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28 Suggerimenti Didattici Per Bambini Ed Adulti Affetti Da Autismo - Temple Grandin

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AUTISMO E COMUNICAZIONE FACILITATA
La scelta del tema di questa tesi, "L'autismo e la Comunicazione Facilitata", è dovuta, da una parte,
al fatto che ho vissuto da vicino il contatto con un soggetto autistico nel corso nella mia esperienza
di insegnante di sostegno e, dall'altra parte, al fatto che quel bambino faceva uso proprio della
Comunicazione Facilitata.
Il mondo dell'autismo mi ha fin da subito affascinato, nonostante non fosse facile rapportarvisi, e
anche la strategia della Comunicazione Facilitata mi ha catturato l'attenzione un po' per i risultati
che sembrava offrire e un po' per le controversie che si trascina dietro, dinanzi alle quali desideravo
acquisire una mia posizione nella maniera più critica possibile.
Ho affrontato quindi l'argomento dell'autismo proprio nell'ottica di collocarvi poi l'intuizione, il
metodo, le potenzialità e le problematiche connesse al mondo della Comunicazione Facilitata.
Sono partita, innanzitutto, da una buona panoramica sull'autismo in generale, a cominciare
dall'evoluzione storica del concetto stesso di autismo. Ho poi presentato quanto affermano le varie
teorie circa le ipotesi eziologiche e le strategie di intervento nei confronti di questa Sindrome; ho
così presentato quanto offrono le teorie psicodinamiche, le teorie organicistiche, le teorie sistemicorelazionali, le teorie cognitive, le teorie cognitivo-comportamentali e infine le teorie etologiche.
La seconda parte della tesi è dedicata interamente alla Comunicazione Facilitata. Viene ricostruita
la nascita e il percorso storico di questa strategia, nonché la sua diffusione in Europa e in Italia,
dopodiché si entra nel vivo della questione presentando il metodo della Comunicazione Facilitata e
il ruolo del facilitatore. Si espongono gli elementi di base della tecnica e i risultati a cui essa ha
portato in coloro che l'hanno affrontata.
Dato che la Comunicazione Facilitata è finalizzata alla produzione di scritti mediante delle
macchine, ho presentato anche le caratteristiche dei mezzi informatici o elettronici di cui questa
strategia solitamente si avvale. Infine, ma non meno importante, ho toccato l'argomento
"Comunicazione Facilitata e scuola", dato che è questo il settore in cui eventualmente mi posso
ritrovare a contatto con l'autismo e/o la Comunicazione Facilitata in qualità di insegnante di
sostegno.
Dopo questa seconda parte, presento la declinazione del mio tema nell'esposizione del caso di un
soggetto autistico che fa uso della Comunicazione Facilitata, col quale ho avuto a che fare sempre
come insegnante di sostegno. Ne presento il Profilo Dinamico Funzionale e il Piano Educativo
Personalizzato, allegandone la documentazione.
Nell'ultima parte della tesi pongo le mie considerazioni personali, sia riguardo il tema dell'autismo
e la Comunicazione Facilitata, sia riguardo la mia esperienza concreta nei confronti del bambino
autistico con cui l'ho sperimentata.
Evoluzione storica del concetto di autismo
Primi quadri diagnostici
Fu Kanner, nel 1943, ad adottare ufficialmente il termine di autismo per indicare una specifica
Sindrome da lui osservata in 11 bambini che chiamò autismo precoce infantile (in realtà il termine
autismo era già stato però utilizzato nel 1908 da Bleuler, in riferimento ad una particolare forma di
problema che egli descriveva in termini di "ritiro dal mondo").
Kanner descrisse i suoi piccoli pazienti come tendenti all'isolamento, "autosufficienti",
"felicissimi se lasciati soli", "come in un guscio", poco reattivi in ambito relazionale. Alcuni
apparivano funzionalmente muti o con linguaggio ecolalico; altri mostravano una caratteristica
inversione pronominale (il "tu" per riferirsi a loro stessi e l' "io" per riferirsi all'altro), facevano cioè
uso dei pronomi così come li avevano sentiti.
Molti avevano una paura ossessiva che avvenisse qualche cambiamento nell'ambiente circostante,
mentre alcuni presentavano specifiche abilità molto sviluppate isolate (memoria di date,
ricostruzione di puzzles, ecc.) accanto però ad un ritardo generale.
Kanner fece delle riflessioni anche attorno ai genitori dei bambini con autismo, che gli
sembrarono freddi, intellettuali e poco interessati alle persone.
Quasi contemporaneamente, ma indipendentemente da lui, anche Asperger utilizzò un termine
simile, autistichen psychopathen, per descrivere altri pazienti da lui osservati sorprendentemente
simili anche nella sintomatologia a quelli descritti da Kanner. Egli notò tuttavia tre importanti
differenze: 1) riguardo il linguaggio la presenza di un eloquio scorrevole; 2) riguardo la motricità la
difficoltà nell'esecuzione di movimenti grossolani e non di quelli fini come affermava Kanner; 3)
riguardo la capacità di apprendere, Asperger definiva i pazienti "pensatori astratti", mentre secondo
Kanner essi apprendevano meglio in maniera meccanica.
A causa di ciò si configurarono due quadri diagnostici differenti: l'autismo di Kanner e la
Sindrome di Asperger, anche se la somiglianze tra le due posizioni sono talmente notevoli che più
tardi, nel 1994, Happé si chiede se per caso la Sindrome di Asperger non sia piuttosto un'etichetta
per tutte le persone autistiche con QI relativamente elevato.
Prevalenza dell'approccio psicodinamico
Grazie all'impostazione teorica di Kanner, vent'anni dopo le sue osservazioni, il principale punto
di riferimento nello studio dell'autismo si sviluppò attorno alle teorie psicodinamiche: si iniziò ad
indagare sulla possibilità che vi fosse implicato un rapporto madre-bambino alterato.
Nel 1967 Bettelheim sostenne che il proprio figlio avrebbe percepito nella madre un desiderio
reale o immaginario di annullamento nei suoi confronti, o perlomeno che non fosse mai esistito.
Questa percezione avrebbe fatto precipitare il bambino in una paura di annientamento totale da
parte del mondo, rappresentato interamente per il bambino piccolo proprio dalla madre: l'autismo
scaturirebbe come meccanismo difesa da tutto ciò.
Pur restando sempre alla base del modello psicodinamico, questo concetto subì delle modifiche in
relazione ai sempre crescenti indizi che sembravano implicare un substrato di tipo biologico nella
Sindrome.
Già nel 1959 Goldstein propose infatti di considerare l'autismo come un meccanismo di difesa
secondario ad un deficit organico, paragonabile a quelle reazioni di pazienti cerebrolesi che
sembrano espressione di meccanismi di protezione messi in atto passivamente allo scopo di
salvaguardare l'esistenza del malato in situazioni di pericolo e di angoscia insopportabili.
Verso un approccio organicista
A partire dagli anni '60 il modello psicodinamico fu sempre più accusato di colpevolizzare
ingiustamente i genitori dei bambini con autismo. Questi ultimi, infatti, non mostravano tratti
patologici o di personalità significativamente diversi dai genitori di bambini non affetti da autismo.
Fu Rimland, direttore dell'Autism Research Institute, il primo a sostenere in modo sistematico che
la causa della Sindrome autistica non fossero i genitori, ma che il disturbo avesse piuttosto una base
organica.
Ne scaturì l'approccio organicista, che cercava d'individuare alterazioni morfologiche e funzionali
alla base della Sindrome. Nonostante la varietà di elementi raccolti congruenti con quest'ipotesi,
non ne è stato ancora isolato uno in particolare che possa essere considerato come caratteristico di
tutte le forme di autismo, tanto che attualmente si è portati a credere che non esista un "unico
autismo", ma che in questa categoria siano invece comprese diverse patologie e manifestazioni
sintomatiche provocate da diverse cause organiche.
Verso un accordo diagnostico
Il concetto di autismo ha subito nel corso di mezzo secolo notevoli modifiche, come il passaggio
da un'unica Sindrome, che poteva variare lungo un continuum di gravità crescente, ad uno spettro di
disturbi indicante manifestazioni di sintomi molto diverse.
Ma il cambiamento più rilevante lo si può vedere confrontando le categorie di classificazione del
disturbo utilizzate attualmente dai manuali diagnostici con le precedenti versioni. Precedentemente
l'autismo infatti era compreso tra le psicosi precoci (ad insorgenza prima dei tre anni). Nella nuova
classificazione internazionale, invece, l'autismo è compreso nei disturbi dello sviluppo, con una
componente organica altamente probabile, anche se non ancora individuata con sicurezza.
Data l'alta variabilità delle manifestazioni comportamentali ad esso associate, la classificazione
del disturbo è divenuta più generale. Nel 1987 per questo motivo già nel DSM III-R, in relazione al
modello di Wing e Gould, venivano distinte tre principali aree di alterazione comportamentale:
interazione sociale, comunicazione e repertorio di interessi.
A tutt'oggi l'eziologia dell'autismo rimane comunque perlopiù sconosciuta ed è per questo motivo
che i due manuali diagnostici più utilizzati continuano a basare i criteri di riconoscimento su
indicatori comportamentali.
Indagini epidemiologiche
I dati epidemiologici internazionali riportati in letteratura variano da una incidenza minima del 4,5
su 10.000 ad un massimo di 10-20 su 10.000 a seconda dei criteri diagnostici utilizzati.
Si arriva così ad una stima dello 0,02-0,05 % del disturbo autistico nella popolazione generale; ciò
rappresenta circa un terzo del totale dei Disturbi Generalizzati dello Sviluppo. Considerando la
variabile sesso, i maschi risultano essere più colpiti delle femmine (il rapporto è di 3 a 1).
La prognosi in genere è severa; in particolare, per il disturbo autistico si stima che solo l'1-2%
raggiungerà la normalità, mentre il 10-15 % riuscirà a progredire e a raggiungere un'autonomia
dalla famiglia, il 25-30% mostrerà dei progressi ma avrà bisogno di essere sostenuto e controllato,
mentre gli altri rimarranno gravemente handicappati e totalmente dipendenti.
Ipotesi eziologiche
Teorie psicodinamiche
Bettelheim
Fu Bettelheim, come si diceva, uno dei primi autori a ricercare la causa dell'autismo in
un'anomalia nel rapporto madre-bambino, tanto che le descrizioni di genitori da lui fornite sono
state dipinte plasticamente dal concetto di madre frigorifero. Questo è il nucleo concettuale attorno
al quale ruota il modello psicodinamico nel tentativo di descrivere la natura eziologica dell'autismo.
Tuttavia, all'interno di questo modello sono state proposte anche altre teorie che indagavano cause
differenti come carenza di contatto fisico, pratiche alimentari anomale, difficoltà nel linguaggio e/o
nel contatto oculare con il figlio, fino ad un'ipotesi di fantasia deumanizzante proiettata sul proprio
figlio.
Nel 1967, nel suo libro La fortezza vuota, Bettelheim mette a confronto il comportamento di
persone affette da autismo con quello dei prigionieri nei campi di concentramento nazisti
(esperienza, questa, vissuta in prima persona per due volte), notando come vi fossero delle
somiglianze. Secondo quest'ipotesi l'autismo, attraverso un processo di "disumanizzazione" si
configurerebbe come la reazione ad una "situazione estrema", caratterizzata da una prolungata
consapevolezza dell'imminenza della morte.
L'autore, confrontando i vissuti dei prigionieri nei lager, con quelli di chi è affetto da autismo,
ipotizza che alla base di quest'ultimo vi sia la percezione, nel neonato, di ostilità con un'intenzione
distruttiva nei suoi confronti da parte della madre (che per lui rappresenta il mondo). Sebbene tali
percezioni possano inizialmente non rispecchiare la realtà, il neonato interpreta il risentimento della
madre per il rifiuto incomprensibile di suo figlio verso di lei, come conferme delle sue sensazioni.
In questo modo sarebbe il desiderio di annullamento del proprio figlio la causa principale
dell'autismo che egli manifesterà successivamente.
Da ciò deriverebbero vissuti di impotenza e sensazioni di non poter né agire né fare previsioni
sulla realtà esterna. Il bambino utilizzerebbe perciò delle difese, la preservazione dell'identità
(sameness) e la creazione di confini (boundary), adatte a tenersi fuori dal mondo e i suoi pericoli, al
prezzo però di un progressivo svuotamento della fortezza eretta a difesa di un Io che si ritrova così
sempre più indebolito e impoverito.
Mahler
Secondo l'autrice Mahler, invece, il bambino giunge a quella che ha definito come "nascita
psicologica" attraverso un processo di graduale differenziazione tra Sé e non-Sé che culmina nella
percezione della propria madre come oggetto separato da sé.
Mahler sostiene che "l'isolamento e le altre manifestazioni della Sindrome psicotica autistica
richiamano alla mente quello stato di completa non differenziazione tra l'Io e l'Es, tra il Sé e il
mondo oggettuale, che si ritiene sia predominante nel neonato fino alla fine del secondo mese di
vita".
È a questa descrizione che corrisponde, secondo l'autrice, la cosiddetta fase autistica normale,
caratterizzata da una mancanza di consapevolezza dell'agente delle cure materne nel bambino, con
una conseguente incapacità di utilizzare l'oggetto d'amore primario vivente. In seguito, tuttavia, il
bambino si comporta con la propria madre come se fosse un tutt'uno con lei stabilendo in questo
modo una relazione simbiotica.
Secondo la Mahler quindi autismo infantile e psicosi simbiotiche, riferendosi a differenti momenti
del processo evolutivo, sarebbero da considerare entità distinte.
Un bambino con autismo infantile appare infatti "organizzato per mantenere e consolidare la
barriera allucinatoria negativa che caratterizza la prima settimana di vita, quando si deve difendere
da una stimolazione sensoriale troppo viva". Egli non sembra vedere nella madre "un faro vivente di
orientamento nel mondo della realtà".
La psicosi simbiotica, sarebbe d'altro canto caratterizzata da una separazione reale (viaggio,
ricovero, ecc.) che metterebbe in discussione il rapporto madre-bambino in una fase troppo precoce,
favorendo così da parte di quest'ultimo meccanismi di difesa che lo proteggano dalle proprie ansie
di annientamento (introiezione, proiezione, negazione), mantenendolo perciò in un illusorio legame
simbiotico con sentimenti d'onnipotenza.
Winnicott
Focalizzando l'attenzione sul deterioramento del funzionamento del Sé come conseguenza
dell'inadeguatezza dei genitori, Winnicott descrisse la psicosi come "un disturbo da deficienza
ambientale".
Lo psicoanalista inglese descrisse pertanto una fase transizionale, collocata fra il termine della
fase nella quale il bambino, per le sue ansie d'annientamento, non riesce ancora ad accettare il
mondo esterno e la realtà e l'inizio di quella in cui appare in grado di utilizzare questa abilità.
Analizzando più a fondo i processi di separazione durante i primi mesi di vita, Winnicott descrisse
un primo momento durante il quale la madre, adattandosi ai bisogni del figlio per mezzo della
preoccupazione materna primaria, fornisce a quest'ultimo il sentimento della continuità dell'essere,
la cui rottura sarebbe però in seguito inevitabile a causa della normale discontinuità delle cure
materne. Se ciò non sarà vissuto dal bambino come annullamento del Sé, gli consentirà di affrontare
la disillusione e la separazione dalla propria madre, per merito della quale egli potrà giungere alla
coscienza del "Sé emergente" e l'altro da Sé.
Se però la madre fosse carente nelle sue funzioni, il rischio di una psicosi infantile sarebbe, in
questo delicato momento di transizione, molto alto, a causa di una minaccia d'annientamento
percepita dal bambino, che potrebbe anche mostrarsi non in grado d'instaurare una relazione col
mondo esterno.
Meltzer
Meltzer, in linea con la scuola kleiniana, mette in evidenza per i bambini aspetti quali l'essere
"gettati" in uno spazio non proprio e alieno, l'estraneità, la vacuità, il dolore. Entro questo singolare
spazio-tempo e quale perpetuazione, i bambini con autismo vivono quel fenomeno che Meltzer ha
definito come "smantellamento", in virtù del quale un bambino incapace di contenimento, perché
mai contenuto, realizza una condizione in cui il suo desiderio si traduce nella scomposizione
dell'oggetto, così che una sola delle componenti di quest'ultimo viene a catturare una sola di quelle
della sensorialità smantellata del bambino.
Come conseguenza di un fallimento nella funzione primaria di contenimento, si hanno quindi
nell'autismo, a causa di un'incapacità di filtrare i dati sensoriali e della mancanza di uno spazio
interno del Sé e dell'oggetto, problemi di differenziazione di uno spazio dentro e fuori dal Sé e dagli
oggetti, e una tendenza a fondersi con singole parti di essi.
Meltzer sostiene che il più grande ostacolo per instaurare una relazione con pazienti affetti da
autismo è costituito dalla difficoltà incontrata dal terapeuta di entrare in contatto con il mondo
unidimensionale privo di mente del proprio paziente, egli si trova cioè "ad affrontare un problema
emotivo, quello di abbandonare il proprio mondo a tre dimensioni, di spogliarsi della propria
esperienza per entrare in un mondo privo di significato e di processi mentali".
Tustin
Secondo Tustin, appartenente alla Scuola Psicoanalitica Inglese, le psicosi infantili come
l'autismo sono da ricollegarsi sia all'incapacità del figlio di utilizzare la figura materna, sia nella
carenza di cure da parte di quest'ultima.
La rottura del legame viene vissuta dal bambino come perdita di una parte del proprio corpo, poiché
avvenuta troppo precocemente, in una fase in cui egli ancora non è pronto ad affrontare una
separazione. A protezione di se stesso il bambino costruisce un bozzolo composto da quelli che
Tustin definisce "oggetti autistici", ossia protezioni manipolatorie e reattive, non concettualizzate e
basate su sensazioni provenienti dal proprio corpo. A causa dell'interruzione dell'holding, il
bambino, nell'inutile tentativo di trovare protezione in una continuità illusoria e di sfuggire ad ansie
per lui insostenibili, resta fuso con sua madre poiché non fa distinzione fra l'utilizzo del corpo di lei
o del proprio. Secondo un'ipotesi di Soriente, la mancanza di linguaggio in alcune psicosi precoci
sarebbe da ricercare nella compromissione o nell'assenza di alcuni prerequisiti rilevanti per lo
sviluppo del linguaggio preverbale: il pointing e la lallazione.
Pointing significa "indicare", gesto che, con intenzionalità comunicativa, si può riscontrare nel
bambino tra i 12 e i 18 mesi. Il puntare il dito è di notevole importanza, non solo per l'acquisizione
futura del linguaggio verbale, ma anche per lo sviluppo del Sé in quanto, grazie al riconoscimento e
all'accettazione della distanza tra sé e l'oggetto desiderato, implica una diminuzione
dell'onnipotenza, tanto più se esso, accompagnato da verbalizzazione, dà conto della capacità di
distinguere tra sé e non sé.
Nel bambino con autismo, al posto del pointing, si può rilevare l'utilizzo della mano dell'altro
come fosse la propria. Il motivo, secondo Tustin, sarebbe da ricercarsi nel rifiuto o nella mancanza
di separazione tra il corpo del bambino e quello della madre, del quale utilizza parti come fossero
proprie, quasi fosse "incollato" all'altro, considerato come appendice di sé.
L'acquisizione delle capacità attentive e di comprensione del discorso altrui si estrinseca
soprattutto dopo i 7-9 mesi, quando diviene manifesta nel bambino l'appartenenza al sistema
fonologico della propria lingua di riferimento dei suoni da lui prodotti con la lallazione.
Tustin sostiene che nei bambini psicotici questo "gioco" avviene con suoni idiosincratici, creati
dai bambini stessi e privi di un significato comprensibile, piuttosto che con quelli che normalmente
ci si aspetta dalle predisposizioni innate.
Modelli alternativi
Bick ha recentemente osservato direttamente le interazioni madre-bambino grazie al metodo
dell'infant observation, rilevando nel neonato un iniziale stadio di non-integrazione, con vissuti di
pervasiva impotenza e processi di scissione a difesa del proprio sviluppo, come fosse in cerca di un
oggetto "che possa svolgere la funzione di mantenere unite le componenti della personalità non
ancora differenziate dal corpo".
In una prospettiva kleiniana, l'oggetto si configurerebbe come una "pelle" necessaria allo sviluppo
dei processi di identificazione e successivamente di scissione primaria e idealizzazione di Sé e
dell'oggetto.
La "pelle" svolge perciò un'azione contenitiva della capacità di gestire uno spazio interno al Sé
differenziato dal resto del mondo esterno, pertanto risulta importante che né carenze materne reali
né attacchi fantasmatici ad essa (che ne impediscono l'introiezione) ne mettano a repentaglio un
adeguato sviluppo, con conseguenze negative sull'evoluzione della personalità e confusione
d'identità fino a giungere, come in alcuni casi di bambini psicotici, allo sviluppo di una "seconda
pelle" in cui una falsa dipendenza si sostituirebbe a quella dall'oggetto a causa di un inadeguato uso
delle funzioni mentali quali sostituti della "pelle".
Tustin ipotizza che l'incapsulamento autistico potrebbe derivare dallo sviluppo di una "seconda
pelle" in seguito a esperienze di separazione dal corpo della madre tanto forti da far vivere ai
bambini come feriti il loro stesso corpo e la pelle che lo avvolge.
La relazione madre-bambino riveste un ruolo centrale anche per Giannotti e De Astis i quali
indagano la possibilità di un arresto dello sviluppo prima dell'instaurarsi dell'attaccamento alla
figura materna, o in un momento successivo, attraverso una regressione. Gli autori considerano
quanto la nascita possa essere vissuta da entrambi i protagonisti in maniera catastrofica e come in
seguito sia di cruciale importanza la modalità di contenimento materno delle primordiali angosce
del figlio grazie alla quale le potrà elaborare, riproponendogliele in una forma rassicurante, simile
ad uno "schermo protettivo" tra lui ed un ambiente troppo ricco di stimoli. Qualora ciò non dovesse
verificarsi, il bambino si difenderà dal bombardamento di stimoli per lui inaffrontabili con rigidi
meccanismi autistici (per es. isolamento, stereotipie ed ecolalia) che non gli consentiranno un
ulteriore sviluppo.
Altri approcci hanno considerato il ruolo centrale giocato dall'intera famiglia del bambino
psicotico nell'instaurarsi della sua patologia, in particolare per quanto riguarda le interazioni verbali
e non verbali fra genitori e figlio subito dopo la nascita.
Secondo tale prospettiva, Carratelli e altri autori prestano particolare attenzione al modo in cui il
padre partecipa attivamente alla funzione di maternage, nonostante la mancanza per lui di
un'esperienza di fusionalità durante la gravidanza paragonabile a quella della madre. In questo
modo sarebbe garantita un'unione più sintonica col bambino grazie alla possibilità di
"identificazioni crociate" nella coppia genitoriale.
Sul versante della psicopatologia gli autori propongono che, oltre che per la madre, anche per il
padre si possa parlare dell'insuccesso del maternage come di "un'analoga esperienza fallimentare,
per cui, nel momento in cui il figlio lo convoca in quest'area di funzionalità arcaica egli possa
trovarsi a rivivere regressivamente una condizione in cui l'attrazione e l'angoscia concomitante
verso uno stato di indifferenziazione è quanto mai intensa e dolorosa" e sarebbe questo il possibile
processo alla base delle psicosi infantili.
Ci si troverebbe dunque di fronte ad un sistema triangolare nel quale, in seguito al duplice
fallimento di entrambe i genitori, il bambino rischia di reagire ad esso con modalità autistiche.
Teorie organiciste (farmacologiche)
Prima della pubblicazione dello studio di Wing e Gould nel 1979 era ancora aperto il dibattito
sulla diagnosi differenziale tra autismo e cerebrolesione, tanto che la diagnosi di autismo veniva
tendenzialmente attribuita solo a quei pazienti che non manifestavano nessun altro sintomo, se non
quelli strettamente correlati alla Sindrome. Nel caso (più frequente) in cui era possibile individuare
anche un disturbo organico si preferiva infatti la definizione di "autismo secondario". Tuttavia sono
ormai numerose le rassegne della letteratura che mostrano come sia elevata la probabilità che le
cause dell'autismo abbiano una base principalmente organica.
Nel campione esaminato da Steffenberg (35 bambini affetti da autismo e 17 con comportamento
di tipo autistico) si poteva riscontrare un'elevata frequenza di danni o disfunzioni cerebrali.
Gillberg e Coleman elencarono 12 sindromi note che potevano manifestarsi anche come Sindrome
autistica: Cornelia de Lange Syndrome, Fetal Alcohol Syndrome, Hypomelanosis of Ito, Joubert
Syndrome, Lujan-Fryns Syndrome, Moebius Syndrome, Neurofibromatosis, Rett Syndrome, Sotos
Syndrome, Gilles de la Tourette Syndrome, Tuberous Sclerosis, Williams Syndrome.
Swillen e altri autori individuarono ulteriori disturbi sospettati d'essere correlati con l'autismo: Xlinked Mental Retardation with Marfenoid Habitus o Velo-cardio-facial Syndrome.
Gillberg e Coleman hanno rilevato anche un'alta frequenza di epilessia fra gli indicatori di danno
cerebrale correlato con l'autismo.
Allo stesso modo il ritardo mentale, frequentemente associato al Disturbo Autistico, sembra
indicare un'eziologia di tipo organico (non ancora individuata con certezza) che spiegherebbe le
anomalie nei test di abilità, dai quali si ottengono singolari profili cognitivi, con migliori risultati
nelle prove per la motricità fine piuttosto che per quella grossa e con elevati punteggi nelle prove
non verbali e di performance, ma punteggi molto al di sotto della media in quelle verbali, che
mostrano una compromissione maggiore della comprensione piuttosto che della produzione di
parole, mentre la memoria per cifre o lettere senza significato appare in certi casi addirittura
superiore alla norma.
Inoltre si possono trovare correlate all'autismo anche anomalie della vista e dell'udito. Talvolta
esso è comparso in seguito a Herpes Simplex Encephalitis.
Cervelletto
La conseguenza di un danno in quest'area consiste in incontrollabili manifestazioni motorie dette
paralisi cerebrale. Tuttavia recenti osservazioni sembrano attestare un possibile ruolo del cervelletto
anche nella verbalizzazione, nelle emozioni, nell'apprendimento e nell'attenzione.
Grazie alle immagini ottenute dalla risonanza magnetica, nel corso degli anni '80 Courchesne,
analizzando il cervelletto di pazienti con autismo, ipotizzò un'ipoplasia dei lobuli VI e VII correlata
in maniera apparente proporzionale alla gravità dei sintomi. Tuttavia alcuni pazienti mostravano
invece un'iperplasia degli stessi.
Visto che le persone con autismo necessitano di tempi più lunghi del normale per spostare
l'attenzione, egli, da ulteriori indagini, concluse che i lobuli VI e VII potessero avere un ruolo in
questo senso, con una conseguente perdita d'informazioni su contesto e contenuto, data la difficoltà
di chi è affetto da autismo di passare dall'uno all'altro.
Le osservazioni di Courchesne non trovarono conferma nelle autopsie di persone con autismo, che
mostrarono invece altre anomalie come la scarsità di cellule del Purkinje, importanti inibitori della
produzione di serotonina i cui livelli ematici sono talvolta effettivamente alterati.
Secondo Happé tre sono i limiti di queste ricerche: 1) i gruppi non sono pareggiati per età
mentale, perché i gruppi di controllo sarebbero dovuti essere composti da persone senza autismo ma
con difficoltà di apprendimento, piuttosto che da individui "normodotati"; 2) non è possibile
stabilire se le anomalie riscontrate siano cause o effetti del disturbo, visto che le conseguenze di
comportamenti di tipo autistico sul tessuto cerebrale non sono note; 3) seppure il cervelletto fosse
implicato nelle funzioni cognitive, ciò non spiegherebbe direttamente un quadro cognitivocomportamentale così articolato come quello dell'autismo.
Sistema limbico (amigdala e ippocampo)
Bauman e Kemper, nell'ipotesi di possibili implicazioni del sistema limbico nell'autismo, hanno
rilevato, nel corso degli anni '80, anomalie principalmente dell'ippocampo e dell'amigdala. I neuroni
in queste zone avrebbero dimensioni inferiori al normale e la loro densità sarebbe eccessiva. Ne
sono derivati studi sui possibili effetti di lesioni in queste aree.
L'amigdala ha un ruolo nel controllo dell'emotività e dell'aggressività. Similmente a diversi
pazienti affetti da autismo, che mostrano un'emotività "piatta" o comportamenti auto o etero
aggressivi, è possibile riscontrare in alcuni animali con lesione o rimozione dell'amigdala attività
compulsive, impedimento sociale, difficoltà nel recupero d'informazioni dalla memoria,
impossibilità d'imparare dalle situazioni pericolose, e problemi nell'adattamento a situazioni nuove.
L'amigdala risponde inoltre a stimoli legati alla paura.
L'ippocampo sarebbe invece implicato nell'apprendimento e nella memoria. Secondo Rimland le
persone con autismo troverebbero delle difficoltà nel collegare nuove informazioni con quelle già
immagazzinate. Ciò sembra concordare con l'osservazione che da danni all'ippocampo deriva
un'impossibilità di mantenere informazioni in memoria. Animali con lesione o rimozione di
quest'area esibiscono comportamenti stereotipati, autostimolatori e iperattività.
Lesioni provocate artificialmente ad animali da esperimento non sono tuttavia direttamente
confrontabili con la complessa sintomatologia dell'autismo.
Disfunzioni metaboliche e componenti biochimiche
Ricerche dell'ultimo decennio su possibili alterazioni biochimiche nell'autismo hanno consentito
l'individuazione di una disfunzione dopaminergica in diversi casi che, considerato il ruolo del
sistema dopaminergico in generale, potrebbe dar conto della complessa sintomatologia dell'autismo.
Sono diverse comunque le disfunzioni metaboliche che possono essere correlate con l'autismo e da
esse sono scaturiti numerosi approcci che riscuotono al momento svariati consensi, data la loro
rilevanza "pratica".
Shattock, partendo dalla constatazione di Panksepp sulla somiglianza tra la sintomatologia dovuta
ad assunzione cronica di oppioidi e quella dell'autismo ha analizzato con la HPLC (Cromatologia
Liquida ad Alta Resa) le urine di alcuni soggetti affetti o con disturbi correlati, rilevando l'effettiva
presenza di elevati livelli di oppioidi (come la beta-endorfina) nel SNC, che potrebbero essere
dovuti a un'incompleta scissione del glutine e della caseina o al fatto che glutine e caseina
potrebbero creare dei ligandi per enzimi preposti alla scissione degli oppioidi naturali, con un
conseguente accumulo di endorfine per un tempo più lungo.
Questo spiegherebbe anche le osservazioni di Reichelt, che mostrarono un elevato tasso di
prodotti della scissione del glucosio di alcuni cereali e prodotti caseari (glutine e caseina, appunto).
Gli oppioidi sarebbero quindi responsabili dell'inibizione della trasmissione nei principali sistemi
di neurotrasmettitori esistenti. Agli oppioidi potrebbero anche essere dovute alcune alterazioni del
sistema immunitario nell'autismo.
Dato il loro ruolo nei processi di specializzazione neuronale nello sviluppo neonatale, ad un
elevato tasso di peptidi oppioidi potrebbe essere dovuta un'eccessiva riduzione di neuroni, come
sembrano dimostrare le anomalie rilevate nel SNC di persone con autismo.
L'autore ribadisce che il passaggio nel SNC di alcune sostanze ad esso nocive non è di solito
impedito del tutto dalla barriera ematoencefalica, che risulterebbe quindi parzialmente permeabile
ad alcune particelle dagli effetti trascurabili. Se la concentrazione ematica di esse cresce, è possibile
che la quantità di sostanze dannose che oltrepassano la barriera, sia tanto grande da produrre effetti
negativi. Ciò può accadere sia perché la metabolizzazione di sostanze nocive per il SNC non è
sufficiente, sia perché la permeabilità delle pareti intestinali si rivela eccessiva.
Shattock ricorda che esistono livelli differenti di approccio all'autismo e pertanto un modello del
genere non esclude né è in contrasto con quello genetico o con un intervento psicopedagogico. Un
intervento sulla dieta infatti, più che una terapia potrebbe favorire la creazione di un "ambiente
interno" che favorisca il raggiungimento degli obiettivi di crescita e di sviluppo che solo un
adeguato intervento pedagogico è in grado di garantire.
Genetica
Diversi indizi portano attualmente a ipotizzare che la componente genetica abbia un ruolo
rilevante nella Sindrome autistica. La maggior incidenza del disturbo nei maschi si potrebbe per
esempio attribuire ad anomalie dei cromosomi sessuali, tanto più che le manifestazioni sintomatiche
nelle femmine sono più gravi.
Anche i dati ottenuti da ricerche sui familiari di soggetti con autismo depongono a favore di
un'eziologia genetica del disturbo: da una ricerca della UCLA (Utah), negli anni '80, su 44 nati in 11
famiglie dove il padre aveva una diagnosi di autismo, emerse che 25 ricevevano in seguito la
medesima diagnosi, in accordo con l'osservazione che un genitore trasmette al proprio figlio circa
metà dei suoi geni. Il fatto che chi effettuò le diagnosi era a conoscenza dei problemi del genitore,
potrebbe però incidere negativamente sulla validità dei risultati.
Comportamenti autistici si possono anche osservare in persone con cromosoma X fragile, nelle
quali vi è un'anomalia cromosomica accertata, e in quelle con Disturbo di Rett, con tutta probabilità
dovuto ad un carattere recessivo sul cromosoma X, dato che solo le femmine ne risultano affette.
Di difficile verifica risulta una teoria secondo la quale potrebbero intervenire mutazioni genetiche
occasionali nel passaggio di cromosomi da una generazione all'altra.
È stata anche ipotizzata una predisposizione genetica ai danni cerebrali causati da agenti
accidentali, conseguentemente all'osservazione di alcune correlazioni tra l'esposizione al virus della
rosolia in gravidanza e l'autismo alla nascita, che non esclude tuttavia un'ipotesi alternativa per cui
l'autismo, più che da una predisposizione, dipenderebbe da quale area del cervello entra per caso in
contatto con l'agente nocivo.
È stato anche osservato che fratelli di persone affette da autismo, oltre ad una probabilità più
elevata del resto della popolazione d'essere a loro volta affetti, sono significativamente più esposti
al rischio di ritardo mentale, disturbi del linguaggio o della socializzazione. Non si può comunque
escludere con certezza che ciò sia da attribuire al tipo di ambiente familiare "più a rischio", come
ipotizzato dai sostenitori del modello psicodinamico.
Un'incidenza maggiore di comportamenti autistici è stata anche osservata in pazienti affetti da
disturbi a base genetica accertata, quali l'X fragile, la sclerosi tuberosa e la fenilchetonuria.
Risultati più interpretabili si sono ottenuti da una ricerca condotta su coppie di gemelli, dalla
quale è emersa un'elevata probabilità di una diagnosi di autismo anche per gemello monozigote di
una persona affetta, molto maggiore di quella di un gemello dizigote. È tuttavia quasi certa
un'interazione tra fattori genetici e ambientali, poiché non necessariamente il gemello omozigote di
un paziente con autismo riceve la stessa diagnosi. Da una ricerca di Folstein e Rutter è risultata per
esempio importante l'influenza dei fattori perinatali, dato che se nelle coppie di gemelli omozigoti
solo uno dei due era affetto, si trattava quasi sempre di quello che era incorso in maggiori difficoltà
durante il parto.
Secondo i sostenitori di modelli psicogeni dell'autismo, tali risultati si potrebbero però interpretare
alla luce di una somiglianza caratteriale tra gemelli omozigoti da cui deriverebbero le stesse risposte
da parte dell'ambiente per entrambi e quindi anche uguali interazioni patogene.
Teorie sistemico-relazionali
Nonostante gli autori appartenenti all'approccio sistemico-relazionale, più interessati ai processi
psicotici rispetto ai disturbi generalizzati dello sviluppo, non affrontino il tema in maniera diretta, è
possibile tentare un inquadramento dell'autismo nelle interazioni triadiche familiari.
Il sintomo si configurerebbe come una risposta attiva del figlio, così da manifestare la sua
resistenza ad essere educato, a causa delle dinamiche relazionali della coppia genitoriale,
caratterizzata da un gioco di stallo di poco precedente alla nascita del bambino, e che avrebbe fatto
sentire la madre vuota, rendendola incapace di far fronte ai bisogni del figlio.
Secondo Selvini Palazzoli il gioco di stallo consiste nel coinvolgimento del figlio in
un'immaginaria partita dei genitori in cui egli si trova ad essere schierato con uno dei due contro
l'altro.
Alle grandiose aspettative di gratificazione affettiva del matrimonio, seguirebbe per la coppia la
delusione di un rapporto coniugale basato sulla dipendenza ed un'attribuzione di colpa reciproca
riguardo la malattia del "paziente designato", e tutto ciò contribuisce alla patologia del figlio.
Caratteristici della madre di un bambino con autismo, risultano i tratti di inadeguatezza riguardo i
bisogni di un figlio dotato di particolare sensibilità.
Il ruolo del padre sarebbe quello di figura buona, un "mammo ipertollerante" che ripara in qualche
modo alle carenze materne.
L'incapacità di comunicare del bambino si spiegherebbe come un tentativo di alleanza col padre
"buono" contro una madre "cattiva", mente i fratelli non entrerebbero in questa relazione triadica.
Il quadro sarebbe anche complicato dall'interferenza della nonna materna, nel suo tentativo di
supplire alle carenze materne della figlia immatura, ma principalmente per evitare il biasimo
sociale.
Teorie cognitive
Teoria della mente di Uta Frith
Sul finire degli anni '80 fu proposto anche un modello cognitivo basato sulla teoria della mente,
proposta da Uta Frith, la quale ipotizza che nell'autismo la disfunzione cognitiva da cui
deriverebbero gli altri sintomi consista in un'incapacità di rendersi conto del pensiero altrui, sarebbe
cioè carente o assente proprio la teoria della mente. La mente è ciò che è posto tra cervello e
comportamento, ed è a questo che fa riferimento il termine "cognitivo".
Nel 1979 Wing e Gould distinsero tre diverse tipologie di persone affette da autismo: aloof
(isolati), abbastanza simili ai pazienti descritti da Kanner; passive, cioè passivi, soprattutto nei
confronti dell'ambiente circostante; e odd (bizzarri), socialmente attivi, ma con comportamenti
incongruenti e inconsueti.
Da uno studio degli stessi autori è emerso che disturbi della socializzazione, della comunicazione
e dell'immaginazione hanno la tendenza ad apparire insieme piuttosto che isolatamente. Essendo
questa caratteristica particolarmente evidente nell'autismo, da allora si preferì diagnosticarlo in base
a queste tre aree sintomatiche.
Questo metodo di classificazione rischia però di non tener conto di altri aspetti peculiari del
disturbo, se pure non presenti nella totalità dei pazienti, quali le "savant abilities", le stereotipie, i
comportamenti autostimolatori (come dondolarsi) e la preoccupazione ossessiva per il
mantenimento dell'immutabilità degli ambienti o delle abitudini.
Secondo una teoria di Benda l'apparente mancanza di affettività dei bambini con autismo sarebbe
piuttosto da attribuire ad un'incapacità di astrazione da cui deriverebbero le difficoltà di contatto
con l'ambiente e nella manipolazione di simboli.
Più recentemente, a suscitare un certo interesse nel mondo accademico, è stata la teoria della
mente che le persone con autismo si costruiscono riguardo gli altri, ossia il loro modo di
immaginare cosa essi pensano, proposta nuovamente da Frith, secondo la quale un
malfunzionamento del cervello si rispecchia in un malfunzionamento della mente, da esso prodotta
e produttrice a sua volta del comportamento. L'autrice ricorda quanto sia difficile stabilire se a
cambiamenti nei comportamenti osservabili in base ai quali si definisce l'autismo corrispondano poi
effettivamente cambiamenti nella sfera cognitiva o neurologica, pertanto risulta ardua la
determinazione di un comune denominatore di tutti i casi di autismo, obiettivo che invece si pone lo
studio della teoria della mente in persone affette.
L'approccio si fonda sull'ipotesi di un'incapacità, negli individui con autismo, di attribuire
correttamente all'altro stati mentali come conoscenze o credenze, probabilmente a causa di un
danno della facoltà metarappresentazionale, con una conseguente compromissione dei processi di
mentalizzazione, forse innati, da cui risulta un pensiero concreto, basato esclusivamente su eventi
della realtà direttamente osservabili.
Quest'ipotesi risale ad un'iniziale proposta di Leslie di considerare il gioco di ruolo nei bambini in
generale come se fosse basato su un meccanismo cognitivo che permettesse loro di immagazzinare
separatamente eventi fisici (reali) e mentali (di ruolo). Visto che nei bambini affetti da autismo il
gioco di ruolo appare in effetti molto più povero, in confronto a bambini con handicap differenti,
Leslie e Frith indagarono la possibilità dell'esistenza di una reale incapacità dei bambini con
autismo di registrare gli stati mentali separatamente da quelli fisici.
La ricerca si svolgeva sotto forma di gioco in cui ai soggetti erano presentate due bambole: una,
Sally, portava un cestino e l'altra, Ann, aveva una scatola. Sally usciva a passeggio dopo aver messo
una biglia nel proprio cestino e averlo coperto con un panno. Intanto Ann prendeva la biglia dal
cestino e la nascondeva nella propria scatola. A questo punto Sally tornava, con l'intenzione di
giocare con la biglia e la domanda che veniva posta era: dove avrebbe guardato Sally per prendere
la biglia? L'elemento fondamentale di cui avrebbero dovuto tener conto i soggetti era che Sally non
poteva essere a conoscenza di quanto Ann aveva fatto in sua assenza.
Erano in grado di rispondere al quesito sia bambini normali di quattro anni che bambini affetti da
Sindrome di Down, i quali, su richiesta, erano anche in grado di spiegare che Sally era ignara delle
azioni di Ann durante la sua assenza, dimostrando così, grazie alla comprensione che qualcuno può
avere una "credenza errata" (false belief) su una situazione, d'essere capaci di attribuire uno stato
mentale ad un altro, in modo da aver maggiori possibilità di prevederne il comportamento: nella
storia proposta è plausibile aspettarsi che Sally, dopo aver inizialmente cercato la biglia nel cestino
non la trovi.
Secondo gli autori dalla comprensione di un'errata credenza deriva quella di una "credenza vera"
(true belief), ossia è possibile capire emozioni sentimenti e desideri dell'altro.
Bambini affetti da autismo, di età anche molto superiore ai 4 anni, incorsero invece in grosse
difficoltà nel tentativo di rispondere alla domanda, affermando per esempio, nonostante il ricordo
corretto della sequenza degli eventi, che Sally avrebbe cercato nella scatola di Ann, così da
dimostrare quindi di non riuscire a cogliere il senso di quanto accaduto e comprendere che Sally ha
una falsa credenza. Il comportamento di Sally diventa imprevedibile se non vi è comprensione dei
suoi pensieri poiché, secondo gli autori, il non inferire una falsa credenza significa non essere in
grado di conoscere gli stati mentali altrui. Nell'esempio sarebbe inspiegabile che Sally vada a
cercare la biglia nel posto sbagliato, cosa che invece accade nelle persone con autismo, proprio
perché potrebbe mancare in loro una teoria della mente.
Teorie cognitivo-comportamentali
Centro d'interesse di questo approccio è l'acquisizione di abilità, per l'autonomia, in quanto
l'autismo viene considerato come una carenza o un eccesso di comportamenti, che è possibile
modificare.
Meazzini ricorda come il rapporto persona-ambiente sia basato su una circolarità reciproca che, in
un contesto ecologico comportamentale, troverebbe forma nel concetto di Determinismo Circolare
di tipo interazionistico, secondo la prospettiva di un individuo-sistema a sua volta costituito da
diversi sottosistemi integrati (repertorio affettivo-motivazionale, cognitivo, e socio-interpersonale).
Il comportamento di una persona con handicap è visto quindi come la risultante di molteplici
cause come disturbi organici di origine genetica, ambiente, stato fisico attuale e il tipo di repertori in
possesso dell'individuo derivati dalla sua teoria di apprendimento.
Focalizzando l'attenzione sulle determinanti ambientali dei comportamenti problematici
nell'autismo, i sostenitori del modello comportamentale ipotizzano una carenza di rinforzi per i
comportamenti adattivi del bambino ed un loro eccesso per quanto riguarda invece alcuni
comportamenti autostimolatori e ripetitivi.
Teorie etologiche
Le teorie etodinamiche partono dall'osservazione etologica del comportamento sia del soggetto
con disturbo Autistico sia delle persone con le quali interagisce e si articolano secondo le sequenze
con le quali si svolge lo sviluppo relazionale normale, in particolare la intersoggettività primaria e
secondaria di cui abbiamo parlato in precedenza. I principi etologici presi in considerazione
possono riguardare quelle attività che si svolgono in un contesto di avvicinamento all'altro: per
esempio, i modi affettuosi, amichevoli, esplorativi dell'altro che possono essere particolarmente
ridotti in alcuni soggetti autistici. In questi casi vi sono delle modalità di rapporto, soprattutto basate
sul rapporto di reciprocità faccia a faccia che, specie nei bambini più piccoli, possono essere utili sia
nel migliorare questo tipo di relazione diretta sia quella collaborativa. Le modalità relazionali vanno
di pari passo: per esempio, un bambino di tre anni che ha avuto in precedenza una regressione di
tipo autistico spesso ha perso molti dei modi di rapporto che sono propri della intersoggettività
primaria: per questa ragione la relazione con lui deve riproporsi con modi di reciprocità corporea e
verbale che in un bambino più piccolo favoriscono la comprensione e l'espressione del linguaggio.
Uno degli obiettivi principali é quello di creare nel bambino una motivazione positiva sia a
interagire che a collaborare: é per questa ragione che spesso é utile far uso di varie forme di
attivazione, verbale e motoria, come prendere per mano e far correre o saltare il bambino,
mettendolo in uno stato di disponibilità e di contentezza per cui, subito dopo, diventa pronto a
collaborare per vari obiettivi cognitivi.
Strategie d'intervento
Teorie psicodinamiche
Bettelheim
Bettelheim partì dall'ipotesi che i bambini con autismo non avessero tratto giovamenti dagli
interventi terapeutici fino ad allora portati avanti poiché venivano percepiti nei seguenti termini:
"Tutti vogliono farmi uscire dal mio mondo e farmi entrare nel loro!". Da questa considerazione
nasce secondo l'autore la necessità di istituzionalizzare i pazienti affetti da autismo, così da
allontanarli dai genitori (cui era consigliata una psicoterapia) considerati causa del disturbo stesso.
Per un efficace trattamento della Sindrome autistica, fu lo stesso Bettelheim a fondare un'apposita
struttura residenziale: la Scuola Ortogenica, nella quale figure di riferimento stabili seguivano
individualmente i pazienti, adempiendo alle funzioni materne, nel tentativo di entrare nella realtà
annichilente dell'autismo lasciando da parte quella propria abituale.
Il fine è di permettere al bambino di riprendere il cammino di crescita da dove si era bloccato,
lasciando che arrivi dapprima ad esprimere la propria ostilità verso il mondo così da superare la fase
schizo-paranoide e avere quindi accesso a quella depressiva, nella quale potrà infine utilizzare il
linguaggio, grazie ai processi di simbolizzazione e alle riflessioni sul mondo e le proprie azioni in
esso.
Gli operatori devono a loro volta intraprendere un cammino che li porti a riappropriarsi di quegli
"inferni" celati in zone protette della psiche così da entrare in sintonia con la realtà "infernale"
dell'autismo.
Mahler
La differenza più importante rispetto al modello proposto da Bettelheim consiste nell'aver previsto
la presenza della madre insieme al bambino e al terapeuta, soprattutto per quanto riguarda i casi di
psicosi simbiotica. La durata delle sedute è di circa 2 o 3 ore, che vedono madre e terapeuta
affiancati nel trattamento del bambino, con l'obiettivo di evitare il ritiro in una psicosi autistica
difensiva, permettendo al piccolo paziente di "rivivere con un sostituto di madre un rapporto
esclusivo simbiotico-parassitico, più gratificante, anche se regressivo. Questo rapporto deve essere
liberamente messo a disposizione del bambino e diventare per lui una difesa nel periodo in cui deve
uscire dal circolo vizioso del suo deformato rapporto con la madre". Per questo motivo l'autrice
propone un modello di terapia che tenga unita la diade madre-bambino.
Secondo Mahler, infatti, tenendo presente la sua distinzione in psicosi autistiche primarie e psicosi
simbiotiche, è possibile stabilire nel trattamento di bambini con psicosi infantile, alcuni obiettivi, di
cui il più importante risulta essere il coinvolgimento del piccolo paziente in "un'esperienza
simbiotica correttiva" che possa permettergli il raggiungimento di un più alto grado di rapporto con
l'oggetto.
Il compito del terapeuta è quello di fornire nel corso dell'analisi (che richiede un tempo
abbastanza lungo) un "Io ausiliario" cui il bambino con autismo possa appoggiarsi per poter
ripercorrere tutte le tappe dello sviluppo (presimbiotica, simbiotica e di separazioneindividuazione).
Altro obiettivo del terapeuta è cercare di far riappropriare il bambino di quelle funzioni dell'Io
preposte alla protezione da un'eccessiva stimolazione esterna e da stimoli interni minacciosi, poiché
egli si troverebbe in uno stato di panico e angoscia dovuto alla paura di perdere i propri confini o di
non poter contenere la propria aggressività. "Il terapeuta dovrà porre dei limiti al bambino,
soprattutto ai suoi impulsi aggressivi ed autodistruttivi, per es. intervenendo ed aiutandolo
nell'organizzare meglio un gioco che tende ad essere frammentario e incomprensibile. Può inoltre
svolgere, con il bambino una funzione pedagogica".
L'autrice sconsiglia un approccio diretto, specie se corporeo, ricordando le forti reazioni di panico
che molti bambini con autismo mostrano davanti a tentativi di rompere il loro isolamento. Più utili
allo scopo sarebbero invece l'impiego della musica e di stimolazioni piacevoli con oggetti inanimati
degli organi di senso.
Mahler propone per il bambino con autismo una terapia individuale (seppure con le particolarità
descritte più sopra), più adatta a favorire l'instaurarsi di quel rapporto simbiotico su cui poi si
potranno basare i successivi interventi pedagogici.
Per i bambini primariamente simbiotici l'autrice non ritiene necessario questo passo, poiché sarà
sufficiente che nel paziente scompaiano le reazioni di panico, e che egli sia in grado di "instaurare
rapporti diversificati che sostituiscano lo stato di fusione con la madre", perché gli interventi
pedagogici possano essere efficaci.
Altri interventi
Come osservato da Manzano e Palacio Espasa, l'intervento della Mahler appare maggiormente
incentrato su un'esperienza emozionale correttiva, piuttosto che sull'analisi del transfert.
Su quest'ultimo aspetto si basano invece Tustin e gli autori kleiniani in generale.
Teorie organiciste (farmacologiche)
Data l'attuale impossibilità di un'efficace prevenzione primaria dell'autismo in quanto cause e
processi eziologici restano sconosciuti, i molteplici trattamenti esistenti si rivolgono tutti a livello di
prevenzione secondaria e terziaria, col fine di evitare ulteriori aggravamenti o per migliorare la
qualità della vita, anche se nessuno di essi, a causa della difficoltà nell'individuazione di un
substrato organico comune ad ogni caso di autismo, raggiunge risultati globali.
Interventi farmacologici
Gli interventi farmacologici sono volti alla riduzione o all'estinzione di alcuni comportamenti
problematici (stereotipie, autoaggressività, ecc.), come mostrato nella Tabella 1 riportata qui sotto.
Vinai ribadisce l'importanza di utilizzare i minimi dosaggi efficaci per cercare di contenere il più
possibile l'insorgenza di effetti collaterali indesiderati a livello sia fisiologico che comportamentale
(apatia, irritabilità, ritardo cognitivo, ecc.). Nei casi (non infrequenti) in cui ciò si verifica, sarà da
prendere in considerazione con la massima attenzione il rapporto danni-benefici.
L'autrice raggruppa i singoli farmaci secondo i loro effetti su diverse aree sintomatiche.
Diete
Si rivelano utili nei casi di alcune disfunzioni metaboliche o allergie, sia accertate che ipotizzate,
come nel caso dell'intolleranza al glutine.
Un intervento dietetico preciso è di fondamentale importanza, a condizione che sia attuato nelle
primissime settimane di vita, nei casi di fenilchetonuria (PKU), in quanto è in grado di evitare il
successivo manifestarsi di ritardo mentale e, talora, di autismo, che può essere associato alla
Sindrome.
Terapia Doman-Delacato
Nel 1974 Delacato ipotizzò che alla base dell'autismo vi fosse una lesione cerebrale a causa della
quale la soglia di uno o più canali sensoriali potrebbe essere o eccessivamente alta
(ipofunzionamento) o eccessivamente bassa (iperfunzionamento), oppure il canale percettivo stesso
sarebbe costantemente attivo, non permettendo di discernere gli stimoli esterni con la produzione di
una sorta di "rumore bianco".
L'idea su cui si fonda l'intervento, che non è solo rivolto a persone con autismo, ma anche a quelle
con lesione o sospetto danno organico del SNC, è che sia possibile ottimizzare la funzionalità del
cervello attraverso un'adeguata stimolazione che ne prevenga ulteriori danneggiamenti.
L'intervento è incentrato sulla madre perché è lei, dopo un esame degli apparati sensoriali, a
stimolare a lungo e sistematicamente durante la giornata, i canali nei quali si sono riscontrate
anomalie e a far compiere passivamente al bambino quei movimenti che dovrebbe essere in grado
di compiere da solo.
La mancanza di dati sperimentali a favore di questo metodo è un elemento che viene contestato da
Jacobson.
Auditory Integration Therapy (AIT)
Basandosi sull'idea che nell'autismo possa esservi un'anormale sensibilità ad alcune frequenze
sonore, l'intervento è volto a ridurre l'intolleranza ad alcuni suoni, così da ottenere anche la
riduzione di altri sintomi. Le due tecniche più utilizzate sono il metodo Tomatis e il metodo
Berrard.
Visual therapy
È fondata sull'ipotesi che alcuni comportamenti delle persone con autismo possano derivare da
percezioni carenti o distorte in relazione a dl alcune disfunzioni osservate a carico del sistema
visivo.
La Visual Therapy si ripropone di ripercorrere gli stadi di sviluppo di tale sistema in modo da
riaddestrare la vista, poiché non sarebbe possibile trattare i disturbi in quest'area semplicemente
impiegando lenti ottiche.
I comportamenti problematici nelle aree della socializzazione e dell'apprendimento possono
perciò essere spiegati come strategie dell'individuo per adattarsi ai disturbi: ad un miglioramento
della percezione visiva può quindi corrispondere un miglioramento anche nelle aree dello sviluppo
appena citate.
Teorie sistemico-relazionali
L'approccio sistemico-relazionale è volto ad ottenere una comunicazione chiara e consapevole tra
tutti i componenti della famiglia, paziente compreso. È sul nucleo familiare quindi che è incentrato
l'intervento che si propone un cambiamento strutturale del sistema.
Contemporaneamente si effettua sulla coppia genitoriale un intervento volto alla risoluzione dei
conflitti, mentre si lavora sul bambino per il miglioramento della relazione con la madre.
In questo contesto l'holding assume una funzione importante, in quanto attraverso il contatto
fisico diretto ed esclusivo consente il consolidamento del rapporto sul piano comunicativo, senza
interferenze da parte del padre, così da interrompere il rapporto circolare triadico.
Momento centrale della terapia è la ridefinizione da parte del terapeuta del paziente designato
come "attore del gioco familiare", con la sua intenzionalità. Spesso a ciò seguono resistenze da
parte dei genitori, che potevano costruire i loro giochi relazionali basandosi sulla definizione di
"bambino malato e passivo".
Da questo punto in poi le sedute proseguono con la presenza dei soli genitori, che sono impegnati
a comprendere la relazione tra il disturbo del bambino e lo "stallo" del loro rapporto di coppia.
È a questo punto della terapia con la coppia che, secondo la Sorrentino, diviene opportuno offrire
al bambino interventi riabilitativi individualizzati, sia sul versante dell'apprendimento, sia su quello
delle competenze sociali.
L'armonizzazione di questi interventi riabilitativi rivolti al bambino, con la terapia della coppia
genitoriale, è un presupposto indispensabile per giungere ad un miglioramento della sintomatologia
e, in alcuni casi, alla guarigione".
Altri autori, come Cancrini, Quinzi e Dentale, hanno proposto modelli di terapie familiari
alternativi, basati su tecniche impiegate nella terapia familiare strutturale e in quella strategica.
Teorie cognitivo-comportamentali
L'efficacia sui comportamenti problematici di questi interventi è tanto maggiore quanto più è
precoce l'età in cui vengono attuati.
All'interno di uno specifico assessment costruito in base alla situazione, si ha la possibilità di
scegliere all'interno di un gruppo di tecniche volte all'acquisizione o all'incremento di
comportamenti adattivi, basate sull'uso di rinforzatori somministrati immediatamente dopo la
comparsa dei comportamenti desiderati, così da aumentarne la frequenza.
Di questo gruppo fanno parte: a) il concatenamento, grazie al quale la risposta desiderata compare
gradualmente perché ricompensata con stimoli rinforzatori; b) il modellaggio, ossia un rinforzo
sistematico dei comportamenti che sempre più somigliano a quello meta a partire da uno iniziale
selezionato perché già osservato nel repertorio del paziente; c) il modellamento, cioè
l'apprendimento da un modello per imitazione; d) il prompting, mediante il quale il raggiungimento
del comportamento meta avviene con l'impiego di suggerimenti fisici gestuali e visivi.
Un secondo gruppo di tecniche è invece finalizzato al decremento dei comportamenti inadeguati,
e si avvale del rinforzo differenziale di altri comportamenti. Esso è composto da: a) estinzione,
ottenuta non prestando attenzione al comportamento inadeguato; b) saziazione, cioè una
somministrazione volutamente eccessiva del rinforzatore; c) pratica negativa, che prevede la
ripetizione per un numero troppo grande di volte del comportamento indesiderato; d) procedure
aversive, come il mascheramento visivo, il time-out e l'ipercorrezione.
Programma TEACCH
Gli strumenti appena descritti sono tutti utilizzati nel TEACCH di Shopler, composto da tremila
attività educative divise per livelli di sviluppo in dieci aree funzionali.
È necessario però, nella scelta delle attività, individualizzare il programma in base a quattro criteri
che lo possano così rendere specifico per la singola persona e veramente efficace.
Per modello di interazione gli intendono la contestualizzazione dell'intervento all'interno del
sistema di relazioni di cui fa parte il bambino in modo da poterne meglio cogliere bisogni e
potenziale di apprendimento.
Col concetto di prospettiva di sviluppo s'intende ribadire l'importanza della definizione delle aree
in cui il bambino manifesta buone capacità e quelle in cui esse sono carenti, così che l'intervento
possa essere coerente con il livello di sviluppo del bambino nelle diverse aree.
Il terzo criterio, relativismo del comportamento, si riferisce alle difficoltà dei bambini affetti da
Disturbo Generalizzato dello Sviluppo, di estendere la risposta comportamentale a contesti diversi
da quello in cui è stata appresa.
La gerarchia di addestramento permette di ordinare gli obiettivi particolari da raggiungere col
trattamento secondo una scala di urgenza crescente che vede come interventi immediati quelli volti
a modificare in senso positivo i comportamenti che mettono a rischio la vita del bambino, per poi
strutturare il programma in vista dell'adattamento al contesto familiare, quindi a quello scolastico e
infine a quello extrascolastico.
L'approccio comportamentale si pone l'obiettivo di mantenere e generalizzare gli apprendimenti di
chi è affetto da autismo, estendendoli ai diversi contesti nei quali la persona normalmente vive,
cercando di fare in modo che le diverse figure rappresentative pongano richieste di prestazione fra
loro congruenti.
È questo il motivo per cui "la conduzione del programma è affidata a genitori e insegnanti, che
condividono le stesse strategie ed operano in stretta collaborazione. Medici e psicologi orientano
l'intervento di genitori e insegnanti, tenendo conto del livello di sviluppo raggiunto dal bambino, del
suo contesto di vita quotidiano e delle propensioni del bambino".
Una parte importante del programma è rappresentato dalla valutazione, che avviene attraverso tre
modalità diverse: 1) la prima che prevede l'uso test intellettivi e scale standardizzate, riguarda la
valutazione dello sviluppo; 2) la seconda modalità è quella dell'osservazione dei modelli di
comportamento del bambino; 3) la terza è rappresentata dalla raccolta di informazioni fatta nei
colloqui con i genitori, in cui vengono anche individuate le loro aspettative nei confronti del
bambino e i problemi principali che essi si trovano ad affrontare. La valutazione dello sviluppo si
avvale di uno strumento specifico chiamato Profilo Psicoeducativo (P.E.P.): il P.E.P. consente di
determinare lo sviluppo del bambino nelle aree dell'imitazione, della percezione, delle abilità
motorie, dell'integrazione oculo-manuale, e delle capacità cognitive.
Le aspettative e gli obiettivi che ci si attende di raggiungere, per ogni bambino, vengono distinte
in : 1) aspettative a lungo termine, 2) aspettative intermedie tra 3 mesi ed un anno, e 3) gli obiettivi
educativi immediati. Un appropriato intervento dovrà prevedere un coordinamento tra i tre livelli.
L'intervento dovrebbe inoltre sviluppare per prime quelle capacità che sono implicite in altre; se,
per esempio, il bambino non ha sviluppato la capacità di imitazione, bisogna sviluppare prima
questa, prima di procedere alla stimolazione del linguaggio.
La procedura fin qui descritta è finalizzata alla definizione delle mete educative; il passaggio
successivo è quello di formulare, a partire dalle mete educative, degli obiettivi educativi specifici.
Ciascun obiettivo educativo specifico viene poi tradotto in attività didattiche, costruite tenendo
conto di tutte le variabili citate in precedenza, sia individuali che contestuali. Accanto ad attività
didattiche specifiche è previsto l'utilizzo di tecniche di modificazione del comportamento,
soprattutto per quanto riguarda la gestione dei comportamenti problema.
Uno dei princìpi fondamentali dell'intervento è quello per cui l'acquisizione di abilità da parte del
bambino autistico richiede un adattamento e una modificazione dell'ambiente di vita del bambino,
sia familiare, sia scolastico. È importante, in particolare, che l'ambiente di apprendimento sia
strutturato e prevedibile e che le attività che gli vengono proposte siano precise e, soprattutto per i
bambini che non parlano, comprensibili al di là delle indicazioni verbali. La strutturazione deve
riguardare sia gli spazi sia i tempi di lavoro; per es. possono essere utilizzate delle immagini che
descrivono i vari momenti della giornata, e al bambino viene insegnato ad associarne ciascuna ad un
preciso momento/attività della sua giornata.
Schopler e collaboratori, forniscono molti esempi concreti di attività didattiche specifiche,
adattate al differente livello di sviluppo a cui si trova il singolo bambino, e relative a differenti
abilità.
Teorie etologiche
Metodo etodinamico, AERC, Portage
È sulla base del Metodo Etodinamico che parte dall'osservazione etologica del comportamento sia
del soggetto con Disturbo Autistico che delle persone con il quale interagisce che si fonda
l'intervento denominato Terapia di Attivazione Emotiva e Reciprocità Corporea (AERC) proposto
da Michele Zappella nel 1996.
Questa metodologia si integra sempre con altre modalità educative come il Metodo Portage, un
metodo educativo di tipo comportamentale, la cui funzione é quella di dare una guida ai genitori
circa le attività più adeguate da proporre al bambino. Il Metodo Portage inoltre consente di valutare
periodicamente i cambiamenti del bambino nel corso della terapia. Per i bambini che non parlano la
Comunicazione Aumentativa e Alternativa può essere uno strumento molto importante e può spesso
integrarsi con un approccio etodinamico: entrambi, infatti, fanno riferimento all'intelligenza
sensorio-motoria che rappresenta spesso il livello cognitivo reale di molti bambini autistici piccoli e
anche il modulo cognitivo prevalente di altri soggetti autistici più grandi, viste le loro difficoltà
simbolico-linguistiche, che in diversa misura e forma si ritrovano in tutti questi soggetti.
Spesso Zappella propone anche una organizzazione della giornata che, tuttavia, raramente assume
le caratteristiche più rigide proprie di altri metodi. Per persone autistiche con abilità linguistiche e
intellettive superiori si integra con altre modalità educative.
I risultati di questo metodo cambiano a seconda delle sindromi e delle disabilità presenti e sono
migliori, in particolare, nella Sindrome dismaturativa con tic complessi familiari a esordio precoce e
nei disturbi dell'umore per la semplice ragione che si tratta dei disturbi a probabile carattere
neurotrasmissivo nei quali la reversibilità del disturbo autistico é maggiore. I risultati sono migliori
nei bambini piccoli sia perché in queste età la plasticità del sistema nervoso é maggiore sia perché
in essi l'intelligenza sensori-motoria ha una maggiore espressione.
In altri casi e fasce d'età si possono avere dei miglioramenti di vario grado a seconda della
condizione e del grado di disabilità. Il setting in cui si svolge l'intervento é costituito da una ampia
stanza, dotata di specchio unidirezionale e attrezzata per la videoregistrazione nella quale vi sia
spazio sufficiente perché il bambino si possa sentire libero di muoversi e deve essere dotato di
attrezzature quali tavolo, sedie, poltrone o divani, oltre a un certo numero di giochi. Al genitore
viene proposto di cercare di stabilire un rapporto con il figlio e di collaborare con lui ad attività
come disegnare, costruire una torre di cubi, guardare e denominare delle figure, e altre simili.
Il tentativo di stabilire un rapporto con il bambino viene portato avanti da un genitore insieme a
uno dei terapeuti, mentre l'altro genitore con l'altro terapeuta assistono dietro lo specchio. Il
terapeuta ha il compito di rappresentare un relativo modello per il genitore (e non tanto, e non solo,
dando delle spiegazioni razionali) che in genere é frustrato dai ripetuti fallimenti sperimentati in
passato nel tentativo di catturare la disponibilità del figlio.
Durante le sedute il genitore sperimenta un rapporto corporeo emotivo col figlio, nella direzione
della intersoggettività secondaria. L'obiettivo di alcuni di questi interventi può essere strategico e
cioè puntare a cambiare e migliorare in tempi brevi il tipo di relazione genitore-figlio. Tra una
seduta e l'altra trascorrono in genere alcune settimane, durante le quali i genitori dedicano circa
un'ora al giorno ad attività di gioco e di rapporto diretto con il bambino analoghe a quelle fatte in
seduta.
I precedenti storici di questo intervento vanno in parte ricondotti all'introduzione dell'etologia in
psichiatria infantile da parte di Tinbergen e all'holding, una pratica terapeutica anch'essa sostenuta
in particolare dai coniugi Tinbergen. Nell'holding il bambino veniva tenuto in uno stretto rapporto
corporeo da uno dei genitori, faccia a faccia, ricercando una sintonia emotiva e ripetendo le sue
espressioni vocali che venivano poi modificate e arricchite dall'adulto. A questo seguiva
un'interazione libera, festosa e collaborativa.
Negli anni ottanta l'holding ha consentito ad alcuni bambini di perdere il comportamento autistico
e diventare degli adulti normali: per alcuni di questi si trattava di soggetti affetti dalla Sindrome
dismaturativa con tic complessi familiari a esordio precoce. Ha permesso ad altri con evidente
danno organico di sviluppare un linguaggio verbale. Il tipo di interazione sensori-motoria che
caratterizzava quest'approccio facilitava questi progressi.
L'holding, tuttavia, schematizzava in maniera poco naturale, rigida e tra loro separata, le forme di
interazione del tipo dell'intersoggettività primaria e secondaria come pure gli interventi che
facilitavano l'articolazione del linguaggio. In altre parole: nella vita comune non succede mai che un
bambino venga tenuto per tempi lunghi nelle braccia del genitore in un rapporto faccia a faccia:
viceversa, il confronto di reciprocità corporea si articola di continuo con momenti di gioco e di
movimento. Per questo eccessivo schematismo l'holding diventava inappropriamente costrittivo.
Chiariti questi aspetti e alla luce delle nuove conoscenze sulle diverse sindromi autistiche, che
negli anni ottanta erano molto minori, l'holding oggi va considerato un metodo superato.
Altri interventi
La Therapie d'Echange et Developpement (TED)
La base di partenza della TED, sviluppata da Lelord, Sauvage e dal gruppo di Tours, è
rappresentata da alcune ricerche neurofisiologiche che hanno indagato fenomeni come
l'associazione sensoriale crociata e l'acquisizione e l'imitazione libera.
Con associazione sensoriale crociata si intende quel fenomeno che si osserva quando vengono
registrate le risposte elettroencefalografiche conseguenti ad un suono e ad uno stimolo luminoso che
segue di un secondo il suono. Ciò che si osserva è che dopo alcune presentazioni di questa coppia di
stimoli, il primo (il suono) evoca una risposta nella zona visiva occipitale, quella che è solitamente
attivata dallo stimolo luminoso. Perché si verifichi questa associazione non è necessaria alcuna
forma di rinforzo (come per es. il cibo). Si tratta, infatti, di un processo cognitivo che si realizza
spontaneamente, e che è presente, sebbene in modo irregolare, nel bambino autistico.
Nei bambini autistici, inoltre, si osserva anche, in certe condizioni il fenomeno dell'acquisizione
libera, non condizionata da alcun rinforzo e non vincolata dalla presenza, in sede di apprendimento,
di una sequenza temporale predefinita.
Accanto alla presenza dell'acquisizione libera, si osserva anche quella di imitazione libera: questa
è stata dimostrata attraverso una registrazione elettroencefalografica fatta con bambini che guardano
un filmato in cui vengono proiettati movimenti ginnici. Si osserva che durante la percezione dei
movimenti ginnici avvengono delle modificazioni elettroencefalografiche nelle aree motorie del
soggetto, sincronizzate con i movimenti proiettati sullo schermo. Il bambino autistico sarebbe in
possesso, secondo questi autori, di una capacità di imitazione libera, sebbene poco strutturata.
I risultati di queste ricerche mettono in evidenza una curiosità fisiologica naturale, la tendenza
biologica ad associare, comprendere e ricercare dei significati. Il terapeuta deve organizzare il
setting e le attività da proporre al bambino tenendo conto di queste capacità che anche il bambino
autistico possiede, seppur in misura ridotta e non strutturata.
Da queste premesse Barthelemy, Hameury e Lelord traggono i principi ispiratori della TED, che
attraversano tutte le attività proposte al bambino, che come abbiamo visto puntano a sviluppare le
diverse funzioni psicofisiologiche. Questi principi sono stati definiti dagli autori: la "tranquillità", la
"disponibilità" e la "reciprocità".
Con tranquillità si intende definire in particolare il setting in cui ci svolge l'intervento. Questo è,
in genere, costituito da una stanza di dimensioni limitate, spoglia, in cui sono presenti un tavolo e
due sedie. Spesso è presente uno specchio unidirezionale che consente l'osservazione diretta della
seduta. In questa stanza domina la calma e non si avvertono rumori esterni disturbanti. La principale
fonte di interesse per il bambino è data dal terapeuta che, attraverso una modalità di interazione
esclusiva ed attenta, gli propone un'attività o un gioco alla volta.
Questa organizzazione del setting ha lo scopo di favorire al massimo l'attenzione del bambino e la
sua decodifica dei messaggi, riducendo al minimo la presenza di stimolazioni distraenti o confusive.
La disponibilità del terapeuta (secondo principio) è finalizzata a facilitare l'apertura del bambino
verso il mondo esterno e a favorire la sua naturale curiosità. I tentativi del bambino di rompere il
suo isolamento sono incoraggiati e si cerca di sviluppare la sua iniziativa spontanea; anche la più
piccola manifestazione di attenzione da parte del bambino viene incoraggiata.
La reciprocità si esplica attraverso giochi ed attività che comportano uno scambio di oggetti, di
gesti, di vocalizzazioni, di emozioni, ecc., tra terapeuta e bambino. Lo scopo della reciprocità è
quello di stimolare la comunicazione.
Le attività che vengono proposte al bambino sono quelle contenute nel progetto educativo
individuale, basato sull'analisi funzionale, e riguardano l'attenzione, la percezione, l'associazione,
l'intenzione, la motricità, la capacità di contatto e la comunicazione. Il progetto terapeutico
complessivo, che può prevedere anche cure mediche e interventi di operatori diversi, viene definito
da tutti i membri dell'équipe che hanno partecipato alla valutazione, e concordato con la famiglia. Il
coinvolgimento attivo della famiglia è un'altra delle caratteristiche fondamentali della TED.
Sono previste verifiche periodiche tra i membri dell'équipe, che si avvalgono delle
videoregistrazioni delle sedute e della valutazione fatta attraverso l'uso di scale appositamente
costruite.
L'intervento viene condotto nel contesto di un Hopital de Jour, e prevede l'inserimento in gruppi
ed attività (come per esempio, la scuola materna) interni alla struttura ospedaliera.
La TED viene condotta preferibilmente nel setting classico descritto sopra; può però svolgersi
anche in altri ambiti, fatti salvi i principi generali della tranquillità, disponibilità e reciprocità. La
stanza della logopedia, quella di psicomotricità, o in casi particolari l'acqua di una grande vasca da
bagno, possono essere altrettanti luoghi in cui la TED viene condotta.
L'intervento può anche essere condotto con due bambini contemporaneamente, qualora lo scopo
principale sia di favorire la socializzazione. Queste situazioni, in genere, vengono attivate dopo che
è stata fatta una TED classica, con bambini che hanno ancora problemi di socializzazione, spesso
con componente aggressiva. Al bambino viene affiancato un altro bambino con analoghe capacità,
bisognoso di sviluppare la comunicazione, ma più calmo.
Alla TED vengono affiancati interventi con gruppi più allargati di bambini, ma anche in questo
caso i principi ispiratori dell'intervento sono quelli visti in precedenza . Il contesto in cui si svolge
questo intervento dovrà essere rassicurante, prevedibile, con precise sequenze temporali.
Pet Therapy
Nata negli Stati Uniti, solo da pochi anni viene praticata anche in alcuni centri del nostro Paese.
Letteralmente significa terapia con animali, viene chiamata anche terapia dolce e prevede l'utilizzo
degli animali per migliorare la qualità di vita delle persone e mira a seguire il soggetto problematico
e non tanto il problema o la malattia, in tal modo l'animale diventa il ponte invisibile tra operatore e
soggetto seguito.
La Pet Therapy si suddivide in: 1) Attività Assistita con Animali (A.A.T.), che risulta essere una
terapia vera e propria rivolta a persone con problemi fisici e/o psichici, da affiancare ad altre cure,
dove viene precedentemente fatto un progetto individualizzato da seguire, che prevede la scelta
dell'animale adatto in base allo scopo da raggiungere e la presenza di un'équipe multidisciplinare
che collabori a tale progetto (compresa la stesura e la verifica del progetto stesso); 2) Attività
Assistite con Animali (A.A.A.) che mirano a migliorare la qualità di vita delle persone in situazione
di disagio, in quanto l'animale risulta, essere un perfetto tramite per lo sviluppo delle relazioni.
La Pet Teraphy viene utilizzata anche a livello ludico (gioco), per la socializzazione, per favorire
la comunicazione e per lo sviluppo e/o potenziamento della responsabilità e dell'autostima.
L'animale in sé è un "catalizzatore" sociale capace di creare situazioni positive e rilassanti; cane,
gatto, cavallo, delfino (e non solo) sono gli animali più conosciuti che svolgono un importante ruolo
nei confronti di persone con disabilità psicofisica.
Il cane, in particolar modo, è il soggetto preferito dai seguaci della Pet Therapy; come cane
sociale per migliorare le condizioni psichiche e/o fisiche di bambini, adulti, anziani; come cane di
servizio per aumentare la mobilità delle persone con limitazioni fisiche, come cani da passeggio per
persone cieche o sorde.
La Delfinoterapia è un'attività praticata negli Stati Uniti da oltre 15 anni, in Italia è giunta verso il
1993 e viene svolta nei mesi estivi, nei delfinari di Rimini e Brindisi. È una terapia indicata nei casi
di autismo infantile, negli stati depressivi degli adulti e per taluni disturbi psichici.
I benefici di tale attività sono dati dal rilassamento e da un completo benessere psico-fisico che si
basa su contatti spontanei tra i delfini e le persone che nuotano e giocano con loro.
Per tale attività viene richiesta una buona acquaticità (e purtroppo è problematico parteciparvi
perché vi sono liste di attesa lunghissime, di oltre 6 mesi).
L'Ippoterapia, detta anche Riabilitazione Equestre, è destinata a coloro che presentano disturbi
neuromotori, motori sensoriali e relazionali, (e quindi adattissima anche ai soggetti Autistici),
Il cavallo stimola il proprio "cavaliere" nell'equilibrio, nel coordinamento motorio, nel processo
Spazio-temporale. Si ha, inoltre, un forte beneficio psicologico con conseguente aumento
dell'autostima.
Gli scopi della Riabilitazione Equestre sono la conservazione degli arti sani, lo sfruttamento dei
gruppi muscolari colpiti da alterazioni invalidanti e miglioramento della situazione statica e
dinamica, ottenendo dei miglioramenti sulle condizioni psichiche.
Elemento fondamentale di tale attività è il cavallo che mette a disposizione una ricchezza di
strumenti naturali quali il ritmo, la sua corporeità, le sensazioni. provocate dal suo movimento, non
statiche ma in continuo mutamento, che scatenano delle reazioni in chi ci sta sopra risvegliando in
loro capacità che in altro modo difficilmente avrebbero potuto sperimentare, data la particolarità
dello "strumento" utilizzato.
Gli animali in quest'ottica, diventano co-terapeuti, diventano il mezzo per raggiungere lo scopo.
L'animale prima dì tutto offre la possibilità di stabilire una relazione, non fa domande, accetta
incondizionatamente chi ha di fronte qualsiasi sia la sua patologia o problematica sociale.
In questo senso l'amicizia che si stabilisce con un'animale non è solo terapia, ma anche
prevenzione e protezione dell'equilibrio psico-fisico dell'individuo.
Molto importante è l'elemento ludico, il bambino in particolar modo attraverso il gioco raggiunge
risultati difficilmente ottenibili con attività imposte prettamente terapeutiche e/o riabilitative. Agli
animali si può insegnare, dagli animali si può imparare.
LA COMUNICAZIONE FACILITATA
Antecedenti storici
Gli antecedenti della Comunicazione Facilitata si possono rintracciare in alcuni lavori svolti nei
primi anni settanta. Già negli anni sessanta, comunque, si ha notizia di due pediatri newyorkesi,
Goodwin e Goodwin, che si occuparono di più di 60 studenti con diagnosi di autismo alcuni dei
quali erano in grado di digitare su uno strumento detto "la macchina per scrivere parlante".
Nonostante sembrasse che alcuni ragazzi fossero riusciti a digitare messaggi pertinenti e finalizzati,
dagli appunti non è tuttavia risultato se il braccio degli studenti fosse sostenuto in qualche modo.
Sapere questo è importante ai fini del nostro studio, dato che, come vedremo, la Comunicazione
Facilitata si distingue dalle altre forme di Comunicazione Aumentativa ed Alternativa proprio
soprattutto per il fatto di fornire l'aiuto di un supporto fisico.
Nel 1974 fu pubblicato un articolo da Oppenheim nel quale si affermava che era stato possibile
permettere ad alcuni studenti con autismo di scrivere, sostenendo loro la mano e riducendo
gradualmente l'aiuto. Per il fatto che alcuni dei bambini, per scrivere, volessero che si toccasse loro
il dito o qualche altra parte del corpo, come la testa, già da questi esperimenti ci si rese conto di
come nella Comunicazione Facilitata sia importante il fattore contatto-presenza del "facilitatore". Si
vedrà come anche tra chi è riuscito a scrivere senza nessun contatto col suo facilitatore non ci sia
ancora mai stato nessuno in grado di produrre uno scritto senza averlo almeno seduto a fianco nelle
immediate vicinanze.
Circa dieci anni più tardi, nel 1985, i coniugi Shawlow affermarono che Art, il loro figlio con
autismo, poteva scrivere con un dispositivo elettronico di cui sarebbero venuti a conoscenza grazie
ad uno studioso svedese. Nello stesso anno anche una coppia di genitori di Ottawa, gli Easthmam,
riferirono d'essere riusciti ad insegnare al proprio figlio David a digitare. Entrambe le coppie
affermarono comunque che ciò era possibile solo con il contatto rassicurante di una mano sul
braccio o sulla spalla.
Prime esperienze
La Comunicazione Facilitata viene impiegata con questo nome per la prima volta in Australia
all'inizio degli anni '70 da Rosemary Crossley, un'insegnante del St. Nicholas Hospital, con 12
bambini con handicap fisici e mentali. Il metodo consiste nel sostenere fisicamente il braccio della
persona così da permetterle di digitare su una tastiera o indicare su un foglio appropriato (la tavola
alfabetica) parole e frasi, in maniera da consentirle di esprimere i propri pensieri anche
nell'impossibilità di usare il linguaggio verbale o i gesti.
Benché dalle osservazioni di Crossley sembrasse che i bambini da lei trattati fossero in possesso
di abilità intellettuali normali o superiori, tali risultati non furono considerati convincenti dai suoi
superiori, che non le consentirono di continuare il programma con bambini affetti da handicap
grave.
Nel 1985, comunque l'autrice, sperimentò la tecnica con alcuni bambini affetti da autismo, i quali,
secondo le sue osservazioni, rivelarono inaspettate competenze linguistiche a dispetto dei diversi
problemi che essi avevano invece nella sintassi e nell'uso corretto dei pronomi con il linguaggio
verbale.
Dopo essere stata definitivamente allontanata dall'ospedale, Crossley aprì nel 1986 a Melbourne il
DEAL, Centro per la Comunicazione (Dignity through Education and Language), di cui era
coordinatrice del programma e il metodo iniziò a diffondersi.
Diffusione della Comunicazione Facilitata
La Comunicazione Facilitata fu portata negli Stati Uniti nel 1989 da Douglas Biklen, sociologo e
professore di Istruzione Speciale presso la Syracuse University di New York, dopo che egli ebbe
conosciuto il lavoro della Crossley in Australia presso il centro da lei fondato. Vi andò perplesso e
incredulo di quanto aveva sentito dire e tornò entusiasta e desideroso di sperimentare la tecnica.
Nonostante inizialmente la Crossley utilizzasse il metodo solo con persone con disabilità motorie,
Biklen estese l'uso della tecnica anche a persone con gravi deficit cognitivi.
I Mass Media hanno avuto nella diffusione della Comunicazione Facilitata un ruolo rilevante,
soprattutto in Nordamerica, dove se ne è parlato frequentemente in articoli apparsi su riviste e
quotidiani e in programmi televisivi, come 60 Minutes e Frontline. Quest'ultimo, trasmesso sulla
PBS (Public Broadcasting System) ha dedicato al fenomeno Comunicazione Facilitata una puntata
intitolata Prisoners of Silence.
Attualmente anche in Italia si è parlato di Comunicazione Facilitata in televisione: nel corso della
puntata del Maurizio Costanzo Show andata in onda il 7 ottobre 1999 fra gli ospiti vi era Carlo
Carlone, padre di Matteo, un ragazzo di diciotto anni affetto da autismo. Durante il programma è
stata raccontata la storia del figlio e di come, grazie alla tecnica della Comunicazione Facilitata, da
qualche mese il ragazzo avesse svelato ai propri genitori una realtà per loro insospettata, anche se
non si è accennato alle numerose controversie sulla validazione del metodo.
Già dal 1991, comunque, la tecnica aveva fatto la sua prima apparizione in televisione, sulla ABC,
che gli dedicò un servizio nella trasmissione Part-time Live in cui la Comunicazione Facilitata
veniva descritta come un nuovo strumento di comunicazione grazie al quale persone con gravi
disturbi, non ritenute perciò in grado di compiere le più elementari operazioni cognitive,
mostravano sorprendenti capacità espressive ed insospettate abilità.
Nel 1993 viene riportato il caso di un ventisettenne ritenuto affetto da ritardo mentale, il quale,
tramite la Comunicazione Facilitata, ha mostrato di possedere inaspettate competenze.
La rivista Newsday è invece stata palcoscenico di testimonianze contrastanti in materia di
Comunicazione Facilitata: ai dubbi riportati in un articolo del numero di gennaio 1993 seguì la
pubblicazione della storia positiva dell'impiego della Comunicazione Facilitata con il figlio affetto
da autismo di un membro dello staff dello stesso giornale.
Non solo il mondo accademico, ma anche l'opinione pubblica inizialmente si interessò molto alla
Comunicazione Facilitata, perché gli scritti dei facilitati sembravano portare alla luce un problema
scabroso: quello dell'abuso sessuale o violenze da parte dei genitori e degli educatori. Borthwick,
Morton, Biklen, e Crossley hanno firmato un articolo in cui si sottolineava come la Comunicazione
Facilitata consentisse finalmente ad un categoria socialmente debole di esporre denunce così da
difendersi dalle violenze sessuali. Balza perciò in primo piano, come affronteremo fra poco nel
prossimo capitoletto, l'esigenza di stabilire la veridicità e l'affidabilità delle testimonianze ricavate
per mezzo della Comunicazione Facilitata, tanto che furono spesso i tribunali il contesto in cui si
resero necessarie diverse ricerche sulla validazione del metodo. Da una rassegna sull'argomento
risulta che venti casi giudiziari per abuso sessuale si sono tutti conclusi col ritenere falsi o
comunque non credibili gli allegati, prodotti tramite Comunicazione Facilitata, nei quali veniva
esplicitata la denuncia.
Controversie sulla Comunicazione Facilitata
In un articolo del 1993, Rimland riportava un accumularsi di dati sperimentali sfavorevoli al
riconoscimento della Comunicazione Facilitata come valido strumento di supporto alla
comunicazione comprendenti, oltre ad un lungo elenco di processi conclusisi con sfiducia verso la
tecnica in questione.
Secondo Rimland, l'atteggiamento "eccessivamente entusiastico" di Biklen appariva smorzarsi
all'emergere di alcuni dati (si trattava di 11 risultati marginalmente positivi su un totale di 285
portatori di handicap). L'autore affermava infatti che la Comunicazione Facilitata può essere utile
per molti che non parlano, o il cui linguaggio è fortemente disturbato, confermando come la
Comunicazione Facilitata non si riveli utile con tutti: il suo successo dipende da fattori neurologici
(tremori, tono muscolare, sensibilità propriocettiva), esperienze didattiche e opportunità di pratica.
Secondo Rimland, queste affermazioni differiscono molto da altre precedenti, in base alle quali il
metodo sarebbe efficace con il 100% delle persone con limitazioni gravi nella comunicazione. A
tutto ciò seguì la decisione del Governo Australiano di effettuare un taglio ai finanziamenti al
DEAL Communication Center.
Nello stesso articolo scriveva però anche lo stesso Biklen, ammettendo che bisogna attribuire
credibilità ed importanza alle comunicazioni verbali più che a quelle prodotte con la
Comunicazione Facilitata, nel caso, naturalmente, in cui sia presente una seppur minima capacità di
verbalizzazione.
L'argomentazione più forte e pericolosa nei confronti della Comunicazione Facilitata veniva dal
dubbio che quanto i soggetti riuscivano a produrre grazie a questo metodo non provenisse da essi
stessi ma dal facilitatore. Si parlò addirittura di frode, affermando che i facilitati erano semplici
pupazzi nelle mani del facilitatore.
Già nel 1988, infatti, un gruppo di operatori nel campo del ritardo mentale scrisse un articolo in
cui si contestava l'uso indiscriminato della Comunicazione Facilitata, dato che i risultati provavano
che vi era l'influenza del facilitatore nella produzione dei messaggi.
Ciò stimolò l'Intellectual Disability Review Panel a richiedere una verifica più approfondita
dell'affidabilità e della validità del metodo. Tuttavia, solo tre soggetti del DEAL Communication
Center furono disposti a partecipare. Dalla ricerca emerse che, di questi, uno soltanto era in grado di
comunicare realmente grazie alla Comunicazione Facilitata. In seguito comunque fu messa in
evidenza l'ambiguità dei risultati di quel soggetto.
La Crossley e Biklen risposero a questi dubbi con il breve documento riportato qui sotto, che
ebbe larga diffusione tra gli operatori e fruitori della tecnica della Comunicazione Facilitata:
"Congratulazioni, è un piacere incontrarti e vederti utilizzare il tuo aiuto alla comunicazione,
eccoti alcuni suggerimenti che potranno aiutare te e i tuoi partner alla comunicazione.
TU: la tua comunicazione sarà più efficace se tu cercherai di guardare il tuo obiettivo mentre stai
indicando, questo fatto migliora la tua abilità, ti permette di controllare il tabulato ed è comunque
essenziale per poter raggiungere l'indipendenza, correggi il tuo facilitatore se ti rendi conto che
non ti sta capendo. Se il tuo facilitatore legge male ciò che stai indicando o non capisce il tuo
messaggio faglielo sapere. Per questo hai un'opzione sul tuo congegno di comunicazione: l'opzione
errore o il tasto per il ritorno. Utilizza il tuo congegno per comunicare con il maggior numero di
persone, ciò aumenterà la tua indipendenza e ti permetterà di comunicare più spesso.
IL TUO FACILITATORE: tu sarai un buon facilitatore se controllerai sempre che la persona
facilitata stia guardando il congegno di comunicazione mentre indica. Altrimenti gli osservatori
potranno pensare che tu stia producendo il messaggio. Dai costante rinforzo, ripeti le parole e le
frasi man mano che il messaggio viene costruito, se stai usando una cartellina di comunicazione
dovrai ripetere ogni lettera in modo che l'utilizzatore sappia sempre che tu hai ben visto ciò che ha
indicato e ti possa quindi correggere se necessario. Dai il minor supporto necessario perché la
facilitazione è tesa a migliorare le abilità o le capacità di indicare e via via che questa capacità si
sviluppa la facilitazione deve essere ridotta. L'obiettivo è l'indipendenza".
Come si può rilevare da questo documento, i problemi maggiori vertevano sull'impressione che si
poteva avere che fosse il facilitatore a produrre i messaggi, soprattutto nel caso in cui il facilitato
non guardasse o guardasse poco l'obiettivo o nel caso in cui il rinforzo e supporto fisico sembrasse
eccessivo. Le raccomandazioni di questo scritto cercano di ovviare a questi rischi.
Oltre a ciò, anche Mayer Shevin, collega di Biklen, cercò di dire qualcosa in difesa
dell'attendibilità della Comunicazione Facilitata. Egli scrisse sulla tendenza di tutte le persone di
cercare suggerimenti per aiutarsi nella comunicazione: notare che anche i facilitati avessero questa
tendenza non avrebbe minato più di tanto la validità del metodo. L'autore individuò comunque
alcune strategie perché i facilitati e i facilitatori non cadessero nella trappola del suggerimento: "1)
espandere il numero delle persone con cui i due partners utilizzano la Comunicazione Facilitata; 2)
il facilitatore deve rendersi conto di quale sia il proprio modo di dare suggerimenti, anche se
inconsapevoli e di come in tutte le situazioni questo fattore possa essere esplicitamente discusso tra
i due partners; 3) sia il facilitato che il facilitatore dovrebbero sempre poter identificare le situazioni
in cui è più facile che si diano suggerimenti".
L'aspetto positivo delle controversie sulla Comunicazione Facilitata è che tali difficoltà hanno
spinto questo metodo a una propria profonda revisione e miglioramento. Un po' ovunque i suoi
sostenitori hanno cercato di dimostrarne in vari modi l'attendibilità, anche mediante la
somministrazione di tests di non facile produzione e codifica, data la situazione delle persone alle
quali venivano fatti sperimentare. Se, ad esempio, il facilitato produceva un messaggio il cui
contenuto era impossibile che il facilitatore potesse conoscerlo, ciò veniva considerato come
garanzia che l'autore di tale comunicazione fosse proprio il facilitato. Sono essenzialmente quattro
le prove di paternità che questi tests cercano di portare alla luce: 1) la presenza di una fraseologia
caratteristica, modi di dire, frasi estranee al facilitatore; 2) la presenza di informazioni sconosciute
al facilitatore; 3) il completamento della parola, prima che venga del tutto scritta, con la voce da
parte del facilitato; 4) la scrittura autonoma.
Non esistendo ancora risultati del tutto chiari e convincenti e, soprattutto, non avendoli riscontrati
in una certa misura, il dibattito resta tuttora aperto. Lo stesso Biklen, direttore del Centro per la
Comunicazione Facilitata presso l'Università di Syracuse, in un recente convegno, ha rinnovato la
richiesta di collaborazioni, ricerche e contributi di pensiero originali e critici. E anche in Italia si è
mossa ultimamente la ricerca universitaria, in particolare il Dipartimento di Psicologia di Genova,
che ha presentato recentemente in ambito nazionale i primi risultati di un gruppo di lavoro.
Un altro elemento controverso nei confronti della Comunicazione Facilitata, che tocca forse dei
livelli ancora più profondi e insondati della problematica, riguarda la convinzione di molti studiosi
che gli autistici siano impossibilitati a possedere e far uso del codice simbolico letterario. Se questo
è vero, i soggetti autistici non sarebbero in grado nemmeno di "pensare" in termini di "parole",
mentre sarebbero capaci di sfruttare il codice simbolico-iconico delle immagini, come propongono
le altre forme di Comunicazione Aumentativa e Alternativa. Anche nel caso di questa problematica
abbiamo però pareri diversi, come quello di Joanne Cafiero, direttrice del "Progetto Autismo" alla
John Hopkins University Center for Technology in Education, che afferma che "alcuni bambini
autistici preferiscono le parole invece dei simboli, per cui è possibile inserirle al posto delle
immagini. In alcuni casi si è cominciato con i simboli per poi passare alle parole".
La Comunicazione Facilitata in Europa
Nel 1990, una collaboratrice di Biklen, la logopedista Shubert, illustrò il metodo ad un gruppo di
genitori di bambini con autismo di Berlino, tra i quali si trovava anche Anne-Marie Sellin, madre di
Birger, il ragazzo affetto da autismo che nel 1993 sarebbe diventato famoso pubblicando un libro
sulla propria condizione, "Prigioniero di me stesso", una raccolta di numerosi testi che Birger
scriveva ogni giorno grazie alla Comunicazione Facilitata dall'anno in cui fu iniziato all'utilizzo
della tecnica.
Grazie ai seminari che Anne-Marie Sellin tenne in seguito sulla Comunicazione Facilitata dal
1992, venne a conoscenza del metodo Stork, psicoterapeuta e direttore della Poliklinik für Kinder
und Jugendpsychotherapie der Technischen Universitat, di Monaco di Baviera, e dal 1993 anche in
Germania cominciarono studi osservativi sui vari casi. "I casi documentati da Stork sono tormentati.
Non accade affatto che l'accesso alla comunicazione venga vissuto con la gioia di una liberazione.
La novità della scrittura è qualcosa di importante ma da tenere riservata a pochi e da non rivelare chiedono alcuni dei soggetti di cui è data documentazione - ai genitori. Vi sono espressioni di
aggressività e di coinvolgimento sessuale con l'educatrice".
Vi sono esperienze di Comunicazione Facilitata di un certo interesse anche in Francia, dove
Vexiau svolge attività di terapia e ricerca presso il centro da lei stessa fondato, l'EPICEA
(Insegnamento Pratico e Informazione sulla Comunicazione con il Bambino Autistico) a Suresnes.
Dopo un'esperienza di trattamento con 170 soggetti, la Vexiau conclude che non bisognerebbe
considerare gli individui con autismo come persone normali a cui mancherebbe solo la parola, dato
che comunque la loro struttura è differente e la Comunicazione Facilitata non può cancellare la
condizione autistica, ma può comunque aiutare a comprenderla meglio.
La Comunicazione Facilitata in Italia
La Comunicazione Facilitata è stata introdotta in Italia da un genitore, Patrizia Cadei, la cui
formazione è stata curata direttamente dal prof. Biklen, Direttore del già citato Istituto all'Università
di Syracuse. Inizialmente, onde evitare appropriazioni scorrette del metodo, l'informazione e la
formazione sono state seguite direttamente dalla Sig.ra Cadei attraverso l'ANGSA (Associazione
Nazionale Genitori Soggetti Autistici). I risultati sono stati talmente incoraggianti da indurre il Prof.
Biklen a sollecitare la formazione di gruppi di supervisione al metodo in vari punti d'Italia.
La Cadei, madre di Alberto, un ragazzo affetto da autismo è dunque la prima ad impiegare la
tecnica della Comunicazione Facilitata in Italia. Il suo primo contatto con questo metodo è avvenuto
per puro caso nel 1992 durante un viaggio negli USA, in seguito al quale Cadei ha contattato
Biklen, che le fornì materiale più dettagliato, da cui scaturì quella che si può definire,
probabilmente, la prima esperienza di Comunicazione Facilitata in Italia.
Avvantaggiata dall'essere membro dell'Italian Autism Society, la Cadei intraprese un'intensa
attività di pubblicizzazione della nuova tecnica, che considerava estremamente positiva, spostandosi
per diversi anni attraverso l'Italia, sempre accompagnata dal figlio, che nel frattempo faceva
importanti passi avanti verso la scrittura indipendente.
Nel 1997 è stato tenuto a Roma, presso la sede dell'ANGSA, il "Corso di Formazione Pratico per
Insegnanti sulla Comunicazione Facilitata con il Bambino Autistico", riconosciuto dalla regione
Lazio. D'altronde, l'ANGSA Lazio non era nuova ad attività concernenti la Comunicazione
Facilitata: nel 1996 aveva organizzato il "Convegno Internazionale sulla Comunicazione
Facilitata", a cui presero parte varie figure rappresentative sia nazionali (Cadei e Benassi) che
internazionali (Biklen).
Attualmente, a Roma, è attivo un "Centro Studi sulla Comunicazione Facilitata" diretto da
Francesca Benassi, la quale, oltre ad un'intensa attività come facilitatrice, prima presso l'ANGSA
Lazio, quindi con la Cooperativa Didasco, ha pure diretto il corso di formazione per insegnanti
sopra menzionato, ed inoltre, collabora sin dai primi anni '90 con Cadei che, similmente, ha
istituito, insieme all'ANGSA Liguria, un "Centro Studi e Ricerche sulla Comunicazione Facilitata".
La proposta di Cadei è di considerare facilitatori solo le persone che siano state formate presso
uno dei centri riconosciuti e che abbiano lavorato per almeno 8 mesi con una persona con disabilità,
sotto un'adeguata supervisione. Il Centro Studi sulla Comunicazione Facilitata, ha anche altre
regole:



la Comunicazione Facilitata si applica rispettando la consequenzialità di specifiche fasi;
qualsiasi persona con disabilità viene inizialmente preparata da un supervisore esperto che
stabilisce il programma da far poi portare avanti alla famiglia, agli insegnanti e agli
operatori coi quali la persona dovrà lavorare;
è fortemente sconsigliato l'uso della tecnica agli psicoanalisti, salvo esplicita richiesta del
facilitato.
Mentre negli USA, il Facilitated Communication Institute della Syracuse University, in virtù della
sua indiscussa autorità in tema di Comunicazione Facilitata, si è fatto carico di fornire delle linee
guida sull'applicazione del metodo stesso, in Italia invece è mancata una figura di uguale rilevanza
per stabilire parametri circa l'utilizzo della Comunicazione Facilitata.
Recente è un tentativo in questa direzione ad opera di Cadei, a seguito del quale sono nati e
attualmente attivi in Italia 12 centri di supervisione (cfr. elenco qui sotto), gestiti da neuropsichiatri,
neurologi e due pedagogisti, con il loro staff di terapisti in grado di utilizzare il metodo della
Comunicazione Facilitata.
I 12 Centri per la Comunicazione Facilitata in Italia sono i seguenti:









Neuropsichiatria Infantile dell'Ospedale Giovanni XXIII (Bari): dott.ssa Silvana Bitetto,
neuropsichiatra; sig.ra Luisa Tricarico, psicomotricista.
Centro Ricerca Autismo dell'USL 20 (Verona): dott. M. Brighenti, neuropsichiatra.
Istituto "A. Quarto di Palo" (Andria, BA): dott.ssa T. Calvario, neurologa.
Cooperativa "Didasco" (Roma): Francesca Benassi, logopedista.
Centro Studi Futura (Ottaviano, NA): prof. R. Ascione.
ASL 5 (Bari): d.ssa A. Dellarosa, neuropsichiatra.
Cooperativa di intervento (Mestre, VE): sig.ra Zambon, psicomotricista; sig.ra Orvieto,
logopedista; dott. S. Vitali, neuropsichiatra.
ANGSA Piemonte: d.ssa M. Millari, pedagogista.
Cooperativa Cultura e Lavoro (Terni): d.ssa M. Garotti, psicologa.



Cooperativa Olis (Carrara): sig.ra I. Piccini, psicomotricista.
ANGSA Marche: d.ssa A. Foglia, biologa; sig.ra L. Dottori.
ANGSA Liguria - Centro Studi sulla Comunicazione Facilitata: sig.ra P. Cadei.
I Centri sono organizzati recentemente in un Gruppo di Coordinamento dei Centri Italiani, dove si
propone anche un iter di formazione (vedi http://www.geocities.com/HotSprings/Spa/2576).
4.1. Cosa è la Comunicazione Facilitata
Per Comunicazione Facilitata si intende (definizione:) un metodo per facilitare la comunicazione
in cui un terapista abilitato - il facilitatore - offre un sostegno alla mano o al braccio di un individuo
con un deficit nella comunicazione - il facilitato - per aiutarlo ad indicare delle immagini o lettere o
ad usare una tastiera per digitare un testo: "comunicare in facilitazione significa scrivere a macchina
o indicare figure, lettere e parole. Un facilitatore (un insegnante, un membro della famiglia, un
amico o un altro partner di comunicazione) fornisce un supporto fisico, cioè un aiuto nello
stabilizzare il braccio o nell'isolare il dito indice, ma, soprattutto, fornisce un supporto emotivo".
Il supporto fisico può essere di tipo mano-su-mano oppure mano-su-braccio. Il facilitatore non
guida il facilitato nella scelta, ma piuttosto stabilizza il movimento e, in alcuni casi, effettivamente
rallenta la mano della persona che si accinge a compiere una scelta.
Le difficoltà fisiche ed emotive specifiche che il supporto di questa tecnica aiuta a superare sono:

uno scarso coordinamento occhio-mano;

un basso tono muscolare;

un elevato tono muscolare;

problemi nell'isolare o estendere il dito indice;

perseveranza nell'esecuzione di un compito;

utilizzo di entrambe le mani per eseguire un compito che ne richiederebbe una sola;

tremori ed instabilità muscolare;

problemi nell'iniziare un compito su comando;

impulsività'.
Con il passare del tempo il supporto regredisce ad un semplice tocco sulla spalla fino ad arrivare
all'indipendenza nello scrivere.
Questo metodo rientra in una delle forme di Comunicazione Aumentativa e Alternativa (AAC),
dato che si basa su diverse modalità di suggerimento e sollecitazione date al facilitato da parte del
facilitatore. Il suo specifico, rispetto alle altre tecniche di CAA, consiste nell'aiuto di supporto fisico
mano-braccio o mano-mano fornito dal facilitatore.
Questa tecnica non si presenta quindi propriamente come una "cura" per le disabilità (queste
restano), il suo utilizzo consente piuttosto ad una persona con problemi di comunicazione di
esprimere, attraverso un intervento graduale, il pensiero intrappolato a causa di una comunicazione
verbale nulla, insufficiente o stereotipata. Utilizza una "dipendenza" da mezzi e da persone per
costruire un futuro nel quale si possa comunicare nella maniera più possibile indipendente.
Vi è, sottostante, la supposizione (se non addirittura la convinzione) che le persone affette da
Sindrome autistica possano essere "molto più abili e intelligenti di quanto si possa presumere in
considerazione di una mancanza del linguaggio verbale o dell'incapacità di imparare a scrivere".
Essi sono sprovvisti di un mezzo di comunicazione efficace, perciò è difficile sapere ciò che stiano
effettivamente pensando.
È anche per questo motivo, oltre a quanto abbiamo già affrontato nel capitolo precedente, che la
Comunicazione Facilitata risulta essere un metodo "altamente controverso, perché contraddice la
diagnosi di ritardo mentale" che molti facilitati portano da sempre con sé.
La facilitazione permette di compensare i problemi neuromotori, la cui importanza non è stata mai
sufficientemente sottolineata nei casi di handicap mentale. Questi problemi neuromotori sono
passati inosservati soprattutto nelle persone con Sindrome autistica: mentre questi individui sono
molto spesso agili nei movimenti riflessi ed automatici, avviene che sia invece difficoltoso il
controllo volontario del movimento, sia a livello dei movimenti ampi che dei movimenti fini
necessari all'esecuzione della parola.
È propriamente da questa visione della disabilità che la Comunicazione Facilitata muove i suoi
passi, definendosi quindi essenzialmente come "aiuto" e "supporto" fisico per chi saprebbe
comunicare ma non lo riesce a fare per motivi neuromotori e non per ritardo mentale.
Necessità del contatto fisico
Molti dibattiti e perplessità sono stati causati, come è stato affrontato nel capitolo circa la storia
della Comunicazione Facilitata, proprio da una serie di impressioni che può dare a un osservatore
esterno il fatto che questa tecnica si avvalga di un supporto e contatto fisico.
Si pensi che è raro che un facilitato possa arrivare a comunicare senza nessun supporto di questo
genere e che, addirittura, anche tra chi vi riesce non c'è mai stato ancora nessuno in grado di
usufruire della tecnica senza avere almeno in fianco, seduto a pochissima distanza, il proprio
facilitatore.
Il contatto fisico nella Comunicazione Facilitata è comunque necessario, proprio perché il
problema del facilitato è molto spesso di tipo neuromotorio, come affermavo poco fa. Qui desidero
riproporre in maniera più ampia questo concetto del tutto centrale per la comprensione del compito
e delle risorse di questa tecnica. Se vi è un'incomprensione in questo senso, sarà molto probabile
avere forti pregiudizi nei confronti della Comunicazione Facilitata.
Non si deve pensare che i soggetti con difficoltà a iniziare e portare avanti un'azione volontaria,
come gli autistici, vivano semplicemente un problema di impedimento fisico del tipo di una paralisi.
Avviene qualcosa di più complesso a livello neurologico, che si definisce con il termine di
disprassia, ossia come un problema di avvio ed esecuzione dell'azione volontaria intenzionale: "in
pratica l'incapacità di fare ciò che desideri fare nel momento in cui lo vuoi fare".
Non si tratta di un semplice problema di movimento, ma di un disturbo di programmazione e
sequenziazione che, partendo da una mancata "propriocezione", influenza tutti i sistemi di
"funzionamento".
Tale disturbo influirebbe sulla capacità di organizzare e riadattare in modo volontario i programmi
motori. I ragazzi con Sindrome autistica presentano una dissociazione automatico-volontaria:
chiediamo loro di saltare e non lo fanno, come se non lo sapessero proprio fare, o non
comprendessero il comando, ma, dopo un po', verosimilmente, li vediamo saltare. Chiediamo di
pronunciare una lettera e non otteniamo risposta, ma, poco dopo li sentiamo pronunciare una frase
che contiene diverse di quelle lettere con le quali aveva fallito la ripetizione.
Quando si ha un difetto di programmazione, per iniziare un programma motorio è necessario
l'aiuto di uno starter. Il facilitatore ha proprio questa funzione di starter che esercita sia con il
contatto fisico che con la sollecitazione verbale e il messaggio empatico.
La programmazione di un movimento non è cosa facile, è una concatenazione e sinergia di eventi
e capacità quali:

corretta informazione sulle caratteristiche della stimolazione esterna in entrata (corretta
integrazione sensoriale);

corretta integrazione centrale dello stimolo;

decisione di agire in un certo modo (intenzionalità);

previsione dello schema motorio necessario per agire;

attivazione dello schema motorio e controllo di esso durante il corso dell'azione (corretta
propriocezione per il feed-back);

feed-back di ritorno che confermi il fatto che l'atto motorio è stato compiuto secondo le
previsioni.
La non funzionalità o l'imperfetta sinergia di una di queste componenti genera la scorretta
motricità che, alla fine porterà ad una caduta dell'intenzionalità stessa e al rifiuto di concentrarsi
sull'azione da compiere. La Comunicazione Facilitata ha il compito di ovviare agli inconvenienti di
tale scorretta o scoordinata motricità, cercando di equilibrare continuamente il bisogno di supporto e
contatto fisico con una graduale e progressiva capacità di indipendenza.
I risultati della Comunicazione Facilitata
Non bisogna dare per scontato che la Comunicazione Facilitata dia gli stessi risultati con tutti. I
risultati, anzi, sono del tutto variabili a seconda dei casi, tanto che vanno fatti dei test di valutazione
preliminare (lavori strutturati, come affronteremo fra poco) per stabilire le modalità e la gradualità
di approccio alla tecnica. "Il metodo non è un approccio uniforme… è, piuttosto, un insieme di
pratiche che devono essere pensate su misura per ogni individuo". Va anzi affermato che la
Comunicazione Facilitata è un metodo che può anche non funzionare con tutti. In alcuni studi
compiuti in California esso si è rivelato efficace per il 74% del campione dei fruitori. I risultati di
queste indagini sono comunque discutibili, dato che accostando indagini diverse si hanno risultati
differenti. In Italia, ad esempio, si ha riscontro concreto che almeno 600 persone usino con successo
della Comunicazione Facilitata, il che risulta essere un buon numero.
Perciò, nell'uno o nell'altro caso, non vanno accantonate altre forme e strumenti di comunicazione
e i contributi teorici e metodologici di altri ricercatori. Sembra più giusto ritenere che si debbano
anzi conoscere diversi approcci per usarli in relazione alla persona, secondo piani, tempi e modi
individuali, piuttosto che "adattare" la persona solamente alla metodica che si conosce e/o
eventualmente si preferisce.
Per quanto riguarda poi i risultati della Comunicazione Facilitata bisogna evitare due estremi: una
posizione troppo scettica e sospettosa che vede la produzione di questa tecnica in maniera troppo
condizionata dal facilitatore e una posizione troppo ottimistica che la considera una bacchetta
magica miracolosa.
Quando il prof. Biklen si recò in Australia a vedere incuriosito i risultati di quella che la Crossley
chiamava "Comunicazione Facilitata" era un po' scettico. Mentre egli parlava alla collega e allo
staff del DEAL erano presenti anche David e Jonathan, due ragazzi incapaci di linguaggio verbale.
Biklen parlò per una ventina di minuti, rivolgendo ai due ragazzi solo qualche frase
occasionalmente e facendosi l'idea, dal loro volto e comportamento, che essi non stessero seguendo
la conversazione. Quando però la Crossley diede a Jonathan il Comunicatore Canon (una piccola
tastiera elettronica che stampa su striscioline di carta), il ragazzo scrisse "MI PIACEEDOUGMMA
ÈMATTO". Alla richiesta di perché pensasse questo, egli rispose subito "EGLIMI PARLACOMESEIOFOSSIUMANO". Biklen ne rimaste stupito e sospettò che i due ragazzi fossero sì autistici, ma
non - come si dice - "a basso funzionamento", bensì "ad alto funzionamento" nella capacità
comunicativa. Anche dopo aver avuto la prova che essi erano proprio "a basso funzionamento",
Biklen non prese in considerazione la Comunicazione Facilitata per un anno e mezzo.
Successivamente provò la tecnica con Melvin, un ragazzino che grazie alla sua insegnante era già
riuscito a imparare alcuni segni per comunicare. Melvin imparò la Comunicazione Facilitata e
cominciò ad esprimersi in maniera molto più indipendente e ampia, dimostrando come fosse una
persona capace di pensiero complesso. Eppure era stato classificato come "ritardato mentale".
La Crossley riferisce che, dopo diversi anni di esperienza con la Comunicazione Facilitata, più di
trenta suoi clienti siano riusciti a scrivere in modo indipendente; a Syracuse Biklen afferma
qualcosa di simile. Dei risultati, quindi, per coloro che hanno potuto conoscere e appropriarsi in
maniera positiva con questa tecnica, innegabilmente ci sono.
L'obiettivo finale è quello dell'indipendenza totale nel comunicare, sia a livello fisico che
psicologico: alcuni riescono a comunicare senza supporto fisico, ma mai nessuno finora è riuscito a
farlo senza la presenza di un facilitatore che sieda nelle immediate vicinanze. Va anzi detto che
questa "indipendenza" risulta addirittura "terrificante" per le persone che affrontano il lungo
percorso della Comunicazione Facilitata. Scrive Maggie: "emozionalmente terribilmente difficile;
ho dovuto liberarmi da me stessa ad ogni passo verso l'indipendenza".
Gli elementi base della tecnica
Il metodo della Comunicazione Facilitata non può essere applicato in maniera identica i tutti i casi
sempre e comunque, né può essere replicato all'infinito per i soggetti per i quali si ritiene che sia
utile. Nonostante questo, esso consta di alcuni elementi base, così come li chiama Biklen. L'autore
ne individua 25, che sintetizziamo in questo modo:
Presentazione - Introduzione
1. Spiegare il metodo al facilitato in maniera semplice, senza nervosismo e, soprattutto, senza
trattare il facilitato come un bambino o una persona eccessivamente familiare.
2. Ritenersi ragionevolmente modesti e vulnerabili.
3. Essere in grado di portare avanti una conversazione a due, piuttosto che imporre una
relazione egoistica dominante.
4. Chiedere scusa per il processo di valutazione che necessariamente va di continuo messo in
atto mediante soprattutto numerose domande semplici e scontate.
5. Non usare etichette disqualificative come "ritardo mentale", ma parlare in termini
"personali" di individui con un certo tipo di disabilità.
Presupposti - Convinzioni
1. Dimostrarsi fiduciosi nella competenza del facilitato.
2. Riconoscere che ogni persona ha il desiderio di comunicare ed essere compresa.
Supporto fisico
1. Aiutare la persona a posizionarsi con i corpo in maniera corretta dinanzi allo strumento per
la Comunicazione Facilitata.
2. Mentre il facilitato indica accertarsi di quale e quanto sia il bisogno di supporto fisico, in
vista di una graduale sua indipendenza.
3. Chiedere al facilitato di tirare indietro il dito o la mano dopo ogni selezione, per avere il
tempo di pensare alla selezione successiva e per evitare le ripetizioni ossessive sullo stesso
tasto.
Essere positivi
1. Iniziare l'attività con qualcosa che permetta di sperimentare un certo successo.
2. Incoraggiare dinanzi agli sbagli e non dire "sbagliato!" o "errore!".
3. Ricordare sempre alla persona l'importanza della concentrazione e impegno richiesti dalla
Comunicazione Facilitata.
Monitoraggio
1. Insistere perché il facilitato guardi sempre l'obiettivo.
2. Fornire supporto fisico e incoraggiamento dinanzi alle molteplici attività che il facilitato
deve compiere simultaneamente nella Comunicazione Facilitata.
Ultimazione della comunicazione - Soluzione dei problemi
1. Enfatizzare l'importanza del fare tanta pratica.
2. Alla fine di ogni sezione di lavoro provare a far comunicare qualcosa al facilitato in maniera
del tutto indipendente.
3. Se il facilitato comunica cose senza senso o fa troppi errori, ricorrere ad esercizi più
semplici e strutturati (ad esempio di matematica o di riempimento di spazi vuoti).
4. Tenere sempre sotto controllo l'instabilità radio-ulnare del facilitato e l'eventuale abituale
ripetizione di certe lettere, parole o frasi.
5. Ignorare i comportamenti ossessivi (sbattimento delle mani, scricchiolii di denti…).
Curriculum
1. Evitare di comunicare alla persona attraverso la sola modalità di domande tipo quiz (es.:
questa è una tazza o un libro?).
2. Dare al facilitato la possibilità di scegliere l'ambito del lavoro da fare (es.: notizie dei
giornali, films, libri…).
3. Nella fase iniziale usare materiale interessante (es.: parole incrociate, musica…).
4. Non iniziare focalizzandosi su espressioni di sentimenti personali, questi verranno col
tempo.
5. Permettere al facilitato di incontrarsi e comunicare mediante la Comunicazione Facilitata
anche con altri facilitati.
Il lavoro strutturato
Il lavoro strutturato consiste in attività programmate particolarmente utili per prendere confidenza
con la facilitazione prima di iniziare una vera e propria comunicazione libera, oppure per dare uno
stacco più "leggero" nel corso della Comunicazione Facilitata nel caso in cui il facilitato risultasse
stanco o facesse troppi errori.
È anche, essenzialmente, uno strumento utile per il facilitatore al fine di conoscere meglio le
capacità e le difficoltà della persona facilitata che sta per introdurre alla nuova tecnica di
comunicazione: "è il modo attraverso il quale il facilitato praticherà il metodo e il facilitatore avrà
un quadro chiaro delle difficoltà di movimento sperimentate dalla persona facilitata". In questo
senso, li si può concepire come dei tests di valutazione preliminare, come dicevamo, per stabilire le
modalità e la gradualità di approccio alla tecnica.
Questi sono alcuni esempi di lavoro strutturato che facilitatori e facilitati hanno già ampiamente
sperimentato con un certo successo:

scrivere il proprio nome o quello di un familiare o di un amico, magari indicando anche una
relativa figura della persona in questione;

far rispondere a domande a scelta multipla;

far sperimentare l'uso di parole incrociate;

far accoppiare parole e figure

far completare parole a cui mancano delle lettere;

far raggruppare parole per gruppi o classi;

far completare una frase a cui manca una parola ("riempimento di spazi");

far risolvere piccoli problemi di matematica;

far rispondere a domande in base a una lettura precedente di qualcosa;

far descrivere figure od oggetti (più difficile).
Le strategie iniziali
Particolarmente delicata è la fase iniziale della vera e propria Comunicazione Facilitata: a seconda
di come muove i suoi primi passi si può determinare la possibilità o meno che questa tecnica possa
produrre i suoi risultati più auspicabili.
È sempre il prof. Biklen, dell'Università di Syracuse, a redigere alcune procedure di base iniziali,
sperimentate nel suo Centro con successo per oltre sette anni sia con bambini che con adulti. Ne
propone 18, che sintetizziamo qui sotto nel seguente modo:
1. Identificare se il facilitato usa prevalentemente la mano destra o sinistra.
2. Esaminare quanto supporto necessiti effettivamente la persona.
3. Trovare una posizione di lavoro confortevole per entrambi.
4. Selezionare una varietà pluriforme di attività.
5. Far lavorare anche con le parole e, se possibile, con frasi intere.
6. Spiegare che si sta per far vedere un modo di comunicare ce si è rivelato utile per altre
persone che l'hanno già sperimentato.
7. Scusarsi per il fatto di dover all'inizio usare esercizi troppo semplici e forse noiosi, ma
sicuramente utili per poter iniziare.
8. Trattare la persona come perfettamente competente.
9. Parlare al facilitato in maniera normale, evitando toni di voce insoliti e non trattandolo come
un bambino.
10. Essere attenti di non frustrare il facilitato mentre si sperimenta con la Comunicazione
Facilitata per le prime volte.
11. Fare in modo, al contrario, che la persona sperimenti il successo.
12. Cercare di non essere ripetitivi nel proporre il materiale di lavoro.
13. Se il facilitato digita velocemente e impulsivamente, chiedere di ripetere nuovamente e
sentirsi pure liberi di ritirare indietro il braccio o la mano.
14. Se il facilitato si alza, picchia o cerca di ritirarsi mantenere un atteggiamento tranquillo e
gentile ma invitare con fermezza al compito assegnato.
15. Già dalle prime sessioni di lavoro provare a ridurre il supporto fisico di un poco, facendo
però sempre attenzione a non causare in questo modo troppe esperienze frustranti.
16. Accertarsi che il facilitato possa accedere agli strumenti di comunicazione.
17. Il facilitato ha diritto alla discrezione dei suoi messaggi: fargli sapere che la può chiedere ed
ottenere.
18. Filmare le prime sessioni di lavoro per verificare il proprio operato e stile in maniera il più
possibile obiettiva.
Gli strumenti dell'informatica
La Comunicazione Facilitata si avvale dell'uso di uno "strumento", qualunque esso sia.
L'informatica ha prodotto numerose realtà sia a livello hardware che a livello software proprio per
venire incontro alle più svariate forme di disabilità. Molti affermano che una buona parte delle
persone con autismo presenta facilità di approccio all'uso del computer. Tra i motivi vi sarebbero
soprattutto le seguenti ragioni:

le persone con autismo presentano, in generale, difficoltà notevoli a elaborare le
informazioni che giungono (solo) per via acustica; quindi quella visiva sarebbe una via
privilegiata;

il computer propone le informazioni secondo sequenze visuo-spaziali definite e lineari,
fornendo un feedback visivo chiaro, controllabile, con eventuale supporto di sintesi vocale:
dunque rappresenterebbe uno strumento di facilitazione;

evocando l'attenzione e seguendo questo tipo di strategia primariamente "visiva", può
proporsi anche per l'insegnamento di abilità.
Dobbiamo ricordare, comunque, che l'obiettivo finale dovrebbe restare un uso "sociale" del
computer, che favorisca l'integrazione piuttosto che l'isolamento.
Relativamente all'uso del computer per la Comunicazione Facilitata, va richiesto che le macchine
presentino le seguenti caratteristiche:

facile trasportabilità, per favorirne l'uso in diversi ambienti;

resistenza;

tasti attivabili con poca pressione, ma con opzione di non-ripetizione in caso di pressione
prolungata;

schermo chiaro, caratteri abbastanza grandi;

possibilità di sintesi vocale;

possibilità di predizione dei vocaboli;

programmi utili per compiti specifici (apprendimento di lettura e scrittura, calcolo, disegno,
geometria ecc.) da potersi usare anche senza uso del mouse;

accesso totale alle funzioni anche senza uso del mouse, ma tramite sensori, scansione ecc…;

costi contenuti o adeguata, parziale copertura dei costi.
La cosa che, nonostante tutto, non si può chiedere alle macchine è quella di risolvere il problema
della comunicazione: queste persone non hanno semplicemente bisogno di una buona "protesi". Nei
meccanismi di facilitazione della comunicazione intervengono molti fattori che attengono alle
risorse umane che non possono essere trascurati o demandati a una macchina.
Non si può, inoltre, chiedere alla macchina di sostituirsi al nostro compito di educatori efficaci. La
Comunicazione Facilitata non può, infine, legittimare l'assenza di un progetto abilitativoriabilitativo più ampio che chiami in causa un'autentica professionalità e l'opportunità di non dare
nulla per scontato. Risulta quindi sempre interessante l'esperienza di insegnanti che, senza facilitare
direttamente lo studente, si sono posti con successo il problema di sfruttare le sue abilità
comunicative per costruire percorsi di insegnamento e apprendimento più efficaci.
Le offerte tecnologiche sia a livello hardware che a livello software, con l'odierno sviluppo
dell'informatica, offrono un buon ventaglio di possibilità rispetto a pochi decenni fa.
Gli strumenti più diffusi, oltre al normale PC, sono:
Comunicatore Canon
Braccio snodabile per il braccio
(esempio di "facilitazione" fisica senza l'aiuto di un'altra persona):
Non approfondiamo il discorso sui puntatori alternativi al mouse e sulla possibilità di usi alternativi
alla tastiera. La Comunicazione Facilitata si avvale praticamente della scrittura mediante tastiera,
ma le innovazioni tecnologiche odierne stanno elaborando molteplici modalità diverse di produrre
uno scritto mediante scrittura che in un prossimo futuro potrebbero sostituire la tastiera.
Un elemento invece di semplice progettazione e fattura è costituito dagli "scudi" applicabili alla
tastiera: questi sono delle tavolette di metallo o plexiglas trasparente che coprono interamente la
tastiera, opportunamente forate in corrispondenza dei tasti. Per digitare occorre inserire il dito
all'interno del foro per raggiungere il tasto; in questo modo si evita di pigiare involontariamente più
di un tasto, inoltre la mano può mantenere l'appoggio sulla griglia, facendo muovere eventualmente
solo il dito.
Comunicazione Facilitata e Scuola
Nell'ambito del mondo scolastico la Comunicazione Facilitata si propone al di fuori della rete
istituzionale nata negli anni '70 e sviluppatasi poi gradualmente in un contesto non omogeneo al
fine di integrare i soggetti handicappati gravi nella scuola. Come richiesto dalla L. 104/92, si è
definito e siglato infatti un accordo di programma tra Provveditorato, Comune e UU.SS.LL. allo
scopo di favorire tale processo di integrazione, dichiarando le competenze specifiche di ciascun
interlocutore e ridefinendo, alla luce della più recente normativa, finalità e modalità di rapporto tra
operatori dei diversi enti. A tal fine, sin dagli anni settanta, si era costituito presso il Provveditorato
un Gruppo di lavoro, successivamente sostituito dal G.L.I.P. (Gruppo Di Lavoro Interistituzionale
Provinciale).
Ma la Comunicazione Facilitata, dal di fuori di questa rete, si sviluppa grazie soprattutto ad alcuni
genitori, in numero sempre crescente, che cercarono il coinvolgimento degli insegnanti su questa
"nuova tecnica", che non si configura come riabilitazione e neppure come puro intervento didattico.
Si potrebbe pensare che un contesto organizzato, nel quale la collaborazione tra diverse figure ed
istituzioni è da anni oggetto di attenzione ed è regolamentato, sarebbe il terreno più fertile per
accogliere questa nuova proposta, ma non è stato e non è così. La prima risposta delle istituzioni è
stata infatti il rifiuto, un rifiuto non espresso, ma sorretto dall'incredulità nei confronti della tecnica
e dalla scarsa disponibilità a modificare criteri diagnostici e prognostici, modalità di lavoro e
progetti educativo didattici.
Inoltre parve anomalo il fatto che una proposta "tecnica" provenisse da genitori e non da altri
tecnici professionisti. Da che mondo è mondo i tecnici preferiscono confrontarsi con i tecnici e non
avviene facilmente il confronto con un genitore di un ragazzo inserito.
La "rete" istituzionale ha quindi sempre avuto una posizione, non concordata, ma omogenea nei
confronti della Comunicazione Facilitata: prudenza.
Ma ogni rete, per quanto rigida, ha sempre le sue smagliature, attraverso le quali sono
fortunatamente filtrati i rapporti personali tra singoli operatori, genitori ed insegnanti, ed al di là
della prudenza istituzionale alcune esperienze hanno avuto il loro avvio.
Ciò che emerge da queste esperienze è spesso a dir poco sconcertante: nel giro di pochissimo
tempo alunni per i quali gli insegnanti avevano calibrato la proposta educativa individuando
obiettivi minimi, perseguibili attraverso attività pratiche, supponendo, corroborati da diagnosi
mediche, una ridotta capacità intellettiva e cognitiva, esprimevano invece raffinate considerazioni
dimostrando non solo di possedere tali capacità ma anche una insospettabile presenza attiva e
partecipe nella realtà.
La pratica della Comunicazione Facilitata nell'ambiente scolastico ha avuto particolare sviluppo
nel territorio genovese, dove opera la Cadei. La prima considerazione scaturita da queste esperienze
riguarda la capacità di intendere e volere dei ragazzi autistici: le persone autistiche, attraverso la
Comunicazione Facilitata, hanno dimostrato una intatta capacità di intendere, di "intelligere".
Scatta qui la questione, posta proprio da queste esperienze di che cosa si intenda con il termine
"intelligenza", accorgendosi di come tanti strumenti standard per "misurala" siano notevolmente
parziali e ideologizzati.
Di conseguenza, si è capito che l'azione educativa deve essere rispettosa di una non facilmente
definibile capacità di intendere, e che non può privare nessun alunno dell'opportunità di
apprendimenti concettuali.
La comunicazione è un elemento imprescindibile poi non solo nella relazione e
nell'apprendimento, ma anche nella valutazione di un soggetto: non dobbiamo definire con il
termine di insufficienza mentale l'incapacità o l'impossibilità di comunicare; l'insegnamento deve,
non solo fornire contenuti, ma principalmente strutture e schemi che consentano la costruzione di
un organico "archivio" di conoscenze, collegando e recuperando informazioni e saperi frammentari.
La Comunicazione Facilitata si è configurata quindi non solo come metodo rivolto alla persona,
ma anche come spunto per una riflessione pedagogica sulle finalità e modalità di integrazione nel
mondo scolastico. Entrambe queste valenze sono importanti e da valorizzare.
In sintesi, ciò che bisognerebbe realizzare consiste in:

conoscere e valorizzare le diverse e positive esperienze in atto;

riconoscere ad alcune di queste esperienze il carattere di sperimentalità;

individuare una sede di confronto e di arricchimento per gli insegnanti che stanno
utilizzando la Comunicazione Facilitata;

promuovere, anche in sede locale, la ricerca universitaria;

interessare i rappresentanti degli enti istituzionali coinvolti, per legge, nei processi di
integrazione;

riconoscere la centralità del ruolo della famiglia, e del soggetto stesso, dell'associazione
nelle scelte e nelle strategie educative;

favorire la corretta conoscenza del metodo, attraverso un corso di "alta qualificazione" ad un
certo numero di insegnanti di sostegno, impegnati od impegnabili nei confronti di alunni che
utilizzano la Comunicazione Facilitata;

promuovere incontri, presso le diverse scuole, dei vari interlocutori istituzionali e non,
coinvolti nel processo di integrazione dei singoli alunni che utilizzano la Comunicazione
Facilitata, per valutare la situazione e definire obiettivi e modalità di intervento.
Ciò che si è costituito, o che si sta costituendo, non è forse una vera e propria "rete", sembrerebbe
piuttosto una ragnatela che, a diversi livelli mette in relazione operatori e figure diverse, chiamate a
collaborare per conoscere, organizzare e realizzare, in modo integrato, gli interventi opportuni, in
modo rispettoso del ragazzo handicappato, delle finalità dell'integrazione e della specificità e delle
competenze dei diversi interlocutori.
Presentazione di Samuele
Il bambino, di cui ometto il nome e cognome per non violare la privacy della famiglia, ma che per
convenienza chiamerò Samuele, è nato nel maggio del 1991 e risiede a Senigallia. Vive con la sua
famiglia naturale composta da un fratello più grande di 16 anni, una sorella di 4 anni, la nonna
materna ed i suoi genitori.
Attualmente Samuele presenta una grave compromissione dello sviluppo della personalità
(disturbo generalizzato dello sviluppo) e necessita di una guida costante per rendere possibile
l'inserimento nella classe.
Le conseguenze funzionali sono una notevole compromissione della relazione con le persone e
con la realtà. Il Bambino è considerato affetto da Sindrome Autistica grave.
La diagnosi funzionale risale al 1994, quando Samuele aveva 3 anni, ed è accompagnata da una
certificazione scritta dalla psicologa della ASL che dichiara quanto segue:
"Il bambino presenta un notevole ritardo dello sviluppo psico-affettivo. La motricità è caotica con
improvvise azioni di movimento afinalistiche. Assente il linguaggio verbale, gestuale e mimico.
Emette sporadici versi stereotipati. Assente il gioco simbolico, spesso utilizza oggetti o giochi per
avvicinarli alla bocca e leccarli e/o succhiarli.
Assente la relazione interpersonale, non differenziando persone e voci, anche la più familiare.
La mimica facciale è povera, non sono presenti reazioni emotive come ridere o piangere. Non
guarda in viso le persone, sfuggendo anche il rapporto con lo sguardo.
Per cui, valutato quanto sopra, si rende necessaria la presenza di un'insegnante di sostegno".
Samuele è un bambino molto amato da tutti i componenti della sua famiglia e questo lo rende un
bambino "speciale". Seguito fin dalla primissima infanzia, ha fatto notevoli progressi nelle diverse
aree desunte dal Profilo Dinamico Funzionale.
Ha seguito molte terapie tra cui la musicoterapia, l'ippoterapia, e la delfinoterapia. Il bambino è
molto seguito e stimolato anche da un punto di vista educativo e medico sanitario.
Soffre di allergie topiche ed alimentari, spesso questo lo rende "emotivamente" vulnerabile nel
senso che durante le crisi allergiche Samuele è più nervoso e meno adattabile ai ritmi educativi.
Luogo d'inserimento
Il bambino frequenta la classe terza elementare in un plesso che definirei "isola felice" sia per il
numero delle classi che per il numero dei bambini all'interno delle classi (non più di 12).
L'edificio è articolato su 2 piani così disposti:
piano terra: Scuola Materna, Spazio ricreativo polivalente;
primo piano: Scuola Elementare, Sala lettura, Sala dei computer.
All'esterno vi è un giardino recintato con dei giochi a norma di legge, usufruito sia dai bambini
della Materna che da quelli della Scuola Elementare.
All'interno la struttura si manifesta sicura anche perché sono state apportate delle modifiche alla
ringhiera della balconata interna che risultava poco idonea anche per i bambini della materna, i
quali usufruiscono della stessa sala di lettura posta al primo piano.
Samuele usufruisce della stanza della sala di lettura come aula dove poter fare del lavoro
individualizzato, stanza che è accogliente e luminosa, dotata di un ampio tavolo di appoggio per i
libri, mentre in un angolo-relax vi è un tappeto e dei divanetti blu.
Data l'importanza per Samuele della stabilità anche "spaziale", oltre che del setting terapeutico, la
classe terza è rimasta fortunatamente nella stessa aula degli anni precedenti e Samuele usufruisce
dello stesso banco dove stava in prima e seconda elementare.
Il bambino ha avuto per i primi due anni scolastici l'intero orario scolastico coperto
dall'insegnante di sostegno e/o dall'assistente che spesso, oltre ad essere in compresenza con
l'insegnante di sostegno, lo segue anche a casa da quando aveva 3 anni. Quest'anno l'insegnante di
sostegno lo segue per 18 ore settimanali.
Da un paio d'anni la scuola dispone del servizio mensa come conseguenza di un "tempo
prolungato", che è stato attivato per essere usufruito da un numero crescente di famiglie con
entrambi i genitori che lavorano e anche Samuele ne fa uso.
Il bambino rimane in classe per la maggior parte del tempo, seduto al proprio banco per le prime
due ore dell'orario scolastico, segue poi un lavoro individualizzato nell'aula di lettura dove Samuele
lavora con l'ausilio della macchina da scrivere, fino a quando riesce a mantenere la concentrazione;
per il resto si sposta liberamente negli spazi della scuola.
Profilo Dinamico Funzionale
Ambito percettivo, psico-motorio e dell'esperienza personale.
"Il bambino non ha deficit accertati a livello uditivo-visivo-sensoriale, se non nelle alterazioni
delle percezioni tipiche della Sindrome Autistica: ipersensibilità agli stimoli sonori, aprassie,
stereotipie, difficoltà a mantenere l'attenzione, verbalizzazione assente, ipercinesia, prassie semplici
con difficoltà a tradursi in prassie complesse. Possiede il controllo delle funzioni esecretive anche
se non è completamente autonomo nelle abilità motorie. Necessita di controllo da parte dell'adulto".
Ambito relazionale/comunicativo, delle capacità di linguaggio ed espressive.
"Riconosce la propria immagine allo specchio, in fotografia, risponde o si volta se viene
chiamato, esegue comandi a richiesta semplici, interagisce con i compagni in giochi motori, ma non
riesce a condividere giochi strutturati con modalità sequenziale. Cerca gli adulti per soddisfare
esigenze personali sia primarie che affettive, vocalizza per esprimere stati d'animo mentre
comprende ciò che gli viene detto. Usa la Comunicazione Facilitata per comunicare; fa uso del
contatto fisico, ma ha difficoltà ad adattarsi a nuove regole".
Ambito pratico/operativo e dell'integrazione sociale
"Necessita di aiuto per svolgere attività pratiche manuali come l'igiene e l'abbigliamento e la
coordinazione sequenziale di azioni finalizzata allo svolgimento di un compito complesso. Deve
essere guidato fisicamente nelle varie attività didattiche, avendo difficoltà di coordinazione.
Necessita di una guida per affrontare compiti nuovi, anche se ha buone capacità intellettive. Segue
il metodo Delacato".
Note
Essendo il bambino è affetto da Sindrome Autistica grave, con verbalizzazione assente e necessita
di controllo da parte dell'adulto, nell'ambito psico-motorio deve essere guidato nelle varie attività
didattiche e deve essere continuamente vigilato. Samuele ha notevoli difficoltà a mantenere
l'attenzione.
A livello affettivo relazionale il bambino è molto suscettibile ad ogni minimo cambiamento e
variazione dell'iter giornaliero e la stabilità della figura di sostegno rimane importante poiché
favorisce la costruzione di un "setting" terapeutico efficace nel tempo.
Piano Educativo Personalizzato
"Samuele svolge una mediazione tra i soggetti coinvolti nell'interazione. Durante la lezione in
classe il bambino è sempre affiancato dall'insegnante di sostegno, la quale svolge una
programmazione individualizzata mirata soprattutto a:
acquisire un comportamento più adeguato in relazione agli altri, adulti e coetanei;
imparare a rispettare semplici regole come i tempi di attività e di riposo;
sviluppare abilità pratiche manuali con esercizi di taglio, incollaggio di diversi materiali, esercizi di
pregrafismo con percorsi strutturati, pittura con diverse tecniche, colorare una figura cercando di
rimanere dentro gli spazi definiti;
attività di riordino del materiale usato;
esercizi psico-motori: rotolare, strisciare, gattonare, eseguire un semplice percorso, tirare la palla,
riprenderla, ecc…;
esercizi effettuati con la Comunicazione Facilitata mediante macchina da scrivere e con la guida
fisica dell'insegnante che sorregge il polso del bambino".
Note
I genitori del bambino sono molto attenti e presenti attivamente sul piano educativo e si rendono
disponibili alla collaborazione. La madre stessa ha frequentato corsi per insegnati di sostegno e si è
impratichita nel ruolo di facilitatore per la Comunicazione Facilitata.
Samuele è ben integrato con i compagni e con l'insegnante prevalente della classe. Ha un ottimo
rapporto emotivo ed empatico con l'insegnante di sostegno che lo segue da due anni.
Segue in linea di massima il programma didattico della classe ed uno individualizzato più
specifico e mirato al recupero delle sue disfunzioni.
A livello affettivo/relazionale si cerca di favorire in Samuele il rispetto delle regole
comportamentali attraverso il rispetto di "norme" ben precise di comportamento.
E' stimolata la produzione della scrittura manuale sia attraverso la coordinazione manuale che con
il potenziamento dell'area percettiva attraverso la semplice prensione della matita.
Fa uso della Comunicazione Facilitata, seguito anche da un esperto esterno per il quale la famiglia
e la scuola hanno fatto specifica richiesta al Provveditorato. Attraverso la macchina da scrivere
Samuele comunica i suoi stati d'animo, i suoi bisogni ma tutto questo senza mai dirigersi e ricercare
il facilitatore spontaneamente. Talvolta ha emesso dei nomi come "mamma" e "Matteo" (il nome di
un suo compagno di classe) ma questi eventi non si ripetono che molto sporadicamente.
Verifiche periodiche e straordinarie
Samuele segue in linea di massima la programmazione della classe a livello didattico ed una più
specifica tesa al recupero delle funzioni.
Le verifiche, durante questi tre anni di scolarizzazione del bambino, sono state effettuate con
l'ausilio della Comunicazione Facilitata. Durante i primi anni Samuele usava la Comunicazione
Facilitata per le verifiche periodiche solo con l'aiuto fisico della mamma, a casa propria quindi, poi
è stato iniziato un programma di aggiornamento per l'insegnante di sostegno che ha accettato l'uso
della "controversa" Comunicazione Facilitata, aiutata da un'insegnante esterna specializzata e con la
collaborazione del bambino stesso.
Anche al termine dell'anno scolastico corrente gli apprendimenti specifici alle singole unità
didattiche verranno verificati mediante la Comunicazione Facilitata.
Samuele e la Comunicazione Facilitata
Samuele ha iniziato con la Comunicazione Facilitata all'età di 3-4 anni, affrontandola in maniera
graduale, tanto da rendere difficile l'esatta collocazione del suo inizio. Tanto per dire, sulla spalliera
di legno del suo lettino sono disegnati a pennarello un "SI" e un "NO" per permettergli di rispondere
alle domande fin dal risveglio del mattino: questa forma di comunicazione non si differenzia in
nulla da quanto propongono i primi esercizi di Comunicazione Facilitata che Samuele ha poi
incontrato quando ha iniziato con un vero e proprio programma di lavoro mediante la facilitazione
con dei fogli che propongono esercizi come questo:
Possiedi un cane?
SI NO
Ti piacerebbe averne uno?
SI NO
All'inizio furono degli esperti ad introdurre Samuele alla Comunicazione Facilitata,
successivamente si affiancarono degli insegnanti di sostegno e la madre stessa che ora è diventata
colei che il bambino preferisce come facilitatrice.
I primi tentativi di scrittura mediante questa tecnica sono stati inevitabilmente all'insegna della
difficoltà: Samuele aveva bisogno di numerosi incoraggiamenti e doveva essere sostenuto non solo
al braccio e alla mano, ma alle volte perfino al dito stesso. Dopo non molti mesi, però, egli era in
grado di puntare al tasto o all'obiettivo in maniera meno facilitata, fino ad oggi che, dopo quattro
soli anni, scrive semplicemente tenendogli una mano ferma sulla spalla.
Come strumenti per la scrittura, Samuele usava all'inizio una semplice macchina da scrivere
elettronica; ora fa uso del Canon Comunicator e, più spesso, di un normalissimo computer dotato
del diffusissimo programma di videoscrittura Word (impostando magari una grandezza del carattere
non inferiore a 14-15). La tastiera del computer è una normale tastiera non dotata di alcun elemento
facilitatore particolare, come gli scudi o quant'altro.
Questo che segue qui sotto è un esempio di un suo scritto mediante macchina da scrivere datato 6
marzo 1996, quando il bambino aveva quattro anni (il testo di Samuele è quello in corsivo, il resto è
del facilitatore che dialoga con lui scrivendo egli stesso, oltre che parlando; sono riportati anche gli
errori):
che cosa hai mangiato all'asilo che non dovevi mangiare?
CARNE E MINESTRA
E UNA BUGIA QUESTA SI O NO,,
NO
COSA NON DOVEVI MANGIARE,?
BISCOTTI
CHE SAPORE AVEVANO I BISCOTTI?
IL SAPORE DI CIOCCOLATO
CHI TI HA DATO I BISCOTTI?
LA CUOCA STEFANIA
mi hai raccontato un sacco di bugie si o no
si
perche cosa hai mangiato?
il pongo
co
cosa ti ha detto la maestra?
non si mangia il pongo samuele
hai mangiato solo il pongo che non dovevi mangiare,?
no
cosa hai mangiato?
i coloria spirito
lo sai che mi devi dire la verità?
si
perché dici le bugie?
io mi divertio
ma lo sai che devi scrivere anche con gli altri?
si
perché non vuoi scrivere?
non sono le perdì
non sono le persone giuste
cosa devono fare per farti scrivere?
la maestra deve indicare i bisogni di samuele i
di cosa hai bisogno?
di sicurezza
come te la devono dare?
come fai tu
io come faccio?
;indichi le parole con il,polso
cosa ti tengono gli altre?
il braccio
te lo tengono troppo in alto?
si
vuoi che ti tengano stretto il polso?
si
perché?
io lo sento megi
meglio
Faccio notare come Samuele in questo scritto si esprima parlando di se stesso usando la prima
persona singolare e non si riferisca a se stesso con la terza singolare o il proprio nome se non una
sola volta. Quanto si nota qui, soprattutto nell'ultima parte, è il suo bisogno di essere rassicurato
mediante un supporto fisico forte ed "avvolgente", d'altra parte eravamo agli inizi della sua
esperienza con la Comunicazione Facilitata. Ricordo come ora egli scriva usando
indipendentemente il braccio, tenendogli solo una mano ferma sulla spalla.
Samuele predilige quanto riguarda i numeri e la matematica, affermando di aver imparato da solo
a fare i calcoli semplicemente guardando il fratello che faceva i compiti per casa. Allo stesso modo
riferisce che molte cose le impara dalla televisione, alla quale dedica una buona parte del
pomeriggio, e dai libri che trova a casa. Riporto un dialogo in cui si parla di matematica (età di
quattro anni):
CHI TI HA INSEGNATO A LEGGERE?
NESSUNO IO HO IMPARATO DA SOLO
IN CHE MODO?
IMPARANDO BENE AD ASCOLTARE [ANDREA] CHE FACEVA I COMPITI
COSA SONO I COMPITI?
GLI ESERCIZI CHE LA MAESTRA DAVA COSI HO IMPARATO
SAI FARE LE OPERAZIONI SI O NO?
SI
QUANTO FA 1+1?
2
4-3?
1
5+2?
7
10-8?
½
2
2x4?
8
8x2?
16
7x2?
14
10x10?
100
COME FAI A FARE I CONTI?
IO CONTO PIU O MENO COME TE
COSA VUOI DIRE?
CHE IO MI VOGLIO NUMERARE I NUMERI NON SO COSA DIRE
Come si può notare, Samuele ha eseguito una serie di calcoli in maniera del tutto esatta all'età di
quattro anni, dando riscontro al fatto che i soggetti autistici prediligano la matematica. Da questi
dialoghi emerge inoltre una buona capacità linguistica e di pensiero per un bambino di quattro anni.
Passiamo ora ad uno scritto datato 7 settembre 2000, mediante la tastiera di un computer:
Di chi vuoi parlare oggi?
Di un ragazzo di difficile carattere
Chi è questo ragazzo?
È Samuele
Ti riferisci a te stesso?
Si
Perche' hai un difficile carattere?
Io molte volte mi isolo e non riesco a fare molte cose
Che cosa vorresti riuscire a fare?
Essere uguale agli altri bambini
Spiegati meglio
Fare discorsi su tutte le cose interessanti
Di quali cose vorresti parlare in maniera particolare?
Di forme geometriche
Fammi un esempio
Esempio il paralelepipedo
Il tema del desiderio di essere uguale agli altri bambini ricorre molto spesso negli scritti di
Samuele, come pure quello di imparare a parlare. Da notare come in questo bambino di otto anni un
argomento "interessante" del quale parlerebbe con gli altri bambini è quello delle "forme
geometriche".
Veniamo ora a un testo che mette in risalto come Samuele si affezioni alle persone conosciute e lo
metta in crisi il fatto che se ne vadano e debbano arrivarne delle nuove, soprattutto per chi dovrà
essere suo assistente o facilitatore:
Ti vorrei dire che forse Tiziana non verrà più al pomeriggio ma verrà Barbara.
Se tiziana non viene io non arrivo a capire che senso Abbia
Spiegati meglio.
E vero che anche barbara mi vuole bene ma a me dover cambiare non va
Perché?
Voglio che tiziana resti con me
Adesso vorrei sapere perche piangi?
Sono depresso
Cosa posso fare per farti stare meglio?
Per favore non farmi esprimere cio che penso .
Come ultimo testo, riporto quanto Samuele ha scritto proprio in questi giorni quando lo sono
andata a trovare (8 marzo 2001):
Ti ricordi chi e' questa persona vicino a te?
si è antonella.
Perché stai piangendo'
IO NON HO VOGLIA .
COSA VUOI DIRE AD ANTONELLA?
PURTROPPO NON MI SENTOBENE. CIA9O
GUARDANDO AVANTI
In quest'ultima parte desidero porre alcune considerazioni personali volte soprattutto a spezzare
delle lance in favore della Comunicazione Facilitata alla luce di quanto ho finora esposto. Non è
nelle mie intenzioni criticare le altre tecniche - che peraltro stimo - quanto invece affermare la
validità di una strategia che può essere in certi casi affiancata alle altre. Va ricordato infatti, come
affermavo, che la Comunicazione Facilitata non si è sempre rivelata efficace con tutti i soggetti che
l'hanno provata.
È abbastanza diffuso, comunque, un alone di perplessità, se non addirittura di rifiuto, nei suoi
confronti. Tale atteggiamento si pone in una duplice modalità: c'è chi non considera affatto la
Comunicazione Facilitata come un elemento positivo di cui tener conto e c'è chi presenta delle forti
perplessità in relazione al dubbio che vi sia l'influsso del facilitatore nella produzione dei messaggi.
È da ipotizzare inoltre, a un livello più profondo, un certa difficoltà ad accettare il "nuovo" che, in
quanto tale non è stato ancora sufficientemente studiato, ma che sicuramente sta cambiando il
nostro modo di concepire una patologia.
Autismo, ritardo mentale e intelligenza
La Comunicazione Facilitata pone una grossa questione che tocca direttamente l'argomento
dell'autismo e quello del ritardo mentale. Non è possibile, cioè, esprimere delle considerazioni
personali riguardo la Comunicazione Facilitata senza dover far riferimento al tema dell'autismo in
se stesso, soprattutto per quanto riguarda la sua stessa definizione.
Da quanto ho esposto nella prima parte di questa tesi, è risultato come non sia ancora stato
chiarito cosa sia veramente in tutto e per tutto l'autismo (i pareri sono diversi, anche se in parte
integrabili), né si è arrivati a formulare ipotesi definitive ed esaurienti sulla causa che lo genera o ne
facilita l'insorgenza.
Il Manuale DSM-IV afferma che caratteristica dell'autismo è l'assenza di linguaggio, mentre non
menziona invece l'espressione di ritardo mentale. Risulta perciò difficile, innanzitutto, comprendere
perché nella prassi comune di tanti studiosi, strutture e insegnanti il soggetto autistico sia spesso
considerato, e più ancora trattato, come ritardato mentale.
Nell'economia pratica sembra valere ancora, cioè, il binomio - peraltro sconfessato già da decenni
dall'esperienza degli audiolesi - che la persona che non parla sia una persona che non capisce.
Poiché risulta difficile sapere cosa "sa" l'interlocutore, la Comunicazione Facilitata dovrebbe quanto
meno suscitare curiosità scientifica. Forse non tutte le produzioni delle 600 persone che utilizzano
la Comunicazione Facilitata in Italia saranno sempre cristalline, ma è indubbio che comunicano.
Ora, per chi dà fiducia alla Comunicazione Facilitata (a prescindere dalle perplessità che
affronteremo fra poco), avviene appunto che persone autistiche riescano a comunicare proprio
grazie a questa tecnica, dimostrando quindi di non essere affette da ritardo mentale. Andrebbe qui
affrontato la non semplice problematica che riguarda le opinioni diverse sul concetto di ritardo
mentale e sulla definizione di intelligenza. È condivisa oggigiorno la convinzione che l'atto
cognitivo intelligente sia il risultato di un sistema complesso, perciò va messa secondo me in
discussione tutta una serie di modelli teorici troppo semplici o rigidi finalizzati a "quantificare"
l'intelligenza che, non raramente, sono contrastanti tra di loro per le diverse impostazioni teoriche
che li sottendono. Tengo, inoltre, a citare qui il contributo di Gardner che afferma l'esistenza di vari
"tipi" di intelligenze, realtà della quale in questi test non si tiene adeguatamente conto. Nel caso
dell'autismo sono convinta che i soggetti autistici, soffrendo di una patologia che riguarda
soprattutto l'intelligenza linguistica, tendano a potenziare altri tipi di intelligenze. Il soggetto con
funzionamento autistico si evidenzia infatti per il suo profilo disomogeneo nelle diverse aree di
sviluppo cognitivo: ve ne sono alcune che risultano buone (anche se non del tutto normali) e altre
addirittura eccellenti. Come può essere corretto "testare" tale mondo complesso sulla base di un
parametro piuttosto rigido di intelligenza/stupidità?
Se per il fatto di non credere nella Comunicazione Facilitata si impedisce la possibilità di
comunicare, si rischia di incorrere in una grave discriminazione ed emarginazione. Affronterò nel
prossimo capitoletto la problematica del dubbio riguardo l'influsso del facilitatore sul facilitato: per
ora prendo in esame le implicazioni che la Comunicazione Facilitata porta alla comune convinzione
che l'autistico non possa comunicare mediante la produzione di uno scritto.
Secondo il mio parere è possibile infatti che la convinzione di ritardato mentale nei confronti degli
autistici sia venuta semplicemente dall'osservazione esteriore di soggetti che non sono messi in
condizione di poter dimostrare che in loro vi può essere invece la possibilità di intendere e volere.
Fa personalmente riflettere con serietà il fatto stesso che nelle descrizioni dei sintomi autistici non
ci si lasci sfuggire mai l'occasione di ricordare - peraltro con una certa lungaggine poco "scientifica"
- l'aspetto della presunta assenza di emozioni e sentimenti, nonché di forme di affetto, che vengono
dalla semplice osservazione esteriore di una mimica facciale o della direzione dello sguardo. Come
a dire che i muscoli e le pieghe del corpo umano sono l'esatto corrispondente delle capacità non del
tutto ancora sondate della nostra psiche.
Ora, avviene che la Comunicazione Facilitata sia una strategia finalizzata appunto a permettere
che un soggetto autistico possa produrre all'esterno ciò che abita il suo mondo interiore. Ci si sta
sempre più convincendo che alla base del successo della facilitazione sta l'accertamento di un
problema neuromotorio: sempre più, infatti, ci si dirige verso l'ipotesi di "aprassia" o di "disprassia"
come elemento qualificante il problema comunicativo autistico. Ho già affrontato nel corso della
tesi questo importante argomento che conduce all'ipotesi che il soggetto autistico sia in grado di
comunicare, ma non lo possa fare per dei grossi inconvenienti di "sincronizzazione" tra corpo e
mente e all'interno stesso della mente. Abbiamo descrizioni della disprassia da parte della Williams,
persona autistica completamente verbalizzata, che si esprime in termini di disturbo che influenza
tutti i sistemi di "funzionamento": partendo da una mancata "propriocezione" si arriva a una serie di
difficoltà nell'analisi e recupero delle capacità connesse all'informazione a parecchi livelli
(sensoriale, emotivo, mentale, propriocettivo, sociointerattivo), nonché alla difficoltà
nell'integrazione di questi livelli tra di loro. Tali difficoltà, però, riguardano la capacità di avvio ed
esecuzione dell'azione volontaria intenzionale, mentre non necessariamente intaccano le capacità
intellettive del soggetto.
Di fatto, al di là di troppe discussioni, esistono persone che, dopo qualche tempo di pratica con la
Comunicazione Facilitata (a volte quasi subito), riescono a produrre degli scritti e dei pensieri senza
più l'ausilio fisico del facilitatore. Ma questa cosa, lungi dall'essere considerata come "prova
schiacciante" della validità della Comunicazione Facilitata nei confronti della patologia autistica,
viene da un buon numero di persone letta come la dimostrazione che la produzione effettuata è
condizionata dal facilitatore o, eventualmente, che quel soggetto non è realmente autistico (eppure
fanno parte dei centri di supervisione alla Comunicazione Facilitata in Italia quattro neuropsichiatri,
una psichiatra e un neurologo: tutti incapaci di produrre o confermare una diagnosi?).
Nella lettura dei numerosi studi di autori critici nei confronti della Comunicazione Facilitata ho
riscontrato un atteggiamento che mi sembra non del tutto corretto e scientifico: mentre ci si
sofferma ampiamente sui dati "contrari" a questa strategia (le prove dell'influenza del facilitatore,
l'impatto emotivo dei risultati della Comunicazione Facilitata sui genitori…) si evita poco
coerentemente di dare un proprio parere o risposta dinanzi ad altri dati che si pongono all'analisi
scientifica con almeno altrettanta forza (il fatto che esistono innegabilmente soggetti che scrivono
senza l'ausilio fisico alla mano o al braccio). Ora, io non ho trovato in questi studi nessuna risposta
a tali dati, se non quella di alcuni autori (Dillon 1993, Green 1994) che paragonano la "presunta
pretesa" di dimostrare la paternità degli scritti dei facilitati al caso in cui, nelle sedute spiritiche, si
pretenda di dimostrare l'esistenza dell'anima del defunto per il fatto che sul tavolino compaiano
misteriosamente dei messaggi (e, francamente, la scientificità di questa argomentazione mi sembra
piuttosto discutibile). Come spiegare il "fatto" che più di qualche autistico scriva tenendogli
semplicemente una mano sulla spalla o sulla coscia? Come spiegare il fatto che gli autistici scrivano
cose che il facilitatore non può conoscere?
Avviene, secondo me, che si rischia di "piegare" la persona in funzione di un preconcetto
piuttosto che rivedere una convinzione comune dinanzi a un fatto che la smentisce o che,
perlomeno, le chiede un più coerente ridimensionamento. Tutto ciò stupisce maggiormente se ci si
ricorda, come si diceva poco fa, che tale inflessibilità si pone proprio nel contesto di una patologia
che non si è ancora riusciti a conoscere bene, così come, del resto, non si conosce ancora del tutto
esaustivamente il mondo affascinante del cervello umano a prescindere da qualsiasi patologia.
Queste disquisizioni non interessano però più di tanto, in quanto la Comunicazione Facilitata non
aspira a conquistare per i suoi successi l'etichetta di coadiuvante di una malattia "importante" e
"seria" come l'autismo. Non importa se coloro che vengono aiutati ad esprimersi siano o no
"tecnicamente" autistici. Importa invece moltissimo il fatto che se una persona ritenuta autistica
potrebbe comunicare, ciò gli sia impedito per il fatto che non si dia credito e spazio a una tecnica
come la Comunicazione Facilitata. Nel senso che avviene non di rado che per un soggetto cui sia
stata diagnosticata la Sindrome Autistica venga deciso a priori di non dargli la possibilità di
esprimersi, credendo questa facoltà sempre e comunque impossibile.
Si può accettare di buon grado che ciò venga permesso andando poi a variare la diagnosi (da
autistico a non autistico), ma non si può nemmeno pensare che questa possibilità non venga data per
il semplice fatto di non voler contraddire una diagnosi già fissata. Nella logica paradossale di questo
discorso, che ora concludo, avverrebbe che un soggetto che potrebbe imparare a comunicare è
considerato autistico solo finché non ci prova e ci riesce. Se è vero che dall'autismo non si guarisce,
bisognerebbe perciò ammettere dinanzi a chi riesce a scrivere che esistono in giro diagnosi di
autismo sbagliate o che la Comunicazione Facilitata può realmente aiutare gli autistici.
Il ruolo del facilitatore
Di altra natura sono invece le critiche mosse alla Comunicazione Facilitata per il dubbio che
quanto prodotto dai soggetti autistici sia in realtà indotto inconsciamente dal facilitatore.
Qui va ammesso senza paura che è effettivamente successo - e può succedere - quanto suscita
queste forti perplessità. Ma ciò non deve precludere la validità di un metodo. D'altra parte ho già
riportato nella tesi studi che approfondiscono l'innata tendenza di ogni essere umano di cercare
conferme e aiuti nella comunicazione, soprattutto mediante il codice metalinguistico. A maggior
ragione non si può imputare ciò che è normale per tutti a chi, messo in una condizione di
"debolezza", si trova ad avere un particolare bisogno di aiuto per poter riuscire a comunicare.
La tecnica della Comunicazione Facilitata, per chi si cimenta nel ruolo del facilitatore, non è
infatti di facile acquisizione: si tratta di fornire un supporto psicologico e fisico lasciando spazio
alla libertà e individualità del facilitato.
Per quanto riguarda l'aiuto psicologico, che consiste essenzialmente nel creare un clima di fiducia
e di incoraggiamento alla comunicazione, non ritengo che ciò possa costituire una
controindicazione. Chiunque ha bisogno di un clima di fiducia per potersi aprire ed esprimere, a
maggior ragione chi soffre di una patologia che pone gravi limiti proprio in questo senso.
C'è chi vede in maniera sospetta il fatto che un autistico comunica solo se ha vicino il suo abituale
facilitatore, ma va ricordato che l'aiuto di un riferimento consolidato e rassicurante è più che
legittimo per chi soffre di una malattia che butta in crisi l'intera propria esistenza anche solo per una
minima virgola cambiata nel proprio ambiente. Il concetto di "relazione" ha acquisito in questi
ultimi decenni un'importanza sempre maggiore in psicologia e nelle scienze della comunicazione: ci
si "costruisce" nella relazione e attraverso l'ambiente, le potenzialità umane si sviluppano solo se
sollecitate nell'ambiente di vita (Hubel, Wiesel, Bruner, J.Z. Young, Popper, Eccles, Gardner). Ora,
il fatto di pensare che qualcuno con grossi problemi di comunicazione dia l'impressione di non
essere del tutto o poco "costruito", dovrebbe portare a un maggior incremento della sua possibilità
di comunicare, proprio per portare avanti la crescita della sua stessa persona, altrimenti avviene il
paradosso assurdo che non si può dare una cosa a chi ne ha bisogno a causa del fatto che non ce
l'ha.
In questo contesto, potrebbe essere addirittura ipotizzabile dare una risposta al "problema" degli
influssi del facilitatore come "fase di passaggio necessaria" di un processo di sviluppo di una
potenzialità che ha bisogno di "relazionarsi" per poter "divenire". In una prima fase di questa
relazione tale capacità sarebbe più "passiva" e "condizionata", poi diverrebbe sempre più attiva ed
autonoma (si tratterebbe comunque, secondo me, di una passività e di un condizionamento tutt'altro
che "passivo", in quanto teso da parte del facilitato ad attivare una capacità che da sola, al momento,
non potrebbe esprimersi).
Per quanto riguarda l'aiuto fisico, fornito generalmente alla spalla, al braccio o al polso, la
questione si fa più complicata ed è qui che sta la bravura del facilitatore.
Si può ammettere che esistano pochi buoni facilitatori, tanto che in Italia ne è controllata
seriamente la formazione e le prestazioni, piuttosto che ritenere non valida questa strategia.
Questa convinzione viene dalla mia stessa esperienza e, soprattutto, osservazione: ho visto
autistici scrivere tenendo loro semplicemente una mano sulla spalla. Ma - giustamente - non è così
per tutti o, perlomeno, non lo è agli inizi. Eppure, anche qui, ho potuto osservare delle persone
competenti mettere in atto in maniera corretta ed esperta il ruolo del facilitatore e mi sono convinta
che in quel caso chiunque, anche un non esperto, attraverso la semplice osservazione esterna della
scena si sarebbe convinto che la scelta delle lettere digitate in una tastiera veniva dal facilitato.
Affermarlo ora qui in uno scritto non risulta facile, dato che bisognerebbe dare alle parole la
capacità di descrivere i numerosi e complessi gioco-forza che si svolgono tra il braccio del facilitato
e quello del facilitatore. Per dirla in maniera grossolana, si può affermare che si aveva l'impressione
che il facilitatore cercasse addirittura di ostacolare la direzione del braccio e del dito del facilitato
verso la tastiera per far sì che fosse la forza (e quindi la volontà) del facilitato a puntare verso il suo
obiettivo.
Verso un riconoscimento ufficiale
Se è vero che, nonostante le perplessità sugli errori da una parte, e nonostante la messa in
discussione di una convinzione dall'altra, la Comunicazione Facilitata risulta essere di aiuto per una
buona parte di casi di autismo, ciò dovrebbe portare a delle conseguenze concrete sul piano
istituzionale.
Sia il mondo medico-scientifico che l'apparato delle istituzioni civili, ivi compresa quella
scolastica, dovrebbero finalmente guardare con un po' più di fiducia a questa strategia che, se riesce
a non sbagliare per la non sua facile esecuzione, non può portare altro che del bene.
Da parte sua, la Comunicazione Facilitata ha fin dall'inizio cercato di approfondire e migliorare la
sua tecnica, correggendo anche i suoi eventuali punti deboli e, allo stato attuale delle cose, solo chi
esce da una seria preparazione e supervisione può cimentarsi nel ruolo del facilitatore.
Si ha invece, a mio parere, l'impressione che le discussioni e le dispute presenti fin dal nascere di
questa strategia abbiano creato oggi una situazione di stallo appesantita da una serie di posizioni per
partito preso. Non di rado si viene a conoscenza della Comunicazione Facilitata in un clima di
sospetto che induce in chi la incontra la scelta di una propria posizione senza a volte una seria
valutazione.
Credo sarebbe importante ed utile permettere che la Comunicazione Facilitata possa muoversi più
accettata e obiettivamente osservata all'interno delle istituzioni, dove, cercando di dare il meglio di
sé, riesca perlomeno a farsi conoscere in maniera diretta. È importante, secondo me, questa
osservazione diretta, dato che non a caso i sostenitori della Comunicazione Facilitata sono
generalmente persone che l'hanno sperimentata da vicino.
Non va nemmeno dimenticato che tra queste persone vi sono molti genitori di bambini autistici,
per i quali possiamo ipotizzare che, mossi dal bene che vogliono ai propri figli, abbiano valutato
con serietà le competenze di una data tecnica. Certo, anche qui, si potrebbe obiettare che i genitori
di un bambino autistico si affiderebbero a qualunque stregone pur di trovare un po' di riscatto, ma se
si considera che i supervisori, nominati proprio per un controllo di questa eventualità, sono persone
al di sopra delle parti perché non hanno un rapporto affettivo con nessuna persona facilitata e sono
sempre questi ad iniziare la tecnica, si può anche riconoscere che se in questa collocazione e
controllo avviene la produzione di uno scritto, ciò sia dovuto realmente a delle possibilità che
scaturiscono finalmente dal soggetto facilitato.
Elenco dei Centri di Formazione alla Comunicazione Facilitata,
accreditati presso il "Facilitated Communication Institute" dell'Università di Syracuse (USA)
CENTRO STUDI SULLA C.F.
Sig.ra PATRIZIA CADEI Via Ezra Pound, 14 – 16030 ZOAGLI (GE)
Tel. 0185 - 233118
ASL BA/5 – Servizio Sovradistrettuale della Riabilitazione
Via Pacinotti - 70017 PUTIGNANO (BA)
D.SSA ANNA DELLAROSA, Neuropsichiatra
SIG.RA ELISA PAPINO, Terapista occupazionale
Tel. 080 - 4050932
AZIENDA OSPEDALIERA “DI VENERE –GIOVANNI XXIII”
Unità di Neurologia
70100 BARI
D.SSA SILVANA BITETTO, Specialista in Psichiatria
SIG.RA LUISA TRICARICO, Terapista della Neuro e psicomotricità
Tel. 080 - 5015111
ISTITUTO A. QUARTO DI PALO
DOTT.SSA TERESA CALVARIO, Neurologa
DOTT. MARIO DAMIANI, Neurologo
Via Corato, 400
70030 ANDRIA (BA)
Tel. 0883 - 542811
CENTRO STUDI SULLA C.F. – (Piemonte)
DOTT.SSA MARCELLA MILLARI, Psicopedagogista
Via Leonardo da Vinci, 23 - 10093 COLLEGNO (TO)
Tel. 347 - 4333469
AUSL di Reggio Emilia
U.O. di NEUROPSICHIATRIA INFANTILE
E Centro per l’Autismo e i DGS
Padiglione Bertolani, Via Amendola, 2
42100 Reggio Emilia
- D.ssa A.M. DALLA VECCHIA, Neuropsichiatra Infantile
- D.ssa GRAZIA SASSI, Pedagogista
Tel. 0522 – 335598/99
ASL PIACENZA
Unità Operativa Aziendale di N.P.I.
Psicologia dell’età evolutiva e Riabilitazione
D.SSA FRANCESCA CALTAGIRONE – Neuropsichiatra infantile
Tel. 347 - 4903783
CENTRO STUDI SULLA C.F. (Lazio)
FRANCESCA BENASSI, Logopedista
Via del Colosseo, 16/a – 00184 ROMA
Tel. 06 - 69920878
COOPERATIVA CULTURA E LAVORO
Dott. SANDRO PIOLI, psicologo
Via Tiacci, 6 - TERNI
Tel. 0744 - 425439
COOPERATIVA DI INTERVENTO
Dott. SERGIO VITALI, Neuropsichiatra, Neurologo
Sig.ra MARIAROSA ZAMBON - Terapista della Riabilitazione/Logopedista.
Via Felisati, 86 - MESTRE (Venezia)
Tel. 041 - 9753222
CENTRO STUDI SULLA CF
D.ssa ANTONELLA FOGLIA
Sig.ra LOREDANA DOTTORI
Via San Bernardino, 17 - 60020 AGUGLIANO (Ancona)
Tel. 071 - 907293
D.ssa VITTORIA CRISTOFERI REALDON
Neuropsichiatra Infantile
Via Veglia, 2 - 35134 PADOVA
Tel. 347 - 7959626
Dott. RAFFAELE LUCERINI
Psicologo
Alla via Faibano, 61 - 80034 MARIGLIANO (NA)
338 – 2122155
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