I SEGRETI DELLA TERRA – corso di geografia fisica e geomorfologia- 1. IL CIELO VISTO DALLA TERRA Le unità di misura Per avere indicazioni sulle dimensioni di un corpo celeste, esulando da eventi nel nostro campo sensoriale, possiamo misurare il suo diametro angolare, vale a dire l’angolo sotto cui può essere osservato, che risulta comunque una misura dipendente anche dalla distanza del corpo. Per conoscere la distanza di un corpo celeste può essere a sua volta utilizzato un metodo indiretto, ad esempio, si può: Valutare il tempo che impiega un nostro segnale ad arrivare su tale corpo e ritornare Si può misurare lo spostamento apparente che subisce nella volta celeste in due opportune osservazioni successive Le entità misurate presentano dimensioni alquanto varie, si possono così individuare diversi ordini di grandezza di una misura (= valore approssimato di quella misura all’esponente della potenza del 10 immediatamente minore). Per esempio: Massa di 315 Kg 3,15 x 10 ^2 ordine di grandezza 2 Massa di 1300000 Kg 1,3 x 10^6 ordine di grandezza 6 La misura del tempo Il trascorrere del tempo può essere stabilito per confronto con fenomeni che abbiano uno svolgimento caratterizzato da continuità, uniformità o da periodicità. Da sempre l’uomo ha regolato le proprie attività sulla base dei moti sulla sfera celeste ed, in particolare, sul movimento apparente del Sole nel cielo. La descrizione dei moti dei diversi corpi sulla volta celeste è un buon metodo di misura del trascorrere del tempo. L’intervallo che trascorre tra due passaggi successivi di una medesima stella fissa è definito giorno sidereo (= il tempo trascorso tra due passaggi allo zenit di un corpo celeste molto lontano) quest’unità di misura, basata sulla velocità di rotazione del nostro pianeta, permette anche il calcolo dei relativi sottomultipli come ad esempio l’ora siderale. Giorno solare: intervallo trascorso tra due successivi passaggi del Sole sullo stesso meridiano del luogo. Il giorno solare ed il giorno sidereo differiscono di un piccolo, ma apprezzabile intervallo, dovuto alla combinazione del movimento di rotazione terrestre con il moto di rivoluzione. Consideriamo l’inizio comune dei due giorni (sidereo e solare) entrambi caratterizzati dalla congiunzione tra una particolare stella fissa ed il Sole sul meridiano di riferimento: Dopo un intervallo paro al tempo siderale (23 ore, 56 minuti, 4 secondi) corrispondente ad un’intera rotazione della Terra attorno al proprio asse, la stella fissa si ritroverà nuovamente nella posizione iniziale, mentre il Sole risulterà in ritardo. I due assi non si troveranno più in congiunzione: ciò è dovuto allo spostamento della Terra sul piano dell’ellittica in seguito al suo moto di rivoluzione attorno al Sole. Perché il Sole si ritrovi allineato allo stesso meridiano è necessario: Rotazione della terra 360° + Quantità angolare da imputarsi alla rivoluzione terrestre = 4 minuti Valore non costante durante tutto l’anno (La Terra si muove con velocità variabile lungo la sua orbita) Maggiore quando è più vicina dal Sole e minore quando è più lontana dal Sole. Per questa ragione è stato introdotto il giorno solare medio (24h). Le differenze che esistono tra anno solare siderale e tropico si ripercuotono sulla determinazione dei calendari. Il calendario Nel corso della storia, l’umanità, per registrare il susseguirsi degli eventi, si è riferita alla posizione nel cielo del Sole o della Luna o di entrambi, dando così origine a calendari lunari, solari o lunisolari. Le numerose incongruenze e modifiche apportate, convinsero Giulio Cesare ad approntare la riforma del calendario (calendario giuliano), promulgata nel 46 a.C. Il calendario giuliano eliminò ogni dipendenza dai cicli lunari ed introdusse l’anno bissextus pridie Calendas Martias (bisestile) ogni tre anni normali, costituito da un anno con un giorno supplementare, inserito tra il 23 ed il 24 di Febbraio. Nel 1582, in seguito alle innegabili difficoltà prodotte dai precedenti calendari, Papa Gregorio XIII ne impose la revisione conosciuta perciò come riforma gregoriana. Si rese necessario, infatti, correggere il precedente calendario togliendo tre giorni ogni 400 anni. La rifora gregoriana produsse quindi una modifica delle date per ovviare agli errori accumulatosi negli anni, cosicchè al giorno giovedì 4 ottobre 1582 seguì il venerdì 15 ottobre 1582. La riforma stabilì anche che gli anni bisestili dovessero essere ogni 4 anni e quelli d’inizio secolo fossero bisestili solo se divisibili per 400. L’astronomia Keplero formulò tre leggi fondamentali del moto dei pianeti: I. II. III. Ogni pianeta descrive nel suo moto attorno al sole un’orbita ellittica di cui il Sole occupa uno dei due fuochi. Le aree descritte dal raggio vettore, cioè dal segmento che unisce il Sole al pianeta, sono proporzionali al tempo impiegato a descriverle. I quadrati dei tempi impiegati dai vari pianeti a percorrere le rispettive orbite sono inversamente proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle orbite stesse. Da queste leggi derivano immediatamente alcune conseguenze: io pianeti si muovono con velocità differente lungo l’orbita inoltre, questa velocità è tanto più grande quanto più il pianeta si trova vicino al Sole. I pianeti più vicini al Sole possiedono perciò periodi di rivoluzione più brevi di quelli più lontani. Isaac Newton, infine, investigò le cause del moto dei pianeti giustificando le osservazioni con la sua legge di gravitazione universale. Le dimensioni del cosmo La valutazione delle dimensioni dell’Universo si consegue misurando le distanze che intercorrono tra la Terra e i corpi più lontani. Tale distanza si ottiene attraverso la misura delle radiazioni emessedai vari corpi celesti: luce e onde radio, di cui conosciamo la velocità. La luminosità che è percepita sulla Terra, detta luminosità apparente, è fondamentalmente la combinazione di due parametri: la distanza e la luminosità assoluta o magnitudine. La distanza delle stelle più vicine può essere misurata con il metodo della parallasse annua. Questo metodo consiste nel misurare l’angolo di parallasse ovvero l’angolo formato dalle congiungenti Stella-Sole e StellaTerra quando questa si trova in condizione di afelio, quando cioè si trova alla massima distanza dal Sole. La distanza corrisponde ad un angolo pari ad 1’’ di grado che è detto parsec. Questa corrisponde anche a circa 3 anni luce (3al). Un anno luce, sapendo che la luce viaggia ad una velocità di 300000 km/s, è la 13 distanza percorsa dalla luce in un anno, in altre parole 10 km circa. Di certo sappiamo che nell’Universo visibile esiste una radiazione cosmica di fondo che lo pervade in ogni parte e che l’universo stesso è in espansione. Nel caso di una sorgente di emissione (una stella) che si allontana, le lunghezze d’onda nello spettro d’emissione che registriamo tenendo ad aumentare mentre, nel caso si un avvicinamento, queste tendono a diminuire. Questo fenomeno è conosciuto in fisica come effetto doppler ed è facilmente verificabile per tutte le emissioni ondulatorie quindi anche per quelle sonore. Questa velocità di allontanamento reciproco (velocità di recessione) non è costante in tutto l’Universo, ma aumenta proporzionalmente con la distanza, cosicchè il rapporto con la velocità di recessione e distanza rimane costante. Questo valore è conosciuto come costante di Hubble (H) ed è attualmente valutato in 40%90 km/s per milioni di persec. L’evoluzione dell’universo La Teoria del Big Bang risponde a molti quesiti, ma ne apre di nuovi. Durante l’espansione ed il raffreddamento iniziale si raggiunsero distanze critiche minime, si ebbe l’evoluzione delle diverse forze naturali (forza di gravità, forza elettromagnetica debole, forza elettromagnetica, forza nucleare) a partire da una “super-forza iniziale” (rottura della simmetria). In questa prima fase d’espansione dell’universo, la temperatura si abbassò dapprima sotto il miliardo i gradi poi quando raggiunse i 3000 K si cominciarono a formare i primi atomi di idrogeno (H) e di elio (He), che rappresentano tutt’ora gli elementi più abbondanti anche nel sistema solare. La materia divenne più trasparente e l’energia cominciò a diffondersi nello spazio, sotto forma di energia radiante. Da questo momento il cosmo divenne sempre meno luminoso fino alle attuali condizioni di buio cosmico. Tra i problemi non risolti della teoria del big bang vi è quello cosiddetto dell’orizzonte. Una delle soluzioni a questo problema consiste nella teoria dell’Universo Inflazionario in cui in un momento iniziale, durato un intervallo molto breve, una porzione omogenea della sfera subì un espansione accelerata. In pratica si sono prodotti una serie di universi paralleli con i quali non è possibile comunicare. Secondo questa teoria il nostro universi non sarebbe dunque l’unico esistente, ma l’unico che possiamo conoscere. Un altro problema di difficile spiegazione con la teoria del big bang consiste nel giustificare la distribuzione non omogenea delle masse nel nostro universo. La struttura dell’universo L’intero universo è popolato da galassie costituite da miliardi di ammassi stellari e da gas. Le galassie possono apparire, quando molto vicine, come chiazze o strisce nebulose; quando sono molto lontane possono sembrare una stella singola. La maggior parte della galassie ha una forma a disco appiattito, eventualmente con un rigonfiamento centrale, e molto spesso presenta l’andamento a spirale con diametro medio di 100000 anni luce. La galassia in cui è localizzato il Sole e tutto il suo sistema solare è conosciuta con il nome di Via Lattea. In una galassia come la nostra si distinguono un ammasso sferico (alone) ed un disco appiattito ortogonale all’asse di rotazione della galassia. Il disco comprende gli ammassi stellari (anche il Sole) più giovani oltre a gas e polveri che potrebbero costituire la materia prima per la formazione di nuove stelle. L’aspetto dell’Universo è quindi quello di un immenso spazio vuoto. Anche i quasar, scoperti negli anni ’60, sono delle sorgenti molto intense di emissioni. Si trovano a grandissima distanza dalla Terra e quindi possiamo supporre che la maggior parte di essi siano esistiti in un lontano passato e debbano la loro grande energia alla collisione di due galassie attratte reciprocamente o alla presenza di un buco nero. Un buco nero è ipotizzato solo dal punto di vista teorico. Dal punto di vista teorico le dimensioni del buco nero sono date dal raggio di Schwarzschild direttamente dipendente dalla massa ed inversamente alla velocità della luce al quadrato: R = 2GM 2 C Dove R è il raggio di Schwarzschild, G è la costante di gravitazione universale (6,67 X 10 massa del corpo e c è la velocità della luce (300000 km/s). -17 2 2 Nm /kg ), M è la 2. LE STELLE Le stelle sono sorgenti di energia, prodotta in seguito alle reazioni nucleari che avvengono al loro interno. La quantità di energia emessa determina la luminosità della stella, che dunque, non è costituita dalla luce visibile emessa, ma da tutto il suo spettro di emissioni elettromagnetiche. 26 L’energia emessa dal Sole è pari a 3,86 X 10 J/s che è l’energia sufficiente a portare all’ebollizione un cubo di ghiaccio con lo spigolo di 1km in un secondo. La luminosità delle stelle, ovvero la magnitudine assoluta, si ottiene per confronto con quella del Sole che ha magnitudine uno. Per la stima dei raggi stellari, si utilizzano sistemi di misura indiretti che indagano sia la luminosità e sia la temperatura superficiale di un corpo (LEGGE DI STEFAN). La composizione chimica delle stelle si ottiene analizzando il loro spettro d’emissione. In questo caso, si riescono a determinare con molta precisione gli elementi presenti alla loro superficie esterna, mentre è più complicato determinare la composizione del nocciolo, situato nella parte più interna della stella. Evoluzione delle stelle Le stelle possono formarsi quando vi è sufficiente materia in grado di condensarsi. Le stella hanno un loro ciclo vitale e subiscono perciò un evoluzione Esaminiamo il Sole: tra le prime teorie ipotizzate vi era quella che ipotizzava il Sole come un forno in cui la produzione di energia era sostenuta da processi di tipo chimico, ad esempio la combustione. Questa teoria non può essere accettata perché la combustione degli elementi leggeri del Sole è esauribile. Ipotizzando invece cause gravitazionali, in altre parole in seguito alla compressione della massa solare, il periodo di emissione non potrebbe eccedere i 100 milioni di anni. La compressione gravitazionale ha però suggerito un elemento utile per spiegare il processo di “accensione” del Sole. In pratica, in una stella si bilanciano continuamente forze responsabili della compressione, dovute all’attrazione gravitazionale, e forze responsabili dell’espansione, dovute alle reazioni nucleari. L’equilibrio all’interno della stella dipende quindi dalle masse in gioco e principalmente dalla massa iniziale. L’energia che proviene da una stella è quindi da imputare a reazioni di fusione nucleare. In pratica la concentrazione nucleare fa sì che il gas dell’ammasso proto-stellare si riscaldi fino a che viene raggiunta la temperatura di innesco della reazione: almeno 15 milioni di gradi; da questo momento, la reazione si autosostiene fino a che vi è abbastanza combustibile. In una stella la reazione di fusione nucleare inizia con la fusione di atomi di idrogeno ed atomi di elio. Nel diagramma Hertzsprung-Russel, la maggior parte delle stelle è disposta in una fascia che attraversa diagonalmente il diagramma dalla parte superiore sinistra (alta luminosità e temperatura) alla parte inferiore destra (bassa luminosità e temperatura); a questa fascia si assegna il nome di sequenza principale. Le stelle rimangono per la maggior parte della loro vita nella sequenza principale. Quando si esaurisce l’idrogeno, la stella inizia a raffreddarsi e ricomincia a contrarsi. Se la massa è inferiore a metà di quella del Sole, la contrazione gravitazionale non consente un riscaldamento sufficiente perché si inneschi di nuovo un processo di fusione nucleare. Lentamente la stella si muove lungo il diagramma procedendo verso il settore sinistro, divenendo una nana bianca, ovvero una stella che sui sta spoegnendo. Se invece la massa è maggiore di metà di quella solare, la contrazione gravitazionale permetter il raggiungimento di temperature superiori a 100 milioni di gradi, sufficienti ad innescare la fusione dell’elio. Se inizia la fusione dell’elio avviene una repentina dilatazione della stella che aumenta notevolmente il proprio volume. L’espansione comporta che, a parità di luminosità e quindi di energia emessa, la temperatura superficiale tenda a diminuire cosicchè nel diagramma la stella si sposta verso destra nella regione delle giganti rosse. Esse presentano un nucleo in cui avviene la reazione di fusione dell’elioi in carbonio ed in parte anche di elio in ossigeno, una zona più esterna dove è mantenuta la reazione di fusione dell’idrogeno in elio e un settore ancora più esterno dove le temperature non sono sufficienti a mantenere le reazioni di fusione. Stelle con massa maggiore subiscono varie fasi di riscaldamento ed espansione La stella diviene allora una supernova (atella di neutroni) e praticamente subisce un esplosione. Se la stella di neutroni ha una massa molto grande, può dare origine anche ad un buco nero. Il Sole Il Sole è la stella a noi più vicina, dista infatti 1 UA che è pari a 150 milioni di km. È una delle numerose stelle che compongono la nostra galassia. La forma del Sole è approssivativamente sferica con un raggio di 696218 km. È costituito da un gigantesco ammasso di gas, principalmente idrogeno (H) 73% ed elio (He)25%, quest’ultimo elemento deve proprio il suo nome al Sole. Il rimanente 2% di materia è costituito da numerosi altri elementi, tra cui abbondandi sono: Ossigeno Carbonio Ferro Neon Azoto Silicio Magnesio Zolfo Argon Nichel Calcio La massa del Sole può essere calcolata utilizzando la terza legge di Keplero .. .. I quadrati dei tempi impiegati dai vari pianeti a percorrere le rispettive orbite sono inversamente proporzionali ai cubi dei semiassi maggiori delle orbite stesse. La trasmissione di calore dall’interno verso l’esterno nel nucleo avviene per irraggiamento mentre, nella parte più esterna prevale la trasmissione per convezione. Le tecniche di studio del Sole permettono di distinguere un interno del Sole ed una zona visibile comprendente anche l’atmosfera solare. La superficie della fotosfera appare interessata dalla presenza di macchie continuamente variabili in posizione e forma. Una macchia solare tipica è costituita da una zona circolare scura detta ombra, cisrcondata da un alone a struttura radiale meno scuro, detto penombra. L’osservazione sistematica delle macchie solari ha permesso di identificare una loro periodicità undecennale. In prossimità delle macchie solari si registrano zone di forte emissione luminosa delle facole. Lo spostamento delle macchie solari consente la comprensione del moto di rotazione solare attorno al proprio asse polare. L’atmosfera solare si protrae al di sopra della fotosfera anche per migliaia di chilometri. La cromosfera è costituita prevalentemente da idrogeno e presenta una colorazione rossastra dovuta alla presenza di questo gas. Osservata in dettaglio, evidenzia la presenza di getti, detti spicole, dalla forma conica. Esse assumono un aspetto ondeggiante, dando l’idea di un tappeto erboso in fiamme. In occasione di forti periodi di attività solare si può assistere a vere e propria eruzioni cromosferiche costituite da esplosioni di materia e di luce, accompagnate da emissione di onde radio e raggi X. Nonostante l’spansione permanente dell’atmosfera solare, la sua densità è mantenuta costante da un continuo flusso di particelle fortemente ionizzate provenienti dal Sole, che costrituiscono il cosiddetto vento solare. Le particelle cariche che giungono in prossimità della Terra deviano per la presenza campo magnetico terrestre verso i poli magnetici e, interagendo con alcune parti dell’atmosfera terrestre, provocano nel cielo delle regioni polari, in occasione delle emissioni più intense, gli spettacolari fenomeni noti come aurore boreali. 3. IL SISTEMA SOLARE Attorno al Sole si muovono una serie di corpi che compongono il sistema planetario. I movimenti dei vari corpi celesti attorno al Sole rispettano le tre leggi fondamentali del moto planetario, suggerite da Keplero e giustificate dalla più generale legge di gravitazione universale di Newton. Le varie entità che compongono il sistema planetario sono costituite, oltre che dal Sole, da: Pianeti Satelliti Asteroidi Comete I pianeti I pianeti sono corpi celesti che non emettono luce propria, ma risplendono nel cielo perché riflettono la luce proveniente dal Sole. Ad oggi sono conosciuti nove pianeti che, in ordine di distanza dal sole, sono: Mercurio Venere Terra Marte Giove Saturno Urano Nettuno Plutone La velocità di fuga è la velocità limite che può raggiungere un qualsiasi corpo per poter ricadere sul pianeta; una particella che si allontani dalla superficie di questo con una velocità superiore a quella di fuga, sfugge all’attrazione gravitazionale del pianeta. La presenza di un campo magnetico attorno al pianeta, invece, è testimonianza della sua attività endogena. I campi magnetici sono, infatti, generati dai movimenti di rotazione differenziale interni al nucleo fuso, in grado di produrre fenomeni simili a quelli che si generano in una dinamo (effetto dinamo). Il moto di rivoluzione dei pianeti nel sistema solare avviene lungo orbite quasi complanari, solamente Plutone presenta un’orbita che si discosta più di 17° dal piano dell’eclittica (piano dell’orbita terrestre). La rivoluzione di tutti i pianeti del sistema solare, ovvero il loro moto di rotazione attorno al Sole, avviene in senso antiorario. Il moto di rotazione intorno al proprio asse non è invece sempre nello stesso verso. I pianeti possono essere distinti in due tipi: terrestri e gioviani. I pianeti terrestri hanno masse piuttosto piccole, densità abbastanza elevate e consistenza solida (Mercurio, Venere, Terra, Marte i pianeti più interni). I pianeti di tipo gioviano sono invece quelli esterni caratterizzati da bassa densità e, con l’eccezione di Plutone, presentano grandi volumi e masse rilevanti. Mercurio Mercurio è il pianeta più interno del sistema solare. Ha dimensioni ridotte e volume di poco superiore a quello della Luna. A causa delle ridotte dimensioni e della vicinanza al Sole, è visibile solamente in due periodi della giornata: prima dell’alba e dopo il tramonto. La vicinanza al Sole condiziona fortemente le temperature della superficie di Mercurio. La faccia rivolta verso il Sole, infatti, arriva a temperature superiori ai 400°C mentre, sul lato non esposto, la temperatura può arrivare a -175°C. La superficie di Mercurio è caratterizzata dalla presenza di numerosissimi crateri da impatto, dovuti alla caduta di meteoriti. Nel caso di impatto di meteoriti ed asteroidi, si libera una grande quantità di energia e si produce la frammentazione della crosta nelle aree circostanti all’urto, favorendo così la formazione di un’imponente copertura detritica sulla superficie del pianeta, detta regolite. Gli impatti più violenti, provocati dai meteoriti di massa maggiore, possono addirittura provocare la fusione parziale delle rocce e la risalita di magma. Mercurio non ha più attività geologica interna poiché deve essersi completamente solidificato. Venere Venere è il secondo pianeta del sistema solare, ha un periodo di rivoluzione di 225 giorni terrestri e ruota lentamente attorno al proprio asseruota in senso orario. La mancanza di campo magnetico attorno al pianeta è spiegata con l’estrema lentezza del moto di rotazione venusiano che non riesce ad attivare quell’effetto dinamo. Venere ha dimensioni prossime a quelle della Terra. L’atmosfera di Venere contiene il 90% di Anidride Carbonica (CO2) e la presenza abbondante di questo gas serra contribuisce al raggiungimento di temperature alla superficie molto elevate (si arriva a 460°C). Tali temperature producono l’evaporazione sistematica dell’acqua che perciò non si rinviene alla stato liquido alla superficie del pianeta. La fitta atmosfera venusiana ci impedisce la vista diretta della superficie del pianeta. L’atmosfera di Venere, oltre ad essere molto densa, è anche caratterizzata da composti poco adatti alla vita così come la conosciamo sulla Terra; al suolo infatti, si hanno continue precipitazioni di acidi. I venti sono continui e di fortissima entità. La presenza di questa atmosfera così densa provoca un intenso effetto serra, in grado di intrappolare buona parte dell’energia che arriva al pianeta dal Sole; se l’atmosfera di Venere fosse simile a quella terrestre, infatti, le temperature raggiunte sulla superficie sarebbero notevolmente minori, in ogni modi inferiori a 100°C. Su Venere è stata rilevata intensa attività geologica, con un vulcano attivo rilevato dalla scala Maggelan e altre tracce di vulcanesimo. La superficie di Venere è ondulata, sono infatti presenti ampi bacini depressi e catene montuose. Marte (Più piccolo della Terra). Detto il pianeta rosso per il suo colore rossastro. Si ritiene che Marte abbia una crosta più spessa di quella terrestre ed un nucleo molto ridotto. Marte presenta caratteristiche di similitudine con la Terra: il suo asse è più o meno inclinato come quello terrestre e questo implica che sulla sua superficie esistano stagioni simili a quelle terrestri. Le stagioni marziane perciò sono più durature. Dalla superficie di Marte si erge la montagna più alta del sistema solare: il Monte Olimpo. La superficie di Marte è inoltre caratterizzata dalla presenza di una rete di canali. Le recenti esplorazioni del pianeta realizzate separatamente dalla NASA e dall’ESA hanno confermato la presenza nelle calotte polari anche di acqua allo stato solido, seppur disperso in quantità rilevanti di ghiaccio secco. La superficie di Marte, spesso battuta da venti molto forti, non evidenzia tracce d’acqua allo stato liquido. I forti venti sollevano le polveri finissime e rossastre, presenti al suolo, che rimangono perciò in sospensione in prossimità della superficie a lungo prima di ri-depositarsi. L’atmosfera di Marte non assomiglia a quella terrestre: la componente più abbondante è infatti l’anidride carbonica, vi sono più tracce di azoto molecolare, ossigeno molecolare, ossido di carbonio e argon. Marte possiede due satelliti (probabilmente asteroidi) di forma irregolare: Phobos e Deimos scoperti da Hall nel 1877. Giove Giove è il pianeta più grande del sistema solare. Date le sue dimensioni, può considerarsi una stella mancata, poiché non dispone della massa minima (un decimo della massa solare) per l’innesco della fusione nucleare stellare. Giove è in ogni caso dotato di forti emissioni d’energia proveniente dal proprio interno. Il suo periodo di rotazione non è uniforme e la rotazione si dice differenziale. Questa differenza di velocità è possibile per la struttura superficiale di Giove. Il pianeta ha, infatti, una densità media molto bassa e può essere considerato, almeno nella sua parte superficiale, come un corpo non rigido. Esso sarebbe costituito da un nucleo più pesante costituito da ferro e silicati vari, la cui massa potrebbe corrispondere a circa venti volte quella terrestre, caratterizzato inoltre da temperature molto elevate. La parte esterna del nucleo potrebbe essere composta principalmente da idrogeno che per la pressione potrebbe trovarsi allo stato metallico. L’atmosfera di Giove è composta principalmente da idrogeno per il 90% circa ed elio per il restante 10%; altri gas in tracce sono metano, ammoniaca, acqua e composti dello zolfo. La densità del gas atmosferico aumenta verso l’interno dove, per le forti pressioni, si presenta allo stato liquido: Giove, infatti, non possiede una crosta esterna solida. La superficie di Giove sembra perciò interessata da bande parallele al suo equatore. L’atmosfera è inoltre caratterizzata dalla presenza di grandi vortici, una specie di giganteschi cicloni, in particolare ve n’è uno che risulta in attività da diversi secoli, conosciuto come la grande macchia rossa. Tale vortice ruota in senso anti-orario e si sposta lungo il medesimo parallelo rimanendo perciò sempre sulla stessa latitudine. Giove è circondato da numerosi satelliti: 16 sono quelli conosciuti. I primi quattro conosciuti come galileiani: 1. Io caratterizzato da attività vulcanica molto intensa, probabilmente dovuta alla vicinanza con Giove e conseguentemente alla sua forza di attrazione gravitazionale. 2. Europa presenta una superficie bluastra costituita da ghiaccio alla temperatura di -150°C, la superficie sembra inoltre attraversata da una fitta rete di strie dovuta a fratture, potrebbe permettere qualche forma di vita 3. Ganimede (più grande satellite del sistema solare) è un mondo di ghiaccio. 4. Callisto satellite roccioso, ha una superficie che ricorda quella di Mercurio o della Luna per gli evidenti e numerosi crateri da impatto. Il satellite è ormai completamente inattivo, senza alcuna attività geologica all’interno. Saturno Saturno è disposto a distanza dal Sole doppia rispetto a Giove. Esso è l’altro pianeta gigante del sistema solare. La bassa densità è giustificata da una struttura costituita da un nucleo di idrogeno liquido avvolta da uno spesso involucro di gas. Anche Saturno, al pari di Giove, ruota su se stesso ad alta velocità. La superficie di Saturno presenta una caratteristica disposizione a fasce, dovuta alla velocità di rotazione ed ai venti che spirano anche a velocità di 1800 km/h e come sulla superficie di Giove, si riconoscono persistenti aree cicloniche. Le emissioni di energia da Saturno sono 2,5 volte maggiori di quelle che derivano dalla radiazione solare; questo fenomeno è spiegabile con le intense attività interne, dovute ai processi di contrazione gravitazionale. Saturno è dotato di 18 satelliti conosciuti: Titano è dotato di un’atmosfera più densa di quella terrestre, costituita principalmente da azoto molecolare e contenete etano, metano, propano, acetilene ed acido cianidrico. La presenza di numerosi composti del carbonio potrebbe aver dato origine a molecole organiche, precursori della vita. Saturno è inoltre caratterizzato dalla presenza degli anelli. Fu Huygens che nel 1655 riconobbe l’esistenza di un sottile disco attorno all’equatore di Saturno. Gli anelli di Saturno, se osservati dalla Terra alla massima risoluzione possibile, appaiono formati da quattro anelli; in realtà, sono costituiti da un migliaio di anelli distinti. Urano, Nettuno e Plutone Urano si trova ad una distanza dal Sole doppia rispetto a quella di Saturno. Esso ha la particolarità di ruotare attorno ad un asse disposto parallelamente al suo piano orbitale. Urano perciò rivolge verso il Sole, durante il suo moto di rivoluzione, alternativamente le due aree polari. Urano è stato riconosciuto con certezza come pianeta da William Herschel nel 1781. La distanza di Uranio, Nettuno e Plutone non ha certamente favorito la loro osservazione. È con le missioni spaziali verso l’esterno del sistema solare che si è avuto un nuovo impulso alla conoscenza di questi pianeti. La densa atmosfera, composta principalmente da metano, non ha consentito di intravederne la superficie, ma la sonda ha contribuito alla scoperta di numerosi satelliti interni a quelli già conosciuti. Attualmente si conoscono 17 satelliti di Uranio. Anche Uranio, come Giove e Saturno, è dotato di un sistema di 11 anelli disposti lungo il suo piano equatoriale. Nettuno è di difficile individuazione senza adeguate apparecchiature di osservazione. Si trova ad una distanza media dal Sole di 4,5 miliardi di km. Nettuno è stato individuato, nell’anno 1843, dopo averne supposto la presenza sulla base di base di calcoli teorici; la sua esistenza, infatti, giustificava una serie di perturbazioni nel moto di Urano. L’atmosfera densa di idrogeno e metano in rotazione attorno al pianeta secondo una struttura a bande come quella presente su Giove e Saturno. Data la grande distanza dal Sole, l’energia che vi giunge non è sufficiente ad instaurare i moti atmosferici osservati; questi possono invece essere giustificati da forte attività interna del pianeta. Attorno a Nettuno sono stati individuati 3 anelli e almeno 8 satelliti. Plutone è il pianeta più esterno del sistema solare e fu scoperto solo nel 1930. È dotato di dimensioni molto ridotte, inferiori a quelle della Luna. Plutone è dotato di un satellite scoperto nel 1978 a cui è stato imposto il nome di Caronte. Questo satellite è dotato di una massa molto grande se rapportata al sistema di riferimento, inoltre i due corpi ruotano attorno al loro baricentro rivolgendosi sempre la stessa faccia. Per questi motivi forse sarebbe più appropriato considerare il sistema Plutone-Caronte come un pianeta doppio, piuttosto che un pianeta dotato di satelliti. ALTRI CORPI DEL SISTEMA SOLARE Asteroidi Tra gli altri corpi del sistema solare sono da menzionare gli asteroidi, detti anche pianetini. Questi sono moltissimi, fino ad ora ne sono stati catalogati almeno 20000, ma il loro numero è molto maggiore. Sono localizzati principalmente tra l’orbita di Marte e quella di Giove, dove formano la cosiddetta fascia degli asteroidi. L’ipotesi più accreditata sull’origine degli asteroidi li ritiene originati da materia primordiale del sistema solare che non si è aggregata ad un pianeta, forse per effetto delle perturbazioni gravitazionali provocate da una massa molto grande, come quella di Giove. Gli asteroidi possono dar vita a meteoriti quando si frammentano, per effetto delle forze gravitazionali dovute ai vari pianeti circostanti, e vengono catturati dal campo gravitazionale della Terra, cadendo alla fine su di essa. Meteoriti Gli innumerevoli frammenti di materia presenti in tutto il sistema solare, troppo piccoli per essere classificati anche come solo asteroidi o come comete, sono detti meteoriti. Quando uno di questi corpi entra nel campo gravitazionale della Terra, viene attratto da essa e comincia a cadere, con velocità sempre più elevata. L’attrito, via via sempre più crescente con l’atmosfera, provoca un aumento della temperatura che rende il corpo incandescente ed induce l’evaporazione dei suoi elementi più volatili. Si produce così una scia luminosa, conosciuta come stella cadente o meteora, visibile fino a che il corpo non sia stato completamente consumato. I corpi sufficientemente grandi possono giungere fino alla superficie terrestre assumendo in questo caso il nome di meteoriti. Le polveri di dimensioni minori attraversano l’atmosfera con una velocità di caduta molto minore, potendo così giungere sulla Terra senza bruciarsi: sono le cosiddette micro-meteoriti. Quando un meteorite di grandi dimensioni giunge sulla superficie della Terra si produce un impatto violentissimo. Nell’impatto si forma una cavità semi-sferica, il cosiddetto cratere da impatto, che può misurare diversi chilometri di diametro. Sulla Terra è difficile osservare tali crateri da impatto poiché l’azione degli agenti del modellamento tende a cancellare le tracce. Comete Le comete sono costituite da gas e vapori congelati: acqua, metano, ammoniaca, anidride carbonica, ecc., mescolati con piccoli frammenti di roccia. Le comete si muovono lungo orbite fortemente eccentriche tanto che la maggior parte di esse escono ben al di fuori dell’orbita di Plutone. Una cometa comincia ad attivarsi quando si avvicina al Sole; in tal caso i gas ed i vapori i essa congelati cominciano ad evaporare, tornando allo stato gassoso e formando un alone luminoso: la chioma. Oltre alla chioma, una cometa sviluppa una coda costituita dal pulviscolo spinto dal vento solare in direzione opposta al Sole. Ad ogni passaggio in prossimità dal Sole, la cometa perde una quantità rilevante di materia. 4. IL SISTEMA TERRA-LUNA La Terra in realtà non dovrebbe considerarsi come un pianeta unico poiché il suo satellite naturale, la Luna, ha una massa relativa non trascurabile e perciò il binomio Terra-Luna si comporta come un sistema binario di pianeti. La luna presenta una massa pari a 1/81 di quella della Terra e quindi, come vedremo in seguito, le sue influenze sulla Terra sono molteplici e apprezzabili a scala umana. La Luna La Luna è l’unico satellite naturale della Terra ed è anche il corpo celeste più vicino. Data la massa del nostro satellite e la sua vicinanza, l’influenza della Luna sulla Terra è molto consistente, causando tra le altre cose fenomeni importanti, come le maree, o di grande effetto, come le eclissi. La Luna, pur non essendo dotata di luce propria, appare nel cielo come un disco luminoso di dimensioni paragonabili a quelle solari. Le dimensioni apparenti cono simili poiché, nonostante il diametro della Luna sia 400 volte minore rispetto a quello del Sole, la sua distanza dalla Terra è notevolmente minore. La differenza di densità con la terra avvalora l’ipotesi che la Luna e la Terra non si siano formate contemporaneamente, da un’unica nube di particelle, ma che abbiano ina storia autonoma. Ipotesi: 1) La Luna è stata catturata dalla Terra in occasione di un suo passaggio entro il campo gravitazionale terrestre. 2) La Luna si è staccata dalla Terra in fase primordiale, quando quest’ultima ancora calda e plastica, in veloce rotazione attorno al proprio asse, prese, per effetto della forza centrifuga, una consistente quantità di materiale che andò a costituire la Luna. 3) La Luna si è formata per aggregazione dei numerosi frammenti che dovevano essere in rotazione attorno alla Terra. 4) L’ipotesi più recente afferma che, basandosi sulla somiglianza di composizione delle rocce terrestri e quelle lunari, suggerisce che la formazione della Luna sia da imputare all’impatto sulla Terra di un grande meteorite, dotato di dimensioni paragonabili a quelle di Marte. Questo corpo si sarebbe volatilizzato nell’impatto, provocando anche l’espulsione di una parte del mantello terrestre che avrebbe contribuito ad originare la Luna. Moti lunari La Terra e la Luna compiono una rivoluzione attorno al loro baricentro, ne consegue un moto della Luna attorno al Sole molto complicato. Il moto apparente della Luna rispetto alla Terra è una rivoluzione lungo un orbita ellittica che rispetta le leggi di Keplero. La rivoluzione della Luna avviene su un orbita che non giace sullo stesso piano dell’eclittica (orbita terrestre), ma forma un piccolo angolo con essa. Il moto lunare è relativamente complesso poiché risente di forze d’attrazione gravitazionali diverse, prime fra tutte quelle della Terra e del Sole, ma anche degli altri pianeti, principalmente quelli di dimensioni rilevanti; queste interazioni producono importanti perturbazioni nel moto della Luna. Uno degli effetti di queste azioni è costituito dallo spostamento in senso orario. La Luna è dotata anche di un moto di rotazione attorno al proprio asse; il periodo della rotazione è uguale a quello della rivoluzione cosicché la Luna rivolge sempre la stessa metà della superficie alla Terra. In realtà la superficie lunare visibile dalla Terra è di poco superiore alla metà; essa è infatti, circa il 59% della superficie totale, per effetto di una serie di perturbazioni nel moto lunare dette librazioni. Fasi lunari Le posizioni relative di Terra, Luna e Sole causano le cosiddette fasi lunari, non che le eclissi di Luna e di Sole. La Luna si dice in congiunzione quando si trova tra la Terra ed il Sole; in questa situazione è invisibile perché rivolge alla Terra il suo emisfero in ombra. Tra le fasi lunari, questa posizione è definita Luna Nuova o Novilunio. Nei giorni successivi al novilunio, la Luna mostra una parte sempre maggiore di superficie illuminata; in questa fase è detta Luna Crescente e tramonta dopo il Sole, con ritardo sempre maggiore. La Luna si dice nella fase di Primo Quarto quando mostra esattamente metà della sua superficie illuminata. Nei giorni successivi del mese lunare, la Luna mostra una percentuale della superficie illuminata ancora maggiore, fino a quando si trova in opposizione, ovvero da parte opposta al Sole rispetto alla Terra. Questa è la fase di Luna Piena o Plenilunio. Da questo momento la Luna diventa calante, sorge sempre più tardi e la superficie illuminata visibile diviene sempre più piccola. La Luna si trova in fase di Ultimo Quarto, quando è visibile solo metà della superficie illuminata. Il ciclo procede fino a che la superficie illuminata non risulta più visibile, in altre parole quando si è ritornati nella posizione di congiunzione. Le due fasi di congiunzione ed opposizione sono anche dette sigiziali. Eclissi Le eclissi, ovvero, la scomparsa senza apparente motivo di corpi celesti; si tramanda che già i sacerdoti Caldei sapessero prevedere le eclissi utilizzando i calcoli ed osservazioni empiriche definirono il ciclo di Saros. Il fenomeno delle eclissi presenta il transiti di un corpo celeste entro il cono d’ombra o di penombra che si trova dietro a qualsiasi altro corpo celeste illuminato Le due situazioni di eclissi (solare e lunare) sono, dal punto di vista geometrico, leggermente differenti solamente perché le dimensioni dei corpi in esame e le distanze tra loro sono molto diverse. Se i piani orbitali delle Luna e della Terra coincidessero, si assisterebbe ad una eclissi di Sole in occasione di ogni novilunio, mentre durante il plenilunio avverrebbe sempre un eclissi lunare. Poiché però le orbite della Luna e della Terra non sono complanari, ma presentano un angolo tra loro di circa 5°, è necessario che le condizioni sopra esaminate accadano in prossimità del nodi, ovvero quando la rivoluzione lunare si avvicina al piano dell’eclittica. Oltre al cono d’ombra che si manifesta dietro un oggetto celeste, si produce anche un cono di penombra ben più vasto del precedente, provocando solamente una riduzione di luminosità del Sole o della Luna. Maree La Luna è responsabile delle maree ovvero del periodico innalzarsi (flussi) ed abbassarsi (riflussi) del livello marino le maree sono in parte causate dalla forza d’attrazione gravitazionale che la Luna esercita sulla Terra. Entrambi i corpi, Luna e Terra, per effetto del moto di rotazione sono soggetti ad una forza centrifuga che tende ad allontanarli l’uno dall’altro, bilanciando la forza d’attrazione gravitazionale che li attrae. La forza centrifuga è diretta sempre verso l’esterno ed è proporzionale alla distanza dal centro di rotazione poiché dipende dalla velocità lineare di rotazione. La forza di attrazione gravitazionale della Luna è invece inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra il centro della Luna ed ogni punto della superficie terrestre. Durante un’intera rotazione del sistema Terra-Luna, che si verifica in 24h 50’, ovvero un intero giorno lunare, si possono osservare due flussi e due riflussi distanziati di 6h 12’ 30’’. L’alternarsi delle maree è inoltre soggetto a numerose altre variabili che possono modificare anche notevolmente l’intensità del fenomeno. Ad esempio con le forze indotte dalla presenza del Sole. In occasione dell’allineamento Sole-Terra-Luna (in occasione di sigizie), si manifestano le maree di maggior intensità poiché all’effetto dell’attrazione lunare si somma quella solare, mentre in occasione delle quadrature le maree di minor intensità. Altri fattori influenzanti possono essere determinati da altri corpi celesti, primo tra tutti Giove, per la sua massa rilevante. Un altro parametro che condizione l’evoluzione diurna delle maree è costituito dalla conformazione dei fondali in grado di smorzare od amplificare le maree. La Terra Moti della terra Il moto di rivoluzione attorno al Sole e quello di rivoluzione attorno all’asse terrestre sono i principali. Il moto di rivoluzione è regolato dalle leggi di Keplero, infatti, la Terra si muove attorno al Sole lungo un orbita ellittica di cui il Sole occupa uno dei due fuochi. Il periodo impiegato per un intera rotazione è detto anno siderale ed è il periodo necessario affinchè la Terra, dopo aver compiuto un intera orbita, si ritrovi nuovamente in congiunzione con un punto fisso della volta celeste (una stella fissa). In altre parole l’anno siderale si compie quando la Terra ha compiuto un’intera rivoluzione attorno al Sole rispetto alle stelle. La durata dell’anno siderale è di 365g 6h 9m 13s. Nella sua orbita, la Terra si trova periodicamente nel punto di minima distanza dal Sole o perielio (circa 2 gennaio) e di massima distanza o afelio (circa 5 luglio). La linea congiungente perielio ed afelio, corrispondente all’asse maggiore dell’ellisse, è detta linea degli apsidi. La velocità istantanea varia in base alla seconda legge di Keplero: più veloce nel semestre che contiene il perielio, più lenta in quella a cavallo dell’afelio. Le prove della rivoluzione terrestre sono molteplici; tra queste si può citare la parallase delle stelle ovvero la diversa angolazione con cui si osservano, in diversi periodi dell’anno, oggetti molto lontani e quindi fissi. Una prova di tipo qualitativo è costituita dall’apparente spostamento del Sole sullo sfondo delle costellazioni durante l’arco dell’anno. Un’altra prova è l’aberrazione delle stelle che consiste nella necessità, per osservare una stella, di puntare il telescopio non nella reale direzione in cui essa si trova, ma in direzione del moto. Le prove del moto di rotazione terrestre sono molteplici e conosciute da lungo tempo. Prove qualitative si rifanno all’alternanza del dì e della notte, non che ai movimenti apparenti del Sole, della Luna e dei pianeti sulla volta celeste. Esperienza di Guglielmini (1972) Pendolo di Foucault (1831) Oltre ai moti di rotazione e rivoluzione, la Terra è soggetta anche ad altri movimenti che apparentemente non hanno effetti significativi a scala di vita umana. Possiamo citare: Precessione degli equinozi dovuta alla combinazione di due diversi moti secondari: il moto doppio conico e lo spostamento della linea degli apsidi. Il primo consiste nello spostamento della linea dell’asse terrestre che descrive, in senso orario, due coni simmetrici rispetto alla perpendicolare all’eclittica, con apice nel centro della Terra. L’asse terrestre, in seguito all’attrazione gravitazionale di Sole e Luna, si comporta così come quello di una trottola e descrive un ciclo completo in 25800 anni. Questo moto ha come conseguenza che gli equinozi vengano anticipati ogni anno di 20’ e che il nord geografico si sposta costantemente nella volta celeste. Su questo moto doppio conico si sovrappongono delle perturbazioni con un periodo di 18,6 anni, dovute alla diversa posizione reciproca di Sole e Luna, dette nutazioni, che producono delle piccole oscillazioni lungo il percorso conico dell’asse. L’attrazione esercitata dai pianeti del sistema solare (particolarmente da Giove), produce inoltre la rotazione in senso antiorario della linea degli apsidi. Questo movimento sommato al moto doppio conico, causa una più rapida precessione degli equinozi. Variazione dell’eccentricità dell’orbita è il rapporto tra differenza afelio-perielio e l’asse maggiore dell’orbita terrestre. Variazione dell’inclinazione dell’asse terrestre Le conseguenze di questi moti sull’andamento climatico sono facilmente intuibili poiché interessano l’angolo d’insolazione, la distanza Terra-Sole nonché la coincidenza o meno dei periodi estivi con la minima distanza dal Sole. Conseguenze dei moti terrestri di rotazione e rivoluzione Il moto di rotazione terrestre ha diverse conseguenze: I. II. Evidente schiacciamento polare e un altrettanto riconoscibile rigonfiamento equatoriale. Mentre la velocità angolare è la stessa in ogni punto della superficie terrestre, le velocità tangenziali sono disuguali poiché dipendono dalla distanza dall’asse di rotazione. Maggiore è tale distanza, più grande è la velocità tangenziale. Legge di Ferrel: a causa della rotazione terrestre, un corpo che si muove liberamente sulla Terra, modificando la propria latitudine, viene deviato dalla sua direzione iniziale verso destra se si trova nell’emisfero boreale e verso sinistra se si trova in quello australe. Quando un corpo si muove verso l’equatore, procede verso punti che hanno una velocità tangenziale maggiore e si ritrova quindi in ritardo; se viceversa si trova verso i poli, si trova in anticipo poiché dotato di una velocità tangenziale maggiore di quella del punto di arrivo. Forza di Coriolis: è una forza apparente, utilizzata utilizzata per esprimere quantitativamente il fenomeno. III. Alternarsi del dì e della notte. Abbiamo già visto, trattando di giorno solare e siderale, che questo alternarsi è in parte condizionato dal moto di rivoluzione terrestre. L’emisfero illuminato è diviso da quello in ombra da un circolo massimo che prende il nome di circolo d’illuminazione, in continuo movimento da occidente verso oriente. In realtà, il circolo d’illuminazione non è costituito da una linea netta poiché il passaggio dalla notte al dì e viceversa avviene in modo graduale. Ciò è dovuto alla presenza dell’atmosfera che produce diffusione, riflessione e soprattutto rifrazione della luce, causando i fenomeni dei crepuscoli e delle aurore. Maggiore è, infatti, lo spessore dell’atmosfera che viene attraversato dai raggi solari e più prolungate sono queste fasi di penombra. Il moto di rivoluzione terrestre consente l’alternarsi delle stagioni. Poiché l’inclinazione e l’orientazione dell’asse terrestre rimane pressochè costante nel volgere dell’intero moto di rivoluzione, ogni porzione della superficie terrestre si presenta durante l’anno secondo una diversa angolazione rispetto alla radiazione solare. Il massimo dell’energia fornita dal Sole ad una porzione di superficie terrestre si ha quando i raggi solari sono perpendicolari alla superficie esposta, ovvero quando il Sole è allo zenit su quel punto. L’alternarsi delle stagioni non dipende perciò dalla variazione durante l’anno della distanza terra-Sole, ma dalle variazioni d’inclinazione dei raggi solari. Ne consegue che, a causa della velocità di rivoluzione maggiore in perielio, il semestre caldo nell’emisfero boreale dura 7 giorni e 6 ore più di quello freddo. Il movimento di rivoluzione, oltre che determinare l’alternarsi delle stagioni, provoca anche la diversa durata del dì e della notte nel corso dell’anno. Tali cambiamenti sono anch’essi determinati dall’inclinazione dell’asse terrestre: infatti, se questo fosse perpendicolare al piano dell’eclittica, la durata del dì e della notte rimarrebbe uguale. A causa dell’inclinazione dell’asse terrestre, il circolo d’illuminazione coincide con un circolo meridiano solamente nei giorni di equinozio; in tali date perciò il dì e la notte si equivalgono ovunque. 5. LA FORMA DELLA TERRA E LA SUA RAPPRESENTAZIONE Cartografia Le carte topografiche sono in grado di rappresentare i particolari del terreno, attraverso l’utilizzo di una scala opportuna. Non sempre per ragioni di carattere grafico, è possibile rappresentare tutti gli elementi della superficie topografica; quando si vogliono riprodurre estensioni molto ampie, si deve ricorrere ad opportune semplificazioni e all’introduzione di simboli e segni convenzionali. È difficile rappresentale una superficie approssimativamente sferica su un piano. In una proiezione equivalente, due superfici rappresentate con la stessa area corrispondono ad una coppia di superfici d’uguale estensione nella realtà (è mantenuto il rapporto tra le aree). In una proiezione conforme, è mantenuta la corrispondenza tra gli angoli reali e quelli misurati sulla carta (è mantenuta la forma). In una proiezione equidistante è invece mantenuto il rapporto tra distanze reali e corrispondenti tratti sulla carta (è mantenuto il rapporto tra le distanze). Tra le proiezioni cartografiche le più comuni sono le: Zenitali: si ottengono proiettando da un punto sorgente su una superficie posta oltre al globo terrestre raggi che attraversano il globo stesso. Quando il punto sorgente si trova all’infinito, la proiezione zenitale è detta ortografica: i raggi di proiezione sono paralleli e la massima superficie rappresentabile è un emisfero. Quando il punto centrale della proiezione coincide con uno dei poli geografici, i meridiani sono proiettati come segmenti convergenti nel polo. Le proiezioni ortografiche consentono la rappresentazione di un solo emisfero e nella rappresentazione, la deformazione aumenta verso l’esterno. Se il punto sorgente di una proiezione zenitale non è posto all’infinito, i raggi non solo tra loro paralleli e le proiezioni sono dette: stereografiche se la sorgente è la superficie del globo e gnonomiche nel caso in cui essa sia nel centro del globo. Coniche: si ottiene proiettando, dal centro del globo, il reticolato geografico sulla superficie laterale di un cono tangente o secante il globo. Cilindriche: si ottengono trasferendo i punti del globo su di una superficie cilindrica, tramite una proiezione dell’asse del cilindro, ottenendone così una rappresentazione rettangolare, con meridiani e paralleli ortogonali. Questa proiezione, per le modalità di costruzione e, soprattutto per la scala in prossimità dei poli, non è utilizzata per latitudini superiori a 80° Nord o Sud. Possiede però un importante proprietà: ogni punto appartenente allo stesso segmento di retta mantiene la medesima orientazione geografica. Queste linee dette lossodromiche, sono fondamentali per i naviganti. UTM (Universale Trasversale di Mercatore). Le coordinate cartografiche I meridiani sono archi di circonferenza ottenuti intersecando il globo con i piani che contengono l’asse terrestre, quindi archi di circonferenza massimi convergenti nei due poli. È da notare che le distanze lineari tra due meridiani sono nulle ai poli ed aumentano verso l’equatore. I paralleli sono invece circonferenze ottenute intersecando il globo con un fascio di piani, tra loro paralleli, perpendicolari all’asse terrestre. La lunghezza dei paralleli tende a zero con l’approssimarsi ai poli, mentre cresce verso il parallelo di riferimento: l’equatore. La longitudine del punto P è l’angolo tra il meridiano di riferimento e quello passante per il punto P; è quindi espressa in gradi, primi e secondi dal meridiano fondamentale. La latitudine è l’angolo tra l’equatore ed il parallelo passante per il punto P, è espressa anch’essa in gradi, primi e secondi. Esistono altre due procedure utilizzate normalmente in cartografia: quella delle coordinate chilometriche e quella delle coordinate polari. La scala della carta La scala di una carta è il rapporto numerico tra le distanze misurate sulla carta e quelle misurate nella realtà. Nella cartografia geografica. La superficie riprodotta è sempre minore di quella reale e perciò il rapporto numerico che definisce la scala è compreso tra 0 e 1. All’aumentare del denominatore il rapporto e conseguentemente la scala diminuisce; allo stesso modo al crescere del denominatore, è rappresentata sulla carta una superficie reale maggiore ed il dettaglio si riduce. La scala grafica è invece una rappresentazione del rapporto di scala; come tale subisce le stesse deformazioni prodotte da un eventuale rimpicciolimento o ingrandimento del documento cartaceo. - Piante: quando rappresentano centri urbani o singoli comuni. Mappe: quando sono riferite a cartografia catastale o tecnica, hanno scala maggiore di 1:10000. Carte topografiche: carte a grande scala, generalmente variabili tra 1:10000 e 1:50000. Carte corografiche: rappresentano intere regioni, sono carte a media scala, compresa tra 1:100000 e 1:1000000. - Carte geografiche: carte a piccola e piccolissima scala, sono a quelle a scala minore di 1000000. Rappresentazioni cartografiche Isoipse o curve di livello, costituite da linee di uguale quota sul livello del mare, è il metodo più comunemente impiegato per riprodurre la terza dimensione. Queste linee si ottengono affettando la superficie topografica con piani orizzontali, tra loro equidistanti, e proiettando sul piano di base i contorni così ottenuti. Il dislivello costante tra i diversi piani orizzontali è l’equidistanza delle curve di livello. Dove le pendenze sono elevate, l’eccessiva densità di isoipse rende meno leggibile la carta, mentre in aree pianeggianti un’equidistanza troppo grande non consente la lettura della topografia. Spesso, s’introducono isoipse più importanti, dette isoipse direttrici, disegnate a tratto più pesante, con equidistanza multipla delle normali isoipse (intermedie). Le isoipse direttrici consentono, ove più curve di livello si addensano, di semplificare la rappresentazione e di rendere più agevole la lettura generale della carta. Allo stesso modo si possono introdurre anche curve di livello con equidistanza pari a sottomultipli delle intermedie: isoipse ausiliari. Il tratteggio è un altro metodo per la rappresentazione del rilievo che impiega semplici tratti, disposti secondo la direzione di massima tendenza. Isoipse e superficie topografica Le isoipse secondo la loro disposizione e densità consentono la percezione tridimensionale del territorio rappresentato sulla carta. Pendio regolare: caratterizzato da una superficie con pendenza costante e contraddistinto da curve di livello regolarmente spaziate. Impluvio: Le inflessioni regolari verso le quote più elevate di più curve di livello indicano la presenza di un impluvio, questo può anche essere occupato da una corso d’acqua e quindi essere sottolineato dall’eventuale simbologia relativa all’idrografia. Dosso o Displuvio: Inflessioi di più curve verso quote minori indicano la presenza di un dosso o displuvio. Scarpate e rotture di pendio in genere: Le variazioni di pendenza della superficie topografica sono evidenziate da cambiamenti di densità delle curve di livello; ad esempio, quando la pendenza aumenta bruscamente, come nel caso delle scarpate, si assite ad un ravvicinamento delle isoipse. Rilievi isolati: Può capitare che da una superficie pianeggiante emergano rilievi isolati. Questi possono essere formati da litogie più resistenti che si ergono su depositi superficiali incoerenti oppure possono evidenziare particolari forme di accumulo. Depressioni: Se al contrario del caso precedente, se su di una superficie subpianeggiante si evidenziano isoipse chiuse con quote decrescenti verso l’interno, questo particolare disegno delle curve di livello evidenzia un area depressa. Cime e Creste: In prossimità degli sparti acque di un bacino idrografico, compaiono spesso cime o vette individuabili da isoipse chiuse , con quote maggiori all’interno. A volte si possono individuare aree allungate, delimitate anch’esse da isoipse chiuse, che individuano aree di cresta poste al limite tra due bacini idrografici. Superfici a gradini: La combinazione di aree pianeggianti e ripide scarpate consente di ipotizzare la presenza di morfologie a scalinata, dovuta ad alternaze di litogie più resistenti e meno resistenti agli agenti atmosferici. Superfici irregolari: In alcuni casi, si rinvengono accostate curve di livello chiuse che indicano tratti di rilievo e tratti in depressione e l’andamento delle curve di livello mostra perciò una superficie topografica disordinata. Generalmente queste situazioni si riscontrano in corrispondenza di aree recentemente interessate da modellamento o da processi geomorfologici tuttora attivi. Esempi tipici si rinvengono in corpi di frana o in aree interessate dall’accumulo di depositi glaciali. Cave, discariche e rilevanti in genere: Una menzione particolare va anche alle azioni antropiche, che modificano sostanzialmente la superficie topografica. Le cave di monte, ad esempio, si riconoscono perché presentano un evidente scarpata nel lato a monte e una decisa inflessione nelle curve di livello. Le cave a fossa, in pianura, sono invece contraddistinte da isoipse chiuse con andamento regolare che evidenziano scarpate rivolte verso l’interno della cava. Le discariche, sia di inerti, sia di Rifiuti Solidi Urbani, gli argini, ecc. inducono nella superficie topografica, invece, forme simili a quelle dei rilievi isolati in pianura. La cartografia dell’istituto geografico militare italiano La cartografia ufficiale italiana è stata affidata, dal 1875, all’Istituto Geografico Militare (I.G.M.), in seguito Istituto Geografico Militare Italiano (I.G.M.I.), con sede a Firenze. Tra il 1875 ed il 1900, l’Istituto Geografico Militare ha provveduto alla realizzazione della Carta Topografica Fondamentale d’Italia. La cartografia ufficiale italiano è stata inizialmente riferita all’ellissoide di Bessel orientato a Roma- Monte Mario. Dal 1941 è stato adottato l’ellissoide internazionale di Hayford sempre orientato a Roma- Monte Mario. La proiezione adottata nel 1948 è quella conforme di Gauss-Boaga, in onore all’allora geodeta capo dell’I.G.M. Per la sua rappresentazione, si decise di adottare la proiezione U.T.M.; in questa rappresentazione l’Italia dovrebbe ricadere entro tre fusi: 32-33-34 (ognuno di essi corrisponde ad uno dei 60 cilindri che avvolgono la Terra nella proiezione U.T.M. Fu deciso però di adottare solo due fusi di 6° 30’ in parte soprapposti; in tal modo, è consentita la trasformazione dei sistemi di coordinate nella zona di sovrapposizione ed inoltre l’Italia può essere tutta rappresentata entro questi due fusi. I 285 fogli a scala 1:100000 della Carta Topografica d’Italia sono quindi inquadrati in questo sistema generale di riferimento, agganciato inoltre al sistema europeo ED50 (European Datum 1950). Ogni foglio è identificato da un titolo che corrisponde al toponimo più importante contenuto nella carta. Il foglio è inoltre identificato da un numero arabo. La numerazione dei fogli è progressiva da ovest verso est e da nord verso sud. I fogli sono suddivisi in quattro Quadranti a scala 1:50000 contraddistinti dal numero arabo del Foglio e da un numero romano. I Quadranti sono suddivisi a loro volta in quattro Tavolette a scala 1:25000. La nuova Carta Topografica d’Italia in allestimento ha modificato il taglio delle carte infatti non si basa più sui fogli a scala 1:100000, ma su una nuova cartografia a scala 1:50000 in 625 fogli. La nuova suddivisione in carte a scala 1:25000 di questa copertura cartografica a scala 1:50000 è costituita dalla nuova serie, denominata serie 25V. Dagli anni ’80 hanno assunto un peso sempre maggiore nella produzione di cartografia anche altri soggetti. Alle Regioni è stato demandato, infatti, il compito di dotarsi di una propria cartografia a medio-grande scala Carta Tecnica Regionale (CTR). INFORMAZIONI CHE SI POSSONO LEGGERE O DESUMERE DALLA CARTA Calcolo delle distanze La distanza topografica tra due punti A e B si calcola semplicemente misurando sulla carta questa distanza la distanza tre essi e moltiplicando questa misura per il denominatore della scala. La distanza topografica, calcolata dalla carta, corrisponde alla distanza reale solamente quando la superficie rappresentata è orizzontale. Per calcolare correttamente la distanza reale si dovrà quindi considerare anche il dislivello tra gli estremi; la distanza reale si calcola quindi con la seguente formula: AB’= d2 + h 2 Dove: d= distanza topografica (AB) h= dislivello tra i due punti Pendenza di un versante Per calcolare la pendenza di un versante si deve innanzitutto individuare la linea di massima pendenza. Eseguita questa operazione, si traccia un segmento lungo la linea di massima pendenza scegliendo gli estremi in corrispondenza di due isoipse (punti di quota nota), si misura poi la loro distanza topografica e si procede o in modo grafico, disegnando il triangolo delle pendenze, o procedendo per via numerica. Nel modo grafico, una volta disegnato il triangolo, si misura con un goniometro l’angolo compreso tra l’ipotenusa (distanza reale) e la distanza topografica. Per via numerica, è sufficiente affidarsi al calcolo trigonometrico. Tracciamento delle isoipse Le carte topografiche rappresentano l’altimetria mediante l’uso delle isoipse. Molte volte per lo studio soprattutto della morfologia fluviale è fortemente consigliato provvedere al tracciamento di isoipse con equidistanza ravvicinata, metrica o decimetrica. Per il tracciamento delle isoipse, si procede a partire dai punti quotati rappresentati in carta. Tali punti devono essere collegati tra loro formando una rete di triangoli che copre totalmente l’area indagata. Dopo aver costruito una delle possibili reti di triangoli si cominciano a considerare i valori dei vertici quotati. Tracciamento del profilo topografico Il profilo topografico è la rappresentazione in scala dell’andamento altimetrico lungo una linea tracciata sulla carta. Si procede preparando una sottile striscia di carta che deve essere fissata lungo la traccia del profilo topografico. Su questa striscia di carta si riportano gli estremi A e B, le intersezioni tra le isoipse e la traccia del profilo e le eventuali intersezioni tra la traccia del profilo e gli altri segni convenzionali. Su di un foglio di carta millimetrata, a parte, si prepara un sistema di assi cartesiani in modo tale che la scala delle altezze (asse y) sia la medesima di quella delle distanze (asse x). Congiungendo tra loro tutti i punti si ottiene il profilo topografico. Delimitazione del bacino idrografico L’area contribuente di un fiume e dei suoi affluenti è il bacino idrografico di quel corso d’acqua. Il limite di un bacino idrografico è costituito da un’ipotetica linea, detta spartiacque o displuvio. Qualsiasi precipitazione liquida o solida, se non s’infiltra e nemmeno evapora, è destinata a raggiungere il corso d’acqua principale del bacino. La prima operazione da eseguire per determinare lo spartiacque è di individuare l’intero reticolo idrografico appartenente al bacino. Per fare ciò si deve evidenziare, a partire dalla sezione assegnata, l’alveo principale e da questo gli affluenti, fino alle aste fluviali più prossime allo spartiacque. Eseguita tale procedura si analizzano le isoipse per posizionare con esattezza la linea spartiacque. 6. L’ATMOSFERA TERRESTRE L’atmosfera costituisce l’involucro aeriforme che avvolge la Terra. La sua origine è secondaria alla formazione del nostro pianeta. L’atmosfera si estende dalla superficie terrestre per un’altezza indefinita per se il 99% della sua massa è concentrata entro i primi 50 km ed il 90% entro i 17 km. Il limite esterno dell’atmosfera è indefinito e dipende dalla forza di attrazione gravitazionale della Terra. L’atmosfera, in base alla distribuzione verticale sia della sua composizione e sia delle temperature, può essere suddivisa in più involucri detti sfere, separati da fasce di discontinuità dette pause. La troposfera è l’involucro più vicino al suolo. La tropopausa corrisponde ad uno strato si transizione, dello spessore massimo di 2 km. Ad alta quota si registra un’inversione termica in grado di favorire il rimescolamento delle masse d’aria secondo celle collettive che interessano tutto lo spessore della troposfera. La troposfera è caratterizzata perciò da importanti movimenti di masse d’aria sia in senso verticale e sia orizzontale, i venti. Oltre la troposfera inizia la stratosfera, delimitata esternamente dalla stratopausa. La stratosfera è caratterizzata, nella parte più interna fino a 20-30 km d’altezza, da una certa costanza della temperatura, mentre oltre tale quota, si assiste ad un incremento termico. L’innalzamento di temperatura che avviene in questa fascia della stratosfera è imputabile alla presenza dell’ozono (O3), in grado di assorbire le radiazioni ultraviolette e restituire l’energia assorbita come calore. Al limite della stratopausa, la temperatura è prossima a quella della superficie terrestre. Oltre essa si trova la mesosfera, delimitata esternamente dalla mesopausa. In questa sfera, i gas sono estremamente rarefatti, ed il continuo bombardamento da parte della radiazione solare, ne ionizza le particelle. Per questo si parla anche di ionosfera. Ancor più esternamente si trova l’esosfera, in qui le temperature delle rarissime particelle sono molto elevate. Radiazione solare La radiazione solare è in pratica la sola fonte d’energia che contribuisce al riscaldamento dell’atmosfera poiché l’energia che si emana dall’interno della Terra e quella proveniente da altri pianeti sono al confronto, trascurabili. L’energia solare, attraversando l’atmosfera terrestre, subisce fenomeni d’assorbimento, riflessione e dispersione in grado di dimezzarne l’intensità prima che questa possa raggiungere la superficie del pianeta. La penetrazione dell’energia attraverso l’atmosfera cambia costantemente in funzione del grado di limpidezza e dell’angolo d’incidenza dei raggi luminosi. L’energia giunta sulla Terra viene a sua volta in minima parte riflessa (4% totale) mentre la rimanete quota è assorbita e restituita dall’atmosfera, principalmente sotto forma di calore. Alcune superfici riflettono più di altre. Ovviamente non tutta l’atmosfera si riscalda uniformemente. Si definisce albedo il rapporto tra l’energia riflessa dalla superficie e quella ricevuta. In seguito ai moti di rivoluzione della Terra attorno al Sole, la distribuzione delle temperature subisce dei cambiamenti notevoli durante l’anno. Oltre all’insolazione, esistono altri parametri molto importanti che influenzano le differenze termiche in località molto vicine. Ad esempio: Il rilievo La distribuzione delle terre e dei mari La presenza di correnti marine e la disposizione delle catene montuose La pressione è influenzata da un gran numero di fattori; tra essi i principali sono rappresentati dalla quota, dalla temperatura dell’aria, e dal contenuto di vapore acqueo. La pressione è, infatti, inversamente proporzionale sia alla quota, sia alla temperatura e sia al contenuto di vapore acqueo dell’aria. Circolazione atmosferica La distribuzione geografica della pressione sia in prossimità della superficie terrestre che in quota, permette di prevedere l’evoluzione della circolazione atmosferica. La distribuzione della pressione è rappresentata con isobare, vale a dire linee congiungenti punti d’uguale pressione, che delimitano le aree in cui questa è maggiore od uguale al valore dell’isobara da quelle in cui i valori sono inferiori. Queste carte consentono di visualizzare i movimenti delle masse d’aria; queste ultime, infatti, tendono sempre a muoversi dalle zone d’alta a quelle di bassa pressione. I movimenti delle masse d’aria che tendono a riequilibrare le differenze di pressione sono i venti. Il movimento di queste masse d’aria è condizionato, oltre che dalle differenze di pressione, anche dai moti di rotazione terrestre. La deviazione avviene secondo la legge di Ferrel, verso destra nell’emisfero boreale e verso sinistra nell’emisfero australe. Quando due masse d’aria a temperatura diversa s’incontrano, si formano caratteristici fronti perturbati che possono svilupparsi per migliaia di chilometri. Le masse d’aria di solito si mantengono molto uniformi e sono perciò delimitate da confini molto netti, detti fronti. Si forma un fronte caldo quando aria calda si muove verso masse d’aria più fredde. In questo caso, l’aria calda è costretta a salire in quota lungo un piano poco inclinato, dando origine a sistemi nuvolosi piuttosto ampi e persistenti. Si forma un fronte freddo quando è l’area fredda che si incunea sotto quella calda. In questo caso, il contatto tra le due masse d’aria è rapido ed i sistemi nuvolosi che si formano sono temporaleschi. Quando nella stessa area sono presenti più di due masse d’aria a diversa temperatura, si possono fondere due fronti uno caldo e l’altro freddo in un cosiddetto fronte occluso. 7. IL MARE La superficie terrestre è occupata per il 71% da distese marine, contemporaneamente il 97% di tutta l’acqua disponibile sulla Terra si trova negli oceani e nei mari, mentre solamente il restante 3% è costituito dalle acque continentali, concentrate prevalentemente nei ghiacciai. La genesi dell’acqua marina è ancora tema di dibattito, ma si ritiene che tutta quella presente sulla Terra sia di origine secondaria, similmente a quanto supposto a proposito dell’atmosfera terrestre. Dopo il parziale raffreddamento del nostro pianeta e la sua conseguente solidificazione esterna, quando le temperature sono divenute sufficientemente basse, l’acqua ha cominciato a condensarsi dai vapori emessi in occasione delle eruzioni vulcaniche. L’acqua quindi dovrebbe essere liberata dal mantello primordiale, dotata di una composizione in parte diversa da quella attuale. La composizione del mantello ne passato doveva, infatti, caratterizzarsi per una più consistente concentrazione di elementi volanti, quali ad esempio l’idrogeno e l’ossigeno. L’acqua di mare si differenzia da quella continentale per la maggiore salinità. Essa varia da luogo a luogo, stagionalmente ed anche in base alla profondità. Generalmente la salinità si stabilizza a partire da una certa profondità; in superficie invece subisce notevoli variazioni, principalmente per effetto dell’evaporazione o dall’immissione di acque di differente salinità. La salinità dipende dagli elementi chimici disciolti sotto forma di ioni nell’acqua, questi ioni derivano principalmente dal disfacimento di rocce e minerali ubicati sui fondali e sulle terre emerse. Parte delle sostanze disciolte dipende anche dagli organismi viventi; quest’ultimi, infatti, sono in grado di scambiare abbondanti quantità di ioni sia sottraendoli all’ambiente circostante o, al contrario, cedendoli. Molti organismi, ad esempio, utilizzano gli elementi disciolti per la costruzione del proprio scheletro o per il loro sostentamento, rilasciandoli successivamente in grande quantità dopo la loro morte. La vita nel mare è quindi fortemente condizionata dalla salinità, oltre che da altri parametri quali: la penetrazione della radiazione solare, la temperatura, la concentrazione di ossigeno e di sostanze nutritive, la profondità ecc... Il mare ha una notevole azione termo-regolatrice essendo dotato di una grande capacità termica, in grado di accumulare notevoli quantità di calore nei periodi di massima radiazione solare per restituirlo successivamente. La sua superficie marina si riscalda per effetto della radiazione solare, mentre il riscaldamento delle acque profonde è dovuto ad importanti moti convettivi che ricambiano le masse idriche. La superficie marina, a causa del vento, è continuamente soggetta a moto ondoso e subisce un rapido mescolamento. Lo strato interessato delle turbolenze superficiali è però ridotto in spessore rispetto all’intera massa dei mari e degli oceani; esso può estendersi fino a qualche centinaio di metri di profondità, soprattutto nei mesi in cui prevalgono le tempeste mentre, in genere, nella buona stagione questo strato turbolento si assottiglia. La distribuzione della temperatura del mare nei primi 50-200 metri, è in genere quasi costante e decresce invece molto rapidamente poco sotto questo strato isotermico. La zona di massimo gradiente verticale è detta termoclino, esso è uno strato di qualche centinaio di metri in cui la temperatura diminuisce ancora di 1° ogni 100 m, fino a stabilizzarsi, nelle profondità oceaniche, attorno a valori di qualche grado sopra lo zero. Temperatura e salinità concorrono a determinare la densità delle acque: essa è direttamente proporzionale alla salinità ed inversamente alla temperatura. La densità è molto importante poiché rappresenta il motore delle cosiddette correnti termoaline. La luce è assorbita rapidamente dall’acqua marina: le radiazioni infrarosse sono assorbite entro il primo metro, poi all’aumentare della profondità vengono assorbite anche le altre lunghezze d’onda. Tale zona è fondamentale per lo svolgersi di alcune funzioni vitali poiché gli organismi in grado di compiere la fotosintesi non possono sopravvivere stabilmente nella sottostante zona, priva di luce. Dinamica dell’acqua marina L’acqua del mare è in continuo movimento. I movimenti delle masse d’acqua sono determinati sia da cause interne, come ad esempio la differenza di temperatura e di salinità, sia da interazioni con l’atmosfera terrestre in aree soggette a rilevanti gradienti di pressione atmosferica, in grado di provocare venti intensi. I movimenti che si producono nelle masse d’acqua sono inoltre influenzati: dal moto di rotazione terrestre, dalle interazioni Terra-Luna-Sole ed infine da altre cause come ad esempio quelle geologiche derivanti da terremoti ed eruzioni vulcaniche, che possono occasionalmente assumere una certa importanza nel trasferimento di energia da un’area all’altra. I moti del mare possono perciò essere distinti nelle seguenti quattro tipologie, sulla base della loro periodicità: - Moti costanti costituiti dalle correnti Moti periodici dovuti alle maree Moti saltuari dovuti al vento Moti occasionali costituiti dai maremoti o tsunami Le correnti marine sono dovute allo spostamento di masse d’acqua, prevalentemente in senso orizzontale. Sono in genere costituite da masse d’acqua che si muovono a bassa velocità, ma che spostano grandi quantità d’acqua. Le correnti marine sono fondamentali sia per la ridistribuzione dell’energia su vaste aree e sia dal punto di vista ecologico. Sono in oltre in grado di condizionare il clima delle coste che lambiscono. Le principali correnti oceaniche di superficie o correnti di deriva prendono impulso dai venti permanenti (es. Alisei) ed in alcuni casi dai venti stagionali (es. Monsoni). Le correnti sono inoltre influenzate dalla forza di Coriolis che tende a deviare, verso destra nell’emisfero boreale e verso sinistra in quello australe, tutti i corpi in movimento sulla superficie terrestre. Questa deviazione avviene per effetto della variazione della velocità tangenziale del moto di rotazione terrestre lungo i meridiani, che è massima all’equatore e minima ai poli. Le differenze di temperatura, derivanti dalla condizione di diversa insolazione tra alte e basse latitudini, si riflettono sulla circolazione superficiale. Questa si esplica in vortici molto ampi in cui le correnti calde tendono a lambire i margini orientali dei diversi continenti, mentre quelle fredde si muovono lungo i margini occidentali. Anche nei mari chiusi si producono correnti superficiali perenni, dovute sia allo spirare dei venti dominanti e soprattutto alla differenti temperatura che si instaura alle diverse estremità del bacino, sia per l’insolazione, sia per ‘immissione di acque dall’esterno a temperatura e salinità diversa. Le correnti contraddistinte da un movimento a componente verticale sono generalmente causate dall’affondamento di masse d’acqua più dense rispetto alle circostanti ed alla risalita di masse meno dense. L’aumento di densità è generalmente favorito dalla forte evaporazione. L’aumento di densità può essere dovuto anche alla formazione di ghiacci marini. In questo caso, l’acqua che congela è quasi priva di Sali, cosicchè l’acqua che rimane si trova arricchita degli stessi. La differenza di salinità e di temperatura sono responsabili della cosiddetta circolazione termoalina degli oceani. Le correnti termoaline contribuiscono al lento rimescolamento delle acqua. L’unico oceano in cui avviene una circolazione globale delle masse d’acqua è l’Atlantico. La temperatura e a salinità delle masse d’acqua che affondano sono da considerarsi proprietà conservative, infatti, si mantengono costanti anche in profondità. Al contrario, lungo il loro percorso, queste masse d’acqua, per effetto soprattutto delle attività biologiche, mutano il loro contenuto in gas disciolti e sostanze nutritive. Anche situazioni locali, costituite da bacini chiusi in comunicazione con oceani, possono generare differenze di temperature e salinità delle masse d’acqua. In questo caso, si originano importanti correnti termoaline, soprattutto nel caso che i bacini siano in comunicazione attraverso stretti. Nelle aree dove vi sono masse d’acqua che divergono, è richiamata acqua più profonda per sostituire quella che si è allontanata; in questo caso si parla di fenomeni di upwelling. Al contrario, nelle aree di convergenza si creano correnti discendenti o di downwelling, in seguito all’aumento di pressione per la convergenza di masse d’acqua. Il moto ondoso Le onde marine sono movimenti oscillatori della superficie del mare, generati da una qualsiasi perturbazione esterna (la più comune tra queste è comunque il vento). L’azione diretta del vento sulla superficie del mare produce le cosiddette onde forzate o marosi. L’energia del vento, a causa dell’attrito entro le masse fluide, si trasmette alla superficie del mare; gli sforzi ai vari strati dell’acqua si propagano in profondità con uno smorzamento progressivo che segue una distribuzione di tipo esponenziale. Il moto ondoso non cessa al calare del vento, ma si attenua lentamente in seguito alla dispersione dell’energia conseguente agli attriti. Le dimensioni delle onde non dipendono solo dalla velocità del vento, ma anche dall’ampiezza della superficie su cui esso soffia, senza incontrare ostacoli: il cosiddetto fetch. Le onde si propagano su distanze considerevoli senza che avvenga lo spostamento delle singole particelle d’acqua; infatti, durante l’oscillazione del moto ondoso si propaga solo l’energia. Le particelle d’acqua si muovono solo localmente, compiendo orbite circolari chiuse e ritornando sempre al punto di partenza. Nelle onde si possono misurare: - La lunghezza d’onda (L): ovvero la distanza tra due creste o tra due cavi, L’altezza (h): ovvero la differenza tra cresta e cavo dell’onda, Il periodo (T): ovvero il tempo che intercorre tra il passaggio nello stesso punto di due creste successive. Da questi valori si possono ricavare dati significativi a proposito dell’energia del moto ondoso: - Rapidità dell’onda (h/L), La velocità di propagazione (L/T), 2 L’energia (kh L). Lo stato del mare è descritto con una scala da 0 a 9, detta forza del mare. Il moto ondoso non è in grado di interagire con i fondali, fino a che questi non divengano meno profondi di L/2. Quando i fondali hanno profondità inferiori ad L/2, le orbite delle particelle d’acqua risentono degli attriti con il fondale e cominciano a deformarsi, subendo un allungamento e divenendo perciò ellittiche. Con il diminuire progressivo della profondità, le particelle d’acqua nella parte vicina al fondale subiscono un ritardo, fino a che, raggiunto il limite della stabilità, l’onda si rovescia sul cavo antistante, formando il frangente di spiaggia. In questa situazione vi p spostamento di particelle d’acqua che perciò si infrangono sulla costa e ritornano verso il mare con un movimento sul fondale detto risacca. 8. VARIAZIONI DEL CLIMA SULLA TERRA Le condizioni climatiche sulla Terra non sono costanti, infatti, variano sia da luogo a luogo e sia con il trascorrere del tempo. Le variazioni di lungo periodo, anche se di entità rilevanti, sono difficili da individuare e studiare per mancanza di prove e misure dirette. Per lo studio di cambiamenti avvenuti millenni o milioni d’anni fa, infatti, sono necessarie deduzioni eseguite sulla base di osservazioni indirette. Lo studio di alcuni parametri climatici ci fa ritenere che il periodo 1550-1850 fosse caratterizzato da temperature più rigide delle attuali. Questo ciclo freddo, definito dai climatologi “Piccola età glaciale” (Little Ice Age), è iniziato con l’inverno rigidissimo del 1564-1565; esso vide, durante i successivi trecento anni, almeno altri 10 inverni altrettanto rigidi. Durante quei tre secoli, in tutta Europa, si assiste all’espansione generalizzata dei ghiacciai, tanto che l’estensione delle nevi e dei ghiacciai sulla Terra raggiunsero l’ampiezza più rilevante dalla fine del Pleistocene (circa 10’000 anni fa). Un cambiamento climatico di segno opposto è probabilmente occorso a partire dal 300 a.C. fino al V sec. D.C. Tale periodo, coincide con lo sviluppo e la successiva decadenza dell’Impero Romano, è caratterizzato da un innalzamento graduale della temperatura ed una consistente diminuzione delle precipitazioni. L’instaurarsi a livello globale di condizioni climatiche glaciali ha prodotto cambiamenti generalizzati in tutte le fasce climatiche del pianeta. Con il Pleistocene, iniziato 1,8 milioni di anni fa, avvennero ripetute variazioni climatiche che contribuirono al succedersi d’importanti eventi del modellamento del nostro Pianeta. Queste fasi fredde, durante le quali le temperature medie annue erano più basse di circa sei gradi centigradi rispetto alle attuali, corrispondono alle grandi glaciazioni alpine: - Biber Donau Gunz Mindel Riss Wurm Durante le fasi glaciali, sui continenti si formano grandi quantità di ghiaccio ed il mare si abbassa di varie decine di metri (regressione marina); durante le fasi inter-glaciali, i ghiacci si riducevano in estensione ed in volume, e quindi il mare si rialzava di livello (trasgressione/ingressione marina). Causa delle glaciazioni Tra le prime cause, individuate come responsabili delle variazioni climatiche globali, si è pensato a fluttuazioni nell’emissione di energia da parte del Sole. Si è verificato che l’ampiezza dei cicli ha subito dei cambiamenti negli ultimi 150 anni, da un minimo di 45 macchie per ciclo, nel 1804 e nel 1818 ad un massino di 190 macchie, nel 1957. Lo studio delle serie storiche ha inoltre evidenziato che, in corrispondenza dei cosiddetti minimi di Maunder e di Sporer vi è stato effettivamente un deterioramento climatico. L’importanza di queste fluttuazioni nelle emissioni solari, tuttora dibattuta, non è comunque particolarmente accreditata come responsabile dei grandi cambiamenti climatici a livello globale. Le cause astronomiche, che riguardano la combinazione dei moti terrestri secondari, sono quelle che più appaiono in grado di giustificare la periodicità di significative variazioni del clima. Lo scienziato iugoslavo Milankovitch, considerando che un periodo glaciale è favorito da estati corte e fresce piuttosto che da inverni molto freddi, studiò le conseguenze dei moti secondari della Tera sul semestre estivo dell’emisfero boreale. La teoria in oggetto esclude che le glaciazioni avvengano in seguito a variazioni della quantità di radiazione solare in arrivo sulla Terra, quanto piuttosto come conseguenza dei mutamenti della distribuzione dell’energia alla varie latitudini. Egli così individuò la configurazione più favorevole all’inizio delle glaciazioni. Tale configurazione è quella in cui l’asse terrestre presenta il minimo di obliquità possibile (21°55’), alta eccentricità dell’orbita (0,054) ed estate boreale in afelio. Alle cause astronomiche si sommano importanti fattori in grado di amplificare o di smorzare questi cicli. L’albedo, ad esempio, è senz’altro uno dei fattori più importanti che condizionano la quantità dell’energia assorbita dalla superficie terrestre. Con questo termine si intende il rapporto (in percentuale) tra l’energia riflessa dalla Terra verso lo spazio e quella che essa riceve dal Sole. La presenza di neve e ghiaccio aumenta l’albedo, ovvero la capacità di riflettere, riducendo quindi l’energia assorbita dalla Terra. Sembra che alcuni fattori siano in grado di stabilizzare le condizioni glaciali; in altre parole una glaciazione ha grandi capacità di autosostenersi. Una volta che sia iniziata una glaciazione, questa influenza la circolazione atmosferica e la quantità di energia riflessa, così da sopravvivere a piccoli miglioramenti nelle condizioni climatiche. Di pari passo con le variazioni del clima, che provocano l’instaurarsi di condizioni glaciali, si sono misurate variazioni nella composizione atmosferica. Lo studio della concentrazione di anidride carbonica in Groenlandia ed in Antartide, sembra confermare che le variazioni seguono sempre con un leggero ritardo i cambiamenti di temperatura generale, rappresentando perciò la conseguenza e non una causa delle variazioni climatiche. La circolazione oceanica è un altro fattore essenziale che controlla la distribuzione del calore e dell’umidità sulla Terra. Le correnti oceaniche, infatti, sono in grado di trasferire la metà del flusso globale di calore dalle aree equatoriali a quelle polari. La circolazione profonda delle correnti è inoltre in grado di immagazzinare e di restituire grandi quantità di calore alla superficie. Secondo una teoria proposta da Broecker e Denton (1989), il repentino raffreddamento corrispondente alla fase fredda del Dryas recente, durato circa 500 anni, avvenuto durante la deglaciazione wurmiana è stato condizionato da un improvviso arresto della circolazione termoalina nell’Atlantico. Altri fattori possono avere una certa influenza sulla trasparenza dell’atmosfera. L’attività vulcanica, ad esempio, può immettere nell’atmosfera una grande quantità di gas serra ed al contempo di disperdere anche una serie di polveri e aerosol in grado di riflettere verso l’esterno la radiazione solare. Le glaciazioni quaternarie Albrecht Penck ed Eduard Bruckner riconobbero nelle Alpi bavaresi morene d’età differente e presentarono la loro teoria in un’opera rimasta fondamentale per la cronologia climatica della Alpi: Die Alpen in Eiszeitalter. Essi individuarono quattro glaciazioni, cui attribuirono il nome di altrettanti corsi d’acqua delle prealpi bavaresi, affluenti del Danubio: dalla più antica alla più recente: Gunz, Mindel, Riss e Wurm. A queste si aggiunsero, più di recente, ancora più antiche avanzate glaciali: Donau e Biber. Con l’avvento della stratigrafia isotopica, fu più facile arrivare ad una ricostruzione globale del clima che mostrava non solamente pochi picchi freddi, ma numerose oscillazioni. Le cure isotopiche sono perciò suddivise in stage, i cui limiti cadono nei punti di passaggio da picchi freddi a picchi caldi, numerati progressivamente dal più recente che corrisponde all’interglaciale attuale. In questo modo, gli stage dispari corrispondono alle fasi calde o interglaciali e quelle pari alle fasi fredde. Un’ accurata elaborazione matematica degli stage isotopici, raffrontata ai cicli di Milankovitch, ha dato buone correlazioni per il Pleistocene medio, avvalorando ulteriormente la teoria astronomica. Il Pleistocene superiore è il periodo meglio conosciuto dal punto di vista della stratigrafia isotopica, in esso sono riconoscibili gli stage da 5 a 2. Durante l’ultimo massimo glaciale corrispondente al Wurm sulle Alpi, al Weichsel nel Nord Europa ed al Wisconsin in Nord America, le condizioni climatiche dovevano essere diverse dalle attuali. Il post glaciale L’innalzamento della temperatura, alla fine dell’ultimo massimo glaciale culminò con il definitivo ritiro delle masse glaciali verso posizioni simili a quelle odierne. Questo ritiro, ovviamente condizionato dalla quantità ed estensione iniziale della massa di ghiaccio nelle diverse calotte, non fu contemporaneo ma precedette più velocemente nelle aree in cui lo spessore dei ghiacciai era più limitato. La deglaciazione perciò si concluse dapprima nell’area occupata dalla calotta della Cordigliera nordamericana, poi in Europa ed infine in America settentrionale. La rapida risalita della temperatura fu comunque interrotta da brevi momenti di recrudescenza climatica che portarono alla formazione di cordoni morenici stadiali. In questo periodo compaiono in Europa i boschi di quesrce ed olmi ed il livello marino risale rapidamente pur rimanendo più basso dell’attuale. A mano a mano che la situazione si stabilizza su questi valori, durante il Boreale. La quercia colonizza anche l’Inghilterra, l’Irlanda e la Danimarca ed il nocciolo comincia a diffondersi. Con l’Atlantico comincia un periodo più caldo ed umido dell’attuale, fino a 2,5-3 gradi nell’emisfero settentrionale. Le elevate temperature causarono la riduzione degli apparati glaziali fino ad estensioni minori delle attuali, favorendo contemporaneamente un aumento del livello medio marino, fino a 3-4 metri sopra l’attuale. Con l’inizio del periodo Sub-Boreale inizia un progressivo deterioramento climatico, culminato in alcuni picchi relativamente freddi, registrati con grande precisione dai pollini depositati in numerose torbiere alpine e nei depositi lacustri a nord delle Alpi. 9. LA STRUTTURA DELLA TERRA La struttura interna della Terra è conosciuta attraverso indagini di tipo indiretto, le perforazioni più profonde, che ci permettono di indagare direttamente le rocce entro un certo spessore, sono condizionate da numerosi problemi tecnici e non si spingono perciò oltre qualche chilometro di profondità. Le principali indagini, in grado quindi di interpretare l’interno della Terra, sono quelle ti tipo geofisico ed in particolare quelle che utilizzano le onde sismiche. L’indagine sismica L’energia che si libera in un terremoto si propaga nelle rocce circostanti attraverso onde sismiche. Tali onde sono misurate con uno strumento detto sismografo. La velocità delle onde sismiche dipende dalla densità e quindi da elasticità e rigidità delle rocce attraversate; l’ampiezza delle onde registrate dipende invece dall’intensità del sistema. La lettura dei sismografi ha consentito di individuare diversi tipi di onde che si trasmettono durante un evento tellurico e che sono ben distinguibili nella registrazione strumentale. Le onde più veloci sono quelle longitudinali, per questo sono dette anche onde primarie o prime (P). Per tale motivo, un sismografo registra inizialmente queste onde e successivamente le onde trasversali, dette appunto seconde (S). Dopo un certo periodo, al sismografo arrivano anche le altre onde, più lente e di grande ampiezza, in grado di propagarsi sono sulla superficie terrestre e per questo dette onde superficiali o lunghe (L). Queste ultime, responsabili dei maggiori danni alle costruzioni, si propagano a partire dall’epicentro (punto sulla superficie terrestre in corrispondenza dell’ipocentro). L’intervallo che si può misurare tra le onde P e le onde S è proporzionale alla distanza dell’ipocentro dal sismografo. Per ogni terremoto esiste, inoltre, una zona d’ombra che non consente di ricevere le onde S e che riduce fortemente l’intensità delle onde P. I terremoti quindi, oltre che eventi particolarmente calamitosi per le popolazioni che ne risultano colpite, sono anche validi strumenti utilizzati per indagare le caratteristiche fisiche profonde del nostro pianeta. L’interno della Terra L’interno della Terra può essere suddiviso in involucri concentrici, delimitati da discontinuità riconoscibili per sensibili variazioni delle velocità sismiche. Tali discontinuità sismiche rappresentano cambiamenti di rigidità e d’elasticità della materia. L’involucro superficiale è la crosta, costituita da una scorza rigida di spessore variabile tra alcuni chilometri, sui fondali oceanici, fino a decine di chilometri sui continenti. All’interno della Terra, le pressioni e le temperature crescono con la profondità, nelle prime centinaia di chilometri l’effetto combinato di queste variazioni produce zone di debolezza, dove il mantello è parzialmente fuso, e livelli con improvvisi cambiamenti di rigidità. La Moho segna il passaggio netto tra la crosta ed il mantello più esterno; essa è evidenziata da un repentino cambiamento di composizione delle rocce (più rigide). Questo spessore, sulla base delle caratteristiche reologiche dei materiali, è definito litosfera. Alla litosfera subentra un involucro parzialmente fuso presente con continuità sotto la crosta oceanica ed in grado di conferire una spiccata plasticità a questo settore: l’astenosfera. Attorno ai 700 km di profondità è posto il limite con il mantello inferiore, entro cui le velocità sismiche sono in progressivo e regolare aumento fino alla discontinuità di Gutenberg. Il nucleo esterno da 2900 a circa 5200 km presenta le caratteristiche di un fluido, testimoniante sia da una brusca riduzione di velocità delle onde P e sia dalla scomparsa delle onde S. il nucleo torna ad essere solido oltre la discontinuità di Lehmann. MINERALI E ROCCE Minerali Un minerale è una sostanza inorganica naturale che possiede una ben definita composizione chimica ed una caratteristica strutturale cristallina. Gli atomi costituenti il minerale si dispongono secondo un reticolo cristallino caratteristico che conferisce al minerale una sua struttura. La disposizione degli atomi in questa struttura e la composizione chimica del minerale conferiscono alcune proprietà fisiche, utilizzate anche per il riconoscimento degli stessi minerali. Colore Durezza Peso specifico Lucentezza Sfaldatura Suscettibilità magnetica Ecc. Ogni minerale presenta una sua struttura cristallina ben definita, mentre le dimensioni e la forma esterna dipendono dalle condizioni in cui esso si forma. Le condizioni di cristallizzazione dipendono da pressione e temperatura dell’ambiente in cui si formano i cristalli, dalle concentrazioni di alcuni elementi, dalla rapidità di raffreddamento e da molto altro ancora. Rocce Le rocce sono un’associazione di minerali; nella maggior parte dei casi, molti minerali diversi costituiscono una roccia. Le rocce, in base alla loro genesi, possono suddividersi in tre grandi gruppi: a) Le rocce ignee che si formano a partire dai cosiddetti magmi, costituiti da materiale fuso ad elevata temperatura. b) Le rocce sedimentarie che si formano in seguito all’accumulo di sedimenti, soprattutto sui fondali marini. c) Le rocce metamorfiche che si generano in seguito alla trasformazione di rocce preesistenti di qualsiasi natura, quando sono sottoposti a cambiamenti di pressione e/o temperatura. Ogni categoria di rocce può trasformarsi in uno degli altri due tipi, secondo un ciclo continuo, definito ciclo delle rocce. Rocce ignee Le rocce ignee sono costituite prevalentemente da silicati legati ad elementi metallici. La solidificazione può avvenire molto velocemente quando il magma raggiunge la superficie ed entra in contatto con l’atmosfera o con l’acqua degli oceani. In questo caso le rocce che si formano sono dette effusive. La solidificazione può invece avvenire lentamente ad una certa profondità nella crosta terrestre ed in questo caso le rocce ignee o magmatiche sono definite intrusive. Le rocce che si formano a partire dallo stesso corpo magmatico assumono un aspetto molto diverso a seconda che siano rocce intrusive oppure effusive. Nelle rocce effusive la rapida solidificazione non consente la formazione di grossi cristalli, la tessitura di queste rocce si dice fine. Nel caso delle rocce intrusive al contrario, i cristalli tendono ad accrescersi notevolmente entro caratteristici ammassi detti plutoni, o anche batoliti se molto grandi, oppure incuneandosi entro fratture od altre discontinuità e originando quindi dicchi, filoni, ecc. Si possono così identificare le rocce acide caratterizzate da un contenuto di Quarzo (SiO2) e silicati maggiore del 65% Le rocce basiche, dette anche femiche, hanno un contenuto di Quarzo inferiore al 52% e sono ricche di ferro, magnesio e calcio. Rocce sedimentarie Le rocce sedimentarie si formano in seguito alla diagenesi (litificazione) di sedimenti precedentemente accumulati nei bacini sedimentari. Le rocce sedimentarie sono spesso stratificate, si presentano perciò come una serie di strati di rocce con caratteristiche diverse, sovrapposti dal più antico al più recente. I processi che portano alla diagenesi dei sedimenti sono principalmente la compattazione e la cementazione. La compattazione è dovuta essenzialmente all’aumento di peso che si produce man mano che i sedimenti si accumulano sui depositi più antichi. La cementazione è invece imputabile alle acque circolanti tra i sedimenti, in grado di depositare sostanze cementati entro gli interstizi che riempiono i vuoti rinsaldandone i granuli. Le rocce sedimentarie possono essere suddivise in base alla loro genesi, perciò si distinguono: rocce sedimentarie di origine clastica o detritica, rocce sedimentarie di origine organogena e rocce sedimentarie di origine chimica. La litificazione di clasti fini e finissimi da origine alle argilliti. La diagenesi di sedimenti argillosi con un rilevante contenuto di calcare tende a formare le marne, tipiche rocce di colore in genere grigio-azzurro a volte tendente al nocciola, a grana fine e facilmente erodibili perché tenere. Le rocce piroclastiche possono anch’esse essere ritenute rocce clastiche; esse derivano dalla sedimentazione di emissioni vulcaniche che hanno subito un percorso aereo più o meno lungo. Le rocce organogene o biogene sono formate quasi esclusivamente dall’accumulo di materiali derivanti dall’attività biologica. Tra le rocce più comuni di origine organogena vi sono i calcari. Un altro tipo di rocce organogene, meno diffuso, deriva dall’accumulo di resti scheletrici di organismi con guscio non carbonatico, ma siliceo: rocce silicee. Un altro tipo particolare di rocce organogene, è legato alla deposizione e/o alla trasformazione di resti organici vegetali (carboni) e animali (petroli e idrocarburi vari). Le rocce di origine chimica sono quelle dovute alla precipitazione di Sali in determinati ambienti di deposizione. Le più comuni sono le rocce carbonatiche, dolomitiche e silicee che si formano quando le acque di circolazione divengono soprassature. Rocce metamorfiche Sottoponendo qualunque tipo di roccia ad alte pressioni e/o elevate temperature si formano altri litotipi di proprietà molto caratteristiche: le rocce metamorfiche. Si utilizzano rispettivamente i prefissi orto (origine magmatica) e para (origine sedimentaria) per distinguerle. L’aumento di pressione che innesca i processi di metamorfismo può essere causato dal continuo accumulo di detriti. L’aumento di pressione può inoltre essere causato da spinte tettoniche. Allo stesso modo, quando una roccia è trascinata, per effetto di un movimento di subduzione, ad una certa profondità sotto ad un margine continentale è ugualmente soggetta a spinte tettoniche consistenti. Una roccia attigua ad un magma che risale attraverso la crosta si riscalda e i cristalli che la compongono subiscono delle modificazioni. Intorno al magma, si forma una cosiddetta aureola di contatto in cui le trasformazioni che la roccia incassante subisce sono tanto più consistenti quanto più la roccia è vicina al magma. La deformazione delle rocce Quasi tutte rocce sedimentarie si sono originate a partire da cicli di sedimenti in letti orizzontali, trasformatosi successivamente in strati sub-orizzontali. L’eventuale inclinazione degli strati, così come la presenza di fratture e pieghe, testimonia i successivi sforzi subiti dall’intero ammasso roccioso. Le deformazioni che subiscono le rocce quando sono sottoposte ad un certo sforzo sono dette tettoniche e sono studiate dalla geologia strutturale. Gli sforzi tettonici possono produrre deformazioni delle rocce in parte reversibili (comportamento elastico) ed in parte definitivi (comportamento plastico); in questo secondo caso le rocce manifestano un atteggiamento duttile alle deformazioni. Le rocce quando sono sottoposte a compressione laterale tendono a diminuire la loro estensione, raccorciandosi e piegandosi oppure fratturandosi lungo un piano (piano di faglia) e scorrendo lungo di esso. Le faglie sono classificate in base al movimento lungo il piano di faglia, che dipende dal tipo di forze cui è sottoposto l’ammasso roccioso. Si dice diretta una faglia in cui i due blocchi in movimento sono soggetti ad estensione in quanto sottoposti a sforzi distensivi. Si dice inversa una faglia in cui i due blocchi in movimento sono soggetti a compressione. La faglia è detta trascorrente quando il movimento ha componente orizzontale. Le pieghe si dicono anticlinali quando gli strati sono convessi verso l’alto e presentano le rocce più antiche nel nucleo; si dicono sinclinali quando contrariamente gli strati sono concavi verso l’alto e le rocce più giovani si trovano nel nucleo. La piega, se le spinte non sono simmetriche, po’ assumere una caratteristica forma con un fianco debolmente inclinato e l’altro quasi verticale; in questo caso si forma una cosiddetta piega a ginocchio. Si possono formare pieghe coricate fino a rovesciate quando le spinte sono particolarmente intense ed applicate per lunghi periodi. Nel caso delle pieghe coricate, il loro piano assiale è molto inclinato, fino ad orizzontale. In quest’ultimo caso, il piegamento porta strati più vecchi sopra strati più giovani, perdurando il movimento, si possono formare le cosiddette pieghe impilate. Le geotessiture Il rilievo terrestre si può suddividere in due tipi di crosta terrestre: oceanica e continentale. La crosta oceanica è costituita da una struttura a strati molto regolare, costituiti da un primo spessore di lave basaltiche seguite, più in profondità, da gabbri. La crosta continentale è invece costituita da rocce eterogenee: ignee, sedimentarie e metamorfiche a volte con disposizioni reciproche molto complesse. La diversa composizione della crosta continentale e di quella oceanica si riflette sul loro comportamento nei confronti del sottostante mantello. La crosta per effetto di queste differenze di densità, risente di movimenti verticali, detti isostatici, dovuti alla spinta di Achille. La crosta terrestre quindi si comporta come un oggetto galleggiante sul sottostante mantello superiore. Le terre emerse possono essere suddivise in grandi unità del rilievo dette anche regioni strutturali o geotessiture. Si possono identificare sei diversi tipi di geotessiture continentali: 1. Cratoni Formati dagli scudi (parti più antiche) e dai tavolati vaste aree pianeggianti in cui affiorano spessori esigui di rocce sedimentarie sovrapposte ai bordi degli scudi), costituiscono il cuore dei continenti più stabili e rappresentano i resti delle aree continentali primordiali. 2. Fasce orogenetiche Sono aree nastriformi, generalmente lunghe migliaia di chilometri e larghe alcune centinaia; sono caratterizzate da elevata energia del rilievo. Nella storia evolutiva del nostro pianeta si riconoscono tre diverse fasi orogenetiche tuttora ben visibili in altrettante fasce orogenetiche: caledoniana, ercinica, alpina. 3. Zone di frattura o Fosse continentali Sono costituite da aree depresse, formatesi a seguito di distensione crostale e conseguente movimento di faglie dirette contrapposte. 4. Regioni vulcaniche Sono costituite da grandi estensioni di basalti, di età svariate dal Paleozoico al Cenozoico, che possono raggiungere il chilometro di spessore ed emesse da fratture lineari da cui traboccano lave molto fluide. Assumono l’aspetto di estesi tavolati 5. Coperture sedimentarie antiche Sono costituite da rocce sedimentarie di diverse età, derivanti dall’erosione dei preesistenti rilievi e dalla sedimentazione dei prodotto di demolizione. 6. Bacini sedimentari recenti costituiti da aree depresse in cui prevale la sedimentazione Sono quelli in cui nel Pliocene e Quaternario si sono accumulati grandi quantitativi di sedimenti. Si presentano con aspetto pianeggiante o leggermente ondulato e sono costituiti da: grandi pianure alluvionali, pianure costiere, aree desertiche. 10. LA TETTONICA DELLE PLACCHE La teoria ipotizzata da Alfred Wegener nei primi decenni del XX secolo, conosciuta come deriva dei continenti, è la prima teoria completa che mira a giustificare il movimento relativo delle masse dei continenti. Svariate prove di differente natura possono essere adottate per giustificare lo spostamento reciproco dei vari continenti; tra queste, alcune sono particolarmente evidenti, ad esempio quelle paleontologiche, quelle geologico-petrografiche e quelle paleoclimatiche. Le maggiori critiche alla teoria della deriva dei continenti si concentrano sulla mancanza di comprensione delle cause dello spostamento delle masse continentali. Con gli studi sul paleomagnetismo, caddero le perplessità riguardanti sia gli spostamenti dei continenti e sia soprattutto le cause di tali movimenti. Lo studio dei fondali oceanici Oggi sappiamo che il campo magnetico terrestre non è perfettamente coincidente con il polo di rotazione. L’esistenza del campo magnetico terrestre deriva dai moti che avvengono in profondità, in grado di riprodurre parzialmente le condizioni di una dinamo. Il campo magnetico terrestre non è comunque immutabile, ma subisce degli spostamenti e dei cambiamenti d’intensità. Lo studio sistematico delle caratteristiche paleomagnetiche dei fondali oceanici ha chiarito i processi che sovraintendono alla produzione di crosta oceanica e ai movimenti della stessa. Le indagini, compiute con l’ausilio di strumenti di misura geofisica, hanno rivelato, oltre all’andamento delle bande d’anomalia magnetica dei fondali, anche il flusso di calore proveniente da questi ultimi, la composizione delle rocce oceaniche e l’età dei sedimenti accumulati sui fondali. La crosta oceanica è, infatti, costituita da rocce di età differente, distribuite in strisce parallele e simmetriche rispetto la dorsale. I fondali oceanici sono, perciò, caratterizzati da morfologia movimentata, dotati di specifiche strutture non immaginabili prima dell’esecuzione di apposite campagne oceanografiche. I fondali divengono più profondi all’aumentare della distanza dalla dorsale e a volte un tratto di dorsale può emergere dalla superficie del mare, costituendo isole di natura vulcanica. Lo spessore dei sedimenti accumulati sui fondali profondi, costituiti da fanghi pelagici (argille rossastre), tende inoltre ad aumentare a distanze crescenti dalla dorsale. Alcune dorsali possiedono nella parte centrale una fossa tettonica molto profonda da cui fuoriescono grandi quantità di magmi basaltici. Alcuni oceani sono attualmente in espansione: si sta formando nuova crosta oceanica a partire dalla dorsale, mentre le parti più vecchie del fondale oceanico si allontanano da essa. L’apertura di oceano è causata dai movimenti ascendenti e divergenti di una cella convettiva posta sotto un continente. I movimenti convettivi sotto la crosta inducono, in corrispondenza della risalita di materiale caldo, inizialmente un processo di inarcamento, seguito dalla formazione di una serie di fratture distensive che producono una depressione tettonica (rift valley). Queste fasi si traducono nell’assottigliamento fino alla separazione dei due blocchi in cui si insinua il mare. La superficie dei fondali marini non può crescere illimitatamente ma, al contrario, deve mantenere un’estensione all’incirca costante. La teoria delle tettonica delle placche spiegò le cause e i processi che portarono all’espansione ed alla chiusura degli oceani. La tettonica delle placche si fonda sulla constatazione che la superficie terrestre è costituita da un involucro rigido, suddiviso in un certo numero di placche svincolate tra loro ed in movimento reciproco sui sottostanti materiali, relativamente più plastici. Al contatto tra placche diverse, si concentrano le aree di fossa oceanica e le catene montuose recenti; si misurano inoltre alte concentrazioni d’attività sismica e vulcanica, da mettere in relazione con i movimenti reciproci tra le placche stesse. Le aree caratterizzate da elevata attività sismica si rinvengono in quattro situazioni molto caratteristiche: - Nelle dorsali medio-oceaniche Nelle aree di fossa oceanica e di catene montuose costiere Lungo le faglie trascorrenti (a componente orizzontale) Nelle aree di catene montuose interne Gli ipocentri dei diversi terremoti si dispongono generalmente lungo una fascia, il cosiddetto piano di Benjoff. Tale fascia di sismicità corrisponde alla placca oceanica che s’immerge sotto ad un’altra placca, per essere progressivamente riassorbita nel mantello. La tettonica delle placche Si può notare che le dimensioni delle placche litosferiche sono estremamente variabili. Sono costituite prevalentemente o da sola crosta oceanica o da sola crosta continentale. Le placche continentali, dotati di una minore intensità rispetto a quelle oceaniche, non sono in grado di affondare ed essere riassorbite dal mantello. Nel caso avvenga lo scontro tra due continenti, i loro margini si deformano, si piegano e si accavallano ispessendosi e dando origine ad una catena montuosa. Al contrario una placca oceanica che si scontra con una placca continentale tende affondare. Per comprendere meglio i processi d’interazione tra le placche continentali si può valutare il tipo di margine che le contraddistingue. Questi margini possono essere classificati in: Margine continentale passivo: margine tettonicamente inattivo che circonda un oceano in espansione; la crosta oceanica si affianca a quella continentale senza che s’inneschi il processo di subduzione. La sedimentazione avviene indisturbata, con forti apporti dai continenti sul rialzo continentale, che si distribuiscono senza ostacoli verso il largo. Margine continentale trasforme: in esso, il rialzo continentale corrisponde ad una rapida scarpata di faglia trasforme Margine continentale attivo: margine che circonda un oceano in contrazione, tettonicamente attivo; infatti, sono presenti movimenti di subduzione della crosta oceanica sotto quella continentale. Lungo il margine attivo si registra un intensa attività sismica e vulcanica e la sedimentazione è condizionata dalla presenza delle profonde fosse. Il margine pacifico può essere suddiviso in due sottotipi: a) Il sistema arco-fossa costituito da un arco magmatico, rappresentato da una sere di rilievi in buona parte vulcanici, fronteggiato da una fossa molto profonda. b) Il sistema arco-fossa associato ad un bacino marino marginale di retro-arco posto tra l’arco insulare ed il margine continentale vero e proprio. Quando una placca continentale ed una oceanica si scontrano, ovvero le due placche convergono, quella oceanica sprofonda nell’astenosfera fino a fondersi. La fusione, prima parziale e poi totale, porta il materiale meno denso a risalire ed a formare al di sopra del piano di Benjoff un vero e proprio arco magmatico. Lungo il margine, si sovrappongono i depositi accumulati sul fondo dell’oceano e nelle fosse tettoniche, con i prodotti dell’attività vulcanica dell’arco. Gli oceani quindi si evolvono in continuazione, si possono allargare e restringere ma si possono anche aprire e richiudere completamente. Vulcani e terremoti, due manifestazioni diverse ma cause comuni I vulcani I vulcani sono la manifestazione in superficie dell’attività magmatica che avviene in profondità entro alcune centinaia di chilometri. Nei vulcani avviene la risalita di magma dell’interno della Terra verso la superficie. L’attività vulcanica ha contribuito alla formazione di larga parte della crosta terreste. Tale attività ha contribuito anche alla formazione dell’atmosfera terrestre, dopo la fuga di quella primordiale. I magmi primari provengono dal mantello esterno, dove la combinazione di temperature e pressione è tale da consentire una parziale fusione delle rocce. Il magma fuso si comporta come una bolla di materiale meno denso delle rocce circostanti; esso tende a risalire attraverso la crosta lungo eventuali fratture e discontinuità, per giungere ove possibile in superficie. Nel viaggio verso la superficie, il magma cambia composizione poiché subisce una parziale perdita dei componenti volatili (i gas) ed a contatto con le rocce incassanti acquisisce nuovi componenti. Il tipo di eruzione dipende, oltre che dalla densità e dalla composizione del magma, anche dalla struttura geologica entro cui è posto il condotto magmatico. Nella sua forma più tipica, un vulcano comprende tre elementi, che sono: L’area d’alimentazione, situata a decine di chilometri di profondità, e l’eventuale camera magmatica, situata entro i primi chilometri della crosta, Il condotto vulcanico, costituito dalle fratture entro cui il magma s’insinua per giungere in superficie, L’edificio vulcanico, costituito dai prodotti dell’eruzione disposti a cono, eventualmente composito per effetto di emissioni laviche da crateri diversi che si aprono contemporaneamente o in momenti successivi Una delle evoluzioni più caratteristiche per un edificio vulcanico è quella che porta alla formazione di una caldera. Le caldere sono grandi depressioni che si trasformano in corrispondenza di un rilievo vulcanico. La classificazione dei vulcani può effettuarsi in base al tipo d’eruzione prevalente, durante la loro attività; questo può creare qualche problema poiché l’attività vulcanica può subire un’evoluzione con il trascorrere del tempo. Il tipo d’attività vulcanica varia con la viscosità del magma. L’eruzione di tipo hawaiiano, puntiforme può segnalare la presenza di un punto caldo che trae alimentazione direttamente dal mantello superiore. Un punto caldo si mantiene immobile sulla superficie terrestre mentre la placca crostale si muove sopra di esso. Le eruzioni di tipo stromboliano sono quelle dove ad un’attività prevalente di tipo effusivo, si associa anche un attività esplosiva più o meno regolare. Le lave, anche in questo caso sono basaltiche, piuttosto fluide, ristagnando nel cratere poiché le emissioni non sono così copiose come nei casi precedenti. Le eruzioni di tipo vulcaniano, dall’omonima isola nell’arcipelago delle Eolie, sono simili a quelle di tipo stromboliano ma caratterizzate da attività maggiormente esplosiva. In questo caso le lave sono più acide e conseguentemente più viscose. Eruzioni ancor più esplosive sono quelle conosciute come pliniane. Tali eruzioni sono contraddistinte da un’esplosione iniziale molto violenta, in grado di distruggere la parte sommitale dell’edificio vulcanico e svuotare rapidamente il condotto superiore. A queste fasi, segue la rapida risalita di magma più profondo che, espandendosi velocemente, viene eruttato sotto forma di nube densa, ricca di gas e di particelle molto fini. Le eruzioni di tipo peleéano (dal vulcano Peleé in Martinica) avvengono con magmi ancor più viscosi; sono inoltre caratterizzate da lave le cui temperature sono generalmente basse, comprese tra i 600°C e gli 800°C. Le lave, in questo caso, si solidificano quasi ancor prima di entrare in contatto con l’atmosfera, formando anche cupole e denti alti centinaia di metri. Le grandi eruzioni vulcaniche a carattere basaltico, con lave fluide (tipo hawaiano e islandese) sono generalmente ubicate lungo le dorsali medio-oceaniche o in zone circoscritte: i cosiddetti punti caldi. Manifestazioni vulcaniche secondarie Manifestazioni tardive di vulcanismo, in altre parole attività di emissione di gas e acque termali dopo che le fuoriuscite di lave sono definitivamente terminate, si possono registrare per tempi lunghissimi. Geyser: costituiti da emissioni d’acqua calda e vapore acqueo, ad intervalli regolare. Fumarole: emissioni di gas e vapori caldi, spesso ricche di zolfo. Mofete: emissioni d’acqua ed anidride carbonica. Vulcanetti di fango: in cui il ribollire dei laghetti d’acqua o di fango è dovuto all’emissione dei gas. I terremoti I terremoti sono da considerarsi calamità naturali tra le più devastanti. I terremoti, detti anche sismi, si manifestano con un improvvisa manifestazione di energia, scaturita ad una certa profondità dalla superficie terrestre. Il punto entro la crosta in cui si libera l’energia è detto ipocentro o fuoco del sisma. Le rocce sottoposte a sforzi (compressioni, distensioni, rotazioni, ecc.), si comportano in modo elastico e si deformano progressivamente fino a raggiungere un punto critico. Raggiunto questo limite, si innesca un rapido movimento conseguente ad una lacerazione nel punto più debole dell’ammasso roccioso, in genere in corrispondenza di una faglia; lungo il piano di faglia, si manifesta quindi uno spostamento. Le due parti dell’originaria massa rocciosa a questo punto sono libere di reagire elasticamente, riacquisendo in pochi secondi il loro volume iniziale per ritornare nuovamente in uno stato di equilibrio. Il brusco ritorno delle masse rocciose all’equilibrio provoca la liberazione dell’energia elastica, accumulata nel lungo periodo precedente il movimento, scatenando violente vibrazioni che si propagano come onde sismiche. Il terremoto può essere avvertito quando giunge sulla superficie terrestre; il punto dove gli effetti dovrebbero essere massimi è quello ubicato sulla verticale dell’ipocentro, detto epicentro. Per valutare il grado d’intensità di un terremoto si utilizzano scale diverse; alcune registrano l’intensità vera e propria del sisma, altre gli effetti da esso prodotti. La scala Richter ad esempio determina la magnitudo, in altre parole la quantità di energia rilasciata dal terremoto, misurata dall’ampiezza delle oscillazioni registrate a 100 km di distanza dall’epicentro. La scala Mercalli-Cancani-Sieberg rivela invece gli effetti del terremoto su persone, edifici e terreno. È quindi fortemente condizionata dalla qualità delle costruzioni presenti nell’area. Ubicazioni dei principali terremoti La distribuzione dell’attività sismica coincide con le aree di margine delle placche e con buona approssimazione si sovrappone alle aree di intensa attività vulcanica. Rischio sismico e vulcanico Mentre Prevenzione Purtroppo non esistono ancora metodi o strumenti in grado di fornire una previsione attendibile in termini di tempo per i terremoti. Per questo la difesa e la mitigazione del rischio sismico è affidata ad interventi passivi. Gli interventi passivi consistono nella progettazione e costruzione antisismica degli edifici e nella predisposizione di infrastrutture in grado di funzionare anche dopo in evento di una certa intensità. Un elemento estremamente importante per la mitigazione del rischio sismico è affidato anche all’educazione antisismica, che dovrebbe consentire ad ogni cittadino di conoscere il miglior comportamento da seguire in caso di terremoto: Posizioni dei mobili e oggetti negli edifici (librerie fissate al muro, oggetti pesanti collocati sui piani bassi, letti distanti dalle finestre, uscite non ingombrate, ecc.) Vie di fuga ben segnalate Luoghi dove proteggersi convenientemente (architravi, tavoli,ecc.) Non scendere per e scale Non usare ascensori Non avvicinarsi alle finestre Non affacciarsi al balcone Allontanarsi dai cornicioni e linee elettriche Dopo il terremoto è bene verificare lo stato degli edifici (tubature, cavi, ecc.) Il rischio vulcanico differisce da quello sismico poiché è più facilmente localizzabile, in genere le eruzioni sono precedute da una serie di eventi premonitori e quindi da un certo punto di vista è un rischio che può essere gestito più facilmente. 11. FOSSILI E TESTIMONIANZE DI VITA NEL PASSATO I fossili rappresentano la testimonianza di organismi vissuti nel passato; oltre alle vere e proprie spoglie degli organismi, più o meno conservate. Le probabilità che si conservi qualche traccia di una forma di vita aumenta fortemente nelle aree in cui l’organismo viene sepolto ed inglobato velocemente dai sedimenti, dove le condizioni chimiche favoriscono i processi di conservazione e dove l’ossidazione della sostanza organica, responsabile della putrefazione, è rallentata. Le migliori condizioni di fossilizzazione si trovano in genere sui fondali marini. La fossilizzazione Tra le tracce di vita da ricordare le orme e le piste lasciate su superfici che ne abbiano conservato l’immagine: una sorta di calco. La fossilizzazione degli organismi, avviene dopo la morte in seguito ad almeno quattro diversi processi, in grado di: conservare l’intero organismo oppure pietrificare la parte solida <8scheletro, guscio, ecc.) o ancora carbonizzare i tessuti molli o infine conservare impronte e modelli. La conservazione dell’intero essere vivente, o di parte di esso, è un evento piuttosto raro ma può avvenire quando l’organismo è inglobato entro sostanze in grado di rallentare i processi si decomposizione, a volte fino a quasi ad arrestarli (ambra, asfalti, bitumi, ghiacco,..). La pietrificazione è uno dei processi più comuni responsabili della fossilizzazione; esso consiste nella trasformazione delle parti più resistenti dell’organismo in vere e proprie strutture litoidi, senza più la presenza di sostanza organica. Questo processo può avvenire secondo due procedure: la mineralizzazione e la sostituzione. La carbonizzazione avviene in ambiente anaerobico (assenza di ossigeno). In pratica, i tessuti molli si distillano, liberando anidride carbonica e acqua che si disperde nell’ambiente; sul posto si conserva solo eccezionalmente il contorno della parte molle, mentre spesso rimangono tracce nerastre della foglia o dell’animale, costituite dai resti di carbonio. I modelli e le impronte si formano quando i sedimenti riempiono o avvolgono un organismo conservandone quindi il calco dopo la litificazione. Il popolamento della Terra La Terra, dopo la sua formazione, avvenuta circa 5 miliardi di anni fa, era disabitata. L’evoluzione della vita è un processo naturale; secondo la teoria dell’evoluzione, che è alla base della moderna biologia e si è sviluppata a partire dalla seconda metà dell’Ottocento con le teorie di Darwin, le diverse forme di vita attualmente presenti sul pianeta si sono evolute in modo sempre più complesso e diversificato sulla base d’innumerevoli cambiamenti introdotti e trasmessi di generazione in generazione. La geologia, mediante lo studio dei fossili operato dai paleontologi, è così in grado di attribuire un’età ad alcuni sedimenti che contengono fossili ben precisi. I fossili consentono anche di determinare dalla situazione ambientale, in combinazione con l’età delle rocce in cui sono contenuti. L’evoluzione ha comportato con il trascorre del tempo, un aumento della complessità della vita ed una diversificazione delle popolazioni sia animali e sia vegetali, in conseguenza anche della distribuzione dei continenti sulla Terra. Si riescono così ad individuare alcune tendenze evolutive generali. Al contempo, è possibile riconoscere filoni evolutivi che comprovano la colonizzazione di alcuni areali da parte di alcune specie, così come la loro scomparsa in altre aree. La vita sulla Terra inizia in un momento molto lontano del calendario terrestre; ciononostante le scarse rocce sedimentarie antiche che si rinvengono sulla superficie terrestre non contengono tracce di fossili, a testimoniare che la vita, nel momento in cui queste rocce si formavano, non era ancora comparsa, almeno nelle forme a noi conosciute. Le teorie che più trovano riscontri e sostegno nella comunità scientifica indicano che il nostro primo antenato sia nato in Africa, lungo il graben orientale, nella regione dei grandi laghi. È da questa zona che provengono, per ora, tutti i reperti più antichi di resti strettamente imparentati con l’uomo. Ardipithecus In particolare è stato individuato nei reperti del sito di Aramis (Ardipithecus ramidus) l’anello di collegamento fra le scimmie antropomorfe africane ed i successivi fossili di Australopithecus da cui discende l’uomo. Tutte le specie di Australopithecus rinvenute, indicano che questi erano sicuramente bipedi e dotati di un cervello con dimensioni paragonabili a quello delle scimmie antropomorfe. Avevano inoltre denti grandi e robusti, con canini non sporgenti. I più antichi ritrovamenti di Austrlopithecus datano a circa 4 milioni di anni dal presente (Australopithecus anamensis). Circa un milione di anni dopo ovvero più o meno 2 milioni di anni fa comparvero i primi esemplari del genere Homo, che per un certo periodo convissero anche a stretto contatto con Australopithecus robustus. Fino a pochi decenni fa si riteneva erroneamente che la specie Homo sapiens discendesse dai Neanderthaliani; per un certo periodo le due specie convissero fino all’estinzione attorno a 40-60 mila anni fa dei Neanderthaliani. 12. GEOMORFOLOGIA La geomorfologia si occupa dello studio delle forme della superficie terrestre, non che dei processi che concorrono a modellare il rilievo del Pianeta. Lo studio geomorfologico è in genere limitato ad un intervallo geologicamente molto breve: di solito il Quaternario, in altre parole a quel lasso di tempo che va da 1,8 milioni d’anni fa fino ad oggi. Il quaternario è suddiviso in Pleistocene ed Olocene. Pleistocene: Pleistocene inferiore Pleistocene medio Pleistocene recente Innanzitutto, le cause dei processi geomorfologici hanno una ragione di tipo fisico; esse possono essere costituite da forze endogene e/o da forze esogene. Forze endogene: risiedono all’interno del nostro Pianeta. a) Le temperature elevate dell’interno della Terra che consentono la realizzazione di moti convettivi al di sotto della crosta e quindi, in superficie, di movimenti tettonici ed orogenetici. b) La risalita di materiale fuso fino in superficie che si manifesta in svariati fenomeni vulcanici. c) La gravità terrestre che attrae tutti i corpi secondo vettori diretti verso il centro della Terra. I processi endogeni sono quelli che, nella maggior parte dei casi, conducono alla nascita di forme persistenti nel tempo e di vaste dimensioni. Le geotessiture (scudi continentali..)sono chiari esempi di forme modellate da forze endogene. Forze esogene: derivano dall’interazione tra la Terra e gli altri corpi celesti, in particolar modo, in ordine decrescente d’importanza: il Sole, la Luna e gli altri pianeti del sistema solare. a) L’energia inviata dal Sole al nostro pianeta, che causa la circolazione delle correnti marine ed i venti, le precipitazioni meteoriche, ecc. b) Il moto di rotazione e rivoluzione della Terra che condiziona fortemente le variabili climatiche e la circolazione dei venti e delle correnti marine. c) L’attrazione gravitazionale e le interazioni reciproche con altri corpi del sistema solare che producono maree. Le forme modellate da forze esogene sono costituite da entità più recenti e minute, che tendono a sovrapporsi alle precedenti forme prodotte da forze endogene, riuscendo a volte a modificarle a tal punto da potere mascherare. Le morfostrutture sono forme di dimensioni più ridotte, dove la componente del modellamento causato da forze endogene è prevalentemente su quella esogena. Le morfosculture sono forme dovute ai processi esogeni e la loro persistenza è molto più ridotta, potendo essere limitata anche a qualche anno. Le goemorfologia studia prevalentemente quest’ultimo tipo di forme, occupandosi in particolar modo della dinamica esogena. Nello studio geomorfologico si devono distinguere tre parametri che concorrono a descrivere e giustificare tutti i processi di modellamento della superficie terrestre: 1) Agenti di modellamento: sono i soggetti attraverso i quali le forze esogene modificano il rilievo di genesi endogena. I principali agenti del modellamento sono la gravità, le acque di ruscellamento superficiale, il mare, i ghiacciai, il vento, l’uomo, ecc. 2) Fattori geologici o strutturali: descrivono le caratteristiche del substrato su cui agiscono gli agenti del modellamento. I fattori strutturali hanno anche un’influenza di tipo dinamico poiché, oltre ad includere la varietà di roccia o sedimento affiorati, comprendono anche i movimenti cui è soggetto il substrato. Questi movimenti possono essere rapidi, come nel caso delle faglie durante un sisma, oppure lenti e difficilmente percettibili, ma altrettanto importanti in un lasso di tempo confrontabile a quello dei processi in atto nell’area. 3) Condizioni climatiche: descrivono quella serie di caratteristiche di un’area (temperatura, insolazione, ventosità, precipitazioni, ecc.) in grado di aumentare o contrastare il procedere di buona parte dei processi geomorfologici. Le condizioni climatiche inoltre influenzano direttamente la crescita e la distribuzione della vegetazione. Ai tre parametri, in considerazione del fatto che i processi geomorfologici sono estremamente dinamici, si deve aggiungere il parametro tempo, che consente di valutare anche l’intensità ed il grado di attività di un processo. Il tempo è importantissimo per definire la velocità di un processo geomorfologico; è altresì fondamentale, quando la geomorfologia deve applicarsi alla nostra società, ovvero quando dobbiamo riconoscere se un processo è tutt’ora in atto o se lo stesso è ormai compiuto. In questo caso il geomorfologo classifica i progetti in tre tipologie: 1- Processi attivi: sono quelli che risultano in evoluzione durante il periodo d’osservazione o di immediato passato. 2- Processi quiescenti: sono quelli che pur non essendo attivi al momento del rilevamento, lo sono stati sicuramente in queste condizioni morfoclimatiche e non avendo esaurito completamente la loro evoluzione, potrebbero ragionevolmente riattivarsi. 3- Processi non attivi: sono quelli che, al momento del rilevamento, non mostrano alcuna evoluzione e, dagli indizi raccolti, si ritiene che abbiano completato il loro iter evolutivo e che, nell’attuale sistema morfoclimatico, non possono subire ulteriori evoluzioni. L’evoluzione delle forme del rilievo passa necessariamente attraverso le fasi di: - Erosione Trasporto Sedimentazione Rispettando le poche definizioni fino a qui enunciate dovrebbe risultare abbastanza semplice attribuire ad ogni forma una genesi precisa ed un suo grado di attività. Nella realtà questo non è sempre così immediato ed alcune volte risulta complicato dalla possibilità che agenti diversi del modellamento producano forme molto simili. Questo problema è conosciuto come convergenza geomorfologica. I problemi di convergenza morfologica si risolvono generalmente studiando un’area più ampia di quanto sia necessario per analizzare una semplice forma. Gli strumenti per la ricostruzione dell’evoluzione geomorfologica di un territorio: Il geomorfologo nello studio delle forme del rilievo terrestre e nell’interpretazione della loro genesi ed evoluzione si avvale di numerosi strumenti, spesso affidandosi a specialisti di altre discipline scientifiche. La collaborazione interdisciplinare è ormai pratica sperimentata e fruttuoso; essa consente al geomorfologo di ottenere notevole supporto nel riconoscere ambienti del passato ed età delle singole forme ma, allo stesso tempo, riporta importanti informazioni utili per gli altri campi di ricerca, principalmente la botanica, l’archeologia, la climatologia, ecc. Indagini geologiche in senso lato Gli studi di discipline affini quali la geologia stratigrafica, la paleontologia, la geofisica ed i metodi di prospezione diretti contribuiscono frequentemente alla ricerca geomorfologica. Prima di avventurarsi nella descrizione e nell’interpretazione delle forme del territorio è, infatti, indispensabile comprendere il contesto geologico generale. La geofisica permette poi di interpretare, utilizzando metodi indiretti di tipo fisico (es. sismica, geoelettrica, georadar, ecc.) anche ciò che non si può osservare direttamente, perché ubicato al di sotto della superficie. I metodi diretti di prospezione sono molto utili perché permettono di campionare, ad esempio attraverso perforazioni, ciò che sta sotto la superficie, ad una certa profondità. Telerilevamento Le indagini geomorfologiche si avvalgono in larga misura del telerilevamento, in altre parole dei dati reperiti attraverso sensori in grado di osservare la superficie terrestre da una certa distanza. Tra queste indagini, la più comune è l’interpretazione delle fotografie aeree. Queste sono vere e proprie fotografie scattate ad intervalli regolari, da un aereo che segue una rotta rettilinea, in modo tale che ogni punto della superficie terrestre da esaminare sia rappresentato su almeno due fotografie successive. In questo modo, ogni oggetto è fotografato da due prospettive differenti e, se osservato con l’ausilio di uno strumento stereoscopico, ne viene riprodotta la terza dimensione, creando così il rilievo. Con tale metodologia si può in pratica osservare il territorio simulando la visione da un punto fisso posto in quota. La vista stereoscopica è, infatti, data dalla nostra visione binoculare, vale a dire la possibilità di osservare un oggetto secondo due angoli diversi. Questa capacità di osservare le distanze si acuisce quando gli occhi sono più distanti. Nell’interpretazione delle fotografie aeree si utilizza il medesimo principio; in pratica, si osserva il territorio simulando la posizione degli occhi su due consecutivi punti di scatto dalla rotta aerea. Lo strumento utilizzato è lo stereoscopio. Altre indagini telerilevate sono quelle che si compiono utilizzando le immagini satellite. Queste sono in forma digitale, suddivisi secondo diverse bande, ottenute da appositi sensori posti sui satelliti. Non tutte le bande rientrano nel campo visibile e quindi, una volta decodificate, le possibilità di indagine si ampliano a lunghezze d’onda che l’uomo non è i grado di apprezzare. Le immagini dal satellite, ormai ampiamente utilizzate, sono generalmente presentate a falsi colori. Indagini archeologiche L’archeologia, soprattutto quella preistorica, è indispensabile per la ricostruzione geomorfologiche, dell’Olocene antico e medio, a volte anche per il Pleistocene superiore; ovviamente l’archeologia degli insediamenti preistorici a sua colta non può prescindere dallo studio geomorfologico. Il geomorfologo ottiene dalle indagini archeologiche informazioni preziose sull’età delle forme, sull’ecologia e sull’ambiente in cui si sono evolute certe forme del paesaggio. L’evoluzione di culture umane e delle relative industrie è utilizzata per affinare la comprensione delle forme di un territorio e soprattutto per la datazione di quelle stesse forme. Questi dati sono inoltre in stretta relazione con caratteristiche climatiche differenti. Possiamo così introdurre una suddivisione di tutto il Quaternario. Metodi di datazione e di ricostruzione climatica Misure di tipo fisico Metodi chimici e biologici Metodi indiretti Misure radiometriche Tracce di fissazione Metodi paleomagnetici Termoluminescenza Rapporti isotopici Dendrocronologia Lichenometria Racemizzazione degli aminoacidi Metodi paleontologici Metodi palinologici Studio della pedogenesi Tefrocronologia Indagini geoarcheologiche Varve Livelli marini Concrezioni Indagini storiche 1. Misure radiometriche Le principali misure dirette di tipo fisico utilizzate nella datazione di forme del paesaggio sono quelle radiometriche, che misurano il decadimento radioattivo di alcuni elementi naturali. In natura, infatti, vi sono elementi che emettono radizioni decadendo in altri elementi.le reazioni di decadimento più impegnative in quest’ambito riguardano l’emissione di radiazioni alfa, tipico di elementi pesanti; e l’emissione beta per gli elementi più leggeri. Il decadimento radioattivo avviene secondo una legge fisica del tipo: l y t= ln (1+ D ) P dove t= tempo di decadimento (tempo necessario al dimezzamento degli atomi radioattivi in seguito al decadimento); l= costante di decadimento¸ D= numero di atomi radiogeni al tempo t; P= numero di atomi radioattivi; D+P= N0 il numero di atomi radioattivi iniziali. La costante di decadimento nota sperimentalmente per i diversi isotopi radioattivi, consente di valutare il campo di applicabilità dei vari isotopi. I metodi di datazione più impiegati sono quelli che fanno riferimento all’Uranio ed ai suoi derivati, al Potassio ed al Carbonio. L’Uranio è affine al calcio, tende perciò a concentrarsi nei Sali che contengono calcio sostituendosi ad esso. L’Uranio inoltre è facilmente solubile, mentre non lo sono i suoi prodotti di decadimento; questi ultimi si cominciano quindi a formare nelle concrezioni solo in seguito al decadimento stesso. L’altro elemento utilizzato per le datazioni radiometriche è il Potassio 40 che si trasforma negli isotopi 40Ca e 40Ar. Il metodo del 14C, valido negli ultimi 30-500000 anni, è di gran lunga il più utilizzato, dotato di buona precisione ed impiegato in numerosi laboratori specializzati a prezzi contenuti. Ogni organismo vivente è in equilibrio con l’ambiente circostante e attraverso scambi continui con l’esterno mantiene costante, nei propri tessuti, il rapporto tra gli isotopi del carbonio radioattivi e quelli non radioattivi. Quando un organismo muore e viene sepolto dei sedimenti, la sostanza organica perde la capacità di mantenersi in equilibrio con l’ambiente esterno; il processo di decadimento dell’isotopo 14C produce la sua progressiva riduzione alterando il rapporto esistente in natura tra 14C e 12C. L’età del campione è fornita perciò contando il numero di atomi di carbonio 14 sopravvissuti sul totale di atomi di C iniziale. Il procedimento permette di stimare l’età entro un certo intervallo di confidenza del 95%. Le età così ottenute si possono successivamente trasformare in età calendario o calibrate, confrontando i risultati con opportune curve di calibrazione ottenute anche attraverso studi di dendrocronologia. 16 18 2. Rapporto O/ O Altri metodi di tipo fisico coinvolgono lo studio del rapporto isotopico tra gli elementi. La rilevazione di questo tipo riesce a quantificare con sufficiente approssimazione i cambiamenti di volume dei ghiacci continentali e conseguentemente permette la stima del livello degli oceani, durante le fasi di espansione glaciale, l’isotopo più leggero tende a concentrarsi nelle calotte glaciali (evapora più facilmente e precipita come neve sui continenti) mentre gli oceani si arricchiscono dell’isotopo più pesante (18 O). La variazione del rapporto 16 O/18 O viene puntualmente registrata sia nel carbonato di calcio, che costituisce molti gusci di organismi marini, e sia nei carotaggi delle calotte glaciali, effettuati in varie località nel nostro pianeta. È così possibile leggere il grafico che presenta in ordinate l’età dei ghiacci ed in ascisse il rapporto 16 O/18 O come un grafico temperature-tempo. Le carote di ghiaccio consentono di effettuare anche una serie di misure estremamente interessanti sugli inclusi (polvere, ceneri vulcaniche, inquinanti, ecc.) e sulla composizione dell’atmosfera confinata entro le bolle di aria intrappolate nel ghiaccio. 3. Paleomagnetismo La misura del paleomagnetismo non è una vera e propria tecnica di datazione; la registrazione nelle successioni stratigrafiche dell’intensità e della direzione del campo magnetico terrestre attivo al momento della sedimentazione. Il campo magnetico terrestre, infatti, viene registrato e mantenuto nei sedimenti e nelle rocce che non sono riscaldate oltre una certa temperatura detta Punto di Curie. Al di sopra di tale punto i composti magnetici si ridispongono secondo il campo magnetico attivo in quel momento, mantenendo quest’orientazione quando la temperatura scende sotto il punto di Curie. I metodi paleomagnetici servirono a comprendere il meccanismo di espansione dei fondali oceanici a partire dalla zona di dorsale medio-oceanica. La scala paleomagnetica del Pleistocene ad oggi registra una serie di inversioni del campo magnetico terrestre: alcune di durata prolungata, altre costituite da episodi brevi. 4. Termoluminescenza 5. 6. 7. 8. La termoluminescenza è un metodo di datazione fisico; essa sfrutta la proprietà dei reticoli cristallini di immagazzinare gli elettroni che si formano in seguito alle reazioni di decadimento radioattivo. Questi elettroni vengono liberati quando i reticoli cristallini sono scaldati oltre una certa soglia. Da questo momento il sistema è azzerato, po’ iniziarsi l’accumulo di elettroni ed un eventuale misura in laboratorio consente di stimare l’età del campione dal momento dell’azzeramento dello stesso. Questa tecnica funziona molto bene nel caso di reperti archeologici ceramici, che hanno subito la cottura. Dendrocronologia Dendrocronologia e dendroclimatologia si fondano sullo studio dell’accrescimento degli alberi. Questo tipo di studio è in grado di spiegare le condizioni ambientali del territorio in cui la pianta si è accresciuta. Nei laboratori specializzati, a partire dagli inizi del XX secolo, viene analizzato attentamente il progressivo accrescimento delle piante arboree che consiste principalmente nell’analisi degli anelli meristematici. In condizioni normali il tronco subisce, infatti, un progressivo accrescimento che si manifesta nella formazione di anelli concentrici a ciclicità annuale. Gli anelli non hanno le medesime dimensioni poiché queste sono condizionate dagli andamenti climatici e da numerose altre condizioni che possono influire sull’accrescimento della pianta. L’analisi di più soggetti e soprattutto le correlazioni di numerose piante in luoghi differenti ha permesso di costruire delle serie cronologiche che superano di gran lunga il periodo di vita delle singole piante. Esistono attualmente curve dendrocronologiche di riferimento per alcune essenze particolarmente significative, ben correlate ai dati climatici degli ultimi millenni ricavati da altri metodi diretti ed indiretti. Le due serie più conosciute sono quella del pino americano (pinus aristata), tra California e Nevada, che retrocedono nel tempo fino a 5000 anni B.P. e quella della quercia (quercus robur) tipica delle foreste di latifoglie dell’intera Europa. Lichenometria La lichenometria è una tecnica che si fonda sulla misura dell’espansione delle colonie di licheni sulle superfici rocciose. I licheni sono associazioni simbiotiche di un fango microscopico e di alghe unipluricellulare. La colonia, costituita da un corpo vegetativo detto tallo lichenico che ha una sua unitarietà, si espande costantemente, allargandosi progressivamente su superfici rocciose nude. La dimensione della colonia è proporzionale al tempo di insediamento, perciò, lo studio delle dimensioni e della modalità di espansione della colonia stessa permette di investigare l’età di esposizione delle superfici rocciose su cui i licheni si sono insidiati. Purtroppo questo metodo risente moltissimo delle condizioni microclimatiche e conseguentemente si possono dedurre solamente età relative in aree molto vicine. Ha il vantaggio di essere un metodo molto semplice e pratico nonché assolutamente poco costoso, ma purtroppo ha lo svantaggio di essere poco preciso. Racemizzazione degli aminoacidi La racemizzazione degli aminoacidi indaga i gruppi amminici dei composti organici. Gli aminoacidi naturali negli organismi viventi si presentano tutti nella forma levogira; dopo la morte dell’organismo gli aminoacidi tendono a trasformarsi nella forma destrogira, fino al completo equilibrio tra le due forme (racemizzazione). Conoscendo la velocità di racemizzazione e la quantità di aminoacidi levogiri presenti nel campione, si può risalire alla stima dell’età della morte del tessuto organico esaminato. Metodi paleontologici La paleontologia è la disciplina che studia gli esseri viventi del passato. Numerose rocce sedimentarie hanno un contenuto di fossili macroscopici, ma più spesso microscopici, che sono studiati sia per datare le rocce ma anche per individuare le condizioni ambientali in cui queste si formano. In ambito continentale, il ritrovamento di specie diffuse in grandi praterie piuttosto che nella foresta, ci può trasmettere ulteriori informazioni sulle condizioni ambientali del passato. Le migrazioni e le espansioni areali di specie animali e vegetali consentono di registrare le variazioni di temperatura, insolazione, umidità, ecc. Tra i metodi paleontologici si possono anche enumerare quelli riferibili alla studio dei pollini. I pollini, infatti, per la loro resistenza ed abbondanza, sono uno strumento molto importante nella ricostruzione del quadro biogeografico. L’analisi dei pollini riguarda soprattutto quelle specie vegetali che trovandosi in posizioni limite rispetto al loro habitat naturale compiono importanti migrazioni, sia in senso latitudinale sia altitudinale. Fu il botanico norvegese Axel Blytt che, alla fine del XIX secolo, scoprì nelle stratigrafie di alcune torbiere danesi e norvegesi che, dall’inizio dell’Olocene, le associazioni vegetali in quelle aree si erano modificate. Lo studio pollinico non è in ogni modo eseguito solo su una specie, ma sull’intero spettro di polline; esso riesce, attraverso l’esame di rapporti parziali e di valori assoluti di specie particolari, a chiarire le caratteristiche dell’ambiente circostante all’area da cui proviene il campione studiato. 9. Pedologia La pedologia è la scienza che studia i suoli, ovvero la coltre di alterazione più superficiale di una superficie esposta agli agenti esogeni. Essa si è rivelata, in ambiente continentale, un buon indicatore sia per la valutazione del tempo d’esposizione di una superficie e sia per definire le condizioni climatico-ambientali cui la superficie è stata soggetta. Lo sviluppo di un suolo è condizionato da cinque fattori: 1- Litologia del substrato 2- Condizioni climatiche 3- Topografia 4- Tempo d’esposizione 5- Fattori biotici Il loro studio consente di operare una distinzione relativa tra suoli ubicati su unità differenti. I principali parametri che risultano indicativi per l’età e le condizioni climatiche in cui esse si sono evoluti sono essenzialmente: lo spessore, il grado d’alterazione del preesistente substrato, la complessità del profilo pedologico. I suoli registrano anche episodi di particolare interesse nell’evoluzione di una superficie, ad esempio episodi di erosione generalizzata, deforestazione, riforestazione, difficoltà di drenaggio, ecc. Essi raramente consentono la misurazione diretta dell’età di una superficie ma possono consentire, attraverso la comparazione di due o più superfici, la determinazione dell’età relative, ovvero superfici più antiche di altre. 10. Tefrocronologia La tefrocronologia è una tecnica che si basa sulla presenza dei tephra, ovvero delle polveri vulcaniche, databili con metodi fisici. Tali polveri contengono molto vetro vulcanico, proiettato nell’atmosfera durante le eruzioni; le polveri ricadono in genere su aree molto ampie, costituendo un manto ben identificabile che consente di correlare i depositi degli stessi eventi vulcanic anche a distanze notevoli. 11. Varve Le varve sono costituite da sottili alternanze di depositi chiari, generalmente sabbioso-limosi, e di depositi più scuri, argillosi, conteneti sostanza organica e pollini. Esse rappresentano la sedimentazione stagionale, in prossimità dei ghiacciai (il materiale più grossolano e povero di sostanza organica si deposita in concomitanza con la fusione glaciale, e quello più fine durante i periodi di scarsa energia, quando i materiali più fini si sedimentano a causa della sola gravità). Questo tipo di sedimenti deve il nome alla parola svedese varvig che signisica ciclo. Nelgli anni’20, sono stati studiati inizialmente da un geologo svedese G.De Geer e da allora si sono dimostrati fondamentali per lo studio della climatologia recente. 12. Studio delle antiche linee di costa Lo studio delle tracce della linea di costa del passato, in altre parole delle quote del livello medio del mare, può essere strettamente correlato alle variazioni climatiche. Ad un raffreddamento, infatti, corrisponde un aumento delle masse glaciali e conseguentemente un abbassamento del livello del mare. Lo studio delle linee di riva può essere perciò utilizzato per l’interpretazione climatica del passato anche se questo metodo deve tenere in considerazione altre cause in grado di condizionare l’andamento costiero, come ad esempio i movimenti tettonici ed isostatici. 13. Concrezioni Lo studio delle concrezioni, soprattutto in ambiente ipogeo, si è rilevato un ulteriore strumento d’indagine in campo ambientale. La formazione delle concrezioni, infatti, è fortemente influenzata dalle condizioni climatiche, soprattutto aridità e temperature presenti all’esterno delle cavità ipogee. Ulteriori informazioni possono essere desunte anche dal tipo di cristallizzazione dei carbonati. 14. Indagini storiche e d’archivio Le indagini storiche d’archivio, soprattutto per quanto attiene agli ultimi secoli, sono ovviamente fonti preziose per lo studio del clima passato. Tra gli archivi che consentono di rilevare direttamente alcune variabili del clima passato si devono annotare, nei secoli più recenti, le misurazioni strumentali di temperatura, umidità, pressione, ecc. Più indietro nel tempo si può arrivare con alcuni documenti di cronaca che riferiscono di evnti climatici osservati direttamente (fiumi e laghi gelati in determinati periodi, alluvioni particolarmente intense, ghiacciai in avanzata od in regresso, magre rilevanti, ecc.). La ricostruzione climatica da fonti d’archivio può sfruttare però anche altri dati, ad esempio: il prezzo delle materie prime, alcune date importanti per le pratiche agricole, eventi annuali specifici, ecc. Allo stesso modo, possono aiutare per la ricostruzione climatica la trascrizione dei giorni della fioritura, l’arrivo dei migratori o la loro partenza, ecc. 13. PROCESSI ELEMENTARI DI DEGRADAZIONE DELLE SUPERFICI ROCCIOSE I processi elementari di degradazione contribuiscono all’alterazione ed alla disgregazione delle rocce. Tutte le rocce esposte al contatto con aria, acquaed organismi viventi, subiscono un continuo processo d’aggressione che intacca la rocca approfondendosi a partire dalla superficie. La velocità di disgregazione ed alterazione delle rocce dipende da vari parametri: - Il tipo di roccia affiorante Grado di fratturazione Clima presente nell’area Il prodotto della disgregazione e dell’alterazione di una roccia è definito eluvio; esso è costituito dalla coltre superficiale di detriti, che rappresentano il primo stadio della formazione di un suolo, su cui può iniziare ad attecchire la vegetazione. Il disfacimento delle rocce procede in modi diversi, originando prodotti di degradazione che assumono svariate forme (granuli, esfoliazioni, per strati, a cipolla). Le condizioni strutturali, unitamente al processo d’alterazione, sono in grado di controllare la forma di tali prodotti del disfacimento. L’accumulo di detrito in seguito al disfacimento delle rocce origina la cosiddetta coltre eluviale; l’evoluzione di quest’ultima in un suolo sempre più strutturato è condizionata da numerosi fattori. A questo proposito, l’equazione di Jenny ci dà un’indicazione relativamente allo sviluppo pedogenetico, in altre parole all’entità e al grado d’evoluzione dei suoli: Pedogenesi= f(lt,cc,tp,te,fb) Dove: lt: litologia, cc: condizioni climatiche, tp: topografia, te: tempo d’esposizione, fb: fattori biotici. L’equazione di Jenny, indicando 5 diversi fattori come responsabili della pedogenesi, ci aiuta a comprendere la complessità dei processi che entrano in gioco e che condizionano il procedere dei processi elementari di alterazione. Processi di tipo fisico e di tipo chimico Processi di tipo fisico Sono predominanti nei luoghi dove la vegetazione è rada, quindi in località dove le precipitazioni sono troppo scarse (ambienti desertici), o le temperature sono troppo rigide (alta montagna o alte latitudini), o dove si alterano periodi piovosi e periodi molto secchi. Processi di tipo chimico Avvengono soprattutto in quelle aree caratterizzate da temperature e piovosità elevate e da copertura vegetale continua e rigogliosa: nelle aree tropicali, dove l’associazione vegetale tipica è la foresta pluviale, si raggiunge il massimo di intensità di alterazione chimica. I processi elementari di tipo fisico sono anche detti clastici o di disgregazione: essi sono dovuti a stress di tipo fisico cui sono soggetti i minerali che formano le rocce esposte in superficie. Tali stress sono indotti principalmente da variazioni di temperatura, umidità e pressione sulla superficie della roccia esposta. Vi sono almeno cinque diversi tipi di processi di disgregazione di una certa importanza: Questi processi, detti anche d’alterazione, sono causati da reazioni chimiche che tendono a trasformare i minerali contenuti nelle rocce esposte in superficie. Questi minerali, esposti agli agenti esogeni, possono subire trasformazioni più o meno intense in funzione della loro composizione, della struttura cristallina e delle condizioni ambientali in cui si trovano. È in ogni modo possibile individuare una scala della stabilità dei minerali in cui è possibile osservare, dall’alto verso il basso, un aumento del grado di stabilità. I principali responsabili dell’alterazione chimica delle superfici esposte sono: a) Ossigeno b) Anidride carbonica c) Soluzioni acide in acqua Questi reagenti reagiscono con un’intensità diversa su litotipi diversi. Le varie reazioni chimiche sono inoltre influenzate dall’aspetto della superficie esposta. Termoclastimo: L’esposizione diretta ai raggi del Sole provoca il riscaldamento, che si diffonde lentamente verso la parte più profonda dell’ammasso roccioso. La velocità di trasmissione del calore verso l’interno è direttamente correlata alla conducibilità termica della roccia stessa e dipende da numerose caratteristiche fisico-chimiche dell’ammasso roccioso e dei suoi minerali costituenti. L’aumento di calore nelle rocce corrisponde in genere ad un’impercettibile dilatazione della stessa in proporzione alla temperatura raggiunta cosicché, in una roccia di composizione omogenea, i minerali ubicati nella superficie subiscono una dilatazione maggiore di quelli posti in profondità. Il termoclastimo si fonda perciò sugli stress che si producono alla superficie degli ammassi rocciosi per ripetute azioni di dilatazione e contrazione differenziata. Gli effetti maggiori si rilevano in ambienti soggetti a forti escursioni termiche, in assenza di vegetazione, su rocce non omogenee, ovvero costituite da minerali con proprietà fisiche diverse (aree aride, deserti) La presenza di cristalli di diverso colore (quelli scuri assorbono di più di quelli chiari le radiazioni solari) e caratterizzati da vari coefficienti di dilatazione favorisce la disgregazione granulare, per rottura lungo le superfici di contatto tra minerale e minerale. I detriti che si formano per effetto del termoclastimo sono detti termoclasti. Crioclastismo o Gelivazione: l’esposizione di una roccia all’azione del gelo provoca un effetto simile a quello del termoclastismo , che viene amplificato dall’azione di divaricazione delle fessure prodotta dal ghiaccio. Il crioclastismo è, infatti, prodotto dalle pressioni esercitate dal ghiaccio all’interno di pori e fratture quando l’acqua, passando dallo stato liquido a quello solido, aumenta di volume (circa 9%). Il processo di disgregazione è tanto più spinto quanto più frequenti sono i cicli di gelo e disgelo. In questo modo le discontinuità tendono ad allargarsi progressivamente. Il crioclastismo si manifesta perciò quando: a) È presente acqua b) Le temperature oscillano intorno al punto di congelamento (0°) I cinque principali tipi di processi d’alterazione sono: Ossidazione: La presenza di ossigeno libero ed in soluzione nell’acqua a contatto con i minerali della superficie esposta causa la loro ossidazione. Questa consiste nell’nglobamento di atomi d’ossigeno all’interno del reticolo cristallino in combinazione con ioni metallici: - Calcio (Ca) - Sodio (Na) - Potassio (K) - Magnasio (Mg) - Ferro (Fe) - Ecc. È una reazione esotermica che avviene spontaneamente sopra la zona di saturazione idrica permanente nei suoli, mentre al di sotto prevalgono condizioni riducenti. Di interesse particolare è l’ossidazione dei solfuri e solfati, dei carbonati e dei silicati. Soluzione: L’azione di soluzione è la più classica delle procedure di alterazione di una superficie. Il dilavamento meteorico è in grado, infatti, di asportare dalla superficie gli ioni idrosolubili. Tra i minerali soggetti a questo tipo di alterazione ne ricordiamo soprattutto quelli contenenti ioni cloruro e solfato. Alcune rocce composte prevalentemente da salgemma e gesso sono particolarmente soggette alla soluzione. Altre rocce, come i carbonati, possono subire l’azione di soluzione, quando all’azione dell’acqua si uniscono anche acidi deboli. Alcuni di questi acidi, ad esempio l’acido carbonico, sono normalmente presenti in basse concentrazione nelle acque piovane ed in quelle di fusione nivale; altri sono da poco divenuti molto importanti a seguito dell’immissione d’inquinanti nell’atmosfera poiché danno origine alle cosiddette piogge acide. c) La roccia presenti discontinuità o una porosità tale da poter trattenere una certa quantità d’acqua L’intensità del processo è condizionata ovviamente dalla durata, dall’entità e dalla rapidità del congelamento. A parità di condizioni climatiche, il fenomeno è più incisivo nelle cosiddette rocce gelive ovvero quelle più suscettibili a questo tipo di alterazione; tali rocce sono in genere porose e permeabili (es. arenarie) oppure presentano in denso sistema di fratture al proprio interno. Le aree dove questo processo è intenso sono quelle delle alte latitudini, o quelle della alte altitudini. I detriti che si formano per effetto del crioclastismo sono detti cloroclasti o gelifratti: sono costituiti da clasti e spigoli vivi di diverse dimensioni e dipendenti dalle caratteristiche litologicostrutturali dell’ammasso roccioso da cui si sono staccati. I detriti così prodotti si accumulano in genere ai piedi di pareti rocciose in falde e conidetritici o rimangono come copertura superficiale, se la superficie da cui si sono staccati è sub-orizzontale. Imbibizione ed Essiccamento (Idroclastismo): L’esposizione di una roccia all’effetto dell’imbibizione e dell’essiccamento ne provoca la dilatazione e la contrazione. Le rocce argillose e marnose sono le più soggette al rigonfiamento, alla successiva diminuzione di volume e la conseguente apertura di fessure (Appennino). Situazioni meno evidenti, si possono osservare su rocce porose come le arenarie (sabbie cementate) che tendono a sfogliarsi, proprio in seguito a questi processi. I detriti che si formano per effetto dell’idroclastismo sono detti idroclasti, essi abbondano nelle aree costiere, dove i cicli di umidificazione ed essiccamento si avvicendano con frequenza quotidiana agendo, inoltre, su superfici rocciose se non protette dalla vegetazione che trova difficoltà a colonizzare la superficie per effetto dell’azione del vento e dell’abbondanza di sale. Aloclastismo: Consiste in azioni meccaniche prodotte entro fessure e pori della roccia, per effetto della cristallizzazione e dell’aumento dei volumi di Sali. Le rocce ubicate in aree dove circolano acque sature possono essere soggette a questo particolare fenomeno. Esso può manifestarsi con intensità in aree soggette ad intensi fenomeni di Il carbonato di calcio non è solubile in acqua ma, in presenza d’acido carbonico, si trasforma in bicarbonato di calcio che è invece solubile e può essere asportato dalle acque. Si tratta in questo caso di una reazione chimica reversibile, infatti, oltre a produrre forme d’erosione, può dare origine a pittoresche forme di sedimentazione (stalattiti, stalagmiti, concrezioni, travertini, ecc.) Idrolisi: L’idrolisi è un processo d’alterazione particolarmente importante sulle rocce silicatiche. Questo processo chimico è fortemente condizionato dalla temperatura e dall’umidità. È , infatti, un processo particolarmente intenso nei climi tropicali sulle rocce granitiche che contengono abbondante K-feldspato. La reazione classica prevede la completa distruzione dei minerali feldspatici che progressivamente si trasformano in silice e ossidi di ferro ed alluminio (es. aree granitiche della Sardegna). Idratazione: Alcuni minerali tendono ad inglobare molecole d’acqua. Con l’idratazione, i minerali diventano meno compatti e più solubili e la durezza media tende a diminuire. L’idratazione comporta anche un rigonfiamento delle rocce e conseguentemente contribuisce anche ad un’azione di disgregazione di tipo fisico. evaporazione, infatti, la cristallizzazione dei Sali avviene spesso da acque di risalita capillare e più raramente si può manifestare in seguito alla condensazione della rugiada ed alla sua successiva evaporazione. I detriti che si formano per effetto dell’aloclastismo sono detti aloclasti e sono particolarmente importanti, oltre che nelle aree semi-desertiche, anche nelle aree dove il vento è in grado di trasportare aerosol marino. Azione diretta degli organismi viventi (bioclastismo): Le rocce possono subire l’attacco diretto degli organismo viventi e la conseguente frammentazione meccanica. Esempi possono essere: le radici delle piante che, inserendosi in fratture preesistenti producono un allungamento della frattura. Animali che scavano tane. In questo senso, l’attività dell’uomo può essere assimilata ad un processo d’erosione di tipo bioclastico, come agente modellatore alo stesso rango d’altri agenti (fiume, mere, ghiacciaio, ecc.). I più importanti minerali soggetti al fenomeno dell’idratazione sono alcuni ossidi come l’alluminia, gli ossidi di ferro in goethite e limonite. Azioni biochimiche: Le soluzioni acquose, dove sono presenti sostanze organiche in decomposizione, si arricchiscono di acidi humici (acidi organici complessi). L’azione aggressiva di questi composti è particolarmente importante nelle fasi iniziali di sviluppo dei suoli; le reazioni chimiche più significative sono quelle dette di biochelazione dove gruppi amminici, ossidrilici e carbosillici d’origine organica riescono ad agganciare atomi metallici formando legami chimici molto stabili. 14. GEOMORFOLOGIA FLUVIALE La geomorfologia fluviale si occupa espressamente dei processi di modellamento del paesaggio terrestre che derivano dal deflusso superficiale delle acque incanalate. L’intensità dei processi e l’entità dei modellamenti dipendono da numerosi parametri: - Quantità totale d’acqua che scorre in un fiume La dimensione del bacino d’alimentazione L’energia del rilievo Struttura geologica del bacino attraversato L’influenza antropica … L’analisi del cosiddetto ciclo dell’acqua spiega il maccanismo del costante ricircolo delle acque delle zone d’afflusso fino al mare. L’acqua evapora per effetto del riscaldamento solare, si raccoglie in nubi, precipita sui mari e sugli oceani ed in parte sulla superficie dei continenti. Quest’ultima in parte s’infiltra, in parte evapora nuovamente, sia per effetto della traspirazione delle piante sia per evaporazione diretta, mentre la quota residua defluisce sulla superficie del terreno o a profondità limitata. I corsi d’acqua si possono suddividere in naturali ed artificiali. I primi a loro volta in fiumi, caratterizzati da basse velocità e pendenze modeste, ed in torrenti, ubicati nelle aree montuose e caratterizzati da piene repentine, spesso intense e brevi, nonché da irregolarità nel regime. Un fiume raccoglie tutte le acque che scorrono entro il cosiddetto bacino idrografico, delimitato da una linea detta di spartiacque o di displuvio. L’area del bacino idrografico è quella in cui, una qualsiasi goccia di pioggia che s’infiltra nel terreno o non evapora, affluisce al canale principale. L’organizzazione del reticolo idrografico disegna in pianta il cosiddetto pattern del drenaggio, condizionato da specifici fattori della struttura geologica. I pattern del reticolo più comuni sono: Dendritico: costituito da un andamento della rete di canali ad albero, sviluppata omogeneamente in ogni direzione Parallelo: costituito da una serie di canali paralleli tra loro che confluiscono in un collettore principale orientato secondo la medesima direzione Angolare: costituito da canali contraddistinti da tracciati subretilinei, disposti secondo almeno due famiglie di direzioni di scorrimento Radiale: costituito da corsi d’acqua con direzione radiale rispetto ad un punto centrale Il fiume fluisce generalmente entro il letto ordinario che corrisponde a quella sezione in grado di contenere la piena ordinaria, delimitando naturalmente le sponde. Durante la maggior parte dell’anno, il letto ordinario è occupato solo parzialmente ed al suo interno affiorano barre alluvionali caratterizzate da differenti stadi di colonizzazione vegetale. Si riconosce così il cosiddetto letto di magra, caratterizzato da una sezione inferiore a quella ordinaria. In caso di piene rilevanti, il corso d’acqua può espandersi oltre il suo letto ordinario, occupando la sua piena d’inondazione. La quantità d’acqua che fluisce entro un alveo è la portata, vale a dire il volume che transita in una sezione del canale nell’unità di misura tempo, misurata in metri cubi al secondo. Piene e magre sono condizioni estreme per un corso d’acqua; mentre le magre possono essere prolungate nel tempo, le piene sono limitate a brevi periodi. Le piene si originano o per intense precipitazioni o per repentine fusioni nivali o glaciali o per cause locali dovute a sbarrature di artificiali o naturali. I dati relativi alle portate che defluiscono attraverso una determinata sezione possono essere rappresentati su di un grafico portata-tempo detto: idrogramma. Lo studio della distribuzione dei periodi di piena e di magra nonché della distribuzione media delle portate durante l’anno è importante per definire il regime di un fiume. I corsi d’acqua possono così classificarsi in: Perenni: hanno l’alveo che contiene acqua per tutto l’anno: alcuni possono definirsi a regime fluviale altri a regime torrentizio, principalmente sulla base dell’intensità delle piene e delle differenze tra queste ultime e le magre. Intermittenti: sono caratterizzate da alveo asciutto in determinati periodi dell’anno e periodi di piena ricorrenti almeno annualmente. Il regime di questi corsi d’acqua è inevitabilmente di tipo torrentizio. Occasionali: sono quelli caratterizzati da alveo asciutto per intervalli pluriennali, ubicati principalmente in aree desertiche, dove l’alimentazione pluviale è appunto occasionale. Alimentazione dei corsi d’acqua I corsi d’acqua possono essere suddivisi in base alla loro alimentazione: a seconda che prevalgano le precipitazioni o la fusione di ghiaccio o neve si possono individuare corsi d’acqua ad alimentazione rispettivamente pluviale, glaciale, nivale. Ove invece predomina l’alimentazione da deflusso sotterraneo, si possono distinguere corsi d’acqua di risorgiva e d’origine carsica. Nei bacini ampi, l’alimentazione può essere complessa, in pratica gli affluenti del corso d’acqua principale possono presentare alimentazioni diverse. I corsi d’acqua glaciali sono alimentati dalla fusione dei ghiacci e, conseguentemente, presentano portate abbondanti nei mesi estivi e quasi nulle nei mesi invernali. Il regime nivale è caratterizzato da fusione della neve; i fiumi soggetti a tale alimentazione presentano un massimo di portata in giugno e portate decrescenti da luglio in poi, per la riduzione della copertura nevosa. I corsi d’acqua a regime pluviale sono alimentati dalle piogge e, conseguentemente, presentano portate abbondanti in corrispondenza dei picchi di precipitazione. Spesso i corsi d’acqua sono caratterizzati dalla concomitanza di due diversi tipi di alimentazione, dovuta sia allo scioglimento di neve o ghiaccio e sia alle precipitazioni liquide; in questo casi si parla di regime pluvionivale. Per tale motivo, i fiumi con alimentazione mista presentano generalmente due massimi di deflusso anziché uno solamente. È il caso di fiumi con un bacino idrografico molto ampio, dove le condizioni di alimentazione non sono omogenee poiché attraversano fasce climatiche e/o altimetriche differenti e l’orografia è molto varia. I corsi d’acqua di risorgiva sono tipici delle aree di pianura alluvionale e si originano per affioramento della falda acquifera più superficiale, in un area ben precisa detta fascia delle risorgive; essi si distinguono per la particolare esiguità della superficie del loro bacino di alimentazione. Modellamento fluviale I corsi d’acqua possono essere suddivisi in liberi e confinati. I primi scorrono su una piana e possono essere modificare liberamente il loro percorso, i secondi invece fluiscono entro un’incisione vallina speso su un substrato poco erodibile. I corsi d’acqua liberi possono presentare un tracciato rettilineo, a meandri ed a canali intrecciati. In realtà non è possibile definire suddivisioni nette, ma esiste piuttosto una serie di tracciati caratterizzati da variazioni progressive della geometria. I tracciati rettilinei e mandriformi sono classificati sulla base di un parametro P detto sinuosità. Questo parametro è dato dal rapporto tra le lunghezze del canale sinuoso e della valle entro cui scorre il corso d’acqua. I corsi d’acqua a meandri disegnano curve caratteristiche per ogni fiume, da porsi in relazione alla portata media, ai sedimenti attraversati, alla pendenza dell’alveo e ad altri fattori. I corsi d’acqua a canali intrecciati, i cosiddetti fiumi di tipo braided, sono caratterizzati da elevata mobilità dei canali tra una piena e l’altra. Il loro letto, durante le fasi di minor portata, è contraddistinto dalla presenza di più canali, a bassa sinuosità, che si intersecano più volte. Tra i diversi rami larghi e poco profondi si formano isole a barre, generalmente sommerse durante le fasi di maggior portata. I corsi d’acqua a canali intrecciati sono tipici delle aree d’alta pianura ovvero quelle più prossime ai rilievi montani, dove le pendenze sono relativamente elevate ed i sedimenti grossolani. Elementi del tracciato fluviale BARRE La formazione di una barra inizia con la deposizione di materiale più grossolano al centro del canale; quest’asperità sul fondo favorisce sia l’accrescimento della barra stessa e sia l’erosione delle sponde. Il canale tende perciò ad allargarsi e progressivamente diviene meno profondo fino a quando emerge la barra; da questo momento la barra diviene un’isola e può essere colonizzata dalla vegetazione che intrappola nuovi sedimenti. Esistono diverse tipologie di barre fluviali distinte in base al tipo di tracciato fluviale, al materiale costituente o in funzione della posizione relativa nel canale. POOL E RIFFLE Lungo tutti i letti si formano alternanze di zone più elevate (riffle): dove si concentra il materiale più grossolano; e zone più profonde (pool): ove si rinviene il materiale più fine. La distanza tra un alto ed il successivo, così come tra un’insellatura e l’altra, sono statisticamente spaziate di 5-7 volte la larghezza media del canale. Nei corsi d’acqua delle aree montuose le forme di fondo sono fortemente influenzate anche dalle dimensioni dei clasti presenti nell’alveo. Nel caso siano presenti massi molto grandi, i canali sviluppano u caratteristico profilo a scalinata. MEANDRI In un meandro, per effetto della forza centrifuga, la corrente tende a spostarsi verso la riva concava che si trova perciò in condizioni d’erosione. Tale erosione avviene per scalzamento al piede della sponda stessa così che, dalla riva concava generalmente ripida ed alta, periodicamente si staccano vere e proprie frane. Al contrario, la sponda convessa è caratterizzata dalla presenza di barre d’accrescimento. Le profondità maggiori nel canale sono perciò in prossimità dalla sponda concava. I sedimenti erosi lungo la sponda concava tendono a mantenersi in movimento sullo stesso lato del flusso per subire la rideposizione nella successiva ansa del meandro, dove la riva di concava diviene convessa. L’evoluzione dei meandri comporta un loro progressivo aumento d’ampiezza e di conseguenza un aumento di lunghezza del tracciato fluviale. L’allungamento del tracciato induce una progressiva diminuzione di pendenza del letto, che si traduce in una diminuzione di velocità delle acque. Quando le velocità si riducono eccessivamente, il corso d’acqua perde d’efficienza ed alla prima occasione può avvenire il raccorciamento del tracciato attraverso il cosiddetto taglio o salto del collo di meandro. CANALI ABBANDONATI Queste si possono presentare intagliate nella piana alluvionale o in rilievo sulla superficie della stessa. Le tracce incise in genere testimoniano che il corso d’acqua, nel periodo immediatamente precedente l’abbandono, si trovava i equilibrio o in erosione entro la piana stessa. Al contrario, le tracce convesse, in rilievo sulla superficie, testimoniano che il corso d’acqua si trovava in condizioni d’aggradazione (sedimentazione) nelle fasi immediatamente precedenti l’avulsione (rotta fluviale e successivo cambio di percorso). L’uso delle fotografie aeree e la parcellizzazione agraria e il reticolo di drenaggio ed essa connesso sono molto utili per individuare paleoalvei (canali abbandonati) FORME D’EROSIONE Gli effetti dell’erosione fluviale sono in genere rappresentati da ripe d’erosione fluviale; queste, se di una certa entità, possono essere definite scarpate fluviali. 1. TERRAZZI Un terrazzo è costituito da una superficie piana suborizzontale, delimitata da una scarpata fluviale. A volte, quando più fasi d’erosione e di sedimentazione si sono alternate nel tempo, si possono osservare più superfici terrazzate disposte a quote differenti. Le diverse superfici sono classificate in ordini, contraddistinti da numeri romani crescenti dalla superficie più elevata (più antica) alla meno elevata. Si definiscono terrazzi a ripiani quelli che, tra una superficie sommitale e l’altra presentano il substrato in affioramento (la scarpata che delimita esternamente i terrazzi è, almeno in parte, intagliata nel substrato). Al contrario, si definiscono terrazzi incastrati quelli in cui nella scarpata che delimita esternamente la superficie sommitale non affiora il substrato (le azioni corrosive sono state meno intense dei precedenti processi di sedimentazione). 2. VALLECOLE Le vallecole sono costituite da strette incisioni che interessano i versanti, disposte secondo la linea di massima pendenza; esse si formano per l’erosione delle acque superficiali incanalate su versanti acclivi. Le vallecole sono state attribuite da alcuni autori, alla morfogenesi fluviale e da altri alle azioni della gravità. 3. CATTURE Le catture si producono quando un corso d’acqua amplia il suo bacino d’alimentazione a discapito di un altro questo può avvenire secondo due diversi scenari evolutivi. Erosione di testata: quando un affluente si approfondisce verso monte, per effetto d’azioni d’erosione regressiva, fino a decapitare parte di un altro bacino idrografico. Cattura per versamento: nel caso di un corso d’acqua durante una fase di piena subisca un avulsione e si riversi entro un altro bacino idrografico. 4. GORGHI Con questo termine si intendono delle cavità d’evorsione scavate da acque fluviali disalveate. Tali forme sono rappresentate, nelle aree di piana alluvionale a bassa pendenza, da piccoli laghetti di forma subcircolare, privi di emissari ed immissari di superficie ed alimentati principalmente da acque di falda. La maggior parte dei gorghi è da attribuire all’apertura di un varco negli argini e alla fuoriuscita turbolenta di acque ad alta velocità, che produce vortici ad asse verticale. 5. ALTRE FORME DI EROSIONE TIPICHE DI FIUMI IN LETTO ROCCIOSO Nei corsi d’acqua che scorrono su substrato roccioso, si possono osservare forme particolarmente spettacolari (cascate, rapide, cateratte, forre, gole, canyon, ecc.) Le gole sono valli strette e profonde caratterizzate da versanti assai ripidi, generalmente evolute da forre (incisioni ancora più strette, contraddistinte da pareti subverticali). Le cascate sono determinate da una rottura del pendio che provoca un salto dell’acqua e comporta l’allontanamento di questa dal substrato. Le ripide presentano acqua continua a scorrere sul letto senza distaccarsene (come invece avviene nelle cascate). Le rapide sono determinate da variazioni brusche nella pendenza e dalla presenza di ostacoli sul letto che producono sensibili effetti anche sulla superficie dell’acqua. Quando le rapide sono disposte in serie si possono definire cateratte. FORME DI SEDIMENTAZIONE 1. ARGINI NATURALI E VENTAGLI DI ROTTA Le acque che tracimano da un canale quando un fiume è in piena subiscono una repentina riduzione di velocità, provocando conseguentemente la deposizione di sedimenti fluviali dapprima grossolani, in prossimità dell’alveo, e successivamente più fini allontanandosi dal canale. La tracimazione di acqua, nelle fasi di piena, può essere diffusa o distribuita lungo tratti consistenti delle sponde o concentrata in aree molto ristrette. Nel primo caso si deposita materiale grossolano lungo l’intera sponda del canale (argine naturale). Esso si presenta in sezione come un cuneo di sedimenti con il fianco più acclive rivolto verso il canale. Il lato opposto degrada verso pendenza molto blande nella vera e propria piana alluvionale dove la sedimentazione, determinata dalla laminazione della piena, diviene molto fine. La tracimazione del canale concentrata in un punto definito, provoca la formazione di un ventaglio di rotta. In generale dovuta al cedimento di un argine o alla presenza in esso di un’area meno elevata da cui l’acqua po’ sfiorare. La rapida fuoriuscita dell’acqua dal canale inizialmente determina intensi processi erosivi, responsabili della formazione di un canale di rotta, seguiti in breve successione da azioni di sedimentazione. 2. DOSSI Forme convesse nastriformi, con sviluppo anche di decine di chilometri. I dossi sono tracce di corsi d’acqua in cui prevale sedimentazione. I dossi fluviali nelle aree di pianura hanno avuto un influsso particolarmente significativo sullo sviluppo delle attività umane. 3. CONOIDI I conoidi alluvionali sono forme complesse del paesaggio, foggiate a segmento di cono che s’irradia da un punto. Su di una carta topografica un conoide si distingue per la forma caratteristica delle isoipse, che si presentano disposte concentricamente e con quote decrescenti dall’apice al piede. Si formano generalmente in aree di pianura, allo sbocco di un tratto montano, o quando un’affluente s’immette in un fiume che scorre in una valle a minor pendenza. La sedimentazione avviene quando il corso d’acqua perde rapidamente velocità e risulta così obbligato ad abbandonare una gran parte del suo carico solido. 4. DELTA I delta sono forme complesse d’accumulo che si accrescono in ambiente di transizione, quando il fiume si immette in un corpo d’acqua ferma. Nel delta perciò avviene la sedimentazione dei detriti fluviali che si ridepositano anche a seguito di moti marini o lacustri o lagunari; si generano così rispettivamente delta marini, delta lacuali e delta lagunari. I delta possono essere distinti sulla base della loro conformazione planare. Il più tipico è quello a forma di triangolo. 15. PROCESSI DI VERSANTE Con il termine versante s’intende una qualsiasi porzione della superficie terrestre dotata di una certa inclinazione. Il versante è perciò caratterizzato da lunghezza e pendenza. La pendenza è il rapporto tra il dislivello (o altezza del versante) e la proiezione della lunghezza del versante sul piano orizzontale. Il versante è definito dal piede, vale a dire la linea che lo delimita alle linee inferiori, e dalla cresta, definita dalla linea posta alle quote più elevate che lo divide da un altro versante, ad esso contrapposto. Il profilo del versante in prima approssimazione può essere considerato un triangolo rettangolo, perciò conoscendoalmeno due misure, di cui almeno una lineare, è possibile calcolare ogni altra sua caratteristica incognita angolare o lineare. Osservato più in dettaglio, un versante può presentarsi piano o avere una sezione a forma convessa, concava od ondulata oppure presentare oltre cheun andamento planare, anche uno sviluppo tronco conico o addirittura più complesso. Il modellamento dei versantiè causato principallmentedalla forza di gravità. I processi in cui il modellamento avviene per l’azione della sola forza di gravità sono erciò detti gravitanti o più semplicemente di versante. Molto spesso su un versante, oltre alla sola forza di gravità, agiscono anche altri agenti di modellamento, che possono essere a loro voltacondizionati dalla gravità (acque di ruscellamento superficiale, neve, ecc.). Gli effetti della gravità su di un versante sono fortemente condizionati dalla struttura geologica e delle condizioni climatiche cui il versante è sottoposto. Analogamente a quanto avviene per altri processi di modellamento terrestre, i processi gravitanti si esplicano attraverso azioni d’erosione , trasporto e sedimento e, conseguentemente, le forme che ne derivano sono d’erosione o di sedimentazione. Rispetto ad altri processi, è in genere più facile individuare sul versante le due forme complementari di erosione e d’accumulo: la prima nelle aree più elevate del versante, mentre la seconda alla base del versante, spesso in continuità con la precedente. I processi gravitativi sono causati dall’interazione tra la massa della Terra con quella degli oggetti posti sulla superficie, secondo la legge di gravitazione universale. Gli oggetti posti in prossimità della superficie terrestre sono, infatti, attirati dalla Terra secondo una forza diretta verso il centro del pianeta, proporzionale al prodotto della massa terrestre e a quella degli oggetti in esame ed inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. La forza di gravità in prossimità della superficie terrestre produce quindi un’accellerazione di gravità che mediamente è 9,81 m/s2. Sui versanti l’effetto della forza di gravità è mediato dall’inclinazione del pendio,, l’intensità dei processi di versante, infatti, dipende solamente dalla componente lungo il pendio della forza di gravità. Tale componente è ovviamente maggiore per versanti molto inclinati fino a coincidere, nel caso di pareti verticali, con la forza di gravità stessa. La componente della forza di gravità perpendicolare al pendio è considerate una forza stabilizzante (essa è proporzinale all’attrito cui è sottoposto un oggetto in movimento sul versante stesso. Nella pratica, in un versante poco inclinato la componente della forza di gravità perpendicolare al versante e conseguentemente l’attrito sono alti, mentre la componente della gravità lungo il versante è bassa: le forze stabilizzanti, che si oppongono al movimento, sono quindi predominanti su quelle destabilizanti). Il modellamento dei mersanti può essere il risultato sia di una serie di processi d’entità minore, in grado di provocare continui movimenti di piccole porzioni superficiali del versante, dall’area sommitale verso il suo piede, sia anche di singoli eventi di maggiore entità. Queste due tipologie di modellamento dei versanti si riflettono anche sullo spessore e sui volumi delle masse coinvolte nei movimenti. Si possono perciò in prima battuta suddividere questi processi in superficiali e profondi. Movimenti superficiali Tra i processi superficilai, sono da ricordare i movimenti di detrito sui versanti, sopratutt in corrispondenza di pareti in grado di produrre ingenti quantità di detrito, come nell’aree montane ad alta quota. Tali processi possono essere in èparte mitigati ricorrendo all’uso di rimedi superficiali (gratticiate, viminate). Questo tipo di processo contribuisce all’accumulo del materiale alla base del versante in falde e di coni di detrito. Le falde si presentano con superfici regolari, disposte con continuità alla base del pendio. I coni di detrito presentano una forma a tronco di cono, che si apre a partire da un impluvio nel versante, da cui il detrito scende disperdendosi a ventaglio. Poiché su di un versante agiscono forze che tendono a movimentare il materiale e forze che tendono a trattenerlo si possono identificare, per ogni situazione, una pendenza didistacco e una di accumulo. Queste due pendenze sono quelle limite, alle quali il versante tenderà a comformarsi rispettivamente nella sua porzione superiore, in erosione, e in quella inferiore, in sedimentazione. La pendenza di distacco è, infatti, l’acclività minima perché possa iniziare un movimento di detriti sul versante. La pendenza d’accumulo è l’acclività massima alla quale si arresta lo stesso materiale; l’angolo di distacco è perciò maggiore di quello di accumulo. Un versante che ha raggiunto l’equilibrio, cioè che è in grado di mantenere un profilo costante nonostante su di esso proseguano i processi d’erosione e sedimentazione, si presenta perciò con un profilo a doppia pendenza o concavo. Il materiale più grossolano si disperde alla base sei coi e delle falde di detrito, potendo raggiungere le distanze maggiori, mentre il detrito più fine si concentra nella parte più prossimale della falda detritica. La ragione di questa distribuzione dipende dalla quantità di moto dei detriti che scendono dal versante. Questa disposizione è opposta a quanto si può osservare nei conoidi alluvionali ( accumoli di depositi lasciati dal fiume, alla confluenza od allo sbocco in pianura) dove i depositi più grossolani sono all’apice e quelli più fini al piede del conoide stesso. Il lento movimento dei detriti lungo un versante è detto reptazione o creep. Il processo di reptazione può essere facilitato da varie cause: - Processi di gelo-disgelo Formazione di aghetti di ghiaccio Umidificazione-essicazione Azione degli animali scavatori Pascolo Calpestio degli animali Arature Ecc Sui versanti costituiti in superficie da litologie plastiche, ad esempio pendii in argille, in occasione di periodi di prolungata umidità, si possono registrare una serie continua di movimenti di colamento superficiale molto lento, che prende il nome di soliflusso. Questi movimenti interessano spesso un intero versante, producendo un modellamento tipico dello stesso in lobi e ondulazioni. In situazioni d’alta montagna, lo stesso fenomeno si può produrre in occasione della fusione della neve o del ghiaccio; in questo caso il processo prende il nome di geliflusso. I versanti interessanti da processi di reptazione o di soliflusso mostrano a volte decorticazioni del manto erboso; queste, lasciando scoperto il substrato, ne facilitano l’ulteriore erosione. In occasione di piogge intense, l’interazione tra i processi di versante e quelli legati al ruscellamento delle acque superficiali, può produrre particolari forme di erosione. Tra queste, le più significative sono le erosioni a solchi dette anche calanchi. I calanchi possono produrre degli scenari molto caratteristici a solchi profondi e crinali affilati. I calanchi si formano su versanti costituiti da rocce argillose, ad elevata acclività, senza una copertura vegetale continua e in climi in cui ad una stagione secca si contrappongono periodi caratterizzati da pioggie intense. Movimenti profondi I movimenti di versante che interessano uno spessore del pendio superiore a due metri sono le frane. Una frana si può innescare quanto le forze destabilizzanti superano quelle stabilizzanti. Le forze in gioco dipendono dalla struttura geologica, dalla vegetazione, dalla disposizione del retticolo di drenaggio e dalle condizioni delle falde idriche sotterranee. Le cause delle frane possono essere distinte in preparatorie o predisponenti ed in scatenanti. Le prime agiscono sulle condizioni di stabilità del versante, sia riducendo le forze che si opponngono al movimento e sia aumentando quelle che tendono a favorirlo. Tra le più frequenti cause scatenanti sono da ricordare: - Scosse sismiche Precipitazioni intense Modificazioni del livello della flda idrica nel versante Ecc. Una frana è costituita da un certo volume di roccia o detrito che si muove lungo il pendio. Tale materiale costituisce il corpo di frana e si va ad accumulare al piede del versante,a volte superandolo. Il corpo di frana può presentare elementi morfologici caratteristici che dipendono anche dal tipo di movimento subito dalla frana. La superficie da cui si p staccata la frana prende il nome di scarpata principale di distacco o nicchia di distacco e il suo bordo superiore è detto corona di frana o coronamento. Entro il corpo di frana stesso e sul versante non coinvolto dal movimento possono comparire trincee e crepe. Ogni frana ha caratteristiche proprie e difficilmente si riesce a predisporre una classificazione secondo schemi rigidi, anche se ne esistono numerose. Le classificazioni più utilizzate descrivono un fenomeno franoso considerando il tipo del movimento ed il materiale coinvolto (roccia, terra o detrito), oltre ad altri parametri, come ad esempio la velocità. Frane per crollo e ribaltamento Sono costituite da masse di roccia, generalmente compatta, che si stacca dal rilievo e precipita da una parte molto inclinata. Sono frane tipiche delle pareti dolomitiche o dei rilievi carcarei e arenaici; esse avvengono auendo la roccia è interessata da fratture che ne isolano una porzione in equilibrio precario. Le frane per ribaltamento hanno un certo grado d’affinità con quelle per crollo; esse, infatti, avvengono in rocce simili alle precedenti, ma condizionate da una serie di piani di discontinuità subverticali disposti parallelamente al versante. In tale situazione la caduta del materiale può avvenire in seguito alla rotazione di una porzione del versante verso valle. Frane per scivolamento traslativo Sono costituite da masse di roccia, in genere competente e stratificata, che scivola lungo una superficie planare. Una situazione abbastanza tipica è quella in cui una porzione di roccia, con stratificazione disposta a franapoggio meno inclinata del versante, si stacca lungo un piano di strato e scivola su questo verso valle. Questa situazione è favorita quando, tra gli strati di roccia competente, si interpongono livelli più plastici. Frane per scivolamento rotazionale Sono frane molto comuni il litologie poco competenti (soprattutto argille). La superficie su cui avviene lo scivolamento è concava e non planare come nel precedente tipo. La superficie di scivolamento è una superficie concava, solitamente di nuova formazione. Tali frane, in genere di rilevanti dimensioni, sono caratterizzate da una struttura in cui si riconoscono diverse scarpate secondarie risultato di più riattivazioni o di movimenti differenziali entro il corpo di frana. Le principali contromisure che possono essere intraprese per bonificare queste frane consistono nel drenaggio dell’acqua, soprattutto dalla superficie di scivolamento principale. Frane per colata Sono frane lente costituite da materiale plastico, in genere argille fortementeimbibite d’acqua. Tali frane, una volta innescate, sono difficili d’arrestarepoichè in generale le qualità geotecniche dei terreni coinvolti sono scadenti. Esse presentano momenti d’attività parossistica, in occasione delle stagioni umide e tendono a rallentare in concomitanza di quelle secche, fino eventualmente ad arrestarsi. I versanti sottoposti a questo tipo di processi possono presentare tipiche ondulazioni dovute a movimenti differenziali, caratterizzati da velocità diverse all’interno della massa in frana. Frane in detriti Tra frane che coinvolgono il detrito di copertura di un pendio, sono da citare i debris flow; questi, per la loro velocità ed imprevedibilità, sono spesso causa di ingenti danni economici e di perdite di vite umane. I debris flow sono definiti come movimenti di massa rapidi, indotti dalla gravità,di miscele di solidi graduali, acqua ed aria, che si muovono come un fluido viscoso; il loro comportamento meccanico appare intermedio tra i processi di versante (le frane) e quelli fluviali. Dal punto di vista morfometrico i debris flow mostrano una lunghezza generalmente superiore rispetto alla larghezza. I debris flow sono miscele molto mobili di sedimento poco classato (fino alle dimensioni dei blocchi), ad alta concentrazione, generalmente caratterizzate da un piccolo quantitativo di frazione argillosa. Colate detritiche di versante si hanno spesso in corrispondenza di situazioni morfologiche particolari, quali lo sbocco di vallecole e canaloni in grado di determinare repentini e cospicui apporti idrici, cui segue la mobilizzazione del detrito disponibile. Frane complesse Molto spesso i movimenti che avvengono sui versanti non si possono descrivere con una sola delle tipologie di frana sopra descritte; più spesso si tratta di processi che potremmo definire ibridi e che si innescano secondo determinati meccanismi per poi evolversi secondo altri tipi. Molto comuni sono i casi di frane che iniziano con crolli di rocce competenti su un sottostante versante costituito da materiale plastico. Questo risulta però sovraccaricato e può cominciare ad evolversi secondo scivolamenti rotazionali o colate (aree dolomitiche). Un altro caratteristico fenomeno che avvien sui pendii argillosi, in cui molte frane si innescano per scivolamento rotazionale e poi evolvono in colate. Ancora, può essere ricordato il caso di frane che si innescano su pendii molto lunghi ed acclivi e che consentono il raggiungimento di velocità rilevanti del materiale; in questo caso le frane che si generano soprattutto per crollo, ribaltamento e scivolamento traslativo possono divenire delle vere e proprie valanghe di roccia. In ambiente glaciale, si può inoltre verificare il caso di frane che cadono su lingue di ghiaccio, subendo perciò un trasporto notevolemente più consistente, allontanandosi anche di chilometri dalla nicchia di distacco (alpimarocche). Le cosiddette espansioni laterali ( che interessano interi versanti e grandi volumi di roccia) sono influenzati dalla presenza di rocce plastiche, alla base del versante, sormontate da un piastrone rigido. Questa disposizione può produrre fenomeni d’espansione laterale, dovuti alla liquefazione o alla deformazione delle rocce alla base, ed espansione e disarticolazione del piastrone rigido, nella sua parte marginale. Un’altra tipologia di frane complesse è costituita dalle deformazioni gravitative profonde di versante (sackung), caratterizzate da movimenti lenti e continui che interessano l’intero rilievo. 16. MODELLAMENTO MARINO Il litorale marino è quella fascia d’ampiezza variabile che si trova al contatto tra la terra ed il mare; una parte del litorale è sempre emersa, un’altra è alternativamente affiorante o sommersa e infine una terza parte è sempre coperta dalle acque. - Coste Coste di sommersione Si rinvengono ovunque vi sia stata una subsidenza della costa od un innalzamento del livello medio del mare. Sono da considerarsi coste ereditate perché sono venute in contatto con il mare da poco tempo ed il loro modellamento non è da imputarsi all’azione del mare, ma ad altri agenti esogeni o endogeni. Tra questo tipo di coste possiamo citare i sottotipi: Costa montuosa sommersa Pianura costiera sommersa Costa a fiordi: i fiordi sono delle insenature molto strette e lunghe, racchiuse tra sponde in genere rapide, prodotte dall’escavazione glaciale. Sono vere e proprie valli glaciali, modellate da lingue di ghiaccio che, durante l’ultimo massimo glaciale, si protendevano direttamente in mare. I fondali dei fiordi, proprio perché dovuti all’esarazione glaciale, sono più profondi verso la terraferma, e presentano una soglia che si erge dai fondali del fiordo stesso verso il mare aperto. Tale conformazione del fondale è dovuta alla progressiva diminuzione del potere erosivo della lingua glaciale con l’aumentare della profondità del braccio di mare. Il ghiaccio, infatti, galleggia sull’acqua e la sua azione di erosione si riduce progressivamente con l’aumentare del galleggiamento e con il diminuire del suo volume, fino alla distanza della zona d’alimentazione dove la lingua glaciale non poggia più sui fondali dell’insenatura. Costa a rias: sono delle vere e proprie valli fluviali invase dalle acque marine. Si presentano con insenature molto profonde e ramificate e sono molto comuni sulla costa atlantica dell’Europa occidentale. Coste modellate da masse glaciali continentali Coste d’origine vulcanica - Coste di emersione Si rinvengono ovunque vi sia stato un sollevamento tettonico della costa o un abbassamento del livello medio del mare. Sono da considerarsi coste ereditate, perché sono venute in contatto con il mare da poco tempo. Tra queste ricordiamo: Costa di pianura costiera Costa di emersione con fondale ripido Costa d’origine vulcanica - Coste neutre o secondarie Si rinvengono ove vi siano accumulati ingenti sedimenti in prossimità della costa, senza un’apprezzabile variazione del livello del mare. Tra queste: Costa a delta Costa a scogliera - Coste di faglia Quando si manifestano attività tettoniche intense e s producono faglie che abbassano il lato a mare, o quando una massa crostale emerge dal mare, si può formare una costa che corrisponde ad una scarpata di faglia. - Coste poligeniche Sono coste che hanno subito il modellamento da parte di più agenti morfogenetici. Un esempio tipico è costituito da coste che sono state invase dal mare e sono successivamente emerse o che hanno subito vicende contrarie. Un particolare tipo di coste, da imputare alla subsisdenza dei fondali e alla contemporanea azione degli organismi costruttori, ad esempio i coralli, si riscontra ei mari tropicali e piò dare origine a vere e proprie barriere coralline e atolli. Effetti del moto ondoso All’avvicinarsi di un’onda alla costa, questa subisce un rallentamento, per effetto dell’attrito con il fondale. Conseguentemente, quando l’onda si approssima al litorale secondo una direzione obliqua rispetto alla costa sommersa, si produce il fenomeno della rifrazione. La rifrazione si genera in seguito al progressivo rallentamento del treno d’onda in prossimità della costa. Il rallentamento differenziato dei fronti d’onda, causato dal progressivo aumento dell’attrito con i fondali, provoca una tendenza del moto ondoso a disporsi parallelamente al litorale. Nel caso la costa non sia rettilinea ma frastagliata, con promontori e baie, la rifrazione produce una modifica di forma dei treni d’onda. Questi, infatti, tendono a disporsi parallelamente alla linea di riva, cosicché sui promontori si manifesta una maggiore concentrazione d’azioni erosive rispetto alle aree della baia, dove spesso si verifica sedimentazione. Le azioni erosive e di sedimentazione sono condizionate dalla quantità d’energia che le onde distribuiscono sulla costa, rappresentata da vettori sempre perpendicolari ai fronti d’onda. Nel caso di costa rettilinea, l’energia del treno d’onda è distribuita in omogeneamente mentre, nel caso di promontori, i vettori tendono a convergere in modo tale che la stessa quantità di energia trasportata dalle onde si distribuisce su un tratto di costa più breve. Nel caso di insenature, infine, la situazione è contraria, con i vettori energia che divergono, e la stessa quantità di energia si distribuisce su tratti di costa più estesi. Questo fenomeno, detto di rifrazione, è tanto più intenso quanto più il tratto di costa, in cui le onde interagiscono con i fondali, è esteso. Tale fenomeno è praticamente assente nel caso di coste molto ripide e profonde. Quando le onde giungono sulla costa, oltre alla rifrazione, possono subire anche una riflessione. In pratica, quando le onde incontrano una superficie secondo un angolo di incidenza, subiscono una riflessione secondo un angolo, uguale al precedente ma simmetrico rispetto alla perpendicolare alla superficie di riflessione. Un treno d’onda che giunge su di una costa obliquamente, produce perciò una corrente longitudinale in prossimità del litorale ed il materiale trasportato dalle onde tende ad essere gettato sulla spiaggia secondo una direzione obliqua, per ritornare al mare seguendo invece un tragitto quasi perpendicolare alla costa. I granuli gettati sulla spiaggia hanno la stessa direzione delle onde in arrivo sulla costa, mentre quelli che ritornano al mare per effetto della risacca risentono della pendenza della spiaggia e quindi si muovono perpendicolarmente alla costa. Il risultato di questi piccoli spostamenti è un movimento costante del materiale, in senso parallelo alla costa, che si attua attraverso un percorso complesso a zig-zag dei singoli granuli. Poiché le onde in arrivo sulla costa tendono ad impedire il ritorno delle acque verso il largo, e il moto di queste acque verso il mare è spesso impedito dalla presenza di barre longitudinali, l’acqua in prossimità della costa si “gonfia” contro la riva. In particolari punti della costa, dove le barre longitudinali sono di minor altezza, si concentra un flusso di ritorno che tende a riequilibrare i livelli del sistema. Tali flussi, diretti verso il largo, sono detti correnti di risucchio e sono particolarmente insidiosi per i bagnanti meno esperti o di giovane età. Coste basse Le coste basse sono costituite dalle spiagge, ovvero una fascia di depositi marini incoerenti, attiali o recenti, continuamente soggetti all’erosione, altrasporto ed alla sedimentazione da parte del amre. L’azione complessiva del mare sulle coste si può configurare come un’erosione; si può osservare, infatti, che ovunque manchino sufficienti apporti di materiale dell’entroterra, le coste tendono ad arretrare. Le spiagge, in condizioi naturali, possono essere delimitate verso l’entroterra dalle dune litorali (modellate dall’azione del vento) o anche da altre forme del paesaggio d’origine non marina. Verso il mare, il limite è meno netto: in genere si considera posto nella zona oltre la quale l’azione delle onde si annulla. La spiaggia si può suddividere in: Spiaggia sottomarina (off-shore): può presentare delle bare litorali di forma allungata, parallele alla costa. Queste forme sono prodotte nella maggior parte dei casi dall’interferenza tra il flusso di ritorno verso il mare con quello in arrivo. Spiaggia intertidale (fore-shore): è quella parte della spiaggia limitata superiormente dal limite dell’alta marea ed inferiormente da quello di bassa marea. In questa porzione di spiaggia, si può facilmente riconoscere una superficie a debole pendenza che costituisce il terrazzo di bassa marea ed una zona di battigia, notevolmente più inclinata che raccorda il terrazzo di bassa marea con il limite esterno dell’avanspiaggia. Spiaggia emersa (back-shore): è costituita, verso l’entroterra dalla retrospiaggia e verso il mare dall’avanspiaggia, divise da un cordone di spiaggia. Il cordone di spiaggia si forma per l’accumulo di materiali abbandonati dai frangenti di costa, oltre al limite d’influenza della risacca, distanza oltre la quale l’acqua ritorna al mare per via sotterranea e non in superficie. Il cordone può inoltre accrescersi per azione del vento. La retrospiaggia è la spiaggia che solo raramente è invasa dalle acque del mare ed a volte racchiude stagni costieri. Nella spiaggia sommersa, il materiale sul fondo subisce piccoli spostamenti in avanti, in corrispondenza delle creste delle onde, ed in ritorno in corrispondenza dei cavi d’onda. I fondali sono così caratterizzati dalla presenza di una sequenza di crespe d’oscillazione che divengono, in prossimità della spiaggia intertidale, vere e proprie crespe di corrente, permettendo di valutare la direzione dei flussi preponderanti. In corrispondenza della battigia e della spiaggia emersa. Le onde possono lanciare sull’arenile i granuli, sollevati dai moti turbolenti dei frangenti che poi ritornano al mare per effetto della corrente di risacca; se ancora in sospensione si possono sedimentare per effetto della gravità oppure, soprattutto i granuli più fini, possono essere trasportati verso il largo. Il continuo movimento cui possono essere sottoposti i granuli in questa zona della costa provoca un loro rapido consumo. Dopo breve tempo la spiaggia si arricchisce perciò di granuli costituiti dai minerali più resistenti (es. quarzo). I clasti, inoltre, in virtù del loro movimento d’andata e ritorno, tendono ad appiattirsi e ad assumere un certo grado di classazione nella loro disposizione. La pendenza di una spiaggia è funzione principalmente dell’energia del moto ondoso e delle dimensioni dei clasti e maggiore è la pendenza della spiaggia. Alcune situazioni specifiche consentono la deposizione di detriti marini a formare caratteristiche forme di sedimentazione. Si è già accennato alla capacità di un fronte d’onda di generare azioni di erosione sui promontori e di sedimentazione nelle insenature; conseguentemente, poiché le spiagge sono coste dove prevale la sedimentazione è facile immaginare che i materiali erosi nei promontori si accumulano nella parte interna dei golfi, baie e insenature, formando spiagge (fondo baia). Altre aree di deposizione marina, molto caratteristiche, si rinvengono tra un’isola oppure uno scoglio e la terraferma. I questa situazione, i fronti d’onda incontrando l’ostacolo formato dall’isola tendono ad incurvarsi, subendo un ritardo in corrispondenza dell’isola stessa; dietro l’ostacolo, i treni d’onda si presentano perciò con una direzione all’incirca opposta. Tra l’isola e la terraferma, quini le azioni delle onde si annullano e perciò si formano cordoni che prendono il nome di tomboli. Questi tomboli possono anche trasformare l’isola in una vera e propria penisola, collegata alla terraferma da una striscia di depositi di spiaggia. Altri depositi molto caratteristici sono quelli che si producono in occasione dell0incontro di correnti lungo la costa, quindi con un forte carico di detriti. All0incontro di due torrenti lungo costa dotate di direzione di movimento contraria, si formano i cosiddetti salienti cuspidati, una sorta di triangolo proteso verso il mare in corrispondenza dell’area in cui avviene lo scontro tra le correnti e quindi dove si annulla o si riduce drasticamente la loro energia. Su una corrente lungo costa si allontana da questa, ad esempio quando incontra una baia molto ampia, il flusso non più confinato si disperde su di una superficie più vasta, la sua energia diminuisce localmente e parte del materiale trasportato tende a sedimentarsi. Quest’ultima situazione da origine alle cosiddette frecce litoranee. Infine, si possono formare parallelamente alla costa i cosiddetti cordoni litorali, che derivano generalmente dall’emersione per accrescimento continuo di una barra litorale. Questi cordoni litorali sono spesso responsabili della chiusura di piccole insenature, in grado perciò di provocare la formazione dapprima di lagune e successivamente di laghi costieri. Il litorale sabbioso è un ambiente perciò molto dinamico. Coste alte Le coste, quando costituite da scarpate rocciose modellate dall’azione marina, sono dette falesie. Esse possono classificarsi in falesie vive quando sono in continua evoluzione a causa delle azioni marine; e falesie morte quando il mare non giunge più in contatto con la scarpate e non è quindi in grado di rimodellare la scarpata. Non tutte le scarpate strapiombanti sul mare sono perciò delle falesie, infatti, la scarpate può essere dovuta anche ad agenti del modellamento diversi dal mare. L’evoluzione di una falesia dipende, oltre che dalle azioni del mare, anche dal tipo di roccia che costituisce la scarpata. Nel caso di rocce compatte e molto resistenti, la falesia è normalmente costituita da una scarpata strapiombante sul mare, che subisce lentissimi fenomeni d’erosione. Se invece la falesia è costituita da rocce più facilmente erodibili, ad esempio marne o arenarie poco cementate, l’evoluzione della falesia è molto rapida: la scarpata tende ad arretrare velocemente con un fronte che si presenta complessivamente meno pendente. A volte l’azione d’erosione del mare isola dalla costa grossi scogli che prendono il nome di faraglioni. L’evoluzione di una falesia procede perché i processi d’alterazione e disgregazione subaerea preparano la superficie esposta all’erosione marina. Quest’ultima avviene soprattutto in prossimità della superficie del mare, dove si forma una cavità detta solco battente. L’azione delle onde aumenta d’intensità soprattutto durante le mareggiate quando grossi clasti possono essere prelevati dai fondali e gettati contro la parete. La parte di scarpata immediatamente sopra al solco di battente ad un certo punto crolla (per mancanza di piede e della fessurazione). Il crollo del materiale si dispone alla base della falesia; se questo avviene sui fondali molto profondi il ciclo inizia nuovamente con la formazione di un nuovo solco di battente. Se invece i fondali sono poco profondi, il materiale crollato difende per un certo periodo la base della falesia da ulteriori erosioni, fino a quando non sia stato asportato dall’azione del mare. Da questo momento in avanti, il ciclo d’erosione sulla parete ricomincia, con la formazione di un nuovo solco di battente. L’arretramento della falesia comporta la formazione, alla base della stessa, di una superficie suborizzontale a debole pendenza verso il mare che è detta piattaforma d’erosione litorale. Essi si espande quindi sempre più verso l’interno, riducendo anche la profondità del fondale cosicché ad un certo punto la falesia rallenta la sua evoluzione e diviene una falesia morta. Spesso una falesia si trasforma da viva a morta, o viceversa, per effetto di cambiamenti del livello del mare o per movimenti tettonici della costa. Molto comunemente si assiste ad un modellamento della falesia da parte di più agenti contemporaneamente. 17. IL SISTEMA MORFOCLIMATICO GLACIALE L’importanza di questo sistema morfoclimatico si desume dall’attuale distribuzione dei ghiacci sulle terre emerse e, soprattutto, dalle tracce che i ghiacci hanno lasciato nel passato. Attualmente i ghiacci occupano circa il 7% delle terre emerse. Analizzando il clima del passato, sappiamo che tale estensione non è rimasta costante nel tempo. Durante le glaciazioni, la superficie occupata dai ghiacci era, infatti, decisamente maggiore dell’attuale (più del 20%); in altri momenti del passato vi sono stati invece climi senza dubbio più caldi dell’attuale, tanto che le masse glaciali erano ridotte rispetto ad oggi. Grandi calotte di ghiaccio sono in grado di modificare il clima nelle aree circostanti, poiché sulla massa glaciale si instaurano condizioni anticicloniche permanenti che riducono le precipitazioni e deviano le correnti in quota. Una grande massa glaciale produce inoltre un maggior effetto albedo riducendo l’assorbimento d’energia che arriva dal Sole, e quindi accentua le condizioni glaciali. L’inizio degli studi scientifici sui ghiacciai si fa risalire alla seconda metà del 1700, ad opera del naturalista ginevrino Horace Benedict de Saussure: in pratica egli fu il fondatore della glaciologia. Gli studi sui ghiacciai furono poi perseguiti nel XIX secolo da svizzeri ed inglesi che svilupparono diverse teorie sul movimento delle masse glaciali, sul bilancio di massa, sul regime termico e sulla loro idrologia. Con questi studi si riconobbe la maggior estensione, nel passato, delle calotte glaciali europee. Agassiz nel 1846 si trasferì come professore alla Harvard University e studiò anche le tracce della grande calotta nordamericana. I ghiacciai Un ghiacciaio è costituito da un fluido viscoso (il ghiaccio) che si comporta come un coro d’acqua, con movimenti più lenti, ma con una capacità maggiore di interagire con il suo bacino d’alimentazione ed il substrato roccioso su cui scorre. Il ghiaccio si forma, in genere, in seguito alla trasformazione della neve caduta al suolo attraverso fasi di aumento progressivo della densità. Questa trasformazione avviene secondo processi lenti, favoriti dalla fusione, sublimazione e rigelo dei singoli cristalli di neve, in seguito soprattutto all’aumento di pressione cui questi sono soggetti con l’aumentare dello spessore del manto nevoso. Infine, l’aria imprigionata tra i cristalli è isolata in bolle nel ghiaccio stesso, mentre i cristalli sono continuamente soggetti a movimenti reciproci, a variazioni di forma e dimensione nonché deformazioni interne. L’aumento costante di densità permette di classificare alcuni di questi stadi in funzione proprio della densità. La neve fresca, infatti, per effetto dei fenomeni di fusione comincia ad eliminare l’estremità dei cristalli, il manto nevoso si compatta sempre più passando attraverso gli stadi di neve fresca umida e neve ventata fino a quello di neve vecchia e neve granulare, detta dai glaciologi firn. Il firn potrebbe essere definito come neve costituita da granuli arrotondati con una porosità inferiore al 40%. Esistono numerose definizioni di ghiacciaio, ma forse la più semplice e generale è quella suggerita da Smiraglia (1992): “il ghiacciaio è un’entità dinamica impegnata ad accumulare massa sulla terraferma e a trasferirla fino ad una regione (anche marina) dove questa viene separata dal corpo principale ed allontanata”. Per una facile comprensione dei tipi di ghiacciai che si possono formare sulle terre emerse introduciamo la classificazione di Selby (1985): - Ghiacciaio marino (es. la Banchisa del Mar Glaciale Artico) Il suolo perennemente gelato: permafrost che occupa il 15% di tutte le terre emerse I ghiacciai di roccia: rock glacier I ghiacciai veri e propri si possono innanzitutto suddividere in ghiacciai di montagna e in ghiacciai di calotta (inlandsis), classificazione dovuta ad ambienti molto diversi e poiché sono soggetti a temperature del ghiaccio diverse. I ghiacci si possono suddividere anche in: Ghiacci freddi o polari: generalmente ubicati alle alte latitudini, dove le temperature esterne raggiungono picchi negativi molto elevati perciò, anche nella stagione estiva, la zona di contatto tra il ghiaccio ed il sub strato rimane ampiamente sotto zero. In questa situazione il movimento del ghiaccio è dovuto quasi esclusivamente alle deformazioni plastiche dello stesso; il ghiaccio è solidale con il substrato e ad esso ben aggrappato. Ghiacci temperati: generalmente ubicati nelle alte quote delle regioni temperate, o più raramente tropicali, e sono caratterizzati da temperature della massa di ghiaccio prossima allo zero. In queste situazioni, il ghiaccio non raggiunge temperature negative comparabili con quelle dei ghiacci freddi; le escursioni termiche giornaliere e stagionali consentono, a livello del substrato, una continua fusione e ricristallizzazione che permette, oltre ai movimenti plastici interni alla massa glaciale, anche movimenti di scivolamento del ghiaccio sul substrato. In questo secondo caso il ghiaccio ha la possibilità di muoversi a velocità maggiore sul substrato per una riduzione dell’attrito al suo contatto. Tipi di ghiacciai osservabili sulla Terra: 1. Calotta glaciale (ice sheet): la massa glaciale seppellisce il rilievo sottostante; ha una forma convessa e cupola molto piatta ed il movimento del ghiaccio avviene radialmente dall’area centrale verso i bordi della calotta. Il movimento è provocato dalle pressioni decrescenti verso i margini della calotta, conseguenti al decrescere degli spessori dal centro verso i bordi. 2. Calotta glaciale (ice cap): è una massa di ghiaccio con morfologia simile alla precedente. È ubicata in aree poste alle alte latitudini, con masse glaciali spesse anche migliaia di metri. In queste condizioni, il peso della calotta glaciale influisce sui movimenti isostatici del substrato che spesso si modella a forma di catino, con la parte più profonda in corrispondenza della porzione più interna della calotta. L’estensione della calotta ha inoltre un influsso particolarmente significativo sul clima circostante, contribuendo a ridurre le precipitazioni e stabilizzare le temperature verso il basso. 3. Ghiaccio di sbocco (outlet glacier): è costituito da colate di ghiaccio alimentato direttamente dalla calotta. Spesso queste colate raggiungono il mare dando origine a piattaforme di ghiaccio galleggianti (ice shelfs) unite alla costa. 4. Ghiacciaio vallino (valley glacier): è costituito da un corpo glaciale che fluisce lungo una valle ben definita. Le lingue glaciali in moto lungo le valli montane fluiscono seguendo la pendenza generale delle valli stesse, alimentate nelle aree di testata. Nel caso che l’alimentazione principale del ghiacciaio non provenga dalla parte più elevata del proprio bacino, ma il ghiacciaio si alimentato parzialmente o totalmente da una lingua di ghiaccio che proviene da un’altra valle, parleremo di un ghiacciaio di diffluenza (diffluent glacier), ovvero il ghiacciaio vallino che diverge da una colata principale per risalire lungo la valle in esame. Nel caso che questa deffluenza avvenga per superamento del crinale tra due valli attigue, si parlerà di trasfluenza glaciale. Quest’ultimo fenomeno avviene quando una lingua più consistente, in genere con un bacino d’alimentazione più ampio, supera il crinale in più punti e alimenta parzialmente una lingua glaciale dotata di un bacino più ridotto. Quando due o più ghiacciai vallini convergono a formare un’unica lingua glaciale, parleremo invece di ghiacciaio di confluenza (Confluenti glacier). Se il ghiacciaio nel suo fluire entro una valle montana raggiunge anche l’antistante pianura, si parlerà più propriamente di ghiacciaio pedemontano (piedemont glacier). In questo caso il corpo glaciale allo sbocco della valle glaciale in pianura si espande a formare una tipica forma lobata. 5. Ghiacciaio di circo (cirque glacier): è costituito da un piccolo corpo glaciale che si ritrova limitato in un cosiddetto circoglaciale costituito da una concavità in roccia a forma di poltrona, nella parte più elevata del bacino. Il ghiacciaio, quando non ha sufficiente alimentazione per fluire lungo una vallata, rimane così confinato nella maggior parte del bacino. 6. Ghiacciaio di nicchia (niche glacier): è un ghiacciao di dimensione ancora più ridptte del precedente. Il piccolo corpo glaciale è situato in questo caso su di una parte ripida o in una cavità incisà poco profondamente. 7. Ghiacciaio morto: è costituito da una massa di ghiaccio, isolata da un ghiacciaio che sopravvive in situazioni locali. Il bilancio di massa dei ghiacciai Tutta la superficie del ghiacciaio è soggetta ad una continua riduzione di massa definita ablazione. Essa è l’insieme dei processi di fusione del ghiacciaio che costituisce il corpo del ghiaccio e della sua copertura nevosa. Tale perdita può avvenire per processi diversi; i più comuni sono: la fusione ed il successivo ruscellamento, la sublimazione, l’azione erosiva del vento soprattutto sulle masse nevose che ricoprono il ghiaccio, il distacco e conseguentemente il crollo di masse di ghiaccio da pareti ripide ed infine il calving ovvero la fusione ed il distacco di blocchi di ghiaccio al margine di un ghiacciaio che si protende in mare. Nei ghiacciai alpini l’ablazione è più evidente e consistente alle quote più basse, notevolmente meno rilevante nelle aree più elevate. Questo permette di comprendere che in un ghiacciaio esiste un’area in cui l’ablazione predomina sull’accumulo del ghiaccio ed aree dove invece la situazione è contraria. Il ghiacciaio ha perciò il suo bilancio di massa. Fattori che accentuano o riducono l’ablazione sono: - Temperatura media dell’aria circostante o del mare Esposizione e conseguentemente l’albedo Spessore della copertura nuvolosa Velocità del vento Copertura della massa di ghiaccio da parte di detriti Alcune situazioni particolari possono inoltre provocare ablazione differenziale e produrre alcune strutture superficiali del ghiacciaio (funghi di ghiaccio: costituiti da un grosso massa che difende dall’ablazione il ghiaccio sottostante e che perciò, dopo un certo lasso di tempo, si ritrova in rilievo, sospeso su una colonna di ghiaccio, con la tipica forma del fungo. Altra forma sono i coni di ghiaccio: in una depressione si accumulano detriti che difendono il ghiaccio sottostante dell’ablazione trasformando una struttura negativa (depressione) in una positiva (monticello conico). Diventa una struttura in rilievo, i detriti si ridistribuiscono, per effetto della gravità, sulla superficie esterna del monticello assumendo una forma conica. Un ghiacciaio ha la possibilità di mantenersi ed eventualmente espandersi quando, nella sua area di alimentazione, si forma nuovo ghiaccio e questo permane per l’intero anno. La formazione di nuovo ghiaccio è praticamente condizionata dalla quantità di neve che si accumula al suolo, durante il semestre freddo. La quantità di neve che si accumula sul ghiaccio è influenzata anche da altri fattori come, ad esempio, le valanghe da pareti rocciose soprastanti ed il vento. Le basse temperature ovviamente costituiscono un fattore indispensabile alla permanenza della neve e alla sua trasformazione in ghiaccio. Ancor più importante, perché si formi nuovo ghiaccio, è la distribuzione annuale delle temperature (il processo d’accumulo è favorito da stagioni estive fresche e brevi, piuttosto che da inverni freddissimi alternati ad estati molto calde. Il fattore discriminante, per la formazione del ghiaccio annuale, è che durante l’estate non si fonda completamente la neve caduta nel precedente semestre invernale). Secondo queste definizioni, si potrà allora suddividere il ghiacciaio in due aree: - La prima in cui alla fine dell’estate si è conservata una parte della neve caduta durante il semestre invernale La seconda dove invece si è fusa tutta la neve caduta durante il semestre freddo e si è avuta anche la fusione del ghiaccio fluido della zona più elevata. Si definisce così per ogni ghiacciaio un’area di accumulo ed una d’ablazione. Il limite tra queste due aree è definito limite d’equilibrio (ELA). Un ghiacciaio si presenterà perciò in avanzamento, quando il suo volume attuale aumenta quando la quantità di ghiaccio che si accumula è maggiore di quanto viene preso per l’ablazione. Al contrario, quando il bilancio annuale è negativo per più annate, in altre parole quando l’ablazione supera l’accumulo, il ghiacciaio regredisce diminuendo sia in estensione e sia in volume (attualmente i ghiacciai alpini stanno subendo una costante riduzione). I movimenti del ghiacciaio Calcoli approssimativi sul movimento di oggetti ubicati sulla superficie del ghiaccio hanno permesso di stimare velocità diverse per i vari ghiacciai alpini, che in genere si attestano attorno a diverse decine di metri l’anno. Il ghiacciaio, in assenza di questo movimento del ghiaccio della zona d’accumulo a quella di ablazione, continuerebbe ad inspessirsi nella parte alta mentre a valle si estinguerebbe in breve tempo. Il ghiacciaio è quindi un’entità dinamica, dotato di un suo equilibrio, e, benchè la fronte del ghiacciaio rimanga quasi stazionaria, il ghiacciaio è in continuo movimento da monte verso valle. I movimenti delle masse glaciali più conosciute sono: - - - Crepacci e seracchi: possono essere longitudinali, trasversali, radiali, ecc. Si formano a seguito di tensioni nella massa di ghiaccio, per variazioni di velocità del flusso, imposto dall’attrito con il substrato roccioso o da variazioni di pendenza della valle. I cosiddetti seracchi si formano quando i crepacci s’intersecano, isolando blocchi di ghiaccio alti anche più di 10 metri. Ogive: sono costituite da alternanze di bande più chiare e più scure di ghiaccio, visibili a valle di una seraccata, disposte ad arco più avanzato nella parte centrale della lingua. Le fasce scure sono ricche di polvere, concentratesi durante l’estate per effetto della fusione, mentre le fasce chiare rappresentano l’accumulo invernale di neve nei carpacci. Foliazioni: sono laminazioni regolari del ghiaccio da attribuirsi alla stagionalità della sua formazione. Sono spesso costituite da alternanza di ghiaccio vitreo e ghiaccio bianco ricco di bolle e cristalli più fini. Erosione, trasporto e sedimentazione glaciale Il modellamento glaciale, analogamente a quanto avviene in altri sistemi morfodinamici, procede attraverso l’erosione, il trasporto e la sedimentazione. L’erosione glaciale si ndica più propriamente con il termine di esarazione e può essere distinta in tre tipologie fondamentali: - - - Erosione in senso stretto: consiste nella rimozione dei detriti lla superficie su cui scorre il ghiacciaio. È in pratica solamente la presa in carico del materiale disposto alla base ed ai fianche di una lingua glaciale. Abrasione: consiste nella levigazione della roccia su chi transita il ghiaccio. L’abrasione si produce ad opera dei detriti trasportati all’interfaccia roccia-ghiacciaio; questi vengono premuti dalla massa glaciale sul substrato secondo pressioni che possono giungere a valori di alcune centinaia di km/cm2 . le rocce interessate da questo fenomeno si presentano perciò lisce, con evidenti striature glaciali, in grado di indicare la direzione del flusso del ghiaccio. Queste strie glaciali si ritrovano non solo sulle rocce che costituiscono il substrato, ma anche sui singoli clasti coinvolti nel movimento del ghiaccio. Tipiche forme glaciali, costituite da roccia levigate e arrotondate sul lato controccorrente, sagomate secondo la direzione di scorrimento delle lingue glaciali e contraddistinte da solchi e scannellature glaciali sono le rocce montonate. Divaricamento o quarrying: consiste nella capacità del ghiaccio di incunearsi nelle fenditure e strappare blocchi di roccia dal substrato. Il trasporto glaciale può avvenire secondo modalità differenti: Fondo del ghiacciaio (trasporto sub glaciale): soggetto ad una maggiore frizione tra i granuli ed il substrato, conseguentemente i detriti trasportati al fondo del ghiacciaio sono quelli maggiormente levigati, spesso dotati di una caratteristica forma a proiettile o a ferro da stiro. I detriti di fondo in genere sono presi in carico direttamente alla base del ghiacciaio; possono anche penetrare all’interno del ghiaccio e divenire materiale endoglaciale, in seguito al movimento del ghiaccio verso valle antro la lingua glaciale. Il materiale che cade sulla superficie della lingua glaciale può scivolare su di essa o muoversi come detrito epiglaciale. Tale materiale può arrivare alla lingua di ghiaccio per effetto di frane o di valanghe dei versanti soprastanti al ghiacciaio. Il materiale che si accumula nelle aree di alimentazione ed è ricoperto prima da neve e successivamente da ghiaccio, si ritrova entro la lingua ed il suo movimento è endoglaciale. Allo stesso modo, il materiale che si accumula antro crepacci o che viene trasportato da torrenti endoglaciali può dare origine a trasporto endoglaciale. I detriti inoltre possono risalire in superficie nelle aree soggette a forte ablazione glaciale. Interno del ghiacciaio (trasporto endoglaciale) Sulla superficie del ghiacciaio (trasporto sopraglaciale o epiglaciale) I depositi glaciali, a volte definiti morenici, sono più propriamente identificati dal termine till. Il termine morena ha, infatti, una connotazione più propriamente morfologica; con questo termine si devono intendere le forme che contengono i depositi. I depositi glaciali possono essere distinti in base alle loro modalità di disposizione nonchè alla posizione rispetto alla lingua glaciale: 1. Till di fusione: si produce per una lenta fusione del ghiaccio. Il detrito sopraglaciale, a mano a mano che il ghiaccio si fonde, si accumula alla fronte del ghiacciaio, senza subir alcun rimescolamento, presenta una struttura disordinata ed in genere scarsi materiali fini che vengono di solito dilavati dalle acque di fusione glaciale. 2. Till di colata: si forma per il colamento di detriti sopraglaciali alla fronte di una lingua glaciale. Può presentare qualche accenno di selezione a differenza di quanto avviene per il till di fusione. L’insieme di questi due tipi di depositi costituisce il cosiddetto till di ablazione, infatti, questi tll si accumulano in seguito al movimento ed alla fusione alla fronte di ghiacciai stazionari o in regresso. 3. Till di alloggiamento: è un deposito glaciale nettamente distinto dai precedenti poiché si dispone alla base della lingua glaciale in movimento. Corrisponde perciò a quello che un tempo era definito il deposito morenico di fondo. Il till di alloggiamento è caratterizzato da abbondanza di detriti fini, si presenta compatto perché sottoposto alla pressione da parte della massa glaciale soprastante e costituito da ciottoli a ferro da strio e abbondantemente striati; a volte, in alcuni punti questi depositi sono spremuti contro il substrato e vi si trovano aggrappati. Forme glaciali Il lavoro compiuto da un ghiacciaio si manifesta nelle forme glaciali, osservabili anche dopo l’eventuale scomparsa del ghiacciaio stesso. Le forme glaciali, in analogia a quelle causate da tutti gli altri agenti del modellamento, possono distinguersi in forme di erosione, testimoni dei processi erosivi del ghiacciaio, ed in forme di sedimentazione, costituite da accumulo di sedimenti glaciali. Tra le principali forme di erosione si devono ricordare i circhi e le valli glaciali. Il circo assomiglia ad una poltrona con braccioli: e costituito da una depressione semicircolare, circondata su tre lati da pareti molto acclivi. Verso il quarto lato, quello rivolto verso valle, è spesso sbarrato da una soglia a volte nascosta da un accumulo di depositi glaciali che costituiscono una morena frontale. L’origine del circo discende dalla presenza alla testata di una valle di un’area di accumulo glaciale. Nel circo, infatti, si possono conservare la neve e il ghiaccio per qualche tempo anche quando le condizioni climatiche non sono più idonee alla presenza di ghiacciai. I circhi non più occupati dal ghiaccio sono soggetti ad altri agenti del modellamento che tendono a modificarne l’aspetto. Attualmente, la maggiorparte di queste depressioni è occupata da importanti falde e coni di detrito accumulati ai piedi delle pareti ripide, per azione della gravità. La parte centrale del circo, più depressa, è spesso interessata dalla presenza di un laghetto o di un area umida. I circhi possono essere isolati oppure disposti a gradinata, se ubicati in sequenza lungo la valle; a volte, circhi minori scavati sui versanti (circhi di monte) possono essere contenuti in un circo ampio che comprende l’intero bacino (circo di valle). L’evoluzione di due circhi glaciali contrapposti sui versanti dello stesso crinale origina una cresta divisoria sottile detta arete; questo crinale, se costituito da rocce disomogenee, si modella in una cresta frastagliata in cui spiccano denti e guglie (i cosiddetti gendarmi). Una vetta può subire un modellamento da parte di tre o quattro circhi contrapposti, scolpendola a forma di piramide detta horn (es. Cervino). Le valli glaciali si manifestano con un profilo trasversale che presenta la tipica forma ad U; tale forma è stata storicamente contrapposta a quella a V attribuita al profilo delle valli fluviali. Possiamo affermare che, benchè il modellamento glaciale favorisca questo tipo di profilo, la maggior parte delle valli montane pur presentando tale profilo, non è da classificare esclusivamente come valle d’origine glaciale. In una valle glaciale si possono osservare fianchi ripidi modellati dall’esarazione glaciale. Le rocce sui versanti sono spesso levigate e striate secondo la direzione del flusso del ghiaccio. Tali fianchi sono interrotti da una sorta di terrazzo, detto spalla glaciale, che rappresenta la quota raggiunta dal ghiacciaio entro la valle. Nella valle, perciò, s’intravede l’esarazione glaciale fino ad una certa quota mentre al di sopra delle spalle glaciali le rocce, non levigate, mostrano forme più irregolari ed acuminate. Le valli tributarie che si affacciano sulla valle glaciale principale sono inoltre sospese, in altre parole la loro confluenza avviene con un salto, sottolineato spesso dalla presenza di cascate. Le valli sospese sono dovute alla minor capacità erosiva dei più piccoli ghiacciai tributari e soprattutto al livello di base rappresentato dalla lingua glaciale principale che, riempiendo tuta la valle fio alle spalle glaciali, alzava fino a quel punto la quota di confluenza dei tributari. Le principali forme di sedimentazione sono le morene, suddivise in numerose tipologie, in funzione sia della loro posizione rispetto alle masse glaciali, sia per la loro modalità di formazione. Una lingua di ghiaccio che staziona in una certa posizione entro una vallata alpina provoca la disposizione delle morene, ubicate in diverse posizioni rispetto alla lingua. Le morene frontali sono quegli accumuli di detrito disposti ad arco che si rinvengono alla fronte del ghiacciaio. Le morene frontali, dette anche terminali, rappresentano la testimonianza di una fase d’espansione glaciale o di uno stazionamento della lingua della valle. Nel caso di stazionamento della fronte glaciale in una certa posizione, il ghiaccio si comporta come un nastro trasportatore; i detriti contenuti sopra ed entro la lingua glaciale si muovono verso la fronte, accumulandosi a mano a mano che il ghiaccio fonde (till di fusione e till di colata). Nel caso meno frequente di una decisiva avanzata della lingua glaciale, può formarsi rapidamente una morena frontale. In questo caso, la lingua di ghiaccio che avanza si comporta come una ruspa spingendo in avanti i detriti che incontra sul suo cammino, formando le cosiddette morene di spinta (push morain). In un sistema di archi frontali, la morena più esterna è la più antica, mentre le tracce che si rinvengono verso monte testimoniano tappe cronologicamente più recenti dell’evoluzione glaciale della valle. Morene laterali sono invece quelle creste che bordano lateralmente la lingua glaciale e si raccordano con le morene frontali. Nelle morene laterali i depositi si accumulano lungo i fianchi della lingua glaciale apportati dai detriti epiglaciali che scivolano lateralmente verso i bordi. In tale situazione i depositi si accumulano tra il bordo laterale del ghiacciaio ed il versante. Queste morene possono essere alimentate in parte anche dall’apporto di detriti provenienti direttamente dal versante. In fase di regresso del ghiacciaio, il deposito al bordo della lingua subisce una fusione del nucleo di ghiaccio che comporta un parziale collasso dell’argine morenico oltre a fenomeni di colamento e scivolamento dei detriti più fini. Due ghiacciai che confluiscono in un'unica lingua, portano a contatto, sul lato di confluenza, le morene laterali che si fondano dando origine ad una morena mediana. Al di sotto della massa glaciale si possono formare creste parallele, alte pochi centimetri e lunghe decine di metri, costituite da depositi subglaciali, definite fluten morains o flute, in grado di indicare la direzione di flusso delle masse glaciali. Forme simili ma più grandi, costituite da colline alte fino a 10-20 metri e larghe tra qualche decina e centinaia di metri, con asse maggiore disposto secondo la direzione di flusso, sono i drumlin. Altre forme di transizione, perché formate dallo scorrimento delle acque di fusione glaciale sono gli esker, costituiti da depositi meandriformi sottoglaciali (sedimenti stratificati), e i terrazzi di kame depositati invece al contatto tra il ghiaccio ed il versante. Infine, nelle piane glacializzate, in corrispondenza dei blocchi di ghiaccio morto, si possono formare die tipici laghetti detti kettle. Nelle piane proglaciali, dove si scaricano grandi quantità di detriti provenienti dalla calotta glaciale e depositati dalle acque di fusione (depositi fluvioglaciali), la presenza di ghiaccio morto impedisce la deposizione dei sedimenti. Alla fusione del ghiaccio morto rimane perciò una cavità che in genere si trasforma in un kettle.