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Riassunto affermazione e ricerca di senso

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Affermazione e ricerca di senso f nuvoli
Pedagogia e Didattica Speciale (Università degli Studi di Cagliari)
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AFFERMAZIONE E RICERCA DI SENSO di Felice Nuvoli
Presupposti antropologici dell’educare
Nozioni di avvio.
L’uomo educa e si educa. Non c’è popolo né civiltà senza educazione. Essa appartiene alla nostra
vita ed è determinante soprattutto per la crescita. Ognuno di noi ha ricevuto un’educazione più o
meno completa ed è stato oggetto di cura e sollecitudine orientative per la sua crescita personale e
per il suo inserimento nella società. Attraverso un processo di inculturazione, familiare e civica, ha
preso forma la sua umanità individuale e sociale.
L’educazione inizia con l’uomo: già l’azione protettrice dei genitori, tendente a garantire e favorire
lo sviluppo dei figli, ha una valenza educativa; così pure la premura perché il piccolo che si inoltra
nella vita eviti dannose esperienze negative. Sicuramente è educazione lo sforzo perché chi viene al
mondo sia messo in condizione di conoscere nozioni, attitudini, abilità e disposizioni idonee a
formare la sua personalità.
Nel linguaggio corrente, si parla di Educazione per intendere una serie di attività volte alla crescita
umana, generalmente attribuite ai genitori, ai maestri, agli insegnanti. A queste figure vengono
riconosciuti la responsabilità e il ruolo di nutrire, curare, formare le nuove generazioni. Non può
sfuggire il fatto che non esiste situazione umana in cui non si svolgano attività educative, ovvero
una trasmissione di disposizioni, di abilità e di contenuti culturali.
Vivere in una condizione sociale tale da non poter educare i fili significa stare in una società malata
che mostra l’assenza di giustizia e vitalità di tutto il corpo sociale.
L’educazione esiste fin dal momento in cui l’uomo è diventato uomo. L’uomo non nasce già adulto
e maturo ma lo diventa mediante l’educazione che forma la persona e la integra nella società.
L’inserimento sociale non conclude, ma continua il compito educativo, perché se l’uomo non
frequentasse i suoi simili, altri uomini in grado di comunicargli delle conoscenze già acquisite,
pregiudicherebbe il suo sviluppo. Nessun uomo singolo basta interamente a se stesso.
Ognuno di noi è irripetibile solo in rapporto all’altro: io non potrei comprendere neppure me stesso
senza un tu con cui comunicare, vivrei senza parola, e quindi con una ragione dormiente.
Il bisogno di educazione emerge nei momenti cruciali delle varie fasi di crescita personale e sociale,
non è perciò creato dall’educatore. A lui spetta il compito di rendere la persona più cosciente delle
sue risorse e saper pertanto riconoscere i suoi valori.
Nessuno può bastare da solo alla sua educazione; in realtà essa è per l’uomo una delle principali
forme di aiuto reciproco.
Se l’educazione fa parte dell’uomo, negargliela significa impedirgli di diventare se stesso.
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Nell’atto di educare si sviluppa, si arricchisce, si compie l’uomo in quanto uomo.
Il rapporto educativo è un rapporto di generazione che scaturisce da un atto d’amore, chi educa
stabilisce con l’educando una vera e propria relazione di paternità e figliolanza.
L’uomo non è qualcosa di già fatto, ma anche un compito e un dovere. Per designare la crescita
propria dell’uomo non basta parlare di cambiamento; il suo divenire è umano se è uno sviluppo
perfettivo di tutte le sue facoltà sino alla loro piena maturazione. Grazie a tale sviluppo l’uomo si
affina, si arricchisce in senso fisico, affettivo, intellettuale, morale, religioso.
Posto che l’educazione, dal punto di vista antropologico, è l’insieme di progetti, azioni e mezzi per
far pervenire l’uomo alla sua maturità personale e sociale, è chiaro che l’educatore non si può
limitare a insegnare due o tre cose. Chi educa non deve mai perdere di vista la finalità formativa
dell’uomo in quanto uomo. Una somma di specifiche abilità tecniche non garantisce di per sé la
formazione della persona.
Educare è molto più di un esercizio tecnico, è consapevolezza di rivolgersi a qualcuno dentro un
rapporto che stabilisce la parola offerta e raccolta nel più intimo e originale centro vitale, qual è la
libertà chiamata col suo nome proprio. Nello stesso punto avviene l’incontro tra verità e
responsabilità, che apre le strade alla maturità umana.
Per educare bisogna: favorire il vigore della volontà (così da permettere allo sguardo della ragione
di cogliere il senso delle cose) e alla libertà la capacità di decidere e di agire e spingere la vita verso
“l’ideale” , da non intendersi come un sogno evasivo ma come l’esigenza più profonda per cui il
cuore dell’uomo si sente fatto: comprendere ciò che bisogna fare nella vita per agire rettamente.
L’ideale è una norma per l’azione.
Per un educatore il criterio della fedeltà all’ideale è un riferimento obbligato, ma nello stesso tempo
il meno garantito, il meno propenso a lasciarsi definire e a cristallizzarsi in regolamenti astratti.
La necessità dell’educazione nella formazione dell’uomo non è presente solo a un certo livello della
sua vita, ma attraversa l’intera esistenza. Senza tralasciare il valore dell’infanzia e dell’adolescenza
occorre saper stimare tutte le età della vita. Vero che quanto l’educazione ha trascurato negli anni
della nostra infanzia non potrà essere ripreso a piacimento. Ogni età ha bisogno di cure educative.
Se a un certo punto l’opera di un educatore può dirsi conclusa, non è così per il compito personale
di educarsi il quale durerà tutta la vita.
Educarsi ed educare non sono doveri reversibili e alienabili, né attività che interessano solo alcuni
privilegiati o alcune fasi della vita. Si potrebbe dire che ogni uomo è sempre educatore ed
educando, perché ognuno è sempre posto in rapporto con gli altri, e procura e subisce
comportamenti altrui.
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Poiché si tratta di guidare lo sviluppo dell’individuo fino alla pienezza propria della personalità,
l’educazione è di tutto l’uomo e riguarda tutto l’io nella sua intera singolarità, in tutti i suoi aspetti
(fisici, psichici, biologici ecc) nessuno escluso.
Ogni età dell’uomo ha il suo kaipos, il suo splendore, il suo momento privilegiato per decidere della
propria pienezza. L’uomo è sempre educabile: chi ha questa consapevolezza conviene che vivere e
formarsi sono un tutt’uno.
Consapevolmente o meno, l’uomo si educa e a sua volta educa nel corso di tutta la sua esistenza, la
chiusura dello slancio formativo, sono il segno, non si un’avvenuta compiutezza e completezza
dell’uomo, ma di un’anomalia, di una de-formazione, di un’esistenza che non procede più.
Si osserva, invece, che il processo educativo passa con il trascorrere degli anni, da una fase iniziale
di massima intensità a fasi progressivamente meno intense, senza mai concludersi, in tutto l’arco
dell’esistenza ci saranno tra gli uomini reciproche influenze educative che concorreranno a un
incremento di formazione.
Natura, cultura e pedagogia.
Uno dei paradossi più interessanti dell’uomo è nel suo evidente limite, posto com’è in un punto
dello spazio e in un momento del tempo, esprime una tensione verso l’infinito eccedente le sue
condizioni naturali. La concretezza della persona è la sua universalità e la persona può dirsi
“l’universale concreto”. Tutto nell’umano testimonia di un incontro tra natura e cultura. Il cervello
con cui pensiamo, la bocca con cui parliamo, la mano con cui scriviamo, sono organi biologici e
totalmente culturali.
L’uomo è spazio biologico di vita e storia personale di libertà, natura e cultura elementi dati o da
acquisire. Natura significa “ciò a cui un essere è destinato dalla sua nascita” , si osserva che proprio
nell’orizzonte dell’educazione il rapporto dell’uomo col mondo e con la realtà sociale può stabilirsi
secondo la forma dell’umano; la quale unisce natura e cultura. L’uomo ha una natura di cui nelle
sue azioni non può non tenerne conto, egli si trova anche coinvolto in un passato dategli in
antecedenza e in un avvenire che viene a lui riservandosi l’imprevisto della fine, al punto da
prendere coscienza di sé soltanto se si considera come il risultato di un processo storico. In questo
modo, attraverso la cultura, l’uomo cambia se stesso configurando la sua natura.
Spesso si afferma che l’educazione è anche un atto culturale, un atto in grado di produrre un certo
affinamento del soggetto umano sia nella sua espressione fisica sia in quella psichica e spirituale.
“Cultura” dal latino colere che significa “coltivare” e curare, in questo caso la cura dell’uomo.
L’educazione è da comprendere come la promozione di un corretto rapporto tra natura e
cultura, tra struttura e storia, tra dimensione personale e dimensione sociale.
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Tenendo conto che la cultura non esclude la natura, ma è il nostro modo specifico di essere,
l’educazione si realizza come espressione coerente e formativa della natura umana. Riconosciuta la
“cultura” come il fattore distintivo dell’uomo, si dovrà anche comprendere l’educazione come
l’insieme dei processi e dei comportamenti che permettono all’uomo di accedere alla cultura.
Meglio intendere per cultura un complesso non solo di nozioni, ma anche di norme, tecniche,
creazioni caratterizzanti un determinato livello di civiltà.
È mediante la cultura che l’uomo raggiunge un livello di vita pienamente umano. La cultura può
essere inoltre “l’esercitazione delle facoltà spirituali, mediante la quale queste sono poste in
condizioni di dare frutti più abbondanti e migliori che la loro natura consenta”, allora si comprende
come educazione e cultura tendano a identificarsi.
Non esiste un modello culturale in cui non vi siano attività educative.
L’educazione è di certo cultura, infatti senza la cultura l’uomo non raggiunge la propria “forma”, se
non al termine di un processo di formazione necessario per umanizzare le molteplici esigenze ed
esperienze della vita, informando e trasformando il diverso materiale di cui l’esistenza è fatta.
L’uomo non può essere quello che è, se isolato dagli animali, dalle piante, dal vento e dall’acqua,
dal cielo e dalla terra: l’uomo e la natura costituiscono un mondo che deve essere compreso nella
necessaria interdipendenza di tutti i suoi aspetti.
La stessa esperienza della libertà dipende, oltre che dall’ambiente psichico, dall’ambiente fisico e
persino dall’ambiente chimico, ossia dalle abitudini elementari.
L’uomo e il mondo non sono semplicemente posti l’uno accanto all’altro e neppure opposti l’uno
all’altro come due zone separate. Sebbene i due termini non si identifichino, non bisogna cambiare
la loro reciproca tensione in una separazione. Neanche si può evitare al termine mondo di assumere
un significato antropologico. Grazie all’uomo il mondo prende nuova forma, si costruisce, ma si
deforma anche e si scompone. Perché l’uomo faccia in modo che la natura non sia deformata dal
potere della tecnica, ma sia resa più umana e familiare, molto consiglia che si prenda distanza dalla
consuetudine, favorita anche dalla scienza moderna, secondo cui l’uomo deve considerarsi come
padrone indiscusso della natura; ma la “signoria” dell’uomo sul mondo non lo autorizza a
saccheggiarlo, a sfruttarlo arbitrariamente, ma richiede una cura responsabile, ormai urgente per la
sua stessa sopravvivenza.
Il rispetto dell’uomo richiede la salvaguardia della natura; un uomo che non rispetta la dimensione
della natura assume un comportamento innaturale. Rendere sempre più profondo lo scisma tra
natura e umano è l’errore da cui un’adeguata educazione deve difenderci.
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La presa di coscienza del congiungimento tra natura e cultura è alla base del problema educativo
nella storia dell’uomo e del suo progredire. Nel tempo, educare, da semplice prassi empirica, giunge
a farsi arte consapevole.
In cosa l’educazione consista e come si debba impartire è un’interrogazione continua; è importante
volgere uno sguardo alla pedagogia la quale non si limita a rilevare e a descrivere i processi
educativi, né a dare delle precisazioni occasionali e frammentarie, ma produce una solo valutazione
ricercandone i principi, le cause, i fini, i mezzi e le istituzioni. Ammesso che è compito della
pedagogia mostrare sul piano della consapevolezza e della riflessione critica come natura e cultura
si completano nell’uomo in un’originale figura, è logico domandarsi se non si possa e non si debba
migliorare quanto ricevuto dalla tradizione e dalla consuetudine. Non basta ripetere le usanze
tramandateci, né è possibile dedurre un valore normativo dalle sole regolarità empiriche.
La pedagogia riflette sull’opera educativa ma non coincide con essa. L’educazione, infatti, è una
vera e propria azione pratica. In pedagogia prevale lo studio sul fare, nell’educazione il saper fare
sul pensare. Se è giusto dire che la pedagogia è la teoria dell’educazione e l’educazione è la pratica
della pedagogia, è anche vero che il pedagogista non può essere un educatore.
La pedagogia ha le sue radici nella vita dell’uomo e la fonte del suo sapere è l’esperienza vissuta del
reale. Essa è una vera e propria teoresi volta a fondare criticamente i principi e le norme della
pratica educativa, a chiarirne i problemi e tentare di oltrepassare i limiti delle soluzioni inadeguate.
All’educatore, che nella sua azione unisce i principi ideali e la cura del particolare, la dottrina e la
vita, la pedagogia offre uno studio su quanto si fa e si deve fare per educare.
La pedagogia fissa obiettivi, orienta, formula direttive al fine di guidare la formazione dell’uomo.
La descrizione e l’interpretazione dei processi educativi si completano con l’analisi critica delle
teorie pedagogiche, la lettura e l’ermeneutica degli autori, lo studio delle istituzioni educative.
L’educazione prima di essere una teoria o una scienza, è un’attività e un vissuto quotidiani.
L’azione pratica di educare è certo un momento di decisione e di scelta che nessuna riflessione
potrà mai sostituire. Anche all’educatore giova pensare, per non lasciare che l’agire educativo si
spezzi in un coacervo di condotte disparate.
Non si educano gli altri senza educare se stessi: si passa da soggetto a soggetto, per suscitare il
soggetto della propria crescita. Chi vuole essere cosciente del compito educativo dovrà riflettere
sulla razionalità propria di tale agire.
Chi si dispone a imparare cosa sia l’educazione presto dovrà misurare la difficoltà di stabilire un
equilibrio tra la riflessione teorica e la pratica educativa.
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Una famiglia di processi: opera della pedagogia precisare la natura e il valore del nostro sviluppo
perfettivo. All’educazione viene affidato il compito di favorire le facoltà fisiche, intellettuali e
morali dell’educando, e quello di assegnarle un fine e cioè sapere cosa si può e si deve fare
dell’educando. Per certi autori l’educazione deve perseguire fini individualisti, per altri, ha carattere
esclusivamente sociale.
Nel linguaggio attuale il termine “pedagogia” significa arte di condurre, di guidare il fanciullo, più
che la pratica di educare indica la teoria dell’educazione; invece l’etico greco richiama direttamente
un’azione educativa e non un discorso logico. Nelle città ellenistiche il nome di pedagogo si dava
allo schiavo, il cui ruolo consisteva nell’accompagnare il figlio del suo padrone dalla casa alla
scuola, e custodirlo dai pericoli della strada. Si riconosce che il fanciullo finiva per ricevere dal
pedagogo non poco della sua educazione morale.
Chi vuole esplorare con serietà il problema educativo deve prepararsi a esaminare una questione di
non facile soluzione, perché intricata di connessioni tra credenze e valori sociali, culturali e politici,
che l’uomo adotta come norme supreme di vita. Assumersi i problemi della formazione, penetrarli e
risolverli criticamente richiede un accurato lavoro e un personale coinvolgimento.
Alla domanda: Che cos’è l’educazione? Non si può rispondere con una definizione a priori e
limitarsi poi a commentarne i termini.
L’intelligenza del processo formativo ed educativo non si dà come una dottrina rigidamente definita
fin dall’inizio, ma si forma in un discorso che si potenzia in grado sempre maggiore, attraverso una
continua verifica empirica e filosofica. L’impazienza di definire contraddice e blocca la necessaria
fiducia creatrice della ricerca. Per questa ragione non pare sia cosa utile proporre da subito una
definizione tale da pregiudicare in partenza ogni ulteriore ricerca, e quindi costituire, una petizione
di principio. Non tutti gli elementi della dottrina pedagogica possono dirsi da subito chiari e precisi;
alcuni di essi esistono da principio come in germe, e solo col tempo potranno essere perfezionati e
definiti.
L’educazione non è qualcosa che si lascia predeterminare una volta per tutte; come la vita, essa è in
continuo divenire. Sempre aperta a eventuali correzioni.
Se il formarsi della persona non può prescindere dalla vita in atto e dalla sua concretezza storica,
allora l’educazione si rivela attraverso un lungo e progressivo lavoro di riflessione che non si limita
ad affermazioni astratte e universali, ma si congiunge all’effettivo dinamismo dell’agire umano.
È innegabile che si può educare in diversi modi. C’è un’educazione quasi “istintiva”,
semplicemente empirica, non consapevole della sua interna unità logica e povera di riflessione
critica. Si pensi alla normale educazione che la famiglia impartisce: essa procede per intuito e per
tradizione, sovente si dimostra occasionale e varia. Talvolta può presentarsi molto liberale, altre
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volte assai rigida. Nessuna meraviglia allora che si facciano rientrare nell’idea di educazione le cose
più eterogenee, senza riuscire a vedere il loro collegamento. È innegabile che una certa educazione
può nuocere allo sviluppo fisico dell’uomo, un’altra ostacolare la sicurezza del suo giudizio e
l’apertura delle sue facoltà intellettuali. Basta poco perché ciò che dovrebbe essere strumento
perfettivo dell’umano diventi occasione di degenerazione.
Solo attraverso l’educazione l’uomo, assumendo la coscienza e la responsabilità di sé, si eleva
dall’individualità empirica della sua dimensione di essere personale, allora riflettere su questo
aspetto della vita può non essere un’esigenza minima, di efficacia ridotta, discutibile. L’educazione
non è una cosa puramente teorica, ma, perché la sua partica non si riduca a pura reattività, deve
esplicitarsi in consapevolezza, indicare i suoi fini e rendere ragione del suo senso autentico.
Il carattere precario e artificioso di molte prescrizioni, e più in generale di molti comportamenti
educativi, non è imputabile semplicemente alla leggerezza o all’ipocrisia degli educatori, ma
talvolta risale a un’insicurezza dovuta all’incapacità di scorgere nella coscienza indicazioni
univoche a sostegno della propria responsabilità.
Nonostante si ammetta che lo studio non sia sufficiente per fornire in maniera univoca e definitiva
l’imperativo concreto di come si educa, bisogna convenire sulla necessità della riflessione per aprire
e delimitare il campo all’interno del quale è possibile e ha un senso una decisione educativa.
L’educazione infatti è termine dal campo referenziale ampio: essa è processo, interazione, evento.
Molto difficile trovare una formula soddisfacente per dire cosa sia l’educazione nei suoi riferimenti,
nella sua tensione, evitando di oggettivarne il dinamismo in uno schema statico. Tuttavia ancora
non si trova un concetto perfettamente in grado di dominare la complessità dell’educazione. Per
vedere più chiaramente la realtà dell’educare nei suoi diversi aspetti e percepire maggiormente le
relazioni altrimenti intraviste soltanto in modo oscuro e vago, sono necessarie accurate distinzioni.
Non può esserci una scienza dell’educazione senza una scienza della diseducazione. Qualsiasi
“progetto” positivo in favore dell’uomo non può evitare di fare i conti con ciò che minaccia
l’umano. Il pensiero per il poter raggiungere un obiettivo arduo molto spesso deve attraversare una
molteplicità di progetti frammentari e contradditori, e quindi procedere per mezzo di scarti e
negazioni. Il fatto che l’educazione possa essere studiata sotto aspetti diversi accredita il carattere
composito del processo educativo.
Il termine “educare” potrebbe derivare da ex-ducere, oppure da educare. Ancora si discute sul
termine latino prevalente del termine. Nel primo caso, il verbo può significare tanto trarre fuori,
quanto avanzare, elevare, condurre da un punto all’altro; frequentemente si cita il significato di
“trarre fuori” e quindi di promuovere la crescita dell’educando, nel senso di agevolare lo sviluppo di
un seme fino alla sua maturazione. Nel secondo caso è preminente il senso di nutrire, allevare,
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curare, ma anche formare o istruire. L’originale polisemia della parola richiama a una pluralità di
dimensioni operative innegabilmente presenti nell’educazione.
Assai stimolante l’icona dell’educare come “condurre via” , efficace l’immagine di educazione
come un portare all’aperto, essa suggerisce di intendere l’educazione come un condurre l’uomo
verso la sua manifestazione. Il nostro io presto si rivela un angolo aperto all’infinito, incapace di
chiudersi resta chiuso in un qualsiasi recinto. Si potrebbe pertanto dire che l’educazione è aiuto
nello sviluppo, e quindi “coltivazione” del vivente; ma è anche passaggio dalla natura alla cultura,
attraverso la trasmissione di un patrimonio di conoscenze e stili di vita che richiedono di essere
accolti e sviluppati. Bisogna sempre rispettare l’originale interiorità della persona, che nessuna
educazione può produrre dal di fuori, ma solo contribuire a risvegliare. Al riguardo, chi educa deve
saper “colpire” l’educando nel punto focale della sua responsabilità, per provocare il
coinvolgimento consapevole e libero nella formazione della sua persona.
Educere ed educare possono rivelarsi come concetti chiave che aprono sull’intero del processo
formativo; sono differenti, ma, quando li si comprende rimandano l’uno all’altro. Perciò, senza
rinunciare alla loro distinta funziona, nel corso del divenire perfettivo della persona riescono sia a
coesistere l’uno accanto all’altro sia a succedersi l’uno all’altro, in modo tale che l’uno possa
schiudere la comprensione dell’altro e viceversa.
Siamo dunque alle prese con un fenomeno estremamente variegato, perché si possa dare una rapida
e univoca definizione del problema posto dall’educazione.
“l’educazione non è un processo, ma una famiglia di processi, di attività, di risultati, la cui qualità
educativa si definisce in base a criteri di valore che sono anche i criteri della sua unità”.
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Si tratta dell’uomo.
L’educazione è un’opera dell’uomo per l’uomo; la sua costante premura è il rispetto attivo
dell’uomo, e quindi la promozione nell’uomo di tutto ciò che lo fa veramente uomo. Tale sviluppo
perfettivo passa attraverso una serie di eventi, azioni e mezzi, che favoriscono la realizzazione delle
capacità proprie dell’educando.
L’educazione è sempre in vista della libera formazione dell’uomo a divenire veramente se stesso;
perciò tutto il resto o vive di tale realtà o non ha ragione d’essere. La moralità della pratica
educativa consiste nel non contraddire il valore della persona. Prima di pensare a fare acquisire
all’educando abitudini considerate indispensabili a conformarlo alle convenzioni sociali, occorre
permettergli di manifestare ed esprimere la propria unicità; solo allora ci si sforzerà d’incivilirlo.
Bisogna mirare a costruire facendo leva sull’originalità concreta dell’educando, piuttosto che
intervenire a nome di costrizioni sociali.
Solo una presa di coscienza di cosa sia e debba essere l’umano fa risaltare in modo soddisfacente
l’obiettivo dell’educazione, e quindi le possibilità e i limiti del suo agire specifico. Sempre, a questo
livello, la poliedricità dell’educazione scopre la complessa ricchezza della sua problematica.
Discutere sulla natura dell’uomo e su quali siano le sue capacità e possibilità apre il problema di
cosa si possa e si debba fare di tale dote e a quale fine si debba orientarla. Se l’uomo deve
riconoscersi come un essere personale, capace di determinarsi individualmente, benché cosciente di
essere come un atomo nel cosmo, legato alla terra che lo porta e vincolato all’interno della società
umana, allora la questione antropologica è anche questione pedagogica. Una volta ammesso che il
termine “educazione” conduce al termine “uomo” e viceversa, allora il termine pedagogia è
senz’altro correlativo al termine antropologia. In realtà una pedagogia che vuole essere comprensiva
dei vari campi dell’essere riguardanti la nostra formazione è essenzialmente un impegno
antropologico. Vale anche: un’antropologia integrale è intimamente pedagogica.
Poiché l’educazione sottintende sempre una determinata concezione dell’uomo, si capisce assai
presto come la ricerca antropologica costituisca un momento tra i più significativi del nostro studio.
Se si considera che il problema pedagogico è il problema stesso dell’uomo nel costituirsi della sua
personalità, si fa chiaro come neanche possa esserci una definizione di educazione indipendente
dalla concezione dalla concezione di uomo propria di chi educa. L’incontro tra pedagogia e
antropologia spinge a riconoscere come senza educazione non si avrebbe niente di specificatamente
umano: non si darebbero, per esempio, le tecniche, il linguaggio, i costumi. Queste realtà investono
il problema pedagogico e tendono a definire l’ambito concreto in cui l’educazione si svolge.
La pedagogia non ha altro centro e altro scopo che la persona e il suo valore assoluto. Il concetto di
persona indica che ogni uomo è unico, inconfondibile, insostituibile, senza equivalenti e perciò
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avente sempre dignità di fine, ma di mezzo. Un’educazione che non faccia perno sul bene della
persona, considerata come “ciò che vi è di più perfetto in tutta la natura”, meglio non sia chiamata
educazione.
Nessuna scienza può pretendersi “neutra”, cioè indifferente al destino dell’uomo e ciò vale in
particolare per la pedagogia, dove persino le questioni di carattere metodologico sono tali da
coinvolgere un interesse morale. Impossibile che il suo discorso sia neutro o che ritorni in uno stato
puramente “naturale”.
Poiché si tratta di aiutare l’uomo a entrare con sicurezza nella propria vita, in educazione anche un
atteggiamento cosiddetto neutro non è mai “neutro”. La sfida dell’educazione chiede a chi
l’accoglie di proporsi e coinvolgersi in prima persona nell’esperienza dell’humanum. Ciò non
significa incuranza del rigore critico, ma, al contrario, assunzione attenta e responsabile della
cultura pedagogica in un pensiero comunicabile, se è il caso dialettico, sempre pronto a qualsiasi
paragone che ne arricchisca le ragioni interne al processo educativo.
Il mito di una pedagogia “neutra” è un’illusione superficiale e acritica. Una disciplina che miri
all’intelligenza della formazione della persona non può limitarsi a giustificare delle tecniche, ma si
pronuncerà sui valori e, in relazione a questi, renderà ragione del metodo educativo giudicato
migliore.
L’essenziale orientamento dell’educazione non può non dipendere dall’idea dell’essere, del compito
e del destino di chi deve essere educato. Per questa ragione, il problema fondamentale della
pedagogia investe in pieno la necessità di rispondere all’interrogativo sul senso specifico
dell’esistenza umana.
L’efficacia dell’educazione è sempre proporzionata all’effettivo valore che l’educatore
attribuisce alla vita dell’uomo.
Ogni ricerca costruisce il suo metodo, lo forma e lo trasforma adottandolo via via al suo oggetto di
studio. Il metodo non è il pensiero che ricerca, ma la strada su cui cammina; esso è un procedimento
che dispone di adeguati mezzi al fine di raggiungere una determinata meta. Cogliere la logica che
sorregge il metodo significa cogliere la correlazione tra mezzi e fine; senza la precisazione del fine
e dei mezzi adeguati, anche l’intelligenza del metodo rimane oscurata. In linea di principio, si deve
convenire che fini e mezzi sono inseparabili. Ogni fine poi non si limita a indicare un punto
d’arrivo, ma segnala anche un procedimento per giungervi; in qualche modo, misura anche le
possibilità di raggiungerlo. Non perdere di vista il fine permette di trovare la via per eventuali
mutamenti dei nostri progetti.
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Definire a priori una metodologia, significa limitare arbitrariamente la libertà inventiva della ricerca
medesima. Il metodo non è uno strumento che l’educatore ha già acquisito prima di iniziare la sua
opera; piuttosto è uno strumento che si crea, si affina, si perfeziona con l’uso.
In educazione si deve rilevare che i mezzi adottati in definitiva si giustificano in conformità al fine
da raggiungere. Infatti, anche i metodi educativi sempre rispondono a una determinata idea di uomo
e delle qualità che egli deve possedere per essere veramente tale.
Alla valutazione complessiva della realtà umana, dei suoi valori, delle sue leggi, dei dinamismi e
condizionamenti della sua migliore realizzazione, fa capo anche la scelta del metodo educativo
come pratica traduzione di quanto si è stabilito come fine dell’educazione. Sotto questo profilo , la
problematica pedagogica è anche una problematica metodologica. Sarebbe un errore giudicare
invalido un metodo senza tener conto del fine che lo giustifica; proprio come non è ragionevole
negare l’opportunità di una divisa senza conoscerne una funzione. In pedagogia conviene rimarcare
che la scelta di un metodo dipende, almeno implicitamente, da una preferenza teoretica o ideologica
orientante verso un determinato tipo di uomo.
Lucien Laberthonnière, agli inizi del 900’, ha introdotto la sua opera “teoria dell’educazione”
ancora efficace, per rimarcare che l’educazione esige la nozione preliminare di chi è colui che si
deve o intende educare.
Laberthonnière crede che l’educazione richieda un’adeguata considerazione anche dei
condizionamenti storici, economici, sociali e politici, in cui la soggettività vive, e certo fa appello a
molte risorse, oltre alle idee relative al senso della vita umana e al suo destino ultimo. Eppure,
perché la pratica educativa possa avvalersi utilmente di una teoria che ne determini i fini e i metodi,
cioè della pedagogia, la questione antropologica può dirsi la prima quaestio. Si tratta di conoscere la
singolare peculiarità dell’uomo, la sua natura biologica e la sua configurazione spirituale, la sua
contingenza storica e il suo destino ultimo, la sa aspirazione all’amore e all’eternità la realtà
dell’odio e della morte. Soprattutto alla pedagogia occorre la consapevolezza dei caratteri propri
della nostra specie.
La riflessione pedagogica non può non essere segnata dall’interrogazione sull’uomo. Quindi
all’uomo è destinata come al suo fine la teoria volta a chiarire il processo attraverso cui la persona si
realizza gradualmente, traendo da sé ( ex-ducere) tutta se stessa. La pedagogia può dirsi critica solo
perché incessantemente disposta alla verifica offerta dall’esperienza che l’uomo ha di sé e del
mondo.
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Educazione e storia:
Per l’uomo il presente è il momento di una decisione consapevole; agendo nel presente si assume
una responsabilità nei riguardi del futuro. Quando poi l’uomo riflette sul passato, può distinguervi il
ripetersi di un ciclo di eventi molto simili, ma anche un tutto organico come un processo diretto a
un fine, lo scomparire di un mondo per dare luogo a un mondo nuovo. L’uomo vive nella storia ed è
protagonista di storia. Vivere in questo modo è possibile soltanto a chi, mentre il tempo scorre, può
con una parte del suo essere innalzarsi al di sopra del movimento in cui è inserito e quindi scoprire
nel trascorrere degli avvenimenti una struttura intelligibile, in una parola: un senso. Così l’uomo
prende coscienza di avere una storia (passato), il cui significato legge alla luce del suo destino
(futuro) ed è presente in ogni istante del tempo.
La consapevolezza della propria situazione e dell’orizzonte temporale che include la situazione
stessa fa dell’uomo un essere storico, cioè aperto a comprendere la situazione presente nella
prospettiva o nel progetto della realtà futura.
Di tutto ciò che esiste al mondo soltanto l’uomo è un essere storico: soltanto di lui si scrive la storia,
perché solo l’uomo è in grado di assumere liberamente il passato e d’inventare un nuovo avvenire.
Pur vivendo nel tempo, come ogni altra cosa, l’uomo è l’unico capace di pensare il tempo, di
misurarlo di dargli un senso. Egli è il solo per cui il tempo esiste.
La sua storia, gli sfugge. In realtà, i fatti e gli eventi storici non si sentono, né si percepiscono, si
offrono solo a un capire intelligente, cioè alla luce del giudizio.
Solo l’uomo può comportarsi nel presente muovendo dal passato verso il futuro, ma anche
viceversa. Il passato può inibirci e deprimerci, come pure rafforzarci e spingerci in avanti; il futuro
ci può attrarre stimolandoci, oppure opprimerci e impaurirci.
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Il tener conto della necessaria discontinuità tra passato e futuro distingue la prospettiva dalla
semplice previsione. Se ogni epoca dell’umanità dovesse ripartire da zero, sarebbe la fine della
storia perché non basta che la nuova generazione ripeta i gesti della precedente. In molteplici campi,
le nuove generazioni dovranno inventare i propri gesti, tracciare vie nuove al fine di realizzare una
più autentica umanizzazione del mondo. Ciò richiede un’intelligente capacità di riprendere quanto
si riceve dalle “evidenze” dell’abitudine. Lo sviluppo di cui l’uomo è capace deve intendersi come
una trasformazione qualitativa che interessa la mentalità dell’uomo, e quindi le strutture medesime
della sua vita personale e sociale.
La storia a lungo termine rende evidente che in profondità essa è mossa dalla cultura, cioè da
soggettività ricche di una precisa identità culturale.
Occorre saper giudicare il vissuto, ordinare l’esperienza per levarla ed estenderla oltre i limiti della
consuetudine empirica, vagliarne il valore e tramandarlo agli altri. Se l’uomo possiede la
privilegiata capacità di fare tesoro dell’esperienza propria e altrui, trasmessa di generazione in
generazione, in questo processo l’educazione assolve una funzione essenziale, perché si realizzi una
continuità storica quale condizione per accumulare un patrimonio di cultura. Così ogni uomo può
nutrirsi di una conoscenza antecedente al suo esistere. Quanto l’uomo apprende dalle esperienze
altrui può a sua volta essere trasmesso ad altri con la parola, la scrittura, i modelli di vita.
Se l’apprendere può dirsi comune all’uomo e a molti animali, l’insegnare è una prerogativa
peculiare della nostra specie. Alcuni animali superiori aiutano i loro piccoli a compiere azioni utili
alla loro sopravvivenza, ma solo l’uomo è in grado di trasmettere cultura e civiltà. Ecco perché
spesso il termine “educare” è sinonimo di civilizzare: trasmettere l’eredità culturale, della quale la
società è portatrice, significa adoperarsi per costituire una civiltà. Senza l’educazione l’umanità non
sarebbe che una sequenza, nel tempo, di generazioni sempre allo stato primitivo.
Tuttavia, allo scopo dell’educazione importa, più che il punto di partenza, il fine ideale cui tendere.
Il centro gravitazionale dell’educazione non si trova nel passato, ma nel futuro. L’unità, nel
rapporto educativo, non viene tanto da ciò che sta alle spalle dei protagonisti quanto dal destino al
quale essi tendono. La categoria di “apertura al mondo” supera il semplice apprendimento come
imitazione e ripetizione e introduce nel processo formativo la necessità di imparare il mutamento e
la trasformazione come aspetti decisivi dell’esistenza umana. Solo là dove il mutamento viene
compreso come valore essenziale, la libertà si esprime come una responsabilità non passiva o
semplicemente reattiva.
L’uomo nel tempo produce una molteplicità di culture, valori e strutture, eventi e storia; con la sua
opera egli genera valori che hanno una portata reale per lui stesso e per il mondo. L’autocoscienza è
un elemento talmente essenziale della nostra natura che c’è in noi un aspetto variabile con il mutare
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continuo e inevitabile della nostra storica autocomprensione, e, in una certa misura, col variare della
autocomprensione che il gruppo sociale ha di se stesso.
Si afferma così una precisa volontà di valorizzare la singolarità specifica dell’uomo, il solo in grado
di compiere delle esperienze che superano le cognizioni acquisite in precedenza, il solo cui la verità
si palesa per successive manifestazioni, e quindi il solo capace di distinguere il futuro dal presente.
L’uomo non solo può apprendere la propria esperienza ma raccoglie il frutto di esperienze altrui. A
sua volta, egli stesso può trasmettere ad altri uomini i risultati e le riflessioni delle esperienze
proprie di vita e di pensiero.
L’uomo non solo è in qualche modo dipendente da chi si prende cura di lui, ma è anche debitore di
cure altrui favorendo la trasmissione di apprendimenti, intuizioni, elaborazioni personali e storiche
ecc di cui consiste il patrimonio civile e culturale dell’umanità.
L’uomo è legato alla sua specie non solo biologicamente ma anche culturalmente, è un essere
sociale, e quindi educabile ed educatore. Il formarsi dell’uomo è segnato da una naturale solidarietà
con gli altri, e non è adeguatamente comprensibile se il fenomeno non si accosta al modo in cui si
sviluppa il suo comportamento sociale. L’uomo diventa sempre più se stesso incontrando gli altri e
apprendendo nel dialogo valori personali, sociali, etici e religiosi.
Perché nasciamo bambini?
L’uomo non nasce già pienamente maturo, ma in uno stato ancora di effettiva formazione. Nessun
altro essere vivente ha un periodo di sviluppo tanto lungo da potersi paragonare, anche solo
lontanamente, a quello dell’uomo. Alla sua nascita le sue principali funzioni si presentano in uno
stato indifferenziato; solo in seguito si differenziano grazie a un processo di maturazione. L’uomo
viene al mondo come la creatura più bisognoso di cure. Durante il primo periodo della sua vita, il
bambino appare come il più disarmato, il più fragile soprattutto da un punto di vista fisico; egli vive
una lenta fase di maturità.
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Non è errato dire che l’uomo non arriva mai a essere pienamente compiuto; soprattutto nel corso dei
suoi primi anni egli è alle prese con un corpo delicato privo di autonomia. Mentre molti esseri
viventi nascono già “adulti”, il neonato non è fisicamente né psicologicamente già costruito o
completo. Se osservato che un animale lasciato a se stesso può sopravvivere; il bambino, invece,
qualora venga abbandonato muore. Anche il progredire della vita umana è molto più lento di quello
degli esseri umani. Giunto alla vita come il più delicato e indifeso degli esseri viventi, se a il piccolo
dell’uomo mancasse un’assistenza adeguata la sua crescita verrebbe annullata o compromessa. Il
suo sviluppo dipende da varie cure materiali. Quanto inizialmente manca al bambino da un punto di
vista biologico e istintuale potrà essere in seguito da lui recuperato grazie alla sua intelligenza e
volontà. L’esito dello sviluppo compenserà il bisogno iniziale.
Confrontandosi con la natura che lo circonda l’uomo sa di condividere con il mondo animale molte
delle sue funzioni vitali; ma presto i afferma l’emergere della su singolarità. Prendendo coscienza
del contesto in cui egli è situato (famiglia, società, tradizione), realizza come tutto ciò possa essere
un potentissimo strumento per inoltrarsi nella scoperta del mondo e nella possibilità di adattarlo ai
suoi desideri.
Mentre la vita animale non sporge oltre l’orizzonte della necessità, l’uomo, mediante l’educazione,
supera l’esperienza istintiva, introduce risultati nuovi rispetto alle sue disposizioni native,
progredisce continuamente le sue abilità. La necessità di adattarsi nell’uomo fa affidamento sulla
sua vasta e profonda capacità di apprendere. La determinazione istintiva nell’uomo può essere
sottoposta a controllo; egli può agire contro di essa per migliorare le condizioni della sua vita e
proteggersi contro le avversità della natura. Così, nel caso dell’uomo, quello che a prima vista può
sembrare ovvio si complica e si intrinseca. Tutto si fa problematico, perché qui entra in gioco la
forza originale dell’intelligenza, che trova la sua espressione sintetica nell’atto del giudizio. L’uomo
supera la specializzazione animale grazie alla possibilità di usare la ragione. È significativo che il
fanciullo, nella ricerca di comportamenti più vantaggiosi, tenda ad affrancarsi il più presto possibile
dall’istinto per seguire le vie della ragione; certo, in ciò è facilitato e perfino sospinto dalla
convivenza sociale.
L’animale adulto è dato; l’uomo adulto deve farsi. Qui l’educazione trova la sua ragione
fondamentale. Nell’uomo la razionalità (che è insieme intelletto e volontà) è soltanto una
potenzialità e un’esigenza, e non un’attualità. Poiché il suo stesso sviluppo biologico dipende dal
modo in cui egli cresce entro un ambiente storico-umano, anche la necessaria e prolungata
protezione del bambino deve considerarsi educazione vera e propria.
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La formazione della persona è un fine che chiede il rispetto complessivo di molteplici interessi. Se
si vuole che il piccolo dell’uomo cresca umanamente la sua protezione deve essere “umana”, cioè
deve offrire un quadro di sollecitudine amorosa che sospinge il bambino ad affermare se stesso.
Sono tanti gli aspetti negativi del mancato sviluppo della personalità dei figli, che debbono essere
addebitati all’assenza o ai contrasti dei genitori. Questa semplice osservazione dovrebbe bastare per
comprendere come la mutua collaborazione del marito con la moglie non ha solo una funzione
coniugale, ma anche pedagogica. Allevare, nutrire, curare, sono azioni necessarie perché il bambino
sopravviva, ma si rivelano anche come una funzione ontogenetica, strutturante cioè la forma della
sua esistenza.
La peculiare dipendenza del piccolo dell’uomo si chiama “neotenia”. Il termine indica la sua lenta
crescita, fatta di nutrizione, allevamento, compagnia ecc. tutte cose che rendono il piccolo
dell’uomo dipendente da figure essenziali per la sua “salvezza”.
La neotenia, scrive Rita Fadda, la lenta crescita, l’estrema fragilità dell’essere umano appena venuto
al mondo e la sua dipendenza dalla cura degli altri, sono il prezzo che egli deve pagare proprio per
la straordinaria potenzialità realizzativa che è tipica della forma-umana, e che non è comparabile
con nessuna forma vivente.
Proprio la lentezza dell’inizio, peraltro, permette la realizzazione di un proficuo scambio tra persona
e persona, tra comunità e persona e viceversa. Per converso, la socialità dell’uomo esige che la
verità della sua realizzazione si cerchi e si sveli alla sua coscienza attraverso l’insegnamento e
l’educazione, passi attraverso la comunicazione e il dialogo: esperienze che esigono molto tempo.
La grande ampiezza del mondo umano, la sua ricchezza d attività esigono una lunga infanzia che
metta in grado di esercitare un complesso apprendimento.
L’uomo compie degli atti comuni anche agli animali, ma ne compie altri, che procedono dalla sua
ragione e volontà, di cui egli solo può dirsi padrone.
Nel bambino la mancanza di specializzazione favorirà una maggiore plasticità e capacità di
trasformare i suoi limiti in nuove possibilità. La sua più debole determinazione istintiva non è
l’indicatore di una minorità, ma della presenza dell’intelligenza; in effetti, “costringe” a passare ad
attuazioni coscienti e responsabili. Che un soggetto vivente possa decidere qualche cosa senza
essere determinato dalla situazione è una via d’accesso privilegiata per la comprensione dell’uomo.
L’originale rapporto che intercorre tra determinismo biologico e indeterminazione della libertà è il
luogo in cui l’umano rivela se stesso. Solo nell’uomo, il determinismo biologico, pure presente, si
coniuga con l’agire conscio e libero: ed è solo su questo piano che si può parlare di atti di
specificamente umani. Anche negli atti umani notevole è il ruolo dell’istinto, ma nell’uomo esso si
trova portato a un’altezza tale da renderlo molto differente dalla semplice reattività animale: la
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presenza influisce sull’istinto e lo perfeziona, in modo tale che si parli di istinto umano e non
animale.
Edouard Claparede, pedagogista svizzero, osserva come la natura abbia predisposto per l’uomo un
lungo periodo di sviluppo dalla nascita alla maturità, propone una spiegazione positiva suggerendo
di “ammettere che se questo periodo di giovinezza si è così affermato, è perché ha per l’individuo o
per la specie una certa utilità. L’infanzia ha perciò una sua funzione, perciò è utile ed è un bene.
Mentre si riconosce che l’infanzia è interamente polarizzata verso l’età adulta, si deve anche
difendere la sua specifica ricchezza di vita.
Nel suo celebre homo ludens, Johan Huizinga sostiene che il ludico è l’elemento fondamentale della
storia e della civiltà, perché la cultura deriva dal gioco. In questo senso conviene intendere anche le
parole di Schiller: “l’uomo gioca solo quando è uomo nella piena significazione della parola, ed è
interamente uomo solo allorché gioca”. L’equazione funzionalismo=educazione non può essere un
assoluto, perché l’educazione è anche gratuità. L’uomo non vive di solo pane, ma anche di bellezza,
che restituisce alla vita il suo gusto; l’uomo ha bisogno del bello come ha bisogno di aria e di luce.
Friedrich Froebel dichiara che “il gioco è il più alto grado dello svolgimento umano”. Se
considerato da un punto di vista gnoseologico, il gioco è la forma tipica della conoscenza
dell’infanzia. Il gioco coglie l’aspetto simbolico della realtà; spontaneamente ne afferma la sua
unità interiore.
Si può rilevare che la fenomenologia del ludico penetra in tutte le attività umane. Il gioco non è solo
un trastullo arbitrario, ma è espressivo dell’intelligenza specifica dell’uomo e della sua libertà. Il
gioco ha una grande valenza educativa: in esso si mettono in atto e si esercitano, promuovendone lo
sviluppo, quelle funzioni e attività generali attraverso le quali il soggetto forma la sua personalità.
Razionalità e autocoscienza. Come ampiamente e con vigore è stato rilevato da Arnold Gehlen,
l’uomo è un essere biologico “mancante”, sempre in fase di strutturazione, mal provvisto e
bisognoso di tante protesi. L’uomo appare con un essere debole, un “essere di carezze”; i suoi sensi
e i suoi istinti non sono in lui abbastanza precisi e perfetti da permettergli un adattamento spontaneo
all’ambiente. Nonostante la sua inferiorità biologica, l’uomo prevale sugli altri animali in forza di
una dote specifica che chiameremo “razionalità”, e con una terminologia moderna autocoscienza.
L’uomo può attingere dalla ragione delle cose e alla coscienza della vita. Grazie alla ragione, la
sfida con le leggi biologiche fondamentali vede l’uomo più che vincitore.
Poche cose come il mito di Prometeo, esposto da Platone nel Protagora, riescono a esprimere con
efficacia la condizione peculiare dell’uomo nel mondo, e quindi la natura e il valore antropologico
dell’educazione. Il mito narra che all’inizio, gli dèi incaricarono Epimeteo (colui che vede dopo) e
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Prometeo (colui che prevede) di distribuire fra le varie specie animali le facoltà convenienti alla
loro sopravvivenza. All’uomo, grazie a Prometeo, venne offerto il fuoco, l’arte tecnica e da qui le
risorse per procurarsi protezione, difesa, armi, mezzi per avere il cibo necessario. Con l’intervento
di Zeus, infine, il quale mandò Hermes tra gli uomini, venne donato il rispetto reciproco e la
giustizia.
Il mito mostra come l’uomo non può conservare l’esistenza senza abilità tecniche e senza la
necessaria sapienza per vivere insieme. Entrambe le cose non sono istinti o impulsi naturali, ma si
devono imparare, e quindi trasmettere e apprendere. Tale necessità spiega perché l’uomo ha
un’infanzia molto più lunga e complessa di quella degli altri animali.
L’educazione e il linguaggio assicurano all’uomo la sua sopravvivenza “l’educazione è l’istinto di
conservazione per gli animali, e l’educazione è sostenuta dalla parola”. Il linguaggio non solo
permette un’efficace comunicazione tra gli uomini, ma il suo uso consente anche le astrazioni e
generalizzazioni indispensabili alla formazione delle tecniche stesse.
l’uomo è dotato della capacità di intelligere e di riflettere, e quindi di afferrare il suo atto e se stessa.
Razionalità significa potersi innalzare al di sopra del sensibile, fino all’universalità del concetto.
L’oggetto del conoscere reso libero dai caratteri individuali, grazie all’astrazione, può essere
applicato a un numero indefinito di casi particolari della medesima natura. Poter “astrarre” da un
oggetto di conoscenza una o più proprietà, e quindi estendere questa proprietà ad altri oggetti, cioè
generalizzare, permette di stabilire rapporti fra le idee e gli oggetti concreti e particolari. Da questa
possibilità, integrata con quel modo di procedere per composizione e divisione che caratterizza il
giudicare proprio della nostra ragione, nasce la conoscenza scientifica, in quanto le conoscenze del
particolare e del concreto vengono subordinate alla norma e al tipo, grazie alla scoperta del simile
nel dissimile, dell’identico astratto nella varietà concreta. La nostra prerogativa di astrarre, riflettere
e giudicare, non trova alcuna traccia corrispettiva negli animali.
Noi siamo differenti agli animali non solo per complessità organica e psichica, ma anche per natura.
Tra noi e l’animale non c’è uno scarto di grado, bensì una differenza di condizione.
Il bambino, ancor prima dell’uso della ragione è “persona” , il cui termine può essere scelto proprio
perché propizio per indicare la radice ontologica della dignità dell’uomo, la cui vita propria è vita
interiore all’io.
La razionalità è l’elemento specifico dell’umano, ma, perché l’uomo sia tale, non si esige che essa
sia presente come esercizio in atto, basta sia presente come capacità essenziale. “Nel pensiero sta la
grandezza dell’uomo” scrive Pascal, “l’uomo è una canna, la più fragile della natura; ma una canna
che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua
bastano a ucciderlo. Ma anche se l’universo lo schiacciasse l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di
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quel che uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo
non ne sa nulla”.
Solo in noi la natura esprime la possibilità sia di conoscere le cose, sia di passare da queste
all’autocoscienza, cioè di rendersi conto di ciò che esse significano per il soggetto conoscente.
L’uomo, grazie alla sua capacità di riflessione, supera gli animali e tutti gli altri esseri di questo
mondo nel pensiero, nella libertà, nella parola, nel lavoro, nel gioco, e in innumerevoli altre cose.
Nell’animale la coscienza stabilisce un rapporto col mondo, ma non è in rapporto con sé stessa.
Occorre possedere spirito per uscire da sé, ex-sistere, e quindi per ritornare di nuovo a sé: andando
oltre se stessi è insieme un ritorno dell’uomo in se stesso. Secondo l’originale analisi
fenomenologica propostaci da Martin Heidegger, l’essere dell’uomo, di un “io”, il quale, può dirsi
“un rapporto che si rapporta a se stesso”. Grazie a questa autocoscienza, l’uomo sa di essere uomo,
apprende se stesso come operante e attivo, come unità individuale, nel senso che si sente identico a
sé e attua il suo essere senza mai rompere o mutare la sua unità.
Il possesso di un’unità cosciente rende l’uomo protagonista di una progressiva liberazione dai
determinismi, ereditati o acquisiti, attraverso la novità della conoscenza e della libertà. Così,
l’incontro dell’uomo col reale prosegue fino alla presa di coscienza di sé dei propri atti. L’uomo
non si limita a registrare passivamente quanto accade; intende e comprende.
Un’altra frontiera si varca quando si passa dall’animale all’uomo. Per Tommaso d’Aquino l’uomo è
il fine di tutto il generare; le creature inferiori all’uomo sono per lui e si dispongono al suo servizio.
Poiché sintetizza in sé le proprietà di tutto l’universo, l’uomo è un microcosmo. Nella scala degli
esseri, la gerarchia del vivente s’impone con evidenza progressiva: se la pianta denota una certa
sensibilità, l’animale ne possiede un grado maggiore; più profonda è la sua “interiorità”. Il vertice di
questa superiorità è raggiunto dall’uomo: la sua supremazia peculiare e lo sviluppo della sua
originale coscienza si sottraggono a una classificazione puramente biologica. L’uomo si presenta
come il grado supremo dell’evoluzione cosmica.
Il mondo trova nel suo “essere per l’uomo” la sua dimensione propria, dato che solo l’azione
dell’uomo lo completa. Qui tutto può trovare la sua forma e coerenza, il suo senso autentico.
La coscienza della nostra incompletezza e imperfezione sollecita la necessità di superarci
continuamente. Pascal dice “la grandezza dell’uomo sta in questo: che esso ha coscienza della
propria miseria. Conoscere di essere miserabile è un segno di miseria ma anche un segno di
grandezza”.
Pur restando sensibilità, impulso animale, l’uomo può prendere coscienza di sé e della realtà. Vale
la pena fare notare che destare l’io dal sonno di sé in cui stranamente cade è un fine
dell’educazione.
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Il binominio io-mondo è correlativo: non basta dire che non esiste coscienza della totalità; occorre
anche aggiungere che nessuna coscienza della totalità può darsi senza riferimento all’io. Senza me
le cose che mi circondano non sanno neppure di esistere. Solo incontrandomi trovano la coscienza
che a loro manca; così, giungono al loro significato. Se l’uomo fosse soltanto un prodotto biologico,
egli non avrebbe una dignità inviolabile, ma sarebbe esposto alla manipolazione. Invece, l’apertura
costitutiva all’orizzonte illimitato dell’essere, propria della persona, pone innanzi una misteriosa
inattingibilità, che tutti devono rispettare nella sua trascendenza.
Egli è l’unico essere dell’universo in grado di sollevare la domanda sul senso dell’esistenza propria
e di ogni altra cosa, e quindi di orientare la materia e la vita al servizio del senso che egli ha
riconosciuto. La personale comprensione del senso della vita varia col variare del proprio
autocomprendersi.
Ripresa in un accordo d’insieme.
Kant dichiara che “l’uomo è la sola creatura che deve essere educata. A differenza dell’animale
l’uomo ha bisogno della sua ragione perché non ha alcun istinto e deve da sé tracciare il piano della
sua condotta. Poiché egli non è subito in grado di farlo necessita dell’aiuto altrui”. Poiché
l’educazione è un’esigenza fondamentale e una proprietà peculiare degli esseri intelligenti e liberi,
non è possibile comprenderla adeguatamente, se non ci si rende conto della dinamica che fa uomo
l’uomo. Ciò significa che non riuscirà a penetrare la ricchezza del significato proprio
dell’educazione soltanto richiamandoci alla nostra esperienza personale come luogo in cui intuire
l’orientamento e il senso profondo della vita.
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Più si promuove una presa di coscienza attenta e conseguente del problema umano perché emerga
una sua considerazione più esatta più si valorizza il compito dell'educazione come mezzo
fondamentale del suo sviluppo. Senza l'educazione il bene personale e sociale della nostra umanità
non si mantiene, ma è destinato a deperire. In sua assenza, chiunque prenderebbe soltanto nel limite
della sua individuale esperienza e con il venir meno di quanto ha preso con lui, sparirebbe dal
mondo e dalla storia anche la poca scienza e sapienza che gli fosse riuscito ad acquisire. In effetti
l'educazione nella sua essenza più profonda è sempre in funzione del valore della persona come
protagonista di cultura e civiltà per la medesima ragione ogni civiltà alla sua pedagogia o meglio le
sue pedagogie.
L'uomo è suscettibile di educazione, perché gli solo può giungere a governare a se stesso, e quindi
diventare una persona responsabile. L'educazione è inerente a questa sua specifica peculiarità,
grazie alla quale l'uomo è il sol o soggetto in grado di guidare un processo formativo che coinvolge
l'integralità dei fattori concorrenti a costituire la sua umanità. L'uomo ha bisogno di ricevere
educazione e di educare a sua volta. Educare vorrà dire svolgere, esplicitare, rendere efficienti tutte
le funzioni, le possibilità, i valori della persona umana considerata nella sua unità fisico- psichicospirituale, agire per portarla alla sua pienezza, al compimento del suo fine costitutivo. Il compito
dell'educazione non raggiunge il suo scopo se non quando rende l'uomo capace di esprimere tutta la
propria umanità nella dinamica della sua attività.
È innegabile che l'ambiente eserciti sulla vita di ogni persona molteplici influssi; la sua varia e
continua influenza su di noi a questa importanza nel determinare anche il nostro destino. Tuttavia
l'ambiente non è per noi una predeterminazione rigida piuttosto è un mezzo indispensabile per
l'attuazione della personalità. Anche per l'uomo sicuramente il contesto ambientale ha una funzione
modificatrice; ma le conseguenti trasformazioni sono accolte e riequilibrate dalla sua originale
creatività.
Mentre nell'animale l'impulso e la spinta ad agire risalgono all'ambiente, nell’uomo entra in gioco il
fattore “libertà” cioè la realtà della possibilità come non-necessità. L'agire dell'animale può dirsi
automatico; quello dell'uomo non è solamente tale perché ha in più la coscienza e la volontà del
fine.
Per la sua peculiare forma di conoscenza, l'uomo in qualche modo si appropria del mondo, si serve
delle acquisizioni fatte, interviene modificando quanto lo circonda. L'azione umana è l'effetto
conseguito portano l'evidente segno di una presenza singolare e privilegiata. Mentre l'animale,
statico nel suo comportamento sensibile, ha delle reazioni motorie che mutano solo in funzione di
uno scopo sempre identico, precisamente quello della risoluzione di un bisogno, senza progredire né
porsi in una condizione è superiore a quella della sua esigenza momentanea e dello stimolo della
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specie, l'uomo, invece, esprime una inesauribile volontà di indipendenza. Mai interamente sazio,
tale volontà lo lancia verso un progresso incessante mai del tutto soddisfacente.
A differenza dell'animale, l'uomo non si adatta a stare in un ambiente intoccabile, né si rassegna a
muoversi semplicemente grazie alle stampelle degli istinti ereditati. Quando si osserva l'uomo in
azione in vista della sua realizzazione si vedrà come gli sa di dover decidere personalmente
l'orientamento fondamentale della sua vita e di non doverlo fare semplicemente affidandosi alla
corrente degli istinti biologici, naturali, evoluzionistici questi infatti non sono in grado di gettare
una luce soddisfacente sul senso della sua libertà davanti al destino. Gli istinti non sono in sé cattivi;
in realtà, dipendono dalla direzione ideale che l’uomo imprime alla propria impostazione. Anche
l’uomo mentre si forma non può evitare di conformarsi a tanti stimoli esterni: perfino i nostri
concetti e il nostro ragionare sono segnati dalla dipendenza che lega l’intelligenza all’ambiente
fisico e sociale.
L’animale anche nel suo grado più alto manca di un salto qualitativo necessario per ottenere quanto
invece l'uomo raggiunge con la sua intelligenza e libertà. Il punto è che la dimora dell'uomo non è
affatto l'ambiente; neanche l'universo intero contiene il suo slancio. L'uomo si rivolge a una totalità
aperta all'infinito come essere che interroga, pensa, configura, pianifica.
Non si può pensare al mondo senza l’uomo e viceversa.
Egli non può rimanere inerme davanti alla pressione delle varie e molteplici esigenze emergenti nel
tempo, ma costruire la propria esistenza, dare un senso e una forma caratteristica alla propria realtà
ordinandosi volutamente e coscientemente verso un fine prescelto.
Perché le cose esistano non è necessario che qualcuno le sappia guardare. Non così, però, quando si
tratta di un paesaggio. In questo caso vedere non è tanto vedere questo, quanto vedere come. Il
paesaggio richiede lo sguardo di qualcuno che sappia vederlo e, vedendolo, apprezzi il suo ordine,
quasi lo componga e gli dia un senso, facendolo rinascere in sé con una sua nuova prospettiva. Noi
non creiamo il mondo, ma lo pensiamo: il pensiero porta la luce che permette di scorgere il valore
effettivo di quanto esiste. Tra l’uomo e il mondo vi è un’interazione reciproca.
La questione si presta spontaneamente a dilatarsi su un piano coinvolgente un aspetto decisivo
dell'esistenza umana, cioè il suo progredire nella storia.
Congiungendo le fila delle osservazioni fatte, si dovrà dire che l'uomo non vive semplicemente
immerso è sprofondato in un ambiente chiuso e immodificabile che lo vincola e meccanicamente gli
impone le proprie leggi ma è costitutivamente spalancato sul mondo. La parola mondo assume qui
un significato umano, non indica la natura bruta, ma la realtà che il lavoro umanizza, la situazione
che il linguaggio narra. Il mondo che si dà a noi è una realtà odologica cioè piena di strade nel
senso di rapporti tesi a una meta così che ogni cosa sia verso un'altra ed è anche una realtà poetica,
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cioè ricca di innumerevoli cose da comunicare. Certo il mondo è anche la realtà che ci interroga e
sollecita la nostra azione: essa si da come scopo e oggetto dei nostri progetti. L'uomo rappresenta un
sistema aperto, una soglia che permette una continua comunicazione tra interiorità ed esteriorità.
L'uomo è nel mondo e il mondo è nell'uomo come un insieme strutturato di situazioni e compiti.
Perciò, egli può fare esperienze sempre nuove e di nuovo genere.
La nostra posizione davanti al mondo non è di pura reazione né di semplice consenso o di
rassegnazione, ma di libertà e di trasformazione. Ciò fa dire a molti che l'uomo non è minacciato
dalla natura, ma dall'uomo stesso.
Soltanto l'uomo è soggetto di educazione perché pur non potendo dirsi Sufi gente a se stesso, in
quanto bisognoso di molte cose, soprattutto degli altri uomini, è fatto in modo da potersi auto
governare e quindi di venire il libero e responsabile. Le facoltà conoscitive e affettive della persona
la sua natura sociale non rimangono inerti ma sono creatrici di valori capaci di esprimere una
soggettività originale e di estenderne e la presenza a tutto l'universo.
Spetta all'educazione portare alla luce il valore di tale dinamica e guidarne lo sviluppo peculiare.
Ciò non avviene una volta per tutte, né sulla base di automatismi meccanici più o meno complicati:
nessuna delle sue concrete espressioni culturali realizza pienamente l'uomo. Riconoscere l'altro in se
stesso e per sé stesso, rispettare il suo essere, il suo poter essere, costituiscono la condizione e
l'esigenza dell'educazione. Nello stesso tempo tutto ciò vale per ricordare come la realizzazione di
sé non è un mero dato, un fatto empirico o materiale, indipendentemente dalla pratica della libertà,
ma è un compito personale e sociale.
Anche nel suo modo peculiare di diventare se stesso, l'uomo manifesta non soltanto un suo naturale
bisogno, ma anche quella sua singolare spinta ad auto trascendersi che lo muove continuamente e lo
porta sempre più avanti.
La capacità di coscienza e di auto possesso nella libertà costituiscono una ricchezza peculiare per
l'uomo, la condizione necessaria per essere educato, la dote che gli permette di educare e infine il
motivo per cui solo all'uomo si rivolge l'atto educativo.
L'uomo non può limitarsi a essere semplicemente impulsivo, istintivo e spontaneo, egli deve
determinare se stesso inserendosi in una storia che parte da precedenti realizzazioni per costruirne
delle altre; in lui l’intelligenza del presente si protende alla ricerca di un rinnovamento, per
traguardarlo sul futuro e sul possibile. Nell'uomo, infatti, natura e cultura formano un binomio
inscindibile, così che il naturale è sempre dentro un processo culturale coevo alla sua esistenza. Ciò
spiega perché l'uomo è allo stesso tempo essenza ed esistenza, natura e progetto, determinazione e
apertura. Come ogni in realtà profondamente vitale la polarità natura-cultura non può in alcun modo
essere ridotta a un solo elemento dell'essere o un'unica dimensione dell'agire. Non si da sviluppo
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veramente umano che non passi attraverso la scoperta della ragione e quindi della riflessione e della
conseguente volontà libera. Infatti, lo sviluppo dell'uomo include contemporaneamente lo sviluppo
della ragione, del senso morale, del senso della libertà e della responsabilità. Perchè possa
realizzarsi uno sviluppo armonico della nostra umanità, non basta l'abitudine seriale degli istinti, ma
occorre una vera e propria cura educativa rivolta a una natura propria e specifica che progredisce
secondo un suo processo formativo e una problematicità peculiare. Solo una persona può educare
un'altra persona. Grazie alla sua razionalità e libertà, la vita personale è educazione e
autoeducazione. Parlare di sviluppo senza educazione non è sufficiente per promuovere
l'avvenimento di una personalità capace di attivare come si deve le sue funzioni, inserire
creativamente il suo protagonismo a società, partecipare ai valori della cultura e della civiltà
elaborati nel corso della storia.
Capitolo secondo
CHIUSURE DELL’IDEOLOGIA E APERTURE DELLA METAFISICA
La vita umana non si rivela come un’entità autosufficiente , un blocco chiuso su di sé, ma come una
processualità formativa di sviluppo e di differenziazione che muove verso una destinazione. Come
tale è aperta a possibilità ulteriori, il cui ultimo termine non è dato fissare in anticipo.
Se nella vita quanto prevale è il movimento e non la stasi, la ricerca dell’ulteriore sull' esito già
raggiunto, allora per il vivente presto è impossibile calcificarsi in una forma definitiva. La continua
creatività di forme nuove è in un certo senso sinonimo di vita, mentre al morire corrispondono i
processi della pietrificazione e della dissoluzione. Non è affatto realistico chiedere soluzioni facili
per risolvere i numerosi conflitti che presenta l’educazione volta alla formazione della persona. Si
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tratta di riflettere attentamente per trovare una modalità adeguata per riconoscere in ogni uomo la
singolarità che gli spetta.
Convincersi di poter sottoporre tutto il reale alla disciplina razionale dell’esattezza fa perdere una
dimensione essenziale dell’esistenza.
“L’uomo supera infinitamente l’uomo” cit. Pascal. Uno studio sulla natura essenziale e sul senso
esistenziale della propria umanità è certo reso acutamente problematico per il fatto che qui
l'interrogante è l'interrogato costituiscono lo stesso soggetto: l'uomo che ricerca il senso della sua
umanità è interprete e interpretato, soggetto e oggetto di ermeneutica. La volontà di conoscere la
propria umanità costituisce un forte invito a non vivisezionare l'unità concreta della persona, per
classificarla in ordinate descrizioni dei processi biologici, psicologici oppure in chiare definizioni
dei comportamenti sociali, ma chiede di scendere dentro le profondità ontologiche di un essere
esperto a un continuo superamento di sé.
La pretesa di capire tutto dell'uomo, purché gli oggetti di osservazione siano metodicamente piegati
e catalogati, è una chimera. La riflessione critica su noi stessi non è mai in grado di comprenderci
del tutto. Più l'uomo approfondisce la conoscenza di se, più è costretto ad andare oltre quanto le sue
mani stringono, perché la sua interiorità si apre a un orizzonte ulteriore. La trascendenza dell'uomo
rispetto a qualsiasi nozione adoperabile è un esigenza inerente in tutto ciò che fa, dice, pensa, vuole
e desidera: mai l'uomo è pienamente soddisfatto dei traguardi raggiunti.
L'esperienza a testa come nessuna determinazione e fisica spaziale riesce a esaurire l'intima essenza
dell'uomo che, all'interno di queste coordinate, non può definirsi se non come indefinibile. Viviamo
in un epoca di antropologia scientifica, non più mitologica, né soltanto filosofica; grazie a ciò
l'uomo ha appreso su di sé molte conoscenze dapprima ignorate. Ogni giorno nuove ricerche
asseriscono qualcosa in più su di lui, le molteplici "scienze dell'uomo" forniscono una conoscenza
così ampia e dettagliata quale non si era mai raggiunta nel passato. Biologia, psicologia, sociologia
e via dicendo, analizzano l'uomo variamente e secondo metodi specializzati. Una valutazione
realistica dell'uomo non può prescindere dall'interazione esistente tra i suoi condizionamenti
biologici e sui comportamenti psicologici e sociologici.
Non possiamo ridurre la vita umana è l'insieme delle sue condizioni fisico-chimiche, senza con ciò
perdere inevitabilmente di vista l'uomo nella sua concretezza. Così facendo, infatti, non si parlerà
più di questo uomo quei suoi desideri e le sue paure, le sue gioie e le sue speranze, i suoi slanci
affettivi, le sue intuizioni intelligenti, la sua volontà di vivere e la sua angoscia di morire, la sua
aspirazione, più o meno Chiara, ha una salvezza possibile. Le innumerevoli risposte della scienza
non riescono a colmare l'abisso di domanda di senso che dalla vita, dal lavoro, dalla sofferenza,
dalla solitudine, dalla morte, sorge e risorge. La pedagogia neanche accettare lo scetticismo
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dogmatico di chi pretende per sè una fedeltà scrupolosa alla metodologia delle scienze umane, solo
perché nega a priori una risposta a tutte le domande sulla natura essenziale e sul destino esistenziale
dell'uomo,giudicate, peraltro, prive di un senso intelligibile. Anche tale atto di scetticismo
dichiarato, il restringe il problema dell'uomo dentro un residui sempre più ristretti di senso, sopporta
ancora per sempre il peso di una certezza indiscussa e fondamentale.
Delle scienze vogliono porsi come guida delle condotte pratiche dell'uomo, dovranno riconoscere
che la libertà umana ultimamente è incomprensibile nei termini della pura biologia;essa, senza aiuto
della fantasia, per ora neanche si lascia iscrivere nella tua accogliente teoria dell'evoluzione. In
realtà, le scienze cercano quel che possono determinare, mentre alla pedagogia ultimamente
interessa una sapienza capace di liberare il senso delle effettivo progredire della libertà fisica,
psichica, spirituale dell'uomo nel suo sviluppo. di fronte alla tentazione di cedere la soggettività
personale alla generalizzazione scientista, si può sempre osservare come, rispetto alle più attendibili
descrizioni scientifiche dell'evoluzione biologica, la specie umana presenta una serie di
comportamenti culturali, altrettante prove inequivocabili di un essere capace di scegliere
liberamente, di un soggetto che non è possibile descrivere secondo un puro determinismo. Il tempo
delle nostre scrupolose esperienze non riesce a spiegare tutta la vita, né tutto suo destino. Scrive
Malraux nella sua biografia "ma l'uomo non arriva al fondo dell'uomo, non trova la sua immagine
nello spazio delle cognizioni che acquisisce, trova un'immagine di se nelle domande che pone. Ed è
possibile che nel campo del destino l'uomo valga più per l'approfondimento delle proprie domande,
che per le risposte date". Con ciò il filosofo viennese mostra come il senso dell'umano sfugge alla
logica scientifica. La pretesa di spiegare tutto l'uomo, di analizzare tutte le sue forze, giunge a u n
irriducibile "non so che" in cui l'essenziale sembra nascondersi come un'estrema e inaccessibile
profondità.
Da una parte la scienza permette alla conoscenza una grande lucidità, dall'altra apre dei vuoti
incolmabili; mette davanti all'impotenza dell'ineffabile, alla critica consapevolezza dei limiti, e
quindi all'impossibilità di risolvere scientificamente il problema fondamentale del senso della vita.
Nessuna scienza in grado di dire compiutamente chi è l'uomo, da dove viene e dove va. Senza
escludere che molte scoperte sono possibili grazie allo studio dei rapporti tra cervello e mente.
Dichiarare insensato un problema solo perché inverificabile con le misurazioni delle scienze esatte
non è una conclusione scientifica, ma una decisione ideologica. Vietare le domande metafisiche e
religiose sul destino in nome della scienza non significa attenersi alla ricerca scientifica, ma
rifiutare pregiudizialmente una problematica che non si lascia ridurre a puro calcolo. Il problema
del senso dell'umano non é risolvibile sul piano della pura ricerca scientifica; ma è irragionevole
credere che la scienza costituisca la sola forma valida di sapere. Se è vero che non è possibile dare
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alcuna parola definitiva sull'uomo al termine di un'analisi scientifica, e neppure alla fine di accurate
introspezioni, è anche vero che non si può disconoscere il necessario e attuale bisogno di verità su
noi stessi. Forse occorre ammettere che la verità può darsi in un incontro su sentieri diversi da quelli
praticati dalle analisi dei nostri laboratori. L'impegno della ricerca induce ad accettare, non a
sacrificare, una pluralità differenziata di forme conoscitive.
Non è ragionevole imporsi di pensare che il progresso colmerà l'abisso portato allo scoperto dalla
coscienza del problema umano. La credenza nella ricerca scientifica, come l'unica luce possibile
applicabile alle domande della vita, sottrae al giudizio razionale. Karl Rahner spiega perché
nonostante la grande quantità di scoperte sull'uomo, non siamo in grado di definirlo in maniera
esatta punto dell'uomo è più sicuro dire che la "indefinibilità ritornante e riflettente su se stessa".
L’uomo affonda le radici del suo enigma in un abisso che nessuna formula racchiude in un sistema
di coordinate, entro il quale assegnargli un posto preciso. Affermare questa radicalità significa
riferire la domanda di un fondamento e di un destino sostanziali per quanto costituisce il proprium
della nostra esperienza umana. negare un'origine e uno sviluppo che disponga e muova al
raggiungimento di un fine si può, ma al costo di una disintegrazione della vita come storia, per
sostituirla con una incomprensibile cronaca di una congerie di cose che si succedono. contro le
facili schematizzazioni di chi si illude di avere in mano il proprio maestro con cui dare la sua misura
definitiva, vale sempre la cute e concisa osservazione di Paul Ricoeur: "quello che io sono e
incommensurabile con quello che io so". in questo modo, il filosofo francese richiama l'attenzione
verso una solida constatazione e quindi apre a un'intuizione filosofica descrittiva del nostro
desiderio il limitato e della nostra finitezza: in noi esistenza ed essenza non riescono a sovrapporsi,
a coincidere. L'uomo reale custodisce un mistero che poco si presta a qualsiasi definizione formale.
Egli non coincide con quanto di lui si riesce a oggettivare e con quanto può essere studiato
scientificamente.
Quando la ricerca mette insieme tutte le sue analisi scientifiche, resta ancora qualcosa di sensato da
dire, di cui le analisi non riescono a parlare, perché non sembrano in grado di giungere al nucleo
stesso della nostra esistenza. Le definizioni da manuale, se interrogate a fondo, si rivelano frasi di
circostanza, talvolta innegabilmente utili, ma mai esaustive. La delusione che accompagna ciascun
provvisorio traguardo mostra chiaramente come ogni nostro singolo desiderio veli e sveli un altro
desiderio, inestinguibile esigenza che ci spinge ad andare sempre più avanti.
Il fatto che fin dall'inizio l'uomo sia orientato verso una profondità assoluta spiega bene da una parte
perché il suo essere trascende la sua stessa capacità di conseguire obiettivi, dall'altra conferma
quanto con il linguaggio asciutto della filosofia si può dire: il per sé (quello che il mio atto riesce a
fare) non si pone mai in equazione con l' in sé (quello che io sono nella mia identità e singolarità
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personali). rilievo critico vale anche per la classica e generalissima definizione di uomo quale
animale razionale.
Quando si accosta l'essere umano, si scopre che il riconoscimento della sua essenza chiede di essere
sempre più profondamente precisato; ciò impone un costante ritorno della riflessione anche sulle
definizioni classiche. Esse si devono sostanzialmente mantenere, ma non devono ripetersi in modo
tale da impedire una progressiva profondità, capace di integrarle in senso relazionale, estetico, etico,
e quindi pedagogico. Aristotele medesimo, del resto, non ignora che l'uomo è certo più della sola
ragione e intelligenza. A differenza della prospettiva platonica, per cui le emozioni sono
semplicemente irrazionali, non può non colpire come per Aristotele anche le emozioni siano
compenetrate dalla ragione. In realtà, l'uomo deve essere ritrovato nel complesso dei fattori che
effettivamente fanno la sua esistenza singolare. Egli è uno per sua costituzione, ma è anche
immerso nei diversi gradi dell'essere.
Il mistero, lo si dovrà più volte il ricordare, non è da intendere come un segreto non ancora rilevato,
bensì come ciò che possiede una profondità inesauribile. Quando si parla di quanto fa sì che l'uomo
sia uomo, è un errore voler ridurre l'ampiezza e la profondità del suo mistero a Termini minimi, al
gioco sistematico delle nostre idee, poco o tanto sempre incomplete. Il paradosso intrinseco della
nostra condizione costringe a prendere atto che l'uomo è soggetto e oggetto, spirito e natura, libertà
e determinazione. L'uomo non si può definire unilateralmente, egli è sempre al di là del mondo
stesso in cui vive è opera. Nella realtà, così come l'uomo la sperimenta, c'è un punto di fuga non del
tutto imprigionabile nel tempo e nello spazio. È l'esperienza del mondo come segno. Per segno si
intende qualcosa che sta per qualcosa d'altro, che indica qualcosa di diverso da sé stesso. Non si
deve trascurare il fatto che il segno, poiché rimanda ad altro da sé, ha bisogno di essere interpretato,
e quindi nel suo riferimento ad altro da sé, ha bisogno di essere interpretato, e quindi nel suo
riferimento ad altro da sé può anche non essere compreso. Ci si esprime con più precisione
introducendo il termine simbolo. Affermare che il nostro universo è simbolico significa considerare
la realtà visibile partecipe di una realtà più elevata, più profonda, con la quale è stata una non
convenzionale corrispondenza analogica. Cogliere come delle realtà immediatamente percettibili
rendano in qualche modo presenti altre realtà, più nascoste, di un ordine valoriale più alto, è
possibile sia sul piano argomentativo sia su quello intuitivo.
Il simbolo raccoglie in sé antinomie fondamentali che la ragione raziocinante e il linguaggio
abituale non sono in grado di spiegare del tutto.
Contro il positivismo scettico, che riduce l'uomo ai dati scientificamente accessibili, la ragione si
trova in rapporto a una realtà che infinitamente la supera, e quindi la pone in un costante rapporto di
interrogazione, secondo un procedimento caratterizzato da una dialettica sui generis. tale dialettica
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non è oggetto di prima evidenza né di calcolo, piuttosto di un originale presentimento che apre
davanti a sé una vasta possibilità di ricerca, la cui fonte di alimentazione non sarà altro che
l'esperienza umana vissuta integralmente. Se non si è disposti non sapere che non sia pura
misurazione, per aprirsi alla libertà sorprendente del mistero, la conoscenza dell'uomo è destinata a
cadere nel vuoto, perché gli enunciati che conferiscono un senso alla nostra vita sono coerenti con
se stessi solo in un processo di auto superamento radicale.
Il dominio della tecnica invade anche il campo dei comportamenti individuali e collettivi,
generando conflitti sempre più gravi e irrisolvibili. In realtà, il punto di vista del razionalismo non è
il solo, nel primo né il più comune, che si possa assumere sull'uomo e sul mondo. Non bisogna
perdere la giusta fiducia nella ragione, nessun metodi di ricerca, nessun immanente criterio di
verità; anzi, bisogna educare al coraggio critico di tale fiducia, perché non si può dire che la
condotta umana sia spontaneamente razionale.
L’ “Ideologia” totalitaria della “dea” Ragione, se coerentemente svolta, immette un fattore patogeno
nelle fibre dell’organismo del nostro pensare personale e sociale, una sorta di agente capace di
calcificarne le arterie fino a mummificare i tessuti più propri della vita personale.
Accantonato il mistero dell'essere per fare spazio al controllo della pura e semplice fatalità, si
restringe pericolosamente il concetto di verità e si chiude in un fraintendimento il valore
dell'esperienza. d'altro canto, l'apporto che le osservazioni scientifiche danno anche allo studio della
pedagogia deve considerarsi indiscutibile: non si comprende il processo di formazione di una
personalità se signora il dinamismo delle disposizioni del soggetto che si forma (psicologia), oppure
se non ci si cura delle condizioni ambientali in cui esso vive e interagisce (sociologia). A ciò
bisognerebbe aggiungere anche ulteriori motivazioni riferibili ad altre discipline di natura e
applicazione diverse, quali la biologia, la pediatria, la psichiatria, che interagiscono in un rapporto
di reciproco vantaggio con le iniziative e le realizzazioni pedagogiche. Tuttavia, rigettare come
"mitico" tutto ciò che non è scientifico tradisce una discutibile mentalità scientista, non idonea a
comprendere il linguaggio del concreto le categorie dell'esperienza vissuta.
La scienza dell'uomo si rivelano utili per meglio comprendere la nostra umanità solo se sanno
salvaguardare una ragionevole consapevolezza dei limiti del loro metodi. Perché non esiste una
scienza unica che comprenda in sé tutte le altre, riconoscere che le forme della conoscenza sono
molteplici e non riducibili tra loro non significa cedere alle equivoco o al caos dell'anarchia, ma
solo prendere atto della realtà. Accettare il principio che non si dà scienza se non del misurabile
significa concludere che la matematica esaurisce tutto quanto vi ed intelligibile nella realtà. L'errore
è evidente: il fatto stesso che una cosa esista mobilità profondamente l'interesse dell'intelligenza,
benché sfugga alla matematica. In realtà, il metodo che appartiene alla matematica funziona bene
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quando si tratta di numeri e di quantità; se lo si trasferisce al regno della qualità, della vita organica,
e ancor più al campo della storia e della cultura, presto per della sua scientificità di precisa esattezza
per diventare invenzione o, in ogni caso, opera di fantasia. Non si può fare dell'uomo un oggetto di
studio e dimenticare la presa di coscienza della tradizione moderna secondo cui egli, in ogni
rappresentazione oggettiva della realtà, è soggetto e quindi protagonista attivo. Come un errore
porre l'uomo al di fuori dell'umanità, e altrettanto erroneo porre l'umanità al di fuori della vita e la
vita al di fuori dell'universo. La conoscenza dell'uomo deve servirsi del contributo della Ragione
teorico scientifica, di quella pratico-tecnica, della ragione poetico-espressiva propria dell'arte, della
ragione speculativa propria della metafisica, non necessariamente di un determinato sistema
metafisico ma pur sempre di una riflessione sul senso unico dell'essere. In particolare, non si può
applicare una misurazione di puro calcolo quando si tratta di comprendere la realtà di una
soggettività libera qual è l'uomo. Quando si parla dell'uomo, non si può dare alla parola oggettività
l'identico significato che assume nelle scienze naturali. L'astrattezza delle formule che enunciano le
leggi naturali non si rivela in grado di esaurire la concreta complessità della persona. Soprattutto
non risolve la questione del senso della vita: giunti al bivio tra finalità e assurdità, ci lascia dubbiosi
tra senso e non-senso.
Non si discute la ragione ma il razionalismo.
Chi avverte la necessità di conoscere il senso ultimo della sua vita di un uomo non tarda ad
accorgersi degli effetti negativi che porta con sé l'ostinazione a stare sul puramente misurabile. In
realtà la ragione non è in grado di risolvere adeguatamente il problema dal quale prende le mosse
c'è qualcosa di più di quanto la ragione il lucida riesce a misurare.
L'errore non consiste nell'uso rigoroso del calcolo, né nel mettere tra parentesi quanto non si lascia
calcolare, ma non credere che quanto non è calcolabile semplicemente non esista. L'osservazione
coincide con la presa di coscienza che sapere scientifico e tecnologico, per quanto scaltrito sia, non
riesce a sviscerare il fenomeno umano nella sua complessità e varietà. Averlo creduto è dimostrato
un errore. In alzare la scienza ha una nuova gnosi in grado di liberare l'uomo da ogni ombra è un
mito debole, incapace di rispondere all'obiezione e di fatto la scienza può essere utilizzata tanto per
distruggere l'uomo quanto per salvarlo. La scienza non è tutto; oltre la scienza di ancora i pensiero.
L'uomo non si riduce i vari processi catalogati dallo studio.
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Oltre il dato empirico.
La verità scientifica, come la verità strettamente controllabile, porta con sé i segni di
un’autolimitazione.
La scienza positiva, nei suoi metodi oggettivi, può tener conto soltanto degli aspetti oggettivamente
verificabili della verità; non raggiunge, invece, tutto ciò che non è oggettivabile, so che non è sennò
meno sensibile e universalmente verificabile. Ne consegue ovviamente che certi lati della realtà
sfuggono per definizione alla ricerca scientifica. non la scienza decide del valore della vita, della
dignità della persona, del significato della Libertà, nel fondamento ultimo dell'essere e del bene.
Correggendo la prospettiva di studio rigidamente cognitiva, proprio di un approccio logico
epistemico troppo angusto, Karl Jaspers ha potuto giustamente ribadire che la conoscenza
scientifica del mondo non è una conoscenza scientifica dell'essere umano. Egli fa osservare come
nell'esperienza del nostro essere vi è qualcosa cioè, indagato scientificamente, sarebbe perduto.
L'uomo non si lascia ridurre a biologia, nella sua anima al risultato di un processo neurobiologico
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regolato da un gruppo di cellule cerebrali. Altro raccogliere informazioni sulla vita, altro è
comprendere la persona che vive e agisce. La profondità del nostro io non si lascio analizzare,
osservare, sperimentare dal di fuori; essa resta una realtà sulla quale la scienza non riesce a fare una
presa.
Il problema riguarda la pedagogia soprattutto nel momento in cui, indagando circa sui principi
portanti e la sua struttura formale, si fa chiaro con la riflessione sull'educazione trascorre da una
descrizione storico-empirica o un'indagine storico-teoretica fune senza avente una genesi ideale e
una logica di svolgimento. Se la pedagogia è anche ricerca dei presupposti e del criterio informatore
del pensiero e dell'azione, volti a promuovere la persona nel suo effettivo valore, essa richiede di
riflettere su quanto è fondamentale e non solo di enumerare e catalogare i dati oggettivi del
problema. È letteralmente impossibile trattare argomenti fondamentali di pedagogia senza
impegnare una determinata concezione della vita punto l'educatore deve rinunciare a misurare con
la precisione del geometra il risultato dei suoi sforzi. La sua azione personale ha un'efficacia propria
della disponibilità radicale al rischio della libertà. L'educazione si attua in un contesto fatto di
interferenze continue, che sollecitano l'educatore un intervento non puramente osservativo, ma
fondamentalmente etico, in cui si deve prendere posizione sulla natura e sul valore dell'uomo, e
quindi pronunciarsi sul senso della sua esistenza è sul suo destino. Spiegare il bisogno tipico della
nostra umanità di comprendere la realtà nella sua coerenza e nella sua assurdità, nella sua unità e
nella sua complessità, servendosi solo del dato scientifico, rende manifesto come questo tipo di
razionalità confina nell'irrazionale; pretendere di chiarire, organizzare e manipolare ogni cosa sotto
il profilo del calcolo riduce anche l'uomo a un numero anonimo, e quindi a una cosa progettabile, a
un oggetto adoperabile da altro da sé.
Invece, essere persona significa essere più di cosa. La persona è precisamente l’assoluto di cui non
ci si deve appropriare; si può solo aiutarla a rispondere di volta in volta al suo compito storico, e
quindi a progettarsi come soggettività libera.
L'indisponibilità al calcolo del nostro elemento più intimo ci sottrae all'arbitrio dell'auto disporci
attraverso gli strumenti della scienza, non permette di definirsi come un mero prodotto di
presupposti biologici sociali, ci difende dal essere assorbiti in un insieme anonimo che finisce per
dissolvere tanto la libertà quanto la responsabilità.
Perché ciò non accada, poco giova attribuire i primati di maggiore scientificità alle riflessioni
psicologiche e pedagogiche che metodologicamente trascurano il senso di quanto è individuale, le
variazioni soggettive, il ritmo personale. Insieme ho dovuto apprezzamento per il sicuri risultati
offertici dalle scienze, occorre una ragionevole sorveglianza critica per non confondere lo
scientifico con il pedagogico. Perché l'uomo è oggetto di tutte le scienze, il pedagogista, pur nel
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rispetto di quanto compete alle scienze, dovrà contattare come tutte le antropologie empiricoscientifiche non sono in grado di cogliere pienamente il senso di quel essere unico e irripetibile qual
è appunto l'uomo. la sua rilevanza assoluta sfugge la pluralità delle scienze, tanto diverse e sempre
più complesse.
Impostazione secondo cui ogni innovazione pedagogica deve essere una serie di prove di
laboratorio, quasi si trattasse di nuovo tipo di medicinale, non è condivisibile incondizionatamente.
Tale tendenza non considera adeguatamente il centro vivo e attivo della personalità, che è libertà.
L'innovazione educativa è un aspetto della libertà e della responsabilità di chi ha il compito di
educare.
La persona umana, sostiene Gabriel Marcel, non si lascia afferrare con gli strumenti della scienza,
perché essa non si pone come problema, ma come mistero. Se ci si accosta a essa mediante l’analisi
scientifica, la si riduce a un lui, a oggetto o cosa. Per rispettare quello che veramente è, per trattarla
da persona, occorre accostarsi a essa come a un tu; e questo avviene nell’interrogazione, nel
dialogo, nell’amore.
La ragione pedagogica ha carattere dialettico, perché dialettico è lo sviluppo della persona,
dialettica è la storia, in quanto il suo svolgimento attraversa il contrasto, la lotta tra fattualità e
possibilità, tra conservazione e cambiamento. Si capisce allora perché ogni scoperta pedagogica
avvenga come un momento integrante di un processo in cui le parti sono insieme coinvolte in
maniera inestricabile. Pensare in termini di dialettica aperta e non chiusa avvicina al modo con cui
Romano Guardini parla di Gegensatz o opposizione polare, per esprimere l’irriducibilità della
tensione di due poli che non accettano di risolversi in una sintesi superiore.
La sua dialettica non si spiega come superamento della tensione inerente all'opposizione, ma come
impossibilità di superarla per mezzo di una logica o calcolo necessitante. Essa sempre rinvia ed
integrazioni sistematiche sempre più vaste, amplia un vero e proprio sviluppo del sapere, ma non è
mai conchiusa. La semplicità della sintesi pedagogica è asintotica;infondo ripropone la dinamica
che caratterizza la complessità di ogni organismo vivente. Gabriel Marcel parla con critica
consapevolezza della realtà del nostro io,il quale lo considera come una presenza globale. è
fondamentale che la pedagogia affermi in l'uomo come persona libera e non come appartenente ad
altri, come soggetto e non oggetto. In questo modo, si esige che la libertà sia custodita come un
valore essenziale del nostro più intimo essere.
Una pedagogia che si basasse semplicemente sulle esperienze immediate personale presto
mostrerebbe le sue gravi insufficienze.
La pedagogia non deve disprezzare il sussidio delle scienze umane, scienze dell'uomo, scienze
sociali e scienze del comportamento. Se non vuole perdersi in vaghi astrattismi, ha bisogno del
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concorso di tutte le ricerche che hanno per oggetto l'uomo nella sua natura e azione storica.
Tuttavia, decidere di fermare la riflessione pedagogica e i risultati delle dimostrazioni scientifiche è
una scelta parziale, dovuta a una visuale angusta, che disegna un'immagine antropologica distorta è
depauperata. Qualsiasi tipo di riduzionismo finisce per equivocare l'educazione, perché rende
incapaci di riferimento all'uomo nel suo vivere concreto, e quindi nel suo farsi individuale e
comunitario, culturale e civico: all'uomo nel suo educarsi.
Alla prova dei fatti, qualunque sia il punto di vista adottato, non si riuscirà a produrre una
definizione rigorosamente comprensiva dell'uomo. Molto induce a pensare che non giungeremo mai
a conoscere tutte le leggi della nostra coscienza.
Su questo punto, i risultati delle scienze, spesso positivamente generosi, anche quando suggeriscono
magnifiche possibilità, non possono superare il carattere delle ipotesi e non sono in grado di imporsi
come necessità. In questo senso si spiega perché tutti i tentativi di costruire una pedagogia,
basandosi soltanto sui risultati delle varie scienze, non tardano a rivelarsi insufficienti.
Si conviene che neanche la verità scientifica può considerarsi indipendente dalla situazione storica e
culturale in cui la ricerca si esercita. In realtà, il progresso scientifico non procede accumulando
verità assolute, ma attraverso percorsi segnati da fratture e ripensamenti.
Anche per la scienza vale l'osservazione che tra sapere e realtà non sussiste un rapporto di semplice
e oggettivo rispecchiamento, esiste piuttosto un nesso di reciproca implicazione: ogni realtà offro un
suo peculiare sapere e ogni sapere manifesta una propria visione della realtà a partire da un
determinato è sempre mutevole contesto di esperienze, conoscenze, necessità e finalità.
In questo quadro, si presenta promettente la scelta di collocarsi sul piano ermeneutico, propria di chi
non si limita a una pura teoria del soggetto in esame per affermarlo o per negarlo, ma intende
curarsi anche del modo in cui un processo formativo può essere riconosciuto, per trarne, in seguito,
semmai risultasse utile, dei principi prudenziali di educazione.
Il nostro esistere a un'approfondita più grande dei nostri studi, della nostra professione, e sempre
eccede tutto quello che pretende in qualche modo di definirci. Tra gli elementi filosofici di cui la
pedagogia fa uso, il concetto di persona copre un ruolo centrale punto l'indole peculiare di questa
fondamentale nozione non è sufficientemente descritta se ci si serve soltanto di categorie tra per
dall'osservazione delle cose inanimate. Nella persona, infatti, si realizza una singolare immanenza,
consistente nel fatto che solo essa è coscienza di sé, è un altrettanto singolare trascendenza, che
permette alla libertà di aprirsi al valore o all'altra persona. Il compito marginale della pedagogia è
rimarcare che l'educatore è tale se sollecita la responsabilità dell'educando a cercare e percorrere la
sua via, se difende quest'ultimo da ogni pretesa invasiva di chiunque altro voglia sostituirlo
scegliendo di percorrere i sentieri giusti della vita al suo posto.
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L'inesauribile profondità della persona appare come un abisso inattingibile alla ricerca scientifica,
un mistero conoscibile solo se esso stesso concede di rivelarsi.
Il segreto più intimo dell'uomo promette una maggiore intelligibilità mediante l'interrogazione
metafisica. Non tanto della forma dell'occultismo e dello spiritualismo, quanto come questione
appartenente alla filosofia prima, intesa non come dialettica astratta, ma come affermazione di una
ragione fondata sulle evidenze originarie.
La metafisica non si lascia contraddire da chi niente sta per conoscerla. chi la nega deve mostrare di
conoscere veramente il suo non senso e di aver tentato seriamente di superarne i limiti. L'uomo
buone spiegazioni razionali, se non le trova all'orizzonte dell'esperienza sensibile, allora, anche
senza volerlo, fa della metafisica, cioè inizia la sua esplorazione su quanto è al di là della scienza
positiva. Contro la prevenuta ed esiziale antimetafisicità diffusa nel nostro tempo, non si deve
pensare che il metafisico stia in un mondo inesistente, egli vuole, penetrare la realtà con più
acutezza di chi si limita a una semplice descrizione.
Il metafisico non fugge il mondo, ma al contrario vuole comprenderlo fino alla scoperta della sua
vera norma. In questo senso” l'al di là” della metafisica non designa una realtà contraddittoria
rispetto a quanto l'osservazione scientifica può controllare definire, il suo apporto non è quello di
supplire all'ignoranza scientifica, ma di spiegare secondo una forma diversa di studio la complessità
e la finalità degli stessi processi scientifici.
Vedere l’intero.
Trattandosi dell'uomo, occorre imparare a vedere più in profondità rispetto al campo visivo delle
sole esperienze misurabili, e quindi vincere ogni segreta o esplicita avversione contro quanto eccede
il mondo fenomenico.
Non basta rispecchiare un aspetto importante dell'uomo per pretendere di coniare un nuovo
paradigma antropologico.
Il fatto che si parli di nucleo non deve costituire un pretesto per immaginare l'uomo diviso in parti
da accostare. In realtà il nucleo al quale si riferisce è piuttosto il fattore che fa l'uomo uomo. Quindi,
nucleo non significa un elemento diviso dagli altri, ma il motivo unitario della nostra vita personale.
Bisogna evitare sia il materialismo grossolano, primitivo, che riduce l'attenzione educativa al
semplice soddisfacimento dei nostri bisogni corporali, sia lo spiritualismo ingenuo, che fissa
l'educazione in una pura trasmissione di idee e norme ideali. È necessario contestare tutte le visioni
antropologiche che scendono la persona in settori incompatibili, da una parte la vita serena e pura
della ragione, dall'altra il ribollimento spregevole dell'affettività. L'uomo non è affatto un
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osservatore passivo, in grado di isolarsi dalla realtà, di giudicare a una distanza indifferente il
proprio oggetto per dedicarsi a una scienza inconfutabile.
Qualsiasi dualismo che separa rigidamente l'uomo dal suo ruolo minaccia gravemente il suo
peculiare equilibrio.
Karl Rahner scrive: “corpo e anima dell’uomo non sono affatto due realtà autonome, accoppiate tra
loro solo in un secondo tempo; sono invece due momenti dello stesso unico uomo, due componenti
che non possono venir ricondotte una all’altra. Sono due costitutivi metafisici del medesimo essere
umano”.
L'educatore e tale se trova il modo di coinvolgere la persona in un esperienza di unità come un
protagonista che assume se stesso nella totalità. Allo scopo, egli dovrà concentrarsi con cura
sull'elemento che costituisce l'intero e l'uno dell'esistenza, e quindi sorvegliare, per non distrarsi nei
mille particolari della composita realtà umana. Da qui l'opportunità di riconsiderare la tradizione
metafisica; infatti, è nella profondità del suo rapporto con l'essere che l'uomo sperimenta la sua
apertura all'infinito e la sua unità personale. Nel contempo, io "mi rendo competente sull'essere,
osservando quel che è l'essere in me stesso".
L'intero, visto dal pedagogista, non è solo un'unità di funzionamento, un'addizione di profili
molteplici, con un risultato che solo soggettivamente costituisce una totalità, ma è una totalità
preliminare da rispettare e aiutare a esplicitarsi. solo che attinge a questo livello di intelligenza
conosce la forma intuitiva e il senso dell'azione educativa, senza restare paralizzato nell'incertezza
scettica. Conta, però, rimarcare che vedere l'intero non è un esito raggiunto da chi sorvola sulle
particolarità, bensì è il riconoscimento di una unità genetica e aperta a tutto quanto veramente
umano.
Poiché educare significa volere il perfezionamento dell'uomo in tutte le dimensioni della sua
esistenza, non è tra gli ultimi doveri di chi educa promuovere una tendenziale unità tra compito
professionale e persona. Se si perde di vista il carattere integrale esigito dalla formazione dell'uomo,
si fa forte la tentazione di ridurre la complessa avventure educativa al fornire istruzioni e tecniche
strumentali alle varie urgenze professionali. Allora, l'orizzonte proprio dell'educazione cambia, per
far luogo a preoccupazioni di carattere settoriale: il cardine dell'interesse non è tanto la formazione
della persona, ma il potenziamento di procedure addestrative di segno tecnico-professionale.
L'educazione finisce per occupare il ruolo di guidare la persona a individuare alcuni obiettivi
vantaggiosi insieme e problemi da affrontare, e quindi selezionare i mezzi idonei per risolvere, nella
maniera più efficace possibile, la questione che momentaneamente è avvertita più interessante.
Il rapporto educativo trova la sua giustificazione in un contenuto di senso capace di accogliere
unitariamente la vita dell'educatore e dell'educando. la pensione di chi educa non consente
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all'astrattismo; quando guarda in un punto, tiene conto di tutto il resto, nella consapevolezza che
solo così il punto guardato si proporziona veramente. Se la formazione della persona nella
complessità dei suoi aspetti è lo scopo peculiare dell'educazione, allora si deve considerare l'uomo
secondo tutta la verità della sua soggettività spirituale e corporale, e quindi anche nella totalità delle
sue potenzialità ancora da realizzare, cioè nel suo farsi persona. La rinuncia un orizzonte di totalità
spedisce la profondità della nostra ragione e contraddice la natura propria dei nostri più originali
desideri che mirano alla realizzazione della persona. Nel desiderio dell'uomo non c'è solo una
tensione verso obiettivi limitarti, ma agisce anche un'apertura al tutto come espressione di una sua
esigenza fondamentale. L'intero non è l'antipodo, ma al polo sostituibile della vita personale.
L'esplicita apertura alla totalità segnala l’atteggiamento adeguato a garantire l'educazione dal non
ridursi semplicemente a un percorso abilitante allo svolgimento di un ruolo particolare. Nel
frazionamento introdotto dalla specializzazione dei saperi, occorre salvare uno sguardo non diviso.
Al riguardo, l'educatore dovrà meno preoccuparsi di insegnare nuove nozioni e sempre più integrare
quanto altrimenti resterebbe abbandonato alla discontinuità e al contrasto.
Se il pericolo del passato era che gli uomini diventassero schiavi, il pericolo del futuro è che gli
uomini possano diventare robots.
Se l'educazione attende una soluzione comprensiva di tutti i fattori e di tutte le correlazioni che
incrementano lo sviluppo formativo della persona, allora il problema educativo abbraccia
l'assunzione di un orizzonte olistico. Tale orizzonte non permette di generalizzare certi aspetti
dell'uomo, magari giusti ma incompleti; chiede piuttosto di non moltiplicare le alternative tra
diversi momenti talvolta contrastanti, che, però, a uno sguardo più attento sulla vita e sul suo
sviluppo storico, si rivelano complementari. l'uomo che si forma è sempre tutto l'uomo nella sua
indissociabile totalità, una simultaneità di molteplici elementi. Perciò l'educazione si rivolge
all'uomo totale, non come oggetto, ma come persona, non all'uno o all'altro aspetto, ma l'uomo
secondo l'intera estensione dei suoi postulati più intimi, espressivi della sua profondità personale.
Luigi Giussani scrive sull'educazione: "educazione significa lo sviluppo di tutte le strutture di un
individuo fino alla loro realizzazione integrale, e nello stesso tempo l'affermazione di tutte le
possibilità di connessione attive di quelle strutture con tutta la realtà".
La meta del processo educativo: la realtà, intesa come fine ultimo entro il quale comprendere tutte
le tappe intermedie, le stesse che, prese isolatamente, non sarebbero in grado di rendere ragione del
fenomeno. Poiché la realtà condiziona l'educazione "dalle origini e la domina come fine",
coerentemente Giussani afferma: "Qualunque pedagogia, che conservi un minimo di lealtà con
l'evidenza, deve riconoscere e in qualche modo attendere a questa realtà". Nello svolgere il
significato della definizione, egli poi attira l'attenzione sull'aggettivo "totale" e rivela la duplice
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necessità dell'educazione come "apertura a tutta la realtà" e come sviluppo di tutta la persona. La
ragione è apertura alla totalità, e la totalità ne è il correlato; non nel senso quantitativo, di somma di
tutte le cose, ma perché è essenzialmente aperta a tutto, proporzionata a tutto comprendere.
Perché una proposta educativa sia tale, deve rivolgersi alle essenziali caratteristiche dell'umano,
quali la ragione e la libertà. Se una proposta non è in grado di spalancare la ragione e mobilitare la
libertà, a rigore può non considerarsi una proposta educativa. L'allenamento esclusivo di alcune
nostre funzioni, indipendentemente dalla totalità della nostra soggettività, non rende in ragione di
cosa sia l'educazione. Essa coltiva con decisione e sapienza uno sguardo aperto sulla totalità del
reale, per cogliere non soltanto i nodi problematici, ma anche la straordinaria è positiva ricchezza di
quanto accade.
Non si tratta di eliminare la specializzazione, ma di evitare di credere che essa sia in grado di
sostituire l'attenzione all'integralità della persona propria dell'educare.
Contro i vari riduttivismi degli approcci unilaterali, la comprensività nel riflettere la vita secondo la
sua totalità, unitarietà e integralità delle dimensioni personali, caratterizza il pensiero pedagogico
nelle sue espressioni più geniali. Non è nuova l'intuizione che anche il bambino deve essere
consapevolmente educato, secondo una modalità integrale è operata in modo da costituire il primo
momento ciclico dell'educazione dell'uomo. Non bisogna vedere il bambino come un settore
cronologico dell'uomo, come tale destinato a essere superato, ma con la integrale base infantile
dell'umanità di ciascun uomo punto giusto non confondere il bambino con un uomo in piccolo,
ricco fin dalla nascita di connotazioni umane. Pertanto è conveniente che anche nel bambino si parli
di educazione dell'uomo. Infatti, l'educazione è sempre dell'uomo in ciascuna sua età; è sviante che
si parli di educazione di una età o di un momento o di un aspetto dell'uomo stesso.
Altrettanto decisivo è non perdere il carattere unitario del essere umano. L'uomo non è un fattore
biologico più un fattore culturale, più un fattore morale, io un fattore religioso; è, invece, una sintesi
irriducibile e non scomponibile: sintesi vissuta, pensante e operante. Poiché l'uomo è interamente
presente in ciascuna delle sue parti, chi educa non può non rivolgersi alla persona nella sua
interezza. Ciò non significa che non si debba tener conto dei caratteri di ciascuna età o meno ancora
fare confusione fra i periodi evolutivi, introducendo anticipazioni o posticipazioni nella proposta
educativa. Insomma, chi educa deve considerare la realizzazione dell'uomo carattere integrale, cioè
non solamente nel suo aspetto intellettuale, fisico o economico, ma nello sviluppo dell'intera
personalità, valorizzandone il ripetibile unicità e aprendola a tutta la comunità umana. Il valore
educativo di un gesto sta nella misura in cui esso si connette con il tutto. Perciò l'uomo non deve
considerarsi unicamente nella sua interiorità personale, ma nella totalità del suo essere umano.
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L'educazione deve comunicare un'ipotesi sintetica, capace di introdurre l'uomo nella vita,
coerentemente con suo bisogno di verità e libertà. Perciò, la proposta educativa deve farsi attenta
soprattutto i fattori costitutivi e originali dell'uomo in quanto uomo e quindi all'unità della sua
persona.
La sua significatività si coglie se si ha uno sguardo interpretativo unitario, ossia una visione di
insieme, capace però di dare ragione del concreto particolare cui si riferisce. L'interesse che
mantiene unito il processo educativo, pur nel suo non del tutto prevedibile ritmo di sviluppo, s'ispira
sempre a una volontà di totalità.
Unità e totalità dinamica della persona.
L’educazione, come azione mirata alla formazione della persona, è tale perché promuove una
risposta alle nostre esigenze più proprie; per esempio, l'espressiva, la logica, economica, la morale,
la religiosa. Esse sono distinte ma nel soggetto non si sviluppano separatamente, bensì nella
simultaneità, condizionandosi a vicenda nell'interferenza reciproca. l'educazione non si limita a
sviluppare soltanto la ragione, né unicamente la volontà, ma, rivolgendosi all'uomo nella sua
interezza, promuove lo sviluppo delle facoltà dell'ammirazione, dell'intuizione, certo della teoria e
del pensare rigoroso in vista del formarsi di un giudizio personale. Stabilire che l'educazione non è
un assemblaggio di parti già perfezionate in ambiti settoriali, ma è un processo organico, unitario,
uno sviluppo perfettivo dell'uomo considerato nell'unità composita di tutti i suoi fattori, è un
esigenza inerente alla considerazione dell'educando nell'unità e identità del suo io. Ciò richiede lo
sforzo continuo di risalire oltre il momento derivato dell'analisi, per raggiungere l'intelligenza
unitaria dell'intero punto si sa che ogni funzione è un rapporto con l'organismo, solo la totalità di un
corpo segna il valore di un particolare membro, ed è così che il particolare assurge a dignità di
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funzione. Nel mio essere posso distinguere il sentire, il volere, il pensare, sono pur sempre io che
sento, io che voglio, io che penso. E' la persona che, con intelligenza e volontà, vive e deve essere
educata. La sua condotta, infine, risulta da tutta la sua personalità, e la sua affettività vi è interessata
quanto la sua intelligenza. Ciò non significa che ciascuna facoltà non possa essere caratterizzata con
propri elementi.
L'educazione non è opera di immaginazione, ma luce che si offre alla ragione, cioè alla capacità di
riconoscere il vero. Dell'arte stessa di educare, il pedagogista può imparare non tanto a creare un
senso, quanto a portarlo da un una latenza inespressa, da una chiusura oscura, all'autenticità e
all'apertura.
Ciò esige una posizione morale capace di sostenere il desiderio di mettersi obiettivamente a
guardare le cose e ricomporre insieme il reale senza prevaricare con alcun pregiudizio. Siccome non
si tratta di un lavoro fatto una volta per tutte, è normale che si diano pedagogia marcatamente
distinte e formulate in modo diverso, a seconda della tradizione culturale di chi le elabora, con
diversi presupposti terminologici e filosofici e situazioni concrete a cui la pedagogia tenta di dare il
suo contributo. Lo sviluppo perfettivo proprio della formazione della persona, cui mira
l'educazione, non può prescindere dalla crescita naturale, e dal fatto che essa gode di una sua
innegabile spontaneità: sicuramente, una notevole parte della nostra evoluzione fisico psichica può
avvenire senza interventi coscienti da parte di altri uomini. Ma anche tale sviluppo pone allo
studioso di pedagogia il problema della comprensione teorica. Il centro dell'educazione e della
pedagogia, infatti, è la persona concepita nella completezza delle sue strutture fisiche, intellettuali,
morali e spirituali.
La riflessione pedagogica sullo sviluppo perfettivo dell'uomo non può contentarsi di sovrapporre o
di coordinare i risultati delle diverse scienze. Essa deve tener conto delle loro acquisizioni e farne
materia di riflessione, ma alla fine sa di doversi misurare non tanto a livello dei meccanismi
parziali, ma di un essere considerato nella sua totalità. Il pedagogista sta bene che senza un
osservazione scientifica accurata il suo discorso mancherebbe della concretezza e della positività
richieste dal rigore dello studio, ma egli deve pure collegare in un quadro sintetico ogni riferimento
al senso della vita derivato dalle scienze sperimentali. Alle scienze umane si concederà volentieri
una validità funzionale, ma è compito della riflessione pedagogica dare un'indicazione direttiva
all'educazione. L'insistenza sulla necessità di una visione unitaria e organica dell'atto educativo
porta a riconsiderare il tema della persona.
Il concetto di persona, alla base degli ideali moderni di libertà, democrazia, solidarietà, dignità
umana, partecipazione politica e responsabilità economica, assume anche in pedagogia un ruolo
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chiave. Il problema della persona, scrive Alberto Granese, si caratterizza come il problema
pedagogico per eccellenza e anche il problema filosofico per eccellenza.
Luigi Stefanini dichiara che l'educazione tocca l'ideale della concretezza quando raggiunge la
concretezza personale. L'educatore deve sempre tener conto tale primato, oltre qualsiasi
determinismo e considerazione sentimentale; solo così egli ha cura che l'educando realizzi la
propria umanità nella sua concreta situazione, senza asservimenti di sorta.
Il pedagogista guarda all'unità totalità dinamica della persona; non a una sua parte, fosse anche la
più eccelsa, ma al tutto nella sua completezza. Unità "dinamica", perché considerata come totalità
ancora incompiuta, come unità di prospettiva, posta com'è nel contesto di uno sviluppo mai
concluso, non esauriente il processo educativo. In effetti, l'unità della persona, la cui ricchezza si
rifrange in una varietà di disposizioni specifiche, eh sempre anche costante ricerca della sua
integralità, nel concreto, ha bisogno di essere continuamente ricomposta. L'unità naturale e
culturale, che costituisce l'orizzonte della formazione, può prospettarsi come il risultato di una storia
aperta alla novità. Nessun atto educativo è fine a se stesso, esso può dirsi tale solo come un aspetto
e in funzione dell'unità di corpo e anima, di cuore e di coscienza, di intelletto è volontà, e quindi
della situazione globale in cui la persona vive. Il cardine della riflessione pedagogica non può che
essere l'unica di cui facciamo esperienza, come realtà dinamica e differenziata nel suo interno da
molteplici livelli. La continuità del nostro sviluppo è spesso interrotta da brusche mutazioni. Non di
obiezioni, ma della condizione storica in cui avviene la nostra crescita. Quanto si intende rimarcare
è che l'educazione possiede per sua natura una dimensione di globalità, perciò, l'educatore non può
limitarsi a dare il suo pezzetto d'istruzione.
Un educatore che non forma, deforma. Una scelta educativa non è mai indifferente e irrilevante; da
essa può dipendere l'ascesa o il tramonto di una persona o di una società. Non esiste neutralità di
sorta in educazione, anche il non far nulla, in realtà, equivale a un bloccare, a un produrre una stasi,
cui inevitabilmente segue un'involuzione.
I rilievi fatti vorrebbero servire sia per segnalare l'insufficienza di una prassi educativa
riduttivamente concentrata nella coltivazione di qualche aspetto o abilità dell'educando, sia per
rimarcare che la teoria pedagogica, per orientare e accompagnare il formarsi della persona, studia i
singoli aspetti fisici, psichici, rituali, sociali, religiosi, dell'uomo nella loro integralità e dinamicità.
Chi pone al centro della sua riflessione la formazione dell'essere personale non studia affatto una
parte del tutto, ma un vissuto nel tutto.
Realismo pedagogico.
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Secondo Aldo Agazzi, le note autentiche dell’educazione, “richieste dalla deontologia educativa”,
“possono essere così enumerate: integralità, integrazione, armonia, gerarchia, simultaneità”.
L’educazione deve essere integrale, nel senso che deve volgersi a tutti gli aspetti costitutivi e
dinamici del soggetto;
-
Integrata, cioè sempre coinvolgente l’intera personalità, anche quando si specifica in uno
dei suoi aspetti, ad esempio quello intellettuale, fisico, sociale ecc.
-
Armonica, e quindi secondo giusti equilibri di sviluppo e di esercizio, vigile nei confronti di
prevalenze e vantaggio di certi aspetti o d’insufficienze a scapito di certi altri;
-
Gerarchica, nel senso che deve valorizzare quanto è umanamente più elevato rispetto a
quanto lo è meno: ad esempio l’etico ha più valore sull’intellettuale, lo spirituale del fisico
ecc.
-
Simultanea, vale a dire diretta contemporaneamente a tutti i vari aspetti della vita
dell’educando, in ogni sua età. Anche se non tutto si riesce a conoscere, occorre in ogni caso
tendere alla completezza, perché l’uomo è un’unità ottenuta con un’integrazione di elementi
tutti diversi, ma ciascuno necessario alla somma.
Adottare questa prospettiva significa giudicare equivoco il proposito di dedicare l'educazione in una
determinata età ai sensi, in quella successiva all'immaginazione, in seguito all'intelligenza, poi alla
moralità e via dicendo. Se l'educazione abbraccia l'intero orizzonte della personalità, essa non si
attua per periodi successivi e da funzione a funzione. Tuttavia, ciò non esclude che essa sia
progressiva, soprattutto nel senso che l'educatore deve sapersi adattare ai caratteri presentati dalla
personalità dell'educando, considerato nel suo contesto di sviluppo in ciascuna fase dell'età
evolutiva. E' una necessità propria dell'educazione sciogliere i problemi da una sospensione astratta,
per valutarli nell'unità della loro effettiva concretezza. Quanto più importa è imparare un
atteggiamento che chiamerei realismo pedagogico, per evocare l'atteggiamento mentale di
chiaroveggenza verso la realtà, che si deve saper riconoscere per ciò che è, quale essa è. Questa
disposizione guida la volontà ad abbracciare la vita umana nel suo insieme, compresi la precarietà e
il bisogno. Si tratta di rispettare l'uomo nella sua estrema complessità. Per questa ragione, le
comunità umane esigono relazioni non solo politiche e sociali, ma anche personali.
La divisa della prudenza, che suppone una giusta valutazione quanto è giusto decidere delle proprie
circostanze concrete della vita, può costituire un principio orientativo coerente con la
consapevolezza propria del realismo costruttivo dell'educatore, risoluto a non disperdere il suo
compito in una frammentarietà di problemi indipendenti dal rinvenire una sintetica visione
esplicativa. Non bisogna dimenticare che la cautela è la modalità dell'agire.
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La condizione efficace per poter realizzare la nostra umanità secondo il suo autentico destino è
l'impegno con la vita intera, nella quale tutto va compreso: amore, studio, politica, denaro ecc.
L'educazione deve disporsi in modo da comprendere tutto, non solo con un'intenzione implicita, ma
sul piano stesso della manifestazione e dell'azione. Deve accingersi a integrare nell'unità della
coscienza anche quelle componenti dolorose della nostra condizione quale per esempio la malattia e
l'insuccesso. Le innumerevoli azioni che costituiscono la trama dell'educazione sono sempre nel
segno della speranza di conseguire una meta. Non attendere alle esigenze dello scopo che occorre
perseguire, non lasciare che esso guadagni tutto lo spazio di cui ha bisogno, sarebbe una grave
insipienza educativa, essa farebbe perdere all'educazione l'organicità che le appartiene.
Come l'educazione non deve essere un bene da fruire riservato a un'elite, a un'aristocrazia
intellettuale o economica della società, ma un elemento essenziale che appartiene alla dimensione
ontologica dell'uomo, così essa deve anche estendersi a tutte le manifestazioni proprie dell'umano, a
tutto ciò che è intima connessione con l'esistenza dell'uomo. La vita stessa e il campo
dell'educazione. L'ascesi che l'educazione richiede interessa tutta la persona e non deve confondersi
con una delle forme di allenamento parziale in vista di un exploit, di un record, sebbene siano noto
quanto al riguardo sia intenso il rigore ascetico dell'esercizio.
Al riconoscimento della vasta capienza della pedagogia corrisponde l'elasticità e molteplicità del
metodo di lavoro nella ricerca e nella comprensione dell'unità interiore che legga insieme la varietà
nei suoi singoli aspetti. Tuttavia, il punto di vista della pedagogia verrebbe equivocato, se
dall'esigenza di totalità ed al conseguente dovere di tendervi si deducesse che il pedagogista
pretende di conoscere l'intera realtà.
Osservare e riflettere sul fenomeno educativo dispone più facilmente a comprendere che i casi della
vita non possono comprendere tutta la vita, né permettono su di essa giudizi assoluti. Sarebbe un
falso giudizio definire vita il segmento di destino misurato indipendentemente dalla totalità del
nessi che l'uniscono al suo reale compiersi, cioè al fine che le dà il suo valore. Anche gli enunciati
pedagogici non riescono ad assumere la pienezza del reale.
Nessun concetto riesce a dominare pienamente il problema pedagogico.
Un altro equivoco potrebbe darsi nel momento in cui si chiede al pedagogista di distribuire la sua
attenzione sugli innumerevoli elementi dell'intero pedagogico: impossibile abbracciare in una sola
volta troppe cose, perché, se così avvenisse, la conoscenza che se ne avrebbe sarebbe superficiale e
generica.
Se la ragione specifica la natura umana, allora il senso della vita dell'uomo riguarda non solo la sua
attività istintiva, ma anche quella razionale, cioè quanto muove il suo interesse, è la verità
dell'essere. Forse è questo il motivo principale per cui chi cerca veramente la verità può non
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dubitare di essa, ma soltanto delle proprie e dimostrazioni del vero. La ricerca dell'uomo, infatti, è
tensione mai del tutto compiuta, positiva, ma incompleta nel risultati, perché provvisoria rispetto al
definitivo e assoluto cui aspira. Solo l'assoluto può considerarsi l'ultima struttura di riferimento e
quindi di funzionalità dell'uomo. L'assoluto è tale perché ha in se la sua ragione di essere, a
differenza del relativo, che non può evitare di chiedere all'assoluto la sua ragione d'essere formale,
efficiente e finale.
Non si possiede la verità come cosa raggiunta, piuttosto come una strada da percorrere per arrivarci
punto la nostra conoscenza, anche quando attinge con certezza a una verità obiettiva, non ne
esprime a fondo che qualche aspetto.
L'azione dell'uomo è sempre nel mondo, la stessa conoscenza della propria interiorità spirituale si
raggiunge congiuntamente alla conoscenza del mondo. Impegnare la propria umanità per una
società migliore, partecipare alla trasformazione del mondo, conduce anche a una progressiva
umanizzazione di sé, a una crescente e più intensa autocoscienza, e quindi ha una più radicale
responsabilità davanti alla storia di tutti. Se questo è il metodo adeguato per studiare l'uomo in
prospettiva pedagogica, ne consegue che, senza un impianto ideale ricco di uno sguardo positivo, di
un'ipotesi capace di abbracciare interamente l'esistenza, l'uomo non scopre se stesso come la sintesi
di molteplici significazioni in un senso unitario.
La pedagogia molto può contribuire a ricordare che la persona deve essere considerata nella sua
unità integrale, non atomizzata, e quindi saputa guardare come una totalità dell'intero corso della
sua esistenza, contro divisioni e opposizioni preconcette. L'esigenza si avverte più vivamente
all'inizio della vita, perché l'inizio richiama il tutto con più insistenza; in realtà è vera sempre. Se si
guarda alla singola persona, occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza
trascurare la crescita della sua libertà e della sua capacità di amare. Forse più delle altre scienze
umane, la pedagogia può valorizzare il metodo denominato da Blondel "dell'implicazione e
dell'esplicitazione", e così da lui chiarito: "Implicare non significa inventare, dedurre, significa
piuttosto scoprire ciò che è già presente, ma non osservato, non ancora conosciuto". Bisogna
distinguere, ma non separare, so che nel concreto della realtà storica si intreccia e concresce
unitariamente.
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Paideia come paradigma.
A fondamento dell’azione educativa e della ricerca pedagogica sussiste la consapevolezza del
rapporto del particolare col tutto di cui è espressione.
Tale riconoscimento porta con sé la volontà di conseguire l'integrazione di tutti gli elementi
necessari perché l'uomo realizzi la sua umanità. Il discorso pedagogico non si rassegna alla pura
evidenza logica, perché fa parte della sua natura mirare alla persuasione esistenziale. Nella volontà
di accogliere è valorizzare l'uomo in tutta la sua ricchezza e complessità, può rivivere perfezionarsi
l'idea classica di Paideia, come formazione armonica dell'intera personalità umana allo scopo di
renderla libera e felice. Questa esigenza non è solo dei Greci, si tratta di aiutare l'uomo a diventare
padrone di sé, e quindi salvarlo dallo squilibrato furore delle sue passioni, dallo scontrarsi degli
interessi egoistici, facendo leva sulla sua vocazione alla razionalità. La Paideia, abbraccia sia
l'esercizio e l'impegno di tutte le facoltà di ciascun individuo sia la realtà e i valori cui egli si apre,
perché ritenuti idonei all'educazione o formazione di un uomo libero.
La virtù che si deve perseguire richiede l'acquisizione di una certa nobiltà, perché l'uomo sia
armonico ed equilibrato. Allo scopo è necessario un austera autodisciplina che comandi e sorvegli
la "giusta misura, risultato di una esperienza in cui contemporaneamente si deve dare prova di
prudenza e di coraggio, di semplicità, di sincerità, e armonia". Marrou sottolinea che "la pedagogia
classica s'interessa all'uomo in sé, non al tecnico attrezzato per un compito particolare". Il suo scopo
dichiarato è quello di aiutare l'uomo a progettare la sua esistenza secondo un ideale capace di
conferirle un senso completo, in modo tale da dargli anche il coraggio di vivere questo progetto.
In una prospettiva unitaria che non scinda corpo, psiche, ragione, ogni attività, anche la più umile,
se è volta al miglioramento dell'uomo, può essere educazione o Paideia.
La paideia è educazione alla liberazione personale del male, e quindi a fare il bene e a fare bene
quel che si fa. Perché l'uomo si disponga al bene in modo critico e consapevole, il suo giudizio
abbraccerà il problema del come fare, del perché fare e del se è bene fare così. Si rimarca in questo
modo il significato di Paideia come sorvegliata attenzione perché il moltiplicare la vita nel fare
tante cose non finisca per sostituire la verità dell'essere con il fare.
Il fare senza l'essere è sempre un disfare.
Socrate può dirsi l'esempio più celebre di dialogo tramandatoci dalla cultura greca. Alla sua scuola
di filosofia si assiste alla nascita di rapporti umani che vanno oltre la semplice connessione logica
delle idee, sicuramente Socrate è una guida più che un professore. In lui ci si imbatte anche con un
sapere peculiare e consapevolmente finalizzato a educare. Egli apre una strada maestra per
l'intelligenza del problema educativo.
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Nel Lachete, dialogo platonico che mette a tema il problema educativo dei giovani, egli parla
dell'educazione come della pratica che "ha per fine la cura dell'anima", per rendere i giovani più
nobili possibile. L'uomo per Socrate è essenzialmente anima, di essa bisogna prendersi cura più di
ogni altra cosa punto egli deve curare la propria anima e non deve lasciarsi prendere né dal proprio
corpo né dei beni che possiede.
Il filosofo ateniese assegna all'educazione il compito di richiamare all'uomo il dovere di conoscere
sé stesso, per sapere chi egli sia e in che modo debba impiegare la vita per realizzarsi pienamente.
Fatto proprio da Socrate l'imperativo del dio greco ha assunto nella storia occidentale un accento un
nuovo. "Conosci te stesso" vuole significare “impara a conoscere e ad accettare i tuoi limiti, non
serve superarli, perché non può darsi efficacia alcuna fuori da ciò che ti è assegnato”, oppure, detto
più concisamente "ricordati che sei uomo e non Dio". Conoscere se stessi e non prevaricare è
l'atteggiamento autentico che l'uomo deve assumere, l'unico coerente con la fondamentale legge
morale della sua natura. In Socrate c'è questo e altro, il comando divino è anche un appello a
cercare in noi stessi la fonte della verità per modellare il nostro io in obbedienza a un ideale etico.
Senza coscienza di sé non è possibile alcuna azione libera. Scrivere Francesco Adorno: "non si
tratta, per lui, di rendere gli uomini più dotti, ma consapevoli di suscitare negli altri una
consapevolezza critica. Il suo insegnamento fu un seminare, non un travasare, un fare sì che
ciascuno partorisse sé medesimo".
Il dialogo con Socrate non si affretta a produrre facili risposte ma coltiva domande. Davanti
all'interlocutore, egli si pone come colui che non sa e chiede, così stabilisce un orizzonte educativo
in cui tutto può essere domandato. Le risposte non sono accolte con scontatezza, ma riprese
attraverso sempre nuovi tentativi di penetrare nelle esigenze ed evidenze più recondite della
coscienza.
La domanda è uno strumento potente per chiarire come si giunge alla verità. L'arte di rivolgere
domande non è facile, se dura a lungo diventa snervante. Socrate può fare domande senza timore,
perché per primo non esita a mettere la propria persona al servizio della verità, senza preoccuparsi
di altro. Socrate è un autentico educatore, capace di ascoltare l'interlocutore in modo che ogni sua
parola, anche se è molto insufficiente, risulti una vera e propria presa di posizione, della quale la
discussione deve tener conto.
Grazie alla dote di Socrate di sentire e di reagire con l’interiorità dell’interlocutore, il dialogo con
lui costituiva sempre una benefica pro-vocazione, una sorta di scossa elettrica capace di creare un
turbamento intellettuale ed esistenziale, in cui la persona in causa finiva per sentirsi obbligata a
uscire allo scoperto e aprirsi al richiamo del cambiamento.
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Socrate paragonava la sua opera il suo metodo dell'ironia al lavoro della levatrice. Levatrice non è
la madre, la quale è tale perché concepisce, genera e matura in sè la vita del figlio, ma è colei che
aiuta la madre a mettere al mondo, a partorire il proprio figlio. Allo stesso modo, l'educatore non da
la verità all'educando, ma lo aiuta soltanto a scoprirla e custodirla, a esprimerla e a esprimersi in
essa. Il significato pedagogico proprio dell'idea di educazione come maieutica (arte della levatrice)
della persona ritorna in vari modi nella storia del nostro pensiero. Il maieuta aiuta a partorire il vero.
In questo modo Socrate può spiegare il prima e il dopo dell'apprendimento contro l'argomentazione
dei sofisti, secondo cui non si può insegnare, perché, se il discepolo sa già qualcosa, non ha certo
bisogno di venirne a conoscenza, se invece non sa, non può apprendere.
A tale obiezione Socrate risponde con la teoria della reminiscenza, secondo cui conoscere significa
ricordare, cioè esplicitare quanto già presente in forma latente nella coscienza.
Socrate è il maestro perché insegna ad interrogare. Alla sua scuola si apprende che nessuno
acquisisce un sapere capace di placare definitivamente la vita.
Anche Socrate però, sa essere persuasivo. La sua arte educativa è difficile ma efficace. Non si limita
a comunicare semplici nozioni, piuttosto, in un discorrere intimo da persona a persona, rivela come
dentro un interesse vitale operi una vera e propria presenza. La parola è certamente un mezzo di
formazione ma sciolta dalla verità si presta facilmente anche alla deformazione e alla corruzione.
Dopo Socrate si comprende che la scuola relativa a un'educazione puramente civica, destinata quasi
esclusivamente all'esercizio di funzioni quali l'arte del discorrere per persuadere, non basta più. Si
fa strada la necessità di istituzioni più complete e di grado superiore, capaci di guidare la mente
oltre la grammatica e la retorica verso la scienza e la filosofia.
Perciò l'Accademia platonica e il liceo aristotelico diedero forma a un nuovo tipo di istituzione
educativa che fu l'archetipo dell'Università occidentale. Questa tradizione venne mantenuta ad
Atene e più tardi ad Alessandria durante i periodi ellenistico e romano fino alla chiusura delle
scuole ad opera di Giustiniano nel 529 d.C.
Socrate, presentandosi come inviato dalla divinità per annunciare il primato della cura dell'anima,
offre la testimonianza di una proposta educativa, di un metodo di risveglio della coscienza morale,
di un esercizio formativo dell'habitus del pensare il vero e il bene. Da questa tradizione si continua a
imparare che l'educazione o è integrale o non lo è. Essa, per essere autentica, deve saper cogliere
l'uomo nel suo articolato e complesso rapporto con la realtà della sua crescita. L'io permane nella
sua unità pur nel fluire del corpo che si trasforma. Nelle diverse età che vive, l'uomo è un tutto, così
nella sua fanciullezza, giovinezza, maturità, vecchiaia, l'unità del suo io permane nella molteplicità
e successione di tutti i momenti esistenziali attraversati dal suo mutare, evolvere e crescere.
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Sosta nella metafisica classica.
Un'opinione diffusa sostieni l'idea che la ricerca del fondamento e del senso ultimo che giustifica la
vita riguarda soltanto l'ambito di un'opzione privata. Il sapere intersoggettivo, proprio della verità
oggettiva, non sarebbe in grado di dire nulla sul valore che finalizza la scelta e l'azione individuale.
Il pensiero antico e medievale ha una ferma consapevolezza di quanto sia determinante per la vita
dell'uomo non perdere di vista il fine ultimo cui tende il suo pellegrinaggio intellettuale e morale.
Secondo questo modo di vedere, ogni tendenza è sempre tendenza verso qualcosa; tale è la
caratteristica del fine, che, dal punto di vista dinamico, cioè dell'azione, equivale esattamente alla
forma dal punto di vista statico, cioè dell'essere. In questa prospettiva, forma e fine non possono
incontrarsi e compenetrarsi, perché nella stessa forma dell'ente è iscritta la spinta verso la sua piena
realizzazione.
Il nominalismo moderno, invece, non può essere fatto proprio da chi intende ogni fase ed
espressione del processo formativo in essenziale coesione con la dimensione ultima e privilegiata di
un esistente radicato nell'essere.
L'uomo è in divenire, non nasce in uno stato di compiutezza: prima di essere adulto, egli è bambino,
cioè deve farsi adulto. Lo sviluppo non potrebbe determinarsi se non scaturendo da un’intima
energia, tale da permettere al bambino di affermare la sua personalità e la coscienza di sé come
uomo. In questo senso può dirsi formazione dell’uomo l’emergere di qualcosa qualitativamente già
implicata nella sua peculiare natura sin dall’inizio, almeno come esigenza dinamica della struttura
del suo essere.
Determinato nella propria essenza dal momento stesso in cui comincia a esistere, l'uomo, perché
sostanza finita, si dirige verso il proprio condimento attraverso le modificazioni operate dal suo
agire. Così, egli cerca e trova la sua forma. Il nostro essere è dunque un'essere-verso una pienezza
conforme alla nostra natura, che, tuttavia, deve essere realizzata dall'azione. Secondo la metafisica
classica l'essere vivente agisce secondo il dinamismo della sua natura e del suo istinto, ha una
propria iniziativa, una capacità di muoversi in vista del suo arricchimento e perfezionamento. Per
comprendere in radice il significato di "formazione" è utile interpretare i fondamenti della realtà.
La formazione, infatti, è caratterizzata da una connotazione dinamica, figura come seme e sviluppo
che si esplica secondo una gradualità, e quindi una finalità.
Se si guarda la materia come capacità di assumere una determinata forma, allora si parla di
"potenza" di quella determinata forma. Correlativamente, il termine "atto", nel suo compiersi,
designa il realizzarsi di una determinata potenza. La potenzialità di un ente è la sua stessa capacità
di essere. La parola "atto" per Aristotele designa compiutezza. A rigore, non "forma", ma
realizzazione della forma. Solo quando è in atto, resistente esprime esplicitamente ciò che è: l'atto
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ha perciò una priorità sulla potenza, perché solo l'atto è conosciuto. Aristotele chiama "atto" la
prima perfezione dell'essere, e "potenza" il soggetto proporzionato che la riceve. In tutto ciò non c'è
dualismo: la potenza e l'atto non sono due cose, ma due stati o modi di essere di cui è suscettibile
ogni categoria. Nessuna contrapposizione è più assurda di quella tra atto ed essere, dal momento
che la determinazione dell'essere reale è precisamente l'atto. Poiché la forma e principio di essere e
di attività e ogni attività si esplica attraverso la forma, l'assenza sta all'esistenza come la potenza
all'atto, precisamente nel senso che la perfezione dell'essenza è l'atto di esistere cioè quanto fa sì che
l'essenza non resti nel mondo dei possibili, ma diventi parte della realtà attuale 1.
Dovendo stabilire il rapporto ontologico tra la potenza e l'atto, non si esiterà a fissare il netto
primato dell'atto nell'ordine logico, perché la potenza si definisce mediante l'atto; sul piano
gnoseologico, perché senza un essere in atto non c'è possibilità di conoscere ecc. Bisogna precisare
che il passaggio dalla potenza all'atto non si dà mai come tensione di sviluppo verso un attuazione
qualunque, ma avviene sempre in quello sviluppo predisposto da una finalità predeterminata. Si
tende secondo quello che si è. Questa è la ragione per cui il concetto generale di divenire è
insufficiente a definire la potenza: il passaggio dalla potenza all'atto esige, infatti, la spiegazione di
un divenire specifico.
Lo sviluppo è questo passaggio dalla potenza all'atto, il quale avviene secondo il parametro della
possibilità e non della necessità.
Giacché l’atto, come principio di unità determinante, è il pieno tradursi in realtà della forma che
presiede al divenire, si apprezza la genialità di Aristotele nel designare questa peculiare
caratteristica con il termine Euteyexia? (termine greco). Con questo termine egli intende indicare lo
stato di perfezione, di compiutezza, proprio di un ente che ha raggiunto il suo fine, cioè ha attuato
interamente il suo essere in potenza.
Secondo Aristotele, l'ente possiede una causa formale in quanto ha in se stesso una finalità, verso la
propria realizzazione. Perciò, è il culmine dello svolgimento organico di esso, il pieno realizzarsi
della sua forma. Questa forma, insiste Aristotele, è anche la causa motrice dell'ente, il cui moto non
è altro che "l'atto del possibile in quanto possibile". Perciò, il fine e il termine del movimento, del
divenire, non sono altro che la proiezione dinamica dell'eioos? (termine greco). Dunque ogni ente
ha in se stesso una determinazione immanente al divenire. Ogni uomo ha la sua forma interiore che
lo dispone alla visibilità del mondo. I passaggi della sua crescita, con i suoi colpi, i suoi ritmi, il
tragitto delle sue energie, i suoi slanci e le sue misure, possono tradursi in una morfologia
esistenziale, perché obbediente a un dinamismo finalizzato.
1
Tommaso d’Aquino, Summa Theologica.
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Il problema dell'educazione è quello "dello sviluppo dell'individuo fino a raggiungere il livello dei
tempi attuali, il livello di sviluppo qui è giunta alla cultura e la civiltà occidentale". Significa
chiedere alla memoria un sostegno per realizzare quegli obiettivi di criticità, creatività e scientificità
peculiari della nuova Paideia. Sostare nella metafisica classica non è un superfluo archeologismo,
ma un aiuto a fissare con maggior chiarezza i termini essenziali della nostra natura oggettiva, e
quindi approfondire teoricamente i fattori fondamentali senza i quali il processo formativo non
potrebbe sussistere. Il contributo della metafisica penso possa meglio attrezzarsi quando si constata
come da un problema teorico possa dipendere una più intelligente visione della nostra concretezza,
della nostra singolarità, la ove si presenta nell'ontologia della persona e nella storicità della
decisione.
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Identità e differenza.
Una pedagogia che intenda farsi capace di dialogare con le molteplici visioni dell'uomo non può
relativizzarsi nello scetticismo, soprattutto se si dispone a riflettere su fondamenti e finalità che
reggono il processo educativo. Lo sforzo razionale richiesto richiede, infatti, il ritrovamento di uno
sguardo metafisico. Nell'orizzonte della metafisica classica, il fine prevale sui mezzi, dal momento
che nel fine si esplicita la verità ontologica dell'ente. Poiché il fine cui sono destinato è anche il
compimento del mio sviluppo, l'euteyexeia? della mia persona, se ne manca la coscienza, si lavora a
vuoto.
Tuttavia, non ogni agire può essere qualificato come educazione. Non basta operare limitandosi a
perseguire dei fini particolari, ma è necessario aprirsi alla luce di un senso capace di orientare
l'uomo in quanto persona, e quindi di regolare il dover essere del processo formativo. Parlare di
traguardi invece che di fine, perché meno vincolante e più aperto al principio di variabilità del
processo formativo in base agli avvenimenti esterni, offre un contributo ma non è un'alternativa.
Promuovere la libertà della persona di essere ciò che essa è esige la coscienza cui mira il nostro
divenire perfettivo, cioè dal punto di attrattiva in cui l'esistente può comporsi in unità. Nel corso del
suo sviluppo l'uomo si presenta sempre perfettibile, mai del tutto realizzato. Si fa presto a
riconoscere quanto sia difficile essere quel che dobbiamo o vogliamo essere.
La nostra personalità coincide con la nostra storia, e la storia è uno svolgersi irreversibile, non una
sorta di ingranaggio d'orologio predefinito che gira in tondo. Devo guadagnare l’unità della mia
persona, vivere in modo da essere veramente quello che vive la sua vita.
Dallo stato indifferenziato del neonato alla personalità differenziata dell’adulto, l’uomo è un dato
già al primo avvio, ma mai può dirsi giunto alla sua pienezza; sempre gli manca qualcosa che deve
avere e cui la sua natura tende. Resta sempre una divergenza fra ciò che il nostro essere desidera e
ciò che effettivamente realizza. La tensione più profonda sembra sia quella volta a conseguire la
certezza di non essere vissuti invano, di non apparire e sparire come un’ombra.
Nella formazione dell'uomo si attua una sintesi in cui sulla ricchezza del dato originario si
costruisce l'acquisito, l'esperienza: verso il personale riconoscimento dell'essere, dell'unità, del vero,
del buono e del bello, convergono sviluppo, apprendimento, cultura. Quando si tratta del farsi
dell'uomo, è ingiustificato parlare di uno slancio istintivo, ateleologico, cioè senza fini
predeterminati. Una delle qualità del vivente è quella di trovarsi in un costante processo di
mutamento. Quando la vita stagna, assomiglia terribilmente alla morte. Il vivente possiede la
caratteristica di articolare invarianza e capacità di cambiamento. Il soggetto del cambiamento è
sempre lo stesso io in un continuo crescere, divenire, evolversi, esposto alla possibilità di migliorare
o degenerare. Per diventare ciò che si deve essere è necessaria una lotta per identificare se stessi,
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per costruire la propria identità. Il senso o il non senso della sua umanità non appartengono all'uomo
in forza di automatismi in nati, la nascita non esaurisce tutta l'esprimibilità delle sue esperienze
storiche e sociali. Il “devi” diventare ha per presupposto il puoi diventare, occorre riconoscere che i
ritmi nell'esistenza umana sono segnati da cedimenti e riprese di una libertà responsabile situata
nello spazio e nel tempo.
L'affermazione che l'uomo è unico con le sue qualità non chiude il suo io nell'identico, ma richiama
la categoria della differenza. Noi siamo continuamente sospinti fuori di noi stessi, verso l'alterità,
verso tutto ciò che è altro da noi.
Esistendo, uscendo da noi stessi, trascendendoci, aprendoci noi viviamo nella forma e creiamo
differenza, ci differenziamo. Il processo della nostra formazione è un processo continuato di
differenziazione e identificazione. La differenziazione dei peculiari tratti personali avviene nella
coscienza, da parte del soggetto, della propria identità. I due aspetti coinvolgono in un itinerario per
a un traguardo mai del tutto staticamente definito. Una dialettica ineludibile e aperta vieta al
formarsi della persona di fissarsi nell'identico.
Proprio la differenza è il fattore che tiene aperto il futuro.
La maturità non giunge a noi come un destino cieco di un corso naturale, ma si realizza
coinvolgendo la decisione della nostra libertà. Frutto di una differenziazione progressiva e non
dell'accadere sempre-lo-stesso, la nostra identità rimane custodita nell'esperienza della differenza, e
quindi nella coscienza del cambiamento. Restare bambini significa prolungare una persistenza
dentro un'incompleta differenziazione. La persona, dunque, non potrà essere compresa nella sua
interezza senza tener conto di questa sua disponibilità strutturale all'alterità, alla differenza che la
qualifica nella sua identità.
Ogni persona ha valore in sè, ma è anche capace di assumere l'alterità come proprio fine. L'uomo
non sente solo la voce del proprio Io, delle sue passioni, dei suoi dolori, ma si costituisce come un
trascendere il proprio egoismo, e quindi come un arricchirsi con la conquista del ulteriore. Affinché
vi sia storia, non basta si diano avvenimenti importanti, ma è necessaria tra essi una continuità.
Se la vita è processo, essa non può muoversi verso qualcosa, non potendo attendere a nessun'altra a
metà migliore, tenderà al compimento di sta stessa, e quindi ha un traguardo che durante il processo
non può dirsi del tutto realizzato punto al riguardo, un interessante suggestione ci viene offerta
dall'etimologia della parola dif-ferre, cioè portare altrove, oppure portare da un'altra parte. Il
movimento suppone un essere che cambia, il quale pur cambiando resta se stesso attraverso le fasi
del cambiamento. Si può anche dire che uno sviluppo è sensato solo se l'essenza di quanto muta
rimane se stessa.
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L'uomo non consiste in sé stesso, ma aperto e proteso, sul filo del rischio, verso ciò che è altro da
se, soprattutto verso l'altro essere umano. In ciò egli è autenticamente se stesso, e lo diventa sempre
più, quanto più osa affermarsi non come individualità chiusa ma aperto e proteso verso qualcosa che
giustifica tale rischio. L'uomo e in ogni momento in procinto di farsi uno di fronte al diverso.
L'universalità cui tende non è mai terminata, ma dovrà essere sempre completata. Si deve anche dire
che essa è continuamente compromessa, perciò l’uomo deve difenderla e, in tanti casi, perfino
“rifarla”.
Ognuno di noi è lo stesso io di quando è stato concepito, pur nel metabolismo e nel ricambio, nel
mutare dei pensieri e dei sentimenti, delle opinioni e delle convinzioni, che nel tempo si
susseguono. Sulla base di quanto detto, si tratta di comprendere di più cosa concilia equilibrio e
modificazione, in prospettiva di un'evoluzione nel segno della continuità nel cambiamento. Un altro
principio regolativo si potrebbe così formulare: l'aspetto mutabile dell'uomo è relativo al suo quid
assoluto, che permane immutabile. Si rende necessario riconoscere l'altro nella sua irriducibile
originalità, senza definirlo unicamente dalle differenze che presenta. Se formazione non è solo
ripetersi dell'identico, ma dice anche autentica è attiva trascendenza, bisogna rimarcare come nel
nostro formarci, così come nell'atto e pone una differenza, sia necessario il permanere dell'identità,
qualunque sia il fine del nostro trascenderci. Chi si forma non diventa un altro essere, ma resta
quello che è. Si diventa sempre più se stessi intorno all'originale nucleo della propria personalità,
secondo le individuali disposizioni e capacità.
Formare e formarsi non significa semplicemente cambiare, anche perché una tale enfatizzazione del
cambiamento espone al rischio di considerarlo un valore in sé che esime dal compito di interrogarsi
sulla sua direzione e qualità.
L'arricchimento formativo è manifestazione dell'essere, rende visibile e porta a espressione matura
quanto l'individuo ha di più intimo ed essenziale.
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CAPITOLO TERZO
L’UOMO COME INSOPPRIMIBILE DOMANDA DI SENSO
La ricerca di senso.
L’uomo non può evitare di preoccuparsi di ciò da cui la sua vita dipende, come il cibo, il vestito,
l’abitazione. Il suo interesse, però non termina qui; si apre, infatti, a originali esigenze conoscitive,
estetiche, sociali, politiche, religiose.
Egli non può eliminare la domanda di senso della sua condizione presa nel suo insieme, senza
rinunciare a esistere umanamente. La necessità decifrarti è sempre stata presente nella coscienza
dell'uomo. Gli altri problemi esistono solo perché l'uomo è un problema a sé stesso. Il segno
distintivo che segna l'uomo consiste nel suo essere destinato a cercare il senso ultimo della sua vita.
"Ultimo" in quanto è il più radicale e influisce su tutti i precedenti interrogativi. L'esigenza propria
dell'uomo di una verità chiarificatrice il senso della sua esistenza, e quindi del suo agire, può essere
ben espressa nei termini con cui Maurice Blondel ha iniziato il suo capolavoro "La vita umana ha o
non ha un senso?". Il termine "senso" può essere inteso come un'accezione inclusiva di senso come
significato (così come si parla di senso di una frase) e di senso inteso come direzione (così come si
parla di senso unico di una strada, di un fiume). Si giunge allo stesso rilievo se si parla di senso
come valore intelligibile, che orienta lo sforzo di conoscere, e di senso come scopo o destinazione
finale. Forse non si deve trascurare di osservare che il problema del senso, benché legato a quello
della verità, non coincide del tutto con esso. Da un punto di vista logico-linguistico, il primo
precede di fatto il secondo; infatti, soltanto una proposizione sensata può essere vera o falsa, mentre
un giudizio privo di senso o significato non può né essere vero né falso.
Quando si parla di senso come destino, si solleva con urgenza pratica di soluzione più facilmente e
chiaramente presente alla coscienza di tutti. Rinunciare alla determinazione del destino della vita,
significa oscurare il mondo dell'azione morale. Se oltre ai fini e al di sopra di essi non vi fosse una
finalità ultima, capace di giustificare l'intero processo del vivere, la vita mancherebbe di un valore
adeguato a sostenere la volontà di progredire. Scoprire per la vita ha un senso, e quindi un destino,
vuol dire il ricercare, non in una parola, ma in una pienezza, la manifestazione integrale di quanto
giustifica l'esistere, proprio perché significa scegliere quella direzione verso cui la vita si muove per
raggiungere il suo compiersi. Poiché la domanda di senso capace di giustificare la vita è inerente
alla senza peculiare dell'uomo, essa non è confondibile con altri interrogativi. Gli altri interrogativi
si ricollegano alle domande con le quali l'uomo cerca di sondare la sua essenza. Chiedersi il perché
della vita, cosa voglia dire essere al mondo, il perché della gioia e del dolore, per quali strade il
tempo ci porta ecc.
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Il nostro rapporto con la verità della vita non è tanto in un soddisfatto possesso quanto in un'attesa:
non possiamo impadronirci della verità, ma possiamo esprimersi autenticamente secondo una
modalità che ci protende nella ricerca, anche quando la nostra fiducia è gravemente ferita.
Non si può prendere posizione sul senso della propria vita. Chi pretende di non scegliere ha già fatto
una scelta. Se il problema di quale sia il senso della totalità dell'esistenza è destinato a rimanere
insoluto, ogni cosa nella vita dell'uomo si relativizza e fluttua secondo il variare di un soggettivo
sentire: le ore di tutti i giorni passano disordinatamente, senza un filo capace di legarle in un ricamo
sensato.
“Il mondo delle spiegazioni e delle ragioni non è quello dell’esistenza”, afferma Jean- Paul Sartre ,
per il quale l’uomo vaga nell’esistenza come un vasto mare i cui flutti lo sospingono da uno scoglio
all’altro.
Vano pensare di attaccarci per afferrarci, qualsiasi appiglio si vola ai nostri agganci e fugge. Porre
come definitiva l'assurdità dell'esistenza rende vana la ricerca di uno scopo, di regole, di
motivazioni. Ma pretendere diversamente significherebbe adagiarsi, in mala fede, in una soluzione
fideistica.
Se l'unica conclusione della nostra ragione coincide con l'accorgerci che la nostra breve vita si sazia
solo di affanni, sboccia come un fiore ma presto appassisce, scompare come un sogno di un'ombra
in capace di durare, non possiamo nascondere a noi stessi la sua intima assurdità priva di scopo, il
suo essere un circolo senza traguardo. Al contrario della dialettica idealista (visione grandiosa e e
totale di tutta la storia dell'uomo), si contrappone si contrappone che l'esistenza concreta sfugge alle
conciliazioni della logica, si presenta come antinomia e contrasto. L'uomo abbandonato a se stesso,
si sente come un enigma spaventoso e impotente a sanare il divorzio tra il desiderio del cuore è il
mondo che delude. Dentro il progressivo aggravarsi di pena e delusione, si cela l'inesorabilità della
morte. In un simile orizzonte, l'esistenzialista, anche quando ammette che il sentimento
dell'angoscia non è comune né quotidiano, lo ribadisce come l'unica possibilità per andare oltre la
fatua immediatezza, fino all'autentica trama della vita. L'angoscia rivela l'essere nel suo complesso.
Solo all'angoscia può essere attribuito il ruolo doloroso ma lucido di svelare l'uomo a se stesso nella
storicità radicale della sua esistenza finita. Poiché l'angoscia permette di avvertire cosa significhi
essere gettati nel mondo e limitati in ogni senso, sentirsi sospesi tra l'essere e il nulla, essa ha il
compito di farci comprendere l'esistenza come finitudine e indefinita problematicità.
Sempre più lucida la convinzione che l'individuo è padrone non della propria vita, ma soltanto della
propria morte. A questa paradossale conclusione, che promette la forza di vivere solo a chi non ha
una ragione per vivere, accede chi guarda nel buio dell'angoscia come alla sola luce per cui l'uomo
può divenire consapevole della sua soggezione alla morte, precisamente nel senso che essere-nel55
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mondo significa essere-per-la-morte; "morte" come "possibilità dell'impossibilità di ogni
possibilità" dell'esser-ci. Così, nell'atto di scegliere la sua radicale contingenza, anche a rischio di
scoprire il carattere insopportabile dell'esistenza, l'uomo supera l'immediatezza della mera
individualità e mentre coglie in sé l'essenza dell'essere, può fare derivare ogni felicità possibile dalla
situazione dell'assurdo.
Nella volontà di accettare la nostra finitezza, s'impone come una consecuzione fatale il passaggio
dal timore di fronte a ciò che ancora non si conosce all'angoscia di fronte al nulla. Non basta più
parlare della semplice paura di qualcosa ma occorre parlare di angoscia, perché l'oggetto della paura
non è conoscibile e le nostre reazioni di difesa contro l'oscurità che prende la vita alla gola
sembrano impossibili.
La decisione di considerare l'angoscia quale criterio assoluto dell'autentica esistenza proviene da un
tema religioso caro a Kierkegaard. La filosofia moderna spiega il filosofo danese, ho scelto di
iniziare a filosofare partendo dal dubbio.
il bisogno di una fede, di una verità non riducibile a una semplice formula, di una presenza per cui
si possa vivere e morire. Se questa è la sua funzione, l'angoscia può non essere considerata soltanto
un esperienza negativa. Per chi è caduto nel peccato, l'angoscia, purché facilita il ritrovamento della
fede come decisione nell'infinità del possibile, contribuisce ad aprire una via di salvezza alla
redenzione e alla nascita. Il peggiore delle angosce ovvero l'angoscia essenziale ed esistenziale: il
terribile spavento di perdere definitivamente l'amore.
La drammatica percezione del nostro essere per la morte, dell'esistenza umana gettata nel mondo a
morirvi in uno stato di derelizione e di angoscia, l'esperienza della notte spaventosa della nostra
disperazione, chiama in causa la questione fondamentale del senso della vita e porta alla crisi a un
livello di profondità. Il nostro desiderio di essere è esposto continuamente al fallimento.
Una verità sulla vita anche le ferite della vita. Non si può rispondere alla vita, immaginandola senza
ferite quando ne è piena. Vale la pena chiedersi perché si concede una così esclusiva invadenza
all'angoscia, mentre si respingono altre esperienze esistenziali come non autentiche. Non è
un'esperienza rara trovarsi a contattare di non sapere cosa desideriamo, cosa vorremmo
profondamente, scoprirsi a sapere soltanto di non poter vivere dentro un buio impenetrabile.
Secondo l’antropologo Gehlen l’esigenza fondamentale dell’uomo di sapere della sua origine, e
quindi del senso della sua vita, è quanto poi decide del suo comportamento nel mondo.
Ascoltare la propria umanità significa accettare tutte le domande della vita e non rinunciare a
cercare in prima persona una risposta adeguata, servendosi di tutte le conoscenze e informazioni di
cui si dispone. Confrontare ogni accenno di risposta con le proprie esigenze ed evidenze personali è
un lavoro che ha la durata dell'intera esistenza.
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Per sapere cosa sono io, ho necessità di conoscere il motivo per cui sono al mondo e lo scopo cui mi
conduce la mia storia. Si può osservare che, senza una risposta al perché ultimo, l'uomo non sa
rimanere sospeso alla sua contingenza, ma perde la sua forma e precipita nel nulla del non senso.
Poiché la vita dell'uomo cresca, occorre che essa possa attingere a quanto è in grado di giustificarla.
Dal fondo di questo bisogno, che nessuno riesce a colmare da solo, scaturiscono domande radicali,
peculiari alla nostra umanità. “Perché alla gioia è legato il dolore?” ecc. in queste domande si
esprime l'elemento dinamico di quanto da forma e unità alla vita dell'uomo, cioè ragione, esigenza
essenziale, che guida la sua espressione personale e sociale attraverso originali istanze e
sollecitazioni. Il dissenso nell'uomo, è insopprimibile, ed è tale da investire la sua conoscenza il suo
affetto, le sue relazioni pubbliche e private. Quando l'interrogativo affiora rivela che la persona è
protagonista di un consenso e un'iniziativa originali. Le fondamentali domande interessano il
dinamismo più spontaneo della ragione di ogni uomo.
Il solo accendersi di una domanda di senso costituisce una testimonianza di come la realizzazione
autentica dell'umano non si dà senza il coinvolgimento profondo del nostro io.
La domanda di senso immette dentro un campo di tensione in cui sia l'intelligenza sia la libertà
vibrano e oscillano. Affermare l'esistenza di un senso significa anche lavorare per respingere il caos
fuori dalla dimora degli uomini, nel deserto impenetrabile, cioè ai margini del nostro potere di
rendere il mondo abitabile. Il riconoscimento di come la nostra struttura intima coincide con una
domanda inesauribile avvicina alla scoperta che gli interrogativi fondamentali, espressione della
nostra disponibilità essenziale ho un continuo trascendimento di noi stessi, sono la manifestazione
più alta della nostra umanità: rispondervi misura la serietà del nostro impegno con la vita.
Ridicolizzare il problema, relegando le domande fondamentali sul destino nel campo delle inutili
astrazioni, significa voler sopprimere la domanda che ci costituisce, decidere di rinnegare la nostra
stessa natura. Sarebbe un errore pensare che l'affermazione di un senso blocchi la libertà della
ricerca, chiuda lo sviluppo della coscienza in uno schema predeterminato. In realtà, pone la
condizione per ricercare veramente, per rendersi capaci di vera apertura di sincero dialogo e di
autentica educazione.
All'uomo non basta vivere. E gli chiede anche di sapere cosa sia la vita e perché valga la pena
viverla. Egli vuole anche avere qualcosa per cui vivere. La vita umana, possiede una più profonda
attrattiva che nella prospettiva accennata risulta nascosta o rinnegata. Una pienezza di limite e
gloria non chiude il nostro io nella prigione del puro calcolabile, ma lo apre alla conoscenza di una
dimensione infinita, che ci costituisce ontologicamente aperti alla luce della verità assoluta come un
momento essenziale di noi stessi.
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Corollario pedagogico.
L'approfondimento della tematica circa la ricerca del senso ultimo della vita e sicuramente
indispensabile per comprendere la natura e il valore dell'educazione, la cui azione si svolge
costantemente in un campo di verità e libertà, di testimonianza e cura. Poiché essa si situa in
relazione essenziale e necessaria a ciò che l'uomo è nel mondo e al suo destino, l'euristica del senso
della vita e condizione fondamentale della relazione educativa.
La possibilità stessa dell'educazione costituisce il primo problema pedagogico. Nessuna pedagogia
può avanzare nel suo discorso, se già in partenza si è costretti a constatare che mancano le
condizioni della sua possibilità. In educazione l'esigenza di un giudizio positivo sulla realtà, senza
censurare la sua contingenza e le sue tensioni, presto fa sentire la sua forza. Rassegnarsi a ripetere
che altro "non siamo se non il sogno di un'ombra" (Pindaro), su cui pesa un destino cieco, destinati
a subire i contraccolpi di una storia sulla quale non abbiamo nessun potere, e quindi paventare un
mondo paralizzato, ove la volontà di ognuno è inceppata, contribuisce non poco a togliere in
anticipo qualsiasi energia per ricercare uno sbocco positivo. Ricorrere al caso significa mascherare
la nostra ignoranza. Stare sul filo teso della negatività è molto difficile, è una situazione fragile. Il
peso di un destino assurdo risulta insopportabile, certo è l'ostacolo principale perché l'uomo
impegni la sua libertà.
Quel che avviene nel mondo civile a partire dalla fine dell'Illuminismo è il totale disinteresse per il
senso della vita. Non contrasta con il darsi da fare, anzi. Si riempie il vuoto con l'inutile. L'uomo
non ha più interesse per l'umanità. Sembrerebbe che a lungo andare anche il problema di un senso
ultimo della vita possa essere obliterato. La noia presto riempie il Carpe Diem di chi si trova
desolatamente ingombro della persuasione che quanto riesce ad afferrare non vale neppure per
l'attimo. Avvalorare questa prospettiva non può non finire per produrre una cultura di vita incentrata
sul consumo del presente e marginalizzare tutto quanto giudicato inservibile al proprio successo e al
guadagno a tutti i costi. Rassegnarsi ad andare avanti, fino a incontrare il nulla, la morte, non è un
programma che un uomo ragionevole può fare proprio.
L'educazione si fonda su una concezione dell'esistenza, e quindi tenta di risolvere il problema del
senso della vita. Un'educazione neutra è impraticabile. La relazione educativa intesa come rapporto
tra chi apprende e chi insegna, fiorisce in una trama articolata di rapporti in cui il problema del
senso sta alla base di ogni possibilità di apprendimento. L'emergenza educativa mi pare sia quella di
restituire ai giovani le condizioni di poter trovare il valore e il compito della loro umanità.
Senza un ideale ci si piega su proprio un vuoto, prevale il disprezzo di sé, si diventa negativi,
violenti, l'intelligenza perde la sua intuizione, l'amore la sua tenerezza la stessa vita istintiva finisce
per trascinarsi dentro una profonda apatia.
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Nessuna scienza, arte, politica, educazione, potranno aiutare l'uomo se viene meno la certezza del
minimo, se la vita non può in alcun modo essere percepita come rivelatrice di senso, se le sue
domande devono essere ascritte al campo dell'illusione irrealizzabile.
L'educazione rende inevitabile la necessità di sapere cosa sia corrispondente o difforme all'umano,
insieme a quale sia la via per conseguire la meta.
La perdita dell’interesse al problema del senso della vita è insieme effetto e causa dell’indifferenza
al problema educativo, e quindi alla questione della formazione della persona. Secondo Rita Fadda
“in uno scenario culturale in cui ne va del senso stesso dell’uomo, della sua consistenza e
inconsistenza, data l’incertezza dell’esito del processo educativo o in genere delle attività della cura
pedagogica, l’interrogazione sul senso diventa domanda sul senso dell’educare”.
Poiché la nostra realizzazione ha a che fare con una decisione circa il senso ultimo della vita e
dell'intero universo, spingersi fino alla profondità radicale del problema significa aprire la via
d'accesso al discorso pedagogico. La questione del senso, almeno in qualche momento, emerge
nella vita di tutti. In pedagogia deve sorgere in modo profondo per impedirci di soffocarne la serietà
o abbandonarci a un'indifferenza scettica oppure rassegnarci a gratificazioni di piccolo cabotaggio.
Nel contesto di queste riflessioni giova anche rimarcare che la simpatia comprensiva richiesta a un
educatore è sempre frutto della sua sensibilità umana, e quindi della sua cordiale apertura
all'autentica realizzazione dell'uomo come tale. L'azione educativa è tale se sospinge e guida
l'educando a divenire a se stesso, cioè a diventare quanto deve essere in ordine alla pienezza e al
compimento del suo essere uomo. Soprattutto per questa ragione si può dire che l'azione di educare
ha un senso formante e non formale, precisamente in considerazione del riconoscimento del valore
della forma.
Poiché il problema della formazione presenta molteplici incognite si deve riconoscere che il fondo
essenziale della questione coincide con l'aiuto per prendere posizione consapevole e libera davanti
al mistero dell'essere, così come esso affiora nella trama delle circostanze di cui è fatta l'esistenza.
Infatti, in questa libera decisione l'uomo può dare la sua personale figurazione al proprio ambito
esistenziale. Solo se non si sottrae a questa responsabilità, egli può sperare di aiutare un altro uomo
nella sua personale conquista di una convinzione, nel coraggio di azioni lucide e conseguenti alla
propria scelta ideale.
L'educazione non può non avere come sua preoccupazione fondamentale chiarire quale sia il senso
della vita, e quindi dell'uomo, quale sia l'origine del suo agire e la forma della sua personalità. Per
rispettare l'autentica natura e il valore dell'educazione, non basta soltanto dire cosa fanno e pensano
gli uomini che educano, ma occorre pronunciarsi su quale scopo essi debbano proporsi.
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Alla base dell'educare agisce la persuasione che l'esperienza umana è dotata di senso. Noi non
siamo in un mondo assurdo, dall'ipotesi esistenziale di un senso possibile, alternativa ha un
relativismo oscuro e senza costrutto, consegue l'opzione secondo cui l'esperienza della nostra
realizzazione, si fa sempre non al lato, ma attraverso la nostra ricerca della verità.
La pedagogia non può elaborarsi con cognizione di causa se manca un riferimento costante a un
esplicitazione coerente del problema del senso, e quindi se non si è in grado di mettere in opera la
mediazione della riflessione filosofica.
Sulla prospettiva aperta da questo principio euristico, si disegna la figura di una circolarità
dinamica: noi non dominiamo il senso della nostra vita come se fosse una cosa, bensì il senso,
quando domina la nostra coscienza ci rende a noi stessi formando la nostra personalità.
La nostra conoscenza del senso ultimo della vita, cioè del destino, per noi non potrà mai essere un
sapere esaustivo e totale.
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Forma e senso nell’uomo coincidono.
Prendere sul serio come una questione fondamentale il fenomeno del nostro divenire uomini apre il
problema sulla soggettività protagonista del successo educativo, e quindi l’interrogativo sulla sua
destinazione.
Non ci si allontana mai tanto dal bene come quando si misconosce quello che si è.
L'uomo nasce intelligente e libero; ma all'inizio la sua connotazione di persona non appare come
un'espressione manifesta, ma come una promessa affidata all'educazione. Se l'uomo disprezza il suo
dovere di pensare e amare, degrada al livello dell'individualità animale e corre il pericolo di finire
con essa.
La formazione è un processo di perfezionamento per cui un essere sviluppa le sue parti fino al
conseguimento dello scopo della sua esistenza. Al principio ideale e allo scopo del processo
formativo risponde sempre l'esperienza del personale maturare la propria identità, attraverso un vero
e proprio lavoro di identificazione destinato a durare l'intero arco della sua esistenza.
L'essere-se-stessi implica sempre una parola che ci previene e ci forma, ma non si presenta ai nostri
occhi come un fatto compiuto, si chiarisce nell'ineliminabile coscienza del dover essere, e quindi
nella modalità di una destinazione da raggiungere mediante comportamenti conseguenti.
L'uomo non viene al mondo già formato piuttosto nasce come un avvio aperto, progrediente verso
la scoperta di se, e quindi come un compito che si realizza attraverso il tempo nell'orizzonte del
possibile. Conoscere la forma di un essere significa conoscere la sua natura. Infatti, la materia di
quest'ultima è specificata dalla sua forma a essere un corpo piuttosto che un altro.
Il luogo della nostra formazione non è appena quello della natura, ma chiama in primo piano quello
della storia. Poiché la storia di ogni uomo è fatta di eventi e soprattutto di tanti incontri con altri
uomini, la sua forma non si dà indipendentemente dalle decisioni prese nei vari incontri nella vita.
Il concetto di forma hominis, poiché è essenzialmente connotato dalla relativa storicità dell'uomo
stesso, indica qualcosa di permanente ma anche l'aspetto variabile, il continuo nell'evento, la
stabilità nel fenomeno mutevole. La sua identità è una permanenza in un cambiamento continuo.
Perciò l'uomo forma la sua umanità, ma non può dire di aver raggiunto la sua forma definitiva: di
fatto, il suo formarsi è anche un continuo trasformarsi attraverso un dialogo storico e pratico con gli
avvenimenti.
Nella cultura moderna il formarsi di una personalità coerente si basa sulla Costituzione della sua
identità soggettiva. La formazione è il raggiungimento dell'identità personale.
Il nostro formarci non avviene sempre alla luce e consapevole di quanto sappiamo e vogliamo. La
nostra vita procede anche attraverso eventi che ci accadono; anche il nostro comportamento di
fronte a un evento imprevisto è in fondo una risposta e una decisione. L'uomo, in virtù della sua
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storicità, diventa sé stesso attraverso le sue decisioni. La storia è il campo della decisione in cui
l'uomo vive in un continuo formarsi e manifestarsi. Il fallimento delle sue decisioni aliena la sua
vera vita.
Ogni uomo vive l'esperienza di una tensione tra ciò che è e il suo possibile miglioramento. La
coscienza della distanza nutre l'impegno morale di corrispondere alla destinazione del proprio
essere uomo, allo sviluppo e alla pienezza. Ciò permette di prendere decisioni davanti al destino e
non subirlo passivamente. Il principale dovere dell'uomo che vuole realizzare se stesso è prendere
coscienza della forma umana e di quella sua propria. La libertà e il destino divengono fattori
portanti dell'entelechìa personale; cioè, nel senso aristotelico del termine, dello stato finale o
perfetto dell'ente che, attuando tutte le sue potenze, raggiunge il suo tèlos.
Anche per l'uomo lo sviluppo verso il compimento delle sue potenzialità obbedisce all'ontologia
normativa della propria natura razionale. Essa costituisce la condizione necessaria affinché l'uomo
possa rimanere fedele a se stesso. Frequentemente si presenta il caso di chi pretende o pensa di
dover esigere da sé stesso più di quanto può dare, ma constata di non riuscire nemmeno a realizzare
quanto rientrerebbe nelle sue possibilità.
Il piccolo dell'uomo che cresce e attinge orizzonti sempre più vasti in cui ampliare la sua
conoscenza, non perde la sua umanità, ma diviene più se stesso. Non è facile definire con esattezza
in cosa consiste la nostra maturità nei concordare un criterio uniforme per stabilirla. Si può dire che
la maturità è lo stato di completo sviluppo di un organismo. La nostra vita inizia in un fragile
organismo che progressivamente si adegua alla levatura del fanciullo, dell'adolescente, dell'adulto.
La maturità consiste anche nel prendere piena consapevolezza del proprio essere imperfetti, cioè
con sapere di non sapere né potere tutto, e quindi accettare la propria responsabilità di lottare contro
ostacoli, di soffrire, di morire.
Quando termina la nostra formazione essenziale, rimane la necessità di perfezionamenti particolari
o accidentali, formarsi dura tutta la vita. Ogni ha il suo tipo di maturità, mai può dirsi una metà
facile né fissa, ma un problema la cui soluzione richiede un equilibrio che impegna lungo tutta
l'esistenza. Se l'uomo si rassegna a essere come è, diventa peggiore, bisogna attendere a quanto si
deve essere, per convertirsi in ciò che si può arrivare ad essere. Perciò il motto "diventa quello che
sei" si traduce in educazione in "diventa quello che devi essere".
La classica accezione di forma indica che essa è quanto sussiste, mentre ognuno dei suoi elementi
materiali integrati continuamente si rinnova. Finché c'è vita, la forma è più duratura della materia,
che, se presa a sé stante manca di ogni fisionomia. L'equazione forma=senso permette anche di
specificare che la formazione umana sia tua coniugando affermazione e ricerca come funzioni
complementari. Trascurare una delle due equivale per noi a trascurare l'altra, e quindi impoverirsi
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anziché arricchirsi. La persona non afferma se stessa se non tende verso il suo fine ultimo. La forma
umana di un individuo nella sua esistenza non si lascia fissare in una definizione esauriente, ma si fa
intravedere nella ricerca del suo senso; non si dà come una cosa compiuta, ma informarsi in cui
molte cose possono assumere sviluppi diversi, rinnovarsi in vari acquisizioni. Si potrà avere il senso
pieno solo quando la persona giungerà al termine del suo rinnovarsi, in via, il senso si da solo come
un disegno ancora in gestazione. Conviene dire della nostra formazione non è infinita, ma
infinitesima, per designare la non come ciò che non può essere raggiunto, ma come ciò che si può
infinitamente approssimare. Nessuno può dire di essere arrivato definitivamente al traguardo.
Nessuno e padrone del suo futuro.
Per contro, rinunciare alla ricerca del senso dell'esistenza significa abbandonare l'umano alla
deformazione. Affermazione e ricerca possono considerarsi come le condizioni necessarie, le
disposizioni indispensabili, oppure le circostanze ineludibili, grazie alle quali si attua il formarsi
della persona. L'educazione dell'uomo implica la verità di una destinazione capace di spiegare il
divenire e dargli consistenza. Di tale verità nessuno può dirsi un possessore autorizzato e imporla
agli altri. Il riconoscimento personale della verità non blocca la ricerca, ma la riapre continuamente,
dà valore al dialogo, fonda il rispetto dell'altro, difende la libertà di tutti. Se il riconoscimento della
verità è affermazione e ricerca, non basta seguire passivamente i luoghi comuni del proprio gruppo
sociale; così non si acquista una convinzione personale, solo si disimpegna il proprio io nel "si dice"
della pressione collettiva.
L'educazione si fa incomprensibile e svanisce se ci si ferma alla sola analisi di idee e di
affermazioni puramente teoriche. Infatti, siamo alle prese con la faticosa tensione dialettica di una
esperienza protesa verso l'unità sintetica della persona. Il senso del destino da unità all'educazione
dell'uomo, e quindi alla pedagogia, perché di entrambe e l'esegesi, come anche l'esegeta; è
veramente il Logos.
Si possono mettere in risalto due significati del termine uomo. Il primo per designare la persona in
potenza, il secondo per la persona in atto, cioè il punto di partenza per quello di arrivo del processo
educativo.
Chi accetta di assumersi il compito di educare entra nella logica della speranza propria di chi
semina largamente senza esigere un calcolato raccolto.
L'uomo deve diventare ciò che è già, ed è già quel che deve diventare.
La formazione è la dimensione dentro cui perennemente stiamo, perché è la dimensione del divenire
uomo dell'uomo. Non si da l'uomo e poi la sua formazione, come suo derivato, ma solo l'uomo in
formazione. Si parla di formazione come un processo di sviluppo perfettivo attraverso cui la forma
della persona può manifestare tutte le sue virtualità. La formazione ha tante sfaccettature quanti
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sono i momenti essenziali dell'esistenza, ma ha il suo nucleo nella piena realizzazione dell'uomo,
qui si trova il momento riassuntivo che raccoglie tutti i vari aspetti in un unico centro, principio
attivo, verso il quale tutto il resto converge come mezzo al fine.
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L’azione e la visibilità dell’io.
Il centro del nostro essere non si lascia attingere immediatamente come un oggetto a portata di
mano ma solo per riflessione. La difficoltà è notevole, una constatazione di vuoto può investire
chiunque si appresti a prendere coscienza di sé, soprattutto se egli non si rende capace di trovare un
punto di partenza adeguatamente ancorato alle esigenze del suo io.
Per chiarire il problema bisogna partire dall'osservazione del mio io vivo, cioè del mio io che si
attua sempre determinate circostanze, cammina, studia, lavora. L'individuo non deve essere
considerato astrattamente, ma accolto come è: immerso nei bisogni della sua condizione storica, e
quindi vincolato alla natura, alla società, alla tradizione, al mistero.
Nessuno riesce ad afferrare un "io" indipendente dall'azione che lo rivela. L'io raggiunto dallo
sguardo della nostra conoscenza è sempre quello che si manifesta in azione, un io tatticamente
inerte non sarebbe da noi concepibile. Rifugiarsi in una coscienza di noi stessi che prescinda da
come agiamo è una scelta destinata al fallimento.
L'ordine logico per giungere alla conoscenza di se è il seguente: dapprima l'io pone un atto diretto di
conoscenza di qualcosa, per riflessione l'intelligenza conosce il suo atto, poi l'io giunge a conoscere
sé stesso come principio dell'atto. Non si tratta tanto di un ragionamento quanto di una percezione
riflessa, o un'intuizione dell'intelligenza nel suo atto e per sé stesso.
Sarebbe un errore segnare un vallo troppo profondo tra pensiero e azione. La conoscenza umana
include sempre queste due componenti in un'unità correlativa: l'azione senza la riflessione scade a
semplice reattività; la riflessione senza l'azione perde di senso. In concreto non si dà teoria senza
conseguenze pratiche.
Se il punto di partenza e l'esperienza dell'uomo nella concretezza del suo vivere, allora il metodo di
indagine più efficace non può soltanto appartenere all'introspezione. Presta decisiva l'osservazione
di se stessi in azione. Blondel invita a studiare l'azione, per capire ciò che essa implica, non
mediante la descrizione psicologica, ma attraverso l'analisi riflessiva, situandosi alla radice comune
dell'intelligenza e della volontà, dove esse attingono la loro forza. Bisogna cercare il senso della
nostra umanità osservandoci in seno alla realtà nella quale siamo immersi e alla quale non possiamo
sfuggire. Questa realtà è l'azione. L'azione costituisce una espressione più sicura e completa della
personalità umana.
I nostri atti non solo ci seguono, ma ci trasformano. Il mio realizzarmi non conosce una risposta
statica previamente e di colpo capace di eliminare tutti i conflitti dell'esistenza. Quando l'atto
conforme alla mia natura razionale, cioè corrisponde alle esigenze del mio io, mi perfeziono, edifico
la mia personalità. Se, invece, l'atto è discorde con ciò che sono, porta con se una sorta di sanzione
immanente: mi diminuisce, diminuisce l'unità interiore e la trasparenza della mia coscienza.
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L’azione è la struttura tangibile dello spirito. Agire non significa mettere in moto i nervi, tendere i
muscoli. Agire significa governare e creare.
L’azione del lavorare.
L’azione designa ogni attività specificatamente umana, sia essa metafisica, morale, estetica,
scientifica ecc.
L’azione propria del lavoro è una dimensione essenziale e universale dell’uomo, la forma espressiva
nella personalità umana, e quindi del rapporto dell’io con l’universo.
L’uomo, chiamato a fare di sé ciò che è veramente, raggiunge il suo scopo soltanto grazie al lavoro.
Su questa scia, Giovanni Gentile parla di “umanesimo del lavoro”. L’incontro dell’uomo con la
natura avviene attraverso il lavoro di chi ha coscienza di quel che fa, ha coscienza di sé e del mondo
in cui vive.
Il lavoro è presente in ogni momento dello sviluppo dell’uomo; in sua assenza, egli non attua nella
sua integralità la formazione della persona, senza la quale l’uomo non giunge alla sua humanitas.
L’esistenza oziosa nutre una profonda avversione per tutto ciò che richiede spirito di sacrificio. Ma
il lavoro non è fine a sé stesso, il lavoro deve procurare anche i mezzi per la gioia, l’espansione e il
diletto dello spirito. L’uomo non si limita a raccogliere i frutti che la natura gli offre, non si ferma a
coltivare piante, ad addomesticare animali, ma trasforma il suo ambiente naturale, crea nuovi
materiali in funzione dei propri progetti.
Poiché la ripercussione del lavoro sulla persona produce esiti formativi evidenti, nella scelta
professionale è estremamente importante una consapevolezza critica delle ragioni per cui si lavora,
tale da poter essere espressa e difesa intersoggettivamente. Nell’attività l’uomo manifesta il suo
essere e possiede la sua essenza.
Il lavoro dà alla persona la sua posizione sociale, la lega alla società e le conferisce un prestigio.
L’uomo privato della dimensione del lavoro presto viene nuovamente ridotto a “natura”; nel senso
che la sua condizione immobile diviene quella di un passivo adoratore di ciò che è. Attraverso il
lavoro noi ci realizziamo come uomini, cioè diventiamo più di noi stessi, perché nel lavoro
possiamo attingere alla caratteristica specifica della nostra condizione.
Con il lavoro l’uomo dà all’indeterminato una determinazione; così egli conferisce al mondo un
senso, cioè una finalità umana. Lavorare significa rendere il mondo più abitabile.
Il disoccupato soffre un attentato grave alla coscienza di sé.
Educare significa provocare la persona a coinvolgersi con la realtà, perché giunga a un’adeguata
coscienza di sé. Per conoscerci veramente, occorre sorprenderci dentro l’esperienza di un impegno
reale. Per essere reale l’uomo deve uscire da sé.
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L’esistenza non è mai riducibile a oggetto, ma bensì progetto e soggetto dato che si prende
coscienza del mondo nell’agire, in una decisione, che nel tempo muove e trasforma l’uomo.
Non l’uomo è per il lavoro, ma il lavoro per l’uomo.
Il lavoro dovrà essere fatto per promuovere effettivamente la formazione della persona
conformemente alla sua destinazione originaria. La madre e il padre hanno cura del bambino se gli
consentono di essere “lui”, se sono tesi a valorizzare le inclinazioni costitutive del suo essere.
Nessun uomo deve essere rinchiuso nel lavoro; l’uomo non è solamente lavoro, ma è anche parola e
dialogo.
Il compito peculiare dell’educazione non è quello di preparare il lavoratore, ma di formare la
persona, che attraverso il lavoro, umanizza le cose, ma non si identifica con esse. La competenza
professionale del lavoratore sarà tanto più esperta quanto più fondata su una solida formazione
umana.
Le abilità e le qualità proprie del lavorare sono subordinate a valori effettivi di verità, giustizia,
bellezza, liberazione. Abilità rivolte a scopi pratici che hanno un valore pedagogico se si lasciano
permeare da un’ideale morale.
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La verità della mia destinazione.
Ogni esistenza ha il suo senso essenziale da scoprire e realizzare. Conferire un senso alla vita non è
diverso da scoprire la verità del proprio destino. Questo problema si risolve attraverso la scoperta di
uno scopo, di un ideale.
Misurarsi con l’interrogativo posto dal destino ha un valore esistenziale e un altro esistentivo.
Esistenziale perché pertinente ai principi che permettono l’intelligenza di se stessi, e quindi della
propria origine e del proprio fine;
Esistentivo perché si tratta di me, del fallimento o realizzazione della mia esistenza.
Il momento esistentivo include quello esistenziale: non può non manifestarsi in principi, in
affermazioni, in verità esistenziali capaci di interpretare il dramma dell’uomo; ma aggiunge in più
un personale coinvolgimento con i principi conosciuti.
Per prendere veramente coscienza di me stesso devo dispormi in maniera tale da considerare
profondamente il telòs che mi muove.
Se tutto dipende dalla coscienza del proprio fine, allora tutto è sospeso al contenuto che l’uomo
stesso si dà per orientare la propria vita, e muovendosi verso il quale conduce la sua esistenza. Non
è un caso che il desiderio si riveli come l’insostituibile fattore dell’azione della nostra libertà.
L’uomo non può evitare di affermare un senso alla propria vita.
La domanda di senso non tarda così a rivelarsi come la radice da cui scaturiscono i valori. Un valore
manifesta quale sia la prospettiva del rapporto tra il contingente e il necessario, l’effimero e
l’eterno, la parte e il tutto.
La verità non è una nozione astratta, ma un messaggio che interpella. Ciò significa che l’uomo, per
comprendere se stesso e compiere il suo desiderio di essere, deve lasciarsi interpellare e a sua volta
deve interpretare tale sollecitazione scoprendone il rapporto con la sua esistenza.
Quando l’uomo è alle prese non con una qualunque verità, ma con la verità della sua vita non è
pensabile che egli sia destinato a restare in uno stato d’indifferenza.
L’intelligenza dell’educazione esige la comprensione del significato di una storia, la percezione di
uno sviluppo storico, piuttosto che una conoscenza di connessioni logiche fra proposizioni. Si
comprende perché a questo livello si può parlare di “difficili certezze”. Per certezza s’intende
saldezza, quiete nel possesso della verità.
La ricerca di un senso promette all’uomo la sua forma unitaria.
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Ineliminabilità del senso religioso.
Secondo T. D’Aquino, l’uomo “è una specie di orizzonte e di frontiera tra l’universo corporeo e
l’universo incorporeo”. Egli appartiene a due universi e li rivela entrambi dal lato in cui sono in
rapporto. Il corpo umano è il più perfezionato degli organismi ma il suo spirito è tra gli spiriti il più
umile. Il senso forte del discorso tomista è che l’uomo non è puro spirito, ma uno spirito incarnato.
La nostra vita sì, comunque la si interpreti, si rivela alla coscienza come un'aspirazione all'infinito.
L'uomo, però, non sbaglia a riconoscersi superiore alle cose corporali e a considerarsi più che
soltanto una particella della natura o un elemento anonimo della città umana. Solo l'uomo sa di
andare incontro alla morte. Ciò fa si che la morte umana non sia un puro evento biologico, il
termine di un anonimo processo di logoramento, ma abbia risonanze profonde in tutto il nostro
essere, scuota il nostro pensiero fino alle ultime radici. L'uomo infatti è il solo essere vivente ad
essere persona. L'uomo sa di morire, la coscienza che morrà segna la differenza con il perire. Gli
uomini hanno il desiderio di superare i propri limiti, una vera e propria esigenza di infinito. La
trascendenza verso cui la natura dell'uomo aspira non è il veleno della libertà da cui difendersi,
piuttosto è l'elemento che le conferisce stabilità, significato, futuro e movimento ultimo, in modo
tale però che l'essenza della creatura spirituale, ciò che gli appartiene, non risulta per questo
sminuita, ma proprio così acquista la sua ultima validità e consistenza e progredisce.
Non si comprende l'uomo se non si riesce a vedere con la dimensione orizzontale, intesa come
progetto di mondo, implichi un apertura verticale all'assoluto, che costituisce il fondamento stesso
nel mondo, conferendogli il suo senso definitivo.
Il senso della vita si offre la verità ultima di quanto realizza la nostra libertà. Ogni nostro atto di
effettiva libertà si apre sulla profondità dell'assoluto. Tale profondità, si manifesta nell'atto stesso e
non al di fuori di esso. L'uomo può e deve decidere in favore di quanto sceglie come il suo senso
definitivo; e inizia ad aprirsi all'orizzonte in cui libertà e verità coincidono.
Egli stesso sa di esistere, ma non di avere in sé il fondamento del proprio essere. Nella ricerca del
suo essere l’uomo rischia di perdersi entro indecifrabili enigmi. Ogni giudizio di verità che l’uomo
pone lo apre al problema dell’assoluto, a quanto il linguaggio della religione indica con la parola
“Dio”. La parola Dio può essere usata sensatamente solo se indica Colui che sta di fronte
all’illimitato bisogno umano di avere un punto fermo. Altrimenti diviene un vocabolo vuoto.
Si può rifiutare di ammettere l’esistenza di Dio, ritenendo tale idea solo un’invenzione dell’uomo.
Ma non si può eludere il problema di Dio.
Con il linguaggio biblico si dirà che l’uomo è relazione vivente con Dio. A lui è legato da una
somiglianza: il suo essere sfugge alla presa del calcolo, perché nei suoi occhi porta il riflesso del
volto di Dio.
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Affermare positivamente il rapporto dell’uomo con Dio conferisce all’esistenza un senso non solo
davanti alla storia, ma anche davanti all’eternità. Questa presa di coscienza deve riversarsi dentro
un’operosità senza limiti.
Nessun uomo può esistere senza religione.
Si può non credere a Dio, o almeno credere di non credere, ma il problema di Dio continua ad avere
un posto nella vita dell’uomo.
Se il posto di Dio resta vuoto non può essere riempito da niente altro.
In realtà la questione di Dio scaturisce dall’esperienza di contingenza radicale che l’uomo fa del
mondo e di se stesso.
L’umanesimo ateo ha diffuso il punto di vista per cui chi si interessa al problema religioso porta a
opprimere l’io dell’uomo e ad eclissare la sua libertà. Non è questo l’insegnamento della religione
cristiana che nel rapporto con Dio fonda il più rigoroso imperativo di amare il prossimo.
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Conclusione.
Vi è nell’uomo una profondità originaria, invariabile, che le varie scienze, anche quelle umane,
analizzano. La sua identità non si lascia comprendere né con una descrizione naturalistica né come
un mero prodotto dell’evoluzione storica, ma obbedisce a una predelineazione di senso aperta su
una realtà eccedente ogni calcolo.
Le scienze non sono capaci di esercitare efficacemente la funzione regolatrice e motrice dell’ideale
pedagogico.
Si può meglio comprendere il nucleo della formazione umana se non ci si limita alla descrizione
scientifica, ma si accetta il rischio di un’interpretazione metafisica, la sola capace di scoprire negli
atti umani quanto essi hanno d’intellettuale e di morale, e quindi di ricongiungere quanto è fatto o si
fa a un’intenzionalità originaria profonda come il mistero, che invita all’umiltà, rispetto, perdono
ecc.
Il consapevole sentimento di finitezza dell’uomo lo muove alla domanda di partecipare a un
“sempre” che solo un Altro può dargli. Nel momento in cui l’uomo si sente finito, imperfetto,
mortale non può evitare la nostalgia dell’infinito. Inizia così la ricerca di un Essere assoluto,
perfetto, a cui non manca nulla.
Chi si occupa di educazione deve aiutare chi è in formazione a capire cosa sia la vita, in modo che
egli possa decidere liberamente come vivere, agire, comportarsi di conseguenza. Perché l’educando
attinga alla verità della sua persona non bisogna sostituirlo nelle scelte che devono essere sue, né gli
si deve imporre una regola morale o psicologica bell’e fatta, quasi una sorta di corazza da indossare
una volta per tutte.
Ciò accade se l’educazione è un’efficace liberazione dell’uomo dalla pressioni di tutte le forme di
trascendenza incapaci di essere immanenti.
La sfida dell’educazione implica che ognuno giudichi la scoperta della risposta alla vita non
soltanto come un bene in sé, ma come un bene per lui.
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