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Etnografia dei bar. Per un'educazione alla sociabilità negli spazi pubblici

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INDICE
INTRODUZIONE ..............................................................................................1
I. IL BAR: UNO SGUARDO ANTROPOLOGICO .......................................4
I.1 Geolocalizzazione del bar: il contesto della ricerca .............................................. 4
I.2 L'importanza del concetto di sociabilité ................................................................ 8
I.3 Elementi di antropologia urbana: ragionare per reti ............................................ 10
I.4 Il luogo terzo: le diverse forme di bar nella cultura occidentale ......................... 12
I.4.1 Il pub ........................................................................................................................ 13
I.4.2 Il bistrot e il café ...................................................................................................... 14
I.4.3 Uno studio di caso: il Café Oz ................................................................................. 17
I.4.4 La tavern .................................................................................................................. 19
I.5 Breve storia del bar in Europa ............................................................................. 20
I.6 Accattone o Caduta? Pars construens e destruens del bar a confronto .............. 22
II. IL BAR: UNA RICERCA ETNOGRAFICA ............................................26
II.1 Note metodologiche ........................................................................................... 26
II.2 Il Bar Clan: il potere del gioco e del silenzio ..................................................... 33
II.3 Il Bar Nilo: a home away from home ................................................................. 45
II.4 Il Benny Pub: viaggio al centro del bancone ..................................................... 58
II.5 Il Bar In: un bar In comunità .............................................................................. 69
II.6 Considerazioni finali .......................................................................................... 80
III. IL BAR: UN LUOGO DI SPERIMENTAZIONE EDUCATIVA .........83
III.1 Dall’etnografia all’azione educativa ................................................................. 83
III.2 Pedagogia di comunità: al bar e oltre................................................................ 89
CONCLUSIONE ..............................................................................................92
BIBLIOGRAFIA ..............................................................................................94
INTRODUZIONE
“Les bars de nuit qui fonctionnent ne vendent pas de boissons!
Ils vendent des relations humaines.”
(Jimson Bienenstock)
L’aforistica frase pronunciata dal direttore generale del Café Oz, uno dei bar più
popolari di tutta Parigi, permette di focalizzare immediatamente la teoria sottesa al
presente lavoro: il bar non è solo un luogo dove si consumano aperitivi o caffè, ma
anche e soprattutto uno spazio pubblico dove gli individui possono sviluppare legami
sociali faccia a faccia, oggi più importanti che mai.
Le ragioni che mi hanno spinta a sviluppare l’argomento in esame sono molteplici.
Innanzitutto ho avvertito la necessità professionale di coniugare il percorso
universitario magistrale con la mia esperienza di educatrice di sviluppo di comunità.
Pertanto, attraverso un percorso teoria – prassi – teoria, ho cercato di analizzare il
contesto in cui lavoro dapprima con un approccio antropologico, facendo ricorso al
metodo di ricerca etnografica all’interno dei bar, e in un secondo momento ho raccolto
i dati e le riflessioni emerse dall’esperienza sul campo in una prospettiva pedagogica.
Ho scelto il bar come principale setting perché, da un’indagine preliminare sul campo
condotta parallelamente all’inizio della mia attività lavorativa, ho avuto modo di
constatare che il bar è il luogo d’accesso privilegiato per entrare in contatto con un
territorio e la sua comunità di riferimento; in particolare, ho scelto alcuni bar di
Lugagnano per facilitare la connessione tra gli studi e il lavoro che svolgo nella
frazione del Comune di Sona.
La seconda ragione per cui ho scelto questo tema è che volevo approfondire il
significato e l’importanza del lavoro educativo nei contesti informali. Dopo aver
lasciato il mio precedente lavoro in un servizio sociale di base come assistente sociale
sentivo il bisogno di risolvere il conflitto interiore che mi aveva spinto al
licenziamento: il senso di impotenza, di frustrazione e distanza rispetto alle personeutenti che vedevo tutti i giorni, dovuto all’eccessiva formalità del contesto della
relazione (un ufficio accessibile solo su appuntamento). Per poter entrare in contatto
1
con gli individui è necessario metterli e mettersi a proprio agio: per sviluppare
un’autentica relazione di cura e non di aiuto, occorre cercare di eliminare barriere,
convinzioni, pregiudizi. Il bar rappresenta metaforicamente questo rovesciamento di
prospettiva professionale.
Infine, per mettermi a mio agio, ho ritenuto che sviluppare una ricerca etnografica in
un contesto per me famigliare potesse facilitare l’esperienza e gli apprendimenti.
Ho suddiviso il lavoro in tre parti: nella prima affronto il bar da un punto di vista
antropologico, localizzando immediatamente il contesto geografico della ricerca, per
poi presentare i concetti chiave attraverso cui ho sviluppato la connessione tra
etnografia e riflessioni pedagogiche: la sociabilité di Simmel (Simmel, 1982) e
l’antropologia urbana di Hannerz (Hannerz, 1992). Nei capitoli 4, 5, 6 della prima
parte ho messo in evidenza alcune caratteristiche del bar come luogo terzo
(Oldenburg, 1989), presentando le riflessioni proposte in altre ricerche di carattere
antropologico e sociologico a livello internazionale (Augé, 2015; Cerulo, 2011; Clark,
2013; De Busscher, 2001; Dematteo, 2011; Desjeux et al., 1999; Jedlowski, 2010;
Jolly, 2006; Muir, 2012; Roseberry, 1996; Wilson, 2004) e mettendo in luce aspetti
positivi e negativi del bar rispetto alla sua natura di spazio pubblico.
Nella seconda parte espongo la ricerca etnografica vera e propria, condotta in quattro
bar di Lugagnano durante il mese di giugno 2018, mettendo in evidenza le scelte
metodologiche utilizzate e in particolare l’idea di ricerca etnografica come esperienza
(Piasere, 2009). Per ciascun bar ho utilizzato la stessa struttura discorsiva: mappa,
descrizione dell’ambiente anche attraverso immagini fotografiche, osservazioni su
clientela, consumazioni, conversazioni, relazione con il personale, narrazione di uno o
più episodi particolarmente significativi ai fini della ricerca e/o della mia professione.
Nella conclusione della ricerca ho messo in evidenza le criticità riscontrate e le
riflessioni sull’esperienza.
Nella terza parte, sulla base dell’etnografia dei bar, ho prima descritto alcuni esempi
di azioni educative svolte all’interno dei luoghi oggetto della ricerca e poi sviluppato
il tema degli spazi pubblici da un punto di vista pedagogico, avvalendomi dei
2
principali contributi di pedagogia di comunità in ambito italiano (Catarci, 2013;
Palmieri, 2012; Tramma, 2009).
Obiettivo ultimo della mia tesi è quello di lasciare al lettore uno spazio di riflessione
sui possibili sviluppi futuri dell’educazione nei contesti informali, in relazione alla
professionalità stessa dell’educatore e al senso del suo agire, affinché sia sempre
guidato da un sapere prassico e da un approccio riflessivo, sia sulla propria operatività
che sulla propria identità.
3
I. IL BAR: UNO SGUARDO ANTROPOLOGICO
"Ci si appropria di una città attraverso i suoi caffè"
(Cetta Berardo)
I.1 Geolocalizzazione del bar: il contesto della ricerca
"Il caffè è la casa aperta, al livello della strada, luogo della socialità facile, senza
responsabilità reciproca. Si entra senza necessità. Ci si siede senza stanchezza, si beve
senza sete. Pur di non restare nella propria stanza". Il filosofo francese Emmanuel
Levinas, in Dal sacro al santo, usa queste parole per descrivere il bar e le funzioni che
esso svolge all'interno dei nostri territori.
Non è un caso il fatto che, nonostante la difficile situazione dei consumi, nell'ultimo
decennio in Italia si sia verificata un'impennata di registrazioni di pubblici esercizi di
questo tipo (circa 150.000, secondo i dati Istat 2011), di cui oltre la metà situata nelle
regioni del Nord, in particolare in Lombardia e Veneto. Occorre tuttavia specificare
che durante la crisi economica le attività cessate sono state altrettanto numerose.
Questo fervido turnover resta comunque significativo: l'elevata offerta di bar è
conseguenza diretta di una domanda in costante crescita. Nel Comune di Verona sono
attualmente attivi 1.388 pubblici esercizi; il Comune di Sona, in provincia di Verona,
ospita 49 pubblici esercizi (escluso il Centro Commerciale), di cui 22 nella frazione di
Lugagnano (8.992 abitanti nel 2017), oggetto specifico della seconda parte del
presente studio.1 Rapportando n°residenti/ n° pubblici esercizi, si può constatare che a
Lugagnano è presente un locale ogni 408 abitanti, contro i 185 di Verona.
Considerando il fatto che Verona è meta turistica di fama internazionale, mentre
Lugagnano è la frazione più popolosa di un comune periferico, è possibile dedurre che
la domanda di pubblici esercizi presso il quartiere è nella media. Gli elenchi storici,
tuttavia, registrano una significativa presenza di osterie e venditori ambulanti di vini e
liquori nella prima metà del XX secolo.2 In occasione delle elezioni politiche del 1921
1
Si ringraziano la dott.ssa Giovanna Corona (Comune di Verona) e la sig.ra Patrizia Vincenzi (Comune di Sona)
per la collaborazione nel reperimento dei dati.
2
All'epoca l'attuale territorio di Lugagnano faceva parte sia del Comune di Sona che di Verona. Considerato il
fatto che nel 1939 la popolazione residente a Sona era pari a circa 6000 abitanti e che nella sola frazione di
Lugagnano risultavano registrate 8 osterie e 8 commercianti ambulanti di vino e liquori, si può presumibilmente
4
l'allora sindaco Zampieri emise un'ordinanza che proibiva la vendita di bevande
alcoliche nelle giornate di votazione e la chiusura dei pubblici esercizi alle ore 16, al
fine di contrastare il fenomeno dell'alcolismo e, al contempo, incentivare la
popolazione a recarsi alle urne (Salvetti et al., 2013: 305) . L'episodio non sorprende,
se si considera che il territorio del Comune di Sona ha ospitato per secoli una buona
percentuale dei produttori viticoli della provincia veronese. Nel 1924 venne addirittura
fondato il circolo vinicolo "Nuova Italia", di natura ricreativa e apolitica per statuto, il
quale arrivò a contare più di 200 soci. La tessera di riconoscimento era marchiata con
lo stemma del Partito Nazionale Fascista (Figura I.1), ma due anni dopo il questore di
Verona emise un provvedimento per la chiusura, invitando a mettere in liquidazione
quanto di sua proprietà, poiché "nel Circolo stesso erano soci persone notoriamente
sovversive le quali avevano, un po' alla volta, ottenuto il sopravvento sui fascisti"
(dalla lettera di ordinanza citata in Salvetti et al., 2013: 194).
Figura I.1 Tessera del circolo vinicolo "Nuova Italia" di
Lugagnano, 1924. (Si ringrazia il dott. Renato Salvetti per la
gentile concessione all'uso dell'immagine)
La ricerca della FIPE sul bar italiano (Federazione Italiana Pubblici Esercizi, 2013)
dimostra come l'offerta dei bar si sia evoluta molto rapidamente a partire dagli anni
'80: se fino ad allora il bar era stato connotato come "luogo in cui si somministrano
quasi esclusivamente bevande", nell'ultimo ventennio del secolo scorso i bar
stimare che a Lugagnano v'era un rivenditore di sostanze alcoliche ogni 187 abitanti, cioè un'offerta equivalente
a quella odierna della città di Verona.
5
iniziarono a somministrare anche alimenti, soprattutto nei grandi centri urbani dove la
richiesta di pasti funzionali è tuttora alquanto elevata (sono circa 12 milioni gli italiani
che pranzano abitualmente fuori casa). Nel decennio successivo il bar ha mutato
nuovamente la propria fisionomia: a pasti e bevande si sono progressivamente
affiancati nuovi servizi, da quelli prevalenti di intrattenimento a quelli più innovativi
(wi-fi gratuito, etc.). Incrociando modalità di fruizione, modelli di consumo e
combinazione di prodotti e servizi è possibile individuare oggi quattro macro-tipologie
di bar: gli specializzati, gli integrati, gli specializzati con take away e gli integrati con
take away.
Gli specializzati sono caratterizzati da una forte incidenza di consumo di prodotti
specifici e da modalità di fruizione ben definite (colazione, pranzo, cena). Fanno parte
di questa categoria i bar con prevalente vendita di alcolici, quelli con sala da biliardo, i
caffè tradizionali, i bar di paese, quelli stagionali, gli snack bar, i bar/pizzeria, i bar
corner dei centri commerciali e i bar/latterie. I caffè tradizionali sono ancora quelli più
numerosi.
Gli specializzati con take away consentono il consumo dei prodotti non solo
all'interno, ma anche al di fuori del locale, per mezzo dell'asporto: è il caso di gelaterie
e pasticcerie.
Gli integrati sono quei bar che presentano una buona integrazione tra le caratteristiche
tradizionali del bar con quelle di altri servizi: ne sono un esempio i locali serali.
Allo stesso modo degli specializzati con take away, gli integrati con take away offrono
anche il servizio d'asporto: si tratta perlopiù di bar in stazioni di servizio e/o
ferroviarie.
Il progressivo aumento di questa tipologia di pubblici esercizi e la diversificazione dei
servizi offerti al suo interno, unitamente alla diminuzione del consumo di alcol negli
ultimi quarant'anni in Italia (Allamani et al., 2010) , dimostra che il bar è un luogo
sempre più frequentato all'interno della società odierna, ma non solo per l'esclusivo
consumo di bevande alcoliche, e che, pertanto, merita di essere studiato a livello
scientifico come fenomeno sociale, culturale, economico, antropologico e perfino
6
pedagogico: perché dentro il bar succedono cose a cui non riusciamo a dare valore e
che fatichiamo ad elaborare in modo conscio.
7
I.2 L'importanza del concetto di sociabilité
Il primo sociologo a riflettere in modo rigoroso sull'importanza delle dinamiche
relazionali all'interno della società è stato Georg Simmel, il quale in un suo saggio
formula esplicitamente il concetto di sociabilité, definita come "la forma ludica della
socializzazione che - mutatis mutandis - si comporta nei confronti della sua
concrezione determinata dai contenuti allo stesso modo in cui l'opera d'arte si rapporta
alla realtà" (Simmel, 1981: 125).3 Per Simmel, infatti, l'arte è autonoma rispetto al
reale: ha le sue regole, le sue forme, indipendentemente dal rapporto con il contenuto.
Allo stesso modo, la sociabilité ha un suo codice simbolico e quindi un valore a
prescindere dai contenuti della vita sociale, al punto tale che "la ricchezza e lo status,
l'istruzione e la reputazione, le attitudini personali e i meriti dell'individuo non
giocano alcun ruolo al suo interno, tutt'al più come leggere sfumature di questa
immaterialità" (Simmel, 1981: 126). L'essere umano, pertanto, quando attiva il
dispositivo ludico della sociabilité, si spoglia di tutte le significazioni materiali della
personalità ed entra nel gioco con la sua umanità nuda e cruda. In qualche modo la
sociabilité crea un mondo "sociologicamente ideale", "l'astrazione perfetta della
socializzazione": il benessere dell'individuo è legato al fatto che gli altri intorno a lui
siano ugualmente a loro agio, ed esige pertanto la specie più pura, trasparente e
immediata dell'azione reciproca. Tuttavia, un mondo siffatto, in cui impera
un'uguaglianza assoluta, è del tutto artificiale, ma proprio per questo crea le
condizioni ideali per sperimentare in forma ludica le forze etiche della società
concreta. Il senso di liberazione e di sollievo che l'uomo trova nella sociabilité si
traducono nell'essere insieme ad altre persone con cui condividere impressioni sulle
fatiche e i pesi esistenziali della vita, che il contesto rende apprezzabili come un gioco
artistico. Si tratta di "una sublimazione" e di "un'attenuazione" in cui le forze ricche di
contenuto della realtà si manifestano come un qualcosa di distante.
Se in questa descrizione sostituissimo il termine "bar" a "sociabilité", nessuno si
accorgerebbe della differenza. Si può dire che il bar rappresenta il luogo per
3
Tutte le citazioni prese in lingua straniera sono mie traduzioni dal testo originale.
8
eccellenza della sociabilité odierna, lo scenario privilegiato della serendipity4
all'interno di un contesto molto più ampio: quello della città.
4
La serendipity consiste nel trovare per caso una cosa mentre se ne cerca un'altra.
9
I.3 Elementi di antropologia urbana: ragionare per reti
All'inizio del suo testo Esplorare la città, l'antropologo Ulf Hannerz sottolinea che
fino agli inizi degli anni '60 gli antropologi erano soggetti notoriamente agorafobici,
anti-urbani per definizione. Con il movimento di grandi masse di persone verso i
centri urbani, la città è diventata oggetto di attenzione e studio da parte
dell'antropologia sociale. Le principali caratteristiche di questa disciplina sono: una
particolare sensibilità per la diversità culturale, una familiarità con i fatti della vita
quotidiana attraverso l'osservazione partecipante come metodo di ricerca prevalente e
la tendenza a definire i problemi con una visione sistemica. A differenza della
sociologia, l'antropologia sociale, più che di unità di popolazione, si occupa di sistemi
di relazione.
Il bar, nella prospettiva dell'antropologia sociale, rappresenta uno degli spazi in cui si
verificano coinvolgimenti situazionali finalizzati, in cui la condotta degli individui è
orientata da qualche idea su ciò che vogliono o non vogliono che si verifichi nella
relazione: detto altrimenti, ciascuno nel bar ha un suo ruolo, comparabile o meno
rispetto a quello degli altri soggetti coinvolti nel contesto a seconda dei
comportamenti espliciti che ivi vengono messi in atto. Quindi ad esempio, quando una
compagnia di amici va al bar per bere qualcosa, i membri del gruppo si divertono per
il fatto di stare insieme, ma allo stesso tempo stabiliscono delle transazioni con il
barista.
Nello studio dell'uso che gli individui fanno dei loro ruoli all'interno del bar, la
nozione di rete può rivelarsi particolarmente utile, poiché se da un lato le reti di
relazioni si definiscono attraverso gruppi e istituzioni, dall'altro si estendono a quelle
aree del sociale in cui si trovano legami meno regolati che nascono come reazione alla
spersonalizzazione e deresponsabilizzazione delle istituzioni sociali. A titolo
esemplificativo, il bar è il luogo per eccellenza del pettegolezzo. La sua funzione,
nella prospettiva della network analysis, è quella di mantenere l'unità dei gruppi:
parlare di qualcuno è un modo per esprimere e affermare delle norme e quindi definire
10
l'identità del gruppo stesso; allo stesso tempo, il pettegolezzo veicola delle
informazioni relativamente alle modificazioni dell'ambiente sociale circostante.
In un suo articolo del 1974 Hansen analizza la vita di un bar catalano come nodo nella
dinamica delle reti. Secondo il ricercatore, i bar della città spagnola oggetto di studio
hanno sostituito (in parte) le associazioni di volontariato nel loro ruolo di catalizzatori
sociali per effetto del regime franchista. Le persone preferiscono trovarsi al bar perché
lo ritengono un luogo neutrale dove bere e fare conversazione, ma non su temi come
gli affari o la politica, bensì su argomenti più leggeri come il tempo, i pettegolezzi, il
cinema, e qualsiasi altra cosa passi per la mente. In questo contesto, il bar funge da
facilitatore di reti, poiché permette a ciascuno di accedere a un bacino di contatti che
possono trasformarsi in risorse per gli affari, a prescindere dallo status sociale
ricoperto all'interno della società.
Questa ricerca dimostra che lo studio della rete attraverso lo strumento della network
analysis risponde all'esigenza di adattare l'analisi relazionale a strutture sociali sempre
più variegate; in particolare, emerge la necessità, all'interno dell'antropologia urbana,
di delimitare il "campo sociale", ovvero ritagliare un insieme particolare all'interno
della trama inesauribile di relazioni di cui sia possibile studiare la genesi e gli effetti.
Ad esempio, secondo Nuvolati, all'interno dell'infinito campo della città, adottando un
approccio ecologico quasi corrispondente a quello della Scuola di Chicago, è possibile
individuare la distribuzione urbana dei bar: verso il centro storico si trovano locali
élitari, cosmopoliti e prezzi più elevati; avvicinandosi alla periferia, si nota in genere
un maggior provincialismo, omogeneità della clientela e costi più contenuti (Nuvolati,
2016).
11
I.4 Il luogo terzo: le diverse forme di bar nella cultura occidentale
Il sociologo urbano americano Ray Oldenburg, in un testo del 1989, propose il
concetto di "luogo terzo", definito come il setting principale della vita pubblica
informale, circoscritta tra la casa (luogo primo) e il lavoro (luogo secondo). Secondo
l'autore nei luoghi terzi "il livellamento, il primato della conversazione, la certezza di
incontrare gli amici, la scioltezza della struttura e il regno eterno dell'impulso del
divertimento si combinano tutti per preparare il terreno per esperienze che non si
possono trovare altrove" (Oldenburg, 1989: 43) e che riescono a soddisfare il bisogno
umano di intimità e affiliazione; sono i luoghi inclusivi per eccellenza, case lontano
da casa in cui la sociabilité ha modo di manifestarsi. Oldenburg sottolinea che
l'attività principale che si svolge nei luoghi terzi è la conversazione. Lo studioso, a tal
proposito, elenca una serie di regole non scritte che devono essere osservate dai
soggetti che interagiscono in questi contesti per rispettare "l'ordine democratico", tra
cui:
1. Rimani in silenzio la tua parte di tempo;
2. Presta attenzione mentre gli altri parlano;
3. Di' ciò che pensi ma sii prudente;
4. Evita gli argomenti che non sono di interesse generale;
5. Di' poco o niente riguardo te stesso, ma chiedi agli altri di sé;
6. Evita di fare il saputello;
7. Parla a bassa voce per permettere agli altri di sentire (sembra una contraddizione,
ma non lo è).5
Nel concetto di luoghi terzi rientrano, appunto, i bar e le sue diverse declinazioni nella
cultura occidentale: il pub inglese, il bistrot francese, il café classico, la tavern
americana.6
5
Ho voluto riportare in modo sintetico alcune delle regole della conversazione nei luoghi terzi di Oldenburg
perché durante la ricerca sono state una guida preziosa nell'approccio alle persone all'interno del campo.
6
Rispetto alla classificazione di Oldenburg ho preferito sostituire il termine Coffee House con quello di Café.
Lungi dal ritenere questo elenco di tipologie di bar esaustivo, ho utilizzato tale tassonomia al fine di esporre
brevemente e ordinatamente i contenuti emersi nelle diverse ricerche sul tema a livello internazionale.
12
I.4.1 Il pub
Oldenburg descrive il pub come un ambiente multiplo, in cui ciascuna stanza è
animata da una diversa attività creando atmosfera. È qualcosa di più di un luogo per
bere (birra), perché incoraggia il buonumore e il consumo del tempo libero. A
differenza della tavern americana gode di una buona reputazione nell'opinione
pubblica; è considerato un luogo rispettabile e con un alto grado di interazione nella
vita dei cittadini in generale, ma anche di alcune subculture ( ad esempio, gli
Hooligans). A tal proposito, lo studio di Rick Muir sul valore sociale dei Community
Pubs (Figura I.2) promosso dall' IPPR - acronimo di Institute for Public Policy
Research - (Muir, 2012) mette in evidenza l'interesse statale nei confronti di quella
che viene considerata una vera e propria istituzione culturale.
Secondo il ricercatore, il pub è il cuore delle comunità locali britanniche, poiché
favorisce le social networks anche tra persone di diversa estrazione sociale e offre dei
servizi di pubblica utilità (ad esempio, il controllo di vicinato). Inoltre, quando
conserva alcuni caratteri estetici, il pub rappresenta un elemento della tradizione
all'interno di un mondo sempre più globalizzato. Dalle interviste riportate nella ricerca
emerge che per la maggior parte delle persone il pub non è il luogo dove si può bere
birra e whisky ma, piuttosto, il luogo dove si può bere in compagnia e vedere persone:
il culto del pub va visto come un prolungamento della cultura dei gruppi sociali
all'esterno (Wilson, 2004).
Figura I.2 Tipico pub britannico. ©CC0
13
I.4.2 Il bistrot e il café
Rispetto al pub inglese, il bistrot esorta la clientela ad un soggiorno prolungato. È
scenico, invitante, e mai troppo distante dalle zone residenziali abitate dalla classe
medio bassa. Secondo Oldenburg, infatti, nella società francese la vita pubblica
informale è accessibile a tutti. Marc Augé, in Un etnologo al bistrot (Augé, 2015),
esplicita la sottile differenza tra il bistrot e il café in termini di prestigio sociale: nei
suoi ricordi giovanili, il bistrot era sempre occupato da gente di basso rango che si
divideva tra la strada e i locali; il café, in virtù del suo glorioso passato in ambito
europeo, è più spesso associato a eleganza e calore e connotato da una solida
reputazione storica. L'antropologo francese in questo testo ripercorre tutta la sua vita
in relazione al bistrot, che definisce una sorta di "linea della vita trasversale a tutta la
sua mano del passato" (Augé, 2015: 27): da luogo in cui venivano prolungate le
lezioni con i compagni del corso di studi a spazio di lavoro in movimento, poiché "da
mattina a sera vanta una disponibilità assoluta". In corso d'opera Augé non esita a
sottolineare che il bistrot è un simbolo di Parigi e della sua tradizione culturale e
letteraria (si pensi a Maigret, Aragon, al flâneur), una sorta di resistenza malinconica
ad un mondo frenetico, dove è possibile "prendersi il proprio tempo in un luogo che ci
è proprio"; ancora, "un luogo dove ciascuno degli eroi, per dirla con le parole di
Sartre, colma il vuoto dell'in sé con i giochi inebrianti del per sé" (ivi: 58), una sorta di
spazio teatrale che accoglie una performance, in termini goffmaniani. Il richiamo alla
dimensione simbolica della scena è presente anche in altre ricerche sui cafés (Clark,
2013; Desjeux et al., 1999). Clark inizia il suo saggio partendo dalla constatazione che
in Francia il café viene storicamente associato a istituzioni culturali come Les Deux
Magots (Figura I.3) e il Café de Flore, frequentati negli anni '50 da intellettuali di
spicco come Sartre o Simone de Beauvoir.
Ma come dare significato a questi "luoghi tra luoghi" che vada oltre l'epiteto di
"rendez-vous per intellettuali"?
14
Figura I.3 Un'immagine del celebre café parigino LesDeuxMagots. ©CC0
Clark identifica una serie di ruoli sociali che possono essere interpretati all'interno del
café (il lavoratore della pausa pranzo, il gruppo conviviale, il flâneur, l'artista
solitario, tutti alla ricerca di nuove notizie, convivialità, conversazioni filosofeggianti)
e mette in evidenza i fattori che incrementano l'importanza degli scenari pubblici, di
cui il café è un'unità significativa all'interno della società. La sua teoria è che
l'individualismo di mercato, il pluralismo culturale e la maggiore varietà di gruppi
sociali, unitamente ad un welfare state capace di risolvere i problemi più urgenti,
contribuiscono ad aumentare il grado di salienza dei luoghi di socializzazione. In
particolare, le attività che vengono messe in scena nei cafés si articolano in tre
dimensioni: teatralità, autenticità e legittimità.
Per quanto concerne la dimensione della teatralità, i cafés generano la possibilità di
guardare e essere guardati, condividendo usi e costumi, di interpretare il ruolo che ci
appartiene in quel momento, dal sapore più o meno glamour, formale, trasgressivo,
esibizionista o socievole. A tal proposito, i bar sembrano ricoprire un ruolo
fondamentale nello sviluppo dell'identità di alcune minoranze come quella gay
(De Busscher, 2001), poiché offrono uno spazio di espressione protetto e
15
simbolicamente facile da codificare (ad esempio, un bar dotato di back rooms presenta
in genere un'immagine più trasgressiva, così come i suoi clienti).
Pertanto, anche quando una scena è fortemente teatrale, consente di esprimere
l'autenticità più pura dell'individuo, nella misura in cui sviluppa un senso di
radicamento, confermando o rimodellando l'identità primordiale dei suoi membri. La
ricerca di Jolly sui bar in una comunità tradizionale del Mali (Jolly, 2006) mette in
evidenza, al di là dell'opposizione manichea tra un'idea della vita da bar sinonimo di
un deleterio individualismo urbano e un bere comunitario corrispondente a ordine e
solidarietà nel villaggio, quanto il semplice consumo di birra crei, spontaneamente,
una forma di intimità, cameratismo e complicità virile tra tutti i clienti, a prescindere
dalle loro reciproche relazioni: al bar gli uomini del villaggio esprimono la loro libertà
di genere (ragion per cui le donne sono escluse in questo contesto specifico).
Oltre la teatralità e l'autenticità, i cafés offrono anche uno spazio di legittimità, poiché
attraverso la condivisione di opinioni e valori dei suoi membri definiscono la struttura
della convivenza sociale e del senso comune.
16
I.4.3 Uno studio di caso: il Café Oz
Nell'ambito delle ricerche antropologiche sui cafés, lo studio di caso a cura di Desjeux
(Desjeux et al., 1999) è quello più completo e approfondito. L'oggetto di questo
lavoro è il Café Oz (Figura I.4): situato a Parigi, nello storico quartiere di Les Halles, è
un locale frequentato soprattutto di sera da giovani tra i 20 e i 30 anni. I proprietari di
questo franchising, che nel corso degli ultimi vent'anni si è esteso in tutta la Francia,
sono perfettamente consapevoli del fatto che i locali notturni non vendono bibite, ma
relazioni umane. Il primo Oz è stato costruito in un luogo “neutro”, con l'obiettivo di
attirare uno specifico target. Pertanto, l'Oz presenta dei richiami estetici tipici del pub
britannico (al punto che spesso si parla inglese e non francese, anche tra
connazionali), ma è architettonicamente strutturato come un bistrot francese.
Figura I.4 Café Oz, Parigi. ©CC0
La formula cash and carry crea un andirivieni che fa da sottofondo e barriera rispetto
alla routine quotidiana, il consumo di alcol viene vissuto come rituale di passaggio
moderno, ciascuno è libero di sviluppare la propria sociabilité con i tempi e modi più
17
congeniali, attraverso una spontaneità spazialmente organizzata; solo apparentemente
l'Oz è un luogo anarchico, in realtà attraversato da norme sociali molto forti, seppur
implicite, che codificano gli atti trasgressivi nei confronti della morale adultaborghese sotto il controllo dei pari (ad esempio, il ragazzo più cool è quello che
meglio sa reggere l'alcol). Per mantenersi, infatti, l'ordine sociale richiede il disordine,
come l'etnologia classica delle società esotiche dimostra. Più in generale, attraverso la
descrizione dell'osservazione sul campo, la ricerca condotta nei bars de nuit francesi
mette in evidenza la funzione socializzante e rituale che questi luoghi rappresentano
soprattutto per i giovani.7
7
Per un approfondimento sulla metodologia di ricerca di Desjeux et al., si rimanda alla seconda parte del
presente lavoro.
18
I.4.4 La tavern
Nel corso della sua analisi dei luoghi terzi, Oldenburg sottolinea che, a differenza
dell'Europa, in America la forma più tipica del bar, la tavern, è un'istituzione in via
d'estinzione. Nata come struttura ricettiva alberghiera, ciò che ne rimane oggi è un
luogo frequentato dalle classi basse che si rifugiano qui per annegare i propri
dispiaceri nell'alcol, e che pertanto non svolge il ruolo socializzante e amicale tipico di
altre tipologie di locali. Il rifugio nella dimensione privata è un elemento che emerge
anche in altri studi sui consumi degli americani (Scitovsky, 1976; Roseberry, 1996).
Scitovsky cita alcuni dati statistici che dimostrano come in America i pubs e i cafés
vengono frequentati meno della metà che in Francia.8 A titolo esemplificativo,
l'economista americano riporta una scritta accanto all'insegna di un bar situato in una
nota spiaggia delle Hawaii: "NON BIGHELLONARE. Di certo non vogliamo
cacciarti, ma compatibilmente con la nostra disponibilità di tavoli, per favore
collabora nel liberare questo tavolo per il prossimo cliente". Secondo l'autore,
pertanto, l'uso del bar come luogo di socializzazione è un fatto culturale
principalmente europeo. Non a caso George Steiner, in un saggio sull'idea d'Europa,
ha scritto che "l'Europa è i suoi caffè" (Steiner, 2004: 29).
8
I dati riportati da Scitovsky risalgono al 1966. Non essendo riuscita a trovare dati comparativi attendibili più
aggiornati in merito, ho cercato di incrociare alcune fonti online. Le Goff (Le Goff, 2006) stima che negli anni
2000 circa il 13% della popolazione francese si è recata regolarmente al bar, mentre fonti non certe attestano che
solo il 6% degli americani trascorre parte del proprio tempo libero in locali. Incrociando questo dato con altri
documenti sul rapporto bar-americani, posso confermare solo in modo approssimativo che la tendenza è rimasta
simile a quella degli anni '60.
19
I.5 Breve storia del bar in Europa
Dicendo che "l'Europa è i suoi caffè" Steiner non vuole di certo sostenere che l'Europa
detiene la paternità sui bar, ma che, storicamente, i cosiddetti luoghi terzi hanno
giocato un ruolo fondamentale per la vita politica e civica del Continente. Se oggi i
bar sono innanzitutto luoghi di socialità, in passato furono soprattutto luoghi di
formazione della sfera pubblica. La letteratura scientifica concorda nel collocare la
nascita delle prime coffee houses a metà del XVII secolo ( Jedlowski, 2010: 60), ma fu
durante l'Illuminismo che dilagò la cultura dei caffè (non a caso Pietro Verri chiamerà
la sua rivista Il Caffè), luoghi in cui gli intellettuali riflettevano e dibattevano dei
problemi della società insieme a uomini appartenenti a differenti classi sociali - a
esclusivo uso maschile. Nei caffè era inoltre possibile trattare affari e leggere giornali,
scambiando informazioni con i passanti. L'arredo era pensato appositamente per
favorire la conversazione tra sconosciuti, con i suoi grandi tavoli e le sedie poste l'una
accanto all'altra, occupate man mano dalla clientela. All'epoca il caffè si distingueva
dal salotto, poiché il suo ingresso era consentito a chiunque fosse in grado di pagare la
consumazione; inoltre, il consumo di alcol era minoritario. Nel corso dell'Ottocento la
cultura del bar iniziò a diffondersi anche tra le classi popolari meno abbienti, in
particolare gli operai, che alla fine del turno di lavoro, prima di tornare dalle proprie
famiglie, si fermavano all'osteria per incontrarsi con gli amici, animando quello spazio
come luogo in cui discutere in libertà, ma anche distrarsi giocando a carte o d'azzardo;
la domenica si andava con moglie e figli, per prendere un aperitivo, ballare o
festeggiare un evento importante per la comunità locale. In Italia più che altrove i
caffè popolari assunsero una polifunzionalità più marcata, poiché l'attività ludica era
particolarmente presente, così come la componente femminile: le signore utilizzavano
il bar come vetrina per farsi ammirare abbigliate con il vestito più alla moda.
Jedlowski fa notare che quest'immagine del caffè come spazio razionale relativamente
calmo e disciplinato offerta da Habermas in Storia e critica dell'opinione pubblica
sovrastimi la funzione pubblica esercitata dal bar (Jedlowski, 2010: 64): i discorsi di
interesse generale, infatti, possono solo emergere di tanto in tanto all'interno di un
bacino più ampio di conversazioni rumorose e spesso banali.
20
Nel secondo dopoguerra, infatti, il bar diventò progressivamente il luogo privilegiato
dei giovani italiani, figli del miracolo economico, per sperimentare la modernità ed
esibire il proprio benessere. Da scuole di virtù civiche i bar si trasformarono in
palestre di vita e trampolini di un riscatto sociale comunque carico di un certo
provincialismo, ben raffigurato nelle più famose commedie italiane degli anni 50-70,
da I Vitelloni ad Amici miei.
Il rapporto tra bar e virtù civiche, con l'avvento del capitalismo globale, sembra essersi
particolarmente deteriorato: secondo Nuvolati esso costituisce un "tempio per
eccellenza della secolarizzazione, luogo dove è facile esprimere il proprio parere
dissacrante, contro tutte le gerarchie precostituite, mostrando spregio nei confronti dei
valori più tradizionali, abbandonando i propri freni inibitori. (...) Tra sacro e profano,
sport e politica, amori e lavoro, il bar resta forse l'unico posto dove non si deve
rendere conto più di un tanto ai nostri interlocutori di turno" (Nuvolati, 2016: 44).
Jedlowski aggiunge che una parte delle funzioni un tempo esercitate dai caffè sono
state assorbite in tempi più recenti dal web e dai social network; Hirsch fa notare che
nei luoghi di ritrovo il volume della musica è diventato sempre più alto, impedendo di
fatto la conversazione. Lasch invece ritiene che i luoghi terzi rimangano comunque
importanti perché punti d'incontro informali in cui si esprimono le virtù civiche della
modernità. È evidente che l'enfasi teorica del sociologo americano è influenzata dalla
tendenza al ripiegamento individualistico particolarmente marcato nella società
statunitense (par. I.4.4), ma le riflessioni degli autori sopra citati inducono a
soffermarsi su una questione fondamentale: i bar sono sempre luoghi positivi per la
socializzazione?
21
I.6 Accattone o Caduta? Pars construens e destruens del bar a confronto
Jedlowski approfondisce la questione facendo notare che se da un lato i caffè sono
stati in Europa simboli di civiltà, dall'altro hanno veicolato una cultura delle
discriminazione e dell’odio nei confronti del diverso, fornendo talvolta una sede per
bande squadriste: il movimento nazista di Hitler, ad esempio, è nato in una birreria; i
bar del Nordest Italia, secondo i giornalisti, sono le più grossi sedi della Lega Nord,
poiché sfruttando la socialità informale diventano luoghi ideali di elaborazione della
controcultura leghista (Dematteo, 2011). Nel 2008 l'allora sindaco di Verona Tosi,
esponente del partito, in risposta ad un intervistatore che gli chiedeva di commentare
alcune frasi esplicitamente razziste da lui stesso pronunciate, disse che quelle erano
"sparate da bar" di cui il giorno dopo nessuno si sarebbe più ricordato. Jedlowski nota
giustamente che è proprio questo il punto: "il bar può anche essere luogo di sparate
razziste. Secondo l'intervistato non hanno alcuna influenza, ma ciò è dubbio: alla
lunga, i loro effetti possono accumularsi e divenire un sostegno di pratiche
discriminatorie o violente. Del resto, se quel che dice Tosi fosse vero, a bar e caffè
non si potrebbe attribuire alcun valore per la formazione dell'opinione pubblica:
sarebbero solo luoghi in cui si vomita qualunque sciocchezza, tanto il giorno dopo
nessuno se ne ricorda più" (Jedlowski, 2010: 89).
Il cinema e la letteratura offrono in merito alla questione dell'ambivalenza dei luoghi
terzi numerosi esempi entrati a far parte dell'immaginario collettivo. Ne La Caduta,
Camus trasforma un bar di Amsterdam, il Mexico City, nel luogo metaforico della
disperazione umana: il protagonista utilizza il setting come finto confessionale che
induce l'Altro a dichiararsi colpevole di fatti non commessi, esibendo una schiettezza
dissacrante. La compresenza di luce e ombra nel bar (espressa esplicitamente anche in
molti quadri di Hopper) (Figura I.5) è dovuta probabilmente a quello che Foucault
definirebbe il suo carattere eterotopico, in qualità di spazio connesso a tutti gli altri
spazi (la città), ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l'insieme dei
rapporti che essi stessi interlacciano, sia nella forma dell'illusione, sia nella forma
della compensazione.
22
Figura I.5 Nighthawks, Edward Hopper, 1942. ©Wikimedia Commons
Nella cultura popolare, tuttavia, non mancano esempi che sottolineano il valore civico
del bar, malgrado tutto. In Accattone di Pasolini il bar del Pigneto viene simbolizzato
come luogo di espressione identitaria in cui ciascun personaggio ha una sua storia da
raccontare: non è un caso che nel film venga coniato il termine "bareggiare". Non è un
caso nemmeno che in molti film neorealisti i bar si intravedano sullo sfondo di
un'Italia tutta da ricostruire. Non è un caso che uno dei libri umoristici più famosi
degli anni ’70 sia Bar Sport di Stefano Benni, che ha saputo costruire un catalogo di
“personaggi da bar” ancora attuale. Non è un caso che uno dei più grandi cantautori
italiani, Giorgio Gaber, abbia ambientato molte canzoni al bar (una su tutte, "Al bar
Casablanca"). Non è un caso che a Succiso, un piccolissimo paese in provincia di
Reggio Emilia, dopo la chiusura totale di ogni attività economica durante gli anni '90,
i pochi abitanti superstiti allo spopolamento abbiano deciso di associarsi in forma
cooperativa per riaprire, in primis, il bar del paese, considerato dai suoi concittadini
una "piazza irrinunciabile". E non è un caso che uno dei grandi dello spettacolo
italiano, Fiorello, abbia ambientato il suo programma Edicola Fiore nel bar sotto casa,
coinvolgendo la clientela abituale e non a commentare le notizie sui quotidiani. La
domanda sorge quindi spontanea: il bar può ancora essere considerato uno spazio di
democrazia?
Cerulo affronta criticamente la questione attraverso un'etnografia dei bar della
provincia di Cosenza (Cerulo, 2011). Utilizzando gli strumenti dell’osservazione
23
partecipante e dell’intervista non strutturata, il ricercatore giunge a una duplice
conclusione: la socievolezza, simmelianamente intesa come forme ludica che mette
tra parentesi individualismi e status, è ancora molto frequente, e considerando
l’invadenza
del
narcisismo,
dello
strumentalismo
e
dell’arroganza
nella
contemporaneità, l’autore considera questo risultato sociologicamente positivo, poiché
la reciprocità vale più del contenuto della comunicazione, seppur con le dovute
cautele. Ma non è tutto: secondo Cerulo, sono tre le forme di socialità che emergono
dalla ricerca sul campo: socievolezza, ma anche sfera pubblica e capitale sociale.
Rispetto alla definizione che Jedlowski propone di sfera pubblica come “rete di
discorsi attraverso i quali i membri di una certa collettività discutono di questioni di
rilevanza collettiva” (Jedlowski, 2010: 82) secondo Cerulo è necessario rimodellare il
nostro concetto di collettivo, e propone pertanto l’idea di sfera pubblica come “spazio
discorsivo e relazionale all’interno del quale un insieme di individui (…) discute
razionalmente e civilmente di questioni per loro rilevanti (o, meglio, che per loro
acquistano rilevanza specifica)” (Cerulo, 2011: 67). Detto altrimenti: al bar di solito
non si parla della sopravvivenza del pianeta, ma del problema della pulizia delle scale
in condominio. Cerulo crede che “ogni sfera pubblica crei solo un tipo di opinione
pubblica, ossia quella riguardante i soggetti partecipanti al discorso e solo loro” (ivi:
69). Il ricercatore conclude dando rilievo al capitale sociale che si genera all’interno
del bar, inteso non solo come luogo di scambio di informazioni per gli affari (Hansen,
1974) ma, più estesamente, anche nell’accezione proposta da Bourdieu come sede di
“rapporti che diventano risorse in quanto basate su una rete durevole di relazioni,
conoscenze e reciproche conoscenze cui è possibile attingere nei momenti di
necessità”
(Bourdieu,
1992:
87).
Da
questa
prospettiva,
i
luoghi
terzi
rappresenterebbero dei nodi in una fitta rete di flussi, per cui ad esempio “un bar
collocato nelle vicinanze di un asilo accoglie una madre che dopo aver accompagnato
i figli a scuola si concede una colazione prima di andare a lavoro. È lì che forse
scambia due parole con un amico dentista che ha il suo studio nello stabile accanto e
che si è sposato da poco con una ragazza impiegata nell’agenzia immobiliare del
quartiere” (Nuvolati, 2016: 15), e così via. Le relazioni che avvengono in un bar sono
24
spesso effimere e banali, ma rappresentano un tentativo più o meno conscio di fare
comunità.
Dall'analisi della letteratura esistente emerge che "l'approccio antropologico (quello
adottato da Cerulo e Desjeux [N.d.A.]) risulta di gran lunga più rilevante di quello
sociologico per l'analisi dei bar", e che tale aspetto “riconferma la residualità che la
sociologia ha riservato ai luoghi terzi, interstiziali nello studio delle società
contemporanee" (Nuvolati, 2016: 136). Perfino nell’ambito del marketing le aziende
hanno compreso il valore -in questo caso prettamente economico- dell’etnografia, in
qualità di strumento per capire come le persone vivano in maniera diversa l’esperienza
del bar (Madsbjerg, Rasmussen, 2014).
La capacità della ricerca etnografica di illustrare aspetti poco evidenti o comunque
non ovvi dei luoghi terzi in relazione al proprio contesto di appartenenza mi ha spinto
ad adottare questo metodo per affrontare il bar da un punto di vista antropologico.
Nella seconda parte del presente lavoro esporrò una ricerca etnografica condotta in un
centro urbano della periferia di Verona nel giugno 2018.
25
II. IL BAR: UNA RICERCA ETNOGRAFICA
"L'etnografia è prima di tutto una pratica, un 'vivere-con',
un coinvolgimento percettivo, emotivo, affettivo, oltre che cognitivo."
(Leonardo Piasere)
II.1 Note metodologiche
"Riflettere sul metodo è, forse, 'la' questione più appassionante nel fare ricerca. Questa
riflessione svela, in verità, la visione del mondo, lo stile, la <<sensibilità>>, il tessuto
valoriale e di responsabilità del ricercatore, più ancora, a mio parere, dei risultati stessi
della sua ricerca. È una forma del metacomunicare di sé, una implicita rivelazione di
relazioni emotive, cognitive, sociali che si svela, appunto, proprio là dove il
ricercatore tiene più al suo <<segreto>>, all'intimo inalienabile rappresentato dal
<<come-perché>> elaborare <<quella>> ricerca." Walter Fornasa introduce così il
testo Etnopedagogia (Dovigo, 2002), al fine di sottolineare l'importanza del viaggio,
più che della meta, nella ricerca. La ragione principale di questa postura sta
nell'esigenza di adottare un'etica nella ricerca, piuttosto che della ricerca (Biscaldi,
2016), al fine di riuscire ad abitare quel disagio generato da una serie di impasse mai
completamente risolte sul campo: oggettivazione-soggettivazione, etnocentrismorelativismo, intervento-astensione, sono dilemmi etici che fanno parte della
quotidianità del ricercatore o, come nel mio caso, di una studentessa che si cimenta
per la prima volta nella ricerca etnografica. Ma tale oscillazione non deve essere
considerata un deterrente, al contrario: "il dubbio sul proprio operato e sulla
sostenibilità del proprio tema di ricerca è il più fedele compagno di cammino del
ricercatore" (Biscaldi, 2016: 29).
A tal proposito, la mia ricerca nasce innanzitutto da un'esigenza professionale. Da due
anni lavoro ad un progetto di sviluppo di comunità della cooperativa sociale Azalea
presso il Comune di Sona, in particolar modo nella frazione di Lugagnano. L'obiettivo
del progetto è quello di promuovere la coesione sociale sul territorio, facilitando lo
sviluppo della rete per valorizzare tutte le risorse disponibili. Durante i primi mesi di
attività ho faticato molto ad avvicinarmi alle persone e ai loro mondi: il modo migliore
per ottenere la legittimazione del mio ruolo, difficile da spiegare a parole, era
intrattenermi al bar con la clientela. Da qui nacque l'idea di fare una ricerca che desse
26
valore a questa piccola azione sul campo, che potesse in qualche modo rispondere a
una semplice domanda: perché le persone vanno al bar?
Mi resi conto solo in un secondo momento che la questione trascendeva il mio lavoro:
l'esigenza era anche, e forse soprattutto, personale. Durante l'adolescenza trascorsi
parecchio tempo nei bar, sia da sola che in compagnia di amici: quella fase coincise
per me con una grande crisi scolastica. Trascorrevo interi pomeriggi e sere al bar,
talvolta portandomi dietro i compiti per casa, ma trascurandoli la maggior parte del
tempo in favore di una bella bevuta con gli amici. Mi sentivo felice solo quando ero al
bar, non capivo perché, e nel frattempo i voti si abbassavano. Eppure mi era sempre
piaciuto studiare: ma non lo facevo più. A quindici anni di distanza da quel periodo
burrascoso, avevo bisogno di rispondere ad un'altra domanda: perché andavo al bar?
Le basi per la costruzione della ricerca erano state poste: era necessario elaborare un
disegno della ricerca (Tabella II.1.1).
DISEGNO DELLA RICERCA
1a. Domanda cognitiva:
- professionale: perché le persone vanno al bar?
- personale: perché andavo al bar?
1b. Oggetto della ricerca:
- 4 bar di Lugagnano, frazione del Comune di Sona (Verona)
2. Forma di partecipazione:
Osservazione scoperta (50%) e coperta (50%)
3. Lavoro sul campo:
Tecniche:
- Osservazione partecipante (1 mese)
- Interviste libere (8 clienti, 2 baristi)
Strumenti:
- Appunti e mappe
- Fonti (social networks - Instagram, Facebook)
- Fotografie
Tabella II.1.1 Disegno della ricerca etnografica.
27
Per definire il disegno di ricerca mi sono avvalsa dei suggerimenti proposti in un testo
introduttivo all'etnografia sociale (Dal Lago, De Biasi, 2002), poiché gli autori
mettono in evidenza l'importanza della trasparenza delle procedure descrittive e le
ragioni della loro scelta al fine di assicurare una maggiore validità al lavoro di ricerca.
La domanda cognitiva e l'oggetto della ricerca sono stati definiti prima dell'inizio della
ricerca: questa scelta operativa ha il vantaggio di fornire una maggior chiarezza
concettuale e pratica sul campo, ma presenta anche il rischio di irrigidire
l'osservazione.
È stata condotta una fase di osservazione preliminare di circa tre mesi (febbraio aprile 2018) per scegliere i bar oggetto di analisi, selezionati in base ad alcuni
elementi discriminanti definiti in itinere: flusso, funzione, clientela.9
In seguito sono stati studiati i quattro bar selezionati attraverso un'indagine etnografica
svolta con la tecnica dell'osservazione partecipante (Cerulo, 2011; Desjeux et al.,
1999) e dell'intervista libera durante il mese di giugno 2018 (Tabella II.1.2).10
PRIMA
SECONDA
TERZA
QUARTA
SETTIMANA
SETTIMANA
SETTIMANA
SETTIMANA
L
M
M
G
V
S
L
M
M
G
V
S
L
M
M
G
V
S
L
M
M
G
V
S
M
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C
N
C
N
C
C
N
C
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C
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-
-
-
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-
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-
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-
-
-
P
C
N
C
N
C
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C
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C
N
C
N
C
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C
C
N
C
N
C
N
S
-
B
-
B
-
B
-
-
B
-
B
-
C
N
C
N
C
N
N
C
N
C
N
C
Legenda:
M = mattino (8-13)
N= Bar Nilo
P= pomeriggio (15-19)
C= Bar Clan
S= sera (20-24)
B= Benny Pub
Tabella II.1.2 Temporalizzazione della ricerca.
9
Ho escluso il bar Mery, luogo abituale di ritrovo delle mamme dopo l'accompagnamento alla scuola elementare
dei figli, poiché non sono mai emersi elementi sufficientemente significativi rispetto agli altri bar in esame. In
particolare, la frequenza del bar da parte delle mamme è episodica e sporadica. Ho escluso anche il bar degli
Alpini poiché l'accesso è esclusivo (anche se più di una volta mi hanno accolto, pur non avendo il titolo per
farlo).
10
Per ragioni di privacy, tutti i nomi dei bar e delle persone incontrate al loro interno sono stati cambiati.
28
Per tutto il mese di giugno 2018 ho frequentato tre dei quattro bar oggetto della
ricerca, alternando gli orari e i giorni, dal lunedì al sabato. Per ciascuna sessione di
osservazione rimanevo all'interno del locale in media 1-2 ore, posizionandomi in
diversi punti. Il Benny Pub rimane chiuso al pubblico il lunedì: essendo un locale
serale, apre alle ore 17.30, ma il flusso di persone arriva intorno alle 20. Gli altri bar,
invece, sono aperti dalla mattina alla sera.
Ho escluso dalla timeline il quarto bar oggetto della ricerca poiché, per motivi
lavorativi, è quello che ho frequentato di più durante la mia attività professionale. Da
luglio 2017 ho frequentato il Bar In circa tre volte a settimana, in orari e giorni sempre
diversi. Considerata la continuità e l'assiduità, nonché l'elevato grado di
internalization11 raggiunto con il locale, la sua clientela e i suoi proprietari, ho
preferito non dedicarvi un ulteriore spazio di studio.
Figura II.1.3 Localizzazione dei bar di Lugagnano (con una “X”).
11
Per un approfondimento del concetto di internalization, si veda Piasere L., 2009, L’etnografia come
esperienza, in Cappelletto F. (a cura di), Vivere l’etnografia, Firenze, SEID, pp. 92-93.
29
La ragione principale per cui ho scelto il periodo di giugno è soprattutto, oltre che per
compatibilità con i miei impegni lavorativi, dovuta al fatto che il giorno 10 del mese si
sono tenute le elezioni amministrative presso il Comune di Sona: ritenevo che l’evento
potesse fornirmi ulteriori elementi di osservazione all’interno delle conversazioni.
Dato che non ho reperito bar in cui vi fosse un’elevata concentrazione di
frequentazione femminile, spesso legata all’accompagnamento a scuola dei figli, ho
valutato che il termine dell’anno scolastico nel mese di giugno non fosse rilevante.
Per quanto concerne la forma di partecipazione, ho scelto di rivelare la mia identità
solo in due dei quattro bar oggetto della ricerca, sia per poter confrontare i vantaggi e
gli svantaggi di un'osservazione scoperta, sia perché nei due bar in cui non ho rivelato
la mia identità ho valutato che il mio ruolo sarebbe stato considerato troppo invasivo.
Non credo sia un caso che i bar in cui l'osservazione è rimasta coperta siano gestiti da
persone di origine cinese. Quando ho svelato la mia identità all'interno del bar In e del
Benny Pub, non ho condotto interviste alla clientela, ma solo ai gestori dei rispettivi
locali, anche per poter ottenere un esplicito consenso all'utilizzo delle immagini
scattate. Ai frequentatori dei bar interessati ad approfondire il mio ruolo ho
semplicemente raccontato che "stavo conducendo una ricerca sui bar per l'università"
senza fare domande dirette, al fine di evitare il più possibile l'effetto "Hawthorne"12.
Nei bar dove invece la mia identità è rimasta coperta, ho fatto domande generiche ai
gestori, scattato foto senza esplicitare il motivo o utilizzato fotografie che i clienti
rendono pubbliche sui social networks. Da precisare che eccetto il bar Clan, tutti i
gestori e la clientela abituale degli altri locali sa quale lavoro svolgo o, meglio,
dovrebbe saperlo.13 Un giorno, per esempio, passai prima al bar Nilo e poi al bar In: in
entrambi incrociai un cliente abituale del secondo, che ormai mi conosce di vista da
più di un anno. Tuttavia, quando mi vide per la seconda volta al solito bar, mi chiese:
"ma che lavoro fai tu?".
12
Per “effetto Hawthorne” s’intende la variazione temporanea di un fenomeno, o di un comportamento,
per effetto della presenza di osservatori.
13
Ho sempre cercato di spiegare quale fosse il mio lavoro in parole semplici, anche per ragioni linguistiche, ma
non sempre è stato compreso. In generale, vengo percepita come un'educatrice, una che lavora col Comune, una
che aiuta, fino alla definizione che ho apprezzato di più: un "arrotino del sociale".
30
Ho limitato l'uso delle interviste libere per evitare il più possibile l'asimmetria
comunicativa dell'interazione, sebbene qualcuno dei soggetti intervistati auspicasse il
contrario. Il gestore del Benny Pub, ad esempio, mi chiese dopo una mia esitazione a
circa metà conversazione: "non ti sei preparata le domande?". Delle dieci interviste
condotte, solo tre hanno riportato risposte articolate, di cui due donne. L'età media
degli intervistati era di circa 23 anni (dai 16 ai 34), di cui quattro ragazze e sei ragazzi.
Nove interviste sono state realizzate all'interno dei bar, mentre una è stata condotta a
distanza tramite telefono. Durante i colloqui ho preso appunti in otto casi, mentre
negli altri due ho ritenuto fosse più opportuno non interrompere il contatto visivo per
non compromettere il rapporto di fiducia. Con la clientela adulta e anziana ho preferito
non condurre interviste, perché temevo un'eccessiva reattività.
Nei due casi in cui non ho preso appunti ho riscontrato una significatività maggiore
delle fonti indirette, piuttosto che dei contenuti dell'intervista. I ragazzi che
frequentano il Bar Nilo, infatti, fanno ampio uso dei social networks, in particolare di
Instagram. Attraverso la funzione stories, che permette di condividere con i contatti
brevi video o immagini che spariscono dal web dopo 24 ore, documentano la loro
quotidianità al bar.
Oltre agli appunti e alle mappe, raccolti in itinere o a posteriori rispetto
all'osservazione partecipante, e alle fonti indirette, ho utilizzato anche lo strumento
della fotografia. Inizialmente non avevo previsto l'uso di questo mezzo per
documentare la mia ricerca, ma mi sono ricreduta dopo alcune riflessioni nate dalla
lettura di Regardes anthropologiques sur le bars de nuit (Desjeux et al., 1999).
Secondo gli autori del testo, infatti, poiché noi soffriamo di "abitudine visuale" nella
nostra quotidianità urbana, tendiamo a dimenticare i dettagli. Poiché il bar nasce come
luogo tra luoghi, in cui il tempo, anche se per poco, si dilata, la fotografia svolge un
prezioso supporto nel restituire allo sguardo la capacità di mettere a fuoco le
apparenze che diamo per scontate e respirare più a fondo la cultura di un bar e
l'immagine che esso vuole dare di sé. Considerando che le riflessioni sul mezzo
proposte nel testo di Desjeux risalgono al 1999, ho ritenuto opportuno non
sottovalutarle, poiché a poco meno di vent’anni di distanza l'immagine ha quasi del
31
tutto sostituito la parola. Fare fotografie con lo smartphone, in particolare selfies, è
diventata, più che una moda, una vera e propria prassi quotidiana, soprattutto tra i
giovani; poiché buona parte della clientela dei bar è formata da ragazzi,
completamente immersi all'interno di questi nuovi codici linguistici, ho valutato che
l'uso documentario della fotografia fosse consono ai fini della ricerca. Dove non
altrimenti specificato, le immagini sono state scattate con l’uso del mio smartphone
personale.
Procederò descrivendo l’esperienza di ricerca partendo dal bar meno inclusivo a
quello più inclusivo in termini di sociabilité, che a mio avviso rappresenta il criterio
fondamentale per comprendere le dinamiche interne tra clientela, luogo e gestori. Non
credo sia un caso che nei bar dove mi sentivo maggiormente a mio agio lo sviluppo
narrativo e la descrizione dell’osservazione sia più dettagliata e ricca di informazioni.
All’inizio di ogni capitolo è inserita una mappa del bar oggetto di studio per facilitare
la comprensione al lettore. La struttura discorsiva procede con una descrizione
dell’ambiente, supportata dalle immagini fotografiche, seguita dalle osservazioni sulla
clientela, sulle consumazioni, sulle conversazioni, sulla relazione con il personale. Per
ciascun bar è presente la narrazione di uno o più episodi particolarmente significativi
ai fini della ricerca; infine, avvalendomi della mia posizione privilegiata in qualità di
educatrice operante sul campo, ogni capitolo si conclude con la descrizione di un
tentativo di azione educativa messa in atto all’interno degli spazi in termini di
sociabilité.
32
II.2 Il Bar Clan: il potere del gioco e del silenzio
Figura II.2.1 Mappa del bar Clan. Disegno dell'autrice (giugno 2018)
Il bar Clan è situato in una posizione strategica: esso si affaccia sulla strada principale
del paese; di fronte ci sono una tabaccheria e una pasticceria, dietro una sala VLT.
Negli anni ‘90 il posto era gestito da uno dei membri più attivi della comunità
33
lugagnanense, che organizzava all’interno del locale numerosi eventi per la
promozione del Carnevale, una festa particolarmente sentita nel Comune. Di
quell’epoca il bar Clan non conserva nessuna traccia, eccetto l’insegna all’esterno, un
palindromo di classe (Figura II.2.2).
Figura II.2.2 Insegna esterna del bar Clan.
Da fuori il bar Clan ha l’aspetto di un luogo dimesso, complice l’usura dell’edificio di
due piani in cui è situato. Ma la sua immagine non stona con l’area circostante,
evidentemente una delle più vecchie di tutto il paese. La prima volta che sono entrata
al Clan ero accompagnata da un ragazzo di 25 anni che stavo aiutando a realizzare un
evento: avevamo scelto di andare in questo bar per la semplice ragione che tutti gli
altri erano chiusi. Esso è aperto tutti i giorni dalle ore 6:45 a mezzanotte, eccetto la
domenica, in cui l’orario di apertura è fissato alle ore 15. L’arredamento interno è più
accogliente di quello che l’esterno lascia presupporre: il bancone, che si affaccia
sull’ingresso, è di marmo bianco: una delle attività cui la barista si dedica più spesso
quando il locale è semi-deserto è la pulizia della superficie marmorea con uno
34
straccio, un rituale dall’aspetto quasi pavloviano. Il locale è a conduzione famigliare:
il proprietario, che qui chiamerò Ray, è un signore cinese sulla quarantina, che si
alterna con la moglie e i figli nella gestione. Talvolta è capitato che negli orari di
minor affluenza pomeridiani trovassi solo una bambina poco più alta del bancone a
servirmi, ma la famiglia è sempre reperibile, poiché vive al piano superiore del locale,
con accesso interno diretto all’abitazione.
La cosa che più colpisce, non appena si entra al Clan, è la statuina del Buddha che
sovrasta la sala sull’ultimo ripiano dei liquori (Figura II.2.3): complice la luce che
appare dalla sua schiena, nel buio di una stanza non particolarmente illuminata, il
Buddha sembra quasi dire: “ti osservo”. Nel reparto dei liquori c’è un’ampia scelta di
whisky orientali: Ray apprezza che gli si chieda l’origine delle varie marche, ma a
causa della scarsa comprensione della lingua non si dilunga troppo nella descrizione.
Figura II.2.3 Il bancone del bar Clan.
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Nella sala d’ingresso sono presenti ben due televisori a schermo piatto, nonostante le
dimensioni ristrette della stanza; sui tavoli all’angolo si trovano i quotidiani del giorno
(L’Arena e La Gazzetta dello Sport) e qualche libro per bambini: i figli di Ray, infatti,
si appostano spesso sul tavolo 1 della mappa per fare i compiti, leggere o giocare. La
clientela, perlopiù abituale, raramente si accomoda sulle sedie, se non per leggere le
notizie del giorno. Per il resto del tempo le persone si posizionano al bancone, vagano
per la sala d’ingresso, escono a fumare una sigaretta ma, soprattutto, vanno nella
seconda stanza per giocare alle slot machines. Se il tempo lo permette, si siedono
all’esterno per bere alcolici o giocare a carte, anche con piccole scommesse in denaro
o “goti”14, dato che la siepe li ripara dalla vista dei passanti, ma in genere preferiscono
conversare davanti all’ingresso principale, da cui osservano le macchine scorrere nel
traffico, sorseggiando un bicchiere.
I clienti del Clan si conoscono quasi tutti tra di loro, e sanno il nome del barista.
Raramente entra un volto sconosciuto e, quando accade, l’impressione istintiva è
quella che tutti siano sull’attenti. L’età media dei frequentatori abituali si aggira
intorno ai 40-50 anni, di cui a volte donne, in compagnia di un uomo o da sole. Il
cliente-tipo solitario, dopo alcune chiacchiere di circostanza e una carezza ai bambini
se presenti, si reca quasi sempre nella sala slot, dove resta anche per più di un’ora.
Durante la permanenza nella sala secondaria è praticamente impossibile avviare una
conversazione con i giocatori, troppo concentrati nello schiacciare i tasti del monitor.
Il Clan è il bar con il numero più alto di slot machines, anche in rapporto alla sua
grandezza. Ovunque ci si giri, tra gli schermi televisivi e quelli delle macchinette, il
cliente si sente circondato, quasi “costretto” a giocare o a distrarsi con uno stimolo
digitale, come se recarsi nella seconda sala fosse un rituale di passaggio necessario per
poter essere accettati.
Durante il mese di ricerca mi sono posizionata in modo alternato al bancone, al tavolo
1, al tavolo 5, alle slot, all’esterno dell’ingresso principale o secondario. Quando stavo
nella zona circondata dalla siepe, si verificavano questi tre comportamenti al tavolo a
fianco (se occupato da un piccolo gruppo): abbandono della posizione in modo
14
“Goto” è il termine che si usa in Veneto per indicare un bicchiere di vino, in genere economico e alla spina.
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graduale in favore del tavolo interno, proseguimento dell’attività di gioco a carte se in
corso, silenzio improvviso seguito da un palese cambio di discorso dopo il mio arrivo.
La mia permanenza al Clan durante la ricerca non è mai proseguita oltre l’ora, a causa
del forte disagio che provavo nel sentirmi “fuori luogo”. Il picco di affluenza della
clientela si verificava alle otto, a mezzogiorno e alle diciotto, ma mai per la
consumazione di un pasto (perfino a colazione Ray non tiene brioches, probabilmente
per la presenza della pasticceria di fronte): le attività predilette dei clienti del Clan
sono infatti il gioco o l’aperitivo (molto economico). Il lunedì, giorno di chiusura della
pasticceria, non ho riscontrato un aumento dell’affluenza. I frequentatori del Clan,
oltre che abituali, sono molto abitudinari: la maggior parte non ordina nemmeno
quando c’è Ray, perché il barista sa già cosa preparare. In genere vengono consumati
caffé, “goti” di bianco o rosso alla spina, qualche liquore cinese, birra raramente,
perché “la birra al Clan fa schifo, come tutto del resto in quel posto: se sopravvive è
grazie alle macchinette e alle ferie degli altri, ci vanno solo i rutti sociali” (E., 25
anni). In orario aperitivo il gestore non allestisce alcun buffet, ma mette a disposizione
delle patatine; su richiesta prepara dei tramezzini (Figura II.2.5). Effettivamente,
l’unico “servizio” che il Clan sembra offrire è l’accesso alle slot machines per tutto
l’orario di apertura, sebbene l’ordinanza del Sindaco n. 108 del 2/11/16 fissi l’orario
massimo di funzionamento degli apparecchi dalle ore 14 alle ore 01.00. Il regolamento
comunale in materia prevede inoltre “l’obbligo di esposizione su apposite targhe, in
luogo ben visibile al pubblico, di formule di avvertimento sul rischio di dipendenza
dalla pratica di giochi con vincita in denaro (…), nonché l’obbligo di esposizione
all'esterno del locale del cartello indicante gli orari di funzionamento degli
apparecchi per il gioco”, del tutto assenti al Clan. D’altra parte Sona (il Comune cui
appartiene Lugagnano, frazione più grande del territorio comunale con i suoi 9.000
abitanti su 17.000 complessivi) è al terzo posto nel veronese, dopo la città e dopo
Legnago, per vendite di “Gratta e Vinci”, per i quali sono stati spesi più di 4 milioni di
euro (complice anche la presenza del centro commerciale, dove vi è grande passaggio
di persone); inoltre, tra il 2004 e il 2016 sono state venti le famiglie residenti rovinate
dalla ludopatia.
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Prima del Clan e di tentare di inserirmi nei suoi meccanismi di funzionamento non mi
ero mai interessata al fenomeno delle slot machines. Curiosa di capire perché tante
persone al suo interno si recassero nella seconda sala, durante la ricerca ho
sperimentato in prima persona l’utilizzo di uno di questi apparecchi. Rispetto agli altri
bar, il Clan utilizza un séparé di legno nell’area slot, che dà l’impressione al giocatore
di essere completamente isolato rispetto al locale. Due apparecchi più in là, una
signora giocava da almeno un quarto d’ora (momento in cui ero entrata). Cercai di
fingermi esperta, e dopo aver inserito la moneta premetti un tasto a caso: subito mi
apparve la scritta di una vittoria piuttosto consistente: esultai senza ottenere alcuna
reazione dalla signora. Non sapendo come ottenere la vincita, ripremetti dei pulsanti in
modo casuale, ma non uscì alcuna moneta. Pertanto, andai avanti così fino a quando
non apparve la scritta “Game Over”. A quel punto, iniziai a sentire uno scroscio
metallico: solo allora la signora si voltò per un secondo. Dissi una frase di circostanza,
rispetto alla quale non ebbi risposta. Visto il lauto guadagno (circa 50 euro), decisi di
giocare ancora un po’, spostandomi su un’altra macchinetta. Nel giro di pochi minuti,
persi quasi tutto senza fare nulla, se non schiacciare meccanicamente un bottone.
Quando tornai al bancone per offrire un bicchiere ai presenti (la signora, due uomini
sulla cinquantina e il barista) con i 14 euro rimasti della mia vincita, notai che il
gestore sembrava eccessivamente entusiasta per la mia vittoria. In quel momento
decisi di non preoccuparmene troppo e di approfittare dell’occasione per approfondire
la mia conoscenza dei clienti e di Ray. Iniziai domandando se andava bene a tutti bere
un “goto” di bianco alla spina, e ottenni un timido sì con la testa da parte dei due
uomini appostati con me al banco, mentre la signora rimase nella seconda sala. Dopo
aver brindato, chiesi a Ray informazioni sui disegni appesi di fianco alla porta
d’ingresso (Figura II.2.4).
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Figura II.2.4 Ritratti appesi all'interno del Bar Clan. Fonte: Facebook (gruppo pubblico)
Figura II.2.5 Visuale del retro del bancone del bar Clan.
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Ray mi spiegò che era stato lui l’esecutore di quei ritratti. Uno dei due uomini non
esitò a dirmi che c’era anche il suo, e mi feci indicare in modo più preciso la
posizione. Fu la prima e unica volta che sentii il barista rispondere con una frase
articolata: proseguì dicendomi che faceva i suoi lavori gratuitamente per la clientela e
gli amici, e che sapeva realizzarli anche sulla base di semplici fotografie. Gli chiesi se
avesse mai pensato di lucrarci sopra, ma replicò spiegandomi a parole sue che nella
propria cultura le passioni non devono mescolarsi con l’interesse economico.
Continuò dicendomi che li faceva durante i tempi morti della giornata, che erano tanti.
Ne approfittai per chiedere quante persone entrassero al bar ogni giorno, e lui mi disse
che non sapeva rispondermi. Nel frattempo i due uomini si erano dati il cambio con la
signora alle slot; Ray con un cenno mi chiese se doveva servire anche lei, e io replicai
con un cenno a mia volta. La breve conversazione aveva posto le basi per instaurare
con il barista una sorta di complicità. La signora mi ringraziò per il bicchiere, e
mormorò qualcosa sul fatto che non aveva vinto niente, accusando Ray di truccare gli
apparecchi di gioco in modo scherzoso. Altrettanto scherzosamente, egli rispose
cercando di parlare in dialetto veronese che aveva la prova davanti ai suoi occhi del
fatto che non fosse così. Quel momento di convivialità mi diede l’occasione per
rendere più partecipante la mia osservazione e sentirmi meno a disagio all’interno del
locale, perlomeno con il barista. Da quel momento ebbi l’impressione che la mia
presenza non era più percepita in modo invasivo come prima, sebbene il mio desiderio
di chiacchiericcio risultasse ancora molto sospetto. Per tale motivo la ricerca
all’interno del Clan è proseguita senza troppe domande in favore di commenti sulla
giornata e sul clima.
Quando è la figlia a servire, significa che il locale è vuoto: la bambina sa solo versare
una bibita nel bicchiere, ma se l’operazione è più complessa, chiama la madre (mai il
padre). La moglie di Ray, rispetto al marito, fa un minimo di servizio alla clientela: se
qualcuno ordina qualcosa lontano dal bancone, lei porta l’ordinazione al tavolo. Ray,
invece, lascia il prodotto sul banco chiamando il cliente per venirselo a prendere o
sparecchia il tavolo dopo l’uscita del consumatore, eccetto quando gli si urla dalla sala
delle slot di versargli un bicchiere: in tal caso, è lui di persona a portare la
consumazione. Raramente Ray e la moglie sono presenti contemporaneamente
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all’interno del locale, fatto che permette alla clientela abituale di domandare al gestore
del momento come sta il compagno/a.
Un’altra particolarità del bar Clan è l’omogeneità della clientela, non solo per quanto
concerne l’età, ma soprattutto per l’estrazione sociale, piuttosto bassa a livello
economico e scolastico. Tuttavia, più che in altri luoghi, la diversità è tollerata: non è
raro vedere il barista cinese, l’operaio marocchino e il disoccupato italiano fumare una
sigaretta insieme al di fuori dell’ingresso. Come più volte accennato, l’intolleranza del
Clan viene esercitata solo nei confronti del cliente non abituale o che non sta,
letteralmente, al gioco: se usi gli apparecchi elettronici e non parli troppo, il Clan sa
accoglierti in modo garbato e protettivo, e rischi addirittura di portarti a casa un
ritratto di qualità.
Non mancano, inoltre, i “tipi da bar” (Cerulo, 2011: 30): uno, in particolare, potrebbe
rientrare nella categoria del matto, ma non inteso come “uno che parla da solo”, al
contrario: B. è estremamente silenzioso, girovaga in modo quasi catatonico tra i tavoli
senza disturbare nessuno, ogni tanto si siede per qualche minuto a leggere la Gazzetta
e poi riparte con il suo tour. Né il barista né i clienti sono infastiditi dalla sua presenza.
Una volta ho provato ad avviare una conversazione con lui, ma l’unica risposta che ho
ottenuto è stato un movimento compulsivo della mano sinistra che mi ha ricordato il
Dante di Benigni in Johnny Stecchino, quando cerca di convincere l’Ispettore
dell’Inps della sua invalidità. B. è una presenza fissa non solo del Clan, ma anche di
tutti gli altri bar nel raggio di un chilometro. Più avanti, quando lo incrociai in un altro
locale che ho escluso dalla presente ricerca, scoprii da un conoscente che B. è un ex
paziente psichiatrico, rimasto vittima di una grave lesione cerebrale a seguito di un
incidente in macchina a 19 anni (oggi ne ha circa 60). Da parecchio tempo, secondo i
residenti, passa le sue giornate al bar, senza consumare quasi nulla se non un bicchiere
d’acqua. Nessuno l’ha mai visto compiere gesti inconsulti o creare danno agli altri:
sembra, semplicemente, alla ricerca di un po’ di compagnia.
La maggior parte delle conversazioni (rare) che ho avuto modo di osservare al Clan
ruotano intorno ai figli, ai soldi e ai ritratti di Ray: sembra che attraverso il disegno il
proprietario abbia trovato un mezzo per comunicare più facilmente con la clientela, a
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prescindere dalle proprie lacune linguistiche, più o meno volute: sebbene parli
volentieri dei propri figli, l’uomo è piuttosto protettivo se viene rivolta la parola in
particolare alla femmina. Quando accade, in modo molto educato Ray invita i bambini
a raggiungere la mamma al piano superiore usando la propria lingua madre.
Durante l’ultima settimana di ricerca ho pensato di “mettere alla prova” il bar Clan:
una sera ho portato con me due ragazzi con i quali, per lavoro, avevo avviato un
progetto di ginnastica leggera al parco. Uno dei due è M., un personaggio noto a
Lugagnano, in carico alla Psichiatria; l’altra è A., una donna richiedente asilo di
origine camerunense. Contrariamente alle mie aspettative, il bar Clan sembra più
accogliente di sera: dopo il tramonto, complici le luci provenienti dalle slot machines
che addobbano il locale come un albero natalizio, c’è quasi sempre vuoto, eccetto i
bambini all’angolo alle prese con i compiti e qualche raro avventore. Non appena
entrammo, Ray ci accolse con un saluto. Rispettando il codice che avevo appreso, gli
chiesi dove fosse sua moglie, e mi indicò il piano superiore. Salutai gli altri due
uomini presenti al bancone, che stavano discutendo animatamente riguardo i prezzi
delle sigarette. Entrambi rimasero stupiti nel vedere A., anche se non capivo il motivo,
dato che erano abituati a vedere persone straniere; d’altro canto, quando incrociarono
M., ci fu un breve momento di reciproco riconoscimento con uno dei due (“ma tu non
sei il figlio di…?”). Approfittai di quella situazione per ordinare due birre e
un’aranciata, attesi che fossero pronte, pagai immediatamente e mi accomodai nella
seconda stanza con A., dove ci raggiunse M. dopo il congedo dai due conoscenti.
Nella sala slot non c’era nessuno e l’unico rumore che sentivamo era quello della
televisione. A. sembrava aver notato le attenzioni dei due uomini e M., che gode di un
certo spirito di osservazione, mi disse in dialetto, sperando di non farsi capire da A.:
“quei due amano i cioccolatini mi sa”, sogghignando. M., noto per la sua capacità di
ridire su tutto, si lamentò del fatto che il barista non ci aveva nemmeno portato le
patatine. In quel momento arrivò uno dei due uomini al nostro tavolo, visibilmente
ubriaco, urlando a voce alta che voleva offrirci da bere, perché “non capita mai di
avere delle ragazze così belle qui intorno”: cercai di declinare nel modo più gentile
possibile l’invito, nell’imbarazzo generale. L’uomo insistette, avvicinandosi in modo
piuttosto invasivo ad A., e in quel momento scese la moglie di Ray dal piano
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superiore: quando vide la scena, affrettò il passo per avvisare il marito, che intervenne
immediatamente riportando l’uomo davanti al bancone. A. non sembrava infastidita,
ma solo imbarazzata. M. uscì per qualche istante, in preda all’ansia. Qualche minuto
dopo Ray ci raggiunse per farci le sue scuse rispetto all’intrusione. Cercai di spiegargli
che non era necessario, ma lui insistette, perché nel suo locale “nessuno deve
disturbare gli altri”. Ci spiegò che il signore andava spesso con prostitute di colore e
che quindi aveva travisato la situazione. Il pregiudizio razziale c’era stato, ma in modo
diverso rispetto a quello che avevo ipotizzato. Da notare, peraltro, che eravamo
abbigliate per fare ginnastica. M., che nel frattempo era rientrato, non perse
l’occasione per fare una delle sue battute: “e io chi sarei, il pappone?”. Ray iniziò a
ridere, non mi sorprendeva il fatto che non conoscesse il nome italiano dei giorni della
settimana ma che sapesse perfettamente il significato della parola “pappone”. Quando
finimmo la nostra consumazione (A. lasciò la birra a metà, perché “non era tanto
buona”), uscimmo dall’ingresso principale, dove incrociammo nuovamente i due
signori. Quello che si era approcciato ad A. non perse l’occasione per scusarsi con lei,
e le chiese di dove fosse. Iniziò una breve conversazione durante la quale io, M. e
l’altro uomo ci fumammo una sigaretta, quest’ultimo commentando in modo
scherzoso la figuraccia dell’amico (“l’è completamente in bomba”)15, dopodiché ce ne
andammo verso la macchina. A. commentò che il posto le piaceva. M. rispose in
dialetto: “sì, perché hai visto solo questo”. Cercai di spiegargli che A. faceva la barista
in Camerun, ma M. rimase della sua idea. Quando lo riaccompagnai a casa, prima di
scendere, M. mi chiese: “ma secondo te un ritratto me lo fa?”.
L’esperienza di ricerca al bar Clan non è stata ricca e variegata come le altre, ma ho
comunque voluto inserirla nel presente lavoro perché mi ha offerto degli spunti di
riflessione che non ho trovato altrove. Il Clan è probabilmente un luogo in cui il “lato
oscuro” emerge con più forza rispetto alla pars construens: è frequentato da soggetti
borderline, odora di alcol e illegalità, il gioco regna sovrano; ma proprio per questo le
sue qualità emergono in modo più chiaro. Ragionando da educatrice, il fatto che
esistano pubblici esercizi capaci di accogliere, per quanto possibile, il disagio
15
In gergo, “essere in bomba” significa avere uno stato della percezione alterato dall’uso di alcol e/o sostanze
stupefacenti come marijuana e cocaina.
43
esistenziale, fornisce un servizio alla comunità in termini di riduzione del pericolo per
la sicurezza sociale e di risparmio sanitario: se un soggetto come B. non potesse
vagare liberamente all’interno di questi spazi, si sentirebbe totalmente escluso dal
proprio contesto di vita, rischiando di arrecare danno a sé e agli altri. Le doti artistiche
di Ray ricordano la versione povera dei ritrattisti prima dell’arrivo della fotografia: il
disegno restituisce al cliente un forte senso di appartenenza e dignità, con un vago
retrogusto di nostalgia. La presenza dei bambini sullo sfondo addolcisce il cattivo
sapore dei bicchieri alla spina e la durezza dei volti affissi alle pareti, tutti con una
storia da raccontare, quasi mai a lieto fine.
Non credo che al Clan le persone vadano per stare in silenzio e giocare alle slot
machines a qualsiasi ora del giorno: credo ci vadano perché quello è il posto che
pensano di meritare: vanno perché sentono di non poter andare da nessun’altra parte.
44
II.3 Il Bar Nilo: a home away from home
Figura II.3.1 Mappa del bar Nilo. Disegno dell'autrice (giugno 2018)
Il bar Nilo dista circa 300 metri dal Clan: tuttavia, essendo collocato al di là del centro
del paese, pur affacciandosi sulla strada principale, risulta un luogo piuttosto
appartato. Da ottobre 2017 il locale è gestito da una nuova proprietaria, una donna
cinese sulla trentina, che qui chiamerò Anna, la quale è subentrata alla storica barista
vietnamita nota come Fanny. Fanny è rientrata nel suo Paese d’origine dopo aver
accumulato una cifra sufficiente per poter vivere di rendita. La clientela abituale del
Nilo prova una forte ammirazione per questa donna che nell’arco di vent’anni ha
lavorato giorno e notte per poter realizzare il suo sogno. Il Nilo inoltre è stato sede di
un caso di cronaca nel 2014, quando vi fu un accoltellamento a seguito di una rissa tra
un signore marocchino e un giovane croato all’interno del locale per un banale litigio.
Pertanto Anna, tra la grande stima della clientela nei confronti di Fanny, nota per la
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sua tolleranza, e la pessima reputazione del locale, macchiato da un forte stigma da
parte dell’opinione pubblica, si ritrova con una pesante eredità sulle spalle.
Il Nilo è aperto tutti i giorni dalle 7 alle 2 di notte, anche nei giorni festivi. Rispetto
alla precedente gestione, l’arredamento del locale è rimasto pressoché intatto, eccetto
per la disposizione dei tavoli e l’insegna esterna, da cui è stato tolto il nome di Fanny.
Il parcheggio è situato di fronte all’ingresso, costituito da una grande vetrata munita di
una scarna tendina rosa. Arrivando dalla strada si capisce immediatamente qual è
l’accesso del Nilo, a causa della costante presenza di una grande cumulo di rifiuti,
rispetto al quale i cittadini si lamentano spesso sui social networks (Figura II.3.2).
Figura II.3.2 Cumulo di rifiuti davanti al bar Nilo. Fonte: Facebook (gruppo pubblico)
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Una volta parcheggiata l’auto, l’impressione è quella di essere osservati, ma varcata la
soglia d’ingresso, la sensazione di disagio si attenua. L’interno del locale è piuttosto
accogliente: le pareti color panna, il soffitto e i tavoli in legno contribuiscono a dare la
sensazione di essere all’interno di un’osteria (Figure II.3.3 e II.3.4). Negli anni ‘80 il
bar era infatti adibito a trattoria.
Figura II.3.3 e II.3.4 Interno del bar Nilo.
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Davanti al bancone è presente un tavolo più allungato e rialzato, dotato di sgabelli:
raramente le persone vi si siedono, ma utilizzano il ripiano in legno per appoggiare la
propria bevanda e dare uno sguardo alla televisione o al giornale. Di fianco al
bancone sono esposti alcuni “Gratta e Vinci”; sotto la cassa, invece, Anna tiene un
piccolo rifornimento nascosto di pacchetti di sigarette, che vende soltanto ai clienti
abituali. Accanto al ripiano dei liquori inizia la parete della cucina, dove il marito di
Anna prepara su richiesta panini, piadine, pizze o altre stuzzicherie. Primi e secondi
piatti, invece, non sono contemplati. Una volta a settimana Anna dispone un piccolo
buffet sul tavolo rialzato, a disposizione della clientela durante l’orario dell’aperitivo.
Soltanto i lavoratori di passaggio si intrattengono nel locale per un pasto a pranzo o a
cena. Non esiste alcun divisorio tra la sala d’ingresso è quella adibita alle slot
machines: i limiti dell’orario di gioco sono ben esposti e, pur essendo presenti sette
apparecchi, raramente sono occupati. Dal “reparto gioco” si accede all’area esterna,
dove è presente un tavolo verde accanto all’ingresso e un tendone all’altezza del
parcheggio, diviso da una siepe. Sotto il tendone sono situati diversi tavoli bianchi di
plastica e una piccola stufa per l’inverno, che viene accesa solo su richiesta. In
quest’area è possibile fumare.
Sopra il bar, invece, è situato un condominio di tre piani: non è raro che gli inquilini si
affaccino al balcone per lamentarsi del rumore.
La clientela del Nilo è perlopiù abituale, ma estremamente variegata: i pensionati,
quasi esclusivamente di sesso maschile, occupano stabilmente i tavoli all’interno per
tutta la mattina, ordinando continuamente una “spuma” o un bicchiere di rosso alla
spina, per poi tornare dopo pranzo; operai e adulti disoccupati si appostano al bancone
o al tavolo esterno per fumare una sigaretta, accompagnati da una birra o da un
aperitivo prima dei pasti; raramente capita che dei lavoratori vestiti da ufficio si
incontrino qui per discutere di affari davanti a un pc, ma il gruppo più consistente di
frequentatori del Nilo è quello dei ventenni, abituati a gozzovigliare sotto il tendone
esterno a qualsiasi ora del giorno.
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Il locale è frequentato soprattutto dalle 17 in poi, orario in cui accade spesso di non
riuscire a trovare un tavolo libero: l’andirivieni della clientela è comunque abbastanza
costante.
Durante il periodo di ricerca mi sono posizionata alternativamente al tavolo 1, al
bancone, al tavolo esterno e sotto il tendone. Dal tavolo 1 avevo la possibilità di
osservare tutto il locale e ascoltare le conversazioni dei clienti; quando ero al bancone
Anna ne approfittava per fare quattro chiacchiere tra donne; utilizzavo il tavolo verde
esterno per delle conversazioni confidenziali con persone in difficoltà conosciute sul
lavoro; infine, mi addentravo nel tendone o quando non era occupato dal gruppo dei
giovani o su loro esplicito invito.
È capitato che trascorressi più di due ore all’interno del locale quando mi appostavo al
tavolo 1, poiché fingevo di dover svolgere alcune pratiche di lavoro al pc: in realtà
prendevo appunti sulle conversazioni. Ogni tanto arrivava Anna a chiedermi se volessi
qualcos’altro, e dopo aver notato questo comportamento più volte, interpretai la
domanda come una richiesta di liberare il tavolo nonostante ve ne fossero di non
occupati. Iniziai pertanto a prendere l’abitudine di ordinare una nuova consumazione
ogniqualvolta Anna mi rivolgeva la richiesta.
Il gruppo dei pensionati ama commentare le notizie sul giornale o alla televisione, ma
anche discutere dei problemi di salute di ciascuno. Durante il periodo di ricerca uno
dei signori veniva preso in giro dagli altri perché il medico curante gli aveva imposto
il divieto di bere alcolici, ma ogni tanto sgarrava. Tuttavia notai che i compagni di
avventura sembravano controllarsi in sua presenza, forse per un’inconscia forma di
solidarietà con la sua situazione. Il giorno successivo alle elezioni amministrative non
mancarono i commenti sulla situazione politica, che divagarono fino ai ricordi dei
Sindaci precedenti e del loro operato, per poi sfociare nelle lamentele sulle buche della
strada principale e i rifiuti.
Raramente gli anziani vengono accompagnati dalle mogli (accade quando escono
insieme per andare dal dottore o in posta, per esempio), e quando capita si
intrattengono al bar per molto meno tempo. In genere il gruppo, che può variare dai
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due ai dieci soggetti per volta, si dà tacito appuntamento al mattino, verso le nove.
Nessuno si preoccupa se gli altri non arrivano: chi c’è, aspetta, e intanto beve. Dopo
pranzo i pensionati non sempre ritornano, ma il signor A., di origini sarde, che abita
nel condominio sopra il bar, è una presenza costante. Soltanto un pomeriggio non lo
vidi, e quando uno dei suoi amici entrò chiese immediatamente ad Anna dove fosse.
Anna è supportata dal marito solo per la cucina: è lei a provvedere alla gestione di
tutte le altre mansioni. Con i nuovi clienti fa servizio al tavolo, mentre i frequentatori
abituali chiedono la consumazione al bancone per poi accomodarsi dove preferiscono.
Quando i bicchieri sono vuoti, Anna sparecchia, aspettando che le venga richiesto un
secondo giro; l’area esterna viene completamente ignorata, se occupata dai giovani.
Rispetto a Ray, Anna, pur essendo in Italia da meno tempo, ha acquisito un’ottima
conoscenza della lingua; tuttavia non è abituata a intrattenere conversazioni con la
clientela, se non quando serve persone del suo stesso genere ed età. Il marito è
completamente analfabeta e non esce mai dalla cucina, nemmeno quando Anna si reca
in bagno. Più di qualcuno sospetta che la coppia dorma all’interno del bar, dato che
nessuno l’ha mai vista uscire all’esterno. L’estrema riservatezza di Anna è motivo di
innesco di alcuni scambi di battute tra lei e la clientela abituale, che si diverte a
cercare di indovinare la sua età, i suoi gusti, il suo carattere, probabilmente per
abitudine rispetto al precedente rapporto con Fanny.
Il gruppo degli operai e dei disoccupati trascorre il tempo a giocare a briscola e
fumare prima di riprendere servizio o tornare a casa per il pasto: all’interno di questa
cerchia il tono usato nelle conversazioni è quello del perenne lamento nei confronti di
qualcosa: famiglia, denaro o politica. Quando un membro della categoria è da solo nel
locale, guarda distrattamente la televisione, interviene a distanza nelle conversazioni
degli anziani o gioca il resto della consumazione alle slot machines. Fa parte di questa
tipologia anche il “trio degli strafóra”16, come viene denominato dal gruppo dei
ragazzi: si tratta di tre personaggi bizzarri che mettono in atto dinamiche innocue, ma
fuori dal comune. Durante il periodo di osservazione, ho visto chi fingere di essere un
cane e giocare con l’animale di un cliente, chi vagare per il locale dicendo a tutti il
16
In dialetto veronese, significa trio di persone stra-fuori, ovvero eccentriche.
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programma della propria giornata, chi sfoderare con fierezza un walkman anni ‘90
ballando sulle note di Michael Jackson; quest’ultimo, in preda probabilmente ai fumi
dell’alcol, una sera mi ha fatto una proposta di matrimonio, inginocchiandosi ed
estraendo un anello fatto con un tovagliolo. In quell’occasione dapprima sono stata al
gioco, dopodiché uno dei ragazzi con un pretesto mi ha accompagnata fuori,
“salvandomi” dalla situazione. Qualche giorno dopo, il ballerino sembrava essersi
completamente dimenticato dell’accaduto.
Ogni tanto, verso le nove di sera, appare una signora dell’Est Europa abbigliata in
modo succinto, la quale è abituata a farsi pagare la consumazione da un cliente
casuale all’interno del locale, per poi sparire senza salutare. Le persone non sembrano
essere disturbate dalla sua presenza, pur sapendo perfettamente quale gioco è capace
di mettere in atto. Al contrario, l’adescato di turno appare ringalluzzito e orgoglioso di
essere oggetto di attenzioni da parte di una donna.
Di questa comédie humaine fa parte anche un giovane rumeno, C., con evidenti
problemi di alcolismo: non è raro vederlo consumare oltre dieci birre nel giro di un
paio d’ore (numero che ovviamente aumenta nei leggendari racconti orali dei ragazzi).
“C. è pericoloso solo se lo guardi male o cerchi di fotterlo, se no è un bravo butel.17
Reagisce solo se lo attacchi”, mi spiega L., ventenne cliente abituale. C. è oggetto di
numerose narrazioni da parte dei più giovani, che provano un certo timore
reverenziale nei suoi confronti. Ogni tanto raggiunge il gruppo sotto il tendone con il
proprio cane per scambiare qualche battuta, ma in genere è sempre da solo. Il suo
fisico scolpito e il suo atteggiamento da bad boy lo trasformano in un modello quasi
da imitare.
Rispetto al resto della clientela, i ragazzi adottano un comportamento diverso: ciò che
li accomuna agli anziani è il fatto di considerare il Nilo il luogo di ritrovo, “perché è
vicino a casa, praticamente ci troviamo sempre qui prima di decidere cosa fare” (L.,
20 anni). L’argomentazione di L. non è del tutto vera: prima del Nilo, esistono almeno
altri due bar più vicini alla loro zona di residenza (tra cui il Bar In, oggetto del
capitolo II.5). Secondo Y., la vera ragione è che “possiamo andare lì senza
17
In dialetto, "butel" significa "ragazzo".
51
consumare: non pretendiamo neanche di essere serviti come magari la barista
servirebbe altri nuovi clienti. Lei non è il massimo, ma la rispettiamo perché è molto
tollerante, anche se è una piccola ebrea” (Y., 20 anni).18
La reciproca conoscenza pregressa tra me e i ragazzi del Nilo ha facilitato alcuni
processi nel corso della ricerca. A dicembre 2017 infatti, per ragioni di lavoro, avevo
aiutato parte del gruppo a organizzare un Torneo di Calcio all’interno del campetto
dove passavano le giornate quando erano teenagers. Con l’occasione ci eravamo
trovati di frequente per dividerci i compiti al bar In, e avevamo avuto modo di
scambiare qualche chiacchiera informale. All’epoca quasi tutti provenivano da Istituti
tecnici e stavano attraversando una fase di transizione tra il mondo della scuola e
quello del lavoro; mi ero resa disponibile anche per supportarli nella ricerca attiva di
un’occupazione, senza riscontro. Un altro giovane del loro quartiere, E., con cui sono
entrata piuttosto in confidenza, un giorno mi disse che i ragazzi erano un po’ diffidenti
nei miei confronti, pur rispettandomi, perché non comprendevano il mio ruolo
professionale e la mia personalità: per loro, il fatto che collaborassi con il Comune e
che lavorassi al bar in loro compagnia erano due fattori inconciliabili.
La riflessione di E. mi aiutò a impostare diversamente l’osservazione durante il mese
di ricerca: conoscevo i ragazzi, eravamo anche in contatto sui social networks, ma non
potevo comportarmi come una di loro. Decisi di adottare un atteggiamento più
distaccato e aspettare che mi venissero a cercare mentre ero al bar.
Per tutto l’anno ho monitorato quotidianamente i profili Instagram del gruppo, e ho
notato l’abitudine giornaliera di alcuni di loro di pubblicare online alcuni brevi video
realizzati con lo smartphone, nei quali documentano la propria vita al bar (Figura
II.3.5). Instagram, attraverso la funzione stories, permette ai propri utenti di
condividere con i propri contatti dei corti che vengono cancellati automaticamente dal
web dopo 24 ore. Le diverse produzioni sono modificabili attraverso l’uso di effetti
speciali, l’aggiunta di emoticon o di parole.
18
Con l’espressione “ebrea” Y. intende dire che Anna è molto parsimoniosa: non offre mai nulla e non permette
ai ragazzi di lasciare un conto aperto.
52
Figura II.3.5 Alcune immagini tratte dai profili Instagram dei giovani del bar Nilo. Fonte: Instagram (profili pubblici)
Attraverso le immagini i ragazzi non documentano nulla in particolare ma,
semplicemente, la loro vita “in one pic” (commento didascalico ad una delle
fotografie). Le fonti sul web quasi paradossalmente mi hanno permesso di avvicinarmi
di più a loro di quanto non avesse fatto il contatto al bar In, e questo, compresi più
tardi, per due ragioni: la prima è che i ragazzi sono abituati a utilizzare maggiormente
questa modalità comunicativa, al punto che accade spesso che sotto il tendone stiano
contemporaneamente realizzando una storia su Instagram da più angolazioni anziché
conversare; inoltre, avendo concesso loro di entrare a far parte anche del mio mondo
social e di consultare il mio profilo, sono riusciti ad accettare maggiormente il mio
ruolo lavorativo. La seconda ragione è che il bar In non è il “loro” posto: per il
53
gruppo, è il bar Nilo la home away from home, il porto sicuro in cui possono trovarsi,
bere, fumare, chiacchierare, giocare, chattare, per poi andare insieme altrove. Tuttavia,
per festeggiare le occasioni importanti, preferiscono rimanere al Nilo per evitare di
guidare in stato alterato. Tra di loro i ragazzi di sesso maschile non esitano a insultarsi
amichevolmente utilizzando espressioni razziste o atteggiamenti tratti dallo stereotipo
del gangster americano di colore, soprattutto in presenza delle ragazze, le quali in
genere osservano da lontano i comportamenti degli amici. Le conversazioni ruotano
intorno al programma per la serata, ai soldi, al lavoro o ai video che condividono sui
social: lo smartphone rappresenta una finestra su un mondo fatto di immagini
divertenti, provocanti o dissacranti, un mondo che pensano di conoscere e essere in
grado di affrontare. Quando parlano di lavoro fingono di sapere tutto sull’argomento:
come funziona l’attuale offerta contrattuale, cosa è meglio per guadagnare più soldi
facilmente e nel minor tempo possibile, senza una prospettiva futura: tutta la loro
quotidianità è concentrata sull’oggi e sugli amici, che per loro rappresentano un
sostituto della famiglia. Ancora una volta, i valori dei ragazzi del Nilo seguono le
orme dei personaggi famosi appartenenti alla scena musicale, cinematografica e
televisiva made in Usa. Il loro modo di fare è arrogante, presuntuoso, ricco di
neologismi e insulti, ma nasconde un grande legame affettivo e cognitivo con il resto
della crew, l’unica cosa di cui sembrano andare fieri.
Durante il periodo di ricerca alcuni ragazzi mi hanno raggiunta individualmente
all’interno del bar per chiedermi informazioni su eventuali opportunità di lavoro, di
cui preferivano parlarmi in privato, sebbene il resto del gruppo fosse a conoscenza
della situazione di ciascuno; solo una volta Y. è venuto senza secondi fini a salutarmi.
Stranamente chi invece avevo conosciuto di più tendeva ad evitarmi, forse per una
sorte di vergogna, diffidenza o incapacità a gestire la situazione.
Un giovedì sera volli fare un esperimento educativo: una collaboratrice del giornale
locale, M., non ancora maggiorenne, mi aveva chiesto se conoscevo giovani operosi
del territorio da intervistare per un articolo. Scelsi di proporle i ragazzi del Nilo che
avevano organizzato il torneo di calcio di quartiere, sapendo che rischiavo di mettere a
disagio entrambe le parti, le quali abitano lo stesso territorio, ma parlano due lingue un
54
po' diverse. Quando M. mi diede la disponibilità, chiesi al gruppo tramite Whatsapp se
fosse altrettanto disposto ad incontrarla: subito mi fu chiesto il link ai suoi profili
social: appurato che si trattava di una bella ragazza, l’appuntamento fu approvato.
L’incontro avvenne sotto il tendone, intorno alle 21: i ragazzi erano al Nilo già da
parecchie ore, e l’aria era pregna di odore di cannabis. Uno dei cani mascotte del
gruppo abbaiò contro M., che cercò di mostrarsi imperturbabile. Nessuno trattenne
l’animale, ma M. si sedette ugualmente. A quel punto intervenni chiedendo ai giovani
se si sentivano pronti per l’intervista: quelli che non volevano partecipare se ne
andarono nella sala interna; gli altri iniziarono a ridere.
M. esordì con una domanda sul perché avessero deciso di assumersi la responsabilità
di organizzare un evento, e loro non seppero bene come rispondere: “volevamo
giocare a calcio”. Mi venne in mente la frase di un film di Ken Loach, My Name is
Joe, in cui un allenatore di una squadra di football della periferia replica in modo
scurrile a una mamma autoritaria: “certa gente pensa che gli escano i raggi di sole dal
buco del c...o. So che è solo una partita di calcio. Ma per noi è importante”; in quel
momento mi sentii più vicina a loro che a M. Uno degli intervistati mi fece cenno di
guardare il telefono mentre M. li interrogava; visualizzai un suo messaggio: “secondo
te posso fumare?”. Interpretai quel comportamento come un desiderio di mostrarsi
trasgressivo davanti ad una bella ragazza, finalizzato sia a “fare colpo”, sia a
evidenziare la differente appartenenza culturale e sociale. La richiesta di permesso era
una conferma del riconoscimento del mio ruolo: davanti ad un’estranea di cui
faticavano a capire il linguaggio, i ragazzi si affidavano a me per la traduzione. Le
successive risposte all’intervista non furono eloquenti: era come se i ragazzi volessero
sminuire il lavoro svolto per mettere in piedi l’evento: forse avrebbero potuto fare
qualcosa di più, ma in qualità di educatrice penso che piccole azioni come
accompagnarmi in Comune per chiedere i permessi burocratici, relazionarsi con gli
sponsor, scrivere insieme un discorso avessero già un grande valore. Fino ai 20 anni a
me interessava solo stare con gli amici. E infatti, quando chiesi ai ragazzi se
frequenterebbero la parrocchia qualora anche gli altri della crew lo facessero, ottenni
un sì, anche se non troppo convinto. Il gruppo si bloccò completamente nelle risposte
55
quando M. chiese loro una definizione di comunità. In quel momento intervennero gli
amici che inizialmente si erano allontanati, i quali si erano nel frattempo seduti dietro
gli intervistati fingendo disinteresse nei confronti della conversazione. “La comunità è
questa”, disse uno degli ultimi arrivati. Herzfeld (Herzfeld, 2006) sostiene che
esistano due tipi di comunità: una comunità socio-territoriale, da intendersi come
luogo fisico, e una comunità socio-comunicazionale, che con la comparsa dei media e
in particolare dei social networks non coincide più necessariamente con la comunità
fisicamente situata. Se è vero che il solo modo di comprendere la complessità della
vita urbana è capire le esperienze di comunità (ivi, p. 175), è necessario considerare
entrambe le dimensioni dal punto di vista antropologico. Forse i giovani frequentatori
del Nilo non sanno concettualizzare il loro rapporto con la comunità, ma di certo
conoscono il valore del legame, al punto tale da aver sviluppato una duplice
appartenenza comunitaria, territoriale e comunicazionale, anch’essa con i suoi confini
e in continua evoluzione, di cui i ragazzi sono poco consapevoli. D'altro canto anche
M. faticava a concepire la comunità al di fuori dei suoi schemi valoriali di riferimento
(la parrocchia, il gruppo animatori, gli scout), ma ne comprendeva l'importanza. E
cos'è la comunità, se non un insieme di persone che abita il proprio territorio? Certo,
sarebbe bello che tutti si prendessero cura degli spazi pubblici, che partecipassero agli
eventi, che si impegnassero per rendere il proprio ambiente migliore, che si
mostrassero gentili: ma in fin dei conti, questi ragazzi, cosa stanno facendo se non
abitare il proprio ambiente di vita? Tutti questi pensieri attraversavano la mia mente,
letteralmente annebbiata dal contesto: quando il gruppo iniziò a snobbare M., decisi
che era il momento di interrompere la conversazione e riaccompagnarla a casa.
Nessuno dei ragazzi aveva voluto farsi offrire qualcosa come segno di ringraziamento:
andai ad ordinare ad Anna un giro di birre per tutti e mi allontanai rapidamente dal
locale. Da quel giorno in poi i ragazzi mi salutano con meno imbarazzo. Il commento
sul bar di M. riassume bene il modo in cui l’opinione pubblica vede il Nilo: “che
postaccio. Però dai, meglio del previsto.”
L’esperienza di ricerca al bar Nilo ha avuto un forte impatto sulla rielaborazione dei
miei vissuti personali: il muro che i suoi giovani frequentatori alzano con il resto del
mondo si abbassa un po’ solo quando si trovano al bar, il loro bar. Allo stesso modo,
56
durante l’adolescenza, mi sentivo a casa solo quando ero con i miei amici, nella nostra
taverna: non era importante ciò di cui parlavamo o ciò che facevamo: ciò che contava
era esserci. Kafka, negli Aforismi di Zürau, scrisse che la parola sein (essere) in
tedesco significa due cose: esserci e appartenere. I ragazzi del Nilo vanno al bar per
(mostrare sui social di) essere. E forse lo stesso discorso vale per tutti gli altri clienti
abituali che ho incontrato qui.
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II.4 Il Benny Pub: viaggio al centro del bancone
Figura II.4.1 Mappa del Benny Pub. Disegno dell'autrice (giugno 2018)
58
Il Benny Pub è situato nella zona interna di Lugagnano, lontano dalla strada
principale, nell’angolo di una piccola piazza: difficilmente, quindi, entra qualcuno per
caso. Tra i bar presi in esame, il Benny è l’unico gestito da un lugagnanense italiano:
“il Benny”, appunto. Pur trovandosi in una zona periferica, il pub cura molto
l’immagine, anche sui social (Figura II.4.2)
Figura II.4.2 Profilo Instagram del Benny Pub. Fonte: Instagram
(profilo pubblico)
Il Benny funziona e ha l’aspetto di un vero e proprio pub irlandese: è aperto solo di
sera, dalle 17.30 alle 2, e prevede un giorno di chiusura (il lunedì). A differenza dei
bar presi in esame finora, il locale chiude in occasione di festività importanti (come il
Natale o la Pasqua) e rimane chiuso per ferie sia in estate che in inverno. La gestione
non è famigliare come per il Nilo e il Clan: Benny si avvale del supporto di una
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cameriera nei weekend e abita a qualche chilometro di distanza rispetto al luogo di
lavoro.
All’esterno del locale una pedana in legno, coperta da un tendone elegante decorato
con piccole luci colorate, può ospitare fino a dieci tavoli (Figura II.4.3). Quest’area
viene utilizzata soprattutto in estate in occasioni di aperitivi o feste di compleanno, ma
è fruibile anche d’inverno per i fumatori.
Figura II.4.3 L'esterno del Benny Pub.
All’interno del locale le luci sono perennemente soffuse: il bancone domina su gran
parte della sala al piano terra, lasciando spazio per un paio di tavoli che non vengono
mai occupati (Figura II.4.4). Non appena si varca l’ingresso, il cliente trova davanti a
sé una raffinata spina di birre artigianali prodotte o ricercate da Benny stesso (Figura
II.4.5). In alto domina una televisione maxischermo perennemente sintonizzata su
60
canali musicali o sportivi. All’angolo del locale è posizionato un séparé in legno che
propone il listino prezzi di una casa chiusa (Figura II.4.6): il proprietario lo ha
acquistato su internet dopo aver ritrovato alcuni “reperti” nell’edificio prima della
ristrutturazione, poiché gli sembrava un buon pretesto per raccontare un “aneddoto
carino” ai clienti.
Figura II.4.4 Interno del Benny Pub.
61
Figura II.4.5 Spina delle birre del Benny Pub.
Figura II.4.6 Dettaglio del séparé.
62
Oltre all’esterno e al piano terra, il pub dispone di altri due spazi, cui si può accedere
attraverso una scala a chiocciola: al piano inferiore è situata una piccola sala
insonorizzata che un tempo veniva utilizzata per i concerti; al piano superiore è
presente un salone che Benny mette a disposizione in inverno, soprattutto per le
coppie che vogliono “appartarsi”. Di fatto queste aree sono, per stessa ammissione di
Benny, sottoutilizzate: da qualche anno il locale non propone più concerti a causa
delle proteste dei vicini di casa e della costosa burocrazia; l’area esterna viene
preferita al piano superiore a prescindere dal clima, poiché la maggior parte dei
frequentatori del Benny fuma.
La clientela del pub è costituita prevalentemente da giovani di estrazione sociale
medio-alta: oltre alle compagnie di amici e ai flâneurs solitari, il locale ospita
associazioni o squadre sportive, riunioni di partiti politici, addii al celibato o al
nubilato, membri di gruppi musicali (c’è una sala prove a cinquecento metri di
distanza). Alcuni vicini anziani si recano da Benny per ordinare una caraffa di “birra
buona” che consumano in casa o sulla soglia della propria abitazione, osservando
distrattamente l’andirivieni dei clienti. Durante il periodo di osservazione non ho mai
visto una persona di origine straniera. I ragazzi del Nilo affermano che il Benny è il
“bar dei fascisti”, probabilmente perché saltuaria sede di ritrovo della Lega e per i
prezzi elevati delle consumazioni. La percezione, da quanto emerge dalle interviste e
dall’osservazione, è solo parzialmente errata, e ho avuto modo di verificarla attraverso
un esperimento educativo, di cui parlerò più avanti.
In realtà i giovani che si sono resi disponibili a rilasciarmi un’intervista, perlopiù
studenti universitari residenti a Lugagnano, esprimono motivazioni simili a quelle dei
ragazzi del bar Nilo. G., 24 anni, ad esempio, mi racconta: “prima di iniziare a
lavorare venivo più spesso, era il punto di ritrovo della compagnia. Anche ora è così,
ma se prima ci trovavamo una volta a settimana, adesso è un’incognita. Vengo
sempre con gli amici, mai da sola. Ho avuto la fortuna di creare dei rapporti
bellissimi, quasi famigliari, grazie soprattutto al gestore, che ti fa sentire sempre
come se fossi a casa tua.”
63
I giovani di sesso maschile si discostano leggermente da questa visione: “ci vengo
quando non ho altro da fare, o per vedere qualche partita. Più che parlare con gli
amici mi interessa sapere chi altro c’è e conoscere qualcuno” (R., 23 anni).
“Vengo una volta al mese, ma preferisco frequentare la zona universitaria. Ogni tanto
mi trovo con gli esponenti del partito: a maggio (il mese che ha preceduto le elezioni
amministrative del 10 giugno, n.d.r.) eravamo qui quasi tutte le sere” (M., 24 anni).
La motivazione principale per molti clienti, in realtà, è che “il Benny ha la birra
buona”: l’Associazione sportiva di rugby di Lugagnano, ad esempio, pur avendo nella
sua sede un bar, preferisce recarsi qui dopo gli allenamenti per degustare la selezione
di birre artigianali proposte dal gestore. “Rispetto ad altri locali, la mia birra costa un
po’ di più, ma chi ama il luppolo e viene qui dopo non può più farne a meno”, mi
racconta Benny. Il proprietario mostra una conoscenza molto approfondita dei suoi
prodotti, e sia con i clienti abituali che con i nuovi arrivati che si posizionano davanti
alla spina ama raccontare, mentre prepara il bicchiere, la storia e l’origine della
bevanda. Con chi ha più confidenza, Benny propone un piccolo assaggio delle offerte
della settimana, per permettere al consumatore di scegliere la birra che preferisce.
Anche il cliente meno esperto apprezza la possibilità di selezionare dopo una piccola
degustazione, e in genere si dilunga nei commenti sul gusto del liquido.
La maggior parte della clientela, pertanto, consuma birra o cocktails, più richiesti dal
genere femminile. Le persone che si trovano al pub in gruppo usufruiscono del locale
in due modi: come punto di ritrovo per poi dirigersi verso il centro città o il lago di
Garda, luogo della movida veronese durante l’estate, oppure per rilassarsi o sballarsi.
Il pub resta semi-deserto fino alle 21, orario in cui inizia ad animarsi con i primi
gruppi. Difficilmente si incontrano persone vestite in modo scialbo: quasi tutte
risultano curate nell’aspetto. Tra tutti i bar presi in esame, il Benny è sicuramente
quello più frequentato da persone di sesso femminile, ragione per la quale anche
quando vengono per “fare serata tra butei” i ragazzi sono abbigliati in modo ordinato.
Su richiesta Benny prepara anche panini e piadine: in genere i clienti ordinano al
bancone per poi sedersi sugli sgabelli oppure accomodarsi sotto il tendone esterno,
dove il barista effettua servizio al tavolo. Le conversazioni in gruppo vertono su
64
argomenti quali l’Università, il lavoro, la politica, i problemi famigliari o i gossip
locali; all’interno, invece, l’interazione avviene quasi sempre con il gestore e i discorsi
ruotano intorno ai suoi interessi personali: calcio, birra, palestra, motociclette. Se
invece il cliente non è noto, Benny propone qualche vago commento alla partita
trasmessa in televisione o chiede un’opinione sulla consumazione.
Durante il periodo di ricerca mi sono posizionata all’esterno del locale, al piano
superiore, al tavolo 1 della mappa, ma soprattutto davanti al bancone, dove ho avuto
modo di registrare le osservazioni più interessanti.
A proposito del bancone, Augé propone un’illuminante riflessione (Augé, 2015: 3940):
“il bancone è il centro di uno spazio concepito, come la
musica del piano bar, per non appartenere a nessuno pur
facendo posto a tutti. Conosco un bistrot che cambia
continuamente proprietario ma non riesce a farsi una clientela,
nonostante
le
iniziative
gastronomiche
o
gli
sforzi
promozionali dei gestori che si succedono l’uno dopo l’altro.
Nessuno di loro sembra aver prestato attenzione al fatto che il
bancone, in uno spazio relativamente angusto, appare come
schiacciato contro il muro di fondo. (…) Ora, per quanto in un
simile contesto il desiderio di allacciare rapporti sia
inconsapevole, illusorio o superficiale, è proprio quel
desiderio che ci spinge a entrare in un bistrot e a restarvi. (…)
Tutti hanno bisogno di una forma di presenza/assenza
modulabile, vogliono sentirsi a casa propria e nel contempo
altrove; vogliono essere accolti e ignorati.”
In modo più o meno consapevole, Benny ha saputo valorizzare al massimo le
potenzialità del bancone, che amplifica l’effetto di prossimità con il luogo e il suo
gestore, il quale ha imparato anche a gestire la relazione affettiva con il cliente: “a
volte capita che arrivi qui qualcuno mollato dalla ragazza o che ha semplicemente
avuto una brutta giornata: si posiziona davanti alla spina e ci resta per un bel po’,
continuando a ordinare. Quando è bello cotto, capita che inizi a raccontarmi la sua
65
vita, e io cerco di ascoltare. Col tempo ho imparato a evitare commenti: uno sbronzo
è sempre imprevedibile”.
Ho avuto modo di sperimentare in prima persona l’effetto liberatorio del bancone al
termine di una giornata lavorativa veramente pesante. Dopo aver ordinato un paio di
giri di birra, mi sentii libera di raccontare a Benny cos’era successo, e intrattenni una
breve conversazione anche con l’altro “banconista” su quello che stavamo bevendo. Il
giorno seguente mi interrogai sulla serata: non capivo se erano stati gli effluvi della
birra o la necessità di sfogo a indurmi a rivelare dettagli della mia vita privata ad un
semi-sconosciuto. Se fossi rimasta ad un tavolo sotto il tendone esterno a bere birra da
sola, questo episodio non sarebbe successo: la ragione per cui mi ero comportata così
era il bancone.
L’esperimento che volli mettere in atto all’interno del Benny riguardava la necessità,
personale e professionale, di verificare l’ipotesi avanzata dai ragazzi del Nilo sulla
presunta connotazione razzista del locale.19 Benny sapeva che stavo conducendo una
ricerca per fini universitari, pertanto non ritengo sufficiente quanto emerso durante la
sperimentazione per interpretare in modo corretto il suo comportamento.
Una sera mi recai al pub con A., la ragazza con cui ero andata al Clan. Dato che il
locale si trova vicino all’attuale struttura in cui è ospitata, decise di portare con sé
anche la figlia di un anno. Sapevo inoltre che quella sera alcuni esponenti leghisti si
sarebbero trovati per parlare del “dopo elezioni”20. Arrivai per prima e mi posizionai
davanti al bancone. Temporeggiai spiegando a Benny che stavo aspettando un’amica,
e osai dire che era “sempre in ritardo, come tutte le negre”21, per vedere la reazione
dei presenti: il proprietario fece una risatina imbarazzata, mentre gli altri clienti, due
19
In realtà il termine specifico utilizzato dai ragazzi era stato “fascisti”, ma dopo aver chiesto loro cosa
intendessero con questo termine ritengo più appropriata la parola “razzismo”. Secondo il gruppo i frequentatori
del Benny, oltre al fatto di essere ricchi, vedono male chi ha meno soldi di loro e quindi anche le persone di
colore e più in generale di origine straniera. Da notare, tuttavia, che i ragazzi del Nilo utilizzano espressioni
come “negro” o “ebreo” per insultare amichevolmente gli amici.
20
Le elezioni amministrative di Sona sono state vinte dalla Lista Civica di centro-sinistra “PerSona al Centro”,
guidata dal Sindaco uscente Gianluigi Mazzi.
21
Di tutti i comportamenti che ho adottato per inserirmi all’interno dei luoghi di ricerca, questo è quello che mi
ha provocato più dilemmi etici. Ne parlerò in modo più approfondito nel capitolo successivo.
66
ragazzi sulla trentina, non manifestarono alcun feedback, troppo concentrati a
guardare una partita alla televisione.
Quando A. arrivò, ci fu un attimo di silenzio. A. era allegra come al suo solito, e si
sedette immediatamente a uno dei tavoli interni. Benny venne a servirci, e portò a
entrambe un assaggio di birra: si intrattenne anche un po’ con la bambina,
accarezzandola. Notai che i due uomini al bancone ogni tanto lanciavano uno sguardo
ad A. e alla piccola: l’impressione è che stessero facendo dei commenti
sull’inappropriatezza di una madre al bar con la figlia a bere qualcosa di alcolico.
L’unica cosa che riuscii chiaramente a sentire fu una domanda rivolta a Benny,
indicando A.: “ma chi è questa?”, alla quale il gestore non seppe rispondere. Nel
frattempo la bambina iniziò a gattonare verso gli sgabelli dei due clienti: entrambi
continuarono a guardare lo schermo e A. andò a riprendere la figlia, tenendola in
braccio il resto del tempo. Quando uscimmo, mi sentii osservata dalla tavolata sotto il
tendone, dove alcuni esponenti del partito stavano conversando animatamente sui
risultati elettorali. A. non sembrò sentirsi disturbata e volli interpretare quello sguardo
come un fatto del tutto normale, che il gruppo avrebbe rivolto a chiunque fosse uscito
dal locale. Tre ragazze che stavano fumando una sigaretta, invece, si avvicinarono alla
bambina per salutarla in modo affettuoso, chiedendomi se A. abitasse nella struttura
per richiedenti asilo lì vicino.
Qualche giorno dopo, A. mi disse che voleva portare il suo curriculum al pub;
interpretai quell’intenzione come un feedback dell’esperimento: A. non si era sentita
discriminata al Benny, anche se le reazioni della clientela erano state molteplici.
Probabilmente, più che per il colore della propria pelle, A. era stata oggetto di
attenzione per aver portato con sé una bambina al pub: in pasticceria nessuno avrebbe
fatto caso alla sua presenza.
Rispetto agli altri bar, il Benny Pub è risultato essere il più culturalmente connotato
secondo le caratteristiche descritte nella prima parte del presente lavoro riguardo ai
luoghi terzi. Anche qui, come al Nilo, le persone vengono per sentirsi parte di
qualcosa, ma anche e soprattutto per ritagliarsi un momento per sé, in cui godersi un
attimo di pausa dal resto del mondo, sia da soli che in compagnia di birra e amici, ma
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anche per aprirsi alla possibilità del nuovo. La funzione più importante di questo
locale è esercitata dal bancone, che come una calamita riesce ad attrarre a sé: esso non
vende un’identità o un’appartenenza, ma serve un attimo di libertà.
68
II.5 Il Bar In: un bar In comunità
Figura II.5.1 Mappa del bar In. Disegno dell'autrice (giugno 2018)
69
Il bar In è situato nel cuore della frazione del Comune di Sona con la più alta densità
abitativa. Questo quartiere, pur appartenendo geograficamente all’area di Lugagnano,
si è sempre percepito come una comunità a sé stante, complice la struttura urbanistica
che crea una sorta di corte su cui si affacciano tutte le abitazioni, principalmente
condomini di quattro o cinque piani, tra cui anche due edifici di edilizia popolare, e
villette a schiera. Al centro del perimetro si trova un parco intitolato alla memoria di
un cittadino operoso del quartiere, affiancato da cinque attività commerciali: una
pizzeria, una scuola d’inglese, una parrucchiera, un’azienda di impianti elettrici e il
bar.
L’ingresso si affaccia su un parcheggio pubblico: all’esterno è presente una piccola
area, attualmente in fase di restauro, dove di solito viene disposta la griglia per la
preparazione degli aperitivi tematici del venerdì sera (Figura II.5.2 e II.5.3).
Figura II.5.2 Pubblicizzazione di aperitivi tematici.
70
Figura II.5.3 Veduta esterna del bar In.
La vetrata esterna risulta crepata a causa di un atto vandalico risalente a un paio di
anni fa: da quando ho iniziato a lavorare in quartiere, l’incrinatura si è espansa su tutta
la lunghezza, e non è ancora stata riparata. Davanti alla vetrata, la tenda è stata
sostituita da un’impalcatura di legno che deve essere completata da circa sei mesi.
Pertanto, durante il periodo estivo, era possibile accomodarsi nello spazio esterno, ma
senza un riparo dal sole.
L’interno del bar è piuttosto ristretto e scarno: il bancone occupa buona parte del
locale. Di fronte alla cassa si trova l’area slot, con tre dispositivi; un piccolo séparé
murato divide la zona da una mensola, sovrastata da un enorme specchio a muro. Oltre
71
il lato corto del bancone sono collocati alcuni tavoli, coperti durante gli aperitivi da
una tovaglia a quadretti rossi o bianchi che ricorda quella delle osterie (Figura II.5.4 e
II.5.5).
Figura II.5.4 Interno bar In.
Figura II.5.5 Interno bar In.
72
Dietro al bancone si accede alla cucina, piuttosto stretta, adibita anche a magazzino. Il
bagno, invece, si affaccia sul giardino di uno dei condomini del palazzo, oltre il quale
si trova l'area giochi del parco. Sopra il bar, infatti, ci sono circa quattro appartamenti.
Il bar In è aperto tutti i giorni con orario spezzato, dalle 8 alle 13 e dalle 16 a
mezzanotte, eccetto il lunedì, giorno di riposo, e la domenica, accessibile solo la
mattina. Il locale è attualmente gestito da una giovane coppia marocchina, B. e I.,
subentrati alla precedente conduzione da parte di una donna rumena, la cui attività è
durata per circa un anno. Il bar è noto per essere soggetto a frequenti cambi di
gestione, probabilmente dovuti all’esiguo giro d’affari. B. e I. da qualche mese vivono
a pochi chilometri di distanza dal bar: si sono trasferiti da un’altra zona di Verona per
poter gestire in autonomia l’accompagnamento dei figli a scuola e ad altre attività.
Durante il primo periodo di assestamento, B. e I. organizzavano gli aperitivi a tema
quasi ogni settimana; da maggio 2018 questa pratica è entrata in disuso. Nell'ultimo
anno i clienti del bar si sono lamentati dell'incostanza negli orari di apertura (alle 9
anziché alle 8, alle 17 anziché alle 16) e del fatto che il locale è spesso chiuso per
ferie. Molti residenti hanno iniziato a boicottare volutamente il luogo, chiamando i
carabinieri in forma anonima per mandare dei controlli. Al fine di andare incontro alle
esigenze della clientela, i gestori hanno assunto una dipendente, Y., ragazza
lugagnanense di 20 anni, che per metà del mese di giugno e per tutto luglio si è
occupata da sola del bar.
Mentre B. è nota ai clienti del bar per la sua energia e positività, Y. viene apprezzata
per la puntualità, anche se è considerata eccessivamente seria e incapace di stare alle
battute. I., invece, supporta la moglie nella gestione del locale durante le serate del
week-end, anche se spesso si intrattiene stando dall'altra parte del bancone.
Nonostante il calo di qualità nella gestione del bar, il flusso di clienti non ha subito
troppo il contraccolpo: la mattina prevalgono gli anziani, che si fermano qui per
leggere il giornale, bere un caffè, salutare i vicini di casa, far riposare il cane a metà
passeggiata; i proprietari degli altri esercizi commerciali vicini per una breve pausa a
metà mattina; i liberi professionisti che hanno l'ufficio nei dintorni. Se qualcuno
73
chiede la possibilità di usufruire di pasto per la pausa pranzo, il locale rimane aperto
anche fino alle 14. Nonostante le dimensioni esigue della cucina, al bar In è possibile
degustare, oltre che panini e piadine, anche piatti pronti riscaldati al forno microonde.
Il pomeriggio il locale è quasi sempre deserto, eccetto i ragazzini che ogni tanto
entrano a prendersi un ghiacciolo tra una partita di calcio e l'altra al parco: il momento
di maggior affluenza rimane l'orario di chiusura delle aziende, alle 18 circa, quando il
bar si anima di molti lavoratori all’uscita dall’ufficio, degli stessi anziani del mattino,
di qualche signora che abita nei dintorni per chiacchierare con B. davanti a un calice
di vino bianco. Il prodotto più venduto è sicuramente il caffè, seguito dal bicchiere di
bianco alla spina, dalla birra e dallo spritz. Nelle serate a tema, I. cucina della carne
alla griglia o prepara dei piatti particolari (cozze, polenta e salame, pearà e cotechino)
che la clientela può consumare gratuitamente al bancone. Una volta al mese il bar
diventa sede delle riunioni del Comitato di quartiere, le quali in genere terminano con
una bevuta di gruppo. Durante la sagra di quartiere e gli eventi che si svolgono nel
parco, il bar mette a disposizione la propria toilette e, su richiesta, prepara enormi
caraffe di cocktails per i volontari ad un prezzo di favore. Il maggior frequentatore del
bar In è S., signore di 54 anni benestante, residente nel quartiere da tutta la vita. S. è
noto a tutti per la sua prodigalità: è praticamente impossibile rifiutarsi di bere con lui,
e non lascia mai pagare nessuno. Durante gli eventi di beneficenza a favore del
quartiere, contribuisce molto generosamente: è diventato piuttosto famoso nella
frazione per aver insultato un Sindaco davanti a tutto il bar accusandolo di eccessiva
parsimonia durante una raccolta fondi.
Ad eccezione dei proprietari e dei loro parenti più prossimi, che non esitano a
utilizzare il locale durante la domenica pomeriggio per le feste e i pranzi di famiglia,
nel quartiere non si è mai visto un residente di origini africane o asiatiche (motivo di
vanto per alcuni), ma ogni tanto un ambulante di passaggio abituale si ferma a bere un
caffè, cercando di vendere qualche cianfrusaglia. La sua presenza è tollerata, ma il suo
arrivo non passa mai inosservato.
La particolarità del bar In è che l'argomento principale di cui si parla è il quartiere in
tutte le sue diverse sfaccettature, dal gossip locale agli eventi più dolorosi, dai piccoli
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furti alle vite degli inquilini dei palazzi di edilizia pubblica, dal Sindaco all'erba alta
nel parco. In nessun altro bar il tema delle elezioni amministrative è stato più
dibattuto.
Una delle ragioni per cui questo avviene è la mia presenza, poiché la zona del bar In è
quella in cui lavoro di più, soprattutto per supportare gli abitanti dei palazzi di edilizia
pubblica nella gestione della vita quotidiana e il Comitato di quartiere
nell'organizzazione di eventi. A tal proposito, ritengo utile riportare integralmente
l'osservazione di una delle prime riunioni a cui ho partecipato (Allegato 1), svoltasi
nell'ottobre del 2017.
ALLEGATO 1. RIUNIONE COMITATO DI QUARTIERE – 12.10.2017
All’interno del quartiere dove lavoro come educatrice per un progetto di sviluppo di
comunità locale è nato un Comitato di Quartiere, composto da 12 membri, con il
supporto dell'educatore che mi ha preceduto nel ruolo, oggi divenuto mio
coordinatore.
Incontro tutti i componenti del gruppo insieme al coordinamento presso l'unico bar
del quartiere.
Di fatto, non essendo presente alcuno spazio pubblico al chiuso nel raggio di un
chilometro, rappresenta l’unico luogo di incontro per i residenti della zona durante il
periodo invernale.
Quando arrivo sul posto, alle ore 21 di un giovedì sera, sono presenti circa sei
persone, di cui due membri del comitato. Tutti si conoscono e il barista conosce loro.
Man mano che arrivano i componenti del gruppo, il barista chiede al leader dove
intendiamo sistemarci, mostrando che aveva già unito alcuni tavoli prima del nostro
arrivo.
Durante la riunione si scatenano le tipiche dinamiche di gruppo informale: ciascuno
assume più o meno inconsciamente il proprio ruolo (Al. il leader di fatto, An. il
presidente ufficiale, F. l’incerto, T. il volenteroso, G. la segretaria-mediatrice, M.il
polemico, E. il finto indifferente, N.il diplomatico). La nostra posizione favorisce il
confronto triangolare tra Al. e T.-M., sostenuto dalla propria compagna, G.E. e F., a
75
capotavola, tendono a non partecipare attivamente mentre io e N. cerchiamo di
mantenere degli equilibri in modo alternato: N. riportando all’ordine toni e discorsi,
io chiedendo delle brevi sintesi alla fine di ogni argomento dell’odg, cercando di
introdurmi senza essere invasiva, considerata la mia posizione e la fase ancora
iniziale della relazione di fiducia avviata con il Comitato.
Disposizione al tavolo:
Diplomatico Presidente Volenteroso
Incerto
Leader
Indifferente
Polemico Io Mediatrice
Le tensioni personali vengono attutite attraverso la consumazione dei prodotti (quasi
tutti alcolici), le pause sigarette a turno e gli insulti scherzosi rivolti al barista, che
funge da capro espiatorio su cui il Comitato può fare affidamento per ritrovare
l’unanimità. Il leader si reca perfino dietro il bancone per preparare la propria
bibita, non tanto per delegittimare il suo ruolo, quanto più per fortificare l’effetto
goliardico del gioco. Nonostante le origini marocchine del barista, che potrebbero
infastidire qualcuno dei presenti, nessuno disconosce la sua appartenenza alla
comunità.
Durante la discussione, M. esprime la propria perplessità sul fatto di trovarsi in un
bar per le riunioni, poiché luogo privo di privacy. Al. concorda, ma non sulle
motivazioni: ritiene che il bar non aiuti a collocare le riunioni nel contesto
opportuno, e cita l’esempio degli Alpini, di cui è membro, i quali, durante i loro
incontri, non bevono nulla fino al termine della discussione di ogni punto dell’odg. In
breve, identificano il bar come un luogo “poco serio”. Perché? Ipotizzo che il motivo
principale sia legato al fatto che quel bar rappresenta per loro il luogo del relax al
termine della giornata lavorativa, e pertanto non possiedono sufficienti strumenti
76
cognitivi per identificarlo altrimenti. Come dice giustamente Hannerz, “la
differenziazione dell’ambito della ricreazione, che presenta difficoltà concettuali in
quanto tende a trasformarsi in una categoria residuale dei rapporti sociali, non può
essere facilmente collegata a trasformazioni sociali”(Hannerz, 1992: 212).
Il barista, che ascolta a tratti i nostri discorsi, si propone di offrire il proprio
supporto in qualità di membro del quartiere per la gestione di una piccola mansione
(chiusura del parco retrostante) e di altre iniziative da noi proposte: il suo interesse
è anche utilitaristico, considerato l’incremento dei guadagni del locale durante feste
ed eventi.
Al termine della riunione, tutti i membri si ritrovano all’esterno per fumare,
passando progressivamente da una fase di responsabilità a una di relax. Ciascuno
abbozza una propria teoria sul perché i giovani siano disinteressati alle attività del
quartiere, che confluisce presto in un Amarcord di ricordi risalenti al periodo
adolescenziale, attraversato da piccole bravate e lotte tra bande giovanili.
Quando pago il conto, i membri del Comitato mi dimostrano un mix di gratitudine e
fastidio, non so quanto dettato dal galateo o dal maschilismo.
Dalla registrazione emerge in modo abbastanza chiaro il ruolo che il bar ricopre
all'interno della comunità: esso rappresenta uno spazio necessario, ma non ancora
sufficiente. Per i membri del Comitato, per esempio, il locale non è il luogo adatto per
le riunioni, perché la loro modalità d'uso abituale si colloca ad un altro livello di
funzione (relax, svago). Eppure, l'argomento di conversazione è sempre il medesimo:
il quartiere. Ciò che differisce è l'atteggiamento: al bar per il Comitato si pratica la
cultura del lamento e dello sfogo, accompagnato da numerosi giri di birra: una
riunione, per quanto informale, comporta una forma di impegno e di assunzione di
responsabilità. La chiusura del quartiere si manifesta quindi anche nell'approccio d'uso
dello spazio: lo svago e l'impegno sono difficilmente conciliabili.
Dall'intervista a Y., la dipendente neoassunta, emerge chiaramente che il quartiere è
un argomento di discussione preponderante a prescindere dalla mia presenza: "qui la
gente parla sempre della propria triste vita nel quartiere, dei ragazzini che fanno
77
casino al parco, degli strani personaggi che abitano al cubo (il soprannome del
condominio di edilizia popolare, n.d.r.). A volte sembra quasi che fuori dal quartiere
non esista nient'altro". Anche per chi non abita in zona è così: secondo il resto di
Lugagnano, chi è del quartiere del bar In, resta nel quartiere del bar In. Questa è la
ragione principale per cui i rari "foresti" (forestieri) sono sempre oggetto di
osservazione da parte degli abitanti, e il motivo per cui i residenti sono stanchi
dell'incostanza degli orari del bar: gli spazi pubblici rappresentano per loro il simbolo
della propria appartenenza geografica, civica, affettiva. Il bar non è percepito come un
esercizio commerciale, ma come un esercizio (al servizio del) pubblico, esattamente
come può essere considerato l'ufficio postale o l'anagrafe; esso è il nodo principale
della rete, il ragno che tesse la tela, una tela fragile che deve essere continuamente
rinforzata e ridefinita. Le persone che frequentano il bar In vogliono sentirsi parte di
una comunità che rischia di morire.
A proposito della morte, un’altra osservazione particolarmente significativa è
avvenuta nel mese di giugno, poco dopo l’uscita dei risultati delle elezioni
amministrative. La frazione è stata colpita da un grave lutto, un assiduo frequentatore
del bar In, toltosi la vita nel proprio garage. Per tutta la settimana successiva,
l’affluenza al bar è stata più corposa: le persone avvertivano l’esigenza di
commemorare “l’amico” con un bicchiere, ricordandone i momenti più divertenti e
cercando di capire le ragioni di quel gesto. “Diceva sempre che una sera si sarebbe
ucciso, non pensavo che l’avrebbe fatto sul serio”. Il Comitato di quartiere ha pensato
per l’occasione di organizzare una grigliata di comunità in suo onore, ma non tutti i
membri erano d’accordo, soprattutto per ragioni etiche. Sta di fatto che, più o meno
consciamente, il vicinato ha avvertito l’esigenza di unirsi in lutto al bar In.
Non sono riuscita a delimitare il tempo della ricerca al bar In proprio per questa
ragione: la difficoltà a non sentirmi parte della comunità, a esercitare il ruolo di
osservatrice esterna. Alle radici di questa criticità sta una parziale incapacità a
scindere la vita personale da quella professionale, al punto che nell'ultimo anno ho
passato al bar In anche parte del mio "tempo libero". Se sono riuscita a farmi rispettare
come educatrice e come donna all'interno di un quartiere chiuso e multiproblematico è
78
proprio grazie al bar, in cui ho avuto la possibilità di abbassare i muri della diffidenza
e costruire quei legami deboli alla base di ogni possibile rapporto di fiducia sociale e
collettiva. E se i membri del Comitato di quartiere, rappresentanti di una cultura
provinciale e a tratti sessista, hanno imparato a riconoscere il mio ruolo, è grazie alle
mie competenze trasversali sui bar, alla mia "gioventù bruciata". Andavo al bar per
tutte le ragioni per cui le persone vanno al bar: e ora vado al bar per dare un senso al
mio vissuto attraverso il mio lavoro, motivo per il quale ho voluto fare questa ricerca.
79
II.6 Considerazioni finali
Dalla ricerca emerge chiaramente che i bar sono ancora esercizi di sociabilité diffusa e
che, nonostante la vicinanza geografica, questi spazi pubblici conservano una propria
specificità e cultura. I bar sono frequentati maggiormente da persone di sesso
maschile, ma tra i giovani figurano anche tante ragazze. Al bar si va da soli, in
compagnia o per trovarsi in compagnia. Spesso i bar hanno gli stessi clienti, ma
cambiano le motivazioni per cui il consumatore sceglie un locale piuttosto che un altro
in quello specifico momento: al Clan si va per giocare o per condividere tacitamente
un male comune; al Nilo per sentirsi a casa; al Benny Pub per bere della buona birra o
per rilassarsi e incontrare gli amici; all'In per rafforzare il senso di comunità.
Tutte queste motivazioni sono accomunate da un desiderio tanto semplice quanto
antico: sentirsi meno soli. L'uomo in quanto tale è un animale sociale, che rischia ogni
giorno di più di diventare solo più social: se un tempo il bar o, meglio, il caffé,
rappresentava uno degli apici dell'espressione civica, oggi possiamo considerare la sua
versione contemporanea come uno dei baluardi della resistenza sociale. In altre parole:
la disaggregazione sociale ha raggiunto livelli tali per cui anche solo sentire ancora la
necessità di trovarsi nello stesso posto insieme ad altri esseri umani più o meno
sconosciuti è un enorme atto di umanità.
Tuttavia, il mio posizionamento all’interno della ricerca mi ha messo di fronte a
molteplici dilemmi. La duplice finalità rispetto all’esperienza sul campo (quella di fare
una ricerca etnografica e allo stesso tempo pensare a delle azioni educative) ha
amplificato nelle mie riflessioni le considerazioni di Simmel e di Hannerz sui limiti
della ricerca. Secondo Simmel, infatti, “diventa ipocrisia se questa manifestazione
(andare al bar, n.d.r.) è comandata da fini diversi da quelli della naturale attitudine alla
socievolezza o se li cancella – cosa che accade facilmente quando intrecciamo
sociabilité e vita reale -” (Simmel, 1981: 129). Hannerz, invece, aggiunge
un’osservazione relativa alla postura dell’antropologo nella ricerca urbana che
esprime in modo esaustivo le difficoltà riscontrate a livello personale durante
l’esperienza sul campo (Hannerz, 1992: 314):
80
“le società urbane, e in generale le società complesse, in cui
l’antropologo conduce le sue ricerche, sono spesso culturalmente simili
alla società da cui egli proviene (quando non si tratta proprio di questa)
piuttosto che le società tradizionali di piccole dimensioni. La struttura
istituzionale appare allora meno problematica; per il bene e per il male,
essa è addirittura “data per scontata”, considerata come un dato ai fini
dell’analisi. D’altra parte, stante la grande famigliarità culturale,
l’antropologo si identifica più facilmente con gli attori sociali che
osserva, individua più rapidamente gli sforzi compiuti per indirizzare le
risorse che la società offre a loro profitto e comprenderne bene gli aspetti
personali, sociali e culturali. Sempre più spesso egli si trova coinvolto
nelle strategie più o meno sofisticate degli individui, sia come elemento
che contribuisce alla soluzione, o come parte, dei loro problemi. Così
l’antropologo, divenuto strumento di ricerca, è più sensibile ai fenomeni
che si sviluppano nel nuovo ambiente.”
Durante la ricerca, infatti, ho sviluppato dei legami personali simili a quelli che potrei
avere nella vita privata, al punto tale che tuttora trascorro del tempo in tali ambienti.
La difficoltà principale è stata quella di riuscire a osservare in modo più puntuale
manifestazioni di una “cultura del bar” che io “do per scontata”, non solo perché
appartengo al tessuto urbano, ma anche perché ho trascorso molto tempo nei bar in
passato. Pertanto, fingere di adeguarmi a una presunta inclinazione razzista, come
accaduto all’interno del Benny Pub, mi ha profondamente turbata, poiché stavo
contemporaneamente mettendo alla prova il luogo in cui ero e esibendo un’immagine
personale che non mi appartiene. Ho provato un forte senso di disagio per aver dato
un’idea di me a me estranea, per fini che non erano previsti dalla ricerca: ho forzato
un’osservazione e un’identità.
Anche l’utilizzo delle immagini Instagram dei ragazzi del Nilo, che tanto mi hanno
ricordato le dinamiche personali vissute durante l’adolescenza, è per me fonte di
turbamento: mi sento come se stessi tradendo la loro fiducia. Eppure, erano stati messi
al corrente dello scopo della mia presenza all’interno dei bar del paese, a differenza
della proprietaria del bar Nilo; la ragione per cui avverto questo disagio è da
individuare nella dinamica ben enunciata da Hannerz: fare ricerca in un contesto cui il
ricercatore appartiene culturalmente (e, nel mio caso, anche professionalmente) rischia
81
di mettere l’agente in difficoltà emotiva e di compromettere i risultati della ricerca
stessa, privandola di alcune considerazioni che possono essere date per scontate.
Ciononostante, l’indagine etnografica si è rivelata uno strumento utile per il mio
lavoro educativo all’interno della comunità.
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III. IL BAR: UN LUOGO DI SPERIMENTAZIONE EDUCATIVA
"Da antiche e nobili palestre di virtù civiche i bar diventano allora straordinarie scuole di vita, dove
sperimentare le proprie capacità non solo di socievolezza e savoir-faire ma anche di resistenza, lotta,
aggressività nei confronti di amici e nemici, conosciuti e sconosciuti, di affermazione di se stessi, perché se è
vero che i luoghi terzi e più in generale quelli pubblici si pongono in alternativa al mondo privato e a quello del
lavoro e della scuola (cioè gli ambiti privilegiati della disciplina, della formazione ed educazione dell'essere
umano) è altrettanto indubbio che anche in essi si determinano il carattere, gli atteggiamenti, i comportamenti
degli individui stessi."
(Giampaolo Nuvolati)
III.1 Dall’etnografia all’azione educativa
Sostenere che il bar può fungere da luogo educativo suona probabilmente come una
follia; tuttavia, sulla base dell’esperienza vissuta sul campo durante la ricerca
etnografica, ho avuto modo di sperimentare alcune attività che hanno prodotto un
valore pedagogico, funzionale alla mia professione.
Esporrò di seguito due esempi: il primo è un evento realizzato presso il Benny Pub,
finalizzato a coinvolgere maggiormente i giovani nelle iniziative promosse dal
Comune, quali Servizio Civile, Bandi per finanziare attività di utilità sociale,
educativa o artistica, e così via (Allegato 2).
Il secondo esempio invece riguarda il Bar In, e la sua capacità di mettere in piedi in
modo autonomo un’iniziativa di utilità per la comunità (Allegato 3).
ALLEGATO 2. REPORT “UN APE FUORI DAL COMUNE” - 15.06.2018
Partecipanti: 15
8 giovani di Lugagnano, 3 signore che frequentano l’Università popolare,
l’Assessore alle politiche sociali, gli educatori territoriali.
Il 15 Giugno a Lugagnano, presso il Benny Pub, il progetto ABC, in collaborazione
con il Comune di Sona, ha offerto un aperitivo a tutti i giovani del territorio.
L’aperitivo è stata l’occasione per promuovere, all’interno di un contesto conviviale
e informale, tutte le attività che il Comune organizza per sostenere i giovani in
83
attività culturali ed educative, riconosciute economicamente o svolte a titolo
volontario. Il Comune di Sona ospita, infatti, da anni iniziative molto innovative, ma
che spesso i ragazzi del territorio non colgono.
Dopo un breve confronto risalente ad Agosto 2017, il Consigliere con delega alle
politiche giovanili esprimeva il desiderio di estendere maggiormente le attività
promosse dal Comune alla frazione di Lugagnano, che ha sempre aderito poco alle
iniziative per i giovani, in termini proporzionali. In accordo con l’operatrice ABC, si
sono attivati per trovare delle modalità di aggancio ai giovani del territorio in cui
l’ABC è attualmente operativo.
L’operatrice ABC si è confrontata con
un’educatrice, residente del quartiere, per capire come procedere, partendo da una
riflessione generale sulla criticità relativa alla scarsa adesione dei ragazzi di
Lugagnano ai progetti del territorio. A suo avviso, i giovani sono poco agganciati
perché non informati e non abituati a ragionare come cittadini attivi. Hanno pertanto
ritenuto opportuno organizzare un aperitivo offerto presso il pub più frequentato dai
ragazzi di Lugagnano, allo scopo di creare una situazione informale e conviviale in
cui promuovere le attività.
Hanno creato un gruppo Whatsapp inserendo tutti i contatti di giovani che
conoscevano di Lugagnano (diciotto partecipanti), e promosso l’evento all’interno di
canali istituzionali, social media, manifesti, per rendere la comunicazione più
capillare possibile. È stata concordata la data del 15 giugno, durante il periodo di
uscita di due bandi per i giovani. Nel frattempo, l’operatrice ABC ha aiutato tre
giovani di Lugagnano a compilare la documentazione relativa ad un bando,
spronandoli a immaginare dei progetti da svolgersi all’interno della Sala Lettura di
Lugagnano.
La sera dell’aperitivo si sono presentati otto giovani residenti di Lugagnano, di cui
sette già noti all’operatrice. È stato creato un punto informativo con opuscoli
riassuntivi e sintetici, una postazione Internet per l’eventuale attivazione di Carte
Giovani. 1 ragazza si è mostrata molto interessata; due giovani non hanno mostrato
interesse per i bandi, poiché lavoratori, ma curiosità verso la Carta Giovani, che
offre agevolazioni e corsi di vario genere. Gli altri ragazzi che hanno partecipato
84
sono già molto attivi all’interno del territorio. Le tre signore, seppur non
direttamente interessate, hanno mostrato curiosità per le iniziative rivolte ai ragazzi.
L’adesione all’aperitivo è stata al di sotto delle aspettative, considerato l’ampio
investimento a livello comunicativo; tuttavia, la chiacchierata informale e
informativa sulle iniziative del territorio si è mostrata comunque efficace, poiché la
presenza di un numero ristretto di persone ha consentito all’operatrice ABC di
sensibilizzare in modo più puntuale i potenziali interessati. Ad esempio, la ragione
per cui la ragazza non si era mai informata sui bandi presenti del territorio è che,
studiando in un’altra città, credeva di non poter svolgere alcuna mansione.
L’operatrice pertanto ha sottolineato che alcuni bandi prevedono un impegno
settimanale orario molto più flessibile rispetto, per esempio, al Servizio Civile.
Pertanto, l’ipotesi di partenza è stata confermata (mancanza di informazione e di
iniziativa). Resta da capire come riuscire ad agganciare in modo quantitativamente
più significativo i giovani che non sono ancora propriamente attivi sul territorio.
Figura III.1 Serata evento "Un ape fuori dal Comune".
85
Dal report si evince chiaramente che l’adesione all’attività non ha riscosso una grande
partecipazione, in termini numerici: i ragazzi del Nilo, ad esempio, non si sono
presentati, nonostante fosse offerto un aperitivo gratuito. Le ragioni di quest’assenza
sono state principalmente due: la prima, che “gli altri non volevano”, e la compagnia
è abituata a muoversi in gruppo; la seconda, il fatto che il Benny non è il loro bar.
Questa motivazione conferma la teoria secondo cui il bar non vende aperitivi, ma
relazioni umane (Desjeux et al., 1999: 9).
ALLEGATO 3. COMUNICATO STAMPA: AL BAR IN ARRIVA IL COMPUTER
SOLIDALE
Da settembre 2018 presso il bar In di Lugagnano di Sona è attivo un nuovo servizio
promosso dai gestori del locale. Si tratta della possibilità, per la clientela, di
accedere gratuitamente a un pc messo a disposizione all’interno del bar, con tanto di
stampante a colori.
“Avevamo un computer che non utilizzavamo, dentro il locale abbiamo il wi-fi
gratuito e spesso vediamo signori anziani in difficoltà nell’accesso ad alcuni servizi
che oggi sono facilmente fruibili online. Abbiamo pensato di mettere insieme le
cose”, racconta B., la proprietaria del bar.
“Da oggi le persone che verranno all’In, oltre a poter consumare un caffè o un
aperitivo, potranno accedere gratuitamente al computer con il nostro supporto:
vicino alla postazione metteremo un salvadanaio ad offerta libera per chiunque
voglia contribuire alle spese di cancelleria (cartucce, carta, manutenzione). Ci
sembra di fare una cosa bella, utile, e che non costa quasi nulla”.
L’iniziativa si iscrive all’interno di quelle azioni di sviluppo di comunità che partono
dagli stessi cittadini, fortemente sostenute dall’Amministrazione Comunale sul
territorio negli ultimi anni.
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Figura III.2 Installazione del computer solidale al bar In.
Tra tutti i bar presi in esame, il bar In è quello che è stato maggiormente coinvolto
nelle attività promosse all’interno del progetto di sviluppo di comunità, sia per la sua
posizione geografica, sia per necessità (la mancanza di uno spazio pubblico
alternativo). Questo esempio incarna alla perfezione il detto “fare di necessità virtù”:
il contatto costante e continuo con i processi comunitari sviluppati negli ultimi anni
inizia a mostrare alcuni segni di cambiamento culturale, riscontrabili nell’autonoma
capacità del personale del bar di mettere a disposizione le proprie risorse per creare
uno strumento educativo nuovo (in questo caso destinato principalmente agli anziani),
funzionale ai bisogni del territorio stesso. Un’idea di questo tipo, infatti, non avrebbe
avuto utilità al Benny Pub, ad esempio, considerate la tipologia di clientela e
l’ubicazione. Al contrario, B. e I. hanno saputo mettere in atto, a livello più o meno
conscio, una lettura del bisogno in chiave comunitaria.
I due esempi sopra riportati sono solo alcuni dei processi messi in atto negli ultimi
mesi nei bar presi in esame in chiave educativa. Prima, durante e dopo la ricerca il bar
è stato anche setting per la revisione di gruppo dei curriculum di alcuni ventenni,
spazio di rieducazione alla sociabilité per un ragazzo con problemi psichiatrici, luogo
di incontro per adolescenti desiderose di realizzare un evento contro la violenza sulle
87
donne, sede di confessioni dolorose, talvolta anche da parte dei gestori stessi: tutti
questi eventi possono essere letti in una prospettiva pedagogica – educativa di
comunità.
88
III. 2 Pedagogia di comunità: al bar e oltre
“Non si tratta di attribuire in modo superficiale una patente di legittimità educativa al
bar, né di farlo diventare a tutti i costi luogo di Cultura; ma nemmeno di chiudere gli
occhi bollando a priori come negativa una delle agenzie del tempo libero più
frequentate” (Farné, Frabboni, 1987: 10). Nel testo Al bar e oltre, gli autori cercano
di mettere in evidenza gli aspetti che un bar può assumere dal punto di vista
pedagogico. Non è un caso che queste riflessioni risalgano agli anni ‘80 del
Novecento, periodo storico segnato da un grande investimento nell’educativa di strada
e nell’autodidattica, che si collocano idealmente all’opposto dell’educazione
scolastica, programmata, sottoposta a verifiche e controlli, impartita in spazi e tempi
definiti. Perché quindi i bar possono interessarci? Perché sono luoghi di scambio di
informazioni, vissuti emozionali: in altre parole, di educazione informale e
permanente, visto che vengono frequentati dagli adolescenti agli anziani. Oltre a ciò,
al bar anche un educatore può formarsi: come sostiene Mortari (Mortari, 2004: 20)
“nella formazione dei pratici va riconosciuta la primarietà della pratica del pensare da
sé a partire da sé, cioè dalla propria esperienza. Partire da sé significa avere il
coraggio di sottrarre il pensare dalle versioni già dette del mondo, (…) e azzardare la
ricerca di altre partiture di pensiero”. In tal senso, enunciando come secondo obiettivo
della ricerca etnografica la necessità di rispondere alla domanda “perché andavo al
bar?”, intendevo esprimere il bisogno di capire come un educatore può inserirsi
all’interno dei contesti informali, di quegli spazi pubblici che sfuggono
completamente al controllo, per sperimentare nuove forme di approccio relazionale.
Da quando ho iniziato a lavorare in questo ambito, infatti, ho notato che i giovani
percepiscono gli educatori come dei “professori di seconda classe” con un approccio
direttivo. Lungi dal credere che il rapporto educativo possa divenire simmetrico, credo
tuttavia che al bar un educatore possa allenarsi ad adottare diverse modalità operative.
In tal modo, il bar può diventare contemporaneamente scuola di vita e scuola di
professione; laboratorio di formazione permanente di identità sociale e professionale.
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Sul piano pedagogico la formazione nella nostra epoca assume un ruolo fondamentale,
perché si incontra/scontra con la problematicità della stessa identità personale e del sé,
e va pertanto intesa come un processo di costruzione della persona, il cui obiettivo è
sempre suscettibile di cambiamenti, anche e soprattutto in relazione con l’altro da sé
(Celaia, 2015).
In Pedagogia degli oppressi, Freire sostiene che “il nostro compito non è parlare al
popolo circa la nostra visione del mondo, o tentare di imporgliela, ma dialogare con
lui circa la sua e la nostra. Dobbiamo convincerci che la sua visione del mondo, che si
manifesta nelle varie forme della sua azione, riflette la sua situazione nel mondo.
L’azione educativa e l’azione politica non possono prescindere dalla conoscenza
critica di questa situazione” (Freire, 2011: 87). Seppur in termini oggi ritenuti
obsoleti, Freire esprime un concetto molto attuale: la necessità che l’azione educativa
assuma un valore trasformativo in chiave politica, nel senso più genuino del termine.
In ambito pedagogico, questa riflessione è stata elaborata soprattutto nel ramo della
pedagogia di comunità (Catarci, 2013; Palmieri, 2012; Tramma, 2009).
Per comunità intendiamo una collettività i cui membri agiscono reciprocamente gli uni
nei confronti di altri, quando la coscienza di comuni interessi, il senso di appartenenza
e le relazioni sociali diventano fattori di solidarietà: tale concezione non esclude la
possibilità che all’interno della comunità si manifestino forme di dominio e di
conflittualità (Tramma, 2009: 81).
Come sottolinea giustamente Tramma, la comunità e il suo sviluppo non sono da
considerare come qualcosa di positivo in sé, ma come un’opportunità per rispondere al
bisogno individuale di appartenenza in un’epoca di crisi dello Stato sociale. Il lavoro
di comunità è a pieno titolo una prassi educativa, poiché “è un insieme di attività che
producono apprendimento, cioè educazione, quindi l’oggetto d’attenzione proprio
della pedagogia” (ivi: 96). La comunità è da intendersi come un’agenzia di
socializzazione contraddittoria, poiché, soprattutto all’interno di una società
complessa e multipla come quella attuale, la comunità non sempre è in grado di offrire
qualità e direzione alla socializzazione. Pertanto, ancor prima di affrontare i temi del
cosa e del come, la pedagogia di comunità deve rispondere alla questione de se e del
90
perché favorire lo sviluppo di comunità. Nei bar presi in analisi nella ricerca
etnografica, per esempio, considerati come spazi pubblici in cui ha luogo la
sociabilité, si evince che la questione del sentirsi parte di una comunità è
problematizzata dagli stessi frequentatori, ma in modi spesso non inclusivi. Risulta
quindi necessario capire se agire in modo da potenziare o depotenziare alcune
dinamiche che avvengono al suo interno. L’educatore che si occupa di sviluppo di
comunità è quindi chiamato a mantenere un basso profilo e un “understatement
pedagogico” (ivi: 106), cioè a rifuggire dal senso di onnipotenza e dalla convinzione
didattica che a metodo corrisponde risultato. Le azioni educative all’interno dei
territori, bar compresi, non dovrebbero essere condotte sulla base di un acritico
sviluppo comunitario, ma dovrebbero soltanto facilitare e accompagnare processi
collettivi già in atto, soprattutto quando riguardano situazioni di disagio.
Se riusciamo a considerare il disagio come una situazione formativa in cui l’essere
umano sperimenta la propria capacità di resilienza, la pedagogia può offrire il proprio
contributo nella lettura dei meccanismi e delle rappresentazioni che l’individuo mette
in atto per affrontare quelle condizioni, e quindi portare alla luce gli apprendimenti
informali generati dal disagio stesso. Il bar, spesso teatro di disagio diffuso, diventa
pertanto un luogo potenzialmente educativo, anche laddove la relazione educativa non
è immediatamente riconoscibile (Catarci, 2013).
L’educazione e la sociabilité sono pertanto beni fondamentali per una comunità,
poiché coniugano le esigenze di sviluppo economico con la qualità della vita delle
persone. La trasformazione sociale e il superamento del disagio rappresentano
l’orizzonte di significato del lavoro educativo di comunità, poiché attraverso il dialogo
quotidiano negli spazi pubblici incoraggia l’apprendimento al problem solving e
rafforza la capacità di perseguire obiettivi comuni.
91
CONCLUSIONE
“Imparare a esprimere la propria creatività, la propria espressività e al tempo stesso il bisogno di essere o fare
qualcosa insieme agli altri, in spazi che non sono terra di nessuno ma spazi del pubblico e quindi sottoposti a
regole, può sviluppare l’apprendimento di forme di urbanità e convivenza.”
(Gabriella Turnaturi)
Diversamente dall’introduzione al presente lavoro, iniziato con una frase ad effetto, ho
deciso di concludere con una citazione alquanto sobria e di basso profilo, per cercare
di rendere l’idea del percorso riflessivo che l’esperienza di ricerca ha generato.
Se da un lato lo studio antropologico del tema mi ha offerto gli strumenti teorici e
operativi adeguati per affrontare l’etnografia dei bar con postura critica, dall’altro il
salto pedagogico mi ha permesso di ridimensionare e ricollocare i risultati della
ricerca stessa. Adottare un atteggiamento riflessivo nell’operatività professionale
quotidiana comporta un’enorme fatica, poiché problematizza tutte le osservazioni,
sempre cariche di teoria, ma allo stesso tempo rischia di svalutarle e giudicarle poco
significative. Ogni esperienza di ricerca è significativa, perlomeno per il ricercatore. E
così è stato per me che, sperimentandomi in un ruolo a me estraneo, ho avuto modo di
dare un senso sistemico e unitario al mio percorso universitario, congiuntamente
all’attività lavorativa.
Contrariamente a quello che pensavo, condurre una ricerca etnografica in un ambiente
a me noto come quello del bar non mi ha messo a mio agio, poiché ha suscitato in me
diversi dilemmi etici e ha amplificato la mia sensibilità emotiva, mettendomi in una
condizione di rischio ulteriore ben nota ai professionisti della cura: la sovrapposizione
tra vita privata e vita professionale. Tuttavia, essa mi ha permesso di dare senso a un
mio pregresso vissuto adolescenziale: al bar non ci si sente isolati.
Se la ricerca etnografica mi ha offerto degli strumenti di lavoro in ambito educativo, è
anche vero che le azioni educative condotte sul campo non possono essere lette con un
atteggiamento onnipotente: il bar non è luogo educativo, ma può diventare spazio di
socializzazione trasformativo. Per questa ragione l’obiettivo ultimo della mia tesi non
è quello di dimostrare il significato educativo del bar, ma solo di lasciare una traccia
riflessiva in chiave pedagogica su quello che può essere, e può diventare, il lavoro
educativo, auspicando che in futuro i professionisti sul campo riescano a integrare,
92
con il supporto dei teorici, tutti gli ambiti dell’educazione possibili, formali, non
formali o informali che siano, utilizzando di volta in volta metodi, tecniche e
strumenti funzionali al contesto in cui si opera e alle persone con cui si entra in
contatto ogni giorno: solo così l’educazione acquisisce valore trasformativo a 360
gradi.
93
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