2/12/2017: IL MONDO SALVATO DAI RAGAZZINI Questo non è un libro che somiglia a tutti gli altri che vengono scritti nel ‘900, è un libro che unisce il tema alla forma e parla di ragazzini nella forma che è spesso quella infantile della filastrocca e della fiaba (è anche il caso di “Addio”, che ha dei modi e dei metri da filastrocca). Oltre a presentare un tema, è anche un testo che prepara un apparato formale fatto di una forma originale, particolare e infantile. Se il tema del libro è la contestazione (è un libro che contesta le forme canoniche e tradizionali), quando il libro uscì per la prima volta da Einaudi, ancora in alcune edizioni più recenti, Elsa Morante chiese alla casa editrice di mettere sulla quarta di copertina alcune parole che davano proprio il senso della particolarità formale di questo libro e della sua originalità sul piano dei generi letterari. Le parole sono le seguenti: “È un manifesto, è un memoriale, è un saggio filosofico, è un romanzo, è un’autobiografia, è un dialogo, è una tragedia, è una commedia, è un documentario a colori, è un fumetto, è una chiave magica, è un testamento, è una poesia.” Qui c’è una grande quantità di generi letterari evocati, tutti vari. È un manifesto perché si riallaccia a quelle forme di comunicazione politica o assembleare che erano i “Sanislat” o i “Dazebao”. Dalla fine degli anni ’60 agli inizi degli anni ’70 sono anni in cui le contestazioni studentesche creano molti spazi democratici nelle istituzioni scolastiche, nelle università, nelle scuole e nei licei. Sono anni in cui c’è una forte pressione democratica dal basso e, proprio per questo, andava di moda diffondere alcune idee politiche e valori che si reclamavano, sotto forma di manifesti (Anche lo Statuto dei lavoratori è nato in quegli anni) che venivano affissi sulle pareti. Queste erano alcune forme di manifesti pubblici colorati nei quali si diffondevano come volantini alcune delle idee politiche introdotte in quegli anni. Sicuramente c’è qualcosa di tutto ciò ne “Il mondo salvato dai ragazzini”, cioè l’idea che questo libro si ispiri ad alcune forme di comunicazione politica, soprattutto delle assemblee studentesche di quegli anni. Per questo è manifesto: ha contenuto politico e somiglia ai manifesti politici delle assemblee del ’68. È un memoriale perché parla anche un po’ della vita, è un saggio filosofico perché spesso questo racconto in versi culmina in alcune considerazioni filosofiche (nel caso di “Addio”, nel finale “Io sono un miraggio, ma anche tu sei fatta di raggio”), è un romanzo perché molti di questi versi hanno una composizione narrativa, raccontano le storie, è un autobiografia, perché, come il memoriale, la biografia contiene un vissuto, è un dialogo, perché spesso la forma è un’apostrofe al lettore, spesso l’io si rivolge direttamente al lettore quasi ad intrattenere il dialogo, in altri casi ci sono anche altri personaggi che dialogano tra loro. È una tragedia, ma è anche una commedia, ci sono parti molto dure, molto tragiche e cariche di sofferenza; ma in altri casi, emerge il lato ironico e umoristico più tipico della commedia. È un documentario a colori mentre cerca di fotografare in maniera molto effervescente un’epoca, è un fumetto, quindi il riferimento è a un’arte paraletteraria che in quegli anni veniva diffusa in Italia. Gli anni ’60 sono anche gli anni in cui si diffondono molto i generi paraletterari come la fantascienza, il giallo, i fumetti (per esempio, “Tex”). Il fumetto riprende un po’ alcune caratteristiche schematiche, molto caricaturali. È una chiave magica, sempre il riferimento alla parte filosofica del libro, è un testamento: “Addio” rivela molto la sua natura testamentaria. È una poesia, in quanto un libro in versi, ha qualcosa di narrativo, come nel romanzo, ma anche qualcosa di gotico. La Morante ci teneva molto a sottolineare questa grande versatilità di genere. I versi analizzati sono versi non canonici, possono essere molto lunghi, molto brevi: non c’è isosillabismo. La Morante si prende tutta l’escursione ritmica possibile, cerca di contestare non solo sul piano dei contenuti, ma anche su quello della forma, ispirandosi alla filastrocca, inventando un andamento ritmico che non è canonico e soprattutto non basato sul computo sillabico, ma sulla quantità di accenti. Spesso, le vere ricorrenze che fanno il ritmo ne “Il mondo salvato dai ragazzini” sono legati non al numero di sillabe del verso, ma agli accenti. Leggiamo la parte delle “Canzoni popolari”: non canzone in senso petrarchesco, trobadiano, quella forma metrica e canonica fatta di endecasillabi, qui canzone vuol dire proprio “Canzone”, come la intendiamo noi oggi. È una canzone popolare, un testo che vuole rivolgersi a un pubblico molto alto, tra cui i bambini, e che quindi è alla ricerca, volutamente, tale testo, di una comunicazione semplice. F.P.: Felici Pochi. Tale capitolo è pervaso da un tono molto giocoso e qui la struttura è quella di un dialogo, una specie di botta e risposta, un testo didascalico e che presenta molte meno difficoltà di comunicazione, fruibile persino dai bambini. Ci sono veramente poche metafore, minor tono figurale. Il tono è molto più semplice, per esempio, qui ci sono molte interrogative e molte domande, anche la metrica è molto più facile da decifrare: i versi si fanno sempre più lunghi fino ad assomigliare a una prosa. Quello che è poco prosastico, qui, è l’uso della rima, quella baciata, quella più semplice. Umorismo molto prosastico, verso molto sintattico, tutto in questo testo sta a indicare una comunicazione facile, rapida, immediata, senza troppe complicazioni. D’altra parte, è un’introduzione esplicativa, è un testo che vuole spiegare qual è il senso di questo schema dei felici pochi. Una delle caratteristiche di questi felici pochi è che siano, spesso, morti giovani. Non hanno un luogo, un censo, una razza: se nascono poveri, rimangono poveri, se nascono ricchi, presto diventeranno poveri (questa è una cosa in comune con Bill Morrow: giovane, povero, con una vita da povero, bello.) Perché i Felici Pochi sono belli anche quando sono brutti? In quanto c’è una distinzione che ritorna e che è tipica della Morante, tra la realtà e l’irrealtà, anche se questi testi mimano una comunicazione facile. L’irrealtà è l’occhio di un uomo, dice la Morante. La scrittrice crede che tutte le religioni abbiano un fondo e una verità comuni. La verità comune delle religioni è proprio quella che dice agli uomini che la realtà terrena non è reale. Ciò che è reale veramente è ciò che sta al di là della realtà, ciò che non si vede. Alcuni pensano che esista una realtà profonda che non si vede e poi una realtà quotidiana, ingannevole, ed è quella che gli infelici molti considerano irrealtà, ecco perché si parla di “Cispa” (secrezione degli occhi la quale ci impedisce di vedere bene). Noi crediamo di vedere bene la realtà, ma questa è solo la cispa, un diaframma sporco, un inganno: la vera realtà è quella sta oltre l’irrealtà. Un’altra cosa che Bill Morrow ci anticipava dei Felici Pochi è l’atteggiamento positivo nei confronti del potere. Spesso i Felici Pochi muoiono giovani perché qualche potere si incarica di assassinarli. Nella fattispecie, è il caso di Antonio Gramsci, di Giordano Bruno, di Giovanna D’Arco, in un certo senso, è anche il caso di Spinoza che fu bandito e andò in esilio. Ecco perché i Felici Pochi sono dappertutto, ma non nel Ministero, perché il Ministero è il luogo della democrazia e del potere. I Felici Pochi possono stare ovunque, in montagna, nelle città, al mare, in periferia, mai però negli alti gradi della burocrazia. Quindi, i Felici Pochi possono stare dappertutto, tranne che al potere, c’è anzi una tendenza del potere a perseguitarli. Spesso i Felici Pochi provengono da zone depresse e barbare. Nella figura mitica del fanciullo divino che la Morante immagina c’è anche qualcosa di barbarico, c’è qualcosa che va contro la civiltà contemporanea (Resistenza al moderno e, quindi, al ‘68 da parte di Pasolini). La preferenza della Morante va verso ciò che è barbarico e arcaico, senza tempo. Se questi sono i Felici Pochi, tutti gli altri sono gli Infelici Molti. Si scoprirà, poi, nel corso del libro, che la Morante si metterà dalla parte degli Infelici Pochi. Non ha quella caratteristica che contraddistingue i Felici Pochi, cioè la leggerezza, infatti la scrittrice afferma “Il mio più grande difetto è la pesantezza”. Gli Infelici Molti sono la maggioranza, tutti quelli che credono all’irrealtà e hanno gli occhi infestati dalla cispa dell’irrealtà, quelli che credono che la felicità non esista, mentre i Felici Pochi sanno che esiste, anche se fanno una brutta fine, sono coscienti dell’esistenza della felicità. Da notare come il romanzo si esterno alle buone maniere della tradizione letteraria, da notare come sia anomala e anticonformista la scelta di utilizzare dei calligrammi (cioè, dei segni grafici), e di disporre le parole in modo grafico, ci sono dei precedenti, ma più legati alle Avanguardie storiche, è uno dei punti di contatto tra Elsa Morante e le Avanguardie. Per esempio, Palazzeschi, Pasolini, i Futuristi. Insomma, di solito, questo non accade, la Morante, invece, proprio per questa sua voglia di comunicazione diretta e di facilità espressiva, non si fa problemi a ricorrere anche al segno grafico, al calligramma, all’iconotestualità, non si problemi nemmeno a trattare a il testo letterario come un’immagine. Il loro superiore obbedire a un gioco divino, non prevede neanche il paradiso, la gratificazione superiore perché in realtà i felici pochi lo sanno che è tutto un gioco e che quindi la vita, la morte, la gioia, il dolore, sono tutte cose che si equivalgono, la gioia, la libertà, la leggerezza, sono celebrate nella consapevolezza di essere l’altra faccia del lato oscuro della vita. Dal punto di vista stilistico, qui, ancora di più, aumenta, almeno fino a un certo punto, si può notare che è un testo volutamente oraleggiante, scherzoso, infantilistico, a volte anche stucchevole, per certi versi. Però, ad un certo punto, il registro cambia e si capisce quale sia il senso del registro così infantile e canzonatorio. Quella facilità viene ribaltata in una ambiguità, le cose che sembravano così scontate e così schematiche, ora non lo sono più. La morante ha molto schematizzato in maniera infantile e manichea tra questo polo minoritario positivo e questo polo maggioritario negativo, in cui il positivo è tutto positivo e il negativo è tutto negativo. La Morante si diverte anche a ripercorrere la storia umana, attribuendo questi poli ad alcuni personaggi: Gesù era naturalmente un FP: in realtà, ci sono due punti in cui torna Gesù, (Gesù è il primo degli FP), ed è anche quello che dice “Chi è questo povero ebreo? Un tale povero ebreo ha detto che certi bastardi sono il sale della Terra”. Voi siete il sale della Terra, ma se il sale diventa insipido, con che la si salerà? L’immagine del sale della Terra viene ripresa dal Testo Sacro ebraico per eccellenza che Gesù riprende. Il potere ha sempre assunto la sembianza di un IM. Il punto del testo è questa contrapposizione di massa perché, naturalmente, gli FP sono le vittime e gli IM sono i carnefici. Sotto i Cesari, gli schiavi erano FP e i Cesari gli IM; sotto i Flavi, gli schiavi perseguitati erano FP, mentre i persecutori erano IM; presso gli Aztechi, le femmine Vergini sacrificate al Sole erano FP e i Sacerdoti del contado degli IM. Gli eretici come Giordano Bruno erano degli FP. Questa non è una schematizzazione tra destra e sinistra, perché gli IM possono essere Stalin e gli Zar, oppure Hitler e Mussolini, quindi non è una questione di ideologia. Il punto di vista della Morante non è ideologico, non distingue fra Destra e Sinistra, semmai tra anarchia e potere. Gli FP stanno dalla parte dell’anarchia, gli IM dalla parte del potere, di qualunque potere costituito in qualsiasi momento. Un’altra cosa in comune tra Pasolini e la Morante è la fede nella Rivoluzione, in una rivoluzione tale solo nello stato nascente: può essere rivoluzionaria solo nel momento in cui si ha la rivoluzione, quando la rivoluzione finisce, la fede passa dalla parte della burocrazia, e quindi dalla parte degli IM. Un tale FP anonimo va dicendo che il grande manifesto rivoluzionario è stampato a miriadi di giorni e nelle notti. “Per tutte le cose leggibili si dà sempre una lettura nascosta”: sul finale del testo la Morante cambia le carte in tavola; fin qui è stato tutto molto semplice e fin troppo semplice, dietro questa felicità apparente si nasconde un significato ambiguo. Quando i viventi smettono di capire, anche Dio muore. La Morante pensa che Dio sia una creazione dei viventi, se i viventi hanno smesso di capire il significato della vita, se sono offuscati dalla cispa dell’irrealtà, allora anche Dio muore. Quindi, bisogna recuperare Dio, cioè la conoscenza arcaica che gli esseri umani avevano avuto e hanno avuto per milioni di anni per cui, appunto, la verità non è visibile agli occhi, ma è nascosta e va cercata. In che cosa consiste questa verità? Per esprimere questo concetto la Morante si rifà alle parole dell’FP supremo, cioè Gesù (cioè, uno delle tante incarnazioni mortale del significato metafisico, assoluto, della vita umana). La parola di Gesù, quindi, vale molto di più qualsiasi parola profetica, di qualsiasi altra parole rivelata, quanto qualsiasi altra fede autentica. Le parole di Gesù dicono che forse “Nei cieli” non significa un aldilà, cioè, non bisogna proiettare nei cieli il significato reale delle cose. L’immagine “Così in cielo come in Terra” si può leggere anche capovolta: “Come in Terra, così in cielo”, quindi non c’è una differenza tra Terra e cielo, la verità è una sola. Soprattutto, la parola di Gesù “Tornate fanciulli, lasciate che i bambini vengano a me” può contenere l’ultima intelligenza del mondo. Ecco in che senso il mondo può essere salvato dai ragazzini, questo passo ci porta nel cuore del libro. Gli uomini si possono salvare tornando bambini, tornare ragazzini significa almeno due cose: tornare alle semplici verità della propria infanzia, ma significa anche tornare all’infanzia dell’uomo, cioè tornare a quel passato arcaico in cui la verità era un passato tra analfabetismo e ignoranza, in cui però, proprio per questo, gli uomini erano a contatto con la verità. Questa verità è quella secondo cui bisogna trattare il prossimo tuo come te stesso. Perché Gesù ci insegna questo? Perché, dice la Morante, il tuo prossimo sei tu. Gli altri sono tutti te stesso. Ciò fa crollare la distinzione tra FP e IM. Se tutti sono te stesso, vuol dire che questa distinzione non è fra buoni e cattivi, ma è una distinzione fra due parti della coscienza umana. C’è una porzione di morte e una porzione di vita tra noi, c’è una parte di noi che sarebbe la felicità, che segue un sapere arcaico, ancestrale delle cose e c’è una parte di noi che inconsciamente segue la morte, si affida a valori materialistici. Quindi è una distinzione fra ciò che c’è di buono e di cattivo dentro ciascuno di noi. Al centro di questo schema, vi è l’idea nascosta per cui gli uomini sono sempre più lontani dai principi vitali e sono sempre più vicini alla visione della morte. Bisogna cercare di affermare la vita contro la morte. Bisogna tornare alla consapevolezza dell’unitarietà col mondo, il bambino molto piccolo, affermava Freud, considera il mondo come unico, tutto gira intorno a questo. Più o meno verso la fine degli undici mesi di vita comincia a diversificare. Il mondo è uno e in ognuno di noi esiste un mondo intero, così è possibile riconoscersi. Quindi, la promessa cristiana, come tutte le promesse religiose, allude a una possibile scoperta interiore, una verità che non si vede. Ecco perché non c’è quando per questo regno annunciato, non c’è dove, e, per lo stesso motivo, non si sa quale potrebbe essere il come. L’immagine finale è un’immagine, chiaramente, fiabesca, raccoglie proprio il genere della fiaba: breve, ambigua. Vi è la storia di una bambina di un anno che ha appena conosciuto questa differenza tra sé e il mondo, si è appena allontanata da questo senso della primissima infanzia dell’unità del tutto. La bambina riceve una cuffia, se ne innamora, si guarda allo specchio e vede la propria immagine riflessa in uno specchio con la cuffia in testa. Allora, si afferma già il momento della distinzione io- altro, si afferma l’idea di un possesso e di una sopraffazione. Ella crede che l’immagine riflessa sia quella di un’altra bambina che le ha rubato la cuffia, allora si affanna a cercare dietro lo specchio questa bambina per riprendersi la cuffia, ma non si accorge che quell’immagine è la sua e che la cuffia ce l’ha in testa. Questa è una fiaba che ha un lato molto semplice. Paolo rossi era uno studente di Sinistra che fu ucciso in uno scontro con i militanti di Estrema Destra nel 1967. È uno dei momenti in cui il testo si ricollega alla cronaca e fa riferimento a una vittima di uno scontro politico, da cui provengono altri scontri, altre violenze. 5/12/2017: Elsa Morante, “Il mondo salvato dai ragazzini” “La spiaggia” si chiudeva con un’immagine messianica. “Il mondo salvato dai ragazzini” insiste sulla stessa prospettiva messianica. Si parla di chi è il messia: cioè, colui che salva, che scende in Terra a salvare il popolo attraverso la fede. Il titolo del libro sopra citato già evoca una prospettiva messianica. Da una parte si immagina e si capisce che il mondo è in pericolo, dall’altra si può capire che, a salvare il mondo, potranno essere proprio i ragazzini. Però, in che senso il mondo deve essere salvato? Ci troviamo nel cuore degli anni ’60, nel cuore della Guerra Fredda, nel cuore del conflitto più aspro tra due super potenze mondiali nucleari (USA e URSS). Negli anni ’60 iniziò una crisi politica e internazionale in cui veramente sembrava che il mondo fosse a un passo dalla terza guerra mondiale (La cosiddetta “Crisi dei missili”, legata all’episodio della rivoluzione a Cuba nel 1959). Cuba, ex colonia spagnola, isola situata di fronte Miami, negli anni ’50 era retta da una dittatura militare. Nel 1959 vi è un colpo di stato, una vera e propria rivoluzione comunista guidata da un militare cubano Fidel Castro (morto nel 2016). La rivoluzione è ispirata a principi comunisti, del Comunismo Internazionale che allora faceva capo all’URSS. Dove Che Guevara fallì, Castro riuscì, quindi cominciò questo paradosso (il quale dura tutt’ora) su un’isola comunista a poche miglia marine dal centro del Capitalismo mondiale. Naturalmente, è un paradosso che ha sempre creato delle conflittualità politiche, ma, si è andato molto vicino agli inizi degli anni ’60 a un conflitto vero e proprio quando gli USA sembravano minacciare un’invasione militare di Cuba e, a sostegno di Cuba, si schierò l’URSS, pronta anche a rispondere con dei missili a testata nucleare a un eventuale assetto americano a Cuba (gli americani avevano già tentato di far cadere il potere castrista a Cuba con diramazioni di contro-guerriglia che però erano state bloccate ed eliminate. Quindi, ci troviamo in due situazioni di conflittualità. Quando, quindi, si parla di un mondo che deve essere salvato si fa riferimento, sicuramente, al pericolo della Guerra Mondiale fra le due super potenze, ma, non è solo questo. Per la Morante, come anche per Pasolini, il mondo va salvato anche in un altro senso: non solo dal pericolo di una Guerra nucleare, ma anche dal pericolo di una trasformazione antropologica (La Morante parla di “Irrealtà”). Pasolini deve molto alla Morante: molte delle riflessioni che abbiamo visto fare da Pasolini sulla trasformazione antropologica e sul fatto che c’è questo nuovo potere dei consumi che ha sostituito tutti i vecchi poteri, fascisti, socialisti, democristiani, all’insegna di un unico potere, che è molto più subdolo proprio perché non è partitico, né ideologico, ma è il potere dei beni e dei commerci del consumo. Queste idee di Pasolini le aveva radunate a suo tempo anche la Morante, senza ricorrere a queste stesse parole di Pasolini (da cui, appunto, “Trasformazione antropologica”, “Scomparsa delle lucciole”. Secondo la Morante, il mondo occidentale, dal dopoguerra, è sempre più invaso dall’irrealtà, cioè è un mondo che sempre più crede reale ciò che è irreale e considera, invece, irreale, ciò che è reale. Ciò che per la Morante è irreale sono i valori spirituali, religiosi. La Morante considera reale il mondo dello spirito, che passa attraverso la religione, attraverso la filosofia, diverse religioni, diverse filosofie, e, naturalmente, l’arte: la poesia, la letteratura, la pittura, la musica. La realtà è formata sia da un mondo spirituale religioso, sia da un mondo spirituale elitario. Elsa Morante è una studiosa di tutte le religioni, pur non aderendo a nessuna in maniera confessionale, era molto legata al cristianesimo, ma anche al buddismo, al luddismo, è una donna molto legata a religioni e filosofie orientali, e, naturalmente, all’arte. L’irrealtà è tutto quello che gli uomini contemporanei considerano reale, cioè: la politica, le merci, il potere, le istituzioni, le televisioni, i giornali, tutto ciò che sembra avere importanza per la maggior parte degli uomini è, agli occhi della Morante, a tutti gli effetti, irreale. Vi è quindi un collegamento con le asserzioni pasoliniane. Entrambi gli autori interpretano la società italiana degli anni ’60 e, in generale, la società occidentale neocapitalista degli anni ’60 come una fase di decadenza spirituale e come una fase di materialismo sciocco, infernale, allo stesso modo in cui facevano i cosiddetti filosofi tedeschi della Scuola di Francoforte. Tali filosofi affermavano ci fosse un collegamento molto stretto tra le violenze del nazismo durante la Seconda Guerra Mondiale, cioè, quella triplice macchina di distruzione che aveva messo in piedi il nazismo, e la distruzione psicologica e spirituale del capitalismo. Quindi, il mondo va salvato sia da una catastrofe naturale che sembra imminente, sia da una catastrofe spirituale che è sotto gli occhi di tutti, secondo la Morante. Perché i ragazzini devono salvare il mondo? Ecco qui un Saggio, intitolato “Pro o contro la bomba atomica?”, in cui, dice la Morante, “lo scrittore trova le sue compagnie più vere quasi sempre fra persone di età estremamente giovane, o infantile, addirittura, soltanto loro, di fatti, riconoscono e frequentano ancora la realtà”. Qui vi è un collegamento perfetto fra ragazzini/ bambini e quello che la Morante considera la realtà, cioè: il mondo dell’inconscio, della spiritualità, dell’anima. Secondo la Morante, le persone semplici sono quelle che mantengono un collegamento più forte e che ancora riconoscono e frequentano la realtà. Tale filone è presente in tutta le opere della Morante. Elsa Morante ebbe una formazione da autodidatta, non è quasi andata a scuola, però è sempre stata una lettrice molto forte e legata alle favole. La Morante comincia ad affermarsi come scrittrice di romanzi in Italia nel ’48, esordendo col suo primo libro “Menzogna e sortilegio” in cui già ci sono personaggi giovani e giovanissimi, ragazzi e ragazzine (soprattutto ragazzine!) che hanno un ruolo da protagonisti. È una storia familiare in cui le donne hanno un ruolo molto importante. Nel 1957 la Morante diventa una scrittrice di successo, in quanto, aveva scritto un romanzo intitolato “L’isola di Arturo” che vince il premio Nobel letterario più importante per l’epoca (premio strega), vende tantissime copie. Ciò le darà una certa agiatezza economica, in quanto, la Morante, ricca non era. Arturo era proprio un ragazzino che si ritrova su quest’isola (Isola di Procida, sul Golfo di Napoli), in una sorta di conflitto famigliare tra la sua giovane matrigna e suo padre, figura molto misteriosa. È un romanzo di formazione, nel senso che il libro racconta un periodo decisivo della vita di questo ragazzino, che segna anche il suo allontanamento dalla madre, che prima odia e poi ama e dal padre, che prima ama e poi odia. Poi, sarà la volta de “Il mondo salvato dai ragazzini”, e in seguito, nel 1975, la Morante scriverà un romanzo dal nome “La storia”, in cui i protagonisti sono una madre e un bambino, una coppia di protagonisti che abbraccia questo romanzo, di grande successo sia di critica, che di pubblico. È un libro, questo, dedicato a una doppia epigrafe (=versi, o brani di un autore che lo scrittore cita all’inizio dell’opera, per indicare un debito oppure per segnalare un filo conduttore del libro che si sta per leggere). Le epigrafi e le dediche de “La storia” sono molto eloquenti. La dedica è tratta da un verso di un poeta spagnolo, Jieng, che dice: “Per l’analfabeta per il quale scrivo” quindi è un libro dedicato agli analfabeti. Ma poi, vi è, soprattutto, quest’epigrafe tratta dal Vangelo di Luca in cui si riportano alcune parole di Gesù che dicono “Hai nascosto queste cose ai vecchi e ai saggi e le hai rivelate ai piccoli perché così a te piacque”, con riferimento all’insegnamento di Gesù, rivolto ai piccoli, sia ai bambini, sia all’umanità. Questa è una parabola destinata a tutta l’umanità e, soprattutto, all’umanità più semplice, non è una parola destinata a un’élite intellettuale-sacerdotale, è una parola rivolta a tutti, a cominciare dai più umili. È una parola che non ha bisogno di essere filtrata dalla cultura, la parola di Dio è una predicazione che veniva fatta in mezzo alle strade, era rivolta ai mendicanti; era una parola che si scagliava contro i Farisei, contro tutto il potere costituito dallo Stato della Palestina in cui visse Gesù. La storia non è solo un romanzo costruito nelle forme di romanzo popolare: qui riecheggia un po’ la struttura del feuilleton. Quest’ultimo è un romanzo, diffuso soprattutto in Francia, un tipo di romanzo popolare che usciva a puntata sui giornali e sulle riviste e che viene rivolto a un grande pubblico, nel senso che comprendeva una storia molto lunga, fluviale, un po’ come le serie televisive di oggi, dei romanzi molto lunghi pieni di personaggi, pieni di suspanse, di una trama fatta per appassionare. Quello della Morante, è, infatti, un romanzo atto ad appassionare una lunga serie di lettori, ampie masse. La protagonista di tale romanzo era una povera donna, una maestra elementare, violentata durante la seconda Guerra Mondiale da un soldato tedesco e il figlio Giuseppe nato proprio da quello stupro. In fine, “Ara coeli” è l’ultimo romanzo di Elsa Morante, altro libro avente come protagonisti e una madre e un figlio. Lo schema è rovesciato, se “Il mondo salvato dai ragazzini” è un libro che risalta a pieno la maternità e la figura della madre, “Ara coeli” la distrugge. Però, quello che conta dire, è che, ancora una volta, la Morante insiste sul personaggio di figlio. Ara coeli è la madre di origine andalusa, il narratore (il figlio) si chiama Emanuele. Bambini e ragazzini ci sono sempre stati nell’opera della Morante e, di solito, con figura centrale. C’è un interesse sempre molto forte da parte della Morante nei confronti dei ragazzini, ciò è molto più interessante se pensiamo che la Morante non ebbe mai figli: è stata sposata con Alberto Moravia. I ragazzini possono salvare il mondo proprio perché loro vedono, loro ascoltano. I piccoli sono poveri di spirito, gli umili sono gli artisti, i letterati, i filosofi, ma sono anche “piccoli” proprio in senso anagrafico. Pasolini è stato uno dei primi a recensire “Il mondo salvato dai ragazzini” e a dire delle cose importanti su questo libro in fatto di originalità. C’è qualcosa di estremamente sessantottino nello scrivere un libro nel ’68 che apertamente assegna ai ragazzini, ai ragazzi, ai giovani il compito di salvare il mondo, di migliorarlo. L’ottica in cui viene scritto il libro è l’ottica di una rivoluzione possibile, fatta dai ragazzi, in generale, “da chi i cui occhi non sono offuscati dalla cispa dell’irrealtà”; appunto: i giovani, gli artisti, i diseredati, o, addirittura gli analfabeti. Il libro è stato scritto poco dopo la morte violenta di Pasolini, violenta perché è stato ucciso, per l’appunto, da un gruppo di ragazzini. Questo rapporto, quasi di fratellanza intellettuale e anche umana viene sancito dall’idea di costruire il personaggio centrale (Emanuele, il figlio di Ara Coeli) eludendo le caratteristiche di Elsa Morante, in un certo senso. Pasolini fu anche uno dei primi scrittori a recensire “Il mondo salvato dai ragazzini” e a dire delle cose importanti su questo libro, parlando, soprattutto, dell’originalità. Questo è un libro molto strano, anche graficamente. Letterariamente, “non c’è nulla nella tradizione italiana, anche recente, che gli somigli o che esso ricordi”, dice Pasolini, forse un po’ di Aldo Palazzeschi (poeta futurista italiano delle Avanguardie storiche), forse un po’ di formalismo russo, ma sono analogie psicologiche e ultrastoriche, non culturali. È interessante che quando si parla di formalismo russo, analogie psicologiche e ultrastoriche, a Pasolini venga in mente il futurismo, è interessante perché siamo proprio negli anni della Neoavanguardia. È un libro molto originale, ma non della stessa originalità delle Neoavanguardie, semmai è un libro che ama rifarsi a delle Avanguardie molto più lontane e antiche, precedenti, ma che non accetta delle Avanguardie soprattutto l’idea di una letteratura industriale, meccanica, fatta col computer, fatta con delle formule. La letteratura secondo le Avanguardie doveva essere in grado di esprimere la bruttezza della società contemporanea. Per Pasolini e, soprattutto, per Elsa Morante, doveva essere il contrario: la letteratura deve esprimere la bellezza tout court, che, secondo la Morante, non c’è la bellezza della contemporaneità: le bellezze vere e proprie non hanno età, sono completamente astoriche. Mentre la Neoavanguardia è un’arte mimetica del “brutto” ed è un’arte meccanica, un’arte che vuole presentarsi come volutamente e aggressivamente brutta, la Morante, invece, descrive qualcosa di originale, ma che va nella direzione opposta alle Neoavanguardie. Se quella della Neoavanguardia è un’arte dell’irrealtà, per la Morante l’arte è sempre realistica, dove però, in realtà, l’autrice intendeva le cose che contano veramente nella vita di un uomo nella società. Già Pasolini dice che questo libro è veramente qualcosa di irriconoscibile. Ciò, naturalmente, rende la lettura di una Morante difficile, anzi, impossibile. “Esso non può dare piacere, ma piace, per così dire, inconsapevolmente. Forse il troppo piacere che lei legge in questo libro lo fa apparire come una cosa poco seria, una delizia e basta.” Si può notare come Pasolini abbia un tono popolare e scherzoso a volte, altre, invece, è micidiale e tragico. Questo è un libro che non solo parla ai ragazzini, non solo parla di ragazzini, ma parla anche un po’ nella forma della letteratura per ragazzini, cioè mima a volte alcuni modi di alcune forme della letteratura per l’infanzia (filastrocche, canzoni, immagini grafiche, tocchi tipografici). Quello che si presenta a volte in forma scanzonata ed ironica, è, addirittura, un manifesto politico, non partitico. Tale libro ha un valore politico, ma, soprattutto, e anche, partitico: ha uno scopo politico e rivoluzionario che vuole, in un certo senso, incitare a una rivolta popolare. Il libro della Morante è addirittura un manifesto politico di quella nuova Sinistra che in Italia pare poter esistere, crescere e affondare subito il vecchio Qualunquismo e nel complementare Moralismo. Mentre la Sinistra in Italia stenta sempre a esprimersi, a essere generica e giudicante, la Sinistra che ha in mente la Morante non è una Sinistra partitica, ma è una Sinistra più profonda. È un manifesto politico scritto con la grafica di una favola, con umorismo, con gioia. L’umorismo e la gioia sono dei sentimenti e strumenti stilistici oggi incomprensibili; quindi, naturalmente, Pasolini se la prende con la Neoavanguardia. La Neoavanguardia in quel periodo scriveva cose assolutamente poco ironiche, poco umoristiche e molto serie e pesanti. Qui, invece, abbiamo un libro che mima la leggerezza e la gioia. Un esempio è Sereni che pensa alla gioia quando pensa alla città socialista. “È dunque arduo per un lettore e un critico comprendere come, invece, il fondo di questo libro sia funebre” - dice Pasolini. È un libro che da un lato parla spesso di gioia, di grazia, e, dall’altro, parla della volontà di morte e anche della volontà di autodistruzione. Tiene insieme due cose che, in un discorso normale, non dovrebbero stare insieme. La prima parte del libro comincia con una poesia lunga, intitolata “Addio”: è strano il fatto che si inizi un libro con un testo che si intitola “Addio”. Tale testo nasce da una situazione ben precisa: è legata a una conoscenza, a un rapporto, amoroso tra Elsa Morante e il giovane pittore americano dal nome Bill Morrow. I due si erano conosciuti nel ’59, in quanto la Morante, reduce dei successi de “L’isola di Arturo”, è andata negli USA a New York e, da lì, a Washington. Lì aveva conosciuto questo giovanissimo pittore newyorkese, diventano amici, lei lo invita a Roma e, effettivamente, circa due mesi dopo Bill Morrow lascia gli USA per trasferirsi a Roma. La Morante lascia la casa di Moravia e si prende in affitto una casa in un’altra parte di Roma e intraprende una specie di relazione col pittore americano. La relazione andrà avanti fino al 1962, quando Bill Morrow, presentato da Moravia, fa una mostra dei propri dipinti a Roma. Però, succede proprio nell’aprile del ’62 un avvenimento inaspettato: Bill Morrow torna a New York e si butta dal cinquantesimo piano di un grattacielo. Nel 1964, Elsa Morante scrive questa poesia, la quale è evidentemente una rielaborazione poetica della sua storia col pittore americano. “Addio” ha chiaramente il significato di un compianto funebre. Il libro è un invito alla gioia, che difende la gioia, che parla della necessità e della forza rivoluzionaria della felicità, ma presenta un inizio con una nota un po’ diversa. Oltretutto, Bill Morrow è anche l’autore di un dipinto stampato sulla copertina dell’edizione “Einaudi”. Il dipinto si intitola “Viva Fidel”, ovvero: Fidel Castro, il quale, proprio alla fine degli anni ’50, prende potere a Cuba durante la rivoluzione comunista. Questo è un esempio: usa colori molto sgargianti e molto vivaci, ma poi il pittore si suicida. Allo stesso tempo, “Il mondo salvato dai ragazzini” è un libro che parla di rivoluzione e di gioia, ma che comincia, con un pretesto di fallimento. È anche la prima poesia descritta cronologicamente. La poesia di Elsa Morante non è una poesia lirica, anche se ha anche alcuni difetti lirici. “Il mondo salvato dai ragazzini” è un libro di poesie in versi, è il secondo e ultimo che scriverà la Morante. La scrittrice, negli anni ’50 aveva scritto un libro di poesie che si intitola “Alibi” in cui vi sono poesie un po’ più brevi e un po’ più interne. Ne “Il mondo salvato dai ragazzini” abbiamo versi ma non abbiamo propriamente una forma lirica. L’unica poesia che più si avvicina alla forma lirica è proprio “Addio”; in questo libro si possono notare canzoni, ballate, filastrocche, cioè forme diversificate, ma non liriche, con argomento politico, didattico, a volte iconico, a volte edificante, a volte filosofico. Raramente la Morante parla della propria vita in questo libro: più spesso parla di situazioni generali in uno stile comico-realistico o didattico, o parodistico. Questo ci permette di leggere in maniera un po’ più veloce, perché, appunto, di solito, la lirica è più difficile da parafrasare della poesia didattica, realistica, comica, narrativa. *Lettura della poesia “Addio” * Il protagonista è un ragazzino morto molto giovane. Lui è, quindi, un po’ l’ispirazione. Tale testo è datato nel ’64, gli altri testi sono stati scritti dopo. Tale poesia sembra essere quasi un compianto funebre, quindi ha una contraddizione fra la vitalità di questo ragazzo, le sue volontà rivoluzionarie. Sono presenti molti personaggi, in questo testo, morti giovani: abbiamo Tasso, una cantante jazz morta suicida, ecc.; abbiamo anche il “Buddha” storico, Siddharta. La figura è un giovane artista e pittore, pieno di vita, pieno di forza rivoluzionaria, capace di grandi slanci; però è anche una figura che si suicida, è una figura molto distruttiva, carica di dolore. Ha senso tale inizio perché il libro è contrapposto da due poli: da una parte vi è una grande vitalità e spinta rivoluzionaria, dall’altra una tensione alla morte e all’autodistruzione, come diceva anche Pasolini. La parte centrale della poesia è una rievocazione della frequentazione della scrittrice e il pittore americano a Roma, ci sono immagine tra Trastevere, il passaggio del Papa: ci sono alcuni eventi specifici. Questo è uno di quelli: siamo in estate, sulla via consolare Appia (la Regina delle vie, come la chiamavano i Romani). Il ragazzo dipinge in particolare un antico sepolcro che capiamo dopo essere la tomba di Cecilia Metella, una delle più importanti tombe romane della famiglia patrizia. Questo sepolcro, questo mausoleo di Bill Morrow, diventa una specie di vulcano e, in effetti, sembra essere un po’ come un secchiello di sabbia rovesciato. Egli dipinge questa tomba come se fosse una scogliera vulcanica sospesa tra inverno e paradiso. (Il Golgota è il monte in cui avviene la Passione di Gesù). Il pittore, essendo schizofrenico, ad un certo punto si arrabbia in quanto sostiene che Cecilia Metella sia una santa cattolica, patronessa di tutti i musicisti italiani che apparve in visione con un’arpa e che Giuseppe Verdi sia l’autore della “Tosca”. Chiaramente, è tutto sbagliato: Santa Cecilia è la patronessa dei musicisti italiani e la “Tosca” non è di Verdi. La cosa interessante è che il pittore si arrabbia nel momento in cui viene contraddetto: ha un carattere irruento, arrogante e molto carico di slancio. Questa è la parte più descrittiva e anche più narrativa del libro. Questo è il primo ragazzino di cui parla Elsa Morante, nel corso del libro ne vedremo altri con le medesime caratteristiche, vedremo artisti, giovani, antiborghesi, anticonformisti, antiborghesi, contro la legge, contro le istituzioni, contro le autorità. Bill Morrow è un po’ l’immagine iconica dei ragazzini, di come li vede lei, di come li vuole lei. Il testo è asimmetrico: ci sono due parti, la prima è breve, fa da introduzione e introduce soprattutto il tema del testo. Narrativamente siamo alla fine, lui è morto, lei cerca di tornare a queste voci, cioè, cerca di rievocare la sua presenza. La situazione è quella di un lutto che cerca di essere colmato attraverso una rievocazione (“mi riscuote ogni giorno l’urlo del mattino”). La prima parte del libro è quella più ricca di figure retoriche e metafore: “L’urlo del mattino” è una sinestesia: il mattino non urla razionalmente, però per l’io sì. In queste situazioni di dolore e di ossessione, la Morante cerca di ritornare a quelle voci. L’immagine chiave è un po’ quella della caccia: è come se lei andasse a caccia dei ricordi di lui e, attraverso questi ricordi, potesse arrivare alla preda (cioè lui). Lui è la preda sia perché metaforicamente è l’oggetto della ricerca di lei, sia perché è morto. (“Mi butto sulle tracce del sangue”: la traccia del sangue è l’odore dell’animale ferito che il cacciatore e il cane seguono per catturare la preda, è come se la Morante fosse la cacciatrice del sangue della preda che insegue. È una ricerca che avviene attraverso il presente, attraverso le illusioni: “Cerco nelle città in cui vivo dei segnali che mi riportino a te. In ogni ragazzo che passa, cerco qualcosa di te.” “Io, inconsapevole del fatto che in realtà non c’è nessuna cura per questo tipo di lutto, chiedo una tenerezza, una decadenza della memoria, uno spegnimento della memoria; cerco la senilità, la vecchiaia.” C’era molta differenza di età fra la scrittrice e il pittore: più di vent’anni, nel ’64 la Morante aveva già passato i quarant’anni, mentre il pittore ne aveva esattamente venti. Si dice che, dopo la morte del pittore, la Morante sia invecchiata subito. Lei pensa che il tempo non medichi le ferite, anzi, scrive: “Ogni giorno cresce la tua morte”. L’immagine della morte è paragonata al canto di una sirena, in quanto ammalia e che innamora, ma, allo stesso tempo, uccide. La metafora della sirena e la metafora della caccia sono anaforiche e si incrociano: “La tua morte è una voce di sirena”. Nell’ultimo verso si ha una variazione: “La tua morte è una voce di sirena che vorrebbe sviarmi da te nelle sue fosse”. Quindi: TANA, NIDO, FOSSA, la metafora della sirena e la metafora della caccia si incrociano. Ma, appunto, è anaforico questo ricorrere ad elementi uguali all’apertura o alla chiusura di strofa. La Morante, nella parte centrale, ha un modo di scrivere anaforico: “Qua si può; si può; qua;…”. L’intenzione è quella di scandire, attraverso la ripetizione, il tempo della potenzialità, il tempo storico. In questo caso il tempo è deittico, cioè ci sono degli avverbi con la funzione di delineare un luogo e un tempo precisi. Nel contesto narrativo si può capire che in quell’epoca si potevano fare determinate cose e si poteva andare in determinati luoghi. L’invenzione è al tempo stesso ritmica e narrativa, dà il senso di un’esperienza che si è svolta nel tempo, è stata ricca, è stata articolata di fatti e di cose. È una poesia che si basa molto su quest’uso eloquente e scandito del ritmo, accetta anche di usare i segni dell’eloquenza canonica. Qui ritorna un’immagine che vedremo anche alla fine: l’immagine della vita come campo di concentramento, cioè della vita dopo la morte. La vita dopo la perdita del pittore è completamente paragonabile alla vita in un campo di concentramento. Alla fine di questa prima parte lei dice “Forse dovrei accettare tutte queste morti, ogni degradazione, […]”. La scrittrice descrive la sua vita come se fosse prigioniera in un lager, e, alla fine, ritorna alla stessa immagine del lager. Alla fine, sia nelle parole della scrittrice che nelle parole del pittore fuoriescono gli stessi concetti: “le norme del campo”, “ogni degradazione” all’inizio; “Normale procedura”, “procedura degradante” alla fine della poesia. Quindi la scrittrice scrive: “Tu avresti voluto che io finissi nel tuo stesso carcere, tu avresti voluto che io mi degradassi e invecchiassi con te come detenuta. Tu hai cercato di farmi sentire allegra, ma io lo so che tu volevi che io finissi con te, che vivessi la mia vita in carcere, come fai tu.” La Morante sta descrivendo la vita in prigione sostanzialmente: il fatto che non ci fosse corridoio, nessuna parete comune tra una cella e l’altra, le stanze sono sempre senza porte, non ci sono finestre. 13/12/2017 Nel generale allargamento di registro, che c’è in questo testo un elemento lessicale in più rispetto ad “Addio” e rappresenta in alcuni casi l’affiorare quasi di un italiano regionale. Quando la Morante scrive: “Per quanto si diano da fare gli IM, si devono rassegnare, la loro felicità è teterrima, questo è regolare”. L’aggettivo “Regolare” è italiano, ma in questa connotazione, cioè nel dialetto romanesco, “Regolare” vuol dire “Normale”, “Si sa”. In altri punti la cosa emerge con ancora più chiarezza: vi sono delle interiezioni popolaresche: “Aò”, “Non vi resta che abbozzare per quanto vi indignate…”, “Abbozzare”, “Indignare”, “Aò” sono altrettanti segnali quasi dialettali, gergali, popolareschi che aumentano il livello di confidenzialità di questo testo. In alcuni casi, questa confidenzialità arriva persino al punto di abbreviare alcune parti del testo, una cosa che normalmente in letteratura e in poesia non si fa, è quella di far intuire una parte del discorso per metà esplicitato. Quando la Morante scrive: “Contro questa rogna paradossale, impiegando tutta la loro energia totale, industriale, nucleare, ecc per combinare reazioni di originalissima felicità”, ora già il fatto di questa tendenza a fare gli elenchi con rime desinenziali è già di per sé un segno di abbassamento di registro, anche il fatto che la Morante scriva “Eccetera” come “Ecc.” sta a indicare che il livello di comunicazione è molto, ma molto vicino al parlato confidenziale. Vi sono molte comparazioni esplicite: “La voce uccisa del ragazzetto Rossi Paolo, quella voce tragica, di primo canto, benedetta lei, quanto è allegra, allegra come il tema della traversata del flauto magico.” In questa poesia, c’è una grande presenza del “Come”, soprattutto negli elenchi: “Cresce allegra come un girasole”, “Sventola allegra come una vela gialla, come una bandierina sul traguardo di una gara, come un aquilone volato via, come un fiore di calendula”. Cosa significa spostare l’accento stilistico dalla metafora alla comparazione? La comparazione esplicita rende chiaro, esplicito, ciò che la metafora va a decifrare. La comparazione è più facile da capire, è meno oscura della metafora, la quale presenta sempre un certo tasso di oscurità. La Morante, più che abbassare il registro stilistico, vuole chiarire e rendere meno oscuro la comprensione di chi fa passaggi associativi. La cosa che hanno in comune la comparazione e la metafora è quella di mettere insieme oggetti diversi: “La Terra è un’arancia”, “La camicia è una mela”. Solo che, mentre la metafora tende a fondere i due elementi e a produrre nella coscienza di chi legge una specie di arbitrio logico; la comparazione tende ad assecondare e a sollecitare degli atteggiamenti meno bruschi, più graduali. Questo vuol dire che questa canzone popolare tende a mantenersi su uno stile e registro di comunicazione facile e popolare. Sia dal punto di vista metrico, sia dal punto di vista retorico e contenutistico. Molte interiezioni popolari sono costruite sul dialogo e su “botta e risposta”, è un’abitudine sintattica che non appartiene alla lingua italiana e che la Morante importa per dare ancora più valore e incisività a quest’andamento dialogico interrogativo e fa parte di quei trucchi grafici che abbondano ne “Il mondo salvato dai ragazzini”. Questa canzone popolare tende a mantenersi su un registro di comunicazione facile, popolare, sia dal punto di vista metrico, sia dal punto di vista retorico e contenutistico. Vi è un elenco di polizie segrete: GESTAPO (polizia nazista militare del Reich), FBI (polizia americana), polizia politica fascista, equivalente della GESTAPO, la RAP è un altro distaccamento dei servizi segreti sovietici. Questa è una lista di persecutori. La Morante è capace di riconoscere la leggiadria, la leggerezza, la superiorità filosofica, estetica degli FM; però riconosce anche di appartenere agli IM. Non si tratta tanto di capire chi è FP o chi è IM, ma di riconoscere che dentro ciascuno di noi vi sono queste due componenti che lottano e non bisogna far vincere gli IM. L’epoca, secondo la Morante, tende agli IT (Infelici Tutti), la rivoluzione che parla ne “Il mondo salvato dai ragazzini” non è socialista, fascista, moderata ma spirituale che sta a riscoprire in ciascuno, le proprie radici infantili, solari, nella consapevolezza di quella realtà comico-tragica che è la vita in generale. “Noi qui viaggiamo sul cellulare dell’ignoranza” sta a intendere le camionette guidate dalla polizia, quei mezzi blindati che servivano per trasportare i detenuti. Il cellulare è una prigione mobile.