27/02/2019
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Che cos’è il linguaggio?
La linguistica è lo studio del linguaggio che è un sistema di comunicazione, e come tale ha la funzione di
trasmettere informazioni da un emittente ad un ricevente. Trasmettere informazioni non è l’unica funzione
del linguaggio.
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Quanti tipi di linguaggio ci sono?
Nella nostra realtà quotidiana andiamo incontro a innumerevoli tipi di linguaggio, con caratteristiche molto
diverse, che variano a seconda della struttura: il linguaggio informatico, il linguaggio degli animali
(comunicazione dei primati e la “danza” delle api hanno una maniera di comunicare se nelle vicinanze
dell’alveare c’è del cibo e se è a distanza ridotta o lunga; riescono a dare indicazioni anche sulla direzione
della fonte di cibo. Quando la distanza è ridotta fanno un giro circolare in senso orario e poi antiorario.
Quando la distanza è più lunga fanno una sorta di 8 e quando si trova nella parte centrale dell’8 fa vibrare
l’addome e rilascia delle goccioline; maggiori sono le volte che fa questo movimento, maggiore è la
distanza) e il linguaggio umano. Il linguaggio animale ha tuttavia potenzialità molto limitate ed è legato al
soddisfacimento di bisogni comunicativi minimi, diversamente dal linguaggio umano.
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Che cos’è il linguaggio umano?
Il linguaggio umano, o linguaggio naturale, è il sistema di comunicazione, perlopiù verbale (ma non solo),
con funzioni e caratteristiche particolari, che gli esseri umani sviluppano grazie a una capacità propria,
innata; il linguaggio naturale, o anche linguaggio verbale, si distingue da tutti gli altri linguaggi per vari
motivi.
Quali sono le differenze tra linguaggio umano e altri linguaggi?
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Il linguaggio umano è arbitrario (ossia si basa su una convenzione, decido io come definire
qualcosa non c’è alcuna relazione tra l’oggetto e il nome che abbiamo scelto); ci sono delle
eccezioni minime: onomatopee, raddoppiamento, fonosimbolismo…
Il linguaggio umano è discreto e articolato è composto da unità minime riconoscibili e frazionabili
che contribuiscono alla costruzione del linguaggio
Il linguaggio umano è ricorsivo permette di costruire messaggi potenzialmente infiniti tramite
l’aggiunta di segmenti comunicativi (es. alla fiera dell’Est)
Il linguaggio umano è dipendente dalla struttura e posizionaleogni messaggio è costruito secondo
una struttura gerarchica (sintassi). Il valore di ogni elemento non è stabilito a priori, ma dipende
dalla sua posizione, dalla sua funzione all’interno del messaggio.
Il linguaggio umano è semanticamente onnipotentepuò dire tutto, può essere usato per qualsiasi
tipo di significato.
28/02/2019
La lingua
È la forma specifica che il linguaggio umano assume in relazione ad una comunità particolare di esseri
umani, un sistema di segni o, per meglio dire, un “sistema di sistemi”, con caratteristiche particolari che
variano da una lingua all’altra, con alcune limitazioni (universali linguistici); mentre esiste un solo linguaggio
umano, al contrario le lingue sono numerose e in costante mutamento.
Che cos’è un segno?
È un’entità complessa, composta da una parte sensibile (espressione) e una parte concettuale (contenuto);
l’espressione è materialmente percepibile attraverso i sensi e si connette con un contenuto mentale che
rimanda ad un oggetto o situazione reale (referente).
Triangolo semiotico
contenuto
espressione
referente
Quanti tipi di segni esistono?
Ci sono vari tipi di segno, che si differenziano tra loro in base al rapporto che lega contenuto ed espressione
e il grado di volontarietà:
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Indice: l’espressione e il contenuto sono legati da un rapporto di origine naturale e di tipo causale,
non volontario (fumo);
Icona: l’espressione rinvia volutamente ad un oggetto reale per mezzo di meccanismi di analogia e
somiglianza (segnale stradale);
Simbolo: il legame tra espressione e contenuto non ha motivazione di tipo naturale o analogico; è
un legame volontario e arbitrario (simbolo della pace).
Il segno nel linguaggio umano
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Piano dell’espressione [‘kane]
Piano del contenuto: il concetto di cane, con tutte le sue definizioni e relazioni, vale a dire l’animale
domestico che ha quattro zampe, che abbaia, che è considerato “il migliore amico dell’uomo”, ecc…
Piano del referente
05/03/2019
Che cos’è un codice?
Un segno è quindi qualcosa che sta per qualcos’altro (aliquid pro aliquo, relazione diadica); per meglio dire,
è “qualcosa che sta per qualcos’altro, per qualcuno in certe circostanze” (relazione tetradica). Questo
rimando fa necessariamente riferimento a un codice, cioè a un insieme di regole e convenzioni condivise
dai partecipanti all’atto comunicativo. È la conoscenza del codice cui fa riferimento che ci permette di
riconoscere un segno come tale, e quindi di interpretarlo. Ciascuna lingua è un codice.
Un importante distinzione c’è tra codice primario e secondario: quello primario è la lingua, quello
secondario è la scrittura che ha come contenuto un altro codice, ossia la lingua. È usato per veicolare il
codice primario.
Una caratteristica è l’ICONICITÀ, che stabilisce un rapporto volontario su un tipo di analogie. In alcuni casi ci
sono dei gesti che non sono iconici, ma simbolici (arbitrari), ad esempio “si” e “no”, in alcune culture non
sono espressi allo stesso modo.
Teoria matematica della comunicazione
(Shannon e Weaver, 1949)
Hanno risposto alle domande: come avviene la comunicazione? Quali elementi sono coinvolti?
Il modello di Shannon e Weaver è stato ripreso da Ronan Jakobson (1896-1982), russo che si trasferì a
Praga da cui, negli anni ’30, fu costretto a fuggire ed andò in America dove prese la cittadinanza ed iniziò ad
insegnare. Adatta il modello di Shannon e Weaver alla situazione del linguaggio verbale, applicabile a tutti i
contesti. Concentra in un unico elemento le informazioni delle fonti e il trasmittente ed in un altro il
destinatario e la ricezione del messaggio  in Shannon e Weaver queste sono separate (informatica).
Jakobson individua il contesto, il mittente, il messaggio, il ricevente, il canale e il codice:
Jakobson si chiede a cosa serve il linguaggio, la comunicazione per interagire, esprimersi, trasmettere
informazioni: Jakobson dice che serve a molte più cose: individua una funzione per ciascun elemento del
suo modello.
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Funzione emotiva (mittente): esprime lo stato d’animo di chi emette l’enunciato
Funzione conativa (destinatario): esprime l’influenza che si vuole esercitare sul destinatario al fine
di guidarne il comportamento
Funzione poetica (messaggio): si realizza quando usiamo la lingua in funzione “creativa”, diversa
dall’uso normale
Funzione referenziale (contesto): si realizza nella descrizione del contesto e degli elementi che lo
caratterizzano
Funzione fàtica (canale): si mette in atto quando verifichiamo il funzionamento del canale di
comunicazione
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Funzione metalinguistica (codice): si realizza quando si usa il codice per parlare del codice stesso.
Ci sono dei codici complessi, come il linguaggio verbale, che hanno la massima funzionalità e
contemporaneità altri codici hanno una funzionalità ridotta (i cani non hanno la funzione poetica).
Il modello di Jakobson è ripreso da Karl Buhler (1879-1963) che aveva individuato un modello a 3 elementi:
rappresentazione, espressione, appello.
Funzione di appello:
riguarda il ricevente
Funzione rappresentativa:
Funzione espressiva:
riguardo il contesto
riguarda il parlante
Michael Halliday (1925-2018) parla dello sviluppo delle funzioni comunicative nel bambino che acquisisce
la facoltà di linguaggio e le funzioni con cui utilizzarlo.
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Funzione strumentale: si esprimono bisogni o desideri
Funzione regolativa: si cerca di controllare il comportamento di chi ascolta
Funzione interazionale: serve per agire con gli altri
Funzione personale: rappresentare sé stessi e le proprie sensazioni nel dialogo
Funzione euristica: indagare il mondo e la realtà
Funzione immaginativa: si attiva nella creazione di una realtà propria
Funzione informativa: si attiva nella trasmissione e nello scambio di informazioni
Funzione ideazionale: riguarda la trasmissione dell’informazione. È divisa in:
o Funzione esperienziale: contenuto del linguaggio, relativo alla realtà esterna, pensieri,
sentimenti
o Funzione logica: organizzazione sintattica del discorso
Funzione interpersonale: esprime e specifica le relazioni e i contatti tra membri di una comunità
linguistica
Funzione testuale: capacità del linguaggio di creare testi e di porsi in relazione sia al contesto
situazionale sia a ciò che è stato detto precedentemente.
Il modello socio-comunicativo di Ulrich Ammon (1943)
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Lingua come mezzo di comunicazione, e di moltiplicazione e trasferimento delle informazioni.
Lingua come mezzo per il coordinamento di azioni, tra più individui.
Lingua come magazzino di esperienze, ciò che viene comunicato è poi fissato nella memoria e
garantisce il progresso nel processo di apprendimento.
Lingua come medium di formazione della coscienza, attraverso la fissazione delle esperienze e la
loro categorizzazione.
Lingua come medium del pensiero operativo, nel senso che attraverso la lingua riusciamo a
costruire concetti e astrazioni nuovi e a progredire nella comprensione scientifica.
Lingua come medium di orientamento dell’azione, cioè la pianificazione simbolica delle azioni,
anche aldilà della loro effettiva realizzazione.
Lingua come medium di attribuzione sociale, nel senso che la lingua è un elemento che ci classifica
socialmente, stabilendo la nostra appartenenza ad un gruppo sociale.
Lingua come azione sociale, nel senso che attraverso la lingua noi costruiamo la nostra azione nella
società.
06/03/2019
Intensione ed estensione
L’intensione è l’insieme delle proprietà definitorie che costituiscono il concetto designato e accomunano gli
“oggetti” che fanno parte di una determinata “estensione”.
L’estensione è l’insieme degli “oggetti” individuali cui è applicabile il dato concetto, cioè l’insieme degli
“oggetti” individuali con una medesima intensione.
Es. bicicletta
-Intensione: avere un telaio avere due ruote avere un manubrio essere utilizzato per muoversi non avere
un motore ecc.
-Estensione: tutti i veicoli designabili con la parola bicicletta.
Denotazione e connotazione
La denotazione è ciò che un termine designa.
La connotazione sono le qualità attribuite al referente (ciò che viene designato) dagli elementi della lingua
che si usano per denotarlo.
Es. Diego Armando Maradona
Il 10 del Napoli anni ‘80
L’autore del più bel gol della storia del calcio
Colui che fece gol di mano all’Inghilterra
denaro / soldi / grana
snello / magro / secco
Teorie sulla categorizzazione del significato
Secondo la teoria classica, gli “oggetti” sono categorizzati secondo la presenza o assenza di determinate
proprietà; un’aquila appartiene alla categoria degli uccelli perché possiede delle proprietà ritenute
caratteristiche di questa categoria: vola, è ricoperta di piume, ha il becco, fa le uova e le cova ecc. Nella
realtà, tuttavia, gli “oggetti”, cioè le entità che sono definite dal linguaggio, non sempre hanno tutte le
proprietà che contraddistinguono una determinata categoria, ma solo alcune: ad esempio, questo è il caso
del pinguino in relazione alla categoria degli uccelli (ha le piume, il becco, fa le uova e le cova, MA non
vola).
Teoria dei prototipi
Secondo questa teoria, il prototipo è il centro di una categoria che viene definito chiaramente in tutte le
sue proprietà, mentre le aree ai confini sono più sfumate; gli elementi che occupano il centro della
categoria sono detti prototipi.
La doppia articolazione del segno linguistico
La prima articolazione riguarda l’analisi del segno linguistico nei suoi minimi componenti dotati di
contenuto, cioè di significato o funzione: ragazz-o, ragazz-a, ragazz-i, ragazz-e; bambin-o, bambin-a ecc…;
ragazz-at-a, ragazz-at-e ecc…
Seconda articolazione: analisi esclusivamente dell’espressione linguistica, con la finalità di individuare unità
prive di significato che unendosi costituiscono le unità di prima articolazione: f-o-r-t-e, p-o-r-t-e, p-a-r-t-e, ca-r-t-e ecc… for-te, por-te, par-te, car-te ecc…
Sincronia e diacronia
Sincronia: in questa prospettiva, il sistema linguistico è analizzato nei suoi elementi costitutivi senza
considerare la dimensione temporale: la parola nero è analizzata ad esempio attraverso i rapporti di
significato con altre parole della stessa sfera semantica, sia sinonimi (oscuro, atro) sia contrari (bianco,
candido, luminoso), o ancora con varianti censurate, o con sfumature dipendenti dal contesto (fondi neri),
o in relazione metaforica.
Diacronia: il sistema linguistico, e le sue componenti, sono osservati e analizzati considerando la variabile
temporale nella loro formazione e evoluzione: nero viene dal latino niger, che significava «nero lucido»,
contrapposto a ater, «nero opaco», distinzione poi persa con l’affermazione del termine nelle lingue
romanze.
Rapporti sintagmatici e rapporti paradigmatici ????????????????????
La pragmatica
La pragmatica è il livello di analisi del linguaggio che prende in considerazione non solo l’enunciato, ma
anche il contesto in cui l’enunciato è prodotto, le funzioni espresse, le motivazioni dei parlanti, le loro
aspettative e i loro scopi comunicativi, la capacità di comprendere il messaggio prodotto.
Porta il vaso qui (chiede di farlo fisicamente)
Puoi aprire la finestra? (chiede soltanto se si può, non di aprirla fisicamente)
Origine del termine
Il primo a usare la parola «pragmatica» fu Charles Morris (1901–1979) nei suoi studi di semiotica (1938).
Per Morris, la semiotica si distingue in tre campi fondamentali:
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la sintassi (syntactics), vale a dire lo studio delle relazioni tra segni;
la semantica (semantics), cioè lo studio delle relazioni tra i segni e gli elementi della realtà cui essi
rimandano;
la pragmatica (pragmatics), cioè lo studio delle relazioni tra i segni e gli utenti del codice.
La definizione di Levinson (1947)
La pragmatica è lo studio delle relazioni tra la lingua e il contesto che sono fondamentali per spiegare la
comprensione della lingua stessa.
Il contesto (Andorno 2005)
Il contesto è un’espressione intuitivamente chiara ma difficile da definire; si compone sostanzialmente di
tre elementi:
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le conoscenze condivise, l’insieme di credenze sociali e culturali sul funzionamento del mondo che i
parlanti condividono o credono di condividere, compresa la conoscenza del codice linguistico;
la situazione comunicativa contingente, ovvero la situazione spazio-temporale in cui si svolge un
evento linguistico, le relazioni interpersonali fra i partecipanti, le aspettative e gli scopi che li
muovono;
il contesto linguistico o cotesto, ovvero il discorso in atto e le conoscenze che esso ha generato.
La percezione del contesto è fondamentale per la comprensione di un enunciato, perché permette di
ovviare ad alcuni problemi propri di ogni codice:
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l’omonimia: identico significante, ma diverso significato (pesca-pèsca)
la polisemia: significante con più significati ("fattore" si può riferire all'agricoltore o al membro di
una moltiplicazione)
l’ambiguità: più di un’interpretazione (rapina in banca con rivoltella da centomila euro);
la vaghezza: parole o enunciati che non sono pienamente specificati riguardo al significato;
l’indeterminatezza: espressioni che sono interpretabili ma che necessitano del contesto per una
piena comprensione.
L’enunciato
L’enunciato è una sequenza verbale prodotta oralmente o per iscritto in una situazione comunicativa
concreta; si distingue dalla frase, che è invece una sequenza formalmente accettabile e completa dal punto
di vista grammaticale. L’enunciato è l’unità minima del testo.
Es.
Antonio: Allora?
Francesco: Macché, niente.
Antonio: Perché? Francesco: Boh. Ha detto la mattina non c’è nessuno.
Deissi
«riguarda i modi in cui le lingue codificano o grammaticalizzano aspetti del contesto dell'enunciato o
dell'atto linguistico, e pertanto riguarda anche i modi in cui l'interpretazione degli enunciati dipende
dall'analisi del contesto dell'enunciato» (Levinson 1983).
Procedimento con il quale, utilizzando particolari elementi linguistici, si mette in rapporto quanto viene
detto con la situazione spazio-temporale a cui si riferisce.
-
Deissi personale: io, tu, lui, lei, noi, voi, loro.
Deissi spaziale: distingue deittici prossimali, questo, qui, qua, e distali, quello, lì, là (e il toscano
codesto, costì, costà).
Deissi temporale: ora, adesso, domani, l’anno scorso, subito ecc.
Deissi testuale: si attua attraverso l’anafora, ieri ho visto Francesca e le ho detto che la cercavi, e la
catafora, ci parlo io con Francesca.
Deissi sociale: tu/Lei, tu/Voi, Spettabile ditta, Egregio professore ecc.
Triplice organizzazione dell’enunciato
Ogni enunciato presuppone tre livelli di organizzazione delle informazioni:
-
-
grammaticale: la funzione dei vari componenti dell’enunciato è identificata attraverso le relazioni
morfosintattiche che essi intrattengono tra di loro e con l’enunciato stesso: Silvia mangia la mela
semantico (o logico): indica la struttura dell’evento o del processo descritto attraverso i suoi attori
reali: Il guardiano aprì la porta con la chiave
La chiave aprì la porta
La porta si aprì
tematico: porta all’individuazione dell’argomento dell’enunciato (il tema, o topic) e ciò che si vuol
dire del tema (il rema, o comment, o anche focus): Paolo ha chiamato Anna
Anna ha chiamato Stefano? No, PAOLO ha chiamato Stefano (?)
Ludwig Wittgenstein (1889–1951)
Il «primo» Wittgenstein …

Il linguaggio ha la funzione di rappresentare la realtà, e il filosofo deve concorrere alla costruzione
di un linguaggio scientifico ideale, che sia quanto più aderente alla struttura logica della realtà.
… e il «secondo» Wittgenstein

Il linguaggio oggetto di analisi non deve più essere quello ideale e perfetto della scienza, ma quello
quotidiano, di tutti i giorni, nella sua concretezza fatta di usi e pratiche diverse (giochi linguistici): il
linguaggio è l’uso che se ne fa.
John L. Austin (1911–1960)
La teoria degli atti performativi: come fare cose con le parole.
Austin distingue tra enunciati constativi, che descrivono eventi, cose, processi ecc., e quindi possono essere
veri o falsi, e enunciati performativi, che non descrivono fatti, ma compiono azioni (spesso grazie a
particolari verbi, detti ugualmente performativi).
• Paolo è biondo • L’uomo è stato su Marte • Usain Bolt è l’uomo più veloce del mondo • Perugia ha tre
università
• Ti prometto che domani ti porto al cinema • Nego di aver detto questa frase • Io ti battezzo • Confesso
che sono stato io a prendere la bicicletta • Lascio in eredità a mio figlio il mio appartamento • Per i poteri
conferitimi dalla legge, visto il curriculum di studi e l’esito della prova finale, la dichiaro dottore in Scienze
della Formazione Primaria
Enunciati constativi  Condizioni di verità
Enunciati performativi  Condizioni di felicità
Condizioni di felicità: sono le condizioni che devono verificarsi perché un enunciato possa avere efficacia:
essere pronunciato dalla persona giusta, nella giusta predisposizione d’animo sia di chi parla sia di chi
ascolta, nel luogo appropriato, con la giusta formulazione ecc.
Condizioni di felicità
Α.1: Deve esistere una procedura convenzionale accettata avente un certo effetto convenzionale,
procedura che deve includere l’atto di pronunciare certe parole da parte di certe persone in certe
circostanze
Α.2: Le particolari persone e circostanze in un dato caso devono essere appropriate per il richiamarsi alla
particolare procedura cui ci si richiama
Β.1: La procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti correttamente
Β.2: La procedura deve essere eseguita da tutti i partecipanti completamente
Γ.1: Laddove, come spesso avviene, la procedura sia destinata all’impiego da parte di certe persone aventi
certi pensieri o sentimenti, o all’inaugurazione di un certo comportamento consequenziale da parte di
qualcuno dei partecipanti, allora una persona che partecipa e quindi si richiama alla procedura deve di fatto
avere quei pensieri o sentimenti, e i partecipanti devono avere intenzioni di comportarsi in tal modo
Γ.2: I partecipanti devono comportarsi effettivamente in tal modo.
Violazioni
La teoria degli atti linguistici
Austin sostiene infine che tutti gli enunciati, anche quelli constativi, presuppongono un’azione: nel caso
specifico, l’azione di constatare, o di asserire. Il linguaggio, in questa prospettiva, non è più un mero
sistema di comunicazione, ma uno strumento e un modo di agire, in particolare nell’interazione sociale, di
cui l’atto linguistico è l’unità fondamentale.
Tutti i figli di Giovanni sono biondi
Il treno è arrivato
Io affermo che il treno è arrivato
Per questo, Austin sostiene che nel compiere un atto linguistico compiamo simultaneamente tre atti
diversi:
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un atto locutorio (o locutivo), il semplice dire qualcosa, un enunciato con un’espressione e un
significato, nel rispetto della struttura del sistema linguistico (l’atto ha una forma locutiva).
Presuppone un atto fonetico (l’emettere suoni), un atto fatico (il pronunciare parole secondo
lessico e grammatica) e un atto retico (l’usare queste parole con un senso e con un riferimento).
un atto illocutorio (o illocutivo), il compiere un’azione nel momento in cui si pronuncia un
enunciato; trasmette l’intenzione del parlante al ricevente (l’atto ha una forza illocutiva).
un atto perlocutorio (o perlocutivo), l’effetto che si intende produrre sull’interlocutore attraverso
l’atto linguistico (l’atto produce un effetto perlocutivo).
Il gatto è sul divano
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atto (o livello) locutorio:
Francesco ha detto che domani andrà a scuola
atto (o livello) illocutorio:
Francesco ha sostenuto che domani andrà a scuola
atto (o livello) perlocutorio :
Francesco mi ha convinto che domani andrà a scuola
Classificazione dei verbi performativi secondo la forza illocutoria
Verdettivi: emettono una sentenza o un giudizio.
giudico, classifico, stimo, descrivo ecc.
Esercitivi: esercitano dei poteri, dei diritti, o un’influenza.
nomino, ordino, esorto, avverto, chiedo ecc.
Commissivi: consistono nel promettere o assumersi un impegno.
prometto, mi impegno, garantisco, sono d’accordo ecc.
Comportativi: esprimono una reazione agli atteggiamenti e al comportamento sociale degli altri.
mi scuso, mi congratulo, sfido, critico, benedico ecc.
Espositivi: chiariscono il ruolo dei nostri enunciati in una discussione.
ammetto, dimostro, assumo, postulo ecc.
Paul Grice: le implicature conversazionali (1913-1988)
Grice distingue tra significato dell’espressione, cioè il significato letterale e convenzionale di un enunciato,
e il significato del parlante, cioè ciò che il parlante intende dire veramente. Una conversazione si può dire
veramente riuscita se le intenzioni del parlante sono pienamente comprese dall’ascoltatore.
Uno dei meccanismi fondamentali è quello delle implicature conversazionali, informazioni che non sono
espresse ma sono inferite dall’ascoltatore in base ai contesti e agli usi linguistici propri dei parlanti.
A: Non hai mangiato quasi niente.
B: Non mi sento molto bene.
Secondo Grice, gli scambi comunicativi si basano su un principio di cooperazione, cioè uno sforzo comune
da parte dei parlanti affinché la comunicazione abbia successo:
«Conforma il tuo contributo alla conversazione nella misura in cui è richiesto, nel momento in cui avviene,
dall’intento accettato o dalla direzione dello scambio comunicativo in cui sei impegnato».
Tale principio si articola in quattro massime, che si configurano come degli obblighi, ma sono piuttosto
delle modalità espressive per i parlanti che aspirano alla piena efficacia dell’atto comunicativo.
-
Massima della quantità: dai un contributo tanto informativo quanto richiesto, cioè non lesinare
informazioni richieste, né aggiungere informazioni non richieste.
Massima della qualità: dì ciò che ritieni vero, e non ciò che per te è falso o per cui non hai prove
adeguate.
Massima della relazione: sii pertinente.
Massima della modalità: evita espressioni oscure, evita ambiguità, sii conciso, esprimiti in maniera
ordinata.
La competenza comunicativa (Hymes 1972) (1927-2009)
Hymes parte dalla critica alla visione di Chomsky, il quale individua due livelli diversi relativi alla produzione
linguistica, la competenza linguistica (che ricalca la langue saussuriana, anche se la langue è un fatto
sociale, mentre la competenza chomskyana è comunque individuale), che è la padronanza delle regole
formali della grammatica (in senso lato) da parte del parlante, e l’esecuzione, che è la performance
concreta dell'atto linguistico, e che Chomsky considera in subordine rispetto alla competenza.
La teoria linguistica si occupa primariamente di un parlante/ascoltatore ideale, in una comunità linguistica
completamente omogenea, che conosce la sua lingua perfettamente e non è intaccato da quelle condizioni
grammaticalmente irrilevanti quali limitazioni della memoria, distrazioni, cambiamenti di attenzione e di
interesse e errori (casuali o caratteristici) nell'applicare la sua conoscenza della lingua nell'esecuzione reale
(Chomsky 1966).
Hymes ritiene invece che ci sia un'unica competenza, che chiama comunicativa, che nel parlante non
presuppone soltanto la conoscenza delle regole grammaticali o lessicali di una lingua, ma anche della
padronanza dei contesti d'uso della lingua stessa in una data cornice socio-culturale. Un bambino, quando
inizia a parlare, non impara soltanto le regole della lingua, ma anche «la competenza su quando parlare e
quando no, di cosa parlare, e a chi, quando, dove, e in che maniera» (Hymes 1972). Questa competenza è
acquisita tramite l’esperienza sociale, cioè i bisogni, le motivazioni e i problemi che nell’affermarsi sono a
loro volta fonte di ulteriore esperienza comunicativa.
In questo senso, la comunicazione è fatta di eventi, che sono costituiti a loro volta da uno o più atti
comunicativi. Ciascun atto comunicativo è determinato da una serie di fattori, che non sono mai solamente
linguistici ma hanno a che fare con la dimensione pragmatica del linguaggio. Il messaggio, nello specifico, è
individuato da due fattori, la forma e il contenuto: nella lettura di Hymes, questi non sono determinati
soltanto da elementi linguistici, ma sono essi stessi connotati sul piano comunicativo e pragmatico, e sono
in stretta interdipendenza fra loro. La forma del messaggio è come questo viene veicolato, il contenuto è
ciò che esso veicola, ma in entrambi i casi forma e contenuto vanno oltre la semplice definizione tramite
categorie («Il modo in cui qualcosa è detto è parte di ciò che viene detto»).
Il modello S-P-E-A-K-I-N-G
È il modello di analisi degli eventi linguistici proposto da Hymes; questo modello di analisi tiene conto non
soltanto della gestione dell’informazione sul piano comunicativo, ma anche di tutti quegli aspetti,
determinati da fattori sociali e culturali, che caratterizzano l’evento linguistico specifico. Si basa su otto
parametri fondamentali:
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S – Situazione (Settings): comprende sia le condizioni fisiche e spazio-temporali in cui avviene l’atto
linguistico, sia la «scena», cioè la definizione psicologica che viene data dell’evento in una certa
cultura.
P – Partecipanti (Participants): sono naturalmente il parlante e l’ascoltatore, ma anche l’emittente,
colui a cui va assegnato l’atto linguistico anche se non ne è materialmente l’esecutore, e il
destinatario, colui a cui è indirizzato in ultima istanza l’atto linguistico anche se non direttamente
rivolto a lui.
E – Fini (Ends): sono i risultati attesi e convenzionalmente riconosciuti dalla performance di un
evento linguistico e gli scopi personali di ciascun partecipante all’evento linguistico.
A – Sequenze di Atti (Act Sequences): prende in considerazione sia la forma dei messaggi prodotti,
sia il loro contenuto; forma e contenuto sono considerati come strettamente interrelati e
interdipendenti.
K – Chiave (Key): è la chiave di lettura appropriata dell’evento linguistico, ossia il tono o spirito,
spesso veicolato da particolari scelte stilistiche, paraverbali o non verbali.
I – Strumenti (Instrumentalities): per strumenti si intendono i canali, cioè le tipologie di
comunicazione (orale, scritta, visiva ecc.) e le forme del linguaggio, cioè i codici, le varietà e i
registri.
N – Norme (Norms): sono le regole secondo cui avviene l’interazione comunicativa, e le regole
attraverso cui avviene l’interpretazione dell’evento linguistico.
G – Generi (Genres): sono le categorie di «testo» nelle quali rientrano gli eventi linguistici, e che
emergono con determinate caratteristiche ricorrenti.
La comunicazione non verbale
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Paralinguistica: tono e intonazione, volume, ritmo e velocità
Cinesica: movimenti del corpo, espressioni facciali, postura, gesti con le mani
Prossemica: occupazione dello spazio
Aptica: contatto fisico
Possono essere aggiunti altri fattori: lo sguardo, il vestiario, l’odore… Il sapere utilizzare in maniera
appropriata tutti questi codici, insieme al codice verbale (lingua), rientra nella competenza comunicativa
globale.
Mehrabian & Wiener 1967; Mehrabian & Ferris 1967
Quanto incidono le dimensioni verbale, paraverbale e non verbale nella valutazione di stati d’animo altrui.
Variabili
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volontario vs. involontario (o conscio vs. inconscio)
discreto vs. continuo
arbitrario vs. iconico
significato invariante vs. significato variabile
Fattori condizionanti
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Cultura e società
Contesto
Sesso
Età
Funzioni della comunicazione non verbale (Ekman & Friesen 1969)
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Emblemi (Emblems): atti o comportamenti non verbali che hanno una diretta traduzione nel
linguaggio verbale.
Illustratori (Illustrators): atti o comportamenti non verbali strettamente connessi al linguaggio
verbale, che essi accompagnano e amplificano elaborandone il messaggio.
Dimostratori di emozioni (Affect Displays): atti o comportamenti non verbali (perlopiù espressioni
facciali) che esprimono stati d’animo primari, che si suppone siano universali.
Regolatori (Regulators): atti o comportamenti non verbali che guidano e controllano il flusso della
conversazione, influenzando sia chi parla sia chi ascolta.
Adattatori (Adaptators): atti o comportamenti non verbali che sono «appresi originariamente come
parte di sforzi di adattamento per soddisfare bisogni personali o fisici, o per compiere azioni
corporee, o per esprimere emozioni, o per mantenere o sviluppare contatti personali prototipici, o
per imparare attività strumentali».
Paralinguistica
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tono e intonazione
volume
ritmo
velocità
Anche questi fattori, al di là del loro impiego come fatti prosodici veri e propri (e, quindi, linguistici),
subiscono forti condizionamenti sotto vari aspetti: biologici, fisiologici, psicologici, socioculturali,
contestuali.
Cinesica
«movimenti del corpo su base psico-muscolare,
consci o inconsci, e le posture che li delimitano
o che ne derivano, tanto appresi quanto
somatogenici, di percezione visuale,
visuale-acustica, tattile e cinestetica, che,
tanto in isolamento quanto combinati a
strutture linguistiche e paralinguistiche e
a altri sistemi comportamentali somatici o
oggettuali, posseggono valore comunicativo
voluto o non voluto» (Poyatos 2002, II: 185)



gesti: testa, viso, sguardo, estremità, ma anche
fenomeni inconsci e non controllabili, come i
brividi emotivi.
maniere: più o meno consapevoli, spesso
apprese e ritualizzate dal punto di vista sociale.
posture: corpo, gambe, tronco, mani, palpebre,
generalmente statiche, consapevoli o meno,
anch'esse ritualizzate.
Ciascuno di questi atti cinesici può essere libero o legato, a seconda del fatto che vi sia coinvolgimento di
altre parti del corpo o di oggetti.
Gesti, maniere e posture possono essere in ogni caso analizzati secondo uno schema tripartito, che
presuppone:



una fase formativa, che rappresenta l’attacco di un gesto, di una postura, o di una maniera;
una fase centrale, che può essere dinamica (movimento) o statica (posizione);
una fase finale, o di dissolvenza, dove il gesto, la postura o la maniera vengono disarticolati.
Altri fattori, o qualità, rilevanti per la descrizione della cinesica sono:
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

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Intensità, o tensione muscolare
Pressione
Ampiezza, o dimensione spaziale del movimento
Velocità, o dimensione temporale del movimento
Durata
Prossemica (Hall 1966) (Edward Hall - (1914-2009))
Ogni individuo ha uno spazio personale, che in linea di massima lo separa dagli altri individui, ma che allo
stesso tempo lo mette in relazione con essi, secondo certi schemi che sono fortemente influenzati da
fattori culturali e contestuali. In base a ciò, si distinguono quattro distanze, che individuano altrettante
dimensioni interpersonali:
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distanza pubblica (oltre 3-3,65 m): è la distanza di un oratore dai suoi ascoltatori; la comunicazione
avviene solo sulla base dei canali visivi e uditivi, e solo in condizioni di particolare amplificazione;
distanza sociale (tra 1,20 m e 3-3,65 m): è la distanza dell’interazione formale, in cui si attivano
normalmente i canali visivi e uditivi, e in assenza di contatto;
distanza personale (tra 45 cm e 1,20 m): è la distanza delle relazioni amicali, quella che oltre ad
attivare i canali uditivi e visivi prevede anche il contatto con le estremità; il dominio fisico della
persona inizia ad essere occupato da altri;
distanza intima (meno di 45 cm): è la distanza delle relazioni intime, in cui non solo si attiva il
contatto con tutto il corpo, ma ad esempio si attiva anche l’olfatto. È la distanza dei rapporti intimi,
del conforto, dell’amplesso, ma anche della lotta.
Queste distanze, in ogni caso, sono fortemente determinate sul piano culturale e sociale: culture diverse
presuppongono convenzioni prossemiche diverse. Inoltre, ai fini della comunicazione è importante non solo
l’occupazione di uno spazio, ma anche il movimento verso e da quello spazio: un avvicinamento indica in
genere la volontà di iniziare una conversazione, un allontanamento indica invece un probabile tentativo di
interromperla.
Anche il contesto contribuisce sensibilmente a definire la propria sfera personale: l’uso di un ascensore, ad
esempio, riduce questo spazio ai minimi termini. Si distingue quindi tra una distanza fisica, che varia in base
al contesto, e una distanza psicologica, che può essere ristabilita in base a vari espedienti (ad es., evitando
il contatto visivo).
Altro aspetto che riguarda la prossemica è l’orientamento. Anche questo è definito perlopiù da convenzioni
sociali e culturali:
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Faccia a faccia
Fianco a fianco
Altrettanto importante è l’angolazione reciproca tra occupanti uno spazio comune, anch’essa determinata
socioculturalmente.
Aptica
È la forma di comunicazione non verbale che riguarda il contatto fisico.
In genere si distinguono cinque dimensioni del contatto fisico, in relazione alla distanza e al coinvolgimento
emotivo:
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funzionale/professionale: il contatto è permesso dal contesto: per esempio durante un esame
medico.
sociale/di gentilezza: il contatto è formale e determinato socio-culturalmente.
di amicizia/di calore: il contatto è espressione di riguardo.
di amore/di intimità: il contatto è speciale, permesso solo alle persone alle quali si è prossimi.
di eccitazione sessuale: il contatto ha finalità sessuali.
L’aptica riguarda essenzialmente due dimensioni esperienziali, una attiva (toccare) e una passiva (essere
toccati). Non tutte le parti del corpo sono disponibili per il contatto a tutti i livelli; in questo senso, si
distinguono:
Parti non vulnerabili: mano, braccio, spalla, parte superiore della schiena, che entro certi limiti sono
disponibili al «tocco» anche ad estranei.
Parti vulnerabili: tutte le altre, che possono essere toccate solo da persone che rientrano nella sfera
dell’intimità, o da persone specifiche, per ragioni più che altro professionali (dottori, massaggiatori ecc.).
LA SOCIOLINGUISTICA
La sociolinguistica studia l’interazione tra lingua e società (e cultura). Esiste una dimensione
macrolinguistica, che prende in considerazione l’interazione della comunità dei parlanti con i codici nel loro
complesso, e una dimensione microlinguistica, che prende invece come riferimento l’interazione dei
parlanti all’interno dell’evento linguistico con la situazione socioculturale in cui avviene l’evento. (lo studio
del codice in relazione a fattori socio-culturali)  il modo in cui studiamo la lingua calato nel contesto.
Macrosociolinguistica e microsociolinguistica una dimensione allargata in cui vengono prese in
riferimento la comunità parlante e il suo repertorio e il modo in cui queste comunità utilizzano queste
lingue nelle loro interazioni.
La sociolinguistica prende in considerazione delle variabili, cioè delle modalità con cui i parlanti realizzano
un’unità linguistica in relazione ad un contesto socioculturale; ciascuna realizzazione è detta variante. Un
raggruppamento coerente di varianti in relazione ad un contesto sociale definisce una varietà linguistica.
Es. la parola nebbia  esiste una variabile che è la lettera “e”, che può essere pronunciata in due modi:
(nébbia – nebbia). Ci sono delle variabili significative sul dialogo. Ci possono anche essere varianti
sintattiche.  “oggi c’era la pasta con tonno ma non l’ho mangiata; Il tonno non ti piace perché?”
Le variabili sociali, o sociolinguistiche, sono i fattori indipendenti cui sono correlati i fatti linguistici soggetti
a variazione:

Stratificazione sociale (grado di istruzione, occupazione, ecc.)  variabile complessa (in funzione di
molti parametri.) quando si fanno degli studi di sociolinguistica, si prende in considerazione il grado
del parlare, lo stipendio, dove uno abita, il tipo di ambiente che uno si trova intorno.
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Appartenenza di gruppo sociale (persone che abitano tutte nella stessa zona, che fanno tutte lo
stesso lavoro, hanno la stessa origine…) anche qui si creano dei gruppi sociali ben definiti e
l’appartenenza ad un gruppo è una variabile importante.
Età e fascia generazionale (variabile utilissima)
Sesso (genere)
Collocazione spaziale e luogo di abitazione e provenienza (si proviene dalle stesse zone e si tenderà
a parlare allo stesso modo) nel nostro modo di parlare tutte queste variabili hanno un ruolo, tutti i
parametri indipendenti influiscono sulle variabili dipendenti.
Varietà sociolinguistiche: possono essere molteplici e sono in funzione di una variabile sociolinguistica:
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Varietà diatopiche (o geografiche): si distinguono in base alla distribuzione territoriale, es. gli
italiani regionali e anche certi tipi di dialetto.
Varietà diastratiche (o sociali): sono in funzione della posizione sociale dei parlanti all’interno di
una comunità, es. Black English (la lingua inglese parlata dalla comunità afro-americana), ma
anche i gerghi (varietà parlata da un gruppo molto ristretto e omogeneo), cioè quelle varietà
parlate da un gruppo ristretto e omogeneo, spesso volutamente criptiche. (Italiano parlato dai
medici)
Varietà diafasiche (o situazionali): sono in funzione della situazione sociale e di variabili come il
contesto, la formalità ecc.; un esempio sono i sottocodici, cioè quelle varietà parlate in
funzione di argomenti specifici (es. la medicina, l’architettura ecc.), o anche i registri, che sono
verità linguistiche dalla situazione, es. registro formale, informale ecc.
Altri tipi di varietà sociolinguistiche:
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Varietà culturali: sono in funzione dei sistemi di valori e dei modelli comportamentali di un network
sociale.
Varietà diamesiche: sono in funzione del canale o dello strumento, es. scritto vs. parlato, di persona
vs. al telefono ecc.
Varietà diaetniche: varietà emergenti da un diverso background etnico anche all’interno della
stessa comunità linguistica, es. l’italiano parlato dai cinesi di seconda generazione.
Varietà diagenerazionali: che prendono in considerazione l’età come variabile indipendente, da cui
il linguaggio dei giovani, degli adulti ecc.
Varietà di genere: che variano in funzione del sesso dei parlanti.
Una comunità linguistica in genere utilizza più varietà, che costituiscono il repertorio di tale comunità a
disposizione dei parlanti della comunità stessa; i parlanti possono padroneggiare alcune di queste varietà,
ma non necessariamente tutte quante. Ogni individuo ha una lingua nativa, che è la lingua prima, quella
della socializzazione primaria, che ha imparato in famiglia nei primi anni di vita.
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Bilinguismo (o plurilinguismo): quando in una comunità sono presenti almeno due lingue o due
varietà linguistiche, senza distinzioni d’uso specifiche.
Diglossia (o poliglossia): quando in un repertorio ci sono almeno due varietà, distinte sul piano della
variabile sociale.
Commutazione di codice (code switching): il passaggio da una varietà ad un’altra varietà da parte di
un parlante all’interno dello stesso evento comunicativo, in genere per motivazioni sociali o
situazionali.
Dilalìa: quando in un repertorio ci sono almeno due varietà distinte sul piano della variabile sociale
(una di prestigio, una informale) ma con contesti d’uso in parte sovrapposti, e possibilità di
commutazione di codice.
In Italia quasi tutti viviamo questa situazione: tutti parliamo una lingua standard di prestigio che è
l’italiano, tutti parliamo varietà popolari dell’italiano, molti ancora parlano un altro codice che è il
dialetto. Ci sono dei contesti in cui si può usare sia l’italiano standard, sia una varietà popolare, sia il
dialetto; ad esempio all’interno del nucleo familiare.
La situazione italiana
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Italiano standard (molto spesso si dice che è l’italiano utilizzato dal giornalista durante un
telegiornale; molto spesso è un’astrazione, un modello a cui si tende, noi tutti lasciamo trasparire
qualcosa della nostra provenienza a livello linguistico.)
Italiano locale (o regionale): distinzione territoriale; l’italiano popolare, quello che utilizziamo in
situazioni territoriali ristrette e che facciamo combaciare con le regioni quando in realtà non è così.
Dialetto
Minoranze linguistiche
Nuove lingue dalla mobilità
20/03/2019
1. A me piace mangiare con i miei a Natale
2. A me me piace mangia’ co’ i miei a Natale
3. A me me piace magna’ c’ i miei a Natale
4. Ta me me piace magna’ c’ i mia a Natale
5. Ta me me pièce magne’ c’i mia a Natèle
Italiano standard
Dialetto
Quando le istituzioni decidono di intervenire sugli usi linguistici della comunità, soprattutto in funzione
delle varietà utilizzate, mettono in atto una politica linguistica. L’intento è quello di favorire certi usi perché
ritenuti più produttivi dal punto di vista della comunicazione sociale, dell’integrazione, dell’avanzamento
economico, della salvaguardia della diversità etno-culturale e linguistica, del progresso civile, del successo
nella formazione scolastica ecc. Un’espressione talvolta usata come sinonimo è pianificazione linguistica,
che per altri può invece indicare gli interventi volti a promuovere uno standard normativo e linguistico. In
genere una politica linguistica prende corpo dalla constatazione di problematiche socio-culturali che si
riverberano in, e in parte prendono corpo da, situazioni linguistiche.
Pidgin e creoli
Quando due comunità linguistiche entrano in contatto, si creano necessità comunicative nuove; se il
contatto è limitato nel tempo e nei modi, e circoscritto ad una situazione specifica (es. il commercio), le due
comunità tendono a creare una sorta di lingua di servizio, che è finalizzata a soddisfare bisogni comunicativi
limitati. Lingue di questo tipo, o per meglio dire quasi-lingue, si chiamano pidgin; in genere vengono
abbandonate quando vengono meno le condizioni che ne hanno portato alla nascita.
I pidgin nascono in genere sulla struttura grammaticale di una delle due lingue, ridotta al minimo, sulla
quale si innesta un repertorio lessicale ridotto proveniente dall’altra, detta lingua lessificatrice.
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Il lessico copre solo poche sfere semantiche, solo quelle pertinenti allo scambio interculturale, è ha
una tendenza spiccata alla polisemia.
Vengono evitate tutte le particelle funzionali come preposizioni, articoli, congiunzioni.
La morfologia, allo stesso modo, è praticamente assente.
La sintassi è limitata alla coordinazione.
Es. lingua franca (o sabir): Se ti sabir, ti respondir, se non sabir tazir, tazir.
Quando invece l’uso del pidgin è prolungato nel tempo, e il contatto interculturale diventa molto più ampio
e complesso, passando da un modello verticale, cioè da gruppo sociale egemone a gruppo sociale
subordinato, ad un modello orizzontale, cioè all’interno dello stesso gruppo sociale o gruppi sociali paritari,
può accadere che esso tenda a stabilizzarsi, arricchendo il proprio profilo lessicale e dotandosi di una
grammatica e di una sintassi. In una situazione di crescente stabilizzazione sociale come questa, una nuova
generazione potrebbe apprendere il pidgin come lingua madre; in questo caso, non si parla più di pidgin,
ma di creolo.
21/03/2019
Lingua e dialetti in cosa sono differenti? In che modo? Cosa li distingue? L’aspetto più percepibile è la
pronuncia. Il dialetto non è una lingua standardizzata, utilizzata in contesti non formali e viene parlato da
un numero di persone minore rispetto alla lingua standard.
C’è una questione di numeri, di prestigio, di regole grammaticali esistenti per l’italiano ma non per il
dialetto. I dialetti sono codici, sistemi linguistici completi, non sono inferiori, è in grado di soddisfare tutte
le esigenze linguistiche di chi lo parla; ciò che cambia, rispetto ad una lingua, ha a che fare con condizioni
esterne.
Commutazione di codice (code switching): il passaggio da una varietà ad un’altra varietà da parte di un
parlante all’interno dello stesso evento comunicativo, in genere per motivazioni sociali o situazionali. In
genere, si distingue tra commutazione interfrasale, cioè tra una frase e un’altra (detta anche alternanza di
codice), e intrafrasale, cioè all’interno della stessa frase (detto più propriamente code mixing, o
enunciazione mistilingue).
“Je ‘o saccio che state penzanno! Voi dividete il mondo in quelli che non uccidono e in quelli che uccidono, e
vi pensar che siccome io sono una femmina appartengono alla prima categoria, e ve sbagliat’.” (Gomorra –
la serie)
“Secunno tia dù cose fabbricate contemporaneamente, ma, attenzioni, tenute assà distanti tra loro e
diversamente usate nel tempo, metti, che so, due biciclette, possono invecchiari, perdiri pezzi, spirtusarisi
nello stisso identico modo e negli stissi posti?” […] “Impossibile”. “Inveci queste bambole pare che ci siano
arrivisciute. […] Taliale bene” “Vuoi babbiare?” (Andrea Camilleri, La caccia al tesoro)
Diamesia
È la differenza tra parlato e scritto.
Parlato
Comunicazione privata
Interlocutore intimo
Scritto
Comunicazione pubblica
Interlocutore sconosciuto
Emotività forte
Emotività debole
Ancoraggio pragmatico e situazionale
Distacco pragmatico e situazionale
Ancoraggio referenziale alla situazione
Distacco referenziale dalla situazione
Compresenza spazio-temporale (faccia a faccia)
Cooperazione comunicativa intensa
Dialogo
Comunicazione spontanea
Libertà tematica
Distanza spazio-temporale
Cooperazione comunicativa minima
Monologo
Comunicazione preparata
Tema fisso
Ci sono forme di parlato e di scritto che sono descritte solo in parte da questi parametri, ad esempio una
conferenza di un politico o di un ricercatore, dove la comunicazione diventa pubblica e l’interlocutore è
sconosciuto, l’emotività può essere abbastanza forte, c’è un ancoraggio pragmatico situazionale, c’è
compresenza spazio-temporale anche se diminuita, la cooperazione comunicativa è minima perché è chi
parla che decide le parole ed è molto preparata, c’è una discreta libertà tematica anche se limitata.
Contrariamente, un post-it sul frigorifero è un’espressione scritta, dove tuttavia la comunicazione non è
pubblica, l’interlocutore è conosciuto, c’è un ancoraggio pragmatico situazionale, c’è una discreta distanza
spazio-temporale, non è un monologo e non è una comunicazione preparata, il tema può variare.
Diastratia
Il furbesco (gergo dei furfanti) (Sanga 1993) – Sanga afferma che non viene usato con persone che non lo
conoscono
L. Ariosto, Cassaria (1508)
LUCRANO:
Spuleggia de non calarte in solfa
per questa marca, che al cordoan
si mochi la schioffa.
Attento a non parlar troppo (lett.
“fare la spia”) di questa donna,
che all’ingenuo rubiamo la
ragazza.
FURBA:
Ciffo ribaco il contrapunto.
Ho capito (lett. “il ragazzo
capisce il gergo”).
LUCRANO:
Averò cantato in guisa che se
Avrò parlato in guisa che se
Erofilo è in casa mi potrà aver
Erofilo è in casa mi potrà aver
sentito.
sentito.
Situazioni di emarginazione portano allo sviluppo di un lessico e di una lingua particolare, ad esempio 30/40
anni fa il lessico di tossicodipendenti: “pera”.
26/03/2019
William Labov e la sociolinguistica variazionista (1927)
I suoi lavori hanno chiarito in maniera incontrovertibile lo stretto legame tra lingua e parametri sociali,
etnici e culturali e sono alla base della sociolinguistica contemporanea (scienza giovane).
Labov applica un metodo rigoroso dal punto di vista scientifico, un metodo quantitativo, lavora su dati
concreti e reali, applica concetti di tipo statistico, rende la linguistica una scienza matematica, verificabile
dal punto di vista scientifico.
Labov imposta i suoi studi dal punto di vista metodologico, in modo del tutto originale, risolvendo problemi
che fino ad allora non erano stati risolti, come portare avanti una ricerca.
Labov si occupa di variazione linguistica, per affrontare la questione del cambiamento linguistico. C’era una
teoria di partenza che fa riferimento a Ferdinand de Saussure, Bloomfield, Hockett secondo cui il
mutamento linguistico ha delle caratteristiche ben precise: il mutamento linguistico che ha portato, ad
esempio, la parola “chichero” ad essere pronunciata “cicero”. Secondo questa teoria formata negli anni
finali dell’800 (secolo di grandi scoperte di linguistica) il mutamento è regolare e simultaneo: il mutamento
è simultaneo in tutte le parole che hanno una “c” seguita da “e” o “i”; questo mutamento poteva avvenire
ovunque. Il mutamento linguistico non è osservabile: ce ne rendiamo conto solo in un secondo momento,
non siamo in grado di osservare i mutamenti linguistici in atto in un certo momento. Il mutamento
linguistico è cieco, ossia non dipende da nulla, semplicemente accade, non ci sono elementi che lo
determinano.
Labov parte da un’ipotesi totalmente differente: il mutamento non è regolare e spontaneo, ma parte da un
nucleo di parole con una caratteristica e progressivamente si distribuisce alle altre parole con la stessa
caratteristica; non è vero che il mutamento non è osservabile, ma lo è in termini statistici; non è vero che il
mutamento è cieco, risponde a dinamiche ben precise che dipendono da variabili sociali e culturali.
Il primo studio ha a che fare con l’isola di Martha’s Vineyard; è un’isola che si trova nello stato del Road
Island, in Massachusetts. Quest’isola ha una storia particolare, è una zona particolarmente importante per
la caccia alle balene, era una zona in cui c’erano molte comunità di pescatori. Questo modello economico e
sociale all’inizio del 900 entra in forte crisi, perché la caccia alle balene non è più redditizia perché si scopre
la presenza del petrolio. Si afferma un’economia molto diversa, che fa di queste zone delle località di
villeggiatura: Martha’s Vineyard è una delle località di villeggiatura più esclusive degli Stati Uniti, privilegiata
dai presidenti degli Stati Uniti. È l’ambientazione del film “lo squalo” di Spielberg.
Qual è la situazione nel 61? Ci sono poco più di 5000 abitanti divisi in comunità molto piccole; ad oggi ci
sono oltre 16000 abitanti, con un incremento in estate di più di 100000 persone.
Ci sono due aree principali: Up-Island e Down-Island. Up-Island è più rurale, Down-Island è più urbana.
Ci sono tre nuclei etnici originali: gli yankee (originari dei primi coloni inglesi), indiani (ciò che resta dei
nativi Wampanoag, concentrati nella punta sud-ovest dell’isola), portoghesi (pronipoti di pescatori e
balenieri ottocenteschi, provenienti principalmente dalle Azzorre e da Capo Verde).
Labov decide di indagare sull’utilizzo di una particolare caratteristica linguistica in queste zone ed in tutto il
Massachusetts.
C’era una pronuncia corrente nel New England (nord-est americano, cui Martha’s Vineyard appartiene): [aI]
e [aU]; pronuncia corrente a Martha’s Vineyard: [ɐI] e [ɐU] o anche [əI] e [əU]; questa pronuncia era quella
storica per /ai/, mentre per /au/ si hanno più possibilità.
Come si capisce come si pronunciano effettivamente questi due dittonghi nei parlanti nativi? Labov parlerà
proprio di paradosso trova una soluzione metodologica fa parlare e leggere cercando di far
pronunciare parole che hanno questi dittonghi (spider, slinding, white, rareripe, swipe, crouch, backhouse,
dying out, ecc). Si leggevano attraverso un testo oppure si chiedeva la pronuncia, cercando di farle
emergere nel parlato spontaneo.  un metodo è quello di far parlare la gente di sé, delle proprie
aspirazioni, dei propri sentimenti, descrivere la loro vita. Spesso gli argomenti determinano le scelte
linguistiche. Labov comprende che se fa parlare i nativi delle loro cose, otterrà un parlato molto più
spontaneo.
Quali sono i risultati? Labov scopre che il fenomeno di centralizzazione dei dittonghi /ai/ e /au/, che al
tempo di precedenti rilevazioni stava ormai scomparendo, era tornato ad essere molto forte negli anni ’60;
il fenomeno era sensibile alla consonante che seguiva il dittongo: la presenza di certe consonanti rendeva la
pronuncia con centralizzazione molto probabile, al contrario di altre consonanti; il fenomeno aveva
fondamentali correlazioni socio-culturali:
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
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Era più frequente nella zona Up-Island, più rurale e meno abitata, dove si trovavano ancora le
ultime famiglie di pescatori, attività tradizionale dell’isola
Era frequente in tutte le tre compagini “etniche”
Era in costante aumento in considerazione dell’età, con una precisazione riguardo i più giovani 
Labov introduce la variabile delle aspirazioni personali, chiedendo ai ragazzi dove si immaginano il
loro futuro. Divide i giovani a seconda di come hanno risposto alla domanda e poi guarda i dati sulla
pronuncia e nota che chi vede il suo futuro sull’isola ha una percentuale di pronuncia alta, mentre
chi vuole uscire dall’isola ha una percentuale di pronuncia bassa.
In ultima analisi, la centralizzazione di /ai/ e /au/ a Martha’s Vineyard era in costante crescita, perché tale
pronuncia era avvertita come più caratteristica e marcava una diversità, a fronte del contatto sempre più
esteso della popolazione autoctona con i vacanzieri, che erano avvertiti come un “male inevitabile”. Il
modello con centralizzazione era caratteristico di una certa area, che tra la popolazione era avvertita come
maggiore depositaria delle tradizioni della comunità, sia linguistiche sia professionali (pesca). Il dato
ambiguo della generazione più giovane fa riferimento ad una “scelta di campo” non ancora avvenuta: ma
chi vedeva l’isola nel suo futuro aveva comunque tassi di pronuncia centralizzata molto elevati.
Labov parla anche di New York e la sua pronuncia della (r). New York già negli anni ’60 era una metropoli
grandissima, con milioni di persone e mobilità sociale estrema. È risaputo che a New York è difficile trovare
una persona i cui 4 nonni siano tutti originari di lì: è una città di migranti.
È molto difficile applicare un modello come quello usato a Martha’s Vineyard. Labov trova il modo di
studiare la linguistica e si pone due obiettivi: dimostrare che la variabile (r) è un differenziatore sociale a
tutti i livelli del parlato di New York City (se si pronuncia o meno la r); gli eventi linguistici del parlato
casuale e anonimo possono essere usati come base per uno studio sistematico del linguaggio. L’ipotesi di
partenza è che se due sottogruppi di parlanti di New York City sono classificati su una scala di stratificazione
sociale, allora saranno classificati nello stesso ordine anche in funzione dell’uso differenziale di (r).
Come si studia una variabile di questo tipo? Come si ottengono dati non falsati? Lo scopo della ricerca
linguistica nella comunità deve essere scoprire come la gente parla quando non è osservata
sistematicamente; tuttavia, possiamo ottenere questi dati solo attraverso l’osservazione sistematica.
Nell’inglese standard parlato in Gran Bretagna generalmente (r) in coda sillabica (fine di parola o prima di
un’altra consonante) non è pronunciato (non-rothic): aware.

Nelle varietà locali britanniche e irlandesi può essere pronunciato (rothic), anche come
polivibrante, ad esempio in Scozia; questa pronuncia è avvertita come non standard;
Nell’inglese standard parlato in America, invece, (r) in coda sillabica è pronunciata (rothic), in genere come
un approssimante postalveolare o retroflessa.

A New York è diffusa una mancata pronuncia (non-rothic) di (r), che è considerata caratteristica del
parlato cittadino (quindi, non standard) o comunque del nord-est (più in contatto con il modello
britannico), in contrapposizione al resto del Nord America.
Come fa Labov a studiare la maniera in cui si stratifica a livello sociale l’uso o il non uso di (r)? Parte da
alcuni elementi: si concentra sul parlato dei commessi dei grandi magazzini, con un assunto di partenza: i
commessi tendono a conformare il loro parlato a quello dei clienti. Individua tre grandi magazzini nell’area
di Manhattan. Uno di livello alto, con prezzi medio-alti; uno di livello medio, con prezzi medi; uno di livello
basso, con prezzi medio-bassi. Vengono presi in considerazione molti parametri convergenti (la posizione,
ecc). In questi magazzini chiede ad un commesso dove può trovare un reparto che in realtà già sa che è
collocato al 4° piano, e registra la risposta del commesso una prima volta; successivamente, fa finta di non
aver capito e chiede al commesso di ripetere. La prima risposta ha quindi carattere più casuale e
spontaneo, la seconda più controllato. L’intervistatore registra quindi altri fattori sociali rilevanti: oltre al
negozio, il tipo di occupazione, il piano in cui era occupato, il sesso, la razza, l’età stimata, eventuali accenti
stranieri o non autoctoni. I risultati: percentuali delle risposte con tutte o alcune (r) pronunciate. I dati
sociali hanno rilevanza dal punto di vista sociale. Certi tipi di mansioni più di altre, certi numeri di piano più
di altri, la pronuncia di <th> in fourth come ostruente ([t]) piuttosto che come fricativa.
27/03/2019
Prospettive sociolinguistiche in ambito educativo – Basil Bernstein (1924-2000)
Uno dei primi ambiti di riflessione dell’interazione tra lingua e società è quello sviluppatosi in correlazione
all’educazione scolastica, in particolare con gli studi di Basil Bernstein, a partire dalle osservazioni sul
comportamento scolastico e sui problemi di apprendimento dei figli della working class inglese tra la fine
degli anni ’50 del XX secolo e l’inizio del decennio successivo. Fece questi studi in Inghilterra del Nord
(Liverpool, Manchester) ossia l’area inglese con maggior radicamento operaio e si rese conto che i ragazzi
che appartenevano a questa classe avevano maggiori problemi scolastici e non riuscivano a raggiungere gli
standard della middle class. C’era una disparità nella capacità del raggiungimento degli obiettivi. Bernstein
approfondisce quindi questo tema. Esiste quindi una correlazione con l’ambito sociale. Bernstein infatti,
osservando il comportamento linguistico degli studenti, ipotizza che questo sia determinato in larga misura
dalla struttura sociale in cui lo studente è inserito, e dalle relazioni sociali e dalle interazioni che si
instaurano all’interno del gruppo di appartenenza e nella famiglia.
In funzione di questo assunto, Bernstein individua una correlazione tra appartenenza di classe e usi
linguistici: nello specifico, la working class, il proletariato, usa quello che lui chiama un codice ristretto,
mentre la middle class, la borghesia, usa un codice elaborato.
Il concetto di codice è vago: non corrisponde alla definizione corrente in linguistica, cioè “linguaggio”, ma
racchiude piuttosto una serie di usi e strategie linguistiche. Ha a che fare con aspetti stilistici, con l’uso che i
bambini fanno della propria lingua.
Quali sono le caratteristiche di questi codici?
Codice elaborato (middle class)
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Vasto lessico attivo
Costruzioni sintattiche complesse
Pause relativamente frequenti e lunghe (indice di riflessione sulla costruzione del messaggio)
Poche formule stereotipate
Alto grado di astrazione
Alto grado di analiticità
Sequenza tendenzialmente egocentriche
Poca confusione tra motivazione e conclusione
Poche formule brevi di comando e di domanda
Poche frasi incomplete
Uso anche complesso di congiunzioni
Uso poco limitato di aggettivi e avverbi
Molti pronomi personali (inglese)
Codice ristretto (working class)
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Lessico attivo limitato
Costruzioni sintattiche semplici
Poche pause, pause brevi
Tendenza alle formule routinarie
Alto grado di concretezza
Basso grado di analiticità
Sequenze tendenzialmente sociocentriche
Confusione tra motivazione e conclusione
Motivazione esplicita degli ordini
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Frasi non sempre complete
Congiunzioni semplici
Numero limitato di aggettivi e avverbi
Pochi pronomi personali (italiano)
Secondo Bernstein, il codice elaborato dipende sostanzialmente da un modello sociale diverso; nella middle
class si tende a favorire la crescita dell’individuo, mentre nella working class ciò che conta è il ruolo che il
singolo riveste all’interno del gruppo.
Il codice elaborato permetterebbe uno sviluppo maggiore della personalità dell’individuo, dello sviluppo
cognitivo; il codice ristretto porterebbe ad avere una carenza di stimoli che favoriscono lo sviluppo
cognitivo. Ciò comporta l’acquisizione di un codice più limitato che non permetterebbe ai figli della working
class di ottenere gli stessi risultati scolastici dei figli della middle class.
Fa l’esempio: “tre ragazzi stanno giocando a calcio e un ragazzo dà un calcio al pallone / ed esso parte verso
la finestra/ la palla rompe la finestra / e i ragazzi la stanno guardando”  middle class
“Stanno giocando a calcio / e lui gli dà un calcio e va verso là / rompe la finestra e loro la stanno
guardando” working class
I bambini della working class hanno una deprivazione verbale che ne limita le capacità di sviluppo
completo.
Il codice ristretto sarebbe chiaramente inferiore al codice elaborato, sia dal punto di vista espressivo, sia da
quello cognitivo. Secondo Bernstein, l’uso di un codice specifico si riflette nel comportamento sociale e
sullo sviluppo intellettuale di chi lo usa; la società disegna una separazione netta tra chi usa il codice
elaborato, cioè le classi superiori, le più avvantaggiare sul piano sociale, e chi usa il codice ristretto, le classi
subalterne, che non avrebbero sufficienti abilità logiche, espressive, sociali, perlomeno non all’altezza della
borghesia.
Da qui, si ha il concetto di sottosviluppo culturale, e la conseguente denominazione di teoria della
deprivazione verbale. Il nodo sarebbe l’esposizione dei bambini appartenenti alla working class in ambito
familiare al solo codice ristretto, quindi a una consistente mancanza di adeguati stimoli culturali e
linguistici, che si rifletterebbe poi negli scarsi risultati nella performance scolastica.
Secondo lui e chi lo segue, si deve colmare questo gap. La famiglia della middle class sarebbe orientata sulla
persona, sarebbe favorito lo sviluppo della personalità di ogni suo componente; inoltre, all’interno di essa i
rapporti interpersonali sarebbero continuamente mediati e disciplinati attraverso il linguaggio. La famiglia
della working class sarebbe invece orientata sul gruppo e sui ruoli prestabili all’interno del gruppo (madre,
padre, figlio ecc.).
Quindi, secondo Bernstein, il gap di apprendimento tra bambini della working class e bambini della middle
class potrà essere superato solo se i primi acquisiranno sufficiente competenza del codice elaborato. La
scuola dovrà attuare una politica che preveda un’educazione compensatoria, che permetta ai bambini della
working class di acquisire il codice elaborato.
Questa teoria fu anche applicata ad altri contesti nel mondo, ad esempio in America, dove c’era una
situazione piuttosto simile a quella inglese, due classi e una differenza linguistica viene applicata anche
qui questa teoria e la politica di tipo compensatorio. Queste politiche non raggiunsero però l’obiettivo di
portare i bambini della working class al livello deii bambini della middle class dal punto di vista scolastico.
La proposta di un’educazione compensatoria fu applicata in vari programmi di riduzione del deficit
scolastico. Spesso questi programmi non raggiunsero i risultati prestabiliti. Il fallimento di tali politiche
portò a considerazioni sconcertanti, soprattutto in America, dove la teoria della deprivazione verbale fu
applicata al contesto sociale. Qui la working class aveva anche una connotazione razziale, essendo
composta prevalentemente dalle comunità afro-americane, e vi fu chi sostenne che il fallimento era
strettamente collegato ad un deficit cognitivo che aveva origini razziali. Bernstein prese però le distanze da
questa applicazione delle sue teorie, ad esempio sostenendo che non era vero che il codice ristretto era
inferiore a quello elaborato, ma che fossero due modalità espressive diverse adeguate entrambe a contesti
diversi.
La deprivazione verbale ebbe un forte impatto sul sistema educativo inglese ed americano: in America,
contro questa teoria si pronunciò William Labov. Lui, dopo gli studi a Martha’s Vineyard e a New York iniziò
ad interessarsi a come la comunità afro-americana newyorkese utilizzava l’inglese. Si interessò in
particolare alla zona di Harlem, dove abitavano neri, ispanici e italiani.
Labov iniziò a testare il sistema con cui erano state portate avanti le interviste e i test nel contesto
americano ed arrivò a delle conclusioni:
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Il metodo di intervista non è adeguato (il metodo consisteva nel prendere un bambino nero di
Harlem e mettergli di fronte un bianco adulto che parlava in modo diverso da lui)si crea una
barriera perché il bambino non si riconosce nell’interlocutore
Gli stimoli in contesto familiare sono in realtà gli stessi;
Le capacità cognitive sono in realtà le stesse;
La distinzione tra i due codici non ha a che fare con l’appartenenza di gruppo, ma è piuttosto una
questione di stili e situazioni comunicative;
La lingua dei ceti subalterni non è inferiore o degradata; semplicemente, si tratta di una realtà
linguistica diversa, una varietà diversa della stessa lingua, con una sua grammatica, pienamente in
grado di soddisfare tutte le esigenze comunicative (quello che parlano i neri d’America è un inglese
diverso dall’inglese parlato dalla borghesia americana; è una varietà d’inglese pienamente in grado
di soddisfare le esigenze comunicative di chi la usa e di favorire lo sviluppo cognitivo nei bambini
che lo apprendono)
Il concetto di deprivazione verbale non ha fondamento nella realtà sociale. Nei fatti, i bambini neri nei
ghetti urbani ricevono una grande massa di stimoli verbali, ascoltano più frasi ben costruite dei bambini
della classe media, e prendono pienamente parte ad una società altamente verbalizzata. Hanno lo stesso
vocabolario di base, possiedono la stessa capacità di apprendimento concettuale e usano la stessa logica di
chiunque altro impari a parlare e a comprendere l’inglese.
Il problema, quindi, è prima di tutto nelle strutture scolastiche, che sono tarate sul modello dominante,
cioè su quello che Bernstein chiama codice elaborato, e non sono in grado di confrontarsi con un diverso
set di espressioni e strategie comunicative.
Secondo Labov, infine, quello che Bernstein e altri identificano come codice elaborato deve essere certo
oggetto di insegnamento, perché è il codice che sembra garantire maggiori informazioni in un contesto di
minore condivisione di informazioni di background; tuttavia, si deve anche insegnare il suo uso nei contesti
appropriati, perché spesso si accompagna a prolissità, verbosità, ridondanza.
Ma soprattutto… What is wrong with being wrong? (Labov 1972: 230)
28/03/2019
L’analisi della conversazione
I nostri dialoghi, gli eventi comunicativi cui partecipiamo, non sono insiemi disordinati di enunciati senza
relazioni apparenti, ma seguono una struttura ben definita, con meccanismi comunicativi ricorrenti,
descrivibili e in parte prevedibili. Su questo principio si fonda l’analisi della conversazione, scienza affine
all’etnometodologia, che studia la struttura dell’interazione verbale e non verbale nel linguaggio quotidiano
e spontaneo. Questo ambito di studi è molto recente, ancora più della sociolinguistica, nasce con gli studi di
Harvey Sacks, Gail Jefferson e Emanuel Schegloff. Come obiettivo si pone lo studio di come si sviluppa una
conversazione dal punto di vista delle relazioni che si instaurano tra i vari enunciati e il parlato quotidiano;
in questo periodo, si inizia ad avere a disposizione delle registrazioni, degli strumenti che permettono di
registrare del parlato quotidiano in maniera massiva.
I primi studi di Harvey Sacks si basavano su registrazioni di conversazioni al telefono in un contesto ben
preciso chiamate che venivano fatte ad un numero indicato per la prevenzione dei suicidi. Harvey Sacks si
rende conto che queste conversazioni tendono ad avere degli schemi prefissati e inizia a teorizzare un
nuovo modello per l’analisi del parlato quotidiano. Uno degli aspetti fondamentali della conversazione è in
primo luogo la situazione, cioè l’insieme di norme e convenzioni sociali, contesto, ruoli predefiniti,
conoscenze di sfondo che permettono al dialogo di svilupparsi in una determinata maniera. È questa la
dimensione microlinguistica che viene individuata negli studi sociolinguistici.
Principi della conversazione
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Il turno
Naturalismo: l’oggetto di analisi è il parlare quotidiano effettivamente utilizzato in un evento
comunicativo, non una sequenza ricostruita e astratta.
Sequenzialità: la conversazione avviene per turni successivi, che stabiliscono tra loro relazioni
temporali e logiche non dissimili dalle relazioni causa-effetto. Inoltre, una conversazione ha un
inizio, uno sviluppo e una fine: tutte queste fasi sono codificate.
Adiacenza: gli enunciati dei parlanti sono collegati tra loro e strutturalmente vicini; i nessi
strutturali riflettono la partecipazione intersoggettiva dei parlanti alla conversazione
Punto di vista dei partecipanti: nella conversazione, chi parla struttura il proprio messaggio in
funzione delle aspettative del ricevente, delle sue informazioni di sfondo e della sua capacità di
intervenire nel successivo turno di parola.
Contesto: la conversazione avviene all’interno di un set di informazioni ulteriori, condivise dai
parlanti, che risultano necessarie per la comprensione dello sviluppo dialogico; non solo: il dialogo
a sua volta influenza il contesto e lo riformula continuamente.
Parlare come azione: non è tanto importante la struttura informativa attesa ad una conversazione,
ma le azioni che i vari parlanti vogliono mettere in atto attraverso la partecipazione alla
conversazione.
Durante una conversazione, c’è sempre qualcuno che parla e una o più persone che ascoltano. Questi ruoli
non sono fissi, ma cambiano di continuo con lo sviluppo della conversazione. Il turno di parola identifica il
parlante temporaneo: si può dire che sia l’unità minima di una conversazione.
Il turno chiaramente non è fisso. Chi partecipa alla conversazione interviene assumendo il ruolo di parlante,
attraverso la presa di turno, metodo che regola l’avvicendamento dei turni.
L’assunzione del turno di parola può essere favorita da vari meccanismi, come ad esempio gli indicatori di
fine turno, utilizzati dal parlante precedente, che manifestano la fine prossima o reale del turno di parole e
danno la possibilità ad altri di assumere il turno (insomma, ecco). Il più naturale è il silenzio.
La selezione del parlante successivo può avvenire in vari modi:
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Etero-selezione: il parlante corrente sceglie chi sarà il parlante successivo, dandogli il turno di
parola
Auto-selezione: alla fine del turno del parlante precedente, uno degli ascoltatori prende l’iniziativa
assume il turno di parola
Auto-selezione continuata (da parte del parlante corrente): il parlante, alla fine del proprio turno,
riassume il turno di parola in assenza di interventi di altri.
Silenzio: alla fine di un turno di parola, nessuno assume più il turno e la conversazione termina.
Esempio di etero-selezione:
A: Hai preso le chiavi di casa?
B: Sì, le ho in tasca.
Esempio di auto-selezione
A: Per fare il tiramisù ci vogliono mascarpone, caffè, savoiardi…
B: A me i savoiardi non piacciono, preferisco i pavesini.
Esempio di auto-selezione continuata
A: Chi vuole provare a rispondere alla domanda?
B: …
C: …
A: Qualcuno vuole provare?
B: ...
C: …
A: Ok, proviamo a rispondere insieme.
Coppie adiacenti
Nella conversazione è frequente l’utilizzo di enunciati strutturalmente collegati, detti coppie adiacenti. In
genere, la formulazione del primo elemento di una coppia richiede la formulazione, al turno successivo e
nei turni immediatamente successivi, del secondo elemento: se questo non accade, la conversazione
potrebbe interrompersi. Alcuni esempi di coppie adiacenti sono i saluti (buongiorno/arrivederci), le scuse e
la loro accettazione (mi scusi/non si preoccupi), i ringraziamenti (grazie/prego), le domande e risposte, gli
inviti (ti va di andare a cena insieme? / Certo, volentieri).
Un altro principio fondamentale nell’analisi della conversazione è la preferenza. Gli elementi di una coppia
adiacente non sono fissi; nel senso che, a fronte di una domanda semplice del tipo “come stai?” la risposta
potrebbe essere tanto “bene, grazie” quanto “sono stato malissimo”. La prima risposta, tuttavia,
rappresenta un’alternativa istituzionalizzata, in qualche modo attesa e implicita nella domanda, mentre la
seconda risposta presuppone l’apertura di un quadro di riferimento nuovo e inatteso, e la necessità di una
riformulazione delle strategie conversazionali in atto. In questo caso si dice che la prima risposta è
preferita: questo non implica desideri o disposizioni personali e soggettive, ma una naturale
predisposizione della conversazione, verso uno dei tanti percorsi d’azione disponibili, alternativi e non
equivalenti.
In genere le coppie adiacenti sono consequenziali, ma possono essere anche strutturate all’interno di altre
coppie adiacenti: in questo caso si parla di sequenze complementari.
A: Vieni a cena con noi stasera?
B: Francesco viene?
A: Penso di sì…
B: Allora non vengo.
La riparazione
Una conversazione reale non è esente da fenomeni di disturbo, sia sul piano del contenuto
(fraintendimenti, conoscenza parziale dell’argomento, ecc.), sia sul piano della forma (pronunce sbagliate,
parole fuori contesto, ecc.) In questi casi, perché la conversazione non ne risulti inficiata sotto vari aspetti, i
parlanti hanno a disposizione varie pratiche di riparazione.
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Auto-riparazione: quando il parlante che ha introdotto l’elemento di disturbo ritorna sul proprio
enunciato riformulando in maniera appropriata.
A: Bisogna che il numero me lo segno sul diario sennò me lo dimentico… cioè sull’agenda, sennò va
a finire che lo perdo.
Etero-riparazione: quando un altro parlante, nel suo turno di parola successivo a quello con
l’elemento di disturbo, interviene correggendo questo elemento e ristabilendo la normalità della
struttura dialogica.
A: da domani prima di uscire dal lavoro non dobbiamo più firmare, dobbiamo strisciare il budget.
B: forse vuoi dire il badge…
Riparazione etero-iniziata e auto-completata: quando un secondo parlante interviene iniziando la
riparazione, magari anche soltanto attraverso una richiesta, ma non la termina, e la riparazione
viene portata a termine dallo stesso parlante che ha introdotto l’elemento di disturbo.
A: allora, adesso le devo fare l’anamnesi
B: eh?
A: dicevo, adesso vi devo fare un po’ di domande sul vostro stato di salute, sulle malattie che avete
avuto in famiglia, se avete fatto operazioni recenti, queste cose…
B: Ah, va beh dottore…
Riparazione auto-iniziata e etero-completata: quando il parlante che ha introdotto l’elemento di
disturbo inizia la riparazione, anche solo con una richiesta, e poi interviene un secondo parlante che
completa la riparazione.
A: Sul telefono non mi funziona internet, cioè non è che non funziona, come si dice...
B: Hai finito il traffico dati…
A: Eh, sì, per questo mese l’ho finito, fino al primo sono senza
Tecniche, procedure e strategie conversazionali
Ogni parlante, all’interno di una conversazione, mette in atto delle azioni, volte a perseguire degli obiettivi
e ottenere dei risultati. Ciò avviene attraverso tecniche, pratiche e procedure specifiche: in ambito
conversazionale, si può dire che una tecnica è un intervento realizzato attraverso particolari mezzi, una
procedura è l’applicazione di questi mezzi secondo uno schema prefissato che ne garantisce l’efficacia, una
strategia è l’individuazione dello scopo da raggiungere con l’applicazione di determinati mezzi.
Questi strumenti sono di solito condivisi dai parlanti, che li usano alternativamente per raggiungere i propri
scopi comunicativi e per comprendere ed eventualmente cooperare al raggiungimento di quelli degli altri.
Essi tuttavia dipendono dalla comunità di riferimento dei parlanti, sono fattori culturali, e pertanto in una
conversazione con due parlanti di due comunità diverse si potrebbero creare dei fraintendimenti
(miscommunication), basati ad esempio su diverse interpretazioni delle stesse strategie conversazionali. In
questi casi, come in altri, possono intervenire procedure di negoziazione del significato, che permettono ai
parlanti di accordarsi sul significato da dare a determinate espressioni o a determinati enunciati.
Apertura e chiusura di una conversazione
Apertura: avviene per mezzo di procedure ben precise, che sono largamente codificate e dipendono sia dal
tipo di conversazione (a voce vs. telefonica), sia dai ruoli espressi (conversazione simmetrica vs.
asimmetrica), sia dalle conoscenze di sfondo nonché dall’eventuale condivisone di aspetti culturali e sociali
specifici.
Chiusura: è in genere più complessa dell’apertura, perché meno codificata; in linea di massima, deve
avvenire quando è chiaro a tutti che tutti hanno espresso il proprio pensiero sull’argomento oggetto di
conversazione, e in modo che la chiusura avvenga senza che ciò influisca sul rapporto tra i parlanti. La
chiusura, inoltre, presuppone l’uscita dal sistema della presa di turno, che è diversa, ad esempio, dal
silenzio, che non rappresenta automaticamente la chiusura di conversazione.
Pratiche per la chiusura di una conversione NON C’è SULLA VERIFICA
Sequenze terminali: enunciati largamente codificati che presuppongono l’intenzione da parte di un parlante
di chiudere la conversazione, intenzione poi accettata dal secondo parlante; spesso si tratta di coppie
adiacenti:
A: Ci vediamo alle nove allora.
B: Alle nove? Ok, va bene.
A: Va bene.
B: Ciao.
A: Ciao.
Sequenze pre-chiusura: prima della chiusura vera e propria, tuttavia, è necessario essere sicuri che tutto
quello che i parlanti volevano dire sugli argomenti della conversazione è stato detto; infatti, se ciò non
fosse, una sequenza terminale potrebbe essere interpretata in maniera diversa, ad esempio come una
forma di rifiuto, o espressione di astio. Per questo, prima della sequenza terminale, i parlanti possono
mettere in pratica delle sequenze pre-chiusura, che garantiscono che tutto ciò che doveva essere detto è
stato detto; anche le sequenze pre-chiusura in genere sono coppie adiacenti:
A: Ci vediamo alle nove allora.
B: Alle nove? Ok, va bene.
A: Va bene.
B: Ciao.
A: Ciao.
Momenti comunicativi che implicano la chiusura: una sequenza terminale, eventualmente preceduta da
una sequenza pre-chiusura, non può essere inserita in qualsiasi punto della conversazione; il principio da
rispettare è che comunque sia chiaro a tutti che tutti hanno detto quello che volevano dire sull’argomento;
ci sono tuttavia delle ulteriori pratiche che permettono ai parlanti di introdurre momenti comunicativi che
presuppongono una proposta o un annuncio di chiusura, che potrebbe anche non essere accettata.
A: Dobbiamo decidere della cena di domani, dove la facciamo, a che ora ci vediamo, chi invitiamo…
B: Che ne dici se ci vediamo alle otto?
A: Per me va bene…
B: Allora ciao.
A: …
A: Dobbiamo decidere della cena di domani, dove la facciamo, a che ora ci vediamo, chi invitiamo…
B: Che ne dici se ci vediamo alle otto?
A: Per me va bene…
B: Ah, scusa, mi sono ricordato che devo passare in farmacia, ne possiamo parlare dopo?
A: Ok, dai, ci sentiamo dopo.
B: Ciao.
A: Ciao.
Momenti comunicativi che implicano la chiusura: un altro sistema per presupporre una chiusura della
conversazione è l’intesa, o accordo, che veicola la proposta da parte di uno dei partecipanti della chiusura
della conversazione con rimando ad un’ulteriore, successiva conversazione:
A: Tanto finché non sento Alberto non riusciamo a metterci d’accordo su questa cosa della conferenza.
B: Eh sì, mi sa di sì…
A: Senti, che ne dici se ne riparliamo dopo che sarò riuscito a rintracciarlo? Così avremo le idee più chiare…
B: Sì dai...
A: Va bene, allora ciao.
B: Ciao.
Momenti comunicativi che implicano la chiusura: un altro modo per anticipare una chiusura è la
formulazione di un sommario della conversazione, che possa anche fornire lo strumento di controllo sugli
argomenti trattati o eventualmente ancora da trattare:
A: Insomma, te lo ripeto: a me quel tizio non mi piace, penso che per lei non va bene, e se continua con lui lei
va a finire male…
B: Eh, sì…
A: Va beh…
B: Va beh, dai, ciao.
A: Ciao.
Momenti comunicativi che implicano la chiusura: un sistema meno diretto per proporre di chiudere una
conversazione è il ringraziamento, specialmente se la conversazione è avvenuta al telefono:
A: Hai capito come stanno le cose?
B: Ho capito, ho capito… va beh, dai, comunque grazie per la telefonata, m’ha fatto piacere risentirti.
A: Scherzi? Dai, ci risentiamo.
B: Ciao.
A: Ciao.
Momenti comunicativi che implicano la chiusura: un altro sistema è l’uso di una sequenza di chiusura di una
sequenza:
A: E insomma, staremo a vedere…
B: Eh sì, staremo a vedere…
A: Dai, ciao.
B: Ciao.
Momenti comunicativi che implicano la chiusura: infine, un modo per annunciare la chiusura di una
conversazione è il ricorso a riferimenti al pregresso, cioè a quello che è stato detto, per evidenziare che
nient’altro necessita di essere aggiunto:
A: Allora, per essere sicuri: ci vediamo domani alle nove...
B: Sì…
A: In piazza…
B: Sì…
A: Già mangiati…
B: Eh..
A: Ok, buona serata allora.
B: Ciao.
A: Ciao.
La trascrizione conversazionale
Nell’analisi della conversazione è fondamentale che l’evento comunicativo reale, opportunamente
registrato, sia poi trascritto in forme funzionali all’analisi stessa. Non c’è un sistema universalmente
riconosciuto per la trascrizione conversazionale, ma vi sono comunque delle convenzioni largamente
accettate dalla comunità scientifica.
02/04/2019
Questione della lingua nel secondo Ottocento
Graziadio Isaia Ascoli  è un glottologo dell’università di Milano, nel 1871 viene chiamato ad insegnare
glottologia all’università. È stato una figura importante e rappresentativa della glottologia europea e
italiana ha vinto il Nobel per i saggi ladini nel 1873, il premio Bop (premio dato dalla Germania, nazione
egemone nella cultura, nell’economia, nella scienza, ecc.). gli studiosi degli stati uniti che volevano
specializzarsi in linguistica si spostavano in Europa, soprattutto in Germania.
Fu senatore a vita per motivi scientifici, senza essere eletto (1887-88); l’anno dopo, tramite il suo
intervento, anche un altro glottologo che insegnava a Torino fu designato senatore a vita. Ciò accadde
perché erano figure di spessore europeo, ed in quel periodo c’era maggior sensibilità umanistica (oggi
sarebbe impensabile insignire due glottologi della carica di senatore a vita).
Fu il primo ad interessarsi della questione della lingua, che non nasce con Manzoni ma ha una tradizione
plurisecolare: da Dante Alighieri con De Vulgari eloquentia; scrisse dei testi specifici sulla questione della
lingua (4).
La linguistica studia in modo scientifico il linguaggio e le lingue e ci sono almeno due direzioni
metodologiche e teoriche in cui inserirsi per studiarlo: la prima è storica o diacronica, studia come e perché,
nel tempo e nello spazio (famiglia neolatina romanza, latino, portoghese, rumeno, franco-provenzale), le
lingue hanno subito dei mutamenti nel corso del tempo.
L’altro metodologia è quella sincronica, che si interessa di un periodo particolare della linguistica a
prescindere dalla storia.
Infine, c’è la prospettiva diastratica, ossia come una lingua viene parlata dai vari strati sociali (sociologia).
Venne definito glottologo, perché essendo in Italia c’è una specificità linguistica. La linguistica è un termine
di spessore europeo, la glottologia è un settore di cui si interessa il linguista.
Nel 1875, Ascoli ha pubblicato uno scritto, al nono congresso pedagogico italiano che si svolse a Bologna
nel 74. L’insegnamento teorico della lingua mediante la grammatica, è opportuno nelle scuole elementari?
Ammesso che si riconosca tale non sarebbe più conveniente riservarlo ad un livello superiore?  siamo in
un altro ramo della linguistica: linguistica applicata alla didattica.
La linguistica applicata non nasce nella 2 metà del secolo scorso, nel 1875 se ne occupò infatti anche Ascoli.
La questione della lingua a quale prospettiva si riferisce? La linguistica normativa è sorta per motivi pratici,
applicativi, ha uno scopo volto a individuare il criterio in base al quale si forma la lingua standard, non è uno
scopo scientifico. È stato inserito nella sua rivista dedicata ad argomenti esclusivamente linguistici; il primo
volume fu dedicato al fondatore della linguistica storica (Frederik …), dove Ascoli ha inserito i suoi Saggi
ladini. L’idea di occuparsi della questione della lingua, nel 1868, come gli è venuta? Dopo 21 anni
dall’ultimo suo lavoro, lettera a Giacinto Carena.
Ministro della pubblica istruzione di allora, Emilio Broglio, nel 1868 ha nominato una commissione con lo
scopo di ricercare e proporre tutti i provvedimenti e i modi con i quali si possa aiutare a rendere universale
in tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona pronuncia. La commissione di Milano
era presieduta da Alessandro Manzoni (14 Gennaio). Il 19 Febbraio, Alessandro Manzoni presenta la sua
relazione sull’argomento, pubblicata su un quotidiano milanese (La perseveranza) e nella nuova antologia
di Firenze.
Ascoli fu un grande glottologo linguista, ma anche un intellettuale impegnato, ha raggiunto l’unità della sua
personalità prof universitario, studioso, senatore (si interessava di politica), era un intellettuale che si
preoccupava di partecipare ai dibattiti culturali del tempo uno di questi era la questione della lingua. Era
conosciuto, stimato al di là dell’università di Milano, anche da Carducci e da Pascoli. Carducci ci lascia una
testimonianza importantissima: è una lettera di Carducci all’amatissima Carolina Cristofori Piva (?) il 2
giugno 1878, dove riproduce un ampio passo di una lettera che Ascoli gli aveva inviato: “ora senti cosa mi
scrive Ascoli, […]”. Nell’ambiente milanese, si dibatteva su quest’argomento e molti intellettuali volevano
sapere cosa ne pensava Ascoli, che ha scritto il Proemio.
Contribuire affinché ognuno acquisisca una mentalità scientifica; l’impatto sulla formazione dello studente
come uomo e cittadino di domani (Don Lorenzo Milani, “Lettera a una professoressa”, “è la lingua che ti
rende cittadino”). La lingua ti rende cittadino attivo che porta con sé una mentalità scientifica; tanto più lo
studente viene educato ad acquisire una competenza più appropriata possibile in ogni campo, tanto più
riuscirà ad essere protagonista della vita politica e culturale del suo tempo, non un ricettore passivo.
Queste competenze si acquisiscono, non è un dono del Fato.
Dante dice che Guido da Montefeltro, un capitano di ventura libertino, che per una scaramuccia fu ferito a
morte e stava agonizzando; nel frattempo Dante, immaginò questa scena dove un angelo e un diavolo sono
andati a prendere possesso l’anima di Guido da Montefeltro, invece lui si pente nell’ultimo istante e Dante
crea questa immagine poetica per cui per una lacrimuccia il diavolo se ne andò e non riuscì a prendere
possesso della sua anima  fino all’ultimo uno può cambiare.
Cosa significa linguistica normativa? Lingua comune che è stata dibattuta fin dal 300, da Dante in poi. Era la
lingua con cui scrivevano per motivi letterari, aulici, era di elezione modellata sul modello di Dante,
Petrarca e Boccaccio. Non era mai diventata una lingua effettivamente dell’uso parlato, non era mai
penetrata negli strati sociali, che erano fermi all’uso dei dialetti.
Cosa significa educazione linguistica? È l’educazione ad acquisire la competenza a 360°; espressione coniata
da Tullio De … La lingua veniva imparata scolasticamente, non era un uso spontaneo e naturale della lingua.
Manzoni voleva imporre la lingua del 300.
Manzoni e Ascoli si sono inseriti nella storia, hanno entrambi tenuto presente tutto l’arco della tradizione
della lingua. Entrambi erano insoddisfatti degli obiettivi e il modo con cui la lingua era stata impostata nei
secoli. Hanno propugnato un modo diverso, una lingua da usarsi nello scritto e nel parlato in tutti gli strati
sociali, valenza civile e sociale pratica. Entrambi, considerando il fiorentino la base storica dell’italiano
letterario, erano contrari ai giuristi fermi alla lingua del 300, ma la preoccupazione maggiore era mettere a
fuoco come estendere la lingua unitaria per l’uso da parte di tutti gli strati sociali; c’era l’esigenza di
rinnovare la società italiana anche dal punto di vista linguistico, per avere uno stato moderno. C’è
l’apertura alla nascita degli altri paesi europei: questa problematica è esclusivamente italiana. L’esigenza di
rinnovamento linguistico nacque nel secondo 700, soprattutto a Milano con Carlo Cattaneo.
Gli studi erano diretti verso l’acquisizione della prosperità, l’Itali deve tenersi all’unisono con l’Europa, non
deve avere un nobile posto nell’associazione scientifica dell’Europa e del Mondo. Non si deve partecipare
alla guerra del progresso e l’inerzia, tra pensiero e ignoranza ogni idea vera è buona, da qualunque
paese, da qualunque lingua ci arrivi, come se fosse nostra.
Qual è la differenza tra la posizione di Manzoni e Ascoli? Ascoli è il primo il quale propugna con il Proemio,
dal punto di vista storico, che non è possibile legare il fiorentino parlato alla norma della lingua standard in
Italia. Certe differenze del dialetto fiorentino si notano, non aveva recepito il nuovo vocabolario (la o breve,
non era attestata nel fiorentino). Per esaminare e studiare una lingua non c’è bisogno soltanto del lessico e
la pronuncia, ma anche la morfologia e la sintassi secondo i canoni. Ascoli dice che la conoscenza delle
vicende storiche che hanno condizionato l’italiano dal 300 in poi, è un modo per impostare su una base
rigorosa e attendibile … . Per Ascoli il moderno è la Germania, perchè è più vicina all’Italia, mentre Parigi è
stato sempre il centro egemone della vita culturale, ogni novità proveniva da Parigi e veniva accettata dai
letterati. Inoltre, Parigi era la capitale di uno stato centralista, ciò non successe mai con Firenze.
Manzoni diceva che la lingua è a Firenze, come il francese è a Parigi e il latino a Roma. Ascoli dice che la
Germania non aveva unità a livello religioso, a differenza dell’Italia. La Germania è caratterizzata da densità
intellettuale, che a Firenze scarseggiava. In Germania non c’era una differenza, una frattura tra chi sapeva e
chi no, c’erano personalità intermedie che diffondevano. L’Italia ha avuto grandi maestri e studiosi, ma
manca un numeroso numero di seguaci e discepoli che potevano diffondere i risultati della scienza. 
l’Ascoli voleva conoscere, eguagliare e superare la Germania, per cui ha fondato un’organizzazione di
ricerca scientifica moderna, perché gli scienziati erano isolati, perché i giovani volevano questo.
Ascoli dice che si propone lo studio scientifico dei dialetti quindi non c’è contraddizione con la questione
della lingua. Perché ha sfatato l’egemonia della Germania? Con la 2° rivoluzione industriale, scalza dal
primo posto l’Inghilterra, quindi non era sempre stata uno stato egemone. La lingua per eccellenza è stata
quella dei greci diffusa anche dal Alessandro Magno che ha avuto come maestro Aristotele: “la Grecia è
fatta prigioniera politicamente, ma ha conquistato il vincitore feroce, selvatico ed ha introdotto le arti al
selvatico Lazio” (frase di…). Il latino ha una peculiarità ossia è durata più a lungo: dalla Finlandia fino al
Portogallo era la lingua dei dotti, della diplomazia e dell’università, ecc. fino ai primi decenni dell’800 (le
lezioni, la tesi, la discussione era in latino). La diplomazia oggi richiede il francese, perché Luigi XIV ha
sostituito il latino con il francese.
Dante e Petrarca scrissero in latino; tutta la cultura umanistica è in latino. Durante l’illuminismo il latino
viene scalzato dal francese, come nel primo 800. Successivamente, divenne il tedesco. Oggi, la lingua della
scienza e della tecnologia mondiale è l’inglese. I più grandi studiosi, linguisti ecc. provengono dagli stati
uniti (il più grande Noam Chomsky).
Prima della prima guerra mondiale, si credeva che con il progresso scientifico inarrestabile, l’uomo avrebbe
risolto i suoi problemi la belle époque ottimismo infranto con la prima guerra mondiale. Dopo di essa,
l’Europa ha perso l’egemonia intellettuale e scientifica. Hitler e Stalin hanno perseguitato gli scienziati ebrei
che erano protetti dagli americani Jakobson era stato accolto dagli Stati Uniti. Se gli scienziati avessero
continuato il loro lavoro in Europa, oggi forse si dovrebbe imparare di nuovo il tedesco.
Sia Manzoni che Ascoli hanno cominciato a conoscere la tradizione della lingua. Sulle radici giudaicocristiane si sono innestate altre radici quelle del nostro rinascimento, del romanticismo, ecc. Tutte queste
radici concorrono a determinare l’identità dell’Europa, che oggi non sa chi è né da dove viene.
Educare al senso storico.
. Senso critico, senso della storia, essere dei cittadini.
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