27/02/2019 Che cos’è il linguaggio? La linguistica è lo studio del linguaggio che è un sistema di comunicazione, e come tale ha la funzione di trasmettere informazioni da un emittente ad un ricevente. Trasmettere informazioni non è l’unica funzione del linguaggio. Quanti tipi di linguaggio ci sono? Nella nostra realtà quotidiana andiamo incontro a innumerevoli tipi di linguaggio, con caratteristiche molto diverse, che variano a seconda della struttura: il linguaggio informatico, il linguaggio degli animali (comunicazione dei primati e la “danza” delle api hanno una maniera di comunicare se nelle vicinanze dell’alveare c’è del cibo e se è a distanza ridotta o lunga; riescono a dare indicazioni anche sulla direzione della fonte di cibo. Quando la distanza è ridotta fanno un giro circolare in senso orario e poi antiorario. Quando la distanza è più lunga fanno una sorta di 8 e quando si trova nella parte centrale dell’8 fa vibrare l’addome e rilascia delle goccioline; maggiori sono le volte che fa questo movimento, maggiore è la distanza) e il linguaggio umano. Il linguaggio animale ha tuttavia potenzialità molto limitate ed è legato al soddisfacimento di bisogni comunicativi minimi, diversamente dal linguaggio umano. Che cos’è il linguaggio umano? Il linguaggio umano, o linguaggio naturale, è il sistema di comunicazione, perlopiù verbale (ma non solo), con funzioni e caratteristiche particolari, che gli esseri umani sviluppano grazie a una capacità propria, innata; il linguaggio naturale, o anche linguaggio verbale, si distingue da tutti gli altri linguaggi per vari motivi. Quali sono le differenze tra linguaggio umano e altri linguaggi? Il linguaggio umano è arbitrario (ossia si basa su una convenzione, decido io come definire qualcosa non c’è alcuna relazione tra l’oggetto e il nome che abbiamo scelto); ci sono delle eccezioni minime: onomatopee, raddoppiamento, fonosimbolismo… Il linguaggio umano è discreto e articolato è composto da unità minime riconoscibili e frazionabili che contribuiscono alla costruzione del linguaggio Il linguaggio umano è ricorsivo permette di costruire messaggi potenzialmente infiniti tramite l’aggiunta di segmenti comunicativi (es. alla fiera dell’Est) Il linguaggio umano è dipendente dalla struttura e posizionaleogni messaggio è costruito secondo una struttura gerarchica (sintassi). Il valore di ogni elemento non è stabilito a priori, ma dipende dalla sua posizione, dalla sua funzione all’interno del messaggio. Il linguaggio umano è semanticamente onnipotentepuò dire tutto, può essere usato per qualsiasi tipo di significato. 28/02/2019 La lingua È la forma specifica che il linguaggio umano assume in relazione ad una comunità particolare di esseri umani, un sistema di segni o, per meglio dire, un “sistema di sistemi”, con caratteristiche particolari che variano da una lingua all’altra, con alcune limitazioni (universali linguistici); mentre esiste un solo linguaggio umano, al contrario le lingue sono numerose e in costante mutamento. Che cos’è un segno? È un’entità complessa, composta da una parte sensibile (espressione) e una parte concettuale (contenuto); l’espressione è materialmente percepibile attraverso i sensi e si connette con un contenuto mentale che rimanda ad un oggetto o situazione reale (referente). Triangolo semiotico contenuto espressione referente Quanti tipi di segni esistono? Ci sono vari tipi di segno, che si differenziano tra loro in base al rapporto che lega contenuto ed espressione e il grado di volontarietà: Indice: l’espressione e il contenuto sono legati da un rapporto di origine naturale e di tipo causale, non volontario (fumo); Icona: l’espressione rinvia volutamente ad un oggetto reale per mezzo di meccanismi di analogia e somiglianza (segnale stradale); Simbolo: il legame tra espressione e contenuto non ha motivazione di tipo naturale o analogico; è un legame volontario e arbitrario (simbolo della pace). Il segno nel linguaggio umano Piano dell’espressione [‘kane] Piano del contenuto: il concetto di cane, con tutte le sue definizioni e relazioni, vale a dire l’animale domestico che ha quattro zampe, che abbaia, che è considerato “il migliore amico dell’uomo”, ecc… Piano del referente 05/03/2019 Che cos’è un codice? Un segno è quindi qualcosa che sta per qualcos’altro (aliquid pro aliquo, relazione diadica); per meglio dire, è “qualcosa che sta per qualcos’altro, per qualcuno in certe circostanze” (relazione tetradica). Questo rimando fa necessariamente riferimento a un codice, cioè a un insieme di regole e convenzioni condivise dai partecipanti all’atto comunicativo. È la conoscenza del codice cui fa riferimento che ci permette di riconoscere un segno come tale, e quindi di interpretarlo. Ciascuna lingua è un codice. Un importante distinzione c’è tra codice primario e secondario: quello primario è la lingua, quello secondario è la scrittura che ha come contenuto un altro codice, ossia la lingua. È usato per veicolare il codice primario. Una caratteristica è l’ICONICITÀ, che stabilisce un rapporto volontario su un tipo di analogie. In alcuni casi ci sono dei gesti che non sono iconici, ma simbolici (arbitrari), ad esempio “si” e “no”, in alcune culture non sono espressi allo stesso modo. Teoria matematica della comunicazione (Shannon e Weaver, 1949) Hanno risposto alle domande: come avviene la comunicazione? Quali elementi sono coinvolti? Il modello di Shannon e Weaver è stato ripreso da Ronan Jakobson (1896-1982), russo che si trasferì a Praga da cui, negli anni ’30, fu costretto a fuggire ed andò in America dove prese la cittadinanza ed iniziò ad insegnare. Adatta il modello di Shannon e Weaver alla situazione del linguaggio verbale, applicabile a tutti i contesti. Concentra in un unico elemento le informazioni delle fonti e il trasmittente ed in un altro il destinatario e la ricezione del messaggio in Shannon e Weaver queste sono separate (informatica). Jakobson individua il contesto, il mittente, il messaggio, il ricevente, il canale e il codice: Jakobson si chiede a cosa serve il linguaggio, la comunicazione per interagire, esprimersi, trasmettere informazioni: Jakobson dice che serve a molte più cose: individua una funzione per ciascun elemento del suo modello. Funzione emotiva (mittente): esprime lo stato d’animo di chi emette l’enunciato Funzione conativa (destinatario): esprime l’influenza che si vuole esercitare sul destinatario al fine di guidarne il comportamento Funzione poetica (messaggio): si realizza quando usiamo la lingua in funzione “creativa”, diversa dall’uso normale Funzione referenziale (contesto): si realizza nella descrizione del contesto e degli elementi che lo caratterizzano Funzione fàtica (canale): si mette in atto quando verifichiamo il funzionamento del canale di comunicazione Funzione metalinguistica (codice): si realizza quando si usa il codice per parlare del codice stesso. Ci sono dei codici complessi, come il linguaggio verbale, che hanno la massima funzionalità e contemporaneità altri codici hanno una funzionalità ridotta (i cani non hanno la funzione poetica). Il modello di Jakobson è ripreso da Karl Buhler (1879-1963) che aveva individuato un modello a 3 elementi: rappresentazione, espressione, appello. Funzione di appello: riguarda il ricevente Funzione rappresentativa: Funzione espressiva: riguardo il contesto riguarda il parlante Michael Halliday (1925-2018) parla dello sviluppo delle funzioni comunicative nel bambino che acquisisce la facoltà di linguaggio e le funzioni con cui utilizzarlo. Funzione strumentale: si esprimono bisogni o desideri Funzione regolativa: si cerca di controllare il comportamento di chi ascolta Funzione interazionale: serve per agire con gli altri Funzione personale: rappresentare sé stessi e le proprie sensazioni nel dialogo Funzione euristica: indagare il mondo e la realtà Funzione immaginativa: si attiva nella creazione di una realtà propria Funzione informativa: si attiva nella trasmissione e nello scambio di informazioni Funzione ideazionale: riguarda la trasmissione dell’informazione. È divisa in: o Funzione esperienziale: contenuto del linguaggio, relativo alla realtà esterna, pensieri, sentimenti o Funzione logica: organizzazione sintattica del discorso Funzione interpersonale: esprime e specifica le relazioni e i contatti tra membri di una comunità linguistica Funzione testuale: capacità del linguaggio di creare testi e di porsi in relazione sia al contesto situazionale sia a ciò che è stato detto precedentemente. Il modello socio-comunicativo di Ulrich Ammon (1943) Lingua come mezzo di comunicazione, e di moltiplicazione e trasferimento delle informazioni. Lingua come mezzo per il coordinamento di azioni, tra più individui. Lingua come magazzino di esperienze, ciò che viene comunicato è poi fissato nella memoria e garantisce il progresso nel processo di apprendimento. Lingua come medium di formazione della coscienza, attraverso la fissazione delle esperienze e la loro categorizzazione. Lingua come medium del pensiero operativo, nel senso che attraverso la lingua riusciamo a costruire concetti e astrazioni nuovi e a progredire nella comprensione scientifica. Lingua come medium di orientamento dell’azione, cioè la pianificazione simbolica delle azioni, anche aldilà della loro effettiva realizzazione. Lingua come medium di attribuzione sociale, nel senso che la lingua è un elemento che ci classifica socialmente, stabilendo la nostra appartenenza ad un gruppo sociale. Lingua come azione sociale, nel senso che attraverso la lingua noi costruiamo la nostra azione nella società. 06/03/2019 Intensione ed estensione L’intensione è l’insieme delle proprietà definitorie che costituiscono il concetto designato e accomunano gli “oggetti” che fanno parte di una determinata “estensione”. L’estensione è l’insieme degli “oggetti” individuali cui è applicabile il dato concetto, cioè l’insieme degli “oggetti” individuali con una medesima intensione. Es. bicicletta -Intensione: avere un telaio avere due ruote avere un manubrio essere utilizzato per muoversi non avere un motore ecc. -Estensione: tutti i veicoli designabili con la parola bicicletta. Denotazione e connotazione La denotazione è ciò che un termine designa. La connotazione sono le qualità attribuite al referente (ciò che viene designato) dagli elementi della lingua che si usano per denotarlo. Es. Diego Armando Maradona Il 10 del Napoli anni ‘80 L’autore del più bel gol della storia del calcio Colui che fece gol di mano all’Inghilterra denaro / soldi / grana snello / magro / secco Teorie sulla categorizzazione del significato Secondo la teoria classica, gli “oggetti” sono categorizzati secondo la presenza o assenza di determinate proprietà; un’aquila appartiene alla categoria degli uccelli perché possiede delle proprietà ritenute caratteristiche di questa categoria: vola, è ricoperta di piume, ha il becco, fa le uova e le cova ecc. Nella realtà, tuttavia, gli “oggetti”, cioè le entità che sono definite dal linguaggio, non sempre hanno tutte le proprietà che contraddistinguono una determinata categoria, ma solo alcune: ad esempio, questo è il caso del pinguino in relazione alla categoria degli uccelli (ha le piume, il becco, fa le uova e le cova, MA non vola). Teoria dei prototipi Secondo questa teoria, il prototipo è il centro di una categoria che viene definito chiaramente in tutte le sue proprietà, mentre le aree ai confini sono più sfumate; gli elementi che occupano il centro della categoria sono detti prototipi. La doppia articolazione del segno linguistico La prima articolazione riguarda l’analisi del segno linguistico nei suoi minimi componenti dotati di contenuto, cioè di significato o funzione: ragazz-o, ragazz-a, ragazz-i, ragazz-e; bambin-o, bambin-a ecc…; ragazz-at-a, ragazz-at-e ecc… Seconda articolazione: analisi esclusivamente dell’espressione linguistica, con la finalità di individuare unità prive di significato che unendosi costituiscono le unità di prima articolazione: f-o-r-t-e, p-o-r-t-e, p-a-r-t-e, ca-r-t-e ecc… for-te, por-te, par-te, car-te ecc… Sincronia e diacronia Sincronia: in questa prospettiva, il sistema linguistico è analizzato nei suoi elementi costitutivi senza considerare la dimensione temporale: la parola nero è analizzata ad esempio attraverso i rapporti di significato con altre parole della stessa sfera semantica, sia sinonimi (oscuro, atro) sia contrari (bianco, candido, luminoso), o ancora con varianti censurate, o con sfumature dipendenti dal contesto (fondi neri), o in relazione metaforica. Diacronia: il sistema linguistico, e le sue componenti, sono osservati e analizzati considerando la variabile temporale nella loro formazione e evoluzione: nero viene dal latino niger, che significava «nero lucido», contrapposto a ater, «nero opaco», distinzione poi persa con l’affermazione del termine nelle lingue romanze. Rapporti sintagmatici e rapporti paradigmatici ???????????????????? La pragmatica La pragmatica è il livello di analisi del linguaggio che prende in considerazione non solo l’enunciato, ma anche il contesto in cui l’enunciato è prodotto, le funzioni espresse, le motivazioni dei parlanti, le loro aspettative e i loro scopi comunicativi, la capacità di comprendere il messaggio prodotto. Porta il vaso qui (chiede di farlo fisicamente) Puoi aprire la finestra? (chiede soltanto se si può, non di aprirla fisicamente) Origine del termine Il primo a usare la parola «pragmatica» fu Charles Morris (1901–1979) nei suoi studi di semiotica (1938). Per Morris, la semiotica si distingue in tre campi fondamentali: la sintassi (syntactics), vale a dire lo studio delle relazioni tra segni; la semantica (semantics), cioè lo studio delle relazioni tra i segni e gli elementi della realtà cui essi rimandano; la pragmatica (pragmatics), cioè lo studio delle relazioni tra i segni e gli utenti del codice. La definizione di Levinson (1947) La pragmatica è lo studio delle relazioni tra la lingua e il contesto che sono fondamentali per spiegare la comprensione della lingua stessa. Il contesto (Andorno 2005) Il contesto è un’espressione intuitivamente chiara ma difficile da definire; si compone sostanzialmente di tre elementi: le conoscenze condivise, l’insieme di credenze sociali e culturali sul funzionamento del mondo che i parlanti condividono o credono di condividere, compresa la conoscenza del codice linguistico; la situazione comunicativa contingente, ovvero la situazione spazio-temporale in cui si svolge un evento linguistico, le relazioni interpersonali fra i partecipanti, le aspettative e gli scopi che li muovono; il contesto linguistico o cotesto, ovvero il discorso in atto e le conoscenze che esso ha generato. La percezione del contesto è fondamentale per la comprensione di un enunciato, perché permette di ovviare ad alcuni problemi propri di ogni codice: l’omonimia: identico significante, ma diverso significato (pesca-pèsca) la polisemia: significante con più significati ("fattore" si può riferire all'agricoltore o al membro di una moltiplicazione) l’ambiguità: più di un’interpretazione (rapina in banca con rivoltella da centomila euro); la vaghezza: parole o enunciati che non sono pienamente specificati riguardo al significato; l’indeterminatezza: espressioni che sono interpretabili ma che necessitano del contesto per una piena comprensione. L’enunciato L’enunciato è una sequenza verbale prodotta oralmente o per iscritto in una situazione comunicativa concreta; si distingue dalla frase, che è invece una sequenza formalmente accettabile e completa dal punto di vista grammaticale. L’enunciato è l’unità minima del testo. Es. Antonio: Allora? Francesco: Macché, niente. Antonio: Perché? Francesco: Boh. Ha detto la mattina non c’è nessuno. Deissi «riguarda i modi in cui le lingue codificano o grammaticalizzano aspetti del contesto dell'enunciato o dell'atto linguistico, e pertanto riguarda anche i modi in cui l'interpretazione degli enunciati dipende dall'analisi del contesto dell'enunciato» (Levinson 1983). Procedimento con il quale, utilizzando particolari elementi linguistici, si mette in rapporto quanto viene detto con la situazione spazio-temporale a cui si riferisce. - Deissi personale: io, tu, lui, lei, noi, voi, loro. Deissi spaziale: distingue deittici prossimali, questo, qui, qua, e distali, quello, lì, là (e il toscano codesto, costì, costà). Deissi temporale: ora, adesso, domani, l’anno scorso, subito ecc. Deissi testuale: si attua attraverso l’anafora, ieri ho visto Francesca e le ho detto che la cercavi, e la catafora, ci parlo io con Francesca. Deissi sociale: tu/Lei, tu/Voi, Spettabile ditta, Egregio professore ecc. Triplice organizzazione dell’enunciato Ogni enunciato presuppone tre livelli di organizzazione delle informazioni: - - grammaticale: la funzione dei vari componenti dell’enunciato è identificata attraverso le relazioni morfosintattiche che essi intrattengono tra di loro e con l’enunciato stesso: Silvia mangia la mela semantico (o logico): indica la struttura dell’evento o del processo descritto attraverso i suoi attori reali: Il guardiano aprì la porta con la chiave La chiave aprì la porta La porta si aprì tematico: porta all’individuazione dell’argomento dell’enunciato (il tema, o topic) e ciò che si vuol dire del tema (il rema, o comment, o anche focus): Paolo ha chiamato Anna Anna ha chiamato Stefano? No, PAOLO ha chiamato Stefano (?) Ludwig Wittgenstein (1889–1951) Il «primo» Wittgenstein … Il linguaggio ha la funzione di rappresentare la realtà, e il filosofo deve concorrere alla costruzione di un linguaggio scientifico ideale, che sia quanto più aderente alla struttura logica della realtà. … e il «secondo» Wittgenstein Il linguaggio oggetto di analisi non deve più essere quello ideale e perfetto della scienza, ma quello quotidiano, di tutti i giorni, nella sua concretezza fatta di usi e pratiche diverse (giochi linguistici): il linguaggio è l’uso che se ne fa. John L. Austin (1911–1960) La teoria degli atti performativi: come fare cose con le parole. Austin distingue tra enunciati constativi, che descrivono eventi, cose, processi ecc., e quindi possono essere veri o falsi, e enunciati performativi, che non descrivono fatti, ma compiono azioni (spesso grazie a particolari verbi, detti ugualmente performativi). • Paolo è biondo • L’uomo è stato su Marte • Usain Bolt è l’uomo più veloce del mondo • Perugia ha tre università • Ti prometto che domani ti porto al cinema • Nego di aver detto questa frase • Io ti battezzo • Confesso che sono stato io a prendere la bicicletta • Lascio in eredità a mio figlio il mio appartamento • Per i poteri conferitimi dalla legge, visto il curriculum di studi e l’esito della prova finale, la dichiaro dottore in Scienze della Formazione Primaria Enunciati constativi Condizioni di verità Enunciati performativi Condizioni di felicità Condizioni di felicità: sono le condizioni che devono verificarsi perché un enunciato possa avere efficacia: essere pronunciato dalla persona giusta, nella giusta predisposizione d’animo sia di chi parla sia di chi ascolta, nel luogo appropriato, con la giusta formulazione ecc. Condizioni di felicità Α.1: Deve esistere una procedura convenzionale accettata avente un certo effetto convenzionale, procedura che deve includere l’atto di pronunciare certe parole da parte di certe persone in certe circostanze Α.2: Le particolari persone e circostanze in un dato caso devono essere appropriate per il richiamarsi alla particolare procedura cui ci si richiama Β.1: La procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti correttamente Β.2: La procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti completamente Γ.1: Laddove, come spesso avviene, la procedura sia destinata all’impiego da parte di certe persone aventi certi pensieri o sentimenti, o all’inaugurazione di un certo comportamento consequenziale da parte di qualcuno dei partecipanti, allora una persona che partecipa e quindi si richiama alla procedura deve di fatto avere quei pensieri o sentimenti, e i partecipanti devono avere intenzioni di comportarsi in tal modo Γ.2: I partecipanti devono comportarsi effettivamente in tal modo. Violazioni La teoria degli atti linguistici Austin sostiene infine che tutti gli enunciati, anche quelli constativi, presuppongono un’azione: nel caso specifico, l’azione di constatare, o di asserire. Il linguaggio, in questa prospettiva, non è più un mero sistema di comunicazione, ma uno strumento e un modo di agire, in particolare nell’interazione sociale, di cui l’atto linguistico è l’unità fondamentale. Tutti i figli di Giovanni sono biondi Il treno è arrivato Io affermo che il treno è arrivato Per questo, Austin sostiene che nel compiere un atto linguistico compiamo simultaneamente tre atti diversi: un atto locutorio (o locutivo), il semplice dire qualcosa, un enunciato con un’espressione e un significato, nel rispetto della struttura del sistema linguistico (l’atto ha una forma locutiva). Presuppone un atto fonetico (l’emettere suoni), un atto fatico (il pronunciare parole secondo lessico e grammatica) e un atto retico (l’usare queste parole con un senso e con un riferimento). un atto illocutorio (o illocutivo), il compiere un’azione nel momento in cui si pronuncia un enunciato; trasmette l’intenzione del parlante al ricevente (l’atto ha una forza illocutiva). un atto perlocutorio (o perlocutivo), l’effetto che si intende produrre sull’interlocutore attraverso l’atto linguistico (l’atto produce un effetto perlocutivo). Il gatto è sul divano atto (o livello) locutorio: Francesco ha detto che domani andrà a scuola atto (o livello) illocutorio: Francesco ha sostenuto che domani andrà a scuola atto (o livello) perlocutorio : Francesco mi ha convinto che domani andrà a scuola Classificazione dei verbi performativi secondo la forza illocutoria Verdettivi: emettono una sentenza o un giudizio. giudico, classifico, stimo, descrivo ecc. Esercitivi: esercitano dei poteri, dei diritti, o un’influenza. nomino, ordino, esorto, avverto, chiedo ecc. Commissivi: consistono nel promettere o assumersi un impegno. prometto, mi impegno, garantisco, sono d’accordo ecc. Comportativi: esprimono una reazione agli atteggiamenti e al comportamento sociale degli altri. mi scuso, mi congratulo, sfido, critico, benedico ecc. Espositivi: chiariscono il ruolo dei nostri enunciati in una discussione. ammetto, dimostro, assumo, postulo ecc. Paul Grice: le implicature conversazionali (1913-1988) Grice distingue tra significato dell’espressione, cioè il significato letterale e convenzionale di un enunciato, e il significato del parlante, cioè ciò che il parlante intende dire veramente. Una conversazione si può dire veramente riuscita se le intenzioni del parlante sono pienamente comprese dall’ascoltatore. Uno dei meccanismi fondamentali è quello delle implicature conversazionali, informazioni che non sono espresse ma sono inferite dall’ascoltatore in base ai contesti e agli usi linguistici propri dei parlanti. A: Non hai mangiato quasi niente. B: Non mi sento molto bene. Secondo Grice, gli scambi comunicativi si basano su un principio di cooperazione, cioè uno sforzo comune da parte dei parlanti affinché la comunicazione abbia successo: «Conforma il tuo contributo alla conversazione nella misura in cui è richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento accettato o dalla direzione dello scambio comunicativo in cui sei impegnato». Tale principio si articola in quattro massime, che si configurano come degli obblighi, ma sono piuttosto delle modalità espressive per i parlanti che aspirano alla piena efficacia dell’atto comunicativo. - Massima della quantità: dai un contributo tanto informativo quanto richiesto, cioè non lesinare informazioni richieste, né aggiungere informazioni non richieste. Massima della qualità: dì ciò che ritieni vero, e non ciò che per te è falso o per cui non hai prove adeguate. Massima della relazione: sii pertinente. Massima della modalità: evita espressioni oscure, evita ambiguità, sii conciso, esprimiti in maniera ordinata. La competenza comunicativa (Hymes 1972) (1927-2009) Hymes parte dalla critica alla visione di Chomsky, il quale individua due livelli diversi relativi alla produzione linguistica, la competenza linguistica (che ricalca la langue saussuriana, anche se la langue è un fatto sociale, mentre la competenza chomskyana è comunque individuale), che è la padronanza delle regole formali della grammatica (in senso lato) da parte del parlante, e l’esecuzione, che è la performance concreta dell'atto linguistico, e che Chomsky considera in subordine rispetto alla competenza. La teoria linguistica si occupa primariamente di un parlante/ascoltatore ideale, in una comunità linguistica completamente omogenea, che conosce la sua lingua perfettamente e non è intaccato da quelle condizioni grammaticalmente irrilevanti quali limitazioni della memoria, distrazioni, cambiamenti di attenzione e di interesse e errori (casuali o caratteristici) nell'applicare la sua conoscenza della lingua nell'esecuzione reale (Chomsky 1966). Hymes ritiene invece che ci sia un'unica competenza, che chiama comunicativa, che nel parlante non presuppone soltanto la conoscenza delle regole grammaticali o lessicali di una lingua, ma anche della padronanza dei contesti d'uso della lingua stessa in una data cornice socio-culturale. Un bambino, quando inizia a parlare, non impara soltanto le regole della lingua, ma anche «la competenza su quando parlare e quando no, di cosa parlare, e a chi, quando, dove, e in che maniera» (Hymes 1972). Questa competenza è acquisita tramite l’esperienza sociale, cioè i bisogni, le motivazioni e i problemi che nell’affermarsi sono a loro volta fonte di ulteriore esperienza comunicativa. In questo senso, la comunicazione è fatta di eventi, che sono costituiti a loro volta da uno o più atti comunicativi. Ciascun atto comunicativo è determinato da una serie di fattori, che non sono mai solamente linguistici ma hanno a che fare con la dimensione pragmatica del linguaggio. Il messaggio, nello specifico, è individuato da due fattori, la forma e il contenuto: nella lettura di Hymes, questi non sono determinati soltanto da elementi linguistici, ma sono essi stessi connotati sul piano comunicativo e pragmatico, e sono in stretta interdipendenza fra loro. La forma del messaggio è come questo viene veicolato, il contenuto è ciò che esso veicola, ma in entrambi i casi forma e contenuto vanno oltre la semplice definizione tramite categorie («Il modo in cui qualcosa è detto è parte di ciò che viene detto»). Il modello S-P-E-A-K-I-N-G È il modello di analisi degli eventi linguistici proposto da Hymes; questo modello di analisi tiene conto non soltanto della gestione dell’informazione sul piano comunicativo, ma anche di tutti quegli aspetti, determinati da fattori sociali e culturali, che caratterizzano l’evento linguistico specifico. Si basa su otto parametri fondamentali: S – Situazione (Settings): comprende sia le condizioni fisiche e spazio-temporali in cui avviene l’atto linguistico, sia la «scena», cioè la definizione psicologica che viene data dell’evento in una certa cultura. P – Partecipanti (Participants): sono naturalmente il parlante e l’ascoltatore, ma anche l’emittente, colui a cui va assegnato l’atto linguistico anche se non ne è materialmente l’esecutore, e il destinatario, colui a cui è indirizzato in ultima istanza l’atto linguistico anche se non direttamente rivolto a lui. E – Fini (Ends): sono i risultati attesi e convenzionalmente riconosciuti dalla performance di un evento linguistico e gli scopi personali di ciascun partecipante all’evento linguistico. A – Sequenze di Atti (Act Sequences): prende in considerazione sia la forma dei messaggi prodotti, sia il loro contenuto; forma e contenuto sono considerati come strettamente interrelati e interdipendenti. K – Chiave (Key): è la chiave di lettura appropriata dell’evento linguistico, ossia il tono o spirito, spesso veicolato da particolari scelte stilistiche, paraverbali o non verbali. I – Strumenti (Instrumentalities): per strumenti si intendono i canali, cioè le tipologie di comunicazione (orale, scritta, visiva ecc.) e le forme del linguaggio, cioè i codici, le varietà e i registri. N – Norme (Norms): sono le regole secondo cui avviene l’interazione comunicativa, e le regole attraverso cui avviene l’interpretazione dell’evento linguistico. G – Generi (Genres): sono le categorie di «testo» nelle quali rientrano gli eventi linguistici, e che emergono con determinate caratteristiche ricorrenti. La comunicazione non verbale Paralinguistica: tono e intonazione, volume, ritmo e velocità Cinesica: movimenti del corpo, espressioni facciali, postura, gesti con le mani Prossemica: occupazione dello spazio Aptica: contatto fisico Possono essere aggiunti altri fattori: lo sguardo, il vestiario, l’odore… Il sapere utilizzare in maniera appropriata tutti questi codici, insieme al codice verbale (lingua), rientra nella competenza comunicativa globale. Mehrabian & Wiener 1967; Mehrabian & Ferris 1967 Quanto incidono le dimensioni verbale, paraverbale e non verbale nella valutazione di stati d’animo altrui. Variabili volontario vs. involontario (o conscio vs. inconscio) discreto vs. continuo arbitrario vs. iconico significato invariante vs. significato variabile Fattori condizionanti Cultura e società Contesto Sesso Età Funzioni della comunicazione non verbale (Ekman & Friesen 1969) Emblemi (Emblems): atti o comportamenti non verbali che hanno una diretta traduzione nel linguaggio verbale. Illustratori (Illustrators): atti o comportamenti non verbali strettamente connessi al linguaggio verbale, che essi accompagnano e amplificano elaborandone il messaggio. Dimostratori di emozioni (Affect Displays): atti o comportamenti non verbali (perlopiù espressioni facciali) che esprimono stati d’animo primari, che si suppone siano universali. Regolatori (Regulators): atti o comportamenti non verbali che guidano e controllano il flusso della conversazione, influenzando sia chi parla sia chi ascolta. Adattatori (Adaptators): atti o comportamenti non verbali che sono «appresi originariamente come parte di sforzi di adattamento per soddisfare bisogni personali o fisici, o per compiere azioni corporee, o per esprimere emozioni, o per mantenere o sviluppare contatti personali prototipici, o per imparare attività strumentali». Paralinguistica tono e intonazione volume ritmo velocità Anche questi fattori, al di là del loro impiego come fatti prosodici veri e propri (e, quindi, linguistici), subiscono forti condizionamenti sotto vari aspetti: biologici, fisiologici, psicologici, socioculturali, contestuali. Cinesica «movimenti del corpo su base psico-muscolare, consci o inconsci, e le posture che li delimitano o che ne derivano, tanto appresi quanto somatogenici, di percezione visuale, visuale-acustica, tattile e cinestetica, che, tanto in isolamento quanto combinati a strutture linguistiche e paralinguistiche e a altri sistemi comportamentali somatici o oggettuali, posseggono valore comunicativo voluto o non voluto» (Poyatos 2002, II: 185) gesti: testa, viso, sguardo, estremità, ma anche fenomeni inconsci e non controllabili, come i brividi emotivi. maniere: più o meno consapevoli, spesso apprese e ritualizzate dal punto di vista sociale. posture: corpo, gambe, tronco, mani, palpebre, generalmente statiche, consapevoli o meno, anch'esse ritualizzate. Ciascuno di questi atti cinesici può essere libero o legato, a seconda del fatto che vi sia coinvolgimento di altre parti del corpo o di oggetti. Gesti, maniere e posture possono essere in ogni caso analizzati secondo uno schema tripartito, che presuppone: una fase formativa, che rappresenta l’attacco di un gesto, di una postura, o di una maniera; una fase centrale, che può essere dinamica (movimento) o statica (posizione); una fase finale, o di dissolvenza, dove il gesto, la postura o la maniera vengono disarticolati. Altri fattori, o qualità, rilevanti per la descrizione della cinesica sono: Intensità, o tensione muscolare Pressione Ampiezza, o dimensione spaziale del movimento Velocità, o dimensione temporale del movimento Durata Prossemica (Hall 1966) (Edward Hall - (1914-2009)) Ogni individuo ha uno spazio personale, che in linea di massima lo separa dagli altri individui, ma che allo stesso tempo lo mette in relazione con essi, secondo certi schemi che sono fortemente influenzati da fattori culturali e contestuali. In base a ciò, si distinguono quattro distanze, che individuano altrettante dimensioni interpersonali: distanza pubblica (oltre 3-3,65 m): è la distanza di un oratore dai suoi ascoltatori; la comunicazione avviene solo sulla base dei canali visivi e uditivi, e solo in condizioni di particolare amplificazione; distanza sociale (tra 1,20 m e 3-3,65 m): è la distanza dell’interazione formale, in cui si attivano normalmente i canali visivi e uditivi, e in assenza di contatto; distanza personale (tra 45 cm e 1,20 m): è la distanza delle relazioni amicali, quella che oltre ad attivare i canali uditivi e visivi prevede anche il contatto con le estremità; il dominio fisico della persona inizia ad essere occupato da altri; distanza intima (meno di 45 cm): è la distanza delle relazioni intime, in cui non solo si attiva il contatto con tutto il corpo, ma ad esempio si attiva anche l’olfatto. È la distanza dei rapporti intimi, del conforto, dell’amplesso, ma anche della lotta. Queste distanze, in ogni caso, sono fortemente determinate sul piano culturale e sociale: culture diverse presuppongono convenzioni prossemiche diverse. Inoltre, ai fini della comunicazione è importante non solo l’occupazione di uno spazio, ma anche il movimento verso e da quello spazio: un avvicinamento indica in genere la volontà di iniziare una conversazione, un allontanamento indica invece un probabile tentativo di interromperla. Anche il contesto contribuisce sensibilmente a definire la propria sfera personale: l’uso di un ascensore, ad esempio, riduce questo spazio ai minimi termini. Si distingue quindi tra una distanza fisica, che varia in base al contesto, e una distanza psicologica, che può essere ristabilita in base a vari espedienti (ad es., evitando il contatto visivo). Altro aspetto che riguarda la prossemica è l’orientamento. Anche questo è definito perlopiù da convenzioni sociali e culturali: Faccia a faccia Fianco a fianco Altrettanto importante è l’angolazione reciproca tra occupanti uno spazio comune, anch’essa determinata socioculturalmente. Aptica È la forma di comunicazione non verbale che riguarda il contatto fisico. In genere si distinguono cinque dimensioni del contatto fisico, in relazione alla distanza e al coinvolgimento emotivo: funzionale/professionale: il contatto è permesso dal contesto: per esempio durante un esame medico. sociale/di gentilezza: il contatto è formale e determinato socio-culturalmente. di amicizia/di calore: il contatto è espressione di riguardo. di amore/di intimità: il contatto è speciale, permesso solo alle persone alle quali si è prossimi. di eccitazione sessuale: il contatto ha finalità sessuali. L’aptica riguarda essenzialmente due dimensioni esperienziali, una attiva (toccare) e una passiva (essere toccati). Non tutte le parti del corpo sono disponibili per il contatto a tutti i livelli; in questo senso, si distinguono: Parti non vulnerabili: mano, braccio, spalla, parte superiore della schiena, che entro certi limiti sono disponibili al «tocco» anche ad estranei. Parti vulnerabili: tutte le altre, che possono essere toccate solo da persone che rientrano nella sfera dell’intimità, o da persone specifiche, per ragioni più che altro professionali (dottori, massaggiatori ecc.). LA SOCIOLINGUISTICA La sociolinguistica studia l’interazione tra lingua e società (e cultura). Esiste una dimensione macrolinguistica, che prende in considerazione l’interazione della comunità dei parlanti con i codici nel loro complesso, e una dimensione microlinguistica, che prende invece come riferimento l’interazione dei parlanti all’interno dell’evento linguistico con la situazione socioculturale in cui avviene l’evento. (lo studio del codice in relazione a fattori socio-culturali) il modo in cui studiamo la lingua calato nel contesto. Macrosociolinguistica e microsociolinguistica una dimensione allargata in cui vengono prese in riferimento la comunità parlante e il suo repertorio e il modo in cui queste comunità utilizzano queste lingue nelle loro interazioni. La sociolinguistica prende in considerazione delle variabili, cioè delle modalità con cui i parlanti realizzano un’unità linguistica in relazione ad un contesto socioculturale; ciascuna realizzazione è detta variante. Un raggruppamento coerente di varianti in relazione ad un contesto sociale definisce una varietà linguistica. Es. la parola nebbia esiste una variabile che è la lettera “e”, che può essere pronunciata in due modi: (nébbia – nebbia). Ci sono delle variabili significative sul dialogo. Ci possono anche essere varianti sintattiche. “oggi c’era la pasta con tonno ma non l’ho mangiata; Il tonno non ti piace perché?” Le variabili sociali, o sociolinguistiche, sono i fattori indipendenti cui sono correlati i fatti linguistici soggetti a variazione: Stratificazione sociale (grado di istruzione, occupazione, ecc.) variabile complessa (in funzione di molti parametri.) quando si fanno degli studi di sociolinguistica, si prende in considerazione il grado del parlare, lo stipendio, dove uno abita, il tipo di ambiente che uno si trova intorno. Appartenenza di gruppo sociale (persone che abitano tutte nella stessa zona, che fanno tutte lo stesso lavoro, hanno la stessa origine…) anche qui si creano dei gruppi sociali ben definiti e l’appartenenza ad un gruppo è una variabile importante. Età e fascia generazionale (variabile utilissima) Sesso (genere) Collocazione spaziale e luogo di abitazione e provenienza (si proviene dalle stesse zone e si tenderà a parlare allo stesso modo) nel nostro modo di parlare tutte queste variabili hanno un ruolo, tutti i parametri indipendenti influiscono sulle variabili dipendenti. Varietà sociolinguistiche: possono essere molteplici e sono in funzione di una variabile sociolinguistica: Varietà diatopiche (o geografiche): si distinguono in base alla distribuzione territoriale, es. gli italiani regionali e anche certi tipi di dialetto. Varietà diastratiche (o sociali): sono in funzione della posizione sociale dei parlanti all’interno di una comunità, es. Black English (la lingua inglese parlata dalla comunità afro-americana), ma anche i gerghi (varietà parlata da un gruppo molto ristretto e omogeneo), cioè quelle varietà parlate da un gruppo ristretto e omogeneo, spesso volutamente criptiche. (Italiano parlato dai medici) Varietà diafasiche (o situazionali): sono in funzione della situazione sociale e di variabili come il contesto, la formalità ecc.; un esempio sono i sottocodici, cioè quelle varietà parlate in funzione di argomenti specifici (es. la medicina, l’architettura ecc.), o anche i registri, che sono verità linguistiche dalla situazione, es. registro formale, informale ecc. Altri tipi di varietà sociolinguistiche: Varietà culturali: sono in funzione dei sistemi di valori e dei modelli comportamentali di un network sociale. Varietà diamesiche: sono in funzione del canale o dello strumento, es. scritto vs. parlato, di persona vs. al telefono ecc. Varietà diaetniche: varietà emergenti da un diverso background etnico anche all’interno della stessa comunità linguistica, es. l’italiano parlato dai cinesi di seconda generazione. Varietà diagenerazionali: che prendono in considerazione l’età come variabile indipendente, da cui il linguaggio dei giovani, degli adulti ecc. Varietà di genere: che variano in funzione del sesso dei parlanti. Una comunità linguistica in genere utilizza più varietà, che costituiscono il repertorio di tale comunità a disposizione dei parlanti della comunità stessa; i parlanti possono padroneggiare alcune di queste varietà, ma non necessariamente tutte quante. Ogni individuo ha una lingua nativa, che è la lingua prima, quella della socializzazione primaria, che ha imparato in famiglia nei primi anni di vita. Bilinguismo (o plurilinguismo): quando in una comunità sono presenti almeno due lingue o due varietà linguistiche, senza distinzioni d’uso specifiche. Diglossia (o poliglossia): quando in un repertorio ci sono almeno due varietà, distinte sul piano della variabile sociale. Commutazione di codice (code switching): il passaggio da una varietà ad un’altra varietà da parte di un parlante all’interno dello stesso evento comunicativo, in genere per motivazioni sociali o situazionali. Dilalìa: quando in un repertorio ci sono almeno due varietà distinte sul piano della variabile sociale (una di prestigio, una informale) ma con contesti d’uso in parte sovrapposti, e possibilità di commutazione di codice. In Italia quasi tutti viviamo questa situazione: tutti parliamo una lingua standard di prestigio che è l’italiano, tutti parliamo varietà popolari dell’italiano, molti ancora parlano un altro codice che è il dialetto. Ci sono dei contesti in cui si può usare sia l’italiano standard, sia una varietà popolare, sia il dialetto; ad esempio all’interno del nucleo familiare. La situazione italiana Italiano standard (molto spesso si dice che è l’italiano utilizzato dal giornalista durante un telegiornale; molto spesso è un’astrazione, un modello a cui si tende, noi tutti lasciamo trasparire qualcosa della nostra provenienza a livello linguistico.) Italiano locale (o regionale): distinzione territoriale; l’italiano popolare, quello che utilizziamo in situazioni territoriali ristrette e che facciamo combaciare con le regioni quando in realtà non è così. Dialetto Minoranze linguistiche Nuove lingue dalla mobilità 20/03/2019 1. A me piace mangiare con i miei a Natale 2. A me me piace mangia’ co’ i miei a Natale 3. A me me piace magna’ c’ i miei a Natale 4. Ta me me piace magna’ c’ i mia a Natale 5. Ta me me pièce magne’ c’i mia a Natèle Italiano standard Dialetto Quando le istituzioni decidono di intervenire sugli usi linguistici della comunità, soprattutto in funzione delle varietà utilizzate, mettono in atto una politica linguistica. L’intento è quello di favorire certi usi perché ritenuti più produttivi dal punto di vista della comunicazione sociale, dell’integrazione, dell’avanzamento economico, della salvaguardia della diversità etno-culturale e linguistica, del progresso civile, del successo nella formazione scolastica ecc. Un’espressione talvolta usata come sinonimo è pianificazione linguistica, che per altri può invece indicare gli interventi volti a promuovere uno standard normativo e linguistico. In genere una politica linguistica prende corpo dalla constatazione di problematiche socio-culturali che si riverberano in, e in parte prendono corpo da, situazioni linguistiche. Pidgin e creoli Quando due comunità linguistiche entrano in contatto, si creano necessità comunicative nuove; se il contatto è limitato nel tempo e nei modi, e circoscritto ad una situazione specifica (es. il commercio), le due comunità tendono a creare una sorta di lingua di servizio, che è finalizzata a soddisfare bisogni comunicativi limitati. Lingue di questo tipo, o per meglio dire quasi-lingue, si chiamano pidgin; in genere vengono abbandonate quando vengono meno le condizioni che ne hanno portato alla nascita. I pidgin nascono in genere sulla struttura grammaticale di una delle due lingue, ridotta al minimo, sulla quale si innesta un repertorio lessicale ridotto proveniente dall’altra, detta lingua lessificatrice. Il lessico copre solo poche sfere semantiche, solo quelle pertinenti allo scambio interculturale, è ha una tendenza spiccata alla polisemia. Vengono evitate tutte le particelle funzionali come preposizioni, articoli, congiunzioni. La morfologia, allo stesso modo, è praticamente assente. La sintassi è limitata alla coordinazione. Es. lingua franca (o sabir): Se ti sabir, ti respondir, se non sabir tazir, tazir. Quando invece l’uso del pidgin è prolungato nel tempo, e il contatto interculturale diventa molto più ampio e complesso, passando da un modello verticale, cioè da gruppo sociale egemone a gruppo sociale subordinato, ad un modello orizzontale, cioè all’interno dello stesso gruppo sociale o gruppi sociali paritari, può accadere che esso tenda a stabilizzarsi, arricchendo il proprio profilo lessicale e dotandosi di una grammatica e di una sintassi. In una situazione di crescente stabilizzazione sociale come questa, una nuova generazione potrebbe apprendere il pidgin come lingua madre; in questo caso, non si parla più di pidgin, ma di creolo. 21/03/2019 Lingua e dialetti in cosa sono differenti? In che modo? Cosa li distingue? L’aspetto più percepibile è la pronuncia. Il dialetto non è una lingua standardizzata, utilizzata in contesti non formali e viene parlato da un numero di persone minore rispetto alla lingua standard. C’è una questione di numeri, di prestigio, di regole grammaticali esistenti per l’italiano ma non per il dialetto. I dialetti sono codici, sistemi linguistici completi, non sono inferiori, è in grado di soddisfare tutte le esigenze linguistiche di chi lo parla; ciò che cambia, rispetto ad una lingua, ha a che fare con condizioni esterne. Commutazione di codice (code switching): il passaggio da una varietà ad un’altra varietà da parte di un parlante all’interno dello stesso evento comunicativo, in genere per motivazioni sociali o situazionali. In genere, si distingue tra commutazione interfrasale, cioè tra una frase e un’altra (detta anche alternanza di codice), e intrafrasale, cioè all’interno della stessa frase (detto più propriamente code mixing, o enunciazione mistilingue). “Je ‘o saccio che state penzanno! Voi dividete il mondo in quelli che non uccidono e in quelli che uccidono, e vi pensar che siccome io sono una femmina appartengono alla prima categoria, e ve sbagliat’.” (Gomorra – la serie) “Secunno tia dù cose fabbricate contemporaneamente, ma, attenzioni, tenute assà distanti tra loro e diversamente usate nel tempo, metti, che so, due biciclette, possono invecchiari, perdiri pezzi, spirtusarisi nello stisso identico modo e negli stissi posti?” […] “Impossibile”. “Inveci queste bambole pare che ci siano arrivisciute. […] Taliale bene” “Vuoi babbiare?” (Andrea Camilleri, La caccia al tesoro) Diamesia È la differenza tra parlato e scritto. Parlato Comunicazione privata Interlocutore intimo Scritto Comunicazione pubblica Interlocutore sconosciuto Emotività forte Emotività debole Ancoraggio pragmatico e situazionale Distacco pragmatico e situazionale Ancoraggio referenziale alla situazione Distacco referenziale dalla situazione Compresenza spazio-temporale (faccia a faccia) Cooperazione comunicativa intensa Dialogo Comunicazione spontanea Libertà tematica Distanza spazio-temporale Cooperazione comunicativa minima Monologo Comunicazione preparata Tema fisso Ci sono forme di parlato e di scritto che sono descritte solo in parte da questi parametri, ad esempio una conferenza di un politico o di un ricercatore, dove la comunicazione diventa pubblica e l’interlocutore è sconosciuto, l’emotività può essere abbastanza forte, c’è un ancoraggio pragmatico situazionale, c’è compresenza spazio-temporale anche se diminuita, la cooperazione comunicativa è minima perché è chi parla che decide le parole ed è molto preparata, c’è una discreta libertà tematica anche se limitata. Contrariamente, un post-it sul frigorifero è un’espressione scritta, dove tuttavia la comunicazione non è pubblica, l’interlocutore è conosciuto, c’è un ancoraggio pragmatico situazionale, c’è una discreta distanza spazio-temporale, non è un monologo e non è una comunicazione preparata, il tema può variare. Diastratia Il furbesco (gergo dei furfanti) (Sanga 1993) – Sanga afferma che non viene usato con persone che non lo conoscono L. Ariosto, Cassaria (1508) LUCRANO: Spuleggia de non calarte in solfa per questa marca, che al cordoan si mochi la schioffa. Attento a non parlar troppo (lett. “fare la spia”) di questa donna, che all’ingenuo rubiamo la ragazza. FURBA: Ciffo ribaco il contrapunto. Ho capito (lett. “il ragazzo capisce il gergo”). LUCRANO: Averò cantato in guisa che se Avrò parlato in guisa che se Erofilo è in casa mi potrà aver Erofilo è in casa mi potrà aver sentito. sentito. Situazioni di emarginazione portano allo sviluppo di un lessico e di una lingua particolare, ad esempio 30/40 anni fa il lessico di tossicodipendenti: “pera”. 26/03/2019 William Labov e la sociolinguistica variazionista (1927) I suoi lavori hanno chiarito in maniera incontrovertibile lo stretto legame tra lingua e parametri sociali, etnici e culturali e sono alla base della sociolinguistica contemporanea (scienza giovane). Labov applica un metodo rigoroso dal punto di vista scientifico, un metodo quantitativo, lavora su dati concreti e reali, applica concetti di tipo statistico, rende la linguistica una scienza matematica, verificabile dal punto di vista scientifico. Labov imposta i suoi studi dal punto di vista metodologico, in modo del tutto originale, risolvendo problemi che fino ad allora non erano stati risolti, come portare avanti una ricerca. Labov si occupa di variazione linguistica, per affrontare la questione del cambiamento linguistico. C’era una teoria di partenza che fa riferimento a Ferdinand de Saussure, Bloomfield, Hockett secondo cui il mutamento linguistico ha delle caratteristiche ben precise: il mutamento linguistico che ha portato, ad esempio, la parola “chichero” ad essere pronunciata “cicero”. Secondo questa teoria formata negli anni finali dell’800 (secolo di grandi scoperte di linguistica) il mutamento è regolare e simultaneo: il mutamento è simultaneo in tutte le parole che hanno una “c” seguita da “e” o “i”; questo mutamento poteva avvenire ovunque. Il mutamento linguistico non è osservabile: ce ne rendiamo conto solo in un secondo momento, non siamo in grado di osservare i mutamenti linguistici in atto in un certo momento. Il mutamento linguistico è cieco, ossia non dipende da nulla, semplicemente accade, non ci sono elementi che lo determinano. Labov parte da un’ipotesi totalmente differente: il mutamento non è regolare e spontaneo, ma parte da un nucleo di parole con una caratteristica e progressivamente si distribuisce alle altre parole con la stessa caratteristica; non è vero che il mutamento non è osservabile, ma lo è in termini statistici; non è vero che il mutamento è cieco, risponde a dinamiche ben precise che dipendono da variabili sociali e culturali. Il primo studio ha a che fare con l’isola di Martha’s Vineyard; è un’isola che si trova nello stato del Road Island, in Massachusetts. Quest’isola ha una storia particolare, è una zona particolarmente importante per la caccia alle balene, era una zona in cui c’erano molte comunità di pescatori. Questo modello economico e sociale all’inizio del 900 entra in forte crisi, perché la caccia alle balene non è più redditizia perché si scopre la presenza del petrolio. Si afferma un’economia molto diversa, che fa di queste zone delle località di villeggiatura: Martha’s Vineyard è una delle località di villeggiatura più esclusive degli Stati Uniti, privilegiata dai presidenti degli Stati Uniti. È l’ambientazione del film “lo squalo” di Spielberg. Qual è la situazione nel 61? Ci sono poco più di 5000 abitanti divisi in comunità molto piccole; ad oggi ci sono oltre 16000 abitanti, con un incremento in estate di più di 100000 persone. Ci sono due aree principali: Up-Island e Down-Island. Up-Island è più rurale, Down-Island è più urbana. Ci sono tre nuclei etnici originali: gli yankee (originari dei primi coloni inglesi), indiani (ciò che resta dei nativi Wampanoag, concentrati nella punta sud-ovest dell’isola), portoghesi (pronipoti di pescatori e balenieri ottocenteschi, provenienti principalmente dalle Azzorre e da Capo Verde). Labov decide di indagare sull’utilizzo di una particolare caratteristica linguistica in queste zone ed in tutto il Massachusetts. C’era una pronuncia corrente nel New England (nord-est americano, cui Martha’s Vineyard appartiene): [aI] e [aU]; pronuncia corrente a Martha’s Vineyard: [ɐI] e [ɐU] o anche [əI] e [əU]; questa pronuncia era quella storica per /ai/, mentre per /au/ si hanno più possibilità. Come si capisce come si pronunciano effettivamente questi due dittonghi nei parlanti nativi? Labov parlerà proprio di paradosso trova una soluzione metodologica fa parlare e leggere cercando di far pronunciare parole che hanno questi dittonghi (spider, slinding, white, rareripe, swipe, crouch, backhouse, dying out, ecc). Si leggevano attraverso un testo oppure si chiedeva la pronuncia, cercando di farle emergere nel parlato spontaneo. un metodo è quello di far parlare la gente di sé, delle proprie aspirazioni, dei propri sentimenti, descrivere la loro vita. Spesso gli argomenti determinano le scelte linguistiche. Labov comprende che se fa parlare i nativi delle loro cose, otterrà un parlato molto più spontaneo. Quali sono i risultati? Labov scopre che il fenomeno di centralizzazione dei dittonghi /ai/ e /au/, che al tempo di precedenti rilevazioni stava ormai scomparendo, era tornato ad essere molto forte negli anni ’60; il fenomeno era sensibile alla consonante che seguiva il dittongo: la presenza di certe consonanti rendeva la pronuncia con centralizzazione molto probabile, al contrario di altre consonanti; il fenomeno aveva fondamentali correlazioni socio-culturali: Era più frequente nella zona Up-Island, più rurale e meno abitata, dove si trovavano ancora le ultime famiglie di pescatori, attività tradizionale dell’isola Era frequente in tutte le tre compagini “etniche” Era in costante aumento in considerazione dell’età, con una precisazione riguardo i più giovani Labov introduce la variabile delle aspirazioni personali, chiedendo ai ragazzi dove si immaginano il loro futuro. Divide i giovani a seconda di come hanno risposto alla domanda e poi guarda i dati sulla pronuncia e nota che chi vede il suo futuro sull’isola ha una percentuale di pronuncia alta, mentre chi vuole uscire dall’isola ha una percentuale di pronuncia bassa. In ultima analisi, la centralizzazione di /ai/ e /au/ a Martha’s Vineyard era in costante crescita, perché tale pronuncia era avvertita come più caratteristica e marcava una diversità, a fronte del contatto sempre più esteso della popolazione autoctona con i vacanzieri, che erano avvertiti come un “male inevitabile”. Il modello con centralizzazione era caratteristico di una certa area, che tra la popolazione era avvertita come maggiore depositaria delle tradizioni della comunità, sia linguistiche sia professionali (pesca). Il dato ambiguo della generazione più giovane fa riferimento ad una “scelta di campo” non ancora avvenuta: ma chi vedeva l’isola nel suo futuro aveva comunque tassi di pronuncia centralizzata molto elevati. Labov parla anche di New York e la sua pronuncia della (r). New York già negli anni ’60 era una metropoli grandissima, con milioni di persone e mobilità sociale estrema. È risaputo che a New York è difficile trovare una persona i cui 4 nonni siano tutti originari di lì: è una città di migranti. È molto difficile applicare un modello come quello usato a Martha’s Vineyard. Labov trova il modo di studiare la linguistica e si pone due obiettivi: dimostrare che la variabile (r) è un differenziatore sociale a tutti i livelli del parlato di New York City (se si pronuncia o meno la r); gli eventi linguistici del parlato casuale e anonimo possono essere usati come base per uno studio sistematico del linguaggio. L’ipotesi di partenza è che se due sottogruppi di parlanti di New York City sono classificati su una scala di stratificazione sociale, allora saranno classificati nello stesso ordine anche in funzione dell’uso differenziale di (r). Come si studia una variabile di questo tipo? Come si ottengono dati non falsati? Lo scopo della ricerca linguistica nella comunità deve essere scoprire come la gente parla quando non è osservata sistematicamente; tuttavia, possiamo ottenere questi dati solo attraverso l’osservazione sistematica. Nell’inglese standard parlato in Gran Bretagna generalmente (r) in coda sillabica (fine di parola o prima di un’altra consonante) non è pronunciato (non-rothic): aware. Nelle varietà locali britanniche e irlandesi può essere pronunciato (rothic), anche come polivibrante, ad esempio in Scozia; questa pronuncia è avvertita come non standard; Nell’inglese standard parlato in America, invece, (r) in coda sillabica è pronunciata (rothic), in genere come un approssimante postalveolare o retroflessa. A New York è diffusa una mancata pronuncia (non-rothic) di (r), che è considerata caratteristica del parlato cittadino (quindi, non standard) o comunque del nord-est (più in contatto con il modello britannico), in contrapposizione al resto del Nord America. Come fa Labov a studiare la maniera in cui si stratifica a livello sociale l’uso o il non uso di (r)? Parte da alcuni elementi: si concentra sul parlato dei commessi dei grandi magazzini, con un assunto di partenza: i commessi tendono a conformare il loro parlato a quello dei clienti. Individua tre grandi magazzini nell’area di Manhattan. Uno di livello alto, con prezzi medio-alti; uno di livello medio, con prezzi medi; uno di livello basso, con prezzi medio-bassi. Vengono presi in considerazione molti parametri convergenti (la posizione, ecc). In questi magazzini chiede ad un commesso dove può trovare un reparto che in realtà già sa che è collocato al 4° piano, e registra la risposta del commesso una prima volta; successivamente, fa finta di non aver capito e chiede al commesso di ripetere. La prima risposta ha quindi carattere più casuale e spontaneo, la seconda più controllato. L’intervistatore registra quindi altri fattori sociali rilevanti: oltre al negozio, il tipo di occupazione, il piano in cui era occupato, il sesso, la razza, l’età stimata, eventuali accenti stranieri o non autoctoni. I risultati: percentuali delle risposte con tutte o alcune (r) pronunciate. I dati sociali hanno rilevanza dal punto di vista sociale. Certi tipi di mansioni più di altre, certi numeri di piano più di altri, la pronuncia di <th> in fourth come ostruente ([t]) piuttosto che come fricativa. 27/03/2019 Prospettive sociolinguistiche in ambito educativo – Basil Bernstein (1924-2000) Uno dei primi ambiti di riflessione dell’interazione tra lingua e società è quello sviluppatosi in correlazione all’educazione scolastica, in particolare con gli studi di Basil Bernstein, a partire dalle osservazioni sul comportamento scolastico e sui problemi di apprendimento dei figli della working class inglese tra la fine degli anni ’50 del XX secolo e l’inizio del decennio successivo. Fece questi studi in Inghilterra del Nord (Liverpool, Manchester) ossia l’area inglese con maggior radicamento operaio e si rese conto che i ragazzi che appartenevano a questa classe avevano maggiori problemi scolastici e non riuscivano a raggiungere gli standard della middle class. C’era una disparità nella capacità del raggiungimento degli obiettivi. Bernstein approfondisce quindi questo tema. Esiste quindi una correlazione con l’ambito sociale. Bernstein infatti, osservando il comportamento linguistico degli studenti, ipotizza che questo sia determinato in larga misura dalla struttura sociale in cui lo studente è inserito, e dalle relazioni sociali e dalle interazioni che si instaurano all’interno del gruppo di appartenenza e nella famiglia. In funzione di questo assunto, Bernstein individua una correlazione tra appartenenza di classe e usi linguistici: nello specifico, la working class, il proletariato, usa quello che lui chiama un codice ristretto, mentre la middle class, la borghesia, usa un codice elaborato. Il concetto di codice è vago: non corrisponde alla definizione corrente in linguistica, cioè “linguaggio”, ma racchiude piuttosto una serie di usi e strategie linguistiche. Ha a che fare con aspetti stilistici, con l’uso che i bambini fanno della propria lingua. Quali sono le caratteristiche di questi codici? Codice elaborato (middle class) Vasto lessico attivo Costruzioni sintattiche complesse Pause relativamente frequenti e lunghe (indice di riflessione sulla costruzione del messaggio) Poche formule stereotipate Alto grado di astrazione Alto grado di analiticità Sequenza tendenzialmente egocentriche Poca confusione tra motivazione e conclusione Poche formule brevi di comando e di domanda Poche frasi incomplete Uso anche complesso di congiunzioni Uso poco limitato di aggettivi e avverbi Molti pronomi personali (inglese) Codice ristretto (working class) Lessico attivo limitato Costruzioni sintattiche semplici Poche pause, pause brevi Tendenza alle formule routinarie Alto grado di concretezza Basso grado di analiticità Sequenze tendenzialmente sociocentriche Confusione tra motivazione e conclusione Motivazione esplicita degli ordini Frasi non sempre complete Congiunzioni semplici Numero limitato di aggettivi e avverbi Pochi pronomi personali (italiano) Secondo Bernstein, il codice elaborato dipende sostanzialmente da un modello sociale diverso; nella middle class si tende a favorire la crescita dell’individuo, mentre nella working class ciò che conta è il ruolo che il singolo riveste all’interno del gruppo. Il codice elaborato permetterebbe uno sviluppo maggiore della personalità dell’individuo, dello sviluppo cognitivo; il codice ristretto porterebbe ad avere una carenza di stimoli che favoriscono lo sviluppo cognitivo. Ciò comporta l’acquisizione di un codice più limitato che non permetterebbe ai figli della working class di ottenere gli stessi risultati scolastici dei figli della middle class. Fa l’esempio: “tre ragazzi stanno giocando a calcio e un ragazzo dà un calcio al pallone / ed esso parte verso la finestra/ la palla rompe la finestra / e i ragazzi la stanno guardando” middle class “Stanno giocando a calcio / e lui gli dà un calcio e va verso là / rompe la finestra e loro la stanno guardando” working class I bambini della working class hanno una deprivazione verbale che ne limita le capacità di sviluppo completo. Il codice ristretto sarebbe chiaramente inferiore al codice elaborato, sia dal punto di vista espressivo, sia da quello cognitivo. Secondo Bernstein, l’uso di un codice specifico si riflette nel comportamento sociale e sullo sviluppo intellettuale di chi lo usa; la società disegna una separazione netta tra chi usa il codice elaborato, cioè le classi superiori, le più avvantaggiare sul piano sociale, e chi usa il codice ristretto, le classi subalterne, che non avrebbero sufficienti abilità logiche, espressive, sociali, perlomeno non all’altezza della borghesia. Da qui, si ha il concetto di sottosviluppo culturale, e la conseguente denominazione di teoria della deprivazione verbale. Il nodo sarebbe l’esposizione dei bambini appartenenti alla working class in ambito familiare al solo codice ristretto, quindi a una consistente mancanza di adeguati stimoli culturali e linguistici, che si rifletterebbe poi negli scarsi risultati nella performance scolastica. Secondo lui e chi lo segue, si deve colmare questo gap. La famiglia della middle class sarebbe orientata sulla persona, sarebbe favorito lo sviluppo della personalità di ogni suo componente; inoltre, all’interno di essa i rapporti interpersonali sarebbero continuamente mediati e disciplinati attraverso il linguaggio. La famiglia della working class sarebbe invece orientata sul gruppo e sui ruoli prestabili all’interno del gruppo (madre, padre, figlio ecc.). Quindi, secondo Bernstein, il gap di apprendimento tra bambini della working class e bambini della middle class potrà essere superato solo se i primi acquisiranno sufficiente competenza del codice elaborato. La scuola dovrà attuare una politica che preveda un’educazione compensatoria, che permetta ai bambini della working class di acquisire il codice elaborato. Questa teoria fu anche applicata ad altri contesti nel mondo, ad esempio in America, dove c’era una situazione piuttosto simile a quella inglese, due classi e una differenza linguistica viene applicata anche qui questa teoria e la politica di tipo compensatorio. Queste politiche non raggiunsero però l’obiettivo di portare i bambini della working class al livello deii bambini della middle class dal punto di vista scolastico. La proposta di un’educazione compensatoria fu applicata in vari programmi di riduzione del deficit scolastico. Spesso questi programmi non raggiunsero i risultati prestabiliti. Il fallimento di tali politiche portò a considerazioni sconcertanti, soprattutto in America, dove la teoria della deprivazione verbale fu applicata al contesto sociale. Qui la working class aveva anche una connotazione razziale, essendo composta prevalentemente dalle comunità afro-americane, e vi fu chi sostenne che il fallimento era strettamente collegato ad un deficit cognitivo che aveva origini razziali. Bernstein prese però le distanze da questa applicazione delle sue teorie, ad esempio sostenendo che non era vero che il codice ristretto era inferiore a quello elaborato, ma che fossero due modalità espressive diverse adeguate entrambe a contesti diversi. La deprivazione verbale ebbe un forte impatto sul sistema educativo inglese ed americano: in America, contro questa teoria si pronunciò William Labov. Lui, dopo gli studi a Martha’s Vineyard e a New York iniziò ad interessarsi a come la comunità afro-americana newyorkese utilizzava l’inglese. Si interessò in particolare alla zona di Harlem, dove abitavano neri, ispanici e italiani. Labov iniziò a testare il sistema con cui erano state portate avanti le interviste e i test nel contesto americano ed arrivò a delle conclusioni: Il metodo di intervista non è adeguato (il metodo consisteva nel prendere un bambino nero di Harlem e mettergli di fronte un bianco adulto che parlava in modo diverso da lui)si crea una barriera perché il bambino non si riconosce nell’interlocutore Gli stimoli in contesto familiare sono in realtà gli stessi; Le capacità cognitive sono in realtà le stesse; La distinzione tra i due codici non ha a che fare con l’appartenenza di gruppo, ma è piuttosto una questione di stili e situazioni comunicative; La lingua dei ceti subalterni non è inferiore o degradata; semplicemente, si tratta di una realtà linguistica diversa, una varietà diversa della stessa lingua, con una sua grammatica, pienamente in grado di soddisfare tutte le esigenze comunicative (quello che parlano i neri d’America è un inglese diverso dall’inglese parlato dalla borghesia americana; è una varietà d’inglese pienamente in grado di soddisfare le esigenze comunicative di chi la usa e di favorire lo sviluppo cognitivo nei bambini che lo apprendono) Il concetto di deprivazione verbale non ha fondamento nella realtà sociale. Nei fatti, i bambini neri nei ghetti urbani ricevono una grande massa di stimoli verbali, ascoltano più frasi ben costruite dei bambini della classe media, e prendono pienamente parte ad una società altamente verbalizzata. Hanno lo stesso vocabolario di base, possiedono la stessa capacità di apprendimento concettuale e usano la stessa logica di chiunque altro impari a parlare e a comprendere l’inglese. Il problema, quindi, è prima di tutto nelle strutture scolastiche, che sono tarate sul modello dominante, cioè su quello che Bernstein chiama codice elaborato, e non sono in grado di confrontarsi con un diverso set di espressioni e strategie comunicative. Secondo Labov, infine, quello che Bernstein e altri identificano come codice elaborato deve essere certo oggetto di insegnamento, perché è il codice che sembra garantire maggiori informazioni in un contesto di minore condivisione di informazioni di background; tuttavia, si deve anche insegnare il suo uso nei contesti appropriati, perché spesso si accompagna a prolissità, verbosità, ridondanza. Ma soprattutto… What is wrong with being wrong? (Labov 1972: 230) 28/03/2019 L’analisi della conversazione I nostri dialoghi, gli eventi comunicativi cui partecipiamo, non sono insiemi disordinati di enunciati senza relazioni apparenti, ma seguono una struttura ben definita, con meccanismi comunicativi ricorrenti, descrivibili e in parte prevedibili. Su questo principio si fonda l’analisi della conversazione, scienza affine all’etnometodologia, che studia la struttura dell’interazione verbale e non verbale nel linguaggio quotidiano e spontaneo. Questo ambito di studi è molto recente, ancora più della sociolinguistica, nasce con gli studi di Harvey Sacks, Gail Jefferson e Emanuel Schegloff. Come obiettivo si pone lo studio di come si sviluppa una conversazione dal punto di vista delle relazioni che si instaurano tra i vari enunciati e il parlato quotidiano; in questo periodo, si inizia ad avere a disposizione delle registrazioni, degli strumenti che permettono di registrare del parlato quotidiano in maniera massiva. I primi studi di Harvey Sacks si basavano su registrazioni di conversazioni al telefono in un contesto ben preciso chiamate che venivano fatte ad un numero indicato per la prevenzione dei suicidi. Harvey Sacks si rende conto che queste conversazioni tendono ad avere degli schemi prefissati e inizia a teorizzare un nuovo modello per l’analisi del parlato quotidiano. Uno degli aspetti fondamentali della conversazione è in primo luogo la situazione, cioè l’insieme di norme e convenzioni sociali, contesto, ruoli predefiniti, conoscenze di sfondo che permettono al dialogo di svilupparsi in una determinata maniera. È questa la dimensione microlinguistica che viene individuata negli studi sociolinguistici. Principi della conversazione Il turno Naturalismo: l’oggetto di analisi è il parlare quotidiano effettivamente utilizzato in un evento comunicativo, non una sequenza ricostruita e astratta. Sequenzialità: la conversazione avviene per turni successivi, che stabiliscono tra loro relazioni temporali e logiche non dissimili dalle relazioni causa-effetto. Inoltre, una conversazione ha un inizio, uno sviluppo e una fine: tutte queste fasi sono codificate. Adiacenza: gli enunciati dei parlanti sono collegati tra loro e strutturalmente vicini; i nessi strutturali riflettono la partecipazione intersoggettiva dei parlanti alla conversazione Punto di vista dei partecipanti: nella conversazione, chi parla struttura il proprio messaggio in funzione delle aspettative del ricevente, delle sue informazioni di sfondo e della sua capacità di intervenire nel successivo turno di parola. Contesto: la conversazione avviene all’interno di un set di informazioni ulteriori, condivise dai parlanti, che risultano necessarie per la comprensione dello sviluppo dialogico; non solo: il dialogo a sua volta influenza il contesto e lo riformula continuamente. Parlare come azione: non è tanto importante la struttura informativa attesa ad una conversazione, ma le azioni che i vari parlanti vogliono mettere in atto attraverso la partecipazione alla conversazione. Durante una conversazione, c’è sempre qualcuno che parla e una o più persone che ascoltano. Questi ruoli non sono fissi, ma cambiano di continuo con lo sviluppo della conversazione. Il turno di parola identifica il parlante temporaneo: si può dire che sia l’unità minima di una conversazione. Il turno chiaramente non è fisso. Chi partecipa alla conversazione interviene assumendo il ruolo di parlante, attraverso la presa di turno, metodo che regola l’avvicendamento dei turni. L’assunzione del turno di parola può essere favorita da vari meccanismi, come ad esempio gli indicatori di fine turno, utilizzati dal parlante precedente, che manifestano la fine prossima o reale del turno di parole e danno la possibilità ad altri di assumere il turno (insomma, ecco). Il più naturale è il silenzio. La selezione del parlante successivo può avvenire in vari modi: Etero-selezione: il parlante corrente sceglie chi sarà il parlante successivo, dandogli il turno di parola Auto-selezione: alla fine del turno del parlante precedente, uno degli ascoltatori prende l’iniziativa assume il turno di parola Auto-selezione continuata (da parte del parlante corrente): il parlante, alla fine del proprio turno, riassume il turno di parola in assenza di interventi di altri. Silenzio: alla fine di un turno di parola, nessuno assume più il turno e la conversazione termina. Esempio di etero-selezione: A: Hai preso le chiavi di casa? B: Sì, le ho in tasca. Esempio di auto-selezione A: Per fare il tiramisù ci vogliono mascarpone, caffè, savoiardi… B: A me i savoiardi non piacciono, preferisco i pavesini. Esempio di auto-selezione continuata A: Chi vuole provare a rispondere alla domanda? B: … C: … A: Qualcuno vuole provare? B: ... C: … A: Ok, proviamo a rispondere insieme. Coppie adiacenti Nella conversazione è frequente l’utilizzo di enunciati strutturalmente collegati, detti coppie adiacenti. In genere, la formulazione del primo elemento di una coppia richiede la formulazione, al turno successivo e nei turni immediatamente successivi, del secondo elemento: se questo non accade, la conversazione potrebbe interrompersi. Alcuni esempi di coppie adiacenti sono i saluti (buongiorno/arrivederci), le scuse e la loro accettazione (mi scusi/non si preoccupi), i ringraziamenti (grazie/prego), le domande e risposte, gli inviti (ti va di andare a cena insieme? / Certo, volentieri). Un altro principio fondamentale nell’analisi della conversazione è la preferenza. Gli elementi di una coppia adiacente non sono fissi; nel senso che, a fronte di una domanda semplice del tipo “come stai?” la risposta potrebbe essere tanto “bene, grazie” quanto “sono stato malissimo”. La prima risposta, tuttavia, rappresenta un’alternativa istituzionalizzata, in qualche modo attesa e implicita nella domanda, mentre la seconda risposta presuppone l’apertura di un quadro di riferimento nuovo e inatteso, e la necessità di una riformulazione delle strategie conversazionali in atto. In questo caso si dice che la prima risposta è preferita: questo non implica desideri o disposizioni personali e soggettive, ma una naturale predisposizione della conversazione, verso uno dei tanti percorsi d’azione disponibili, alternativi e non equivalenti. In genere le coppie adiacenti sono consequenziali, ma possono essere anche strutturate all’interno di altre coppie adiacenti: in questo caso si parla di sequenze complementari. A: Vieni a cena con noi stasera? B: Francesco viene? A: Penso di sì… B: Allora non vengo. La riparazione Una conversazione reale non è esente da fenomeni di disturbo, sia sul piano del contenuto (fraintendimenti, conoscenza parziale dell’argomento, ecc.), sia sul piano della forma (pronunce sbagliate, parole fuori contesto, ecc.) In questi casi, perché la conversazione non ne risulti inficiata sotto vari aspetti, i parlanti hanno a disposizione varie pratiche di riparazione. Auto-riparazione: quando il parlante che ha introdotto l’elemento di disturbo ritorna sul proprio enunciato riformulando in maniera appropriata. A: Bisogna che il numero me lo segno sul diario sennò me lo dimentico… cioè sull’agenda, sennò va a finire che lo perdo. Etero-riparazione: quando un altro parlante, nel suo turno di parola successivo a quello con l’elemento di disturbo, interviene correggendo questo elemento e ristabilendo la normalità della struttura dialogica. A: da domani prima di uscire dal lavoro non dobbiamo più firmare, dobbiamo strisciare il budget. B: forse vuoi dire il badge… Riparazione etero-iniziata e auto-completata: quando un secondo parlante interviene iniziando la riparazione, magari anche soltanto attraverso una richiesta, ma non la termina, e la riparazione viene portata a termine dallo stesso parlante che ha introdotto l’elemento di disturbo. A: allora, adesso le devo fare l’anamnesi B: eh? A: dicevo, adesso vi devo fare un po’ di domande sul vostro stato di salute, sulle malattie che avete avuto in famiglia, se avete fatto operazioni recenti, queste cose… B: Ah, va beh dottore… Riparazione auto-iniziata e etero-completata: quando il parlante che ha introdotto l’elemento di disturbo inizia la riparazione, anche solo con una richiesta, e poi interviene un secondo parlante che completa la riparazione. A: Sul telefono non mi funziona internet, cioè non è che non funziona, come si dice... B: Hai finito il traffico dati… A: Eh, sì, per questo mese l’ho finito, fino al primo sono senza Tecniche, procedure e strategie conversazionali Ogni parlante, all’interno di una conversazione, mette in atto delle azioni, volte a perseguire degli obiettivi e ottenere dei risultati. Ciò avviene attraverso tecniche, pratiche e procedure specifiche: in ambito conversazionale, si può dire che una tecnica è un intervento realizzato attraverso particolari mezzi, una procedura è l’applicazione di questi mezzi secondo uno schema prefissato che ne garantisce l’efficacia, una strategia è l’individuazione dello scopo da raggiungere con l’applicazione di determinati mezzi. Questi strumenti sono di solito condivisi dai parlanti, che li usano alternativamente per raggiungere i propri scopi comunicativi e per comprendere ed eventualmente cooperare al raggiungimento di quelli degli altri. Essi tuttavia dipendono dalla comunità di riferimento dei parlanti, sono fattori culturali, e pertanto in una conversazione con due parlanti di due comunità diverse si potrebbero creare dei fraintendimenti (miscommunication), basati ad esempio su diverse interpretazioni delle stesse strategie conversazionali. In questi casi, come in altri, possono intervenire procedure di negoziazione del significato, che permettono ai parlanti di accordarsi sul significato da dare a determinate espressioni o a determinati enunciati. Apertura e chiusura di una conversazione Apertura: avviene per mezzo di procedure ben precise, che sono largamente codificate e dipendono sia dal tipo di conversazione (a voce vs. telefonica), sia dai ruoli espressi (conversazione simmetrica vs. asimmetrica), sia dalle conoscenze di sfondo nonché dall’eventuale condivisone di aspetti culturali e sociali specifici. Chiusura: è in genere più complessa dell’apertura, perché meno codificata; in linea di massima, deve avvenire quando è chiaro a tutti che tutti hanno espresso il proprio pensiero sull’argomento oggetto di conversazione, e in modo che la chiusura avvenga senza che ciò influisca sul rapporto tra i parlanti. La chiusura, inoltre, presuppone l’uscita dal sistema della presa di turno, che è diversa, ad esempio, dal silenzio, che non rappresenta automaticamente la chiusura di conversazione. Pratiche per la chiusura di una conversione NON C’è SULLA VERIFICA Sequenze terminali: enunciati largamente codificati che presuppongono l’intenzione da parte di un parlante di chiudere la conversazione, intenzione poi accettata dal secondo parlante; spesso si tratta di coppie adiacenti: A: Ci vediamo alle nove allora. B: Alle nove? Ok, va bene. A: Va bene. B: Ciao. A: Ciao. Sequenze pre-chiusura: prima della chiusura vera e propria, tuttavia, è necessario essere sicuri che tutto quello che i parlanti volevano dire sugli argomenti della conversazione è stato detto; infatti, se ciò non fosse, una sequenza terminale potrebbe essere interpretata in maniera diversa, ad esempio come una forma di rifiuto, o espressione di astio. Per questo, prima della sequenza terminale, i parlanti possono mettere in pratica delle sequenze pre-chiusura, che garantiscono che tutto ciò che doveva essere detto è stato detto; anche le sequenze pre-chiusura in genere sono coppie adiacenti: A: Ci vediamo alle nove allora. B: Alle nove? Ok, va bene. A: Va bene. B: Ciao. A: Ciao. Momenti comunicativi che implicano la chiusura: una sequenza terminale, eventualmente preceduta da una sequenza pre-chiusura, non può essere inserita in qualsiasi punto della conversazione; il principio da rispettare è che comunque sia chiaro a tutti che tutti hanno detto quello che volevano dire sull’argomento; ci sono tuttavia delle ulteriori pratiche che permettono ai parlanti di introdurre momenti comunicativi che presuppongono una proposta o un annuncio di chiusura, che potrebbe anche non essere accettata. A: Dobbiamo decidere della cena di domani, dove la facciamo, a che ora ci vediamo, chi invitiamo… B: Che ne dici se ci vediamo alle otto? A: Per me va bene… B: Allora ciao. A: … A: Dobbiamo decidere della cena di domani, dove la facciamo, a che ora ci vediamo, chi invitiamo… B: Che ne dici se ci vediamo alle otto? A: Per me va bene… B: Ah, scusa, mi sono ricordato che devo passare in farmacia, ne possiamo parlare dopo? A: Ok, dai, ci sentiamo dopo. B: Ciao. A: Ciao. Momenti comunicativi che implicano la chiusura: un altro sistema per presupporre una chiusura della conversazione è l’intesa, o accordo, che veicola la proposta da parte di uno dei partecipanti della chiusura della conversazione con rimando ad un’ulteriore, successiva conversazione: A: Tanto finché non sento Alberto non riusciamo a metterci d’accordo su questa cosa della conferenza. B: Eh sì, mi sa di sì… A: Senti, che ne dici se ne riparliamo dopo che sarò riuscito a rintracciarlo? Così avremo le idee più chiare… B: Sì dai... A: Va bene, allora ciao. B: Ciao. Momenti comunicativi che implicano la chiusura: un altro modo per anticipare una chiusura è la formulazione di un sommario della conversazione, che possa anche fornire lo strumento di controllo sugli argomenti trattati o eventualmente ancora da trattare: A: Insomma, te lo ripeto: a me quel tizio non mi piace, penso che per lei non va bene, e se continua con lui lei va a finire male… B: Eh, sì… A: Va beh… B: Va beh, dai, ciao. A: Ciao. Momenti comunicativi che implicano la chiusura: un sistema meno diretto per proporre di chiudere una conversazione è il ringraziamento, specialmente se la conversazione è avvenuta al telefono: A: Hai capito come stanno le cose? B: Ho capito, ho capito… va beh, dai, comunque grazie per la telefonata, m’ha fatto piacere risentirti. A: Scherzi? Dai, ci risentiamo. B: Ciao. A: Ciao. Momenti comunicativi che implicano la chiusura: un altro sistema è l’uso di una sequenza di chiusura di una sequenza: A: E insomma, staremo a vedere… B: Eh sì, staremo a vedere… A: Dai, ciao. B: Ciao. Momenti comunicativi che implicano la chiusura: infine, un modo per annunciare la chiusura di una conversazione è il ricorso a riferimenti al pregresso, cioè a quello che è stato detto, per evidenziare che nient’altro necessita di essere aggiunto: A: Allora, per essere sicuri: ci vediamo domani alle nove... B: Sì… A: In piazza… B: Sì… A: Già mangiati… B: Eh.. A: Ok, buona serata allora. B: Ciao. A: Ciao. La trascrizione conversazionale Nell’analisi della conversazione è fondamentale che l’evento comunicativo reale, opportunamente registrato, sia poi trascritto in forme funzionali all’analisi stessa. Non c’è un sistema universalmente riconosciuto per la trascrizione conversazionale, ma vi sono comunque delle convenzioni largamente accettate dalla comunità scientifica. 02/04/2019 Questione della lingua nel secondo Ottocento Graziadio Isaia Ascoli è un glottologo dell’università di Milano, nel 1871 viene chiamato ad insegnare glottologia all’università. È stato una figura importante e rappresentativa della glottologia europea e italiana ha vinto il Nobel per i saggi ladini nel 1873, il premio Bop (premio dato dalla Germania, nazione egemone nella cultura, nell’economia, nella scienza, ecc.). gli studiosi degli stati uniti che volevano specializzarsi in linguistica si spostavano in Europa, soprattutto in Germania. Fu senatore a vita per motivi scientifici, senza essere eletto (1887-88); l’anno dopo, tramite il suo intervento, anche un altro glottologo che insegnava a Torino fu designato senatore a vita. Ciò accadde perché erano figure di spessore europeo, ed in quel periodo c’era maggior sensibilità umanistica (oggi sarebbe impensabile insignire due glottologi della carica di senatore a vita). Fu il primo ad interessarsi della questione della lingua, che non nasce con Manzoni ma ha una tradizione plurisecolare: da Dante Alighieri con De Vulgari eloquentia; scrisse dei testi specifici sulla questione della lingua (4). La linguistica studia in modo scientifico il linguaggio e le lingue e ci sono almeno due direzioni metodologiche e teoriche in cui inserirsi per studiarlo: la prima è storica o diacronica, studia come e perché, nel tempo e nello spazio (famiglia neolatina romanza, latino, portoghese, rumeno, franco-provenzale), le lingue hanno subito dei mutamenti nel corso del tempo. L’altro metodologia è quella sincronica, che si interessa di un periodo particolare della linguistica a prescindere dalla storia. Infine, c’è la prospettiva diastratica, ossia come una lingua viene parlata dai vari strati sociali (sociologia). Venne definito glottologo, perché essendo in Italia c’è una specificità linguistica. La linguistica è un termine di spessore europeo, la glottologia è un settore di cui si interessa il linguista. Nel 1875, Ascoli ha pubblicato uno scritto, al nono congresso pedagogico italiano che si svolse a Bologna nel 74. L’insegnamento teorico della lingua mediante la grammatica, è opportuno nelle scuole elementari? Ammesso che si riconosca tale non sarebbe più conveniente riservarlo ad un livello superiore? siamo in un altro ramo della linguistica: linguistica applicata alla didattica. La linguistica applicata non nasce nella 2 metà del secolo scorso, nel 1875 se ne occupò infatti anche Ascoli. La questione della lingua a quale prospettiva si riferisce? La linguistica normativa è sorta per motivi pratici, applicativi, ha uno scopo volto a individuare il criterio in base al quale si forma la lingua standard, non è uno scopo scientifico. È stato inserito nella sua rivista dedicata ad argomenti esclusivamente linguistici; il primo volume fu dedicato al fondatore della linguistica storica (Frederik …), dove Ascoli ha inserito i suoi Saggi ladini. L’idea di occuparsi della questione della lingua, nel 1868, come gli è venuta? Dopo 21 anni dall’ultimo suo lavoro, lettera a Giacinto Carena. Ministro della pubblica istruzione di allora, Emilio Broglio, nel 1868 ha nominato una commissione con lo scopo di ricercare e proporre tutti i provvedimenti e i modi con i quali si possa aiutare a rendere universale in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronuncia. La commissione di Milano era presieduta da Alessandro Manzoni (14 Gennaio). Il 19 Febbraio, Alessandro Manzoni presenta la sua relazione sull’argomento, pubblicata su un quotidiano milanese (La perseveranza) e nella nuova antologia di Firenze. Ascoli fu un grande glottologo linguista, ma anche un intellettuale impegnato, ha raggiunto l’unità della sua personalità prof universitario, studioso, senatore (si interessava di politica), era un intellettuale che si preoccupava di partecipare ai dibattiti culturali del tempo uno di questi era la questione della lingua. Era conosciuto, stimato al di là dell’università di Milano, anche da Carducci e da Pascoli. Carducci ci lascia una testimonianza importantissima: è una lettera di Carducci all’amatissima Carolina Cristofori Piva (?) il 2 giugno 1878, dove riproduce un ampio passo di una lettera che Ascoli gli aveva inviato: “ora senti cosa mi scrive Ascoli, […]”. Nell’ambiente milanese, si dibatteva su quest’argomento e molti intellettuali volevano sapere cosa ne pensava Ascoli, che ha scritto il Proemio. Contribuire affinché ognuno acquisisca una mentalità scientifica; l’impatto sulla formazione dello studente come uomo e cittadino di domani (Don Lorenzo Milani, “Lettera a una professoressa”, “è la lingua che ti rende cittadino”). La lingua ti rende cittadino attivo che porta con sé una mentalità scientifica; tanto più lo studente viene educato ad acquisire una competenza più appropriata possibile in ogni campo, tanto più riuscirà ad essere protagonista della vita politica e culturale del suo tempo, non un ricettore passivo. Queste competenze si acquisiscono, non è un dono del Fato. Dante dice che Guido da Montefeltro, un capitano di ventura libertino, che per una scaramuccia fu ferito a morte e stava agonizzando; nel frattempo Dante, immaginò questa scena dove un angelo e un diavolo sono andati a prendere possesso l’anima di Guido da Montefeltro, invece lui si pente nell’ultimo istante e Dante crea questa immagine poetica per cui per una lacrimuccia il diavolo se ne andò e non riuscì a prendere possesso della sua anima fino all’ultimo uno può cambiare. Cosa significa linguistica normativa? Lingua comune che è stata dibattuta fin dal 300, da Dante in poi. Era la lingua con cui scrivevano per motivi letterari, aulici, era di elezione modellata sul modello di Dante, Petrarca e Boccaccio. Non era mai diventata una lingua effettivamente dell’uso parlato, non era mai penetrata negli strati sociali, che erano fermi all’uso dei dialetti. Cosa significa educazione linguistica? È l’educazione ad acquisire la competenza a 360°; espressione coniata da Tullio De … La lingua veniva imparata scolasticamente, non era un uso spontaneo e naturale della lingua. Manzoni voleva imporre la lingua del 300. Manzoni e Ascoli si sono inseriti nella storia, hanno entrambi tenuto presente tutto l’arco della tradizione della lingua. Entrambi erano insoddisfatti degli obiettivi e il modo con cui la lingua era stata impostata nei secoli. Hanno propugnato un modo diverso, una lingua da usarsi nello scritto e nel parlato in tutti gli strati sociali, valenza civile e sociale pratica. Entrambi, considerando il fiorentino la base storica dell’italiano letterario, erano contrari ai giuristi fermi alla lingua del 300, ma la preoccupazione maggiore era mettere a fuoco come estendere la lingua unitaria per l’uso da parte di tutti gli strati sociali; c’era l’esigenza di rinnovare la società italiana anche dal punto di vista linguistico, per avere uno stato moderno. C’è l’apertura alla nascita degli altri paesi europei: questa problematica è esclusivamente italiana. L’esigenza di rinnovamento linguistico nacque nel secondo 700, soprattutto a Milano con Carlo Cattaneo. Gli studi erano diretti verso l’acquisizione della prosperità, l’Itali deve tenersi all’unisono con l’Europa, non deve avere un nobile posto nell’associazione scientifica dell’Europa e del Mondo. Non si deve partecipare alla guerra del progresso e l’inerzia, tra pensiero e ignoranza ogni idea vera è buona, da qualunque paese, da qualunque lingua ci arrivi, come se fosse nostra. Qual è la differenza tra la posizione di Manzoni e Ascoli? Ascoli è il primo il quale propugna con il Proemio, dal punto di vista storico, che non è possibile legare il fiorentino parlato alla norma della lingua standard in Italia. Certe differenze del dialetto fiorentino si notano, non aveva recepito il nuovo vocabolario (la o breve, non era attestata nel fiorentino). Per esaminare e studiare una lingua non c’è bisogno soltanto del lessico e la pronuncia, ma anche la morfologia e la sintassi secondo i canoni. Ascoli dice che la conoscenza delle vicende storiche che hanno condizionato l’italiano dal 300 in poi, è un modo per impostare su una base rigorosa e attendibile … . Per Ascoli il moderno è la Germania, perchè è più vicina all’Italia, mentre Parigi è stato sempre il centro egemone della vita culturale, ogni novità proveniva da Parigi e veniva accettata dai letterati. Inoltre, Parigi era la capitale di uno stato centralista, ciò non successe mai con Firenze. Manzoni diceva che la lingua è a Firenze, come il francese è a Parigi e il latino a Roma. Ascoli dice che la Germania non aveva unità a livello religioso, a differenza dell’Italia. La Germania è caratterizzata da densità intellettuale, che a Firenze scarseggiava. In Germania non c’era una differenza, una frattura tra chi sapeva e chi no, c’erano personalità intermedie che diffondevano. L’Italia ha avuto grandi maestri e studiosi, ma manca un numeroso numero di seguaci e discepoli che potevano diffondere i risultati della scienza. l’Ascoli voleva conoscere, eguagliare e superare la Germania, per cui ha fondato un’organizzazione di ricerca scientifica moderna, perché gli scienziati erano isolati, perché i giovani volevano questo. Ascoli dice che si propone lo studio scientifico dei dialetti quindi non c’è contraddizione con la questione della lingua. Perché ha sfatato l’egemonia della Germania? Con la 2° rivoluzione industriale, scalza dal primo posto l’Inghilterra, quindi non era sempre stata uno stato egemone. La lingua per eccellenza è stata quella dei greci diffusa anche dal Alessandro Magno che ha avuto come maestro Aristotele: “la Grecia è fatta prigioniera politicamente, ma ha conquistato il vincitore feroce, selvatico ed ha introdotto le arti al selvatico Lazio” (frase di…). Il latino ha una peculiarità ossia è durata più a lungo: dalla Finlandia fino al Portogallo era la lingua dei dotti, della diplomazia e dell’università, ecc. fino ai primi decenni dell’800 (le lezioni, la tesi, la discussione era in latino). La diplomazia oggi richiede il francese, perché Luigi XIV ha sostituito il latino con il francese. Dante e Petrarca scrissero in latino; tutta la cultura umanistica è in latino. Durante l’illuminismo il latino viene scalzato dal francese, come nel primo 800. Successivamente, divenne il tedesco. Oggi, la lingua della scienza e della tecnologia mondiale è l’inglese. I più grandi studiosi, linguisti ecc. provengono dagli stati uniti (il più grande Noam Chomsky). Prima della prima guerra mondiale, si credeva che con il progresso scientifico inarrestabile, l’uomo avrebbe risolto i suoi problemi la belle époque ottimismo infranto con la prima guerra mondiale. Dopo di essa, l’Europa ha perso l’egemonia intellettuale e scientifica. Hitler e Stalin hanno perseguitato gli scienziati ebrei che erano protetti dagli americani Jakobson era stato accolto dagli Stati Uniti. Se gli scienziati avessero continuato il loro lavoro in Europa, oggi forse si dovrebbe imparare di nuovo il tedesco. Sia Manzoni che Ascoli hanno cominciato a conoscere la tradizione della lingua. Sulle radici giudaicocristiane si sono innestate altre radici quelle del nostro rinascimento, del romanticismo, ecc. Tutte queste radici concorrono a determinare l’identità dell’Europa, che oggi non sa chi è né da dove viene. Educare al senso storico. . Senso critico, senso della storia, essere dei cittadini.