monasteri sono stati identificati dei grandi centri di produzione della miniatura: Corbie, Laon,
Chelles, Soisson, Fleury e Tours in Austrasia e Neustria, Luxeuil in Burgundia. Di pari passo con il progredire
degli insediamenti monastici nei paesi germanici, si organizzarono degli scriptoria anche in Alamannia,
Bavaria ed altre regioni. Il fatto che un medesimo repertorio di forme e motivi potesse diffondersi in più
regioni si spiega d’altra parte con l’amplissima circolazione dei manoscritti. I viaggi dei monaci irlandesi e la
circolazione dei libri prodotti nei loro monasteri era un sintomo particolarmente significativo di questi
costanti scambi monastici. Accanto a libri indubbiamente importati dalle isole britanniche, esistono degli
esempi di stile insulare la cui provenienza è controversa (ad esempio un frammento di evangelario
conservato nella chiesa di Sainte-Catherine di Maaseyck e un evangelario di Treviri), in cui certi studiosi
vedono delle importazioni e altri delle opere eseguite da miniatori irlandesi o anglo-sassoni attivi sul
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continente. Influssi non trascurabili giungevano anche dal sud, come testimonia la presenza di modelli
provenienti dall’Italia dei monasteri di Luxeuil e Corbie già nel VII secolo. A partire dalla seconda metà
dell’VIII secolo il repertorio ornamentale e le ferme originari dell’Italia caratterizzano anche la produzione
degli scriptoria della Germania meridionale. Volendo dunque riassumere brevemente la posizione storicoartistica della miniatura continentale in età pre-carolingia si può dire che essa si situi tra due mondi, l’uno
insulare e l’altro mediterraneo, benché, per quanto concerne i mezzi espressivi, paia più prossima al primo.
Il disegno al tratto, eseguito a penna o talvolta con il pennello, era la base di ogni miniatura,
rappresentazione figurata, simbolo o ornamento che fosse. Per ciò che concerne la forma, queste miniature
si differenziano tuttavia nettamente da quelle irlandesi o anglo-sassoni, di cui non condividono la rigida
astrazione e il netto distacco dal mondo animale e vegetale. Il repertorio di temi e motivi dipendeva
principalmente dalle tradizioni mediterranee, come dimostrano innanzitutto le figure umane che
riprendevano i grandi temi della miniatura tardo-antica. Un altro tema ricorrente consisteva in una scena
raffigurante l’offerta di un libro. Altri soggetti che vanno ricordati sono le rappresentazioni della
crocefissione e della Vergine che serve nel tempio che decorano le iniziali del “Sacramentario di Gellone”,
eseguito probabilmente a Chelles alla fine dell’VIII secolo, il Cristo in maestà dell’evangelario di Gundohinus
e il David di un salterio proveniente da Mondsee. All’ispirazione iconografica proveniente da diverse regioni
del Mediterraneo si associava talvolta quella originaria delle isole britanniche. Ad esempio, l’evangelario
realizzato a Salisburgo, verso il 790, dal monaco anglo Cutbercht, è decorato di ritratti di evangelisti ispirati
ad un qualche modello del VI secolo proveniente dall’Italia ma anche profondamente influenzati
dall’interpretazione insulare di quel soggetto. Un altro esempio di questo incontro è costituito dal “Liber
viventium” di Pfäfers, in Alamanni, che dimostra tra l’altro come il rinnovamento della raffigurazione
umana degli anni intorno all’800 non si preparasse soltanto nei grandi scriptoria austrasiani, ma anche negli
ambienti monastici alla periferia del regno franco.
All’arte mediterranea si ispiravano anche le composizioni di caratter simbolico che decoravano i frontespizi
e gli incipit dei manoscritti. Si trattava di composizioni a piena pagina, aventi per tema l’esaltazione della
croce come simbolo della vittoria di Cristo e della dimensione cosmica della Redenzione. I migliori esempi di
questo tipo di decorazione si trovano in tre manoscritti della metà dell’VIII secolo: un “Commento” di
Gregorio Magno, un “Sacramentarium gelasium” della Francia nord-orientale e le “Quaestiones in
Heptateuchum” di Sant’Agostino. È proprio in queste pagine di incipit, tributarie della tradizione
iconografica mediterranea, che si manifesta tutta l’originalità della miniatura franca: l’incorniciatura
architettonica e geometrica, gli animali, le piante e gli ornamenti, le letterine e tutte le componenti
dell’immagine si uniscono a formare un insieme nuovo ed armonioso. L’elemento che assicura la coesione a
motivi tanto diversi è soprattutto il disegno a tratti agili e vivaci. Il nuovo stile permeò la miniatura del VII e
dell’VIII secolo sin nei minimi dettagli. Lo si constata anche nelle letterine formate di pesci e uccelli, un tipo
di scrittura ornamentale originario dell’Italia, divenuto però un genere artistico a parte soltanto nella
Francia merovingia. Questo stile attenuò anche il rigore geometrico dei motivi mutuato dalle miniature
irlandesi e anglo-sassoni. L’iniziale formata di figure umane e animali e di motivi vegetali e geometrici era
una realizzazione di particolare importanza, in quanto destinata a divenire l’elemento fondamentale del
repertorio di tutta la miniatura europea a partire dall’epoca romanica. Se è vero che se ne conoscono dei
modelli di ambiente italiano del VI e del VII secolo, sono solo i miniatori della Francia orientale e nordorientale che hanno saputo conferire a queste ibride composizioni la dignità di una piccola immagine
autonoma. Lo spirito innovatore non si limitava a riadattare i grandi temi mediterranei o a ricercare nuove
formule decorative. Dagli scriptoria dell’VIII secolo sono infatti uscite le prime immagini in cui elementi
iconografici diversi e talora eterocliti risultassero riuniti in un tutto nuovo e omogeneo, retto da un concetto
teologico ben preciso. La miniatura è così divenuta un messaggio dottrinale a sé stante. Porcher ha
giustamente annoverato tra le immagini di questo genere una delle tavole dei canoni comprese
nell’evangelario detto di Flavigny della seconda metà dell’VIII secolo. Si tratta di una pagina che riassume in
qualche modo l’essenza dell’insegnamento evangelico: quel medesimo Cristo che è descritto nei vangeli
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come Redentore del mondo, alla fine dei tempi si rivela per intero nella sua gloria divina. Benché all’inizio
del IX secolo la nuova pittura carolingia fosse già saldamente affermata nei grandi centri artistici dell’impero
franco, parallelamente, numerosi scriptoria monastici continuavano ancora a praticare la miniatura
tradizionale, servendosi del linguaggio espressivo merovingio.
Nelle arti suntuarie l’apporto barbarico era molto più consistente. È d’altra parte impossibile, anche in
questo campo, separare a chiare linee i due mondi in questione. Le province romane di età tardo antica
costituivano tutt’altro che un universo artistico omogeneo, come è esemplificato nel migliore dei modi
proprio dalla Gallia, la cui vita artistica, a partire dal IV secolo, era permeata non solo di tradizioni celtiche
autoctone e di correnti universaliste provenienti da Roma, ma anche di influssi orientali e di altre tendenze
veicolate dai popoli germanici. Gli invasori avevano recato con sé un’arte stilisticamente eteroclita, che
traeva le proprie origini dall’Oriente e dal Mediterraneo: in questo modo il vecchio repertorio dei grandi
centri della civiltà antica raggiungeva ancora una volta i paesi dell’Europa occidentale, benché sotto nuove
spoglie, più confacenti all’inclinazione nordica verso l’astrazione. All’origine di questa mescolanza di stili
differenti nelle arti suntuarie vi era soprattutto la mobilità degli atelier. Abbiamo già visto che i Longobardi
avevano assimilato l’intaglio “a cuneo” e l’ornamentazione zoomorfa dell’arte delle province romane.
Queste forme raggiunsero rapidamente i paesi franchi, contemporaneamente all’arrivo sul continente delle
forme lineari e geometrizzanti dell’ornamentazione zoomorfa tipica dell’Irlanda, della Britannia anglosassone e della Scandinavia. La storia della diffusione dell’incrostazione policroma dà un’idea della strada
che una tecnica o uno stile potevano percorrere a quest’epoca. I primi orafi latori delle forme di origine
pontica erano giunti in Gallia nel corso della prima metà del V secolo, insieme con i Visigoti e le orde di
Attila. I gioielli di tipo pontico, realizzati con la tecnica del cloisonné, divennero molto frequenti nei corredi
franchi a partire dalla metà del V secolo, come dimostrano le armi e i gioielli rinvenuti a Tournai, nella
tomba di re Childerico I, morto nel 481, a Saint-Denis nella tomba della regina Arnegonda e nelle tombe di
principi ed alti dignitari. Böhner ritiene che si trattasse di un’arte regale, coltivata solo per la corte dei
sovrani franchi e successivamente diffusasi tra i nobili e gli alti dignitari. È fuori dubbio che gli autori dei più
antichi gioielli realizzati con la tecnica della cloisonné provenissero da Est ma in Europa occidentale questi
orafi ebbero ben presto dei discepoli che nel VI secolo svilupparono un loro stile caratteristico, distinguibile
da quello dei modelli pontici per il disegno degli alveoli, più netto e più strutturato. Al successo di quest’arte
presso i Franchi contribuì anche l’oreficeria dei Goti insediati in Italia, nella Gallia sud-occidentale e in
Spagna. Nei paesi situati lungo le sponde del Reno l’afflusso dell’oreficeria policroma gota è
particolarmente evidente. Più tardi, nel VII secolo, la diffusione verso nord venne proseguita dai gioielli
longobardi, sempre realizzati con la tecnica del cloisonné ed eredi dell’oreficeria gota. La reciproca
interpretazione di stili diversi derivava anche dal fatto che il medesimo atelier soddisfaceva sovente tanto la
domanda della Chiesa quanto quella dei laici, il che favoriva l’incontro di differenti tradizioni artistiche.
Questo incontro è testimoniato ad esempio dal calice e dalla patena del VI secolo rinvenuti a Gourdon in
Borgogna. Sul calice, che richiama il tipo del “kantharos” ansato greco-romano, sono incastonate delle
paste vitree guarnite di filigrana, ma questa decorazione, di ispirazione pontica e bizantina al tempo stesso,
si conforma al classico rigore della forma del vaso. Sulla patena, che ha la forma di un piatto rettangolare, il
disegno geometrico proprio della tecnica del cloisonné ha invece il sopravvento.
Le pietre inserite negli alveoli potevano ricoprire interamente l’oggetto, così da formare sulle superfici un
reticolo policromo continuo simile ad un mosaico, ma vi venivano spesso aggiunte delle pietre in castoni
che servivano a vivacizzare il disegno geometrico. Questo stile decorativo segna profondamente numerose
opere di oreficeria franche della prima metà del VII secolo e si pensa che alla sua diffusione abbiamo
ampliamente contribuito sant’Eligio. Il calice di Chelles e la croce di Saint-Denis sono due dei migliori
esempi di oggetti realizzati con la tecnica del cloisonné continuo a disegno geometrico, attribuiti al celebre
orafo dei re Clotario II e Dagoberto I. Verso la metà del VII secolo questo stile iniziò a trasformarsi e il
disegno delle pietre inserite negli alveoli si avvicinò maggiormente a forme più organiche, divenendo più
movimentato e diversificato. Gli inizi di questa nuova fase sono noti da un reliquiario realizzato dagli orafi
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Undinho ed Ello per l’abbazia di Saint-Maurice d’Agaune, fondazione intrapresa da un sacerdote di nome
Teuderico e sostenuta economicamente da due nobili di nome Nordolao e Rihlindis. Ciascuno dei territori
destinati a fndersi progressivamente in un solo regno frano ha lungamente conservato le sue tradizioni.
Nelle arti cosiddette minori dei primi secoli del medioevo questa diversificazione si manifesta soprattutto
nelle forme, nella tecnica e nell’ornamentazione dei corredi e dei gioielli. L’Aquitania ci ha restituito un
consistente gruppo di caratteristiche fibbie di cintura bronzee, la cui placca mostra una decorazione incisa
comprendente quadrupedi, intrecci e svariati motivi geometrici, tra cui rosoni formati da fusi, già noti dalla
decorazione architettonica. Il carattere lineare del disegno è un indice dei cambiamenti intervenuti nell’arte
della Gallia per il succedersi delle invasioni dei Visigoti e dei Franchi, ma la forma dell’oggetto e la sua
decorazione dimostrano come la Gallia occidentale e sud-occidentale sia rimasta ancora a lungo fedele alle
tradizioni mediterranee antiche. Nel cuore del regno franco, in Austrasia e Neustria, i rivolgimenti furono al
contrario più profondi. La tecnica del cloisonné conservò a lungo la propria posizione privilegiata e solo
nell’VIII secolo cedette progressivamente il posto ad altre tecniche.
A partire dall’inizio del VII secolo gli atelier alamanni, burgundi e franchi, e più tardi sassoni e frisoni, le
imitarono in grande quantità. Il disegno delle pietre inserite negli alveoli andava dalle forme più
strettamente geometriche a quelle zoomorfe. La tecnica del cloisonné si associava ad altre, quali la
filigrana, lo stampo, la damaschinatura e l’incrostazione di pietre inserite in castoni; proprio l’incastonatura
divenne anzi il procedimento più comunemente impiegato a partire dall’VIII secolo. di questo tipo di gioiello
esistevano perciò diverse varianti. Una notevole varietà caratterizzava anche altri gioielli franchi, tra cui le
fibule ansate a decorazione intagliata, un tipo di corredo fortemente radicato nella tradizione dell’intaglio
“a cuneo” delle province romane. Molto diffuse nel VI secolo queste fibule scomparvero nel secolo
successivo. Le loro variati spaziavano tra la fedeltà all’ornamentazione geometrica degli antecedenti di età
antica e l’adesione allo stile zoomorfo longobardo o scandinavo. Le fibbie di cintura erano caratterizzate
dalla medesima ricchezza di forme e tecniche: venivano realizzate in bronzo o in argento, con la tecnica del
cloisonné, dell’incisione, della damaschinatura, dell’intaglio. Nelle regioni abitate dai germani del sud,
Burgundi e Alamanni in particolare, si manifestavano fortissimi influssi provenienti dall’Italia e, attraverso
questa, dal Mediterraneo. I contatti con l’eredità antica erano favoriti dalla sopravvivenza della popolazione
locale, rimasta a lungo legata alla civiltà romana. Questi legami si esprimevano nella decorazione delle
fibbie di cintura damaschinate d’argento, ricoperte di intrecci regolari di tipo classico, di racemi a forma di
mezze palmette e di croci a bracci svasati. L’influsso delle tradizioni mediterranee sulle arti minori della
regione tra l’alto Danubio e il Rodano si può misurare sui grandi temi cristiani che compaiono sulle fibbie di
cintura burgunde: la fontana della vita e l’adorazione della Croce. Queste fibbie di cintura burgunde fanno
parte di una folta serie di oggetti destinati ad esprimere le credenze del proprietario e a proteggerlo dal
male, una funzione del corredo che risale addirittura agli inizi delle grandi civiltà asiatiche ed europee. I
Greci e i Romani, così come i barbari, si servivano costantemente di corredi a cui venivano attribuiti un
significato religioso ed una funzione tutelare. L’uomo credeva di appartenere interamente all’universo della
natura, retto dalle forze provenienti dall’aldilà. Alcuni studiosi hanno dimostrato che gli animali, le piante
ed altri motivi raffigura su fibule, fibbie di cintura, orecchini e pendenti avevano lo scopo di propiziare il
favore di queste forze o di respingerne il potere malefico. In quest’epoca non si faceva distinzione tra fede
e magia ed è questo il motivo per cui, presso i popoli convertiti, le immagini cristiane rimpiazzarono le
rappresentazioni e i simboli pagani.
Le fibbie di cintura burgunde si distinguono dagli altri gioielli in quanto riprendono i grandi temi dell’arte
monumentale cristiana. La maggior parte dei gioielli a significato religioso ed apotropaico era tuttavia
decorata di rappresentazioni simboliche non figurative, ispirate alle più eterogenee fonti iconografiche. La
composizione era retta il più delle volte da una croce formata da pietre incastonate o inserite in cloisons
(alveoli), accompagnata da intrecci e da un’ornamentazione vegetale fortemente stilizzata. Talvolta, una
testa umana posta a metà della croce la trasformava nell’immagine esplicita del Cristo crocifisso. Questi
temi e motivi sono anche passati agli oggetti preziosi della decorazione dei sarcofagi. Certi gioielli ed in
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particolare le fibbie di cintura burgunde erano realizzati in modo da potere racchiudere entro di sé degli
oggetti e delle sostanze a cui si attribuivano poteri magici, quali piante, minerali, tessuti, pezzi di legno,
osso, cuoio: vi si ponevano persino delle reliquie, il che ricollega i gioielli apotropaici al reliquiario, che è in
effetti l’utensile liturgico che testimonia nel modo più eloquente gli stretti legami esistenti tra la produzione
di oggetti preziosi laici e l’oreficeria religiosa. La metà dei reliquiari pre-carolingi conservatisi sino ad oggi è
a forma di borsa: si tratta perciò di un tipo di oggetto liturgico che trae ispirazione da un oggetto di uso
quotidiano come la scarsella. Occorre inoltre citare il magnifico reliquiario aureo di Enger. Secondo
un’antica tradizione, esso sarebbe stato donato da Carlo Magno al principe sassone Viduchindo in
occasione del battesimo di questi avvenuto ad Attigny nel 785. Il lato principale, decorato con le tecniche
del cloisonné e dell’incastonatura, raffigura simbolicamente Cristo con i dodici apostoli e, al tempo stesso,
la croce che si estende sull’intero universo, simboleggiato da tre classi di animali: viene così illustrata la
dottrina di san Paolo del rinnovarsi della creazione per l’opera redentrice di Cristo. Il lato posteriore,
lavorato a sbalzo, mostra Una Vergine con Bambino adorata da santi e Cristo circondato dagli angeli,
evocando i temi dell’Incarnazione e del potere supremo di Cristo. Il lato principale del reliquiario di Enger
costituisce un eccellente esempio di quella che fu l’ultima tappa evolutiva della tecnica del cloisonné, in
quanto la composizione si scosta definitivamente dal rigore geometrico delle opere del V e del VI secolo. il
lato posteriore testimonia invece il crescente interesse dell’oreficeria per il rilievo figurativo, mentre sono
ormai dimenticate le incertezze note dalle fibbie burgunde o dal reliquiario di Mumma, della seconda metà
del VII secolo. Così come la miniatura, le arti del metallo aprivano la strada benché lentamente al
rinnovamento della raffigurazione umana proprio dell’epoca carolingia.
I reliquiari ora menzionati e altri oggetti conservatisi fino ai nostri giorni testimoniano la varietà, la ricchezza
e lo splendore degli arredi liturgici pre-carolingi. In epoca merovingia fecero la loro comparsa i primi paliotti
in materiali preziosi, preannunciando lo sviluppo di questo genere artistico poi verificatosi in epoca
carolingia. Benché essi siano sfortunatamente tutti scomparsi, le placche provenienti da altri oggetti ci
possono fornire informazioni sui più antichi rilievi istoriati. Nel corso dell’VIII secolo certi oggetti liturgici
assunsero la forma che erano destinati a mantenere in seguito sino all’avvento del gotico. Questo fu
soprattutto il caso del calice eucaristico. Due calici della seconda metà dell’VIII secolo si avvicinano già a
quell’equilibrio di volumi che doveva poi essere tipico dei vasi eucaristici romani.
L’ITALIA IN EPOCA CAROLINGIA
La caduta dell’esarcato bizantino di Ravenna nel 751, la creazione dello Stato Pontificio nel 754-756 e
l’annessione del regno longobardo da parte della monarchia franca nel 774 mutarono il quadro politico
dell’Italia medievale. Principale beneficiario di questi cambiamenti fu il papato che, grazie all’alleanza con i
Franchi, divenne una potenza territoriale e una forza reale nel gioco politico degli stati europei. Le
espressioni artistiche della Roma di quel periodo testimoniano infatti uno straordinario sforzo di
rinnovamento, rinnovamento di cui la città, dopo due secoli piuttosto poveri di creazioni originali, aveva
d’altra parte grande bisogno. L’arte andò così a cercare ispirazione nelle prime grandi basiliche cristiane e
nel loro apparato decorativo e questo rivolgersi all’epoca d’oro del papato rivela chiaramente quali fossero
le mire dei papi di epoca carolingia. La storia delle grandi basiliche tardo-antiche di Roma rispecchia il
progressivo consolidamento della posizione universale del successore di Pietro e l’irresistibile affermazione
della dottrina del primato del seggio romano. Il ritorno all’epoca d’oro del IV-VI secolo non si realizzò certo
in poco tempo. Krautheimer pensa anzi che tale fenomeno fosse già preannunciato dall’erezione, voluta
intorno al 761 da Paolo I (757-767), della basilica di san Silvestro in Capite, che, con i suoi colonnati
verosimilmente architravati, si ricollegava direttamente alle strutture monumentali del IV-VI secolo. Gli
edifici successivi, tuttavia, si inseriscono ancora più spesso nel quadro della corrente bizantineggiante
saldamente impiantatasi a Roma a partire dalla seconda metà del VI secolo. Lo testimoniano le chiese di
Santa Maria in Cosmedin e di Santa Susanna, con le navate laterali sormontate da tribune, entrambe
ricostruite da Adriano I (772-795), papa che contribuì in modo determinante al risanamento economico
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della città e al rinnovamento delle sue antiche infrastrutture. Un altro edificio sorto durante il suo
pontificato è la chiesa di Sant’Anastasia (interamente rimaneggiata nel XVIII secolo) che segna però una
rottura con la tendenza bizantineggiante. A testimoniare l’influsso diretto dell’architettura delle grandi
basiliche del IV-VI secolo sono i lunghi colonnati, le finestre, il nartece ed il transetto sul quale si innesta
un’abside. Durante il pontificato di Pasquale I (817-824) la struttura della basilica antica riconquistò
definitivamente l’architettura della città eterna. Il transetto continuo, i muri della navata poggianti su di un
colonnato architravato, la facciata spoglia, traforata da tre finestre, e l’atrio della chiesa di Santa Prassede
danno ancora oggi l’idea di come era nel IX secolo una imitazione delle basiliche costantiniane. Krautheimer
riconosce qui il diretto influsso della basilica di San Pietro in Vaticano, e non solo della struttura
costantiniana ma anche della cripta costruita durante il pontificato di Gregorio Magno. La ripresa dei
modelli antichi si accompagnò anche al ritorno alla monumentalità, un valore destinato a caratterizzare
durevolmente l’architettura medievale. Pasquale I prese l’iniziativa di ricostruire anche altre chiese. Santa
Cecilia segue a grandi linee l’esempio delle prime basiliche cristiane, benché l’architetto non l’abbia dotata
di transetto. Benché gli architetti della prima metà del IX secolo non sempre copiassero fedelmente la
basilica cristiana tardo-antica, la struttura di quest’ultima rimase tuttavia il loro modello stilistico
fondamentale.
L’indirizzo preso dall’architettura di Roma durante il pontificato di Leone III e Pasquale I venne continuato
dai loro successori, tra i quali si distinsero Gregorio IV (827-844), artefice della ricostruzione di San Marco e
San Giorgio in Velabro, Sergio II (844-847), a cui si deve la nuova chiesa di San Martino ai Monti, ed infine
Leone IV (847-855), fondatore dei Santi Quattro Coronati e di Santa Maria Nova (Santa Francesca Romana).
Questi edifici mostrano diverse varianti sul tema del sistema basilicale. Per separare la navata centrale da
quelle laterali si fa ricorso al colonnato architravato e alle arcate, soluzione ricalcata sulle basiliche cristiane
di seconda e terza generazione, quali San Paolo fuori le mura e Santa Sabina. Tutte queste chiese hanno
tuttavia in comune una cripta anulare al di sotto dell’altare maggiore e della confessio, a dimostrazione
dell’importanza attribuita a San Pietro in Vaticano come prototipo di tutti i santuari destinati a
commemorare le reliquie di un santo titolare. È opportuno sottolineare che le fondazioni papali del IX
secolo avevano come scopo principale il ripristino di luoghi di culto già frequentati in antico ed una nuova
organizzazione dello spazio intorno a tombe consuetudinariamente venerate. La meglio conservata è la
chiesa di San Giorgio in Velabro, mentre la basilica dei Santi Quattro Coronati conserva sempre una parte
dell’atrio originario. Questa intensa attività architettonica si arresta abbastanza bruscamente poco oltre la
metà del IX secolo. i lavori intrapresi dopo questa data sono per lo più riparazioni prive di grande significato
artistico. La ricostruzione della cattedrale del Laterano, portata a termine durante il pontificato di Sergio III
(904-911), fu una delle rare opere di una certa portata, ma non se ne conoscono bene i particolari.
L’architettura medievale di Roma vivrà un nuovo sviluppo solo nel XII secolo, in un periodo peraltro
contraddistinto da un ulteriore ritorno alla struttura basilicale.
La commissione di opere architettoniche rappresentava solo una parte del mecenatismo papale. Le stesse
basiliche che imitavano le costruzioni tardo-antiche erano decorate da mosaici, anch’essi tributari dei
modelli antichi. Il rinnovamento della decorazione monumentale incominciò durante il pontificato di Leone
III ed una delle prime grandi opere fu la decorazione musiva dei muri del Triclinium, la grande sala delle
feste e delle udienze del palazzo pontificio del Laterano. Leone III intraprese la trasformazione e
l’ingrandimento di questa residenza papale poco dopo l’ascesa al pontificato. La parte più importante della
decorazione si trovava sul lato del soglio pontificio, ovvero nell’abside e sul relativo arco trionfale. Chi
guarda oggi il monumento sulla piazza del Laterano vede la copia di una copia, in quanto i mosaici
medievali erano già stati restaurati una prima volta nel 1625: a dispetto di ciò, l’opera dà pur sempre una
certa idea del grandioso progetto di Leone III. Nella calotta dell’abside figurava una monumentale
Trasmissione del potere agli apostoli: San Pietro in trono consegnava il pallio a Leone III ed uno stendardo a
Carlo Magno, entrambi inginocchiati davanti al principe degli apostoli. La scena centrale richiamava il
principale dovere apostolico del pontefice romano, ossia la propagazione del messaggio evangelico fino ai
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confini del mondo. Questo programma era impregnato di attualità e si rivolgeva soprattutto al re dei
Franchi, posto su di un piano di parità con il vescovo di Roma.
Leone III fu l’iniziatore di tutta una serie di decorazioni monumentali, ma delle numerose opere da lui
commissionate solo i mosaici dell’arco trionfale della chiesa dei Santi Nereo ed Achilleo sono ancora sul
posto e in accettabile stato di conservazione. Le altre opere, tra cui i mosaici della chiesa di Santa Susanna e
della sala del concilio del Laterano, sono note soltanto attraverso i disegni o gli acquerelli del XVII secolo.
Questo papa si presenta ai nostri occhi come il grande rinnovatore del mosaico romano, come colui che ha
saputo trasformare quest’arte in un mezzo capace di rispecchiare gli orientamenti dottrinali e culturali del
suo tempo. La stessa scelta tecnica rivela lo spirito del rinnovamento. Il mosaico era rimasto abbastanza
trascurato nei due secoli precedenti, mentre aveva dominato la decorazione monumentale dei grandi
edifici di culto fondati dagli imperatori e dai papi tra il IV e il VI secolo. il ritorno ai modelli antichi comportò
la ripresa della loro iconografia, in perfetto accordo con la politica papale dell’anno 800: rinnovamento nel
quadro della continuità. Il grande programma inaugurato da Leone III venne continuato da suo successore. I
mosaici di Pasquale I, pervenutici numerosi ed in buono stato di conservazione, proseguirono lo stile e
l’iconografia introdotti dai mosaicisti di Leone III. Le absidi di Santa Prassede e di Santa Cecilia riprendono il
tema di Cristo investito da Dio e acclamato dai santi, il cui modello immediato era il mosaico della chiesa
dei Santi Cosma e Damiano. L’arco trionfale della prima è inoltre decorato da un’Adorazione dell’agnello,
anch’essa probabilmente ricalcata sull’esempio della chiesa dei Santi Cosma e Damiano ma, accanto a
queste palesi imitazioni, si notano alcune innovazioni che testimoniano la creatività dei mosaicisti di
Pasquale I. L’autore dell’abside di Santa Maria in Domnica ha circondato la Vergine in maestà con una
impressionante corte celeste di angeli, che prima di allora non accompagnavano Maria in così grande
quantità. In Santa Maria in Domnica si vede anche un fondatore inginocchiato che ricorda stranamente il
Teodoto raffigurato nella sua cappella in Santa Maria Antiqua. Sull’arco trionfale di Santa Prassede si
sviluppa un’immensa veduta della Gerusalemme celeste, per la prima volta qui rappresentata nell’arte
monumentale come illustrazione fedele del ventunesimo capitolo dell’Apocalisse. I mosaici di Pasquale I si
distinguono dalla decorazione monumentale della Roma tardo-antica soprattutto per il loro stile. Vi è una
grande differenza nei colori, utilizzati con grande generosità: i personaggi risplendono della luce che si
sprigiona dal bianco, dall’oro, dall’azzurro chiaro e dal rosso vivo; le scene si svolgono su sfondi in oro e in
azzurro cupo. L’artista si dedica soprattutto alla resa delle teofanie, dell’universo celeste, delle verità della
fede, sviluppando questi temi in grandi composizioni ricche di ritmo e ieraticità, ben distanti dalla realtà
umana. Se è vero che nella composizione non mancano degli elementi paesaggistici o architettonici, è
anche vero che vi svolgono un ruolo molto limitato. A dominare la rappresentazione è la figura umana.
Questi bei volti regolari sono i lontani discendenti di quel particolarissimo tipo di figura umana definitosi
nella tarda antichità contemporaneamente alla nascita del concetto di uomo capace di trascendere la realtà
terrestre e di comunicare con l’eterno. La figura umana conserva sempre la propria struttura organica e
anche gli indumenti sono drappeggiati in modo naturalistico, così da accompagnare i movimenti del corpo.
La linea non esaspera comunque gli aspetti puramente grafici delle forme figurative, ma segue i ritmi
diversificati del disegno delle figure. È solo nei mosaici del IX secolo che la tradizione classica ed i nuovi
mezzi pittorici si incontrano in modo equilibrato, riuniti in un linguaggio pieno di invitanti capacità
espressive. Questo linguaggio giunge all’apogeo nella cappella di San Zeno, un mausoleo funerario fatto
costruire presso Santa Prassede da Pasquale I per la madre Teodora. I muri di colore oro sembrano qui
perdere la loro materialità per confondersi con lo spazio infinito. Successivamente il mosaico del IX secolo
venne rielaborato stilisticamente, senza però tradire l’iconografia originale. Raramente la decorazione si
adatta altrettanto bene alla funzione dell’edificio. Ospitando una tomba, la cappella era un luogo di
preghiera per i morti e doveva fare rivolgere lo spirito dei fedeli verso l’eternità. In questi muri lucenti, con
questi santi risplendenti, pare in effetti che il cielo discenda già sulla terra e che l’aldilà si impadronisca
dello spazio dove la Chiesa resta in comunione con i santi e i morti.
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Le ultime opere appartenenti a questo programma di rinnovamento della decorazione monumentale sono
state eseguite durante il pontificato di Gregorio IV, ma senza la raffinatezza espressiva che distingueva i
mosaici di Pasquale I. L’attività dei mosaicisti di Roma si arresta abbastanza bruscamente alla metà del IX
secolo, quando la pittura diviene mezzo quasi esclusivo della decorazione delle chiese. I mosaici della Roma
del IX secolo dovevano destare il sentimento della bellezza ed abbagliare il fedele. Questo nuovo approccio
all’opera d’arte è riconoscibile anche nella pittura parietale, come testimonia un’Ascensione dipinta per
iniziativa di papa Leone IV all’ingresso della chiesa di San Clemente (attuale basilica inferiore). Il papa voleva
realizzare un’opera la cui bellezza risplendesse al cospetto di tutte le altre decorazioni. Da un punto di vista
strettamente compositivo ed espressivo, l’Ascensione della chiesa di San Clemente prosegue il linguaggio
dei mosaici, consolidando anche l’importanza della disposizione ritmata dei personaggi e la preponderanza
della linee e delle grandi campiture uniformi; d’altra parte essa pare costituire un’innovazione iconografica,
in quanto l’artista si riavvicina alla versione orientale del tema, come indicano il contrasto tra le vivaci
reazioni dei testimoni dell’avvenimento e l’immobilità del cielo in cui già risiede il Salvatore in gloria.
L’Ascensione della chiesa di San Clemente faceva parte di un vasto ciclo cristologico, di cui esistono ancora
Le Nozze di Cana, la Crocefissione, la Discesa al limbo e le Donne al sepolcro. In questa stessa chiesa si sono
conservate anche altre pitture. In una composizione situata nel nartece, Cristo in trono è circondato da
santi e arcangeli raffigurati nell’atto di intercedere per due ecclesiastici, talvolta identificati con i santi Cirillo
e Metodio. Un’altra Discesa al limbo dipinta nella navata centrale di San Clemente (sempre nell’attuale
basilica inferiore) dimostra che in certe opere ha avuto luogo una decisa intensificazione dei mezzi lineari,
tanto diversificati da sostituirsi al modello ottenuto con la gradazione dei toni di colore. Il progredire dei
mezzi lineari conduce a un certo irrigidimento delle forme, ma si tratta soltanto di una corrente stilistica tra
le altre. È sufficiente guardare gli affreschi conservati nelle chiese di Santa Maria in Cosmedin, dei Santi
Giovanni e Paolo e del cosiddetto Tempio della Fortuna Virile o Santa Maria in Gradellis. Questi ultimi,
realizzati durante il pontificato di Giovanni VIII (872-882) sono particolarmente sintomatici dell’eclettismo
che si stava impadronendo della pittura di Roma: vi si trovano infatti condensati la gravità dei personaggi, il
carattere ricercato delle composizioni, la spontaneità e un modellato tributario della pittura antica, con
tonalità sfumate, contorni e lumeggianti. Questo eclettismo caratterizzerà a lungo la pittura di Roma, che
nel X secolo oscillerà ancora tra un linguaggio volto a valorizzare i ritmi piuttosto ricercati delle forme e
degli effetti lineari, linguaggio tutto sommato abbastanza vicino alla contemporanea arte bizantina, e uno
stile meno raffinato, più esplicito, caratterizzato da un certo realismo, ma, al tempo stesso, dalla gravità
tipica dell’ambiente di Roma.
A Roma le arti suntuarie restavano anch’esse legate al programma artistico papale, come testimoniano in
particolare tre opere commissionate da Pasquale I: due cofanetti argentei e una croce-reliquiario smaltata.
Tutte e tre provengono dal tesoro del Sancta-Sanctorum e sono oggi conservate nella Biblioteca Vaticana.
Le tre opere mostrano tutte le caratteristiche della raffigurazione tipiche dell’ambiente artistico che
lavorava per Pasquale I: i personaggi, gravi e poco mobili, sono tuttavia efficacemente resi da un modellato
che riunisce abilmente le forme morbide del debole bassorilievo e gli affetti marcatamente lineari
dell’incisione. Non meno notevole è la rinascita della decorazione istoriata in smalto. Il lato superiore della
croce-reliquiario di Pasquale I narra in sette scene l’infanzia di Cristo. È vero che queste immagini realizzate
interamente in smalto e oro, con la tecnica del cloisonné, su di uno sfondo verde traslucido, adottano le
forme e la tecnica di certi lavori bizantini, tanto da far ritenere che l’orafo fosse greco o orientale, ma
l’opera in questione presenta anche una novità, nel senso che lo stile ieratico dei modelli bizantini ha qui
perso il proprio rigore, trasformandosi in un linguaggio adatto alla narrazione. Il settore artistico meno
coinvolto nelle nuove tendenze era la scultura in pietra. Il campo di attività dello scultore carolingio
differiva molto poco da quello dei due secoli precedenti, comprendendo prevalentemente la decorazione
architettonica e il grande arredo liturgico.
La scultura su pietra del IX secolo perpetuava quella del primo medioevo ed era separata dagli altri settori
dell’arte carolingia da una considerevole sfasatura. Non è tuttavia possibile considerare la scultura del IX
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secolo come una semplice prosecuzione di quella del periodo precedente. La composizione comprendeva
un maggior numero di motivi che non in precedenza e le sue componenti erano più delicate. È un’arte in cui
la struttura prevale sugli elementi che la compongono e in cui la forma raggiunge i vertici dell’astrazione.
Particolarmente tipiche di questo stile sono le lastre provenienti dal pluteo di Santa Prassede e quelle oggi
inserite nel pluteo di Santa Sabina, tra le quali spiccano per euritmia compositiva le placche decorate con
l’Albero della Vita cruciforme, con racemi di vite ondeggianti e con un intreccio geometrizzato di anelli e
sbarre disposte a losanghe. Il medesimo stile regnava anche in altre regioni d’Italia ma Roma ha prodotto
un gruppo di opere esclusive del suo ambiente. Si tratta di elementi decorativi architettonici direttamente
ispirati dalla scultura antica.
La temperie artistica di Roma non aveva paralleli. Gli altri centri artistici, quali la Lombardia, le città
adriatiche o il meridione proseguivano la strada intrapresa in epoca longobarda ed è precisamente nel IX
secolo che iniziano a consolidarsi le differenze regionali, che verranno poi in luce con l’arte romanica.
Esaminando l’architettura lombarda del IX secolo essa affonda le proprie radici nel secolo precedente ed
era estranea a qualsiasi rottura o cambiamento improvviso. Sono sempre l’architettura e la sua decorazione
scultorea a permettere di cogliere nel migliore dei modi il fenomeno della continuità. Tale fenomeno si
manifesta nella frequente adozione del presbiterio tripartito, soluzione già ampiamente diffusa a Ravenna,
nelle città adriatiche e nei territori longobardi. Tre absidi concludevano ad esempio la seconda chiesa di San
Salvatore di Brescia. Bognetti e Panazza l’hanno messa in rapporto con una donazione che Ludovico il Pio
avrebbe fatto nell’814 in favore del monastero bresciano, opinione accettata da moltissimi studiosi, tra cui
Peroni. Weis ha invece rimesso in questione gli argomenti avanzati a favore di questa datazione e ritiene
che la seconda chiesa di San Salvatore sia stata eretta ancora durante il regno di Desiderio, verso il 770,
ossia poco prima della destituzione dell’ultimo re longobardo. Quale che sia la sua datazione precisa, da un
punto di vista stilistico il monumento si pone in corrispondenza della cerniera di due epoche. Oltre al
presbiterio tri-absidato, dalle forme proprie dell’epoca longobarda dipendono anche le grandi fughe di
archi ciechi che articolano le facciate. La cripta a oratorio sottostante l’abside centrale testimonia le nuove
ricerche volte ad ingrandire lo spazio cultuale. L’imponente struttura basilicale, con i suoi due eleganti
colonnati ad arcate, si inscrive nel grande movimento di rinnovamento della basilica. I modelli vanno
ricercati a Ravenna e nelle città adriatiche (Aquileia, Parenzo). Anche l’adozione di stucchi per la ricca
decorazione delle arcate venne probabilmente ispirata dai medesimi ambienti artistici tardo-antichi.
Accanto ad ornamenti che proseguono il repertorio longobardo del primo medioevo (intrecci, foglie
geometrizzate), ve ne sono altri direttamente dipendenti dalle fonti classiche (rosoni, palmette, racemi
simmetrici). San Salvatore di Brescia è dunque contraddistinto da un certo dualismo stilistico. L’interno,
scandito da colonnati leggeri e slanciati, è improntato a una raffinatezza ancora vicina allo spirito classico.
All’esterno dominano invece i volumi semplici, quasi rozzi, dell’edificio, la cui articolazione non è né
abbastanza profonda né abbastanza diversificata da controbilanciare la monotonia delle superfici continue
dei muri in mattoni.
Al di fuori di Roma la basilica non era il tipo architettonico dominante di quel periodo ed è persino difficile
tracciarne la storia. Pare che il sistema basilicale fosse sempre molto apprezzato a Milano e nelle città
adriatiche. Santa Maria Maggiore, antica cattedrale di Milano eretta nell’836 e sostituita nel XIV dal duomo
attuale, era una basilica. In Veneto in questo periodo di ascesa del ducato tutte le chiese di una certa
importanza erano delle basiliche. L’architettura veneziana del IX secolo era largamente tributaria delle
tradizioni ravennati, al punto che si suppone che artisti ravennati si siano trasferiti a Venezia in occasione
del declino dell’antica capitale dell’esarcato. La sempre crescente diversificazione delle forme di culto è una
delle principali cause delle trasformazioni dell’architettura in epoca carolingia. Proprio in Italia occorre
seguire l’evoluzione di due elementi che hanno permesso di diversificare ed accrescere lo spazio liturgico
principale della chiesa, ossia il presbiterio tri-absidato e la cripta. Il fatto che il presbiterio comprendesse
diversi ambienti alleggeriva la compattezza dei volumi architettonici, rendendo più diversificato lo spazio
interno. L’architettura longobarda aveva assunto questo orientamento già alla metà dell’VIII secolo, alla
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vigilia dei grandi mutamenti politico-culturali, e la chiesa di Santa Maria delle Cacce di Pavia ne costituisce
uno degli esempi più antichi, ma anche più compiuti. Questo monumento preannuncia una caratteristica
tipica dell’architettura carolingia, ovvero la strettissima corrispondenza tra il coro e la cripta; nella
Lombardia del IX secolo tale caratteristica si ritrova in San Salvatore di Sirmione e in San Salvatore di Pavia.
Benché ingrandita nel 980, San Salvatore di Pavia conserva sempre il proprio nucleo originario,
comprendente il presbiterio tri-absidato e una cripta conforme alla tripartizione della struttura soprastante.
I muri in mattoni, articolati da alte fughe di archi ciechi in cui sono alloggiate delle finestre, si pongono tra i
migliori esempi di elevato alto-medievale di ambiente lombardo. In quest’epoca di cambiamenti e di
ricerche formali fecero la loro comparsa anche altri tipi architettonici. San Salvatore di Montecchia di
Crosara è una chiesa ad aula dell’inizio del IX secolo, conclusa ad est da un transetto su cui si innestano tre
absidi, con quella centrale preceduta da un coro a una campata, formula tipica delle costruzioni carolinge.
Al di sotto del coro e della crociera si stende una cripta ad oratorio a quattro colonne, mentre all’esterno la
parte alta dei muri è circondata da un fregio ad arcate sostenute da modiglioni, una decorazione che a
partire dal X secolo diverrà una delle principali caratteristiche dell’architettura lombarda. I due tipi di cripta
adottati dagli architetti dell’Italia del Nord, a oratorio e a galleria, nel IX secolo erano in piena fioritura, in
quanto ogni chiesa di una certa importanza veniva dotata di una cripta. In Italia l’evoluzione della cripta
porta alla fine dell’XI e nel XII secolo a quelle vaste chiese inferiori che saranno le cripte romaniche a
colonne come quelle di Parma, Acqui e altre.
Nel IX secolo si assiste in Italia del nord alla ricomparsa degli edifici a pianta centrale, che è possibile
ripartire in due famiglie. La prima comprende le chiese che perpetuavano la pianta cruciforme dei martiria
e degli oratori funerari di epoca imperiale. I modelli erano numerosi e, in questo periodo, ancora ben
conservati (ad esempio il mausoleo di Galla Placidia a Ravenna e la cappella di Santa Maria Mater Domini
presso la basilica dei Santi Felice e Fortunato a Vicenza). Aveva verosimilmente una struttura cruciforme
anche il più celebre dei nuovi martiria di questo periodo, ovvero la primitiva chiesa di San Marco di Venezia,
eretta tra l’829 e l’832 per accogliere il preziosissimo corpo dell’evangelista che gli abitanti della lacuna
avevano fatto venire dall’Egitto. I dettagli della pianta sono tuttavia difficili da precisare. La seconda famiglia
di edifici a pianta centrale si ispira direttamente all’architettura di Bisanzio e dell’Oriente cristiano. Il suo
migliore esempio è costituito dalla elegantissima cappella dei SS. Satiro, Silvestro e Ambrogio, ora cappella
della Pietà, adiacente alla bramantesca Santa Maria presso San Satiro a Milano, fondazione del vescovo
Ansperto (circa 873-881). Questa corrente bizantineggiante proseguì in Italia del nord sino all’anno 1000. È
molto probabile che siano stati gli architetti lombardi a trasmettere questo tipo di pianta alla Polonia, dove
la si ritrova nella cappella palatina costruita poco dopo il 966 dal primo principe cristiano.
L’architettura dell’Italia settentrionale del IX secolo tradisce tuttavia i primi sintomi del processo che un
secolo più tardi condurrà all’elaborazione di uno stile particolare, lo stile lombardo, una delle più
considerevoli manifestazioni della prima arte romanica. I segni premonitori sono riconoscibili
nell’articolazione esterna, che svolge sui muri un coerente sistema di arcate e lesene, e nella nuova
concezione del presbiterio, in cui coro e cripta risultano armoniosamente collegati. Le chiese lombarde
segnano una tappa importante nel cammino evolutivo che conduce dalle strutture relativamente semplici e
unitarie delle chiese ancora radicate nella tradizione antica alle composizioni di volumi relativamente
complessi e agli interni a volta caratteristici del medioevo al suo apogeo. Continuità e lenta evoluzione
formale caratterizzano anche l’architettura del ducato di Benevento. Nel primo quarto del IX secolo sorsero
le nuove chiese monastiche di San Vincenzo al Volturno e di Montecassino. Della prima, che era una
basilica, si è conservata una cripta a galleria absidata. A Montecassino una basilica a colonne prese il posto
del vecchio santuario di San Benedetto e un presbiterio tri-absidato di tipo lombardo venne sistemato
intorno alla tomba del padre del monachesimo occidentale. Questi e molti altri edifici costruiti nel corso del
IX secolo sono noti solo da pochi resti e dai risultati degli scavi. Un’opera degna di particolare interesse è il
protiro della basilica dei Santi Martiri di Cimitile, all’incirca del 900: insieme con il portale della cappella di
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San Zeno di Roma si tratta infatti di uno dei più antichi esempi di decorazione monumentale di un ingresso.
Nel X secolo l’architettura della Longobardia non subì grandi cambiamenti.
In ogni parte d’Italia l’intensa attività dei costruttori di chiese si accompagnava al lavoro degli scultori. La
decorazione scultorea dell’edificio e i grandi arredi liturgici pure decorati davano vita allo spazio liturgico e
cultuale di una chiesa né più né meno dell’involucro architettonico e delle pitture murali. Si è anche
constatato come il repertorio, le forme e l’ornamentazione delle opere scultoree fossero essenzialmente i
medesimi in tutta Italia. Nel IX secolo si assiste tuttavia alla nascita e al consolidamento di particolarità
stilistiche regionali. La scultura in pietra veneziana e adriatica tradisce profondi influssi bizantini, spiegabili
con il fatto di avere raccolto il retaggio artistico di Ravenna, ma anche con i contatti diretti con il mondo
greco e orientale, mai diminuiti, a dispetto della crescente emancipazione politica di Venezia. Tra le
decorazioni tipiche di questo ambiente occorre menzionare i racemi simmetrici a forma di mezze palmette,
il quadrato inscritto in un cerchio e abbellito di motivi zoomorfi e vegetali e la croce fiancheggiata da due
arboscelli o da due piante stilizzate.
Un’altra regione che subiva forti influssi bizantini era l’Italia meridionale. Il pluteo di Sant’Aspreno di Napoli
è decorato da una moltitudine di motivi diversi, inseriti in un reticolo di losanghe, un tipo di
ornamentazione frequente nella scultura bizantina a partire dal VI secolo. Certe regioni hanno persino
sviluppato un proprio idioma stilistico particolare, come illustrano fra l’altro le sculture eseguite per la
chiesa di San Salvatore di Torino ai temi del vescovo Claudio (818-827). La resa dell’ornamentazione ha qui
raggiunto i vertici dello schematismo, i motivi sono piccoli, fitti e disposti in insieme ripetitivi, il che
conferisce a queste composizioni apparentemente monotone l’effetto di una sottile vibrazione.
La scultura del IX secolo si distingue dalle opere precedenti. Il repertorio delle commissioni si arricchì a poco
a poco di nuovi generi artistici. Abbiamo già rilevato la comparsa dei primi portali, nella cappella di San
Zeno a Roma e a Cimitile. Il fenomeno più denso di conseguenze per l’ulteriore sviluppo della scultura fu la
comparsa della figura umana. I suoi inizi e la sua evoluzione sono estremamente difficili da ricostruire per il
fatto che i pezzi sono poco numerosi e di controversa datazione, ma il fenomeno comunque esiste e
occorre tentare di definirlo. L’inizio del rinnovamento della scultura figurativa viene sovente identificato
con la rimarchevole decorazione in stucco che ricopre i muri dell’oratorio di Cividale. Fregi e bande
decorative suddividono i muri in fasce orizzontali, sottolineando le arcate di porte e finestre, in perfetto
accordo con la struttura interna dell’edificio. Nella fascia superiore l’artista ha disposto una fila di sante
simmetricamente rispetto ad un’arcata posta a metà del muro occidentale. Secondo alcuni l’arcata
incorniciava una finestra, fonte di luce, simbolo di Dio, mentre secondo altri contornava una nicchia,
presunta ubicazione di una Vergine con Bambino. La composizione si ispira al tema tardo-antico della
processione degli eletti che accorrono verso la corte celeste. Le figure delle sante sono realizzate ad
altorilievo e, a tratti, persino a tuttotondo. A Cividale ci troviamo di fronte all’audace progetto di fare
rivivere la scultura figurativa monumentale, caduta in disuso dopo la tarda antichità. Si è ben lontani
dall’unanimità sulla datazione, tant’è che L’Orange e Torp hanno proposto l’epoca di costruzione
dell’oratorio a metà dell’VIII secolo, Elbern, Peroni e Romanini agli inizi dell’epoca carolingia e De
Francovich all’epoca ottoniana (intorno al 1000). L’opinione più fondata pare essere la seconda, tenendo
conto che da un punto di vista stilistico i paralleli più prossimi sono gli stucchi di San Salvatore di Brescia.
Questa analogia vale tuttavia soltanto per i temi puramente ornamentali della decorazione e solo in cera
misura, in quanto tra i due complessi esistono delle differenze qualitative. Altre sculture figurative datate al
IX secolo sono alquanto disparate e non è nemmeno certo che appartengano all’epoca carolingia. Un
duraturo ritorno al rilievo figurato si produce soltanto nel X secolo e la serie di opere che inaugura i
tentativi sistematici in tale settore proviene da Capua. Queste sculture appartengono già all’arte
preromanica.
Della decorazione pittorica monumentale di epoca carolingia si sono conservati soltanto alcuni complessi,
tra cui uno solo abbastanza completo, quello costituito dagli affreschi della cripta di San Vincenzo al
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Volturno in Campania. La pittura abbandona definitivamente il linguaggio ereditato dalle tradizioni
ellenistiche e fa sue le forme ritmiche basate sul modellato lineare, preparando la grande svolta dell’anno
1000, illustrata dagli affreschi del battistero di Novara e della chiesa di San Vincenzo di Galliano. Le pitture
dell’oratorio di Cividale sono un chiaro sintomo di questi cambiamenti e costituiscono un esempio delle
nuove tendenze tanto più importante in quanto di altissima qualità artistica. I santi, tutti rappresentati
stanti sullo sfondo dell’architettura, occupano qui la fascia mediana della decorazione interna della
cappella, controbilanciando così le sante scolpite in stucco nel registro superiore. I muri e le nicchie di
sfondo esprimono lo spazio continuo che circonda i personaggi, con i loro corpi ben proporzionati e i volti
contraddistinti da una quasi classica regolarità dei lineamenti. Il pennello sottolinea a grandi tratti le forme
essenziali del volto. Le superfici della figura restano subordinate al gioco di questi lineamenti forti e decisi.
All’artista interessa la struttura generale di un oggetto. L’espressione ha la meglio sulla rappresentazione, il
personaggio trasmette l’idea dell’uomo e non l’immagine della propria esistenza fisica. A questo tipo di
raffigurazione si rivolgeranno i miniatori di Carlo Magno venuti a cercare ispirazione in Italia. Questa
concezione della figura umana era adatta ad un programma che presentasse il cielo con i suoi santi, ossia il
tema dell’esistenza al di fuori del tempo e dello spazio. In quest’epoca muta però anche l’immagine
narrativa. Gli inizi di un nuovo tipo di racconto erano già visibili nella vita dei santi Quirico e Giulitta in Santa
Maria Antiqua, dove l’azione e i rapporti tra i protagonisti del racconto prevalgono su tutto ciò che li
circonda. L’uomo diventa il principale soggetto della pittura e si libera in qualche modo dei legami con il
mondo esterno, in quanto unico oggetto della sollecitudine di Dio e unica ragione di operare della Salvezza,
donde l’efficacia espressiva delle pose e dei gesti che traducono il suo coinvolgimento nella storia della
Redenzione, la sua presa di posizione nel conflitto tra bene e male. L’architettura ed il paesaggio passano in
secondo piano e si trasformano nelle quinte di un avvenimento dal significato profondamente
spiritualizzato. Questa nuova concezione narrativa contrassegna le pitture della prima metà del IX secolo di
San Salvatore di Brescia. Le composizioni sono dense, piene di rappresentazioni e motivi diversi stretti gli
uni contro gli altri, e risultano sempre dominate da un’azione portata avanti con chiarezza se non, talvolta,
con forza.
La consistente attività degli affrescatori dell’Italia centro-settentrionale è testimoniata dai frammenti
pittorici rinvenuti a Torba, a San Zeno di Bardolino e a San Vitale di Ravenna. Nella Chiesa di San Giovanni in
Argentella presso Palombara Sabina, vicino Roma, si trova un importante esempio di affresco del IX secolo.
Nel sud il più importante documento della pittura parietale è la decorazione della cripta di San Vincenzo al
Volturno, realizzata ai tempi dell’abate Epifanio (824-842). Questo programma iconografico ci è pervenuto
quasi intatto e l’elevata qualità artistica lo pone accanto ai migliori esempi della pittura carolingia degli altri
paesi. La volta è dominata da un grande Cristo in trono e, al di sotto, da una Maria Regina senza Bambino,
anch’essa assisa; si tratta della più antica rappresentazione di Cristo e della Madonna regnanti insieme nel
cielo. Una Crocefissione e una Resurrezione dipinte nel braccio settentrionale della cripta alludono al
mistero della Redenzione, mentre, dirimpetto, i martirii di san Lorenzo e di santo Stefano indicano la strada
che i discepoli di Cristo dovranno percorrere. Le immagini di una Theotokos e di un Cristo circondato da
martiri disposte sui due lati dell’arcosolio occidentale dimostrano che l’autore del programma ha
effettivamente inteso esprimere un certo equilibrio e una certa corrispondenza tra i temi cristologici e
quelli mariani. Colpisce in questa decorazione la presenza di tre ritratti di membri della comunità di San
Vincenzo: l’abate Epifanio prega infatti ai piedi della croce, mentre un presbyter si prosterna davanti alla
Theotokos e un diacono anonimo si interpone tra le due scene di martirio. Le scene narrative testimoniano
una certa sensibilità dell’artista per i valori spaziali della pittura, ma gli elementi compositivi che la
esprimono, quali un muro, una graticolo o un trono, visti in prospettiva, sono puramente accessori:
l’essenziale è la figura umana. La linea è il mezzo espressivo preferito anche dagli autori degli affreschi che
decorano la chiesa di Santa Sofia di Benevento. Oggi rimangono soltanto i frammenti di quattro scene di un
ciclo sull’infanzia di Cristo e un altro dedicato a San Giovanni Battista. Gli affreschi di San Vincenzo al
Volturno e di Benevento, al pari di altri esempi di pittura meridionale del IX secolo, differiscono dalla
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decorazione monumentale di Roma e dell’Italia settentrionale. Nel Sud la rappresentazione è retta
soprattutto dal ritmo e dal movimento, mentre a Roma e nel nord la forma ha più intensità e sostanza. Il
ducato di Benevento produsse in effetti una cultura molto originale, una delle cui principali componenti era
il retaggio greco che si rinnovava senza tregua ai contatti politici, commerciali e culturali con Bisanzio e
grazie anche al sovente massiccio afflusso del clero greco. Questo fenomeno spiega perché la pittura del
Mezzogiorno, pur restando latina, si avvicini allo spirito artistico bizantino.
Nel X secolo la linea diviene il mezzo espressivo prevalente nella pittura meridionale, come testimoniano gli
affreschi della basilica dei Santi Martiri di Cimitile, nei quali il tratto energico e preciso non soltanto descrive
il movimento ritmato della singola figura ma determina anche la struttura di tutto un gruppo di personaggi.
Questo linguaggio contraddistingue i disegni dei manoscritti prodotti a Benevento nella seconda metà del X
secolo, tra cui il pontificale del vescovo Landolfo, del 957-969, un altro manoscritto liturgico intitolato
“Benedictio fontis” e un rotolo di Exultet del 985-987. Tale linguaggio perdurerà sino alla seconda metà
dell’XI secolo, quando l’Italia meridionale avrà ormai ripreso i rapporti artistici diretti con Bisanzio e
rinnovato completamente la propria arte. Anche se i monumenti sin qui presentati sono poco numerosi
permettono comunque di farsi un’idea delle tendenze artistiche generali che contraddistinguono la pittura
parietale del IX secolo.
La miniatura offre un quadro stilistico meno chiaro. In Italia non si osserva quella continuità evolutiva che
caratterizza gli atelier attivi nelle regioni franche. Non si conoscono lunghe serie di opere che siano
rappresentative di un determinato ambiente artistico o che abbiano avuto una discendenza ben precisa.
Un’attenta osservazione permette di constatare come questo settore della pittura fosse stilisticamente
abbastanza frammentato e non molto innovatore. Sintomo ampiamente rivelatore del suo conservatorismo
è il fatto che sia rimasto fedele alle forme ornamentali di origine pre-carolingia più a lungo che altrove in
Europa; tali forme reggeranno quasi da sole gli elementi basilari e i motivi decorativi delle iniziali sino all’XI
secolo. la miniatura dell’Italia del IX secolo resta un fenomeno carolingio nella misura in cui partecipa al
rinnovamento del repertorio figurativo. Ciò si manifesta già proprio all’inizio di quel periodo nelle opere
degli scriptoria dell’antica Longobardia, tra cui una raccolta dei Sermoni di Egino, vescovo di Verona, del
796-799 e le Omelie di Gregorio Magno, che introducono nella miniatura il tema della dedica. Le prime
opere che testimoniano il rinnovamento della miniatura in Italia mostrano un linguaggio caratterizzato da
forme ampie, abbastanza voluminose, disinvolte, quasi monumentali, ben lontane dalla struttura molto più
rigorosa delle contemporanee figure della Schola palatina di Aquisgrana. In esse è riconoscibile l’effetto
delle ricerche artistiche spontanee, affini a quelle condotte parallelamente agli affrescatori;
l’interdipendenza dei due settori è stata infatti sovente evidenziata. Vi si osservano i risultati di un processo
artistico contraddistinto da una grandissima libertà nella scelta dei modelli. I manoscritti menzionati
dimostrano la varietà delle strade attraverso cui i pittori degli anni intorno all’800 hanno proceduto alla
riconquista dell’arte della figura umana. Il linguaggio disciplinato dell’omeliario di Egino riunisce abilmente
le gradazioni di modellato e di struttura ritmica del corpo e degli indumenti, richiamando certe pitture
parietali coeve. La scena di dedica delle Omelie di Gregorio Magno si ispira a qualche pregevole affresco o
mosaico, ma l’autore ha avuto delle difficoltà a tradurre il modello nella miniatura. La miniatura
meridionale rivela la medesima fedeltà alla figura umana come orientamento generale della creazione
artistica, ma è meno influenzata dai rapporti con la pittura parietale, di modo che il suo linguaggio risulta
poco improntato alla monumentalità; la stilizzazione è debole, i ritmi, pur sempre presenti, sono tuttavia
subordinati alla struttura del corpo e ai suoi movimenti.
Una delle particolarità dell’arte alto-medievale di Roma e dell’Italia meridionale era la componente greca,
al cui apporto, duraturo e consistente, si è già alluso. Nell’irraggiamento dell’arte bizantina e orientale
verso Occidente fungevano da tramite soprattutto i conventi greci insediatisi nella penisola. Questi
monasteri producevano anche dei manoscritti illustrati. Agli scriptoria greci dell’Italia meridionale viene
attribuito un certo numero di opere, le più riccamente decorate delle quali sono due esemplari del Libro di
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Giobbe, una raccolta delle omelie di Gregorio Nazianzeno, un trattato Sacra parallela di Giovanni
Damasceno e un trattato “De materia medica” di Dioscuride Pedanio. Colpisce il fatto che i maestri greci
che lavoravano in Italia non abbiano seguito l’orientamento assunto dai grandi atelier bizantini del periodo
successivo all’iconoclastia, rimanendo estranei al movimento di rinnovamento artistico noto come rinascita
macedone, rompendo anzi definitivamente con le tradizioni greco-romane. Nel loro linguaggio hanno preso
il sopravvento il modellato lineare e le forme ritmate. Le composizioni narrative, sempre dominate dalla
figura umana, costituiscono più una giustapposizione di soggetti diversi che non un universo figurativo
coerente ed unitario. Si tratta dunque di un’arte che segue il medesimo itinerario della coeva pittura
dell’Italia e che si avvicina alla pittura dell’Italia meridionale.
Uno dei sintomi più evidenti delle profonde trasformazioni dell’arte occidentale del IX secolo è senza
dubbio la penetrazione della figura nell’oreficeria. Sino all’anno 800 l’arte dei metalli era per lo più il regno
del linguaggio non figurativo e puramente simbolico. La svolta fu radicale: a partire da quel momento gli
oggetti liturgici in metallo prezioso divennero portatori di temi biblici ed agiografici al pari dei muri delle
chiese; la qualità dei rilievi lavorati a sbalzo non era per nulla inferiore a quella dei temi narrativi svolti nelle
pitture e nei mosaici. Il rinnovamento del racconto per immagini nel campo dell’oreficeria è già stato
rievocato presentando l’arte della Roma di Pasquale I. Roma era anche il luogo di fabbricazione delle statue
in metallo prezioso, un settore dell’oreficeria particolarmente importante, in quanto apriva la strada alla
riscoperta della scultura a tuttotondo, avvenuta nell’XI secolo. Gregorio III (731-741) e poi Pasquale I (817824) fecero fare delle statue di questo genere raffiguranti la Vergine con il Bambino sulle ginocchia e le
informazioni relative alle altre figure auree e argentee offerte dai papi confermano la diffusione della
statuaria in metallo. Il più delle volte si rivestiva un’anima lignea di lamine d’oro o d’argento ma talvolta la
statua veniva realizzata partendo unicamente da elementi metallici. Collocata sull’altare, la statua si
presentava al fedele come un fenomeno luminoso trascendente i limiti della pura rappresentazione ed
evocare l’aldilà. Per gli autori di epoca carolingia la luminosità degli oggetti in metallo prezioso costituiva
sempre un importantissimo criterio in base al quale giudicarne il valore. Il primo passo verso il tuttotondo
era comunque compiuto. Le Vergini reliquiario prodotte in Italia in epoca carolingia non si sono conservate.
Ricostruire gli inizi di quell’altro genere scultoreo in metallo prezioso che è il crocefisso è un po' più facile.
Le fonti precisano che tali oggetti, di dimensioni e costi considerevoli, venivano sovente offerti alle chiese di
Roma dagli imperatori e dai papi. Un crocefisso di questo genere ha decorato la basilica di San Pietro in
Vaticano sino al 1540, anno in cui è stato fuso. Prima della distruzione ne è stato fatto un calco, mediante
un tessuto imbibito di olio misto a gesso, e a partire da quel calco ne sono recentemente realizzate due
copie in argento, di cui una conservata in San Pietro e l’altra a Magonza. Il Cristo crocefisso, rappresentato
morto e con gli occhi chiusi, si distingue per la rara raffinatezza del modellato. È poco probabile che esso
risalga all’inizio dell’epoca carolingia: certi studiosi ne attribuiscono l’iniziativa a Leone IV (847-855), altri
ancora a Carlo il Calvo; in ogni caso questa datazione è stilisticamente molto probante. L’iconografia risente
dell’influsso di Roma e, al tempo stesso, del mondo carolingio: Pietro e Paolo ai piedi di Cristo crocefisso
proclamano infatti il primato del seggio romano e la suprema autorità spirituale del papa. I discendenti di
questo tipo di crocefisso monumentale compaiono in territori già facenti parte della Longobardia
settentrionale: il crocifisso argenteo di San Michele Maggiore di Pavia, della seconda metà del X secolo, e
quello conservato nella cattedrale di Vercelli, della prima metà del secolo successivo, mostrano la
medesima disposizione del corpo di Cristo e la medesima decorazione del braccio della croce, caratterizzato
alle estremità da una Vergine e da un san Giovanni Evangelista, entrambi in rilievo. La più celebre
testimonianza del ruolo svolto dall’oreficeria nello sviluppo del linguaggio figurativo in epoca carolingia è il
paliotto dell’altare maggiore della basilica di Sant’Ambrogio a Milano. L’opera venne commissionata
dall’arcivescovo Angilberto II (824-859) e realizzata da un’equipe di orafi diretta dal maestro Vuolvinio. Il
lato principale, l’unico in lamine d’oro puro, presenta al centro una grande croce con in mezzo un Cristo in
trono, i simboli degli evangelisti nei bracci e i dodici apostoli a riempire gli spazi di risulta; ai lati della croce,
dodici pannelli narrano l’opera della Redenzione, incominciando con un’Annunciazione e terminando con
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un’Ascensione. Al centro del lato posteriore una porticina a due ante dà accesso alle reliquie dei Santi
Ambrogio, Gervasio e Protasio deposte nella cripta. Ai lati della fenestrella dodici rilievi narrano la vita di
sant’Ambrogio. I pannelli dei lati brevi dell’altare sono entrambi articolati dal medesimo complesso sistema
di incorniciature: al centro una losanga ad angoli retti contiene una croce gemmata; ognuno dei campi
delimitati dai lati della losanga e dei bordi esterni dei pannelli è diviso in due metà, di modo che intorno alla
figura centrale si hanno otto triangoli, occupati da angeli in adorazione della croce; all’interno della losanga
sono raffigurati quattro diaconi e quattro santi, questi ultimi entro medaglioni nell’atto di rendere omaggio
al legno della passione. Al centro dell’attenzione è la croce, simbolo della vittoria di Cristo sulla morte.
L’iconografia deve qui la sua notevole chiarezza ad una scelta molto attenta dei differenti mezzi espressivi.
Colpisce l’equilibrio tra i rilievi riservati alle scene narrative e alle figure isolate da una parte e gli smalti, le
pietre incastonate, le filigrane e i listelli rifiniti dall’altra, decorazioni destinate tutte a lumeggiare le croci o
a incorniciare i temi figurativi. Gli smalti conferiscono una colorazione vibrante alle superfici delle due croci
laterali e sottolineano l’articolazione interna dei quattro lati dell’altare. La raffinatezza dell’ornamentazione
a smalto e la padronanza della tecnica del cloisonné testimoniano i progressi compiuti in questo campo in
Italia dopo i timidi esordi del VII secolo. La gloria di Vuolvinio e dei suoi collaboratori deriva in massima
parte dai rilievi lavorati a sbalzo. Quelli del lato principale e dei lati brevi dell’altare di Sant’Ambrogio si
distinguono per la notevole disinvoltura compositiva e per la relativa snellezza dei personaggi, caratterizzati
da movimenti ben controllati. Sul lato posteriore la narrazione è invece piuttosto concisa, le figure
abbastanza massicce, contraddistinte dal gusto del volume e della monumentalità. Si tratta di stili figurativi
differenti, ma ciò si spiega con il fatto che una commissione tanto importante richiedeva tutto un gruppo di
orafi. Trattandosi di un’opera del tutto isolata, qualunque ricerca sulle origini e sulla discendenza della sua
decorazione risulta particolarmente difficile. Occorre comunque abbandonare l’opinione secondo cui il
paliotto di Milano sarebbe tributario dell’arte delle regioni franche, sulla base del raffronto con la miniatura
di Tours e l’oreficeria della scuola di Carlo il calvo. Le affinità con l’arte carolingia settentrionale sono in
realtà vaghe e sporadiche. Le altre opere del IX secolo ancora conservate non sono confrontabili con il
paliotto di Milano. Esse si limitano a fornire una fioca immagine della ricchissima produzione dell’arte dei
metalli dell’epoca, testimoniando comunque la varietà delle commissioni a cui gli artisti facevano fronte,
nonché delle tecniche e delle forme che essi sapevano padroneggiare. Occorre innanzitutto menzionare le
diverse varietà di croci, in quanto il tema della Santa Croce, che restava sempre al centro della riflessione
teologica e della pietà cristiana, occupava invariabilmente un posto molto importante nell’iconografia e
imponeva le forme e la decorazione di numerosi oggetti liturgici. Una grande croce da processione di
Brescia, nota anche come “croce di Desiderio”, è caratterizzata da una disposizione abbastanza disinvolta
delle pietre preziose, con un tipo di incastonatura ancora simile a quello delle prime opere longobarde, il
che potrebbe accreditare l’opinione secondo cui l’oggetto sarebbe stato offerto alla chiesa di San Salvatore
dall’ultimo re longobardo, deposto nel 774. Uno spirito completamente differente anima la decorazione
della croce aurea detta di Berengario, re d’Italia morto nel 924, in cui le pietre preziose danno vita ad una
composizione affollata, ma regolare e ben strutturata; si tratta di una disposizione di castoni propria della
tarda epoca carolingia, le cui migliori testimonianze sono note dalla scuola di Carlo il Calvo. Zastrow e De
Meis hanno pubblicato dei piccoli crocifissi pettorali lavorati a sbalzo ed incisi che attestano il vasto
irradiamento del tipo iconografico del Cristo in croce inaugurato nel IX-X secolo dai grandi crocefissi
argentei. La croce veniva anche decorata con diverse forme vegetali. Questo tipo di ornamentazione era
volto a rammentare che tramite il legno della Croce Cristo aveva restituito all’uomo l’Albero della Vita
perduto in seguito al peccato originale. Il parallelo Croce-Albero della Vita era uno dei principali temi della
simbologia cristiana, costantemente sfruttato dall’arte tardo-antica e altomedievale, che lo aveva anche
introdotto nella decorazione degli oggetti di piccole dimensioni. Tra le altre testimonianze dell’oreficeria del
IX secolo in Italia va ancora citato il reliquiario del dente di San Giovanni Battista conservato a Monza che
reca sul lato principale una decorazione cruciforme molto raffinata, composta di pietre incastonate, perle
fissate tra bastoncini cesellati e volute a filigrana arricchite di granulazioni.
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L’IMPERO CAROLINGIO
L’architettura carolingia è dominata da tre caratteristiche che la distinguono da quella merovingia. La prima
è la grandiosità: le dimensioni degli edifici carolingi preannunciano già la monumentalità dell’architettura
romanica; la seconda è il ritorno alla struttura basilicale, costituendo il nucleo intorno a cui tutto si
organizza; la terza è la considerevole moltiplicazione dei volumi dell’edificio. La svolta è avvenuta durante il
regno di Pipino il Breve e di Carlo Magno. Nella prima fase della civiltà carolingia la nuova tendenza si è
manifestata soltanto in un gruppo ristretto di abbaziali e cattedrali fondate dal re in Austrasia e Neustria.
Altrove si continuava invece ad innalzare edifici più modesti, meno innovatori, che costituivano una
corrente conservatrice destinata a durare sino all’epoca romanica. La più antica testimonianza della scolta è
l’abbaziale di Saint-Denis, divenuta in quest’epoca il principale luogo di culto della nuova dinastia. I lavori
iniziarono dopo il 768 per volere di Carlo Magno e del fratello Carlomanno e l’edificio venne consacrato nel
775 dall’abate Fuldrado. Scomparsa nel XII secolo, l’abbaziale è nota soltanto attraverso gli scavi e le
ricerche di Fleury, MacCrosby e Formigé. La maggior parte dei principali edifici carolingi non si è conservata
sino ai nostri giorni, per cui le nostre conoscenze dipendono essenzialmente dai dati archeologici e dalle
coeve fonti scritte. L’abbaziale di Saint-Denis era una basilica con i muri della navata centrale sorretti da
sedici grandi colonne, ognuna delle quali poggiante su di un immenso basamento quadrangolare, decorato
da foglie e racemi a bassorilievo. Le navate erano precedute da un avancorpo comprendente una piccola
abside poligonale, fiancheggiata da due ambienti laterali e da due torri. Si tratta del primo caso dell’Europa
latina in cui a una facciata occidentale sia stato dato un carattere tanto monumentale. Le tre navate
sboccavano a Est in un ampio transetto unitario, sul quale si innestava una grande abside dotata di una
cripta semi-anulare del tipo in uso a Roma. Si avvia nell’architettura occidentale la ricerca di un equilibrio
tra il movimento orizzontale generato dalla struttura basilicale e la stabilità delle forme propria delle masse
a più piani del presbiterio e della facciata. Tra le opere che dipendono immediatamente da Saint-Denis la
soluzione più riuscita e ricercata è quella offerta dall’abbazia di Saint-Riquier di Centula, che è rimasta per
lungo tempo un modello. La chiesa di Centula è stata costruita tra il 790 ed il 799 con la supervisione
dell’abate Angilberto. Il monumento non esiste più ma è stato restituito alla storia dell’arte dalle ricerche di
alcuni studiosi. Era una basilica lunga circa 84 metri, all’estremità occidentale della quale si ergeva
l’imponente massa del Westwerk costituito da una campata quadrata, sormontata da una torre circolare,
dotati di due ali laterali e preceduta da un portico, fiancheggiato a sua volta da due torrette con scalinate. A
est il volume quasi identico del transetto arrestava lo sviluppo delle navate e dava accesso al coro quadrata,
concluso da una grande abside. Lo spazio era arredato con undici altari, tre tombe di santi patroni, un
pluteo, diverse immagini in stucco dipinto e a mosaico, un grande reliquario e tredici reliquiari di minori
dimensioni esposti su di una trabeazione sorretta da colonne. L’interno della chiesa era sapientemente
suddiviso. Ciascuna unità spaziale interna era destinata ad un atto liturgico ben preciso. Ogni spazio
architettonico ospitante un altare, una tomba o un reliquiario che venisse visitato durante le processioni
diveniva un piccolo santuario a sé state. In questo programma un ruolo particolarmente importante
spettava al Westwerk, santuario dedicato al Salvatore, dove si svolgevano le cerimonie liturgiche principali.
All’origine della struttura dei grandi edifici carolingi e, di conseguenza, di quelli romanici, vi è precisamente
la ripartizione degli atti liturgici tra le differenti parti della chiesa. Nella basilica urbana tardo-antica il
movimento dei fedeli seguiva un asse longitudinale, partendo dal muro piatto della facciata e sboccando
nell’emiciclo dell’abside centrale. L’abbaziale di Saint-Riquier era la prima chiesa carolingia che riunisse
tutte le novità dell’architettura in una composizione coerente e armoniosa, ma il programma da essa
veicolato non era ancora imposto dappertutto. Certe grandi abbaziali adottavano solo in parte gli elementi
che lo costituivano. Una delle più importanti abbazie dell’impero, San Nazario di Lorsch (767-774), fondata
dal vescovo Crodegango di Metz, parente di Carlo Magno, era già munita di un imponente Westwerk, ma il
corpo basilicale, ancora privo di transetto, era concluso da un’abside rettangolare molto poco profonda.
Altre chiese erano ancora tanto fedeli ai modelli importati da Roma. L’esempio più celebre è l’abbaziale di
Fulda (791-819). I suoi artefici, l’abate Baugulfo, l’architetto e poi abate Ratgar e il suo successore Eigil
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hanno voluto assimilare il santuario dell’apostolo della Germania, Bonifacio, a quello del principe degli
apostoli. L’immenso transetto occidentale, l’abside con la cripta, il chiostro posto sull’asse dell’edificio e le
misure stesse dovevano nell’insieme richiamare il celebre modello vaticano. La cattedrale di Colonia,
iniziata nel’800, apparteneva anch’essa alla sfera d’influenza romana.
Il fatto che la semplice basilica a transetto unitario occupasse sempre un posto di rilievo nell’ideologia
architettonica carolingia è confermato infine dalla Pianta di San Gallo. Su questa grande pergamena,
composta da cinque fogli cuciti, è disegnata la pianta di un monastero benedettino, con la chiesa, gli edifici
conventuali, il chiostro, l’ospedale, le case destinate ad alloggiare novizi, domestici e viaggiatori e i vari
edifici impiegati per le attività agricole ed artigianali. Il documento è una copia della pianta-modello
elaborata in occasione dei concili di Aquisgrana dell’816 e dell’817, copia che sarebbe stata inviata da Heito,
abate di Reichenau e vescovo di Basilea, all’amico Gotzberto, abate di San Gallo, il quale, verso l’830,
intraprese la costruzione della nuova abbazia. Alcuni studiosi sono convinti che la pianta di San Gallo sia
proprio l’originale, portato direttamente da Aquisgrana. Il documento rispecchia la preoccupazione dei
riformatori carolingi di assicurare ai conventi il miglior funzionamento possibile. L’abbaziale disegnata sulla
pianta è una basilica a transetto unitario, con due presbiteri contrapposti. Quello orientale, più importnate
da un punto di vista liturgico, comprende un coro quadrangolare ed un’abside, mentre, nel sottosuolo, la
cripta a galleria si adatta al rettangolo del coro. La piattaforma del coro, con l’altare della Vergine e di San
Gallo, è fortemente sopraelevata rispetto alla cripta. In questa parte della chiesa sono anche collocati degli
altari dedicati a san Paolo, san Benedetto e san Colombano, mentre l’abside occidentale è dedicata a san
Pietro. Prima della realizzazione della pianta di san Gallo l’idea di disporre due absidi alle due estremità
della navata centrale era già stata posta in atto dagli architetti di Saint-Denis, Saint-Maurice d’Agaune,
Fulda e Colonia. L’abside occidentale situata all’estremità opposta del coro principale aveva una funzione
simile a quella del Westwerk, valorizzando il culto celebrato nella parte occidentale della chiesa e
trasformando quest’ultima in un santuario a sé stante.
Le profonde trasformazioni dell’architettura di epoca carolingia non si limitavano alla pianta e alla
composizione dei volumi, ma coinvolgevano anche gli elevati e i dettagli del linguaggio architettonico.
Questo aspetto dell’architettura carolingia è meno noto, ma i pochi monumenti e le sculture ancora
esistenti rivelano che il rinnovamento ha lasciato la propria impronta anche sull’articolazione dei muri e
sulla decorazione scultorea. Pure in questo caso la principale fonte di ispirazione era Roma. L’assimilazione
del vocabolario classico era facilitata dai viaggi in Italia e dall’importazione di grossi elementi architettonici,
poi riutilizzati nelle chiese e nei palazzi carolingi. Il fatto che la ricerca dei modelli classici influisse sulla
riflessione teorica in campo architettonico e che riuscisse a penetrare nei cantieri è confermato dalla
circolazione di copie carolinge del trattato “De architectura” di Vitruvio. Il più antico esempio di
trasformazione di un modello antico che si sia conservato è il portico, o Torhalle, di Lorsch, della fine
dell’VIII secolo. Posto sull’asse centrale del grande cortile occidentale dell’abbazia, il piccolo edificio
comprende un pianterreno sistemato a portico, con tre passaggi, e un primo piano occupato da una sala
rettangolare, decorata da squisite pitture parietali a motivi architettonici. L’accesso al primo piano è
assicurato da due torrette con scalinate, addossate ai lati brevi dell’edificio. Le facciate ovest ed est sono
realizzate sull’esempio dei modelli romani: la composizione tripartita, con le tre grandi arcate destinate al
passaggio fiancheggiate da colonne composite, si ispira agli archi di trionfo. A ognuno degli archi a tutto
sesto del pianterreno corrispondo al primo piano tre arcate cieche “a mitra”, impostate su dieci semipilastri ionici scanalati, sottili e piatti, che completano l’articolazione della parete. Le forme rimpiccioliscono
e si moltiplicano a mano a mano che si sale di piano, ma in questa imitazione dell’architettura antica uno
sguardo attento scopre facilmente delle notevoli pecche.
L’architettura antica ha ispirato anche l’opera che viene unanimemente considerata il vertice
dell’architettura carolingia, ossia la chiesa palatina di Aquisgrana, eretta da Oddone di Metz nell’ultimo
decennio dell’VIII secolo e consacrata verosimilmente nell’805. La cappella faceva parte di un vasto
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complesso residenziale, sito sull’area delle terme romane e ampiamente influenzato dall’architettura dei
palazzi imperiali antichi. Il ruolo simbolico che la principale residenza di Carlo Magno era destinata a
svolgere nel nuovo impero è riassunto nelle denominazioni ad essa riservate, Nuova Roma e Lateranum, la
seconda delle quali tradiva l’intento di mettere su di un piano di parità il palazzo del papa e quello
dell’imperatore. L’edificio trae ispirazione dall’architettura imperiale e da quella religiosa al tempo stesso. Il
modello immediato è verosimilmente la chiesa di San Vitale di Ravenna a sua volta ispirata dall’architettura
giustinianea di Costantinopoli. Oddone di Metz l’ha concepita partendo da un ottagono centrale circondato
da un deambulatorio a forma di poligono a sedici lati, riproducendo in linea di massima la pianta di San
Vitale. Gli elementi di origine antica, quali le colonne della tribuna, tutte importate dall’Italia, si
sottomettono del tutto alla rigida articolazione dei possenti pilastri angolari. Il volume poligonale della
cappella è preceduto dalla massa maestosa del Westwerk. La composizione di ispirazione antica viene così
controbilanciata da un elemento caratteristico dell’architettura carolingia. L’isolamento della cappella di
Aquisgrana nell’architettura carolingia salta agli occhi confrontandola con gli altri edifici a pianta centrale,
tra cui occorre rammentare soprattutto due esempi. L’oratorio del Salvatore, che l’arcivescovo Teodulfo
fece costruire nella sua residenza di Germigny-des-Pres (806), sembra rivolgersi a tradizioni iberiche: due
navate disposte a forma di croce greca e sormontate da una torre-lanterna centrale, inscritte in una pianta
quadrata con sei absidi. La chiesa della Trinità, poi san Donato, di Zara, in Dalmazia, riprende più
semplicemente la pianta di una rotonda a deambulatorio circolare, aperta ad Est su tre absidi. Imitazioni
della cappella di Aquisgrana, peraltro numerose, compariranno solo in periodo ottoniano, epoca in cui
l’oratorio imperiale poteva servire da modello a un’abbaziale o a una collegiata.
Nell’843 ebbe luogo la prima spartizione dell’impero carolingio (trattato di Verdun) seguita, nella seconda
metà del IX secolo, da altre divisioni. Dalle rovine della monarchia franca emersero allora due grandi stati,
la Francia Occidentalis e la Francia Orietalis. Anche l’architettura seguì un diverso processo evolutivo in
ciascuno dei due regni. Nella Francia Occidentalis, tema principale dell’ideologia architettonica divenne la
ricerca di un presbiterio orientale più spazioso e adatto ad ospitare numerosi altari e reliquiari. La più antica
testimonianza della nuova formula di coro che si sia conservata è nella chiesa di Saint-Philibert-deGrandlieu. Sin dall’819 in questo luogo esisteva una basilica a tre navate, dotata di un ampio transetto e
conclusa da una grande abside a cinque lobi. La parte orientale è stata successivamente rimpiazzata da un
presbiterio completamente differente, iniziato nell’836 e realizzato in più campagne edilizie. Il nuovo coro
era rettangolare e sboccava in un’abside, sotto la quale era sistemata una cripta a galleria con dei piccoli
oratori. Il più antico esempio carolingio di tale tipo di cripta è quello di Saint-Medard di Soissons, iniziato
intorno all’817-823. Cinque cappelle attorniavano il presbiterio di Saint-Philibert, dando luogo ad un
passaggio continuo: due erano in corrispondenza della campata rettangolare del coro, mentre altre tre
circondavano l’abside, collegate tra loro da un passaggio curvo. Saint-Philibert-de-Grandlieu testimonia
dunque un’importantissima tappa dell’architettura carolingia, in quanto la cripta a galleria rimpiazza quella
semi-anulare di provenienza romana, mentre le cappelle distribuite intorno al coro formano un
deambulatorio. Nasce così un nuovo tipo di presbiterio, comprendente ormai degli elementi molto
diversificati, ognuno dei quali realizzato in modo da assolvere a una particolare funzione.
La formula più ricercata di presbiterio con cripta e deambulatorio è stata ottenuta in Borgogna, in SaintGermain d’Auxerre (841-865) e in Saint-Pierre de Flavigny (circa 864-878). A Auxerre un piccolo edificio più
antico, a tre navate, è stato trasformato nella cripta a oratorio del santo titolare e l’antico nucleo culturale
è stato circondato da un deambulatorio rettangolare, fiancheggiato da due piccole cappelle. A Est il
deambulatorio dava accesso ad un piccolo portico tripartito e all’oratorio poligonale dedicato alla Vergine.
Questa pianta piuttosto complessa è stata ripresa a Flavigny, svolgendosi, con alcune modifiche, su due
livelli, quello della cripta propriamente detta, posta alla stessa altezza della navata centrale, e quello del
coro superiore, sopraelevato rispetto al pianterreno. L’architettura della Francia Occidentalis del IX secolo
rompe con il presbiterio a spazio unitario degli anni intorno al’800. La nuova concezione del presbiterio
obbligava evidentemente l’architetto ad equilibrarne le differenti componenti, che nelle chiese di Saint-
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Philibert-de-Grandlieu, di Saint-Germain di Auxerre e di Saint-Pierre di Flavigny costituiscono un insieme
ancora poco coerente. Nel X secolo l’ambiente perimetrale rettangolare incomincia a trasformarsi in un
deambulatorio a gomito o curvo, intorno a cui si dispongono in modo più regolare delle cappelle
abbastanza omogenee. Risulta così aperta la strada verso il deambulatorio semi-circolare a cappelle radiali,
una disposizione che, a partire dalla prima metà dell’XI secolo, riunirà in una formula esteticamente
armoniosa il culto delle reliquie e il funzionamento quotidiano di una grande chiesa monastica.
La parte orientale del regno franco risulta più durevolmente legata all’estetica dell’anno 800 e consolida le
forme originarie dell’architettura carolingia. L’indirizzo che avrebbe poi assunto l’architettura dei Franchi
orientali era già preannunciato dalle chiese fondate in Renania e in Assia intorno all’815-840 dagli altri
ecclesiastici e dai grandi dignitari strettamente legati alla corte di Ludovico il Pio. Il più antico di questi
monumenti è l’abbaziale di Kornelimünster, eretta tra l’814 e l’817 dal visigoto Benedetto di Aniane,
principale artefice delle riforme monastiche promosse dai sinodi di Aquisgrana. La chiesa di Kornelimünster,
posta sotto il titolo tipicamente carolingio del Salvatore, doveva servire la prima comunità benedettina
organizzata in conformità agli statuti sinodali, per cui è lecito riconoscervi uno dei modelli architettonici
destinati a propagare la vita monastica riformata. Il monumento è noto soltanto attraverso gli scavi
condotti da Hugot. Si trattava di una basilica a pilastri piuttosto corta, preceduta da un portico tripartito,
nella quale era la parte orientale a distinguere l’edificio dalle altre chiese carolingie dell’epoca. La crociera e
le due ali del transetto erano di uguali dimensioni, tutte e tre basate sul medesimo modulo quadrato,
mentre il coro rettangolare corrispondeva a metà del modulo e tre grandi absidi si innestavano
rispettivamente sul coro e sulle ali del transetto. Il transetto composto da tre grandi campate quadrate è
l’elemento che origina la nuova formula della parte orientale della chiesa, formula che verrà ripresa in
diverse varianti da numerosi edifici del IX secolo della Francia Orientalis, ripercuotendosi poi
nell’architettura ottonaniana e contrassegnando un’ampia parte dell’architettura romanica tedesca, con
particolare riguardo per gli edifici degli ordini riformati. L’abbaziale di Kornelimünster inaugura
nell’architettura carolingia una serie di nitide composizioni architettoniche, contraddistinte da una sobria
monumentalità, basata su di un numero abbastanza ristretto di elementi costitutivi. Il medesimo
orientamento estetico contraddistingue le basiliche di Steinbach e Seligenstadt, fondate da Eginardo, uomo
di fiducia e famoso biografo di Carlo Magno. A Steinbach (circa 820-827) l’abside principale si innesta
direttamente sulla navata centrale, mentre due ambienti laterali absidati, più bassi del resto dell’edificio, si
aprono sulla navata centrale mediante delle arcate piuttosto tozze, disposizione che conferisce al volume
interno della chiesa un aspetto singolarmente compatto. La basilica di Seligenstadt (830-840) è la più lunga
e slanciata, con un transetto conforme al principio della modularità. La medesima sobria semplicità dei
supporti che caratterizza le basiliche a colonne, il cui migliore esempio si conserva ugualmente in Assia, a
Höchst (IX secolo). sembra che a est del Reno non abbia avuto molta fortuna l’articolazione verticale stesa a
tutta l’altezza della navata, un modo di animare le pareti invece molto pratico nella Francia Occidentalis. La
netta separazione orizzontale tra la fascia dei supporti e quella delle pareti soprastanti contrassegnerà tutta
l’architettura ottoniana a una buona parte dell’architettura romanica tedesca.
L’architettura carolingia della Francia orientalis conosceva una varietà di cripte piuttosto ampia. Al di sotto
della pianta relativamente semplice del coro, la cripta assumeva sovente l’aspetto di uno spazio strutturato.
Benché l’architettura della Francia Orientalis rivendicasse un proprio stile particolare, i suoi creatori non
erano del tutto insensibili alle soluzioni escogitate a ovest del Reno. Tre chiese ispirano infatti direttamente
alla concezione del coro con deambulatorio e cappelle laterali preannunciata da Saint-Philibert-deGrandlieu: le cattedrali di Halderstadt e di Hildesheim e l’abbaziale di Corvey. In questi tre edifici, noti
soltanto attraverso gli scavi, il deambulatorio coincideva esattamente con il coro quadrato e la sua abside;
le sue estremità si trasformavano in cappelle laterali, mentre il tratto curvo dava accesso alla cripta, posta
all’esterno del sedime della chiesa. Il Westewerk, rapidamente abbandonato dai Franchi occidentali, ha
invece continuato a essere il tema privilegiato dell’ideologia architettonica a Est del reno, tant’è che le tre
grandi chiese sassoni menzionate ne erano dotate. Quello di Corvey si è ottimamente conservato, sebbene
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senza le parti alte, e ci informa meglio di qualsiasi altro monumento sull’organizzazione dello spazio e sul
gioco delle forme all’interno di una tarda chiesa carolingia. Al pianterreno il nucleo centrale è costituito da
una sala quadrata, composta da nove campate con il soffitto a volta, preceduta da un portico fiancheggiato
da due torri con scalinate e accompagnata da due navatelle laterali; essa sbocca in un ambiente bislungo,
da cui si accede alla chiesa. Al primo piano, al nucleo centrale del pianterreno corrisponde un grande spazio
quadrato vuoto, attorniato da tribune: si trattava dello spazio liturgico principale della parte occidentale
della chiesa, dove erano ospitati gli altari e le reliquie. Sembra che negli anni intorno all’800 l’intero volume
del Westwerk fosse suddiviso in piani orizzontali, mentre nell’ultimo terzo del IX secolo la campata centrale
del primo piano era vuota e intorno ad essa erano sistemate delle tribune. Nell’architettura ottoniana il
vuoto centrale si estende talvolta a tutti i libelli del Westwerk, come testimonia il celebre esempio
dell’abbaziale di Sankt Pantaleon di Colonia.
La parte orientale dell’impero carolingio non ha sofferto le invasioni normanne che hanno invece
annientato la vita ecclesiastica su ampia parte della Francia occidentalis, arrestandovi ogni attività artistica.
Contrariamente al regno dei Franchi occidentali, politicamente spezzato, quello dei Franchi orientali non lo
era. Con l’avvento al trono di Enrico I l’Uccellatore iniziò anzi la trasformazione della metà orientale
dell’impero carolingio in una fortissima potenza, caratterizzata dalla centralizzazione del potere. Il figlio
Ottone I (936-973) si fece consacrare imperatore a Roma nel 962: in tal modo il regno della Germania
ricevette l’eredità dell’impero. I sovrani sassoni si ispiravano infatti costantemente alle istituzioni imperiali
di Carlo Magno, ricercando i propri modelli soprattutto nell’antica Austrasia, poi divenuta Lotaringia, terra
di grandi fondazioni imperiali, definitivamente incorporata nel regno di Germania nel 925. La transizione
dall’architettura carolingia a quella ottoniana è avvenuta dolcemente e la lenta evoluzione rifletteva i
profondi legami che univano l’élite culturale del regno di Germania al retaggio di Carlo Magno.
Nella storia dell’architettura carolingia le regioni alpine occupano una posizione particolare, in quanto
risultano situate tra due grandi ambienti artistici quali l’Italia e la Lotaringia. Le Alpi erano d’altra parte
ripiegate su sé stesse e, a causa della loro specificità geografica non hanno mai avuto il peso culturale delle
altre regioni europee. Le chiese delle vallate alpine hanno una sola navata e tale differenza la dice lunga sui
processi che si potevano verificare nell’architettura medievale nel corso dell’adattamento di un modello
monumentale: la tripartizione del presbiterio, che è la forma distintiva delle grandi chiese, viene
mantenuta, ma isolata dal proprio contesto architettonico originario e associata ad uno spazio
estremamente semplificato.
La dipendenza dell’architettura carolingia dal mondo mediterraneo non si manifesta soltanto nelle grandi
linee della composizione dell’edificio, ma anche nella decorazione scultorea. La decorazione architettonica
carolingia sottolineava l’articolazione delle pareti e la natura composita, antropomorfa, dei supporti. Le sue
forme principali erano distribuite in ossequio alle regole classiche della struttura dell’edificio. Il ruolo della
decorazione andava progressivamente diminuendo, giacché l’estetica della tarda architettura carolingia
determinata soprattutto dal possente gioco dei volumi e non dall’articolazione delle superfici. Tra i più
antichi esempi di ritorno ai principi classici occorre citare la Torhalle di Lorsch e gli elevati esterni
dell’ottagono della cappella palatina di Aquisgrana.
La fedeltà al retaggio classico contraddistingue anche le opere in bronzo prodotte dalla fonderia che
intorno all’800 lavorava per la cappella imperiale di Aquisgrana. I parapetti e le porte in bronzo eseguiti su
commissione dell’imperatore occupano senza dubbio una posizione particolare nella scultura monumentale
e costituiscono il vertice delle tendenze classicheggianti in questo campo. La maggioranza delle opere
rientrava nella scultura architettonica in pietra, un settore in cui l’imitazione poteva assumere gli aspetti più
diversi. L’architettura carolingia, benché molto creativa in campo volumetrico, non ha saputo produrre una
sua particolare decorazione scultorea. La scultura classicheggiante non costituiva l’unica corrente della
decorazione monumentale carolingia. Nelle regioni alpine si conoscono chiese in cui l’articolazione
piuttosto serrata delle pareti interne era ottenuta mediante una ricchissima decorazione in stucco dipinto.
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L’esempio più celebre è la chiesa di San Benedetto di Malles, databile intorno all’800. Tanto la concezione
della decorazione che riveste interamente l’elevato, quanto i suoi motivi ornamentali traggono origine
dall’arte longobarda, nel cui ambito può fungere da confronto l’oratorio di Cividale. L’orientamento
mediterraneo rappresentato era altrettanto determinante per la decorazione dell’arredo liturgico. Gli artisti
carolingi hanno completamente assimilato le forme di plutei, amboni e paliotti elaborati in Italia nel VII e
nell’VIII secolo, impiegando ance lo specifico repertorio ornamentale dell’arredo liturgico, nonché il suo
stile molto particolare, caratterizzato dal debole bassorilievo e dalle forme lineari.
La scultura architettonica svolgeva nell’edificio carolingio un ruolo abbastanza limitato, mentre era la
pittura ad assicurare la decorazione essenziale, rivestendo le pareti, i catini delle absidi e le volte della
cripta. La decorazione dipinta formava all’interno della chiesa un universo estetico a sé stante,
mascherando la muratura spessa e primitiva dell’edificio e trasformandola in una realtà del tutto diversa. È
facile immaginare l’impressione che questo universo dipinto doveva produrre sul laico. Le fonti scritte
attestano che le chiese carolinge internamente dipinte erano numerose, permettendoci di constatare come
la gerarchizzazione delle immagini fosse di rigore. La pittura parietale carolingia dipendeva dai sistemi
definitisi nella tarda antichità e proseguiti in Italia nel VII e nell’VIII secolo. Nei programmi pittorici carolingi
compare tuttavia una novità iconografica significativa: l’abside centrale viene ormai quasi esclusivamente
riservata all’immagine del Cristo in Maestà, raffigurato in trono, in posizione frontale, attorniato dal
firmamento di cristallo e accompagnato da quattro animali, simboli, al tempo stesso, degli evangelisti.
Questa rappresentazione, elaborata a partire dalle teofanie riportare dalle Scritture e dalle immagini di
Cristo assiso, solitario o attorniato da apostoli, era già nota dal V secolo, ma soltanto in epoca carolingia è
divenuta una delle principali immagini dell’iconografia occidentale. Essa esprimeva il tema del potere
universale di Cristo, idea fondamentale della teologia carolingia, in quanto proprio intorno al concetto della
regalità suprema del Salvatore l’ideologia carolingia ha costruito la propria visione gerarchica del mondo.
Nelle grandi fondazioni monastiche dell’età di Carlo Magno non si è conservato nulla, con l’eccezione della
decorazione illusionista che trasforma la sala della Torhalle di Lorsch in un portico ionico, aperto sullo
spazio infinito. Un’idea del programma complessivo della decorazione pittorica carolingia si ha guardando a
Müstair nei Grigioni. La piccola abbaziale, verosimilmente fondata da Carlo Magno, prima dell’805, su di
una delle strade di accesso all’Italia, ha infatti conservato in gran parte la propria decorazione originaria. Le
sue pitture riflettono i principi che hanno presieduto alla scelta e alla distribuzione dei soggetti nelle grandi
basiliche degli anni intorno all’800. Nell’abside centrale un Cristo in Maestà sormonta una serie di immagini
che narrano la vita di san Giovanni Battista; in quella di sinistra una Traditio legis è posta al di sopra della
storia dei santi Pietro e Paolo; in quella di destra una croce greca a medaglioni, decorata con busti di Cristo,
della Vergine, di un angelo, di San Pietro e di San Paolo e attorniata dai simboli degli evangelisti si innalza al
di sopra della storia del protomartire Stefano. Un’altra teofania decorava l’arco trionfale dell’abside
centrale. Tre grandi cicli occupano le pareti sud e nord e, parzialmente, ovest. L’opera redentrice di Cristo,
che è il tema più sviluppato nel programma, viene presentata come radicata nel piano divino della Salvezza.
Il programma riunisce in un complesso coerente le grandi tappe della storia della Redenzione, l’opera della
Chiesa e il trionfo del Salvatore. Non esiste alcun criterio indiscutibile che permetta di stabilire la data
esatta degli affreschi di Müstair. Si tendeva per lo più a collocarli nell’epoca in cui si presume sia stata
costruita la chiesa, ossia intorno all’800, ma è stata anche proposta la fine del IX secolo, mentre altri ancora
pensano agli anni 820-835. L’unico elemento in grado di fornire qualche indicazione sulla data delle pitture
di Müstair pare essere lo stile, nel quale si manifestano gli importanti cambiamenti sopravvenuti nella
pittura in epoca carolingia, come testimoniano soprattutto le scene bibliche. La disposizione dei gruppi di
persone è libera e disinvolta; gli atteggiamenti ed i movimenti traducono bene le azioni di personaggi non
privi di volume. I personaggi, pesanti, costruiti a partire da forme ampie e vigorose, dominano però per
intero la scena, di cui lo sfondo architettonico non è più parte integrante, né elemento indispensabile,
facendo piuttosto da contrasto all’azione. Il grande tema delle relazioni tra i protagonisti del racconto
biblico, il tema del loro comportamento di fronte alla realtà divina, inizia ad avere la meglio sulla
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concezione dell’immagine come descrizione oggettiva ed equilibrata degli elementi che costituiscono
l’aspetto puramente visivo dell’avvenimento. La crescente importanza della figura umana si era già
riscontrata nella pittura dell’Italia a partire dalla metà dell’VIII secolo. A Müstair il fenomeno è tanto più
evidente in quanto i motivi architettonici, sebbene ancora svolti in modo continuo alle spalle dei
personaggi, sono resi sommariamente e non formano delle entità strutturali coerenti. Müstair preannuncia
un carattere che si affermerà nella pittura preromanica e romanica, nel senso che qualsiasi elemento
dell’ambiente, architettura o paesaggio che sia, risulta del tutto secondario rispetto alla figura umana,
rivestendo di conseguenza un ruolo puramente convenzionale.
Se tanto profondo era l’influsso dei programmi di ambiente romano sulle pitture delle chiese di provincia,
ancora più forte esso doveva essere nelle grandi fondazioni di ambiente imperiale, quasi tutte rivolte verso
il sud. Di ciò si trova una traccia nei mosaici della cappella palatina di Aquisgrana, scomparsi nel XVIII
secolo, ma noti attraverso un’incisione e alcune descrizioni. La cupola era decorata da un Cristo in maestà
adorato dai vecchi, tema che traduceva la teofania descritta dal quarto capitolo dell’Apocalisse e che
incominciava a diffondersi nell’arte carolingia, specialmente nei manoscritti illustrati.
I mosaici che decorano l’abside della cappella di Germigny-des-Pres (sfortunatamente rimaneggiati nel XIX
secolo) sono la prova tangibile della presenza di artisti mediterranei nei grandi cantieri carolingi degli anni
intorno all’800.
Il tema dell’abside e gli altri soggetti della decorazione occupano una posizione particolare nell’arte
carolingia. È l’unico caso noto in cui l’immagine del Dio antropomorfo sia stata rimpiazzata da una
rappresentazione aniconica, nella fattispecie quella dell’arca dell’alleanza. Gli studiosi concordano nel
ricollegare questa scelta ai Libri Carolini, opera teologica carolingia composta verso il 790 proprio da
Teodulfo, fondatore della cappella di Germigny-des-Pres. Lo scritto si opponeva in effetti molto
apertamente alla venerazione delle rappresentazioni antropomorfe di Dio e dei santi, mettendo in
compenso in valore l’arca dell’alleanza come testimonianza della presenza divina tra gli uomini, come opera
degna perciò di venire raffigurata nelle chiese cristiane. Il pensiero simbolico medievale considerava il
santuario cristiano come una riproduzione spirituale del tempio di Salomone: l’immagine dell’arca, che del
tempio era l’oggetto più importante, rendeva ancora più chiara tale idea.
Tra le opere che testimoniano un gusto molto pronunciato per il racconto in immagini occorre ancora citare
le pitture della cripta di Saint-Germain d’Auxerre, della metà del IX secolo, che ripercorrono la storia del
protomartire Stefano. Le scene fanno parte di un completo sistema decorativo. L’artista, un certo
Credoloso, come risulta dal nome che egli stesso ha lasciato, non ha esitato a dipingere i capitelli in modo
illusionista. Come Müstair, Lorsch e Malles, Saint-Germain d’Auxerre dimostra dunque che in epoca
carolingia la decorazione pittorica di una chiesa era concepita in modo integrale. A Saint-Germain d’Auxerre
la figura umana ha definitivamente la meglio su ogni altro elemento della narrazione. La simmetria e un
ritmo rigoroso reggono la disposizione di personaggi che, nonostante il buon disegno del corpo e l’animata
gestualità, paiono immobili e pesanti. Le ampie campiture uniformi sono tenute insieme da una specie di
armatura lineare, particolarmente marcata in corrispondenza dei contorni, mentre mancano le gradazioni
di modellato. Si tratta di un linguaggio che preannuncia già le forme ritmate e lineari della pittura
preromanica e che si ritrova in uno stadio ancora più avanzato negli affreschi che decorano l’altare della
cripta di Sankt Maximin di Treviri, raffiguranti una Crocefissione attorniata da una Processione di martiri
(fine del IX secolo).
Le arti suntuario e le miniature carolinge segnano una svolta ancora più radicale nell’evoluzione dell’arte
medievale. Lo sviluppo delle arti cosiddette minori era l’immediato e spettacolare risultato del
rinnovamento della vita ecclesiastica avviato da Carlo Magno. I potenti fondatori di una grande abbazia o di
una cattedrale si sforzavano di dotare la loro chiesa di ogni genere di utensile e di libro indispensabile alla
pratica del culto e di conferire a tali oggetti uno splendore degno della funzione; i fondatori stanziavano
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considerevoli mezzi finanziari per dare a una chiesa una completa attrezzatura liturgica e tale
preoccupazione riguardava probabilmente anche le fondazioni meno importanti. L’epoca carolingia vede
sorgere un’arte potente, al completo servizio dell’altare, al punto che Boeckler l’ha denominata ars sacra,
tanto essa traduceva l’essenza di ciò che serviva. Uno degli elementi caratteristici dell’ars sacra è la
sontuosità. L’orafo sapeva riunire nella stesa opera procedimenti diversi e l’incontro di tecniche diverse
conferiva alla composizione l’impronta di una raffinatissima profusione di forme. Un simile splendore era
certamente contrario alla moderazione o all’austerità che gli spiriti più ascetici raccomandavano nel campo
delle ornamentazioni per la chiesa. All’orizzonte dei fasti della Chiesa carolingia si profilava l’apparato
liturgico delle grandi basiliche di Roma ma lo splendore aveva anche una solida base spirituale nella visione
gerarchica del mondo promossa dai carolingi. Lo splendore dell’ars sacra era la sublime espressione
dell’idea della suprema regalità di Cristo. i fasti della corte si confondevano con quelli dell’altare. Tutte le
grandi abbaziali e cattedrali disponevano di un completo corredo di oggetti e di libri destinati ad abbellire la
zona dell’altare e ad assolvere particolari funzioni nello svolgimento delle cerimonie. In epoca carolingia
non si era ancora pervenuti ad un unico stile caratteristico del periodo, ma tutta l’arte commissionata da
quel settore della vita ecclesiastica che era la liturgia è rapidamente divenuta un grande organismo solidale.
I vari oggetti che costituivano il corredo di utensili liturgici di una chiesa dipendevano gli uni dagli altri e la
loro interdipendenza si ripercuoteva nella scelta dei temi e dei mezzi espressivi. L’integrazione avveniva
anche al livello del lavoro degli artisti. in epoca carolingia molti vasi e utensili hanno assunto la forma poi
conservata fino all’epoca romanica ed è stato definitivamente introdotto nelle chiese il paliotto in metallo
prezioso, decorato da pannelli a figure in rilievo. La figura umana era un fattore particolarmente importante
nel processo di integrazione in quanto alla rappresentazione chiara e leggibile di Dio, di un evangelista, di
un racconto sacro o di un simbolo che spettava al compito di evidenziare i legami intrinseci che univano
l’azione liturgica che si svolgeva in terra con la gloria eterna di Dio, ossia i legami tra culto e presenza di Dio
ella storia. Questa nuova funzione dell’immagine compare per la prima volta nel programma pittorico dei
libri. Gli artisti di corte dotavano gli evangeliari dei ritratti degli evangelisti e delle pagine degli incipit,
mettendovi in testa le tavole dei canoni. Nel più antico manoscritto uscito dalla Schola palatina, ossia
nell’evangelario copiato per Carlo Magno dallo scriba Godescalco, ai quattro evangelisti fanno seguito un
Cristo benedicente assiso in trono, quasi un manifesto del cristocentrismo carolingio proclamato all’inizio
della nuova epoca, e una fontana della vita, che precede a sua volta e illustra la pericope di Natale.
L’immagine introduce ad un altro soggetto nuovo, che rimarrà poi fisso nel repertorio iconografico dell’arte
carolingia, ossia l’Adorazione dell’Agnello da parte dei 24 vecchi e dei quattro animali, simboli degli
evangelisti, adorazione che si svolge già nella Gerusalemme celeste. La visione apocalittica del trionfo
eterno del Salvatore si ispirava all’iconografia dei mosaici di Roma. Il programma si arricchisce di immagini
volte a trasmettere un preciso messaggio dottrinale. L’epoca carolingia prepara il terreno alle dotte
composizioni iconografiche della miniatura preromanica e romanica. La metamorfosi della decorazione del
manoscritto riflette la preoccupazione di fare del libro lo strumento principale del rinnovamento
intellettuale della Chiesa e della cultura in generale ed è nota l’importanza che aveva allora nell’opera di
riforma l’istituzione di scriptoria e biblioteche. Gli scriptoria carolingi ricercavano i modelli per un linguaggio
appropriato in Italia, il solo paese che potesse fornirli e che fosse all’immediata portata dei Franchi. La
nuova concezione della decorazione del libro che si fa strada durante il regno di Carlo Magno si
accompagna all’adozione di nuovi mezzi artistici. La comparsa delle opere della Schola palatina è uno dei
più rapidi e profondi rivolgimenti stilistici che l’arte medievale abbia conosciuto. Nell’Evangelario di
Godescalco la figura umana è rappresentata seduta disinvoltamente, in atteggiamento normale, e conserva
delle proporzioni relativamente corrette ed un volto regolare. L’organicità del volume del corpo è ben
percepibile e il personaggio respira un’atmosfera di armonia e dignità. Gli affreschi della navata laterale di
sinistra di Santa Maria Antiqua o le Omelie di Gregorio Magno della Biblioteca capitolare di Vercelli
illustrano la corrispondente fase stilistica della pittura in Italia. Colpisce la somiglianza tra il tipo di volto
armonioso, espressivo e pieno di bellezza umana che si ritrova nell’evangelario carolingio e quello di Santa
Maria Antiqua. Tra le opere della scuola di corte, l’Evangeliario di Godescalco occupa un posto a sé stante,
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in quanto gli altri manoscritti, tutti posteriori, non ne hanno proseguito lo stile figurativo un po' solenne ed
austero, sempre affine al linguaggio pittorico dell’Italia. I ritratti di evangelisti posti sotto un’arcata
mantengono la disposizione della figura e la composizione della cornice architettonica proprie dei modelli
mediterranei, ma si distinguono per una resa del personaggio completamente nuova. La rappresentazione
è dominata da un vigoroso e ricercato gioco di linee, al punto che la forma pare seguire una propria
dinamica decorativa e separarsi dal mondo reale che dovrebbe descrivere. I miniatori di corte hanno
elaborato un proprio stile figurativo che, pur rendendo la materialità di un corpo collocato in uno spazio
reale, crea un’atmosfera sublime ed estatica, che trascende il mondo terreno. La miniatura carolingia resta
in ciò fedele all’immagine spiritualizzata dall’uomo nata a Nord delle alpi in ambiente iberno-sassone. Gli
intrecci ed i motivi animali del III stile zoomorfo impiegati nelle incorniciature delle miniature e nelle iniziali
sono le prove tangibili della presenza in questo scriptorium dei modelli, se non degli artisti, insulari.
I grandi ritratti di evangelisti e le pagine di incipit sono talvolta abbellite da piccole composizioni che
narrano avvenimenti del Nuovo Testamento. La scuola di corte muove così i propri primi passi verso la
scena narrativa. Lavorava per l’imperatore anche un secondo gruppo di artisti, a cui si devono il cosiddetto
Evangeliario dell’Incoronazione e tre altri evangeliari imparentati. Le loro miniature figurano senza dubbio
tra le realizzazioni pittoriche più notevoli mai prodotte nel medioevo e rivelano la volontà dell’ambiente
imperiale di ricollegarsi all’arte antica. La decorazione figurata comprende soltanto dei ritratti di evangelisti
che si direbbero dipinti da un artista del V o del VI secolo: l’ellenismo è qui al suo apogeo. Gli evangelisti
sono raffigurati sullo sfondo di un paesaggio o di un’architettura e dalla composizione si sprigiona il senso
dello spazio. I personaggi sono immersi in un’atmosfera di trasparente luminosità; il modellato rende sin
nei minimi dettagli il gioco delle luci e delle ombre. In quest’epoca solo un greco o un orientale erano in
grado di riallacciarsi tanto audacemente all’arte ellenistica.
I principali cambiamenti nel campo della miniatura avvennero in ambiente aulico. I migliori artisti avevano a
disposizione i migliori modelli e nessun altro ambiente poteva avvalersi di un concorso di circostanze tanto
favorevole alla creazione artistica e dare vita ad un linguaggio altrettanto potente e innovatore. Presso
monasteri e cattedrali esistevano e lavoravano altri atelier, ma la loro produzione si distingueva da quella
dell’ambiente palatino. Gli atelier provinciali dipendevano ancora da una moltitudine di modelli vari e
diseguali, senza che si manifestasse alcuna corrente sovraregionale in grado di attenuare le differenze.
Parecchie opere rivelano forti reminescenze precarolinge. La tradizione insulare era destinata a lasciare la
propria impronta anche su altri manoscritti del medesimo ambiente, tra cui una copia di Sermoni di
Giovanni Crisostomo dell’inizio del IX secolo. Abbiamo già anche osservato come le forme delle iniziali del
salterio di Corbie, dell’800 circa, sottintendano ancora i principi merovingi. L’autore ha saputo adattare la
nuova raffigurazione carolingia alla concezione della letterina merovingia, ottenendo un perfetto equilibrio
tra le due componenti della decorazione. Si assiste così alla nascita dell’iniziale figurata medievale.
Dall’ambiente di Amiens o di Parigi proviene l’evangeliario già conservato nell’abbazia di Saint-Croix di
Poitiers, un’opera che documenta la nascita dei grandi temi figurativi al di fuori della corte. In alcuni
ambiente la qualità delle miniature si avvicinava persino a quella dello scriptorium palatino. In un
evangeliario del primo quarto del IX secolo la pagina decorata con i simboli degli evangelisti disposti sotto
un’arcata richiama il vicino stile pittorico di un qualche modello tardo-antico ma, al tempo stesso, l’opera
resta indipendente dal genere di figurazione elaborato dagli artisti palatini. Negli atelier provinciali la
tradizione classica si propagava soprattutto grazie alla consuetudine di ricopiare interi manoscritti antichi, di
modo che persino un ambiente conservatore poteva apprendere la lezione degli antichi. Agli scriptoria
provinciali si deve il rinnovamento di due grandi cicli di illustrazioni, quello dell’Apocalisse e quello del
salterio. Dell’Apocalisse si sono conservate due copie miniate dell’inizio del IX secolo, l’una a Treviri e l’altra
a Valenciennes, entrambe attribuite alla Francia nord-orientale. Questo filone iconografico prosegue con
due manoscritti dell’inizio del X secolo, l’Apocalisse di Cambrai e l’Apocalisse di Saint-Amand. L’Apocalisse
carolingia arriva a contenere 74 o 38 immagini ad illustrazione delle principali visioni avute a Patmos da San
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Giovanni Evangelista. Gli specialisti ne ricercano le fonti iconografiche nella pittura cristiana tardo-antica e
in parte anche nell’arte dell’Italia medievale. Le opinioni sull’origine delle scene apocalittiche carolingie
sono divise: alcuni ritengono tali scene delle copie abbastanza fedeli di cicli antichi, mentre altri vi
riconoscono la creatività degli artisti carolingi, che avrebbero seguito i modelli antichi solo parzialmente.
Problemi simili sorgono se si vogliono conoscere gli inizi dell’illustrazione del salterio, libro che nella cultura
medievale svolgeva un ruolo particolarmente importante, in quanto era il costante modello della poesia
religiosa e il primo libro scolastico del futuro chierico. Sebbene la decorazione figurata di quello di Corbie,
che è il più antico salterio carolingio miniato, si limitasse ancora alle letterine, l’autore ha tuttavia già
compiuto un primo passo verso la nuova concezione del salterio illustrato, in quanto non si è accontentato
di abbellire il testo con un’immagine de salmista, ma ha trasformato le iniziali in autentici commenti visivi
dei Salmi. Questa concezione dell’illustrazione è stata messa in opera con ancora maggiore ampiezza degli
autori del salterio di Stoccarda, opera attribuita allo scriptorium parigino di Saint-Germain-des-Pres ed
eseguita intorno all’820, benché per lo stile si ricolleghi ancora a quelle prime miniature carolinge che,
come nell’evangelario di Godescalco, rivelano una forte impronta italica. Le miniature di Stoccarda
assumono la forma di immagini narrative incorniciate, svolte su tutta la colonna della scrittura e intercalate
ai versetti del testo. Le illustrazioni costituiscono un ricco commento visivo parallelo al testo.
Poiché il salterio era una delle opere poetiche più sublimi, il suo testo invitava i miniatori a trascendere la
realtà anche là dove volevano rendere in modo immediato gli avvenimenti descritti dal salmista, le sue
parole e i suoi sentimenti. L’illustrazione letterale è sovente imbevuta di una eccezionale atmosfera poetica
e impiega immagini metaforiche. Il salmista raffigurato nelle vesti di musico e la personificazione della sua
anima afflitta illustrano il grido lacerante di David. Il miniatore carolingio diviene così coautore del libro.
Non sappiamo in che misura gli artisti del salterio di Stoccarda dipendessero dai modelli antichi in quanto i
presunti modelli non si sono conservati. Secondo alcuni storici dell’arte la principale fonte d’ispirazione dei
miniatori di Saint-Germain-des-Pres sarebbe stata una serie di immagini provenienti dall’Italia, ancorate
all’iconografia del salterio antico; altri pesano invece che un apparato illustrativo tanto complesso come
quello del salterio sia stato concepito per piccoli passi successivi, in quanto gli artisti carolingi non
disponevano di un completo repertorio di immagini-modelli.
Durante il regno di Carlo Magno rinasce la scultura in avorio, un’arte che appartiene anch’essa alla sfera del
libro, in quanto produce quasi esclusivamente rilegature, facenti parte della decorazione del manoscritto
allo stesso titolo delle miniature. Anche in questo genere artistico il rinnovamento carolingio è stato molto
marcato. A differenza della miniatura la scultura figurativa dell’inizio del medioevo aveva rotto quasi
completamente con la tradizione classica, per cui occorreva ricominciare tutto da capo. Venivano studiati
attentamente ed imitati i dittici antichi, dimostrando costantemente interesse per qualsiasi oggetto di
origine antica. Le fonti di ispirazione sono facilmente reperibili negli avori prodotti tra la fine del IV e la
metà del VI secolo, soprattutto tra le opere dei grandi atelier di Roma e di Costantinopoli, ma anche tra
quelle provinciali dell’Egitto, della Siria, dell’Italia del Nord e della Gallia meridionale. Gli intagliatori dell’età
di Carlo Magno hanno padroneggiato il rilievo, riuscendo a trasformare le ispirazioni antiche in un
linguaggio forte e dinamico. Fillitz pensa che il rinnovamento sia stato avviato in Italia del Nord o comunque
da intagliatori originari dell’Italia recatisi alla corte di Carlo Magno. Tra le più antiche testimonianze
dell’assimilazione delle forme “neoclassiche” del VI secolo da parte dell’ambiente carolingio dell’Italia del
Nord vi sono due tavolette in avorio, raffiguranti un Cristo benedicente stante ed un evangelista. Tre
tavolette che paiono provenire dalla decorazione di una croce, anch’esse attribuite a mano italica,
muovono già un passo deciso verso lo stile della “Scuola di corte”. Sembra che tale stile si manifesti
pienamente per la prima volta nell’unica opera datata, la coperta del Salterio di Dagulfo, commissionata da
Carlo Magno, tra il 783 ed il 795, per il papa Adriano I, nella quale non manca nulla. Tra i principali esempi
di questo stile vanno annoverati la coperta dell’Evangelario aureo di Lorsch, il cosiddetto dittico di Harrach,
due intagli raffiguranti le Cristofanie, una crocifissione attorniata da piccole scene cristologiche e un
“Christus victor”, anch’esso incorniciato da una serie di temi neotestamentari. Uno dei vertici della Scuola
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di corte è l’Ascensione di Darmstadt, il cui autore ha saputo infondere nei personaggi una tale intensità
espressiva che il racconto, pur mantenendo un carattere epico, si trasforma in una visione. Il rilievo reca già
in sé i germi dei principi figurativi romanici.
A differenza degli altri settori artistici, l’oreficeria dell’età di Carlo Magno è poco nota, in quanto se ne sono
conservati pochissimi esempi. Tutto porta a credere che i procedimenti e le forme ereditati dal mondo
barbarico, vale a dire la tecnica del cloisonné, l’incrostazione, la decorazione geometrizzante e quella
policroma, occupassero sempre un posto molto importante, se non preponderante, nell’armamentario di
mezzi artistici e tecnici dell’orafo. Nell’oreficeria di questo periodo era presente la variante anglo-sassone
del tardo stile zoomorfo. L’esempio più celebre è il piatto posteriore della rilegatura dell’Evangeliario di
Lindau, databile intorno all’800 e proveniente da un non identificato atelier monastico della Germania
meridionale. Dalle fonti scritte risulta che gli orafi dell’età di Carlo Magno impiegavano la decorazione
figurata a sbalzo. L’imperatore stesso commissionò dei paliotti rivestiti di rilievi per la cattedrale di Colonia
e per l’abbaziale di Saint-Medard di Soissons, dei quali non si è però conservata traccia. Un’idea della
toreutica istoriata l’abbiamo soltanto da un disegno del XVII secolo che riproduce il reliquiario della Santa
Croce offerto intorno all’820 da Eginardo alla collegiata di Sankt Servatius di Maastricht. Questo documento
ha un valore eccezionale in quanto testimonianza della corrente classica nell’oreficeria: il basamento della
croce imitava un arco di trionfo antico e i suoi rilievi si ispiravano ampiamente al tema del trionfo degli
imperatori romani. Durante il regno di Carlo Magno la situazione della miniatura e della scultura in avorio si
lasciò sommariamente descrivere sulla base di un grande centro artistico, quello di corte, e di parecchi
ambienti provinciali di minore importanza. Il quadro muta dopo la morte dell’imperatore (814). Lo
scriptorium palatino continua a lavorare per un certo periodo di tempo ma perde la sua posizione centrale
rispetto agli altri ambienti. Nascono allora l’una dopo l’altra e si sviluppano parallelamente delle nuove
grandi scuole, che traggono insegnamento dall’arte della corte. Con la comparsa di differenti ambienti
artistici la miniatura carolingia giunge alla propria maturità, ma anche ai propri limiti. La più antica delle
nuove scuole, quella di Reims, si colloca nella diretta discendenza dei miniatori di corte, specialmente di
quelli a cui vengono attribuiti i manoscritti del gruppo dell’Evangelario dell’Incoronazione. Il suo centro era
il monastero di Hautvillers e il trasferimento di libri e di artisti si deve all’arcivescovo Ebbone, già
bibliotecario del palazzo imperiale. Per lui lo scriptorium di Hautvillers ha eseguito intorno all’820 un
magnifico evangeliario, oggi conservato a Epernay, che costituisce uno dei capolavori della scuola. Il suo
programma decorativo segue quello dei manoscritti della corte e gli evangelisti di Reims hanno i loro
parenti più prossimi tra i santi che decorano l’Evangeliario dell’Incoronazione. La resa molto sfumata dei
volumi crea l’illusione di forme tridimensionali immerse nella luce, ma la classica calma dei volti e degli
indumenti cede qui il posto all’intensità dell’espressione. La tavolozza, in cui dominano l’oro, il bianco, il blu
e il verde, dà un’insolita lucentezza a figure, paesaggi, edifici e oggetti, contribuendo ad animare le forme.
L’ambiente artistico di Reims dimostra la massima padronanza dei mezzi lineari nel Salterio di Utrecht,
opera considerata come uno dei vertici di tutta la produzione medievale di libri illustrati. I suoi disegni a
penna e inchiostro bruno accompagnano i Salmi e i pochi altri testi sacri che venivano abitualmente uniti al
salterio. Tranne poche eccezioni si tratta di illustrazioni letterali. Vaste composizioni panoramiche riunivano
in una sola immagine i soggetti più diversi. Questa folla di figurine conduce un’esistenza agitata sullo sfondo
di vasti paesaggi rocciosi e nelle cinte di immense città. La forma obbedisce completamente alla potente
visione dell’universo poetico dei Salmi, ma ne è contemporaneamente il fattore determinante. Le immagini
del Salterio di Utrecht riuniscono in sé l’ordinario e il sublime. Da più di un secolo ci si sforza soprattutto di
definire le fonti stilistiche e iconografiche di questa serie di immagini unica nel suo genere. Nel salterio si
assiste all’incontro tra i modelli antichi e le capacità creative carolinge. Lo stile pittorico ed illusionistico di
Reims prosegue con altri manoscritti, tra cui un salterio di Troyes, uno di Oxford e l’evangeliario detto di
Incmaro. Nello Scriptorium di Hautvillers non si lavorava unicamente su libri di contenuto religioso, tant’è
che ne sono uscite anche opere scientifiche.
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Intorno all’830 inizia ad affermarsi un altro grande centro della miniatura della Francia occidentale, lo
scriptorium dell’abbazia di Saint-Martin di Tours, che produrrà i suoi migliori manoscritti all’epoca degli
abati Adalardo e Viviano, finché la distruzione di Tours da parte dei Normanni, avvenuta nell’853, porrà fine
alla sua attività artistica. Lo stile di Tours è completamente differente da quello di Reims in quanto
l’illusionismo di origine antica, con le sue forme pittoriche, vi compare ancora, ma assoggettato a un
linguaggio figurativo sobrio, portato alla descrizione della struttura reale del soggetto, alla definizione della
sua materia e del suo volume. La solida silhouette del personaggio, il disegno dai forti contorni, persino un
accenno di prospettiva nella rappresentazione architettonica, fanno sì che le scene godano nel complesso di
un ampio respiro. Lo scriptorium di Tours si è adoperato a illustrare la Bibbia e il sacramentario ed è stato il
primo, nell’impero carolingio, a creare il ciclo narrativo, l’immagine della cerimonia liturgica, la scena della
dedicazione e il ritratto del sovrano. Si è concordi nel pensare che i miniatori di Saint-Martin avessero sotto
gli occhi un Bibbia miniata antica e che le tre grandi copie realizzate a Tours, la Bibbia di Bamberga, la
Bibbia di Grandval e la Bibbia di Viviano, dipendano da tale modello, soprattutto per quanto riguarda i cicli
della creazione dell’uomo e di Mosè. Gli artisti di Tours non erano dei servili imitatori: il loro linguaggio ha
saputo trasformare il substrato antico in un racconto molto strutturato, in cui cose e personaggi rivelano un
realismo completamente diverso da quello noto dalla pittura del V e del VI secolo. L’innovazione
contraddistingue anche le rappresentazioni non narrative. L’immagine del Cristo in Maestà diviene una
potente composizione politematica che mostra il Salvatore come principio stesso dell’armonia tra Vecchio e
Nuovo Testamento, attorniato da profeti ed evangelisti. Talvolta, quando il centro della composizione è
occupato dall’agnello di Dio, l’accento cade sulla centralità del sacrificio del Calvario nella storia umana.
Queste immagini composite inaugurano un genere di miniature medievali a sé stante. Le rappresentazioni e
i simboli, disposti in scomparti geometrici, sono presentati in strettissimo ordine gerarchico e la
composizione assume il carattere di una chiara esposizione dottrinale, centrata su di un tema principale.
Questo genere di miniatura verrà più tardi sviluppato in certe scuole preromaniche e romaniche.
Tra le innovazioni introdotte dai miniatori di Tours doveva rivelarsi particolarmente fecondo il
rinnovamento dei temi laici, tra cui l’effige del sovrano. L’immagine del re in trono, attorniato dalla sua
guardia, rispettava in linea di massima le formule elaborate dall’arte ufficiale romana. La superba scena di
dedicazione che mostra Carlo il Calvo nell’atto di ricevere il libro dalle mani dei monaci di Tours era invece
una grande novità, che inaugurava una grande famiglia iconografica destinata a perpetuarsi sino alla fine
del medioevo. Il retaggio classicheggiante degli artisti di corte ha svolto un ruolo relativamente limitato
nella formazione dello stile della scuola di Tours, ma altrove il suo influsso è stato determinante. Tre grandi
ambienti artistici vi hanno attinto: la scuola di corte dell’imperatore Lotario, lo scriptorium di Metz all’epoca
del vescovo Drogone e l’atelier che lavorava per Carlo il Calvo, re della Francia Occidentalis e, in seguito,
imperatore. Si pensa che sia l’ambiente di Reims ad avere contribuito a una così ampia diffusione dei valori
pittorici propri della tradizione classicheggiante, anche se non dappertutto. Lo scriptorium che lavorava per
Lotario, forse attivo nella stessa Aquisgrana, sembra riconnettersi direttamente alle scuole della corte di
Carlo Magno. Nelle miniature di Metz e in quelle della scuola di Carlo il Calvo si riconosce senza difficoltà
l’influsso dello stile di Reims, come dimostrano il disegno rapido, i tratti nervosi, i tocchi leggeri, la notevole
capacità di passare dai lumeggianti chiari ai colori scuri e densi, malgrado le forme costruite con tali mezzi
non rivelino più l’agitazione tipica di Reims e l’illusionismo sia quasi assente. Si è già osservato a proposito
di Tours che la miniatura carolingia del secondo terzo del IX secolo si svolge risolutamente alla
valorizzazione della tridimensionalità e questa tendenza contraddistingue anche l’ambiente di Metz e la
scuola di Carlo il Calvo. La posa e i gesti sono in accordo con i volumi del corpo, la disposizione del
panneggio rispetta l’anatomia. Il linguaggio di Metz si affina in modo particolare nel Sacramentario di
Drogone, capolavoro della scuola, databile alla metà del IX secolo, le cui iniziali ospitano minute scene
bibliche che si distinguono per la ricercatezza delle composizioni, in cui sono riunite preziose figurine. Si
osservi che l’autore della decorazione ha introdotto nella miniatura carolingia una folla di temi nuovi, tra
cui le scene liturgiche e le immagini relative al Nuovo Testamento. Differente è l’idioma dei miniatori di
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Carlo il Calvo, che congiungono tradizione pittorica di Reims con la ricerca tridimensionale caratteristica di
Tours. La mobilità delle forme è perfettamente controbilanciata da un’accurata resa dei volumi. La
miniatura carolingia è qui al suo apogeo: la lezione dell’antichità è ancora ben percepibile ma il linguaggio
preso in prestito si trasforma definitivamente in uno stile originale e autonomo. La scuola di Carlo il Calvo si
distingue anche per l’impareggiabile repertorio iconografico, come dimostrano i temi delle miniature che
decorano in sacramentario della Biblioteca Nazionale di Parigi: l’incoronazione simbolica di un re cristiano;
Gregorio Magno, autore della raccolta; Cristo in croce; la Maiestas Domini. Nel Salterio di Carlo il Calvo
figurano David con i suoi musici, il re Carlo in trono sotto un baldacchino e san Gerolamo, autore della
traduzione dei Salmi. Nel Libro di preghiere di Carlo il Calvo compare una delle più antiche rappresentazioni
di un atto di pietà individuale, con il re che si prosterna in preghiera davanti a Cristo crocefisso.
L’evangeliario di Carlo il Calvo dell’870, noto come Codex aureus di Sant’Emmeram comprende undici
miniature a piena pagina e numerosi incipit a decorazione vegetale e geometrica, mentre una
composizione svolta su due pagine mostra il re dei Franchi nell’atto di adorare l’Agnello salvifico, con il
sovrano posto dunque sullo stesso piano dei vecchi dell’Apocalisse. La miniatura colloca il sovrano in cielo,
elevandolo al di sopra di ogni altra creatura terrena, un’immagine che segna un passo importante
nell’evoluzione dell’iconografia politica. È noto il nome di uno dei miniatori della scuola: si tratta di
Liutardo, il quale ha lasciato la propria firma nel Salterio di Carlo il Calvo. Il più suntuoso dei manoscritti
realizzati per Carlo il Calvo è la Bibbia di san Paolo fuori le mura, dell’870-875, che in virtù del proprio stile
occupa una posizione particolare nella miniatura del tempo: pur appartenendo al filone di Reims, essa non
si lascia infatti classificare tra le opere della scuola di corte, donde le difficoltà di attribuirla ad uno
scriptorium preciso. Il manoscritto è importante per la ricchezza decorativa, in quanto comprende 37
pagine di incipit e 24 grandi miniature, a illustrazione di una scelta di libri dell’Antico e del Nuovo
Testamento. Le forme agitate delle figure e del paesaggio e la vivacità dei colori contribuiscono ad instillare
nell’immagine l’impressione del movimento. In questo universo pittorico diversificato era presente quella
componente quasi immutabile che era l’ornamentazione insulare. Evolvendosi poco essa rimaneva
essenzialmente fedele alla grammatica e al vocabolario originari. Il fenomeno è tanto più meritevole di
interesse in quanto nell’Inghilterra del IX secolo questa decorazione veniva progressivamente rimpiazzata
dall’ornamentazione carolingia di provenienza continentale. Nei manoscritti prodotti alla corte di Carlo
Magno le miniature che precedevano ciascun vangelo rispettavano il programma decorativo stabilito dalla
miniatura insulare.
Nelle opere della scuola di Reims, l’ornamentazione di origine insulare si distingue per la notevole purezza
strutturale e per l’eleganza del disegno, mentre in quelle della scuola di Carlo il Calvo rivela una chiara
esuberanza di forme, congiunta ad una ricca decorazione vegetale, dando origine ad effetti quasi barocchi.
Negli atelier monastici della Francia nord-orientale, l’ornamentazione assume infine una tale autonomia
espressiva e una tale importanza, nella decorazione del libro, da divenire il carattere stilistico determinante.
Le opere di queste scriptoria vengono raggruppati sotto la denominazione di scuola franco-sassone, o
franco-insulare, ma è opportuno precisare che si tratta piuttosto di una corrente stilistica abbastanza
sporadica e non di una scuola propriamente detta. La migliore ornamentazione di questo genere decora il
Salterio di Ludovico il Germanico, la cosiddetta Seconda Bibbia di Carlo il Calvo, dell’871-873, il cosiddetto
Evangeliario di Francesco II e l’Evangeliario di Praga, manoscritti in cui la raffigurazione umana, peraltro
abbastanza rara, dipende direttamente dalla tradizione di Reims.
La parte orientale dell’impero non aveva il medesimo peso artistico della Lotaringia e della Francia
Occidentalis. Rari erano gli scriptoria all’altezza delle scuole di Tours e di Metz ma è importante sottolineare
che nella metà orientale dell’impero la Chiesa ha profondamente impiantato le proprie radici, divenendovi
un efficacissimo fattore di civiltà. I monasteri e le cattedrali fondati a est del Reno sono divenuti molto ricchi
disponendo perciò di grandi mezzi finanziari per soddisfare ogni necessità nel campo degli oggetti di culto e
dei libri. L’ars sacra sviluppatasi nelle regioni germaniche dell’Impero era meno innovatrice sul piano del
linguaggio artistico ma, nelle funzioni e nei programmi, non si allontanava molto dalle norme fissate nei
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primi centri della civiltà carolingia. Gli inizi della miniatura carolingia germanica sono contraddistinti
dall’assimilazione dei modelli della Schola palatina. Il tema principale dei più antichi programmi decorativi è
costituito dai ritratti di evangelisti.
Il primo scriptorium che abbia creato delle opere originali è Fulda, negli anni 822-842, ai tempi di Rabano
Mauro (780-856), discepoli di Alcuino a Tours, ed egli stesso teologo rinomato e poeta molto apprezzato.
Ad assicurare un posto importante al celebre monastero di san Bonifacio non è tanto lo stile, in cui si
incontravano reminiscenze provenienti dall’Italia e influssi di Tours, bensì l’iconografia. Intorno all’840
Rabano Mauro redasse una nuova versione del suo poema e ordinò ai suoi monaci di illustrare l’opera.
Queste miniature danno vita ad un programma iconografico unico nel suo genere e preannunciano i nuovi
temi della miniatura.
Di tutti gli scriptoria della Francia Orientalis, il più ricco di inventiva era senza dubbio quello di San Gallo. In
un primo tempo lo spirito innovatore ha qui invaso il repertorio e lo stile dell’ornamentazione. Già nei
manoscritti realizzati ai tempi dell’abate Gozberto (816-837) i motivi di origine insulare e merovingia
mutano aspetto: più grandi e meglio strutturati, si riuniscono in nuove composizioni, organiche e dinamiche
al tempo stesso, mentre il sistematico impiego di oro e argento conferisce loro un particolare splendore.
Tale linguaggio si trasforma poi in uno stile decorativo ben individualizzato ai tempi dell’abate Grimaldo
(841-872), quando gli artisti raggiungono l’equilibrio tra le forme geometriche di origine insulare e il libero
movimento dell’ornamentazione vegetale. L’ornamentazione che ne deriva è abbastanza vicina allo spirito
delle pagine di incipit della scuola di Carlo il Calvo, come testimonia nel migliore dei modi il Salterio di
Folchard, il quale comprende una serie di figure dei santi e di scene della vita di David collocate sotto
arcate. Anche qui si osservano delle analogie con lo stile dei miniatori di Carlo il Calvo.
La miniatura carolingia di San Gallo giunge all’apogeo, ma anche al termine del suo ciclo, ai tempi dell’abate
Salomone (890-920), cancelliere del regno orientale. Il cosiddetto Salterio aureo della fine del IX secolo
illustra bene la svolta. Le sue tredici miniature, che narrano la storia di David, sono in effetti profondamente
radicate nel vocabolario figurativo carolingio della seconda metà del IX secolo, ma in esse è già visibile un
cambiamento, nel senso che la continuità spaziale e il modellato dei volumi sono quasi totalmente assenti
da questi disegni resi sulla pergamena in modo alquanto sommario, donde le forme piuttosto scarne.
L’artista non si ferma sui dettagli e si produce in una narrazione condensata; l’efficacia espressiva del
movimento e la resa sintetica degli oggetti hanno la meglio sulla veridicità dei rapporti tra personaggi della
scena e sull’aspetto reale delle cose; la carica espressiva e il ritmo sono nuovi valori destinati a dominare la
pittura alle soglie dell’epoca romanica.
Gli stili della miniatura carolingia interessavano anche l’intaglio in avorio, secondo una correlazione già
osservata per l’ambiente artistico della corte di Carlo Magno. Il fenomeno si è ripetuto più tardi, quando i
modelli stabiliti dalla Schola palatina si sono progressivamente diffusi per tutto l’impero carolingio. La
corrente classicheggiante dell’Evangelario dell’Incoronazione ha avuto la meglio e il tramite principale
sembra essere stato Reims. Tra i più antichi esempi di questo stile scultoreo illusionista vanno annoverati
una Crocifissione di Londra, una Crocefissione con le donne al sepolcro di Liverpool e un San Giovanni
Evangelista di Montpellier. Questi rilievi dal modellato sfumato, con figure calme, dal portamento quasi
classico, si ricollegano alle miniature della scuola di Lotario e tradiscono anche un’eco diretta dei primi avori
cristiani. Indipendentemente dai loro legami con la miniatura contemporanea, gli avori carolingi
continuavano a cercare l’ispirazione direttamente nell’arte antica, come dimostrano in modo
particolarmente eloquente le opere della cosiddetta scuola della Valle della Loira, estranee al filone di
Reims.
Gli intagliatori d’avorio del IX secolo seguivano per lo più l’orientamento stilistico avviato dalla scuola di
Reims; le forme pittoriche ed agitate, le composizioni tumultuose e preziose in cui si interpenetrano il
paesaggio e la figura umana, si manifestano infatti nella maggior parte delle opere dell’ultimo sessantennio
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del IX secolo. il più fedele a questo retaggio è il gruppo di rilievi che viene tradizionalmente attribuito a
Liutardo, comprendente i due piatti della coperta del Salterio di Carlo il Calvo, due rilievi della rilegatura del
Libro d’ore del medesimo re, un Miracolo di Cana di Londra e la rilegatura appartenente al Codex aureus di
sant’Emmeram, che dall’XI secolo è passata a contenere l’Evangelario di Enrico II. Questi avori da un punto
di vista stilistico ed iconografico si ricollegano direttamente al Salterio di Utrecht, di cui traducono in un
raffinato altorilievo la straordinaria visione della turbolenza della condizione umana. Lo stile della scuola di
Carlo il Calvo trova delle dirette analogie in un gruppo di avori che traspongono il linguaggio di Reims in
forme più calme e in un tipo di raffigurazione dai volumi piuttosto marcati. Le differenti tendenze stilistiche
di questo gruppo sono illustrate dalla Vergine e dal San Giovanni Evangelista che decorano la rilegatura di
un messale di Saint-Denis, dalla rilegatura dell’Evangelario di Noailles, dai frammenti di un cofanetto
decorato con apostoli e da un intaglio con la rappresentazione di David assimilato ad un re carolingio.
Un altro modo ancora di avvicinare il forte retaggio di Reims ha visto la luce negli ateliers di Metz e in altri
centri della Lotaringia dediti all’intaglio in avorio. Gli autori delle opere più antiche, che vengono riunite
nella denominazione di “prima scuola di Metz” (metà del IX secolo), conservano la scioltezza di movimento
e il portamento classico dei personaggi, ma attenuano l’agitazione delle forme. Nella seconda metà del IX
secolo il linguaggio si irrigidisce progressivamente, le figure diventano pesanti, mentre un trattamento
lineare ed uniforme del panneggio inizia a sostituirsi alla diversificata pieghettatura del passato. Tra i
numerosissimi prodotti della “seconda scuola di Metz” occorre citare una serie di Crocifissioni, un rilievo
con scene cristologiche e soprattutto il trono di Carlo il Calvo, divenuto in seguito una grande reliquia
romana, la “cattedra di San Pietro”. Quest’ultima opera costituisce un eccellente esempio del gusto molto
pronunciato per l’ornamentazione ricca e raffinata proprio degli ateliers della Lotaringia. Gli avori carolingi
hanno enormemente ampliato gli orizzonti artistici dell’Europa del IX secolo, non soltanto resuscitando
un’arte caduta in desuetudine e preparando, con la rinata padronanza di differenti forme di rilievo, la
rinascita della scultura in pietra, ma anche contribuendo ad arricchire il repertorio iconografico medievale.
Altrettanto notevole e denso di conseguenze è stato lo sviluppo della toreutica. Gli orafi del IX secolo hanno
radicalmente mutato le forme dell’incrostazione, a tradizionale tecnica decorativa ereditata dall’epoca
precedente, disponendo le pietre preziose e le paste vitree in composizioni sapientemente strutturate,
congiungendole anche con il rilievo e con altre tecniche molto antiche. Altre ancora, come ad esempio lo
smalto cloisonné, molto verosimilmente importato dall’Italia, sono divenute una componente sempre più
significativa del linguaggio decorativo. Il rilievo raro e sovente primitivo ai tempi di Carlo Magno è diventato
un comune mezzo decorativo. Le opere realizzate per Carlo il Calvo o comunque nell’ambiente artistico
creatosi attorno a questo grande committente costituiscono il vertice dell’evoluzione. I cambiamenti
possono essere seguiti abbastanza bene a partire dal quarto decennio del IX secolo, periodo a cui vengono
attribuite due delle maggiori opere carolinge, ossia la cosiddetta Croce delle Ardenne e la borsa-reliquiario
di Santo Stefano di Vienna. Si tratta di due delle più antiche opere in cui compaia una disposizione regolare
di pietre tagliate a cabochon e incassate “a martello”. Esse sono anche parzialmente rivestite di sottili
lamine auree lavorate a sbalzo; la Croce delle Ardenne è decorata da un racemo di vite, tema cristologico,
mentre sul reliquiario di Santo Stefano si trovano dei medaglioni di soggetto allegorico. Le opere che si
ritengono commissionate da Carlo il Calvo o che mostrano stretti rapporti stilistici con l’arte del sul tempo
sono molto numerose. Le più sontuose sono quelle che recano dei rilievi, ossia la rilegatura del Codex
aureus di sant’Emmeram, il piatto anteriore della rilegatura dell’Evangelario di Lindau, il paliotto di Saint
Denis e l’altare portatile detto del re Arnolfo di Carinzia. Quest’ultimo si distingue per la scelta del tutto
eccezionale di soggetti neotestamentari. È difficile decidere che cosa sia più da lodare in questi gioielli della
toreutica: la perfetta armonia tra la struttura e la decorazione dell’oggetto; l’equilibrata distribuzione dei
differenti mezzi espressivi, o la raffinatezza dei rilievi. Gli orafi di Carlo il Calvo hanno definitivamente
riconciliato le due grandi tradizioni medievali delle arti suntuarie, la mediterranea e la “barbarica”,
gettando le basi dell’oreficeria del X e dell’XI secolo.
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