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IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI, Elsa Morante

2/12/2017: IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI
Questo non è un libro che somiglia a tutti gli altri che vengono scritti nel ‘900, è un
libro che unisce il tema alla forma e parla di ragazzini nella forma che è spesso quella
infantile della filastrocca e della fiaba (è anche il caso di “Addio”, che ha dei modi e
dei metri da filastrocca).
Oltre a presentare un tema, è anche un testo che prepara un apparato formale fatto
di una forma originale, particolare e infantile. Se il tema del libro è la contestazione
(è un libro che contesta le forme canoniche e tradizionali), quando il libro uscì per la
prima volta da Einaudi, ancora in alcune edizioni più recenti, Elsa Morante chiese
alla casa editrice di mettere sulla quarta di copertina alcune parole che davano
proprio il senso della particolarità formale di questo libro e della sua originalità sul
piano dei generi letterari. Le parole sono le seguenti: “È un manifesto, è un
memoriale, è un saggio filosofico, è un romanzo, è un’autobiografia, è un dialogo, è
una tragedia, è una commedia, è un documentario a colori, è un fumetto, è una
chiave magica, è un testamento, è una poesia.”
Qui c’è una grande quantità di generi letterari evocati, tutti vari. È un manifesto
perché si riallaccia a quelle forme di comunicazione politica o assembleare che
erano i “Sanislat” o i “Dazebao”. Dalla fine degli anni ’60 agli inizi degli anni ’70 sono
anni in cui le contestazioni studentesche creano molti spazi democratici nelle
istituzioni scolastiche, nelle università, nelle scuole e nei licei. Sono anni in cui c’è
una forte pressione democratica dal basso e, proprio per questo, andava di moda
diffondere alcune idee politiche e valori che si reclamavano, sotto forma di manifesti
(Anche lo Statuto dei lavoratori è nato in quegli anni) che venivano affissi sulle
pareti. Queste erano alcune forme di manifesti pubblici colorati nei quali si
diffondevano come volantini alcune delle idee politiche introdotte in quegli anni.
Sicuramente c’è qualcosa di tutto ciò ne “Il mondo salvato dai ragazzini”, cioè l’idea
che questo libro si ispiri ad alcune forme di comunicazione politica, soprattutto delle
assemblee studentesche di quegli anni. Per questo è manifesto: ha contenuto
politico e somiglia ai manifesti politici delle assemblee del ’68. È un memoriale
perché parla anche un po’ della vita, è un saggio filosofico perché spesso questo
racconto in versi culmina in alcune considerazioni filosofiche (nel caso di “Addio”,
nel finale “Io sono un miraggio, ma anche tu sei fatta di raggio”), è un romanzo
perché molti di questi versi hanno una composizione narrativa, raccontano le
storie, è un autobiografia, perché, come il memoriale, la biografia contiene un
vissuto, è un dialogo, perché spesso la forma è un’apostrofe al lettore, spesso l’io
si rivolge direttamente al lettore quasi ad intrattenere il dialogo, in altri casi ci
sono anche altri personaggi che dialogano tra loro. È una tragedia, ma è anche una
commedia, ci sono parti molto dure, molto tragiche e cariche di sofferenza; ma in
altri casi, emerge il lato ironico e umoristico più tipico della commedia. È un
documentario a colori mentre cerca di fotografare in maniera molto effervescente
un’epoca, è un fumetto, quindi il riferimento è a un’arte paraletteraria che in
quegli anni veniva diffusa in Italia. Gli anni ’60 sono anche gli anni in cui si
diffondono molto i generi paraletterari come la fantascienza, il giallo, i fumetti (per
esempio, “Tex”). Il fumetto riprende un po’ alcune caratteristiche schematiche,
molto caricaturali. È una chiave magica, sempre il riferimento alla parte filosofica del
libro, è un testamento: “Addio” rivela molto la sua natura testamentaria. È una
poesia, in quanto un libro in versi, ha qualcosa di narrativo, come nel romanzo, ma
anche qualcosa di gotico.
La Morante ci teneva molto a sottolineare questa grande versatilità di genere. I versi
analizzati sono versi non canonici, possono essere molto lunghi, molto brevi: non c’è
isosillabismo. La Morante si prende tutta l’escursione ritmica possibile, cerca di
contestare non solo sul piano dei contenuti, ma anche su quello della forma,
ispirandosi alla filastrocca, inventando un andamento ritmico che non è canonico e
soprattutto non basato sul computo sillabico, ma sulla quantità di accenti. Spesso, le
vere ricorrenze che fanno il ritmo ne “Il mondo salvato dai ragazzini” sono legati non
al numero di sillabe del verso, ma agli accenti.
Leggiamo la parte delle “Canzoni popolari”: non canzone in senso petrarchesco,
trobadiano, quella forma metrica e canonica fatta di endecasillabi, qui canzone vuol
dire proprio “Canzone”, come la intendiamo noi oggi. È una canzone popolare, un
testo che vuole rivolgersi a un pubblico molto alto, tra cui i bambini, e che quindi è
alla ricerca, volutamente, tale testo, di una comunicazione semplice.
F.P.: Felici Pochi.
Tale capitolo è pervaso da un tono molto giocoso e qui la struttura è quella di un
dialogo, una specie di botta e risposta, un testo didascalico e che presenta molte
meno difficoltà di comunicazione, fruibile persino dai bambini. Ci sono veramente
poche metafore, minor tono figurale. Il tono è molto più semplice, per esempio, qui
ci sono molte interrogative e molte domande, anche la metrica è molto più facile da
decifrare: i versi si fanno sempre più lunghi fino ad assomigliare a una prosa. Quello
che è poco prosastico, qui, è l’uso della rima, quella baciata, quella più semplice.
Umorismo molto prosastico, verso molto sintattico, tutto in questo testo sta a
indicare una comunicazione facile, rapida, immediata, senza troppe complicazioni.
D’altra parte, è un’introduzione esplicativa, è un testo che vuole spiegare qual è il
senso di questo schema dei felici pochi.
Una delle caratteristiche di questi felici pochi è che siano, spesso, morti giovani. Non
hanno un luogo, un censo, una razza: se nascono poveri, rimangono poveri, se
nascono ricchi, presto diventeranno poveri (questa è una cosa in comune con Bill
Morrow: giovane, povero, con una vita da povero, bello.)
Perché i Felici Pochi sono belli anche quando sono brutti? In quanto c’è una
distinzione che ritorna e che è tipica della Morante, tra la realtà e l’irrealtà, anche se
questi testi mimano una comunicazione facile.
L’irrealtà è l’occhio di un uomo, dice la Morante. La scrittrice crede che tutte le
religioni abbiano un fondo e una verità comuni. La verità comune delle religioni è
proprio quella che dice agli uomini che la realtà terrena non è reale. Ciò che è reale
veramente è ciò che sta al di là della realtà, ciò che non si vede.
Alcuni pensano che esista una realtà profonda che non si vede e poi una realtà
quotidiana, ingannevole, ed è quella che gli infelici molti considerano irrealtà, ecco
perché si parla di “Cispa” (secrezione degli occhi la quale ci impedisce di vedere
bene).
Noi crediamo di vedere bene la realtà, ma questa è solo la cispa, un diaframma
sporco, un inganno: la vera realtà è quella sta oltre l’irrealtà.
Un’altra cosa che Bill Morrow ci anticipava dei Felici Pochi è l’atteggiamento positivo
nei confronti del potere. Spesso i Felici Pochi muoiono giovani perché qualche
potere si incarica di assassinarli. Nella fattispecie, è il caso di Antonio Gramsci, di
Giordano Bruno, di Giovanna D’Arco, in un certo senso, è anche il caso di Spinoza
che fu bandito e andò in esilio. Ecco perché i Felici Pochi sono dappertutto, ma non
nel Ministero, perché il Ministero è il luogo della democrazia e del potere. I Felici
Pochi possono stare ovunque, in montagna, nelle città, al mare, in periferia, mai
però negli alti gradi della burocrazia. Quindi, i Felici Pochi possono stare
dappertutto, tranne che al potere, c’è anzi una tendenza del potere a perseguitarli.
Spesso i Felici Pochi provengono da zone depresse e barbare. Nella figura mitica del
fanciullo divino che la Morante immagina c’è anche qualcosa di barbarico, c’è
qualcosa che va contro la civiltà contemporanea (Resistenza al moderno e, quindi, al
‘68 da parte di Pasolini). La preferenza della Morante va verso ciò che è barbarico e
arcaico, senza tempo.
Se questi sono i Felici Pochi, tutti gli altri sono gli Infelici Molti. Si scoprirà, poi, nel
corso del libro, che la Morante si metterà dalla parte degli Infelici Pochi. Non ha
quella caratteristica che contraddistingue i Felici Pochi, cioè la leggerezza, infatti la
scrittrice afferma “Il mio più grande difetto è la pesantezza”. Gli Infelici Molti sono la
maggioranza, tutti quelli che credono all’irrealtà e hanno gli occhi infestati dalla
cispa dell’irrealtà, quelli che credono che la felicità non esista, mentre i Felici Pochi
sanno che esiste, anche se fanno una brutta fine, sono coscienti dell’esistenza della
felicità.
Da notare come il romanzo si esterno alle buone maniere della tradizione letteraria,
da notare come sia anomala e anticonformista la scelta di utilizzare dei calligrammi
(cioè, dei segni grafici), e di disporre le parole in modo grafico, ci sono dei
precedenti, ma più legati alle Avanguardie storiche, è uno dei punti di contatto tra
Elsa Morante e le Avanguardie. Per esempio, Palazzeschi, Pasolini, i Futuristi.
Insomma, di solito, questo non accade, la Morante, invece, proprio per questa sua
voglia di comunicazione diretta e di facilità espressiva, non si fa problemi a ricorrere
anche al segno grafico, al calligramma, all’iconotestualità, non si problemi nemmeno
a trattare a il testo letterario come un’immagine.
Il loro superiore obbedire a un gioco divino, non prevede neanche il paradiso, la
gratificazione superiore perché in realtà i felici pochi lo sanno che è tutto un gioco e
che quindi la vita, la morte, la gioia, il dolore, sono tutte cose che si equivalgono, la
gioia, la libertà, la leggerezza, sono celebrate nella consapevolezza di essere l’altra
faccia del lato oscuro della vita.
Dal punto di vista stilistico, qui, ancora di più, aumenta, almeno fino a un certo
punto, si può notare che è un testo volutamente oraleggiante, scherzoso,
infantilistico, a volte anche stucchevole, per certi versi. Però, ad un certo punto, il
registro cambia e si capisce quale sia il senso del registro così infantile e
canzonatorio. Quella facilità viene ribaltata in una ambiguità, le cose che
sembravano così scontate e così schematiche, ora non lo sono più. La morante ha
molto schematizzato in maniera infantile e manichea tra questo polo minoritario
positivo e questo polo maggioritario negativo, in cui il positivo è tutto positivo e il
negativo è tutto negativo. La Morante si diverte anche a ripercorrere la storia
umana, attribuendo questi poli ad alcuni personaggi: Gesù era naturalmente un FP:
in realtà, ci sono due punti in cui torna Gesù, (Gesù è il primo degli FP), ed è anche
quello che dice “Chi è questo povero ebreo? Un tale povero ebreo ha detto che certi
bastardi sono il sale della Terra”.
Voi siete il sale della Terra, ma se il sale diventa insipido, con che la si salerà?
L’immagine del sale della Terra viene ripresa dal Testo Sacro ebraico per eccellenza
che Gesù riprende.
Il potere ha sempre assunto la sembianza di un IM. Il punto del testo è questa
contrapposizione di massa perché, naturalmente, gli FP sono le vittime e gli IM sono
i carnefici. Sotto i Cesari, gli schiavi erano FP e i Cesari gli IM; sotto i Flavi, gli schiavi
perseguitati erano FP, mentre i persecutori erano IM; presso gli Aztechi, le femmine
Vergini sacrificate al Sole erano FP e i Sacerdoti del contado degli IM. Gli eretici
come Giordano Bruno erano degli FP.
Questa non è una schematizzazione tra destra e sinistra, perché gli IM possono
essere Stalin e gli Zar, oppure Hitler e Mussolini, quindi non è una questione di
ideologia.
Il punto di vista della Morante non è ideologico, non distingue fra Destra e Sinistra,
semmai tra anarchia e potere. Gli FP stanno dalla parte dell’anarchia, gli IM dalla
parte del potere, di qualunque potere costituito in qualsiasi momento. Un’altra cosa
in comune tra Pasolini e la Morante è la fede nella Rivoluzione, in una rivoluzione
tale solo nello stato nascente: può essere rivoluzionaria solo nel momento in cui si
ha la rivoluzione, quando la rivoluzione finisce, la fede passa dalla parte della
burocrazia, e quindi dalla parte degli IM.
Un tale FP anonimo va dicendo che il grande manifesto rivoluzionario è stampato a
miriadi di giorni e nelle notti.
“Per tutte le cose leggibili si dà sempre una lettura nascosta”: sul finale del testo la
Morante cambia le carte in tavola; fin qui è stato tutto molto semplice e fin troppo
semplice, dietro questa felicità apparente si nasconde un significato ambiguo.
Quando i viventi smettono di capire, anche Dio muore. La Morante pensa che Dio sia
una creazione dei viventi, se i viventi hanno smesso di capire il significato della vita,
se sono offuscati dalla cispa dell’irrealtà, allora anche Dio muore. Quindi, bisogna
recuperare Dio, cioè la conoscenza arcaica che gli esseri umani avevano avuto e
hanno avuto per milioni di anni per cui, appunto, la verità non è visibile agli occhi,
ma è nascosta e va cercata.
In che cosa consiste questa verità? Per esprimere questo concetto la Morante si rifà
alle parole dell’FP supremo, cioè Gesù (cioè, uno delle tante incarnazioni mortale del
significato metafisico, assoluto, della vita umana). La parola di Gesù, quindi, vale
molto di più qualsiasi parola profetica, di qualsiasi altra parole rivelata, quanto
qualsiasi altra fede autentica.
Le parole di Gesù dicono che forse “Nei cieli” non significa un aldilà, cioè, non
bisogna proiettare nei cieli il significato reale delle cose. L’immagine “Così in cielo
come in Terra” si può leggere anche capovolta: “Come in Terra, così in cielo”, quindi
non c’è una differenza tra Terra e cielo, la verità è una sola. Soprattutto, la parola di
Gesù “Tornate fanciulli, lasciate che i bambini vengano a me” può contenere l’ultima
intelligenza del mondo.
Ecco in che senso il mondo può essere salvato dai ragazzini, questo passo ci porta
nel cuore del libro.
Gli uomini si possono salvare tornando bambini, tornare ragazzini significa almeno
due cose:
tornare alle semplici verità della propria infanzia, ma significa anche tornare
all’infanzia dell’uomo, cioè tornare a quel passato arcaico in cui la verità era un
passato tra analfabetismo e ignoranza, in cui però, proprio per questo, gli uomini
erano a contatto con la verità.
Questa verità è quella secondo cui bisogna trattare il prossimo tuo come te stesso.
Perché Gesù ci insegna questo? Perché, dice la Morante, il tuo prossimo sei tu. Gli
altri sono tutti te stesso.
Ciò fa crollare la distinzione tra FP e IM. Se tutti sono te stesso, vuol dire che questa
distinzione non è fra buoni e cattivi, ma è una distinzione fra due parti della
coscienza umana. C’è una porzione di morte e una porzione di vita tra noi, c’è una
parte di noi che sarebbe la felicità, che segue un sapere arcaico, ancestrale delle
cose e c’è una parte di noi che inconsciamente segue la morte, si affida a valori
materialistici. Quindi è una distinzione fra ciò che c’è di buono e di cattivo dentro
ciascuno di noi. Al centro di questo schema, vi è l’idea nascosta per cui gli uomini
sono sempre più lontani dai principi vitali e sono sempre più vicini alla visione della
morte. Bisogna cercare di affermare la vita contro la morte. Bisogna tornare alla
consapevolezza dell’unitarietà col mondo, il bambino molto piccolo, affermava
Freud, considera il mondo come unico, tutto gira intorno a questo. Più o meno verso
la fine degli undici mesi di vita comincia a diversificare. Il mondo è uno e in ognuno
di noi esiste un mondo intero, così è possibile riconoscersi. Quindi, la promessa
cristiana, come tutte le promesse religiose, allude a una possibile scoperta interiore,
una verità che non si vede. Ecco perché non c’è quando per questo regno
annunciato, non c’è dove, e, per lo stesso motivo, non si sa quale potrebbe essere il
come.
L’immagine finale è un’immagine, chiaramente, fiabesca, raccoglie proprio il genere
della fiaba: breve, ambigua.
Vi è la storia di una bambina di un anno che ha appena conosciuto questa differenza
tra sé e il mondo, si è appena allontanata da questo senso della primissima infanzia
dell’unità del tutto. La bambina riceve una cuffia, se ne innamora, si guarda allo
specchio e vede la propria immagine riflessa in uno specchio con la cuffia in testa.
Allora, si afferma già il momento della distinzione io- altro, si afferma l’idea di un
possesso e di una sopraffazione. Ella crede che l’immagine riflessa sia quella di
un’altra bambina che le ha rubato la cuffia, allora si affanna a cercare dietro lo
specchio questa bambina per riprendersi la cuffia, ma non si accorge che
quell’immagine è la sua e che la cuffia ce l’ha in testa. Questa è una fiaba che ha un
lato molto semplice.
Paolo rossi era uno studente di Sinistra che fu ucciso in uno scontro con i militanti di
Estrema Destra nel 1967. È uno dei momenti in cui il testo si ricollega alla cronaca e
fa riferimento a una vittima di uno scontro politico, da cui provengono altri scontri,
altre violenze.
5/12/2017: Elsa Morante, “Il mondo salvato dai ragazzini”
“La spiaggia” si chiudeva con un’immagine messianica. “Il mondo salvato dai
ragazzini” insiste sulla stessa prospettiva messianica. Si parla di chi è il messia: cioè,
colui che salva, che scende in Terra a salvare il popolo attraverso la fede. Il titolo del
libro sopra citato già evoca una prospettiva messianica. Da una parte si immagina e
si capisce che il mondo è in pericolo, dall’altra si può capire che, a salvare il mondo,
potranno essere proprio i ragazzini. Però, in che senso il mondo deve essere salvato?
Ci troviamo nel cuore degli anni ’60, nel cuore della Guerra Fredda, nel cuore del
conflitto più aspro tra due super potenze mondiali nucleari (USA e URSS). Negli anni
’60 iniziò una crisi politica e internazionale in cui veramente sembrava che il mondo
fosse a un passo dalla terza guerra mondiale (La cosiddetta “Crisi dei missili”, legata
all’episodio della rivoluzione a Cuba nel 1959).
Cuba, ex colonia spagnola, isola situata di fronte Miami, negli anni ’50 era retta da
una dittatura militare. Nel 1959 vi è un colpo di stato, una vera e propria rivoluzione
comunista guidata da un militare cubano Fidel Castro (morto nel 2016). La
rivoluzione è ispirata a principi comunisti, del Comunismo Internazionale che allora
faceva capo all’URSS.
Dove Che Guevara fallì, Castro riuscì, quindi cominciò questo paradosso (il quale
dura tutt’ora) su un’isola comunista a poche miglia marine dal centro del
Capitalismo mondiale. Naturalmente, è un paradosso che ha sempre creato delle
conflittualità politiche, ma, si è andato molto vicino agli inizi degli anni ’60 a un
conflitto vero e proprio quando gli USA sembravano minacciare un’invasione
militare di Cuba e, a sostegno di Cuba, si schierò l’URSS, pronta anche a rispondere
con dei missili a testata nucleare a un eventuale assetto americano a Cuba (gli
americani avevano già tentato di far cadere il potere castrista a Cuba con
diramazioni di contro-guerriglia che però erano state bloccate ed eliminate. Quindi,
ci troviamo in due situazioni di conflittualità.
Quando, quindi, si parla di un mondo che deve essere salvato si fa riferimento,
sicuramente, al pericolo della Guerra Mondiale fra le due super potenze, ma, non è
solo questo. Per la Morante, come anche per Pasolini, il mondo va salvato anche in
un altro senso: non solo dal pericolo di una Guerra nucleare, ma anche dal pericolo
di una trasformazione antropologica (La Morante parla di “Irrealtà”). Pasolini deve
molto alla Morante: molte delle riflessioni che abbiamo visto fare da Pasolini sulla
trasformazione antropologica e sul fatto che c’è questo nuovo potere dei consumi
che ha sostituito tutti i vecchi poteri, fascisti, socialisti, democristiani, all’insegna di
un unico potere, che è molto più subdolo proprio perché non è partitico, né
ideologico, ma è il potere dei beni e dei commerci del consumo. Queste idee di
Pasolini le aveva radunate a suo tempo anche la Morante, senza ricorrere a queste
stesse parole di Pasolini (da cui, appunto, “Trasformazione antropologica”,
“Scomparsa delle lucciole”. Secondo la Morante, il mondo occidentale, dal
dopoguerra, è sempre più invaso dall’irrealtà, cioè è un mondo che sempre più
crede reale ciò che è irreale e considera, invece, irreale, ciò che è reale. Ciò che per
la Morante è irreale sono i valori spirituali, religiosi. La Morante considera reale il
mondo dello spirito, che passa attraverso la religione, attraverso la filosofia, diverse
religioni, diverse filosofie, e, naturalmente, l’arte: la poesia, la letteratura, la pittura,
la musica. La realtà è formata sia da un mondo spirituale religioso, sia da un mondo
spirituale elitario. Elsa Morante è una studiosa di tutte le religioni, pur non aderendo
a nessuna in maniera confessionale, era molto legata al cristianesimo, ma anche al
buddismo, al luddismo, è una donna molto legata a religioni e filosofie orientali, e,
naturalmente, all’arte. L’irrealtà è tutto quello che gli uomini contemporanei
considerano reale, cioè: la politica, le merci, il potere, le istituzioni, le televisioni, i
giornali, tutto ciò che sembra avere importanza per la maggior parte degli uomini è,
agli occhi della Morante, a tutti gli effetti, irreale. Vi è quindi un collegamento con le
asserzioni pasoliniane. Entrambi gli autori interpretano la società italiana degli anni
’60 e, in generale, la società occidentale neocapitalista degli anni ’60 come una fase
di decadenza spirituale e come una fase di materialismo sciocco, infernale, allo
stesso modo in cui facevano i cosiddetti filosofi tedeschi della Scuola di Francoforte.
Tali filosofi affermavano ci fosse un collegamento molto stretto tra le violenze del
nazismo durante la Seconda Guerra Mondiale, cioè, quella triplice macchina di
distruzione che aveva messo in piedi il nazismo, e la distruzione psicologica e
spirituale del capitalismo. Quindi, il mondo va salvato sia da una catastrofe naturale
che sembra imminente, sia da una catastrofe spirituale che è sotto gli occhi di tutti,
secondo la Morante.
Perché i ragazzini devono salvare il mondo?
Ecco qui un Saggio, intitolato “Pro o contro la bomba atomica?”, in cui, dice la
Morante, “lo scrittore trova le sue compagnie più vere quasi sempre fra persone di
età estremamente giovane, o infantile, addirittura, soltanto loro, di fatti,
riconoscono e frequentano ancora la realtà”. Qui vi è un collegamento perfetto fra
ragazzini/ bambini e quello che la Morante considera la realtà, cioè: il mondo
dell’inconscio, della spiritualità, dell’anima. Secondo la Morante, le persone semplici
sono quelle che mantengono un collegamento più forte e che ancora riconoscono e
frequentano la realtà. Tale filone è presente in tutta le opere della Morante. Elsa
Morante ebbe una formazione da autodidatta, non è quasi andata a scuola, però è
sempre stata una lettrice molto forte e legata alle favole. La Morante comincia ad
affermarsi come scrittrice di romanzi in Italia nel ’48, esordendo col suo primo libro
“Menzogna e sortilegio” in cui già ci sono personaggi giovani e giovanissimi, ragazzi
e ragazzine (soprattutto ragazzine!) che hanno un ruolo da protagonisti. È una storia
familiare in cui le donne hanno un ruolo molto importante.
Nel 1957 la Morante diventa una scrittrice di successo, in quanto, aveva scritto un
romanzo intitolato “L’isola di Arturo” che vince il premio Nobel letterario più
importante per l’epoca (premio strega), vende tantissime copie. Ciò le darà una
certa agiatezza economica, in quanto, la Morante, ricca non era. Arturo era proprio
un ragazzino che si ritrova su quest’isola (Isola di Procida, sul Golfo di Napoli), in una
sorta di conflitto famigliare tra la sua giovane matrigna e suo padre, figura molto
misteriosa. È un romanzo di formazione, nel senso che il libro racconta un periodo
decisivo della vita di questo ragazzino, che segna anche il suo allontanamento dalla
madre, che prima odia e poi ama e dal padre, che prima ama e poi odia. Poi, sarà la
volta de “Il mondo salvato dai ragazzini”, e in seguito, nel 1975, la Morante scriverà
un romanzo dal nome “La storia”, in cui i protagonisti sono una madre e un
bambino, una coppia di protagonisti che abbraccia questo romanzo, di grande
successo sia di critica, che di pubblico. È un libro, questo, dedicato a una doppia
epigrafe (=versi, o brani di un autore che lo scrittore cita all’inizio dell’opera, per
indicare un debito oppure per segnalare un filo conduttore del libro che si sta per
leggere). Le epigrafi e le dediche de “La storia” sono molto eloquenti. La dedica è
tratta da un verso di un poeta spagnolo, Jieng, che dice: “Per l’analfabeta per il
quale scrivo” quindi è un libro dedicato agli analfabeti. Ma poi, vi è, soprattutto,
quest’epigrafe tratta dal Vangelo di Luca in cui si riportano alcune parole di Gesù che
dicono “Hai nascosto queste cose ai vecchi e ai saggi e le hai rivelate ai piccoli
perché così a te piacque”, con riferimento all’insegnamento di Gesù, rivolto ai
piccoli, sia ai bambini, sia all’umanità. Questa è una parabola destinata a tutta
l’umanità e, soprattutto, all’umanità più semplice, non è una parola destinata a
un’élite intellettuale-sacerdotale, è una parola rivolta a tutti, a cominciare dai più
umili. È una parola che non ha bisogno di essere filtrata dalla cultura, la parola di Dio
è una predicazione che veniva fatta in mezzo alle strade, era rivolta ai mendicanti;
era una parola che si scagliava contro i Farisei, contro tutto il potere costituito dallo
Stato della Palestina in cui visse Gesù.
La storia non è solo un romanzo costruito nelle forme di romanzo popolare: qui
riecheggia un po’ la struttura del feuilleton. Quest’ultimo è un romanzo, diffuso
soprattutto in Francia, un tipo di romanzo popolare che usciva a puntata sui giornali
e sulle riviste e che viene rivolto a un grande pubblico, nel senso che comprendeva
una storia molto lunga, fluviale, un po’ come le serie televisive di oggi, dei romanzi
molto lunghi pieni di personaggi, pieni di suspanse, di una trama fatta per
appassionare.
Quello della Morante, è, infatti, un romanzo atto ad appassionare una lunga serie di
lettori, ampie masse.
La protagonista di tale romanzo era una povera donna, una maestra elementare,
violentata durante la seconda Guerra Mondiale da un soldato tedesco e il figlio
Giuseppe nato proprio da quello stupro. In fine, “Ara coeli” è l’ultimo romanzo di
Elsa Morante, altro libro avente come protagonisti e una madre e un figlio. Lo
schema è rovesciato, se “Il mondo salvato dai ragazzini” è un libro che risalta a pieno
la maternità e la figura della madre, “Ara coeli” la distrugge. Però, quello che conta
dire, è che, ancora una volta, la Morante insiste sul personaggio di figlio.
Ara coeli è la madre di origine andalusa, il narratore (il figlio) si chiama Emanuele.
Bambini e ragazzini ci sono sempre stati nell’opera della Morante e, di solito, con
figura centrale. C’è un interesse sempre molto forte da parte della Morante nei
confronti dei ragazzini, ciò è molto più interessante se pensiamo che la Morante non
ebbe mai figli: è stata sposata con Alberto Moravia.
I ragazzini possono salvare il mondo proprio perché loro vedono, loro ascoltano. I
piccoli sono poveri di spirito, gli umili sono gli artisti, i letterati, i filosofi, ma sono
anche “piccoli” proprio in senso anagrafico.
Pasolini è stato uno dei primi a recensire “Il mondo salvato dai ragazzini” e a dire
delle cose importanti su questo libro in fatto di originalità.
C’è qualcosa di estremamente sessantottino nello scrivere un libro nel ’68 che
apertamente assegna ai ragazzini, ai ragazzi, ai giovani il compito di salvare il
mondo, di migliorarlo. L’ottica in cui viene scritto il libro è l’ottica di una rivoluzione
possibile, fatta dai ragazzi, in generale, “da chi i cui occhi non sono offuscati dalla
cispa dell’irrealtà”; appunto: i giovani, gli artisti, i diseredati, o, addirittura gli
analfabeti.
Il libro è stato scritto poco dopo la morte violenta di Pasolini, violenta perché è stato
ucciso, per l’appunto, da un gruppo di ragazzini. Questo rapporto, quasi di
fratellanza intellettuale e anche umana viene sancito dall’idea di costruire il
personaggio centrale (Emanuele, il figlio di Ara Coeli) eludendo le caratteristiche di
Elsa Morante, in un certo senso. Pasolini fu anche uno dei primi scrittori a recensire
“Il mondo salvato dai ragazzini” e a dire delle cose importanti su questo libro,
parlando, soprattutto, dell’originalità.
Questo è un libro molto strano, anche graficamente. Letterariamente, “non c’è nulla
nella tradizione italiana, anche recente, che gli somigli o che esso ricordi”, dice
Pasolini, forse un po’ di Aldo Palazzeschi (poeta futurista italiano delle Avanguardie
storiche), forse un po’ di formalismo russo, ma sono analogie psicologiche e
ultrastoriche, non culturali. È interessante che quando si parla di formalismo russo,
analogie psicologiche e ultrastoriche, a Pasolini venga in mente il futurismo, è
interessante perché siamo proprio negli anni della Neoavanguardia. È un libro molto
originale, ma non della stessa originalità delle Neoavanguardie, semmai è un libro
che ama rifarsi a delle Avanguardie molto più lontane e antiche, precedenti, ma che
non accetta delle Avanguardie soprattutto l’idea di una letteratura industriale,
meccanica, fatta col computer, fatta con delle formule. La letteratura secondo le
Avanguardie doveva essere in grado di esprimere la bruttezza della società
contemporanea. Per Pasolini e, soprattutto, per Elsa Morante, doveva essere il
contrario: la letteratura deve esprimere la bellezza tout court, che, secondo la
Morante, non c’è la bellezza della contemporaneità: le bellezze vere e proprie non
hanno età, sono completamente astoriche. Mentre la Neoavanguardia è un’arte
mimetica del “brutto” ed è un’arte meccanica, un’arte che vuole presentarsi come
volutamente e aggressivamente brutta, la Morante, invece, descrive qualcosa di
originale, ma che va nella direzione opposta alle Neoavanguardie. Se quella della
Neoavanguardia è un’arte dell’irrealtà, per la Morante l’arte è sempre realistica,
dove però, in realtà, l’autrice intendeva le cose che contano veramente nella vita di
un uomo nella società.
Già Pasolini dice che questo libro è veramente qualcosa di irriconoscibile. Ciò,
naturalmente, rende la lettura di una Morante difficile, anzi, impossibile. “Esso non
può dare piacere, ma piace, per così dire, inconsapevolmente. Forse il troppo
piacere che lei legge in questo libro lo fa apparire come una cosa poco seria, una
delizia e basta.” Si può notare come Pasolini abbia un tono popolare e scherzoso a
volte, altre, invece, è micidiale e tragico. Questo è un libro che non solo parla ai
ragazzini, non solo parla di ragazzini, ma parla anche un po’ nella forma della
letteratura per ragazzini, cioè mima a volte alcuni modi di alcune forme della
letteratura per l’infanzia (filastrocche, canzoni, immagini grafiche, tocchi tipografici).
Quello che si presenta a volte in forma scanzonata ed ironica, è, addirittura, un
manifesto politico, non partitico.
Tale libro ha un valore politico, ma, soprattutto, e anche, partitico: ha uno scopo
politico e rivoluzionario che vuole, in un certo senso, incitare a una rivolta popolare.
Il libro della Morante è addirittura un manifesto politico di quella nuova Sinistra che
in Italia pare poter esistere, crescere e affondare subito il vecchio Qualunquismo e
nel complementare Moralismo. Mentre la Sinistra in Italia stenta sempre a
esprimersi, a essere generica e giudicante, la Sinistra che ha in mente la Morante
non è una Sinistra partitica, ma è una Sinistra più profonda. È un manifesto politico
scritto con la grafica di una favola, con umorismo, con gioia. L’umorismo e la gioia
sono dei sentimenti e strumenti stilistici oggi incomprensibili; quindi, naturalmente,
Pasolini se la prende con la Neoavanguardia.
La Neoavanguardia in quel periodo scriveva cose assolutamente poco ironiche, poco
umoristiche e molto serie e pesanti. Qui, invece, abbiamo un libro che mima la
leggerezza e la gioia.
Un esempio è Sereni che pensa alla gioia quando pensa alla città socialista. “È
dunque arduo per un lettore e un critico comprendere come, invece, il fondo di
questo libro sia funebre” - dice Pasolini. È un libro che da un lato parla spesso di
gioia, di grazia, e, dall’altro, parla della volontà di morte e anche della volontà di
autodistruzione. Tiene insieme due cose che, in un discorso normale, non
dovrebbero stare insieme.
La prima parte del libro comincia con una poesia lunga, intitolata “Addio”: è strano il
fatto che si inizi un libro con un testo che si intitola “Addio”. Tale testo nasce da una
situazione ben precisa: è legata a una conoscenza, a un rapporto, amoroso tra Elsa
Morante e il giovane pittore americano dal nome Bill Morrow. I due si erano
conosciuti nel ’59, in quanto la Morante, reduce dei successi de “L’isola di Arturo”, è
andata negli USA a New York e, da lì, a Washington. Lì aveva conosciuto questo
giovanissimo pittore newyorkese, diventano amici, lei lo invita a Roma e,
effettivamente, circa due mesi dopo Bill Morrow lascia gli USA per trasferirsi a
Roma. La Morante lascia la casa di Moravia e si prende in affitto una casa in un’altra
parte di Roma e intraprende una specie di relazione col pittore americano. La
relazione andrà avanti fino al 1962, quando Bill Morrow, presentato da Moravia, fa
una mostra dei propri dipinti a Roma. Però, succede proprio nell’aprile del ’62 un
avvenimento inaspettato: Bill Morrow torna a New York e si butta dal
cinquantesimo piano di un grattacielo. Nel 1964, Elsa Morante scrive questa poesia,
la quale è evidentemente una rielaborazione poetica della sua storia col pittore
americano. “Addio” ha chiaramente il significato di un compianto funebre. Il libro è
un invito alla gioia, che difende la gioia, che parla della necessità e della forza
rivoluzionaria della felicità, ma presenta un inizio con una nota un po’ diversa.
Oltretutto, Bill Morrow è anche l’autore di un dipinto stampato sulla copertina
dell’edizione “Einaudi”. Il dipinto si intitola “Viva Fidel”, ovvero: Fidel Castro, il
quale, proprio alla fine degli anni ’50, prende potere a Cuba durante la rivoluzione
comunista. Questo è un esempio: usa colori molto sgargianti e molto vivaci, ma poi il
pittore si suicida. Allo stesso tempo, “Il mondo salvato dai ragazzini” è un libro che
parla di rivoluzione e di gioia, ma che comincia, con un pretesto di fallimento. È
anche la prima poesia descritta cronologicamente.
La poesia di Elsa Morante non è una poesia lirica, anche se ha anche alcuni difetti
lirici. “Il mondo salvato dai ragazzini” è un libro di poesie in versi, è il secondo e
ultimo che scriverà la Morante. La scrittrice, negli anni ’50 aveva scritto un libro di
poesie che si intitola “Alibi” in cui vi sono poesie un po’ più brevi e un po’ più
interne. Ne “Il mondo salvato dai ragazzini” abbiamo versi ma non abbiamo
propriamente una forma lirica. L’unica poesia che più si avvicina alla forma lirica è
proprio “Addio”; in questo libro si possono notare canzoni, ballate, filastrocche, cioè
forme diversificate, ma non liriche, con argomento politico, didattico, a volte
iconico, a volte edificante, a volte filosofico. Raramente la Morante parla della
propria vita in questo libro: più spesso parla di situazioni generali in uno stile
comico-realistico o didattico, o parodistico. Questo ci permette di leggere in
maniera un po’ più veloce, perché, appunto, di solito, la lirica è più difficile da
parafrasare della poesia didattica, realistica, comica, narrativa.
*Lettura della poesia “Addio” *
Il protagonista è un ragazzino morto molto giovane. Lui è, quindi, un po’
l’ispirazione.
Tale testo è datato nel ’64, gli altri testi sono stati scritti dopo. Tale poesia sembra
essere quasi un compianto funebre, quindi ha una contraddizione fra la vitalità di
questo ragazzo, le sue volontà rivoluzionarie. Sono presenti molti personaggi, in
questo testo, morti giovani: abbiamo Tasso, una cantante jazz morta suicida, ecc.;
abbiamo anche il “Buddha” storico, Siddharta.
La figura è un giovane artista e pittore, pieno di vita, pieno di forza rivoluzionaria,
capace di grandi slanci; però è anche una figura che si suicida, è una figura molto
distruttiva, carica di dolore.
Ha senso tale inizio perché il libro è contrapposto da due poli: da una parte vi è una
grande vitalità e spinta rivoluzionaria, dall’altra una tensione alla morte e
all’autodistruzione, come diceva anche Pasolini.
La parte centrale della poesia è una rievocazione della frequentazione della scrittrice
e il pittore americano a Roma, ci sono immagine tra Trastevere, il passaggio del
Papa: ci sono alcuni eventi specifici. Questo è uno di quelli: siamo in estate, sulla via
consolare Appia (la Regina delle vie, come la chiamavano i Romani). Il ragazzo
dipinge in particolare un antico sepolcro che capiamo dopo essere la tomba di
Cecilia Metella, una delle più importanti tombe romane della famiglia patrizia.
Questo sepolcro, questo mausoleo di Bill Morrow, diventa una specie di vulcano e,
in effetti, sembra essere un po’ come un secchiello di sabbia rovesciato. Egli dipinge
questa tomba come se fosse una scogliera vulcanica sospesa tra inverno e paradiso.
(Il Golgota è il monte in cui avviene la Passione di Gesù).
Il pittore, essendo schizofrenico, ad un certo punto si arrabbia in quanto sostiene
che Cecilia Metella sia una santa cattolica, patronessa di tutti i musicisti italiani che
apparve in visione con un’arpa e che Giuseppe Verdi sia l’autore della “Tosca”.
Chiaramente, è tutto sbagliato: Santa Cecilia è la patronessa dei musicisti italiani e la
“Tosca” non è di Verdi. La cosa interessante è che il pittore si arrabbia nel momento
in cui viene contraddetto: ha un carattere irruento, arrogante e molto carico di
slancio.
Questa è la parte più descrittiva e anche più narrativa del libro. Questo è il primo
ragazzino di cui parla Elsa Morante, nel corso del libro ne vedremo altri con le
medesime caratteristiche, vedremo artisti, giovani, antiborghesi, anticonformisti,
antiborghesi, contro la legge, contro le istituzioni, contro le autorità.
Bill Morrow è un po’ l’immagine iconica dei ragazzini, di come li vede lei, di come li
vuole lei.
Il testo è asimmetrico: ci sono due parti, la prima è breve, fa da introduzione e
introduce soprattutto il tema del testo. Narrativamente siamo alla fine, lui è morto,
lei cerca di tornare a queste voci, cioè, cerca di rievocare la sua presenza. La
situazione è quella di un lutto che cerca di essere colmato attraverso una
rievocazione (“mi riscuote ogni giorno l’urlo del mattino”). La prima parte del libro è
quella più ricca di figure retoriche e metafore: “L’urlo del mattino” è una sinestesia:
il mattino non urla razionalmente, però per l’io sì. In queste situazioni di dolore e di
ossessione, la Morante cerca di ritornare a quelle voci. L’immagine chiave è un po’
quella della caccia: è come se lei andasse a caccia dei ricordi di lui e, attraverso
questi ricordi, potesse arrivare alla preda (cioè lui). Lui è la preda sia perché
metaforicamente è l’oggetto della ricerca di lei, sia perché è morto. (“Mi butto sulle
tracce del sangue”: la traccia del sangue è l’odore dell’animale ferito che il
cacciatore e il cane seguono per catturare la preda, è come se la Morante fosse la
cacciatrice del sangue della preda che insegue.
È una ricerca che avviene attraverso il presente, attraverso le illusioni: “Cerco nelle
città in cui vivo dei segnali che mi riportino a te. In ogni ragazzo che passa, cerco
qualcosa di te.”
“Io, inconsapevole del fatto che in realtà non c’è nessuna cura per questo tipo di
lutto, chiedo una tenerezza, una decadenza della memoria, uno spegnimento della
memoria; cerco la senilità, la vecchiaia.”
C’era molta differenza di età fra la scrittrice e il pittore: più di vent’anni, nel ’64 la
Morante aveva già passato i quarant’anni, mentre il pittore ne aveva esattamente
venti. Si dice che, dopo la morte del pittore, la Morante sia invecchiata subito. Lei
pensa che il tempo non medichi le ferite, anzi, scrive: “Ogni giorno cresce la tua
morte”.
L’immagine della morte è paragonata al canto di una sirena, in quanto ammalia e
che innamora, ma, allo stesso tempo, uccide.
La metafora della sirena e la metafora della caccia sono anaforiche e si incrociano:
“La tua morte è una voce di sirena”. Nell’ultimo verso si ha una variazione: “La tua
morte è una voce di sirena che vorrebbe sviarmi da te nelle sue fosse”.
Quindi: TANA, NIDO, FOSSA, la metafora della sirena e la metafora della caccia si
incrociano. Ma, appunto, è anaforico questo ricorrere ad elementi uguali
all’apertura o alla chiusura di strofa. La Morante, nella parte centrale, ha un modo di
scrivere anaforico: “Qua si può; si può; qua;…”.
L’intenzione è quella di scandire, attraverso la ripetizione, il tempo della
potenzialità, il tempo storico. In questo caso il tempo è deittico, cioè ci sono degli
avverbi con la funzione di delineare un luogo e un tempo precisi. Nel contesto
narrativo si può capire che in quell’epoca si potevano fare determinate cose e si
poteva andare in determinati luoghi. L’invenzione è al tempo stesso ritmica e
narrativa, dà il senso di un’esperienza che si è svolta nel tempo, è stata ricca, è stata
articolata di fatti e di cose. È una poesia che si basa molto su quest’uso eloquente e
scandito del ritmo, accetta anche di usare i segni dell’eloquenza canonica.
Qui ritorna un’immagine che vedremo anche alla fine: l’immagine della vita come
campo di concentramento, cioè della vita dopo la morte. La vita dopo la perdita del
pittore è completamente paragonabile alla vita in un campo di concentramento. Alla
fine di questa prima parte lei dice “Forse dovrei accettare tutte queste morti, ogni
degradazione, […]”. La scrittrice descrive la sua vita come se fosse prigioniera in un
lager, e, alla fine, ritorna alla stessa immagine del lager. Alla fine, sia nelle parole
della scrittrice che nelle parole del pittore fuoriescono gli stessi concetti: “le norme
del campo”, “ogni degradazione” all’inizio; “Normale procedura”, “procedura
degradante” alla fine della poesia. Quindi la scrittrice scrive: “Tu avresti voluto che
io finissi nel tuo stesso carcere, tu avresti voluto che io mi degradassi e invecchiassi
con te come detenuta. Tu hai cercato di farmi sentire allegra, ma io lo so che tu
volevi che io finissi con te, che vivessi la mia vita in carcere, come fai tu.” La Morante
sta descrivendo la vita in prigione sostanzialmente: il fatto che non ci fosse
corridoio, nessuna parete comune tra una cella e l’altra, le stanze sono sempre
senza porte, non ci sono finestre.
13/12/2017
Nel generale allargamento di registro, che c’è in questo testo un elemento lessicale
in più rispetto ad “Addio” e rappresenta in alcuni casi l’affiorare quasi di un italiano
regionale.
Quando la Morante scrive: “Per quanto si diano da fare gli IM, si devono rassegnare,
la loro felicità è teterrima, questo è regolare”. L’aggettivo “Regolare” è italiano, ma
in questa connotazione, cioè nel dialetto romanesco, “Regolare” vuol dire
“Normale”, “Si sa”.
In altri punti la cosa emerge con ancora più chiarezza: vi sono delle interiezioni
popolaresche: “Aò”, “Non vi resta che abbozzare per quanto vi indignate…”,
“Abbozzare”, “Indignare”, “Aò” sono altrettanti segnali quasi dialettali, gergali,
popolareschi che aumentano il livello di confidenzialità di questo testo.
In alcuni casi, questa confidenzialità arriva persino al punto di abbreviare alcune
parti del testo, una cosa che normalmente in letteratura e in poesia non si fa, è
quella di far intuire una parte del discorso per metà esplicitato. Quando la Morante
scrive: “Contro questa rogna paradossale, impiegando tutta la loro energia totale,
industriale, nucleare, ecc per combinare reazioni di originalissima felicità”, ora già il
fatto di questa tendenza a fare gli elenchi con rime desinenziali è già di per sé un
segno di abbassamento di registro, anche il fatto che la Morante scriva “Eccetera”
come “Ecc.” sta a indicare che il livello di comunicazione è molto, ma molto vicino al
parlato confidenziale.
Vi sono molte comparazioni esplicite: “La voce uccisa del ragazzetto Rossi Paolo,
quella voce tragica, di primo canto, benedetta lei, quanto è allegra, allegra come il
tema della traversata del flauto magico.” In questa poesia, c’è una grande presenza
del “Come”, soprattutto negli elenchi: “Cresce allegra come un girasole”, “Sventola
allegra come una vela gialla, come una bandierina sul traguardo di una gara, come
un aquilone volato via, come un fiore di calendula”.
Cosa significa spostare l’accento stilistico dalla metafora alla comparazione?
La comparazione esplicita rende chiaro, esplicito, ciò che la metafora va a decifrare.
La comparazione è più facile da capire, è meno oscura della metafora, la quale
presenta sempre un certo tasso di oscurità.
La Morante, più che abbassare il registro stilistico, vuole chiarire e rendere meno
oscuro la comprensione di chi fa passaggi associativi. La cosa che hanno in comune
la comparazione e la metafora è quella di mettere insieme oggetti diversi: “La Terra
è un’arancia”, “La camicia è una mela”. Solo che, mentre la metafora tende a
fondere i due elementi e a produrre nella coscienza di chi legge una specie di
arbitrio logico; la comparazione tende ad assecondare e a sollecitare degli
atteggiamenti meno bruschi, più graduali. Questo vuol dire che questa canzone
popolare tende a mantenersi su uno stile e registro di comunicazione facile e
popolare. Sia dal punto di vista metrico, sia dal punto di vista retorico e
contenutistico.
Molte interiezioni popolari sono costruite sul dialogo e su “botta e risposta”, è
un’abitudine sintattica che non appartiene alla lingua italiana e che la Morante
importa per dare ancora più valore e incisività a quest’andamento dialogico
interrogativo e fa parte di quei trucchi grafici che abbondano ne “Il mondo salvato
dai ragazzini”.
Questa canzone popolare tende a mantenersi su un registro di comunicazione facile,
popolare, sia dal punto di vista metrico, sia dal punto di vista retorico e
contenutistico. Vi è un elenco di polizie segrete: GESTAPO (polizia nazista militare
del Reich), FBI (polizia americana), polizia politica fascista, equivalente della
GESTAPO, la RAP è un altro distaccamento dei servizi segreti sovietici. Questa è una
lista di persecutori.
La Morante è capace di riconoscere la leggiadria, la leggerezza, la superiorità
filosofica, estetica degli FM; però riconosce anche di appartenere agli IM. Non si
tratta tanto di capire chi è FP o chi è IM, ma di riconoscere che dentro ciascuno di
noi vi sono queste due componenti che lottano e non bisogna far vincere gli IM.
L’epoca, secondo la Morante, tende agli IT (Infelici Tutti), la rivoluzione che parla ne
“Il mondo salvato dai ragazzini” non è socialista, fascista, moderata ma spirituale
che sta a riscoprire in ciascuno, le proprie radici infantili, solari, nella consapevolezza
di quella realtà comico-tragica che è la vita in generale.
“Noi qui viaggiamo sul cellulare dell’ignoranza” sta a intendere le camionette
guidate dalla polizia, quei mezzi blindati che servivano per trasportare i detenuti. Il
cellulare è una prigione mobile.