LICEO SCIENTIFICO “LE FILANDIERE” SAN VITO AL

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LICEO SCIENTIFICO “LE FILANDIERE”
SAN VITO AL TAGLIAMENTO
RELAZIONE FINALE DELL’ANNO DI PROVA
PER LA CONFERMA IN RUOLO
A.S. 2008/2009
DAL RACCONTO DI SÉ ALLA COSTRUZIONE DEL SENSO
L’APPROCCIO AUTOBIOGRAFICO
NELL’INSEGNAMENTO DELLA STORIA E DELLA FILOSOFIA
NELLA SCUOLA SECONDARIA DI SECONDO GRADO
DISCIPLINA: FILOSOFIA E STORIA
DOCENTE IN PROVA
DOCENTE TUTOR
Prof. Massimo De Bortoli
Prof.ssa Eliana Villalta
Indice
Premessa
L’attività di insegnamento come ricerca incessante intorno al sé……………………
pag. 3
Presentazione…………………………………………………………………………………….... pag. 6
I presupposti teorici dell’approccio autobiografico…………………….
pag. 9
L’educazione come cura……………………………………………………………………………..
pag. 19
Applicazioni ed esperienze nel mondo della scuola…………………………………..
pag. 20
La sperimentazione durante l’a.s. 2008/2009………………………………
pag. 30
La programmazione…………………………………………………………………………….
pag. 30
Esperienze in aula…………………………………………………………………………………
pag. 34
La scrittura sullo stupore come origine della filosofia……………………………….
pag. 34
Il quaderno di Montaigne…………………………………………………………………………..
pag. 36
Quella volta che ho imparato…………………………………………………………………….
pag. 37
La Mercedes coupè e l’etica di Aristotele…………………………………………………..
pag. 38
Applicazioni e sperimentazioni fuori dall’aula……………………………….
pag. 40
Le Filandiere si raccontano…………………………………………………………………………
pag. 40
Scrittura di sé e orientamento post-scolastico: un contributo per
riconoscere le competenze-chiave…………………………………………………………….
pag. 42
Conclusione: verso un’idea possibile di educazione…………………….
pag. 43
Bibliografia generale……………………………………………………………………………
pag. 47
Nota biografica…………………………………………………………………………………………..
pag. 49
2
Non solo a vendere e a comprare si viene a
Eufemia. Ma anche perché la notte accanto ai fuochi
tutt’intorno al mercato, seduti sui sacchi o sui barili o
sdraiati su mucchi di tappeti, a ogni parola che uno dice
– come “lupo”, “sorella”, “tesoro nascosto”, “battaglia”,
“scabbia”, “amanti” – gli altri raccontano ognuno la sua
storia di lupi, di sorelle, di tesori, di scabbia, di amanti,
di battaglie. E tu sai che nel lungo viaggio che ti
attende, quando per restare sveglio al dondolio del
cammello o della giunca ci si mette a ripensare tutti i
propri ricordi a uno a uno, il tuo lupo sarà diventato un
altro lupo, tua sorella una sorella diversa, la tua
battaglia altre battaglie, al ritorno da Eufemia, la città
in cui ci si scambia la memoria a ogni solstizio e a ogni
equinozio.
Italo Calvino, Le città invisibili
Premessa
L’attività di insegnamento come ricerca incessante intorno al sé
Ho sempre creduto che le immagini abbiano un forte potere persuasivo e
siano in grado di sintetizzare la situazione e di cogliere il punto in modo efficace,
in particolare se si cerca un punto di avvio per la narrazione e l’analisi di
questioni complesse. Avevo cinque o sei anni quando mi regalarono un libro
illustrato interattivo, oggi si chiamerebbe libro-game, in cui erano rappresentate
delle situazioni di vita che l’intervento del piccolo lettore poteva modificare
tirando una linguetta di cartone o sollevando un lembo che svelava un secondo
disegno che si sovrapponeva alla prima apparenza. Un’altra volta fu un atlante
geografico illustrato, recuperato in quella miniera di ricordi altrui che sono le case
per vacanza estive che bazzicavo di nascosto col mio gruppetto di amici o che
mia madre frequentava al seguito delle agenzie immobiliari. Capitava che in
queste abitazioni di pochi giorni i turisti di passaggio, spesso austriaci, tedeschi
o, quando si era fortunati, persino da paesi più lontani e ignoti come il Belgio o la
3
Danimarca, dimenticassero qualche oggetto: un gioco di bambino, una scatola di
corn-flakes, un attrezzo da cucina. Quella volta fu un libro. L’atlante geografico
illustrato, di cui osservavo solo le figure essendo scritto in una lingua a me
ignota, rappresentò il mio primo contatto con la vastità delle terre. Ricordo
mongolfiere che sorvolavano terre da cui emergevano sagome di edifici e
monumenti, la Grande Muraglia di Cina, le isole della Polinesia e l’elefante
indiano.
Ritengo, sulla scorta di autori come Walter Benjamin ed Ernst Bloch,
nonché di studiosi delle forme di apprendimento come Jerome Bruner, che la
struttura narrativa delle storie contenga un aliquid misterioso che induce alla
domanda e proprio per questo esse siano particolarmente adatte ai contesti di
apprendimento. Le narrazioni non solo hanno il potere di affascinare e
coinvolgere, ma invitano a chiedersi il perché, non lasciando indifferenti rispetto
alla cosa stessa. Questa è una caratteristica propria anche del sapere filosofico.
È per questo che vorrei partire da un’immagine narrativa per dare inizio a
un’avventura, a un processo mentale che già in altro tempo mi ha fornito lo
spunto per cominciare a pensare.
Un uomo, un povero diavolo che vive in una sperduta cittadina di
campagna della Germania, prestando ascolto a una voce che in sogno gli dice
dove si trova un ignoto tesoro, si mette in viaggio alla volta di Praga. Ottenuto il
debito permesso, scava sotto il secondo pilone del ponte vecchio, proprio come la
voce gli aveva suggerito. Non avendo trovato altro che ghiaia, l'uomo deluso sta
per andarsene, quando il custode del ponte gli racconta che anch'egli tempo
addietro aveva udito una voce in sogno indicargli il luogo di un tesoro nascosto:
sotto la stufa della cucina, in una povera casa proprio nella città da cui proveniva
quell'uomo; ma egli ragionevolmente non vi aveva prestato ascolto. Infine,
quando l'uomo fa ritorno a casa propria e, in mancanza di legna per il fuoco,
scardina le assi del pavimento, sotto la stufa, molto meglio che sotto il pilone di
un ponte, trova finalmente il suo tesoro.
Nel commento che segue la storia, riportata da Ernst Bloch in Tracce1, quel
che se ne trae non è un insegnamento, una morale tout court, ma un'immagine,
un concetto-guida in forma di quadro con arco (Tableau mit Bogen), con un arco
che ritorna su se stesso nel luogo da cui era partito. La domanda che sorge
1
Ernst Bloch, Tracce, Garzanti, 1995. L’apologo in questione, che porta il titolo di Quadro con arco si trova a
pag.
4
spontanea è: il viaggio a Praga è stato inutile? Il discrimine che corre tra il
povero diavolo, scavatore di ghiaia, “meschino Don Chisciotte” e il ragionevole
custode del ponte2, corrisponde a una concezione del pensare. Da una parte il
rischio, la credulità dettata da necessità, il cascarci ingenuo, il vagare errante, la
continua scelta di vie laterali; dall'altra l'attesa, la staticità, la fiducia in ciò che è
radicato e stabilito. Il gioco di parole si carica di sostanza: ciò che era semplice
via, cammino (Weg) è divenuto deviazione, scorciatoia, tangente (Umweg). Il
mettersi in cammino può essere inteso come una vera e propria figura costitutiva
del pensiero. Essa raccoglie sia il carattere incompiuto dell'oggettività, sia la
tendenza attiva della soggettività che, sorpresa dall'urto della presenzialità
immediata, si muove verso una meta i cui contorni rilucono in evanescenza
durante lo stesso viaggio.
Il protagonista della storia narrata da Bloch muove da una situazione di
necessità e di mancanza e perciò tende a essere credulone a non trascurare
anche la più piccola possibilità di migliorare il suo stato, persino un sogno.
Dunque la mancanza si configura come il motore del pensiero e, ancor prima,
della vita. Etwas fehlt (manca qualcosa) diceva il protagonista del dramma
Ascesa e caduta della città di Mahagonny di Brecht. La direzione del viaggio è
indicata dai frammenti di senso sparsi sulla via, dall'interpretazione delle tracce
di verità seguendo il procedimento del detective3, del sostare dello sguardo
sull'inessenziale, sull'inapparente che, talvolta, può giacere inosservato in piena
evidenza come la lettera rubata dell’omonima novella di Poe.
Quel che mi interessa riprendere e sottolineare di questa immagine, presso
cui ho sostato in riflessione già diversi anni fa, è il ruolo giocato dalle scorciatoie,
dalle deviazioni, dalle strade laterali nella vita di ogni individuo. Il racconto di una
vita, e delle scelte professionali che la caratterizzano, non può che essere una
storia di deviazioni e di vie alternative tenute insieme da una ricerca di qualcosa,
strade non a senso unico che disegnano la pianta di una città. Sono convinto che
esse non siano inutili per la ricerca incessante che è in atto, anche se talvolta si
tratta di strade che non portano da nessuna parte, vicoli ciechi.
2
Come non pensare qui al kafkiano custode del Tribunale della Legge nel racconto Davanti alla Legge, che
monta la guardia al nulla e al non-senso davanti alla porta stabilita dal destino per ogni uomo ?
3 Cfr. L. Boella, Introduzione a Tracce, Garzanti, Milano, 1994, in cui distingue i diversi momenti di questo
procedimento investigativo : suchen, merken, verfolgen, erraten ossia cercare, prestare attenzione, seguire e
tirare a indovinare. Si può trovare anche un bel testo di Bloch su questo argomento nei Saggi letterari dal titolo
Considerazione filosofica del romanzo giallo.
5
Per la professione dell’insegnante ritengo di grande importanza la
dimestichezza con le strade laterali, con la serendipity4 che fa trovare quel che si
cerca mentre il pensiero è posato altrove. Credo che ripensare al proprio
percorso frastagliato aiuti a non smarrire la speranza che anche i percorsi più
divergenti e tortuosi, nei giovani come negli adulti, possano ritrovare il proprio
tesoro se solo ne hanno fiducia. L’educazione è un’attività sfuggente, richiede
sempre una disposizione all’autoeducazione.
Ho utilizzato l’apologo tratto da Tracce di Ernst Bloch durante le prime
lezioni di filosofia con la classe quinta nel corrente anno scolastico, sia come
metodo di conoscenza interpersonale che come occasione di espressione di
riflessioni personali sulla funzione e sullo statuto della filosofia. La filosofia, così
come la storia sebbene per aspetti diversi, presenta il vantaggio di poter
incominciare in qualunque punto la trattazione di un tema.
Le domande fondamentali si ripetono sempre nella storia del pensiero.
Presentazione
La prospettiva autobiografica si pone oggi come uno degli scenari più
interessanti e innovativi nella ricerca educativa sulla condizione giovanile e
adulta. Presupposto teorico fondamentale è infatti il riconoscimento del valore
individuale e irriducibile della persona attraverso l’opera di centratura sul sé. In
questa
prospettiva
l’individuo
in
formazione
può
sentirsi
riconosciuto
e
valorizzato e può mettere in atto risorse aggiuntive per migliorare la propria
condizione,
riguadagnare
il
gusto
di
vivere,
ritrovare
motivazioni
nella
dimensione professionale e di studio. Tutto ciò attraverso un percorso di
accompagnamento che trova nella scrittura della propria storia un momento
particolarmente importante.
Ripensare alla propria vita permette di ritrovare i nodi di senso della
propria vicenda umana e professionale dai quali ripartire per una rinnovata
progettazione di sé.
Nei contesti professionali educativi e di cura con i minori, con gli
adolescenti, con le persone anziane, autosufficienti e non autosufficienti, sono
4
Il termine serendipità è un neologismo indicante la sensazione che si prova quando si scopre una cosa non
cercata e imprevista mentre se ne sta cercando un'altra. Lo si deve allo scrittore H. Walpole ed è ispirato ad
un’antica fiaba persiana.
6
state sperimentate negli ultimi anni alcune buone pratiche che hanno evidenziato
l’importanza della riflessione sull’esperienza e sulle pratiche educative attraverso
tecniche opportune e l’allestimento di un setting formativo adeguato. La
riflessione su di sé, intesa come teorizzazione dell’esperienza e apprendimento
dall’esperienza, facilita l’accrescimento delle competenze professionali e favorisce
il miglioramento e il buon esito dell’intervento educativo.
La prospettiva autobiografica facilita in questo modo la sperimentazione
più profonda dell’idea di cura nella relazione con l’altro sia da un punto di vista
analitico che
emozionale. Non può esserci
cura degli
altri
se non c’è
contestualmente cura di sé. La comprensione dei meccanismi con cui si esercita
la mia cura nei confronti dell’altro o il mio intervento educante, attraverso gli
strumenti dell’autoriflessione e dell’autoanalisi, diventa un presupposto sempre
più importante per la qualità dell’intervento educativo.
In questo contesto si intende sottrarre il concetto di “cura” all’ambito della
cultura terapeutica e sanitaria, recuperando il senso originario allargato del
termine come occuparsi di, prendersi cura di, rivolgere l’attenzione al sé e
all’altro all’interno della relazione.
È il senso dell’epimelèia (cura), concetto riscoperto nelle sue radici
dell’antichità classica dall’ultimo Michel Foucault, laddove scrive che la cultura di
sé è presente quando c’è “intensità dei rapporti con sé, cioè delle forme nelle
quali si è chiamati ad assumere se stessi come oggetto di conoscenza e campo
d’azione, allo scopo di trasformarsi, correggersi, purificarsi, edificare la propria
salvezza”5.
La cura rappresenta l’interessamento alla storia dell’altro, nel senso
etimologico dello “stare in mezzo” proprio della scrittura fra la situazione
esistenziale attuale e quella successiva alla pratica autobiografica.
Non si tema, in questo contesto, un ulteriore contributo a quell’esaltazione
di sé che sembra essere una delle cifre dominanti della nostra cultura
contemporanea
occidentale,
fondata
sull’individualismo
e
sulle
forme
dell’apparire. Vi è infatti un narcisismo necessario in ogni processo educativo e
formativo. Quel narcisismo che porta a mettersi a tema per conoscersi e aver
cura di sè, secondo il precetto antico e mediterraneo del “conosci te stesso” e
dell’”occupati di te stesso”. Da lì si può ripartire per un percorso educativo aperto
5
M. Foucault, La cura di sé, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1993, p. 46.
7
alla relazione nel senso dell’empatia come forma del “sentire l’altro”6 e della
relazione di aiuto come gioco dei sé nel rapporto interpersonale7.
L’impostazione della trattazione e della descrizione di pratiche che segue si
colloca entro un contesto di formazione e ricerca collegato all’esperienza della
Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, associazione culturale fondata da
Duccio Demetrio e Saverio Tutino nel 1998 e di cui il sottoscritto è collaboratore
scientifico dal 20068.
La relazione seguente si compone di due parti: un inquadramento teorico
dei problemi e della ricerca in atto sulla prospettiva autobiografica nel mondo
della formazione con un focus specifico sul contesto scolastico; una seconda
parte sperimentale e di riflessione sull’esperienza maturata dal sottoscritto
durante l’anno scolastico in corso in qualità di docente di storia e filosofia presso
il Liceo Scientifico Le Filandiere di San Vito al Tagliamento.
6
Si veda a questo proposito l’intenso libro di Laura Boella Sentire l’altro. Conoscere e praticare l’empatia,
Raffaello Cortina, 2006.
7 Laura Formenti, La formazione autobiografica, Guerini, Milano, 1988.
8 Si veda il sito web dell’associazione www.lua.it in cui sono illustrate le finalità scientifiche, il programma di
studi e l’offerta formativa dell’associazione.
8
I presupposti teorici dell’approccio autobiografico
L’autobiografia o, meglio, come vedremo la prospettiva autobiografica, è
dunque una forma di opacità che può permettere alla vita individuale irriflessa di
sostare e trattenersi in un pensiero a partire da se stessi. Prima però si
tratterebbe di capire perché muovere proprio dalla soggettività per ritrovare le
fila di un approccio filosofico e pedagogico che fa della soggettività riflessa il suo
stesso campo di indagine.
Che la scoperta del sé o dei diversi sé9 che compongono la coscienza
soggettiva sia la base della formazione autobiografica è affermazione persino
tautologica e basare l’approccio autobiografico sulla ricerca di sé che segue
all’oscurità dell’attimo vissuto10 potrebbe sembrare un’indebita autofondazione o,
peggio, un’immane petitio principii. Ciò sia detto oltretutto in un’epoca in cui la
ricerca filosofica ha già ampiamente trattato e digerito tutta la tematica della crisi
e del superamento del soggetto, come ci insegna la scuola del sospetto e l’infinita
ermeneutica nietzscheana e heidegerriana sempre intenta ad elaborare la sua
tela. La condizione postmoderna ha inoltre dichiarato la fine delle grandi
narrazioni del mondo e, fra queste, dell’idea di soggetto inteso nella sua pretesa
di abbracciare la storia del mondo11, mentre la riflessione sociologica più recente
ha frammentato l’”io borghese”, self-made, in un sé proteiforme e in continua
evoluzione in cui la borghesia dei managers e delle partite Iva si è costruita un sé
in divenire, sempre in procinto di mutare storia, relazioni e radicatezza così come
il lavoro e ha soppiantato il “sé statico” e museale della borghesia ottocentesca12.
Cosa ha da dire dunque questa soggettività irriducibile cui ci riferiamo quando
si muove dalla prospettiva autobiografica?
La risposta, come è intuibile, non può essere univoca né alla portata di mano.
Qui si dispiegano i diversi tentativi della filosofia di trovare un terreno, un Grund,
dove poggiare i piedi. Tra questi i più fecondi per una storia dell’idea di soggetto
sono stati la radicale soggettivizzazione della domanda di senso posta dagli
9
Cfr. D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, 1995.
Questo concetto dell’”oscurità dell’attimo vissuto” inteso come momento iniziale del filosofare è esposto
nell’opera di Ernst Bloch, Spirito dell’utopia, La Nuova Italia, 1993 scritto durante la prima guerra mondiale e
pubblicato nel 1918.
11 Si allude qui al dibattito seguito alla pubblicazione del testo di J. F. Lyotard, La condizione postmoderna,
Feltrinelli, 1998, ed. orig. 1979.
12 Mi riferisco in questo caso alle posizioni espresse da J. Rifkin nel suo L’era dell’accesso. La rivoluzione della
new economy, Mondadori, 2000.
10
9
esistenzialisti, la descrizione dell’esperienza interna del metodo fenomenologico,
la pretesa dell’ontologia classica passata attraverso il trattamento heideggeriano
di trovare un fondamento d’essere che è sempre interrogato a partire da un
esserci, ossia da una temporalità. In sostanza, sia detto al modo di un Witz, il
soggetto sembra una questione propria dell’Ottocento (“A uno capitò di sollevare
il velo di Sais e cosa vide? Meraviglia delle meraviglie, vide se stesso”13) la cui
messa in crisi e profonda trasformazione ha continuato a interessare tutto il XX
secolo con esiti di straordinario valore che hanno aperto il campo a nuove
discipline e inedite prospettive.
A fronte di tutto ciò si potrebbe dire semplicemente che la prospettiva
autobiografica
nel
contesto
dell’educazione
degli
adulti
semplicemente
presuppone l’irriducibilità del soggetto e si serve di strumentazioni proprie di altri
saperi, la psicologia, la psicoanalisi, la fenomenologia e lo stesso esistenzialismo,
per ricondurre a una qualche unità i fili della domanda originaria. Per essere più
precisi ciò che è davvero irriducibile non è il soggetto in quanto concetto astratto
ma è l’esperienza soggettiva, il vissuto interiore, il flusso di coscienza che tanti
padri e maestri ha avuto durante il secolo scorso. Di qui dunque si parte verso i
vasti
territori
dell’autobiografia,
dalla
datità
dell’esperienza
soggettiva,
dall’oscurità dell’attimo vissuto che costituisce ad un tempo il limite dello sguardo
(l’occhio che non può vedere il proprio rovescio) e l’urto esistenziale che fa
sciogliere le ancore verso il mare aperto14.
Per autobiografia si intende normalmente il risultato sotto forma di testo
scritto e organizzato del processo di ricostruzione e analisi della propria vita o,
meglio, delle diverse personalità che ci costituiscono e ci conducono fino al
momento attuale. Dalla definizione classica di Philippe Lejeune, la cui opera Il
patto autobiografico15 è da considerarsi una delle pietre miliari degli studi
sull’autobiografia, che suona: “l’autobiografia è un racconto retrospettivo in
prosa che una persona reale fa della propria esistenza, quando mette l’accento
sulla sua vita individuale e sulla storia della sua personalità”, si nota innanzitutto
che l’elemento centrale dello studio autobiografico è l’attenzione rivolta al sé.
Questo primo movimento implica un rivolgimento dello sguardo dal mondo o
13
Novalis, I discepoli di Sais, Bompiani, 2001, composto fra il 1798 e il 1799.
Cfr. il concetto di lusiteleia come “arte di levare le ancore” in D. Demetrio, Autoanalisi per non pazienti,
Cortina, 2003.
15 P. Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino, 1986, ed. orig. 1975.
14
10
dall’esterno verso se stessi, con un’intenzionalità profondamente autentica di
trovare risposta alla domanda di senso che viene dal rapporto tra il sé e l’altro da
sé. Questo movimento ha radicalmente interessato la formazione del punto di
vista della filosofia e della psicologia occidentale dal “conosci te stesso” inciso sul
muro del tempio di Delfi, alla maieutica socratica che riconduce l’attenzione
dell’interlocutore alle ragioni profonde del proprio interrogarsi, alla coltivazione
dell’interiorità delle filosofie ellenistiche e ancora al concetto di conversione
dell’anima attraverso il racconto della propria storia in Sant’Agostino, alle
profonde analisi di Montaigne (“Io studio me stesso più di ogni altro soggetto. E’
la mia metafisica, è la mia fisica”16), alla riscoperta della soggettività in Rousseau
e nel Romanticismo; una buona parte della filosofia e delle scienze umane del
Novecento inoltre ha preso le mosse da un radicale confronto con la soggettività
dall’esistenzialismo,
alla
fenomenologia,
alla
psicanalisi
e
alla
psicologia.
Certamente la storia della comparsa dell’io nella cultura occidentale è anche la
storia
della
sua
frantumazione,
del
moltiplicarsi
dei
punti
di
vista,
dell’imprendibilità e della natura proteiforme del soggetto come raccontano alcuni
esempi fra i più alti della storia della letteratura e delle arti figurative. Con
Lejeune
si
ritorna
a
parlare
di
“mettere
l’accento
sulla
[propria]
vita
individuale”17 attraverso l’autobiografia come modalità di riprendere contatto con
sé in un’ottica pedagogica e autoformativa.
Tuttavia, quanto alla definizione di autobiografia,
si possono porre alcune
critiche e precisazioni alla luce dell’esperienza anghiarese.
Innanzitutto il racconto autobiografico non deve essere necessariamente in
prosa ma può trovare molteplici forme di espressione e organizzazione del testo
dalla poesia, alla lirica, al testo di scena, allo stile dizionaristico. Ciò da cui non si
prescinde, nel filone di studi e pratiche in cui si colloca l’esperienza di Anghiari e
del gruppo di ricerca di Demetrio, è l’elemento della scrittura, senza il quale ci
potrebbe senz’altro essere rivolgimento e riflessione sul sé, analisi, racconto,
catarsi ma non ci potrebbe essere la possibilità di oggettivazione e di dialogo tra
coscienza e autocoscienza resa possibile dall’opacità del testo scritto.
Lo stesso concetto di “propria esistenza” appare inadeguato di fronte alla
fenomenologia delle diverse esistenze possibili e attuali che ci costituiscono e di
cui la storiella iniziale del viaggiatore può essere un esempio.
16
17
M. de Montaigne, Saggi, Adelphi, 1992, composti a partire dal 1571.
P. Lejeune, op. cit.
11
Qual è l’io che si racconta? Si tratta di un io dominante sulla molteplicità degli
io di cui siamo fatti? O non si tratta piuttosto di un io cosciente e attuale che
tiene insieme i diversi fili dell’esistenza e se ne fa “tessitore”18? Se l’autore e il
narratore autobiografi devono necessariamente essere unitari, ossia il punto di
vista esterno e quello interno al testo devono coincidere, i personaggi che si
muovono sulla scena possono essere diversi, non devono per forza coincidere col
narratore, possono rimandare per metafore e analogie alle diverse storie e ai
tratti di personalità che costituiscono l’autore anche per via indiretta, per
speculum et in aenigmate.
Prendersi cura di sé significa dunque rimettere al centro il sé in modo
profondo e autentico, prestando attenzione ai diversi soggetti e personalità che ci
costituiscono, provare a dare senso a eventi frammentati che altrimenti
giacerebbero dispersi come oggetti ormai inutili dimenticati in una soffitta. In
ognuno di noi è presente, magari rimanendo poi sempre a livello latente come
presenza incompiuta, l'urgenza o l'emergenza del pensiero autobiografico. In
questa prospettiva appare importante favorire e sviluppare l'attenzione verso
questo pensiero, attraverso un'opera attenta e intelligente di formazione con la
finalità di coltivare l'intelligenza autobiografica. In questo senso l’autobiografia
non è solo, per usare una terminologia presa da Ricoeur, un’archeologia del
soggetto ma diventa teleologica19, proprio perché l’oggetto della sua ricerca
ultimativa non sta dietro di sé, come potrebbe sembrare, rinchiuso nella prigione
del passato ma si trova di fronte a sé, nel compimento che è ancora da venire.
L’eccessiva rigidità della definizione di Lejeune non deve tuttavia far sembrare
per converso che l’autobiografia sia una via larga in cui tutto è concesso. Uno dei
motivi di distinzione dell’autobiografia rispetto ad altre forme del racconto di sé
come il diario intimo, l’epistolario, il diario in rete o blog è proprio la presenza di
alcuni vincoli strutturali e formali, che la rendono un’operazione estremamente
seria
e
faticosa.
L’autobiografia
possiede
una
propria
architettura,
un
ordinamento razionale dei contenuti, attraversa alcuni temi in modo ineludibile,
assume uno stile diacronico o comunque dinamico che mette in luce un
cambiamento, un’evoluzione, un distanziamento.
Se dunque l’autobiografia si fonda sulla scrittura di sé, in che senso la
prospettiva autobiografica può rimettere in gioco la propria valenza formativa e
18
19
Cfr. D. Demetrio, Raccontarsi, op. cit.
P. Ricoeur, contributo specifico in J. Bleicher, L’ermeneutica contemporanea, Il Mulino, 1986.
12
come si può cogliere un’unità di significato nelle molteplici forme della scrittura di
sé, oggi spesso così frammentate in messaggi standard e stereotipati tanto che
vengono studiati programmi informatici appositi per suggerire la formazione delle
parole e intere frasi di repertorio sono presenti nella memoria degli strumenti di
comunicazione tecnologici?
Proviamo allora a ripartire da uno dei miti dell’origine della scrittura, là dove il
mythologein diventa strumento di indagine su di sé e non escogitazione di
ingegnose interpretazioni pseudorazionalistiche: “Ma per queste cose io non ho
tempo libero a mia disposizione. E la ragione di questo, mio caro, è la seguente.
io non sono ancora in grado di conoscere me stesso, come prescrive l’iscrizione
di Delfi; e perciò mi sembra ridicolo, non conoscendo ancora questo, indagare
cose che mi sono estranee”20.
In una celebre storia “tramandataci dagli antichi” Platone mette in scena
quella che, secondo alcune interpretazioni accreditate e recenti, dovrebbe
rappresentare la superiorità dell’oralità sulla scrittura. La vicenda è quella del
mito di Theuth, secondo cui questo inventore avrebbe scoperto fra le molte altre
cose anche la scrittura e l’avrebbe portata in dono a Thamus, re di tutto l’Egitto.
Passate in rassegna e lodate tutte le varie invenzioni di Theuth, si arrivò infine
alla scrittura. Questo fu il dialogo che si svolse fra i due nel mito riportato da
Platone per bocca di Socrate nel Fedro:
“Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egiziani più sapienti e più capaci di
ricordare, perché con essa si è ritrovato il farmaco della memoria e della sapienza».
E il re rispose: «O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi invece è
capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le
adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il
contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di
produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché, fidandosi della
scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei e non dal di dentro
e da se medesimi: dunque tu hai trovato non il farmaco della memoria ma del richiamare
alla memoria» (Platone, Fedro, 274E-275A).
Aldilà delle interpretazioni critiche e filologiche sulla portata di questo e di altri
testi di Platone sul rapporto tra dimensione orale e produzione di scrittura
filosofica, quel che ci interessa cogliere per il nostro discorso sull’autobiografia è
20
Platone, Fedro, 229E-230A
13
che l’atto dello scrivere di sé potrebbe correre il rischio di essere un
divertissement, una pratica divergente dal nostro essere autentico proprio in
quanto invece di coltivare la memoria di sé, fornirebbe il pretesto per l’oblio e la
dimenticanza di ciò che veramente conta. Ma non è proprio la scrittura e
l’autobiografia come via regia all’analisi di sé che ci ha condotto su questa
strada? Cosa intendeva veramente dire allora Platone con questo enigmatico
mito o, meglio, che cosa possiamo trarne noi oggi che stiamo vivendo la lunga
fase di un ulteriore passaggio dalla civiltà della scrittura a quella dell’immagine?
Ci viene in soccorso una riflessione di Carlo Sini che vede rappresentata
nell’invenzione di Theuth la cultura superficiale e la sapienza da salotto, quella
che Heidegger avrebbe chiamato cultura della “chiacchiera”, che distrae l’uomo
dalla vera riflessione su di sé e dalla ricerca della verità poiché lo illude di essere
filosofo “perché legge e magari anche scrive libri di filosofia, avendo però del
tutto dimenticato, o mai saputo, cos’è davvero l’esercizio della filosofia e del
pensiero, l’ethos filosofico”21.
Va qui precisato che quel che l’autobiografia mette in atto non è un mero
esercizio di scrittura, ma vuol essere una vera e propria pratica di scrittura ossia
un’esperienza completa e totalizzante che non è fatta in primis per lasciare tracce
di sé o per coltivare un narcisismo perverso, ma viene messa in atto per essere
essa stessa ricerca di senso, congiungimento di fili dispersi, ricomposizione di
membra proprio mentre si dà. In questo senso, proseguendo sulla suggestione di
Sini, possiamo diventare soggetti di una scrittura e non soggetti alla scrittura.
Il passaggio dunque dalla civilità dell’oralità alla civiltà della scrittura, che è
un costrutto mitologico e che non è avvenuto completamente così come ancora
la scrittura non è certo ancora soppiantata dalla comunicazione per immagini,
non va dunque letto nei termini di una perdita assoluta ma di cambiamento di
paradigma; nel crollo degli spazi e dei modi dell’oralità, ormai ridotti a folklore
oppure affidati all’evocatività di un evento artistico, la scrittura e, in particolare,
la scrittura di sé può essere il modo per salvare i fenomeni dall’oblio e per
ricostruire la propria identità in presa diretta (learning by writing).
Una breve storia della scrittura autobiografica non può prescindere da alcuni
passaggi fondamentali che, in modo forse un po’ didascalico, potremmo
21
C. Sini, Filosofia e scrittura, Laterza, 1994.
14
riassumere in quattro figure storico-culturali che corrispondono ad altrettanti
movimenti del pensare e dello scrivere:
Storia della ricerca di Dio: S. Agostino
Storia della propria morale: Montaigne
Storia della propria formazione: Rousseau
Storia della ricerca del senso molteplice: Proust
Gli autori citati sono puramente rappresentativi e non si ha certo la pretesa di
limitare la vastissima storia della scrittura di sé che ha interessato moltissimi
grandi autori e autrici della cultura occidentale.
Sant’Agostino muove dalla ricostruzione del proprio itinerario verso la
conversione e verso la scoperta della verità in Dio (Libri I-IX delle Confessiones)
giungendo alla fondamentale analisi del tempo e alla necessità di far ritorno dal
tempo esterno al tempo dell’esperienza interiore che è fatto di distensione e
concentrazione in unità, sistole e diastole (Libro XI). Con Sant’Agostino il sé è
guadagnato come spazio di analisi e di ricerca della verità.
Del tutto a livello antropologico è invece il tentativo di autoanalisi negli Essays
di Montaigne che muove da se stesso per comprendere l’uomo. Attraverso il
racconto di ciò che accade nella vita quotidiana, in un continuo scambio tra
aneddotica e andamento riflessivo, Montaigne mette in atto una vera e propria
pratica di scrittura che istituisce una circolarità tra sé e il mondo e che è capace
di imbrigliare l’immaginazione dello spirito che genera “tante chimere e mostri
fantastici”.
Con Rousseau la scrittura autobiografica diventa il racconto della propria
formazione, l’archetipo del Bildungsroman e dell’analisi del tentativo dello spirito
di ritornare a se stesso, tentativo che verrà poi portato a compimento da Hegel
nella Fenomenologia dello spirito.
È infine Proust, che ci propone la quarta e ultima figura della ricerca
autobiografica, mettendo in scena nel grande affresco della Recherche un
tentativo di dialogo costante tra i diversi personaggi e tra i diversi io che
compongono l’intreccio. Ne risulta una deflagrazione del soggetto e una
scomposizione dei piani temporali che vengono infine ricomposti nell’atto stesso
del raccontare, per cui basta un evento insignificante come un pezzetto di
biscotto inzuppato nel tè a ricondurre l’analisi e il racconto a un io in un tempo e
luogo diversi.
15
La centratura sul sé, il primo movimento della prospettiva autobiografica da
cui siamo partiti, incontra all’inizio del suo percorso il coagulo incomprensibile del
fuori di sé, l’alterità impenetrabile, il duro scoglio del reale, in una parola
l’oggettività.
Nell’ottica della contemporaneità il rapporto tra soggetto e oggetto va visto
come il movimento dal soggetto all’oggetto e viceversa non come una semplice
identificazione, perché dopo le esperienze del Novecento tra il soggetto e
l’oggetto è stato posto il linguaggio come medium. Il linguaggio è anche la forma
espressiva dell’arte che si pone come medium tra il soggetto e l’oggetto.
Riacquista così valore l’espressione logica che si contrappone alla logica del
giudizio classica che dice “S è P”, per affermare che “S non è ancora P”. Ciò
significa che il soggetto non è ancora pienamente l’oggetto, non l’ha già
inglobato completamente, non l’ha ancora scoperto come se fosse il sé ma
potrebbe ancora essere altro da sé e il linguaggio serve proprio per porre questa
distanza tra un soggetto che tenta di comprendere e un oggetto che è ancora
misterioso. Nel contempo “S non è ancora P” indica anche che il soggetto tende a
diventare il suo predicato ma questo non può essere dato per presupposto a
priori altrimenti il linguaggio non servirebbe più a nulla. In sostanza soggetto e
oggetto sono irrimediabilmente separati nel mondo contemporaneo ed è compito
del linguaggio (fra cui quello artistico) gettare dei ponti tra essi e creare possibili
connessioni. In una frase si potrebbe dire che il linguaggio è una corda tesa tra le
lacerazioni della vita nel mondo. Qualche volta la corda può spezzarsi e allora la
frattura diventa incolmabile e appare il non senso, l’incomprensione, la divisione,
il silenzio della ragione e dello spirito.
È stato Todorov, nel suo lavoro di analisi dell’incontro con l’altro che fecero i
conquistadores spagnoli all’inizio del Cinquecento, a descrivere con chiarezza le
possibili minacce della falsa alterità che si basa o sul desiderio di assimilazione
dell’altro o sul senso di superiorità: “Queste due elementari figure dell’alterità si
fondano entrambe sull’egocentrismo, sull’identificazione dei propri valori con i
valori in generale, del proprio io con l’universo: sulla convinzione che il mondo è
uno”
22
22.
In entrambi i casi si ha una comprensione granitica del sé che non
T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, 1982.
16
riconosce la differenza o, se la riconosce, lo fa solo per rafforzare la propria
superiorità.
L’opposto del sé granitico e tutto d’un pezzo è il sé frammentato e aperto
verso l’alterità. Colombo era un inquieto finché si trattava di partire, ma una
volta arrivato a posare il piede sulla terraferma la sua inquietudine cessò.
Si
affaccia
a
questo
punto
del
nostro
percorso
il
tema
centrale
dell’inquietudine come pietra angolare della prospettiva autobiografica. La figura
dell’inquieto non ha certo solamente a che fare con il lettino dell’analista né con il
setting ortodosso della terapia. L’inquietudine porta con sé l’urto esistenziale
verso una condizione diversa, il desiderio di un altrove lontano da qui, l’anelito
verso la ricomposizione di ciò che è disperso: un’indole pienamente sim-bolica,
tendente a ricongiungere i pezzi di una possibile unità, contraria alla tendenza
dia-bolica, divisoria, che distingue e separa.
Le figure dell’inquietudine attraversano ancora una volta la storia dell’arte,
della letteratura e della filosofia. La poesia, o la prosa poetica, è espressione
somma dell’inquietudine come si trova in alcuni autori cari alla prospettiva
autobiografica: Rilke, Pessoa, Montale.
Claudio Magris, in un piccolo e fortunato romanzo dedicato al peso storico ed
esistenziale della figura di Carlo Michelstadter, traccia un’immagine potente
dell’inquieto e del tentativo continuo di afferrare se stesso. In Un altro mare23
troviamo il personaggio di Rico, trasfigurazione letteraria eppure estremamente
aderente al possibile profilo biografico di Enrico Mreule, l’amico fraterno degli
anni di giovinezza di Carlo Michelstaedter a Gorizia. Ai primi del Novecento
Gorizia si trova sulla faglia di un mondo in disgregazione, dal crollo dell’impero
austro-ungarico alle tensioni dell’Est balcanico, dall’identità italiana e nazionalista
all’identità ebraica nomade; in questo contesto Carlo Michelstaedter elabora, nel
breve tempo che volle concedersi, l’intuizione della duplice via praticoesistenziale verso la verità: la via della persuasione e la via della rettorica. Se chi
è immerso nella logica della rettorica è totalmente compreso nella chiacchiera e
nelle costruzioni linguistiche e valoriali del mondo borghese, ben altra tempra è
quella del persuaso, di colui che cerca la verità senza compromessi, il saggio che
avverte tutto il peso della lacerazione rispetto al mondo e che assume su di sé il
proprio destino come più tardi avrebbe fatto il Sisifo di Camus. Nel romanzo di
23
C. Magris, Un altro mare, Garzanti, 1994.
17
Magris tale figura di colui che cerca costantemente di raggiungere la persuasione
non è quella di Carlo, il cui suicidio obbliga al silenzio della parola, ma quella di
Rico che lascia la soffitta di Piazza Vittoria, la famiglia, gli amici e si imbarca su
un transatlantico da Trieste per raggiungere la Patagonia vivendo allo stato
brado come un gaucho nella pianura della verità. Il ritorno di Rico in Europa,
sulle rive di un altro mare, del suo mare e del mare di Carlo, divenuto la
metafora più completa della persuasione, è segnato da una progressiva
spoliazione di sé, una sorta di svuotamento dell’io in una vita fatta di una barca
per pescare e di una capanna cadente a Punta Salvore. Ecco dunque l’immagine
dell’inquieto, di colui che si interroga senza sosta, che si muove senza per forza
spostarsi, che rielabora la propria esperienza in un’autoeducazione dura e severa
fino quasi alla non sopportazione dell’altro.
L’inquietudine è un atteggiamento ancora proprio degli adolescenti oggi?
Sembra di poter rilevare che l’autobiografia spaventa e pone diffidenza al
primo approccio da parte dei giovani. Si tratta di un atteggiamento comprensibile
da parte di chi si trova in viaggio, senza sapere bene ancora dove andare.
La tensione fra soggetto e oggetto, declinata al modo dell’inquietudine,
prelude al rapporto tra l’io e l’altro da sé ed è in questa tensione che si esercita
la memoria.
Le azioni della memoria, intesa qui come analisi introspettiva, comprendono
dunque
l’intersoggettività
come
sfondo
nella
rielaborazione
della
propria
esperienza di vita. I quattro movimenti del rimemorare, così come definiti da
Demetrio in Raccontarsi, si dispiegano nel loro aspetto cognitivo e metaforico ad
un tempo:
RIEVOCARE: ridare voce al passato, spezzare il silenzio e il mutismo delle
esperienze passate;
RICORDARE: riportare al cuore, comprendere il punto della questione,
individuare le esperienze apicali e rappresentarle in forma concreta;
RIMEMBRARE: rimettere insieme il disperso, dare forma, trovare un filo
conduttore, tracciare la mappa;
18
RAMMENTARE: riportare alla mente, comprendere perché quell’esperienza
è stata significativa per il proprio apprendimento o potrebbe esserlo in
modo ancora inedito, comprendere l’importanza per la propria educazione
ed esistenza di ciò che abbiamo tratto fuori dal silenzio e dall’assenza di
voce .
Riassumendo possiamo riproporre le parole chiave dell’autobiografia come
fatto educativo che abbiamo incontrato in queste prime due mosse della
prospettiva autobiografica, la centratura sul sé e l’uscita fuori di sé verso il
mondo:
Centratura sul sé
Tessitura
Educazione
Processo
Analisi (scioglimento)
Inquietudine
Metafora
Memoria
L’educazione come cura
Nella prospettiva autobiografica la cura si pone innanzitutto come incontro
con l’altro da sé o anche con l’altro sé che risulta dal processo di “sdoppiamento”
che avviene nell’autoanalisi e nella riflessione su di sé. Tale evento viene anche
definito bilocazione cognitiva per indicare la possibilità di scomposizione dei piani
spaziali e temporali e la capacità di guardarsi da fuori, con un “volo dall’alto”. In
tal modo è possibile oggettivare i processi cognitivi e il “prendersi cura” come
“entrare in relazione attiva” può riguardare anche se stessi, il “sé come un altro”.
Questa è l’esperienza, tanto più autentica quanto aurorale, che vive Luisa
T. con i suoi quaderni:
“Ora però ho deciso di accettarmi come sono compresa l’ignoranza quindi ho messo nella
facciata la mia foto con tutti i miei dati per sconfiggere ogni tentazione di bruciarti, perché
19
mi guarderò e capirò che tu quaderno sei la vera Luisa nel bene e nel male e rinnegarti
sarebbe un suicidio”24.
Il rapporto con l’altro da sé è dunque fondamentale nel discorso della cura,
sia che si tratti di cura di sé sia che si tratti di cura d’altri. Ma cosa significa nella
prospettiva autobiografica “prendersi cura”? Innanzitutto va sgomberato il campo
dalla credenza che prendersi cura possa ridursi esclusivamente a predisporre
strumenti di difesa e contenimento da una situazione di dolore, ad allestire un
setting terapeutico per quanto efficace e ben congegnato, a distillare un farmaco
risolutivo che funziona con il meccanismo di combattere i sintomi, a distogliere
l’investimento emotivo dall’oggetto transizionale x all’oggetto y.
L’idea del prendersi cura contiene in effetti un po’ di tutte le cose espresse
sopra ma essa principalmente ha a che fare con una disposizione d’essere di colui
che presta la cura (care-giver). Non si tratta qui di richiamare una concezione
clinica (ossia del chinarsi verso l’altro) dell’atteggiamento di cura, piuttosto una
visione fenomenologica e persino ontologica.
La disposizione d’essere della cura si declina come pratica e la pratica si
declina come implicazione di esistenze. Nella pratica della cura tra fenomeno ed
essenza non vi è più distinzione, è il gesto che si carica di valenza simbolica ed
epifanica e nella prospettiva autobiografica tale gesto si concretizza nella
scrittura25.
Applicazioni ed esperienze nel mondo della scuola
L’applicazione degli strumenti narrativi nel lavoro educativo e formativo
con gli adolescenti all’interno del contesto scolastico ha conosciuto negli ultimi
quindici anni una certa fortuna e una sperimentazione crescente. La costruzione
dello scenario teorico di fondo è dovuta principalmente ad autori come Jerome
Bruner, Duccio Demetrio, Franco Cambi, Luigina Mortari e, più di recente,
Federico Batini26.
24
da Luisa T. I quaderni di Luisa. Diario di una resistenza casalinga, Editrice Berti 2002. Pubblicazioni
dell’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano.
25 Su questi temi e sui riferimenti filosofici e pedagogici cui alludo, rinvio al mio articolo Viaggiar per mare
sulle rotte dell’autobiografia, in Animazione Sociale, n. 3, 2005 pp. 10-19. Le riflessioni ivi contenute sono state
qui largamente riprese e sviluppate.
26 Si rinvia per indicazioni più puntuali alla bibliografia generale in calce.
20
Un elemento
comune a
queste
diverse impostazioni
sull’uso degli
strumenti narrativi per il successo formativo può essere individuato nella
concezione delle competenze, in particolare dei soggetti in età evolutiva, come
strettamente correlate all’esperienza degli individui. Per conoscere e testimoniare
le competenze “le persone devono muoversi nello spazio e nel tempo, devono
agire, fare scelte e adottare dei comportamenti”27.
In questo contesto intendiamo per competenza un costrutto integrato fra il
modello cosiddetto universale elaborato soprattutto a partire dagli studi di R.
Boyatzis dei primi anni Ottanta sui manager competenti che lega la competenza
a una serie di fattori della personalità dell’individuo (motivazioni, tratti della
personalità, capacità cognitive) che ne influenzano il comportamento in un
determinato
contesto,
e
il
modello
cosiddetto
situazionale
che
lega
le
competenza alle pratiche acquisite nel corso dell’esperienza e alla riflessione sulle
situazioni concrete che prendono forma in una serie di programmi che, una volta
interiorizzati, servono ad orientare il comportamento. I due modelli, se presi
nella loro forma pura, presentano alcuni limiti. Il modello universale consente di
operare sulla trasferibilità di competenze in contesti differenti ma non trova
sempre riscontri adeguati nell’osservazione empirica e accentua in modo
eccessivo la dimensione psicologica. Il modello situazionale limita la complessità
dei contesti in cui è applicabile, in quanto l’adattamento dei programmi
organizzativi a nuove situazioni è lento e non sempre possibile. Dunque un
approccio integrato fra i due modelli, senza stressare l’accento sull’individuo
piuttosto che sul contesto, può fornire un utile orientamento nella definizione del
modello per competenze applicato all’ambiente scolastico.
Si
può
a
questo
punto
individuare
nell’obiettivo
di
aumentare
la
consapevolezza delle proprie competenze il campo di applicazione specifico
dell’approccio narrativo e autobiografico nell’insegnamento scolastico. Questa
congruenza tra obiettivi formativi e obiettivi didattici ha favorito negli ultimi anni
una feconda contaminazione di saperi e pratiche tra il lavoro sociale ed educativo
in
contesti
extra-scolastici,
le
pratiche
formative
applicate
all’esperienza
lavorativa e organizzativa degli adulti e le pratiche dell’insegnamento scolastico.
In particolare l’insegnamento di discipline che coinvolgono le rappresentazioni di
sé e del proprio contesto identitario come la filosofia e la storia nel triennio del
27
Batini F. e Giusti S., L’orientamento narrativo a scuola, Erickson, 2008, pag. 14
21
liceo, mette a tema la funzione specifica dell’approccio narrativo e autobiografico
come forma di educazione al pensiero (filosofia) e di educazione alla memoria
(storia).
Si tratta in sostanza di definire il sé in costruzione sotto l’aspetto narrativo.
Secondo Bruner28 il sé narrativo riguarda il processo di costruzione del sé come
produzione dell’attività discorsiva di tipo narrativo e metanarrativo modellata
sulla cultura. La mediazione tra il sé e l’oggetto specifico della conoscenza può
dunque essere rappresentata come un racconto, in cui personaggi, azioni, eventi
si dipanano lungo un arco di sviluppo temporale, secondo un intreccio e una
fabula.
In questo senso anche la conoscenza di oggetti disciplinari specifici
(poniamo ad esempio un’unità didattica della filosofia moderna tipica del IV anno
come la teoria della conoscenza e il rapporto tra mente e realtà nel confronto fra
le posizioni del razionalismo e dell’empirismo) può diventare sviluppo di
competenze nell’applicazione a situazioni di vita quotidiane o comunque note
all’individuo, nella loro descrizione e nella riflessione sulla descrizione operata.
Anche l’applicazione di una sollecitazione di scrittura solitamente avanzata
come la seguente: “Prova a descrivere la tua mente” (tempo: 30 minuti, scrittura
libera), può risultare efficace sia per il suo effetto di straniamento rispetto a punti
di vista tradizionali di eterodescrizione, sia per lo sforzo linguistico di selezione
del lessico e di adeguamento delle parole29.
Altri esempi di unità didattiche in cui l’approccio integrato per competenze
di tipo narrativo può essere applicato sono30:
-
la
nascita
della
filosofia
dalla
meraviglia
(Filosofia,
III
anno,
I
quadrimestre) attraverso sollecitazioni su cosa sia la meraviglia e lo stupore sia
in contesti scolastici che extra-scolastici. Racconta di “Quella volta che ho
provato stupore…” oppure “L’ultima volta che ho provato stupore è stato…”,
oppure “Mi sono stupito quando ho saputo che…”. In questi casi si chiede
all’allievo di raccontare in un numero limitato di righe (25-30) un’esperienza
28
J. Bruner, Autobiografia. Alla ricerca della mente. Armando, 1984.
L’esercitazione non è stata eseguita in classe durante l’anno scolastico 2008/2009, nonostante un forte
interesse suscitato negli studenti dalla discussione sui temi della formazione delle idee, critica all’innatismo,
posizione empirista, in quanto non precedentemente testata in contesti di lavoro con adolescenti.
30 Alcune di queste proposte sono state oggetto di sperimentazione e sono trattate anche nella seconda parte della
presente relazione.
29
22
personale e di svolgere una riflessione sul racconto, non limitandosi dunque alla
descrizione fattuale ma provando a scrivere anche perché quell’evento sia stato
scelto come importante, quale senso abbia per me, cosa abbia significato per
quello che sono diventato poi.
- La messa a tema del sé nella filosofia moderna (Montaigne e Pascal, autori
studiati nel programma del IV anno di filosofia). In questo caso si può provare ad
affrontare un tema vasto e complesso, specie per soggetti in età evolutiva,
attraverso la ricostruzione di alcune forme di rispecchiamento con brani di autori
celebri. Le sollecitazioni possono essere: Raccogli in un diario le citazioni celebri
o meno che ti colpiscono nel corso dello studio, della lettura o dell’ascolto;
oppure costruisci la tua agenda personale con citazioni e brani che ritieni
importanti per alcuni giorni speciali.
- Il tema dei profughi, delle persecuzioni delle minoranze, delle displaced
persons con riferimento ad esempio alle vicende storiche del confine orientale
d’Europa: Polonia, Sudeti, confine giuliano (Storia, argomento del V anno). In
questo caso può essere utile provare a proporre un racconto sulle proprie origini,
o ad esempio, il dispositivo sul racconto della storia del proprio nome in cui si
chiede all’allievo di provare a raccontare e ricostruire la storia del proprio nome
completo. Questa attività aiuta a interiorizzare la complessità di cui è composta
la nostra storia e confrontarla con quella degli altri.
Se, come sostiene Edgar Morin, non si può comunicare conoscenze senza
chiedersi cosa è la conoscenza, ciò significa interrogarsi sulla natura stessa di ciò
che l’insegnante intende trasmettere, comunicare e suscitare. La definizione di
conoscenza come possesso stabile, che per lungo tempo ha caratterizzato il
mondo dell’insegnamento dimostrando anche aspetti profondamente positivi
come l’educazione allo studio sistematico e la stabilizzazione di alcuni processi
cognitivi, ha ormai largamente lasciato il campo sia in letteratura che nella
pratica più avanzata a una concezione della conoscenza come processo. Ciò
significa che imparare è sempre meno un atto cumulativo di informazioni e
sempre più un’attitudine organizzativa di informazioni e conoscenze. Ciò non
significa, si badi, abdicare all’aspetto disciplinare, alla fatica del concetto per dirla
con Hegel, alla sistematicità dello studio ma piuttosto riguarda la capacità di
23
organizzare le proprie conoscenze in contesti differenti, sapere dove trovare le
informazioni che servono, saper porsi le domande giuste anziché conoscere solo
alcune risposte.
Questa idea, dinamica, flessibile e sfuggente a definizioni stabili della
conoscenza, assume tanto maggiore importanza a mio avviso in un contesto
sociale come quello attuale e quello che si profila secondo alcune tendenze già
ravvisabili oggi. Un contesto caratterizzato da legami deboli, da necessità di
saper organizzare, destrutturare e riorganizzare i propri saperi in base a
situazioni di vita sempre meno stabili e sempre più soggette al cambiamento e
alla trasformazione, da scelte di studio e professionali che devono essere in
grado di misurarsi con il successo e le sconfitte, con la stabilità temporanea e la
flessibilità, da dimensioni esistenziali in cui sarà sempre più necessario sapere
sostare nelle contraddizioni senza sviluppare risposte di tipo patologico, piuttosto
che affrontare o risolvere situazioni di tipo lineare.
La scuola, ritengo, può svolgere un ruolo fondamentale per modificare le
strutture organizzative di base del sapere e adattarle a un mondo che ancora non
conosciamo nella sua mappa completa ma che sappiamo non essere più quello di
ieri e neppure quello di oggi.
Molti studiosi di questo tema sottolineano correttamente la diversità della
narrazione a scuola da quella del mondo adulto. Se per il mondo adulto emerge
in qualche preziosa occasione l’istinto autobiografico che si rivolge ai momenti
topici e di svolta del proprio percorso esistenziale, delineando una mappa che
muove dall’inquietudine verso possibili momenti di attribuzione di senso, per
quanto riguarda adolescenti e giovani in formazione appare più forte l’importanza
della
micrologia
del
quotidiano,
del
racconto
di
fatti
apparentemente
insignificanti, della ricostruzione di frammenti incompiuti di vita che esercitano
però all’attenzione dello sguardo. W. Benjamin nella sua analisi dello stile
narrativo di Kafka sottolineava l’importanza dell’attenzione, definendola “la
preghiera naturale dell’anima”31.
Chiunque operi con adolescenti e giovani in formazione conosce come
l’attenzione sia soggetta ad una curva sempre più breve e come essa richieda
31
Il passo di Benjamin, che ha un’aura quasi sapienziale, suona così: “Se Kafka non ha pregato – ciò che non
sappiamo - gli era propria, in altissima misura, ciò che Malebranche definisce «la preghiera naturale dell’anima»:
l’attenzione. E in essa, come i santi nelle loro preghiere, egli ha compreso ogni creatura” (W. Benjamin, Angelus
Novus, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1962 e 1995, p. 299).
24
sforzo individuale e misurata scansione dei tempi. Ebbene l’approccio narrativo,
specie quello autobiografico, attiva meccanismi di attenzione anche minimali a
eventi, pensieri, letture, incontri che normalmente si definiscono superficiali,
insignificanti e pertanto destinati all’oblio della distrazione. La riluttanza con cui
alcuni giovani affrontano il compito della scrittura - l’osservazione d’esperienza
ha mostrato come ciò riguardi specialmente i maschi adolescenti - è segno non
tanto e non solo della difficoltà ad eseguire una consegna impegnativa e oscura
nei suoi presupposti e obiettivi, quanto della fatica a mantenere un’attenzione
durevole su un tema che ci riguarda e implica in modo diretto. Nelle scritture di
sé degli adolescenti, infatti, non mancano i temi e gli argomenti a causa di un
deficit esistentivo ed esistenziale che deve ancora essere colmato, ma è piuttosto
rara e preziosa l’attenzione che permette di superare il frammento (sms,
messaggio di Twitter o Facebook, post-it) verso una ricomposizione più ampia e
distesa, propriamente narrativa, dell’esperienza. Un approccio narrativo e
autobiografico nel contesto disciplinare scolastico dovrebbe porsi l’obiettivo di
lavorare su questi aspetti.
Vi è un altro importante aspetto per cui la prospettiva autobiografica può
essere
d’aiuto
nel
lavoro
dell’insegnante
in
aula.
Il
funzionamento
del
meccanismo narrativo, come hanno evidenziato moltissimi autori e filosofi che si
sono occupati di questo tema, favorisce l’esercizio del sapere e del linguaggio
analogico-metaforico. Questo tipo di ambito, sul quale tradizionalmente opera lo
studio della letteratura e l’esercizio della comunicazione scritta in senso generale
anche in preparazione alle prove dell’Esame di Stato, è quello più proprio della
scrittura creativa o della poesia. La scrittura di sé presenta tuttavia una
particolarità significativa. Essa infatti coinvolge il sé in una dimensione diacronica
che mette in relazione inevitabilmente il passato con il presente. Una piccola e
preziosa storia riportata ancora una volta da Benjamin, oltre che da Ernst Bloch
nel suo miracoloso Tracce, ce ne chiarirà il senso32.
32
Gli argomenti e lo sfondo teorico in cui è inserito il passaggio, che si trova in modo del tutto analogo in E.
Bloch, Caduta nell’ora in Tracce, ed. orig. 1930 (Ed. P. Cassirer, Berlin, 1930) e in W. Benjamin, Franz Kafka.
Per il decimo anniversario della sua morte, in Angelus Novus, ed.cit. pagg. 299-300 pubblicato parzialmente
sulla Jüdische Rundschau alla fine del 1934, testimoniano di una reciproca influenza dei due autori che si
conoscevano dal 1919.
25
“Si narra che in un villaggio chassidico, una sera, alla fine del sabato, gli ebrei
sedevano in una misera locanda. Erano tutti del posto, tranne uno, che nessuno
conosceva, un uomo particolarmente miserabile e stracciato che se ne stava
rannicchiato nello sfondo in un angolo buio. La conversazione si era aggirata sui più
vari argomenti. D’un tratto uno pose la questione del desiderio che ognuno avrebbe
formulato se avesse potuto soddisfarlo. L’uno voleva del denaro, l’altro un genero, il
terzo una nuova tavola da falegname, e così via in circolo. Dopo che tutti ebbero
parlato, restava ancora il mendicante nell’angolo buio. Di malavoglia ed esitando
egli rispose agli interroganti: «Vorrei essere un re potente e regnare in un vasto
paese, e che mi trovassi una notte a dormire nel mio palazzo e che dal confine
irrompesse il nemico e che prima dell’alba i cavalieri fossero arrivati davanti al mio
castello, e che non ci fosse resistenza, e che io, svegliato dallo spavento, senza
neppure il tempo di vestirmi, avessi dovuto prendere la fuga in camicia, e inseguito
per monti e per valli, boschi e colline, senza sonno e riposo, fossi giunto qui sano e
salvo sulla panca del vostro angolo. Ecco quello che vorrei». Gli altri si guardarono
interdetti. «E che cosa avresti da questo desiderio? » chiese uno. «Una camicia», fu
la risposta.
La narrazione agisce principalmente sulla deformazione temporale. Ciò che
colpisce in questa storia è il collegamento tra la forma ottativa del desiderio che
si fa memoria e il presente della condizione del racconto. Nella versione riportata
da Bloch alla fine gli ebrei regalano la camicia al mendicante che ne era in realtà
privo, per cui la narrazione ha portato a un piccolo ma prezioso guadagno per il
narratore. Colui che racconta è sempre situato in un contesto spazio-temporale
che può essere modificato dall’atto stesso della narrazione. Se a raccontare è un
giovane studente può accadere che il suo guadagno sia, molto meglio che una
camicia, una piccola trasformazione gestuale del suo presente, una forma
parziale e transitoria di consapevolezza che spinge avanti sulla via dell’identità.
Attraverso il racconto di sé, l’io si ricontestualizza e si ritesse33. Questo ha a che
fare con quello che M. Foucault, sulla scorta degli antichi Greci, chiamava
parresia, cioè il fatto di dire la verità e la problematizzazione della verità. Ancora
una volta siamo ritornati alle origini del discorso filosofico, e del suo senso
originario, socratico e platonico, in quanto arte della vita (tèchne toù bìou)34. Il
33
Oltre al libro di Demetrio già citato, Raccontarsi, qui il riferimento va al testo autobiografico e filosofico di A.
G. Gargani, Il testo del tempo, Laterza, 1992.
34 Cfr. M. Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli Editore, Roma, 1996 con introduzione di R.
Bodei. Il testo è la traduzione delle lezioni tenute all’Università di Berkeley nel 1983.
26
presupposto è infatti che vi sia sincerità e autenticità nella narrazione di sé,
indipendentemente dal fatto che tale narrazione parli d’altro o si rivolga a figure
ed eventi riconfigurati nel racconto.
Questo
sottolineare
tema
a
ci
introduce
proposito
all’ultimo
dell’applicazione
importante
della
punto
prospettiva
che
intendo
autobiografica
nell’insegnamento della storia e della filosofia nel liceo.
Le forme organizzate in contesti formativi delle scritture di sé non possono
prescindere da un patto educativo autobiografico. Le produzioni narrative devono
essere sollecitate e realizzate in momenti slegati dalla valutazione di profitto,
pena la produzione di testi artificiosi e non autentici. Lo studente non deve avere
l’impressione che il suo scritto possa essere utilizzato per una valutazione della
propria preparazione o della qualità della performance. Ciò non significa d’altra
parte che l’autobiografia debba essere semplicemente confinata nel tempo e
nella programmazione extra-curricolare o rappresentare una sorta di ricreazione
dello spirito che può implicare anche il momento ludico. Dire che lo scritto
autobiografico è invalutabile secondo i canoni diffusi nella didattica italiana, non
significa dire che esso, laddove opportunamente collegato a elementi del
programma particolarmente favorevoli nel caso della filosofia e della storia, non
possa utilmente integrare la valutazione di completezza e correttezza, la capacità
di utilizzare un corretto registro lessicale e le competenze di approfondimento e
rielaborazione personale. Ciò che è importante è che i due momenti siano
separati o, nel caso ad esempio di prove contestuali, che gli studenti siano ben
informati della differenza dei compiti richiesti. Questo costituisce il fondamento
del patto educativo autobiografico, che il docente deve rispettare per primo
astenendosi da commenti valutativi, interpretazioni, letture pubbliche alla classe
di scritti senza il consenso degli autori, impegnandosi alla segretezza se
esplicitamente richiesta. Il patto autobiografico, che nel caso in questione
costituisce una specificazione del patto formativo generale tra il docente e il
gruppo-classe, va esplicitato all’inizio di qualsiasi proposta di scrittura in aula o
differita e costituisce, laddove venga ovviamente rispettato con scrupolo e
responsabilità, un elemento notevole di rafforzamento della fiducia tra docente e
discenti.
Può naturalmente verificare che nel caso di alcune sollecitazioni di scrittura,
le quali tuttavia il docente selezionerà in modo da non favorire rivelazioni
problematiche, si producano testi indicativi di situazioni difficili e delicate o che
27
stimolano vissuti emotivi nei ragazzi, difficili da gestire all’interno dell’aula. In tali
casi la funzione del docente dovrebbe essere di carattere contenitivo e
rassicurante, rinviando ad altri luoghi e contesti eventualmente utili per
affrontare la questione emersa (colloqui individuali, scelta comune di riferire alla
direzione, ad altri colleghi o al consiglio di classe ecc.).
In una prospettiva educativa e formativa di carattere autobiografico la
scrittura non tende di per sé a favorire immediatamente momenti di rivelazione
intima con funzione catartica (ciò si può guadagnare al termine del processo ma
non mettere come ostacolo all’inizio). Anzi, come dice Maria Zambrano, “scrivere
aiuta a trattenere le parole, il colloquio aiuta a liberarsene”35. È in questo gioco di
trattenimento che si spende l’apporto della prospettiva autobiografica, nella
fiducia che esso sia d’aiuto nella difficile opera della costruzione del senso, unica
via d’uscita dal nichilismo “ospite inquietante” delle vite dei giovani e dal dominio
ineluttabile delle “passioni tristi”, espressioni-chiave sulle quali è stato tracciato il
ritratto di un’intera generazione36.
In termini riassuntivi la prospettiva autobiografica nell’insegnamento liceale
può declinarsi nei seguenti obiettivi distinti per ruolo.
Obiettivi per gli studenti:
1. Percezione del tempo continuativo e non frammentato;
2. Educazione alla ricerca;
3. Sviluppare competenze per attribuire significati all’esperienza;
4. Apprendere la relatività e coesistenza dei punti di vista: educazione al
pensiero democratico;
5. Sviluppare forme di pensiero critico e riflessivo;
6. Sviluppare un sapere disponibile come processo organizzato e non come
possesso.
Competenze per l’insegnante:
1. Saper apprendere dalla propria esperienza professionale;
35
Maria Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Cortina, 1996.
Ci si riferisce qui all’ampio dibattito portato sulla scena recente in Italia da U. Galimberti, L’ospite
inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, 2007, che presuppone le ricerche di M. Benasayag e G. Schmit,
L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2004.
36
28
2. Costruire un terreno comunicativo comune e un patto autorevole con gli
studenti;
3. Trattenersi dall’interpretazione;
4. Capacità di fronteggiamento delle situazioni inaspettate e negative.
Vorrei soffermarmi brevemente in particolare sulla connessione problematica
eppure necessaria tra la dimensione del trattenersi dall’interpretazione e la
dimensione valutativa che costituisce un elemento specifico dell’insegnamento.
Nel rapporto di consulenza autobiografica si intende per interpretazione il
processo condiviso tra narratore e co-narratore basato sulla reciprocità che porta
a una possibile attribuzione di senso alle scritture del narratore. Si effettua
tramite l’individuazione di termini-chiave ed espressioni rilevanti nelle scritture
del narratore e l’esplicitazione delle risonanze con le scritture del co-narratore.
Ha
come
obiettivo
l’individuazione
dei
passaggi
successivi
di
scrittura,
l’orientamento delle consegne in presenza e a distanza, il rispecchiamento
dell’autore
nelle
proprie
scritture.
Si
distingue
in
modo
radicale
dall’interpretazione univoca di tipo diagnostico e dall’atteggiamento giudicante
che non appartengono alla prospettiva della consulenza autobiografica.
Certamente tale prospettiva non può essere applicata tout court al rapporto
docente-alunni, che è un rapporto asimmetrico e fondato su un contesto di
valutazione. Tuttavia ritengo che isolare dal momento valutativo alcune fasi di
un’attività, di un compito, di una consegna debba essere una prerogativa di
questo approccio. D’altra parte si può affermare che la risonanza intellettuale ed
emotiva che la scrittura autobiografica mette in atto tra i suoi protagonisti,
contribuisce al completamento qualitativo del quadro valutativo dello studente.
29
La sperimentazione durante l’a.s. 2008/2009
Durante l’anno scolastico 2008/2009 ho concordato con la docente tutor di
trovare alcune forme di sperimentazione dell’approccio autobiografico nell’attività
di
insegnamento
delle
discipline
di
storia
e
filosofia.
Inizialmente
la
sperimentazione avrebbe dovuto riguardare la realizzazione del laboratorio di
arte dell’autobiografia connesso al progetto “Le Filandiere si raccontano” ma, non
essendo quest’ultimo stato avviato per le ragioni che esporrò più avanti, la mia
riflessione e osservazione sperimentale si è concentrata su una serie di attività
che definirei interstiziali. Esse si sono poste infatti negli interstizi del temposcuola, al margine delle lezioni e delle verifiche, in qualche caso hanno
contaminato direttamente lo svolgimento delle lezioni. Con ciò non si ha la
pretesa di aver compiuto un’attività di rilevanza scientifica ed esaustiva del
programma di ricerca, bensì epistemologica nel senso che l’esperienza ha
comunque potuto generare una serie di riflessioni sui modelli e sugli stili messi in
atto dall’insegnante e sul processo educativo in gioco.
La programmazione
L’insegnamento della filosofia nel triennio del liceo, in cui si fa l’incontro e
la conoscenza con questa nuova materia, è improntato a una metodologia
attenta a diversificare gli approcci e le proposte didattiche sia per favorire una
familiarizzazione progressiva con una disciplina spesso erroneamente sentita
come ostica e astratta, lontana dai problemi e dalle pratiche della quotidianità,
sia per calibrare, attraverso la maturazione graduale degli allievi, le metodologie
più efficaci per la prosecuzione dello studio e delle occasioni formative negli anni
successivi.
L’approccio che ho privilegiato si inscrive largamente in quello tradizionale
diacronico
per
progressione
storica,
in
modo
da
restituire
una
visione
complessiva dell’avventura del lògos dalla Grecia classica alla costruzione del
modello occidentale di ragione e alla sua messa in crisi, ciò che costituisce la
piattaforma di riferimento del sapere filosofico occidentale e mediterraneo. A
questo si affiancano costanti tentativi di attualizzazione del sapere filosofico
attraverso la problematizzazione e la traduzione delle domande antiche in
questioni contemporanee, l’approfondimento testuale, la scelta di percorsi
30
trasversali che privilegino l’introduzione alla logica classica di primo livello e alle
peculiarità del sapere scientifico per allenare il pensiero e il linguaggio
all’argomentazione razionale e al ragionamento consequenziale.
In particolare l’attività didattica si è avvalsa delle seguenti metodologie:
METODO
OBIETTIVO
Lezione frontale.
Illustrare il contesto storico e culturale delle
teorie, fornire i riferimenti di base delle
teorie, chiarire i nodi complessi della storia
del pensiero.
Lettura commentata del testo originale.
Conoscere le diverse forme della scrittura
filosofica (poema, aforisma, dialogo,
epistola, trattato) e familiarizzare con il
linguaggio specifico della filosofia.
Scrittura autoriflessiva.
Stimolare l’autoriflessione e
l’attualizzazione dei problemi filosofici
affrontati superando la barriera del senso
comune.
Guida
alla
ricerca
di
documentazione
Stimolare e fornire una struttura di base
secondaria sulle fonti filosofiche secondarie
alla capacità di ricerca autonoma, alla
(manuali, enciclopedie, dizionari, risorse
selezione e all’utilizzo dei documenti
sul web).
secondari per l’approfondimento.
Discussione guidata.
Stimolare l’autoriflessione e
l’attualizzazione dei problemi filosofici
affrontati e la partecipazione attiva degli
studenti.
Brainstorming.
Stimolare e lasciare spazio alla componente
creativa e libera da condizionamenti del
pensiero in riferimento a questioni aperte e
soluzioni da trovare.
Problem setting e problem solving.
Stimolare alla capacità di formulare
domande in base agli elementi a
disposizione, stimolare alla ricerca di
soluzioni efficaci e non banali.
Utilizzo e commento di documenti extra-
Educare alla consapevolezza del carattere
filosofici (cinema, poesia, narrativa, arti
pervasivo della filosofia come strumento di
figurative, articolo giornalistico, intervista
interpretazione di opere d’arte e di forme
ecc.)
comunicative.
31
Gli obiettivi formativi
In aderenza al Syllabus disciplinare di secondo livello approvato dal
Dipartimento di Storia e Filosofia e inserito nel POF del corrente anno scolastico,
attraverso l’insegnamento della filosofia e della storia il docente si propone sia
l’acquisizione da parte degli allievi delle conoscenze specifiche della disciplina sia
alcune finalità strettamente educative e formative comuni.
Filosofia:
-
Sviluppare l’attitudine alla riflessione critica e all’esercizio del giudizio
critico rispetto alle diverse forme del sapere, della comunicazione e
dell’informazione;
-
Promuovere la consapevolezza dell’esistenza di diversi modelli di pensiero
ai quali riferirsi per la risposta ad un problema;
-
Promuovere il piacere e l’abitudine alla lettura e all’approfondimento
attraverso i testi degli autori affrontati;
-
Attivare una riflessione specifica sui concetti di scienza e tecnica;
-
Promuovere e far comprendere i valori della tolleranza, dell’apertura al
dialogo, dell’autonomia di pensiero e di ricerca;
-
Promuovere la formazione di un senso di responsabilità e rispetto verso se
stessi, gli altri esseri umani e l’ambiente naturale.
Storia:
-
Acquisire la consapevolezza della pluralità delle fonti storiche e delle
interpretazioni storiografiche;
-
Acquisire l’abitudine a problematizzare e a collocare i diversi saperi
all’interno di un contesto storico;
-
Saper collegare la dimensione locale della storia come storia del luogo e
delle comunità (microstoria) ai grandi eventi e scenari della storia
(macrostoria);
-
Scoprire la dimensione storica del presente sapendo individuare le
prospettive di analisi nel processo di formazione degli eventi;
-
Favorire la formazione di soggetti consapevoli della propria autonomia,
aperti e disponibili a feconde e tolleranti relazioni umane e civili;
-
Promuovere la formazione di un senso di responsabilità verso se stessi, la
natura e gli altri.
32
-
Saper riconoscere le caratteristiche dei cambiamenti nelle epoche storiche
favorendo un’idea della storia non come teatro degli eroi e dei vinti ma
come multiverso in cui le parti hanno relazioni polivalenti fra loro e i piani
storici si intersecano fra loro.
Ho inteso aggiungere inoltre un obiettivo specifico legato all’approccio
formativo scelto dal docente, ossia quello di favorire la capacità autoriflessiva
dello
studente
attraverso
la
narrazione
e
l’attualizzazione
dell’esperienza
personale collegata ai temi di studio.
Nel rinviare alla programmazione di inizio anno l’articolazione dettagliata degli
obiettivi formativi e cognitivi per i diversi livelli di classe, sintetizzo nella
seguente tabella la diversificazione degli obiettivi riconducibili all’approccio
autobiografico.
Classe
Obiettivo
III
Favorire
la
capacità
autoriflessiva
dello
studente
attraverso
la
narrazione e l’attualizzazione dell’esperienza personale collegata ai temi
di studio.
IV
Sperimentare l’uso della scrittura di sé come autoformazione in diversi
contesti, sia liberi che legati a compiti specifici, in collegamento con
alcune delle tematiche e degli autori affrontati durante l’anno.
V
Potenziare gli strumenti di autoanalisi e riconoscimento delle macrocompetenze utili per l’orientamento delle scelte post-scolastiche di
studio e professionali.
La classe privilegiata per la realizzazione di attività di insegnamento secondo
la prospettiva autobiografica, sia per quantità di ore sia per la sua caratteristica
di classe intermedia fra la novità del triennio liceale e la fase conclusiva e
impegnativa dell’ultimo anno, è apparsa la classe IV. Agli studenti delle classi IV
era indirizzato il progetto Le Filandiere si raccontano che alla fine non è stato
realizzato nell’anno 2008/2009 per mancato raggiungimento del numero minimo
di iscritti. Con la partecipazione di alcuni studenti delle classi quarte è stata
inoltre organizzata la partecipazione al IV Simposio scientifico di Pedagogia e
didattica della scrittura inserito negli Eventi dell' Anno Europeo della Creatività e
Innovazione 2009 e svoltosi ad Anghiari (AR) il 15 e 16 maggio 2009.
33
Esperienze in aula
La scrittura sullo stupore come origine della filosofia
Secondo
Aristotele
la
filosofia
nasce
dalla
meraviglia
di
fronte
all’incomprensibilità della natura. Dall’incipit classico per l’incontro con una
disciplina nuova per gli studenti del III anno, sono partito per proporre una
scrittura breve sul tema dello stupore. La sollecitazione è stata inserita all’interno
di una prova scritta multidimensionale di filosofia (domande a risposta multipla,
domande a risposta breve, conoscenza del lessico) con la consegna esplicitata
che la risposta era libera e non sarebbe stata oggetto di valutazione.
La traccia era così formulata:
Secondo Aristotele la filosofia ha origine dalla meraviglia di fronte alla natura.
Descrivi brevemente un’esperienza in cui hai provato stupore (Mi sono
stupito/a quando…) e prova a riflettere sulle motivazioni e le caratteristiche di
questo stato d’animo.
Gli allievi non hanno compreso immediatamente il contesto della consegna,
ciò ha richiesto una spiegazione articolata per la distinzione dei contesti. Al
termine della spiegazione la gran parte degli allievi ha prodotto una scrittura
entro il tempo concesso loro per la realizzazione della prova.
Non ho proceduto in questo caso all’analisi processuale e sistematica degli
scritti, visto il tempo breve in cui sono stati realizzati, ma ho prestato piuttosto
attenzione alle emergenze tematiche.
I motivi biografici dominanti (quelli che Demetrio chiama i biotemi) che
sono emersi come occasione dello stupore sono:
- cambiamenti nelle persone;
- nascita di una persona o di un animale;
- eventi naturali catastrofici e contemplativi (mare, foresta, visione dall’alto);
- meraviglia delle piccole cose della vita quotidiana (stormo di uccelli);
- conoscenza di sentimenti nuovi;
- eventi traumatici o inspiegabili dell’esperienza di vita;
- domanda sull’origine dell’universo (infinito);
- la mancanza di ordine.
34
Cosa accade nei momenti di stupore, quando si resta ammaliati e
impossibilitati a muoversi perché presi da tanta meraviglia? Il termine che
designa l'esperienza dello stupore, sia nella radice latina di stupere che in quella
anglo-sassone dell'inglese astonishment e del tedesco Staunen, rinvia all'atto di
fermarsi, di arrestarsi per un impedimento fisico provocato da un evento
straordinario, riferito sia a cose che a persone. Il rimando del termine anglosassone è ancora più scoperto nell'inglese stone e nel tedesco Stein, per cui lo
stupore coincide con l'impietramento, con il rimanere di sasso e trova un
corrispondente più affine, nelle lingue neolatine, nel termine fascinare, incantare
e ammaliare, che rinvia direttamente all'atto di legare con un fascio, con una
fascina appunto37. L'esempio mitologico per eccellenza di questa esperienza dello
stupore è l'episodio delle Sirene e di Ulisse nel XII canto dell'Odissea, laddove
Ulisse rende visibile, con uno straordinario espediente artistico-figurativo,
l'effetto affascinante, avvolgente e stupefacente delle Sirene: solo i marinai che
hanno le orecchie turate restano insensibili al canto delle Sirene, mentre Ulisse
ne manifesta gli effetti stupefacenti e paralizzanti facendosi legare all'albero della
nave e dando così origine a un archetipo carico di senso38.
Qui sta dunque un nodo fondamentale della circolarità tra teoria e pratica
nella prospettiva autobiografica, nella scoperta dei gesti/momenti direzionali che
hanno impresso un cambiamento alla nostra vita e nella capacità di farsi autori di
gesti di quel tipo diventando, nei momenti di presenza piena dell’attimo, tutt’uno
con se stessi al modo del motto di Nietzsche “diventa ciò che sei”.
Il gesto direzionale ha a che fare con lo stupore come sospensione del
consueto trascorrere del tempo e assume senso nella relazione con l’altro da sé
proprio in quanto capace di indicare una direzione possibile. L’autobiografo che si
volge all’altro sosta dunque nella relazione, alla ricerca di gesti direzionali e di
con-testi in grado di facilitare la disposizione allo stupore autentico dell’altro,
cercando di scoprire di volta in volta la rotta migliore e imparando dalla
riflessione sull’esperienza. Non si tratta qui dello stupore come condizione
37
L’analisi dell’origine linguistica non ha carattere di scientificità ma vuole essere un rinvio simbolicofilosofico.
38 Il luogo mitologico è contenuto in Omero, Odissea, XII, vv. 165-200, ed. it. a cura di R. Calzecchi, Einaudi,
1974. Il momento dell'incantamento, l'attimo di sospensione del tempo provocato dal canto armonioso delle
Sirene, è preceduto da una fase di calma e di stasi cui partecipa la stessa vita naturale: "Ed ecco ad un tratto il
vento cessò; e bonaccia/ fu, senza fiati: addormentò l'onde un dio", XII, vv. 168-169. Di questi concetti ha reso
un’ottima interpretazione teatrale Marco Baliani nel suo spettacolo Tracce.
35
esistenziale costante e prolungata, proprio perché essa ha semanticamente a che
fare con l’immobilità e con la fatica a verbalizzare un’esperienza dai confini
evanescenti, ma della valorizzazione dell’attimo come momento prezioso e tratto
distintivo della relazione autentica. I gesti direzionali si declinano anche come
pratiche di ri-soggettivazione, movimento di andata e ritorno tra individuo e
comunità, tessitura di relazioni e di nessi tra il sé e l’altro da sé. Il tentativo
messo in atto dagli studenti del terzo anno è stato inteso come un passo in
questa direzione interpretativa.
Il quaderno di Montaigne
Per stimolare il dialogo con i pensatori e con i grandi maestri del passato,
cogliendo l’occasione dallo studio dell’opera di Michel de Montaigne inserito nel
programma del IV anno, ho proposto agli studenti un semplice compito da
effettuarsi durante le vacanze natalizie. Lo spunto consisteva nel procurarsi un
quaderno che avesse una caratteristica speciale per essere un dono di qualcuno,
per la confezione o per la rilegatura. Niente di particolarmente prezioso sotto il
profilo del valore commerciale, bensì un carattere di specificità a marcare una
discontinuità con le consuete scritture d’occasione realizzate durante il lavoro
curricolare. Doveva trattarsi di un lavoro libero, suscitato da una scelta
personale.
La consegna di scrittura consisteva nello scegliere frasi, aforismi, pensieri
incontrati durante lo studio, la lettura personale o ascoltati durante gli incontri e
le occasioni culturali a scuola e fuori dal contesto scolastico e trascriverli sul
proprio quaderno. L’ordine non aveva importanza in questa prima fase di
costruzione di una propria piccola biblioteca del sapere. Poteva invece essere
importante riservare un commento o una nota sulle motivazioni della scelta, una
sottolineatura del termine che ha destato l’attenzione, la descrizione del contesto
in cui si è sentita o ascoltata la frase. Il discrimine della consegna riguardava il
fatto che le frasi e gli aforismi scelti provenissero da autori del passato o del
presente ma considerati rilevanti, per non confondere la propria silloge personale
con la messe dei consigli, sollecitazioni, insegnamenti che i ragazzi ricevono dagli
adulti nella loro vita quotidiana. Ciò che si voleva realizzare era uno spazio di
dialogo con i maestri del passato.
36
Gli esiti, verificati con successive domande sull’andamento dell’attività,
sono stati di entusiasmo iniziale cui è seguita una fase di dispersione e una
tenacia nel compito da parte di qualcuno con prevalenza di genere femminile.
Quella volta che ho imparato
Si è trattato di una scrittura promossa nel contesto d’aula a partire dalla
sollecitazione di raccontare un episodio, un’esperienza più o meno recente che si
ritiene aver portato un cambiamento nel modo di pensare o di agire. L’obiettivo
dichiarato è quello di contribuire ad apprendere dall’esperienza e dal pensiero
dell’esperienza, attraverso l’esercizio della scrittura. All’allievo è stato concesso
un tempo e un agio maggiore per la produzione della scrittura, nella solitudine
del proprio studio o della propria camera, in un luogo ameno all’aperto o laddove
la solitudine della mente potesse suggerire. Nel giorno concordato per la
condivisione delle scritture ho chiesto a ciascun allievo di raccontare oralmente la
sua esperienza in modo volontario, in modo da valutare le occasioni/esperienze
percepite come fonte di cambiamento. Chi lo desiderava poteva leggere il proprio
testo davanti alla classe, scelta effettuata da circa la metà della classe con
prevalenza maschile. Infine chi lo desiderava poteva consegnare il proprio scritto
al docente che ne avrebbe fatto una lettura avalutativa e di ricerca.
Gli scritti sono stati sottoposti a un duplice schema di analisi: i temi emergenti
e gli stili di scrittura.
I principali temi emersi come fonte di apprendimento sono stati:
- l’esperienza del lavoro estivo;
- la conoscenza di argomenti nuovi e ignoti anche di carattere scientifico (ad
es. universo);
- esperienze di lutto e di perdite affettive;
- esperienze di relazioni affettive o amicali;
- notizie tratte dall’attualità;
- letture di classici;
- incontri significativi.
Gli stili utilizzati sono stati invece prevalentemente di tipo deduttivo, con
attenzione
alla
gradualità
dei
passaggi,
enumerativo-fenomenologico,
37
introspettivo (con prevalenza del genere femminile), riflessivo-meditativo e, in
un caso, parresiastico-confessorio.
Rilevo inoltre che il contesto scolastico non è stato fra i più segnalati in
qualità di occasione
di apprendimento nell’esercitazione di scrittura. Ciò
meriterebbe una riflessione più approfondita circa il setting della scrittura e i
rimandi semantici attribuiti all’apprendimento come tipico di un contesto
esperienziale, separato dallo studio formale.
La Mercedes coupè e l’etica di Aristotele
Un altro tipo di esemplificazione di applicazione di questo approccio
centrato sull’esplorazione di sé può essere dato da una lezione sull’etica di
Aristotele progettata e realizzata dal sottoscritto nel secondo quadrimestre del
terzo anno di Liceo Scientifico.
L’argomento si prestava a forme di attualizzazione interessanti, ma lo
spunto per l’impostazione della lezione mi è stato dato da un’immagine
pubblicitaria in cui mi sono imbattuto casualmente. Sulla doppia pagina di un
magazine si illustravano le caratteristiche estetiche e tecniche di un’automobile
sportiva, un’immagine accattivante e sinuosa dell’auto troneggiava su un fondo
neutro di città contemporanea e minimale; il pay-off diceva: Filosofi, scrittori e
poeti hanno provato a descrivere l’oggetto del desiderio. Bastava un ingegnere
per realizzarlo.
Ho mostrato l’immagine pubblicitaria agli studenti con un duplice intento:
1) Attrarre il loro interesse su un argomento importante come l’etica aristotelica
che tuttavia rischia di rimanere astratta successione di termini e slogan da
imparare privi di pregnanza;
2) Dimostrare come il sapere filosofico non sia una specie di parco archeologico
dove si disseppelliscono conoscenze antiquate, ma che i filosofi ci insegnano a
pensare e le loro intuizioni possono essere utilizzate anche nella comunicazione
contemporanea per obiettivi di efficacia e persuasione.
Il primo obiettivo inteso a cogliere l’attenzione è stato immediatamente
raggiunto,
ma
l’apprendimento.
certo
Dopo
nulla
aver
era
stato
ripreso
ancora
con
una
fatto
per
quanto
discussione
riguarda
guidata
e
la
formulazione di domande aperte da parte mia alla classe i capisaldi della dottrina
38
aristotelica sulla cosmologia finalistica e sul desiderio di perfezione come causa
del movimento dei cieli, ci siamo chiesti cosa intenda muovere l’oggetto del
desiderio rappresentato dall’automobile di lusso. Di qui la riflessione ha portato
verso l’analisi dei meccanismi dell’acquisto della merce, l’induzione del bisogno
ma soprattutto, per non uscire dal tema che mi ero prefissato, abbiamo discusso
della ricerca della felicità come molla dell’azione dell’uomo e dei comportamenti
umani. Si compra un’auto per essere più felici, anche se poi sappiamo che la
felicità di rivelerà effimera. Gli studenti sono a questo punto diventati i
protagonisti della lezione riflettendo su cosa sia il senso specifico della felicità e
ponendo-si una serie di domande-problemi: la felicità è avere più oggetti che ci
rendono soddisfatti? O piuttosto il superamento di un desiderio irrefrenabile? Può
dirsi felicità uno stato che non è duraturo?
Io facevo degli intermezzi e contrappunti alle loro domande e riflessioni,
svolte in un clima pacato, sottolineando i concetti aristotelici che venivano messi
in campo: la felicità come eudaimonia diversa dal concetto giudaico-cristiano
della felicità come pace dell’anima e armonia con Dio e diversa pure dal concetto
di diritto alla ricerca della felicità come realizzazione individuale propria della
società moderna statunitense, il significato dell’etica come osservazione dei
comportamenti degli uomini e tensione fra modelli generali di riferimento per
l’azione e le situazioni concrete dell’esperienza, la virtù come esercizio della
saggezza (phrònesis) e ricerca del giusto mezzo, la contemplazione della verità
come vertice delle virtù dianoetiche e raggiungimento della felicità permanente,
spegnimento del desiderio.
Il livello di attenzione e partecipazione riscontrato è stato notevole.
Concetti complessi e astratti come la distinzione e il catalogo delle virtù etiche e
dianoetiche sono diventati una questione che ha implicato la loro vita, che li ha
riguardati. Mi è parso in questa occasione che il signum dell’in-signare avesse
lasciato una traccia visibile.
Il paradigma epistemologico che mi ha guidato è stato senza dubbio
euristico (io non sapevo dove esattamente avrebbe portato la discussione anche
se tentavo di imprimere una direzione senza forzare la mano) e sistemico
nell’idea che le strutture del sapere possano collegarsi fra loro in modo
inaspettato, e che sia proprio la creazione di questi legami a generare
apprendimento.
39
Applicazioni e sperimentazioni fuori dall’aula
Le Filandiere si raccontano
Il progetto di carattere storico ed esistenziale “Le Filandiere si raccontano.
Un percorso tra micro e macrostoria dall’economia della seta alla fabbrica
dell’immateriale”, approvato dal Collegio Docenti e inserito nel POF dell’a.s.
2008/2009, si rivolgeva primariamente agli alunni delle classi IV, con adesione
volontaria in orario extra-scolastico.
Il progetto intendeva produrre un dossier documentale con analisi e
testimonianze
delle
condizioni
di
vita
e
del
contesto
socio-economico
dell’economia della seta nel territorio pordenonese e, in particolare, nel sanvitese
con alcuni elementi di confronto rispetto agli attuali stili di vita in particolare del
lavoro femminile e all’odierno contesto socio-economico. Elementi di verifica e
valutazione sono l’adesione degli studenti, la partecipazione alle diverse fasi del
progetto, il grado di approfondimento raggiunto. Una seconda fase del progetto
da rinviare al prossimo anno scolastico prevede la realizzazione di colloqui
narrativi e interviste di carattere autobiografico e la produzione di un video o di
un testo che raccolga le testimonianze.
Il progetto era dunque originariamente inteso come prima tappa di un
percorso più ampio da realizzarsi nell’arco di due anni scolastici. All’interno
dell’ambito disciplinare storico-filosofico si propone di sviluppare negli alunni la
capacità di collegamento tra storia locale e storia globale attraverso eventi e
vicende che li riguardano direttamente, di facilitare la conoscenza delle risorse
territoriali, di valorizzare la memoria storica recente come scambio intergenerazionale.
Il periodo che le attività del progetto intendono indagare è quello
dell’economia della seta nel periodo del secondo dopoguerra, il passaggio dalla
società agricola alla società industriale attraverso le trasformazioni degli stili e
delle condizioni di vita delle persone e i cambiamenti del paesaggio naturale e
architettonico.
Nel dettaglio il progetto prevedeva una prima fase laboratoriale di
formazione a cura del docente interno in orario extra-curricolare sulla scrittura di
sé, sulla percezione della memoria, sul rapporto tra la propria storia di vita e
quella di chi ci ha preceduto, una seconda fase di ricerca e incontro con testimoni
40
significativi (esperti di storia locale, esperti di trasformazioni socio-economiche,
persone che hanno lavorato nelle filande), una terza fase di ricerca documentale
e di fonti orali ed elaborazione di un primo prodotto finale sotto forma di dossier.
Il progetto è stato promosso in due tempi diversi prima con un
coinvolgimento diretto delle classi del docente e di altre classi grazie alla
collaborazione di alcuni colleghi, poi tramite una presentazione in powerpoint e
slideshow che sono state inserite nel display installato nell’atrio della scuola.
Nonostante il rinvio dei termini di iscrizione le adesioni al progetto non
sono state sufficienti per consentire l’avvio del laboratorio e delle fasi successive.
Le motivazioni del mancato avvio possono essere così sintetizzate:
-
Novità della proposta e dell’insegnante proponente che non ha favorito un
contesto di reciprocità sviluppato in particolare con gli studenti all’inizio dell’anno
scolastico;
-
Collocazione
oraria
in
fascia
pomeridiana
che
non
ha
favorito
la
partecipazione di studenti fuori sede e ha interagito con altri impegni degli
studenti ancorché fossero interessati alla proposta;
-
Necessità di creare un background di conoscenze e di saperi condiviso
all’interno del contesto scolastico;
-
Difficoltà nel superare la prima e naturale diffidenza degli studenti verso
proposte di scrittura di sé che li vedano coinvolti in prima persona;
-
Confusività della proposta di scrittura di sé con altre proposte similari ma
differenti negli obiettivi e nei metodi come i laboratori di scrittura creativa;
-
Difficoltà nella trasmissione dei contenuti specifici che, secondo un
approccio euristico-sistemico, si sarebbero definiti in corso d’opera e avrebbero
potuto tracciare una demarcazione più chiara tra le scritture richieste e realizzate
in aula secondo gli obiettivi didattici più tradizionali e le scritture di ricerca
esistenziale e storica tradizionalmente riservate al contesto extra aula.
Queste motivazioni sono state analizzate e condivise con la tutor dell’anno di
prova, con alcuni colleghi del Dipartimento di Storia e Filosofia, con alcuni altri
colleghi e con la dirigente scolastica già nel corso del corrente anno scolastico.
In ordine alla possibilità di un rilancio del progetto nel prossimo anno
scolastico è stata formulata la proposta di partecipazione di alcuni allievi
interessati all’iniziativa e di alcuni colleghi al IV Simposio di Pedagogia e Didattica
della scrittura che si è tenuto ad Anghiari il15 e 16 maggio 2009. All’evento
41
hanno preso parte, oltre al sottoscritto in qualità di docente accompagnatore
previo passaggio nei Consigli di classe degli studenti interessati, due studentesse
e uno studente del IV anno e la dirigente scolastica. Gli stimoli, le indicazioni
bibliografiche, le riflessioni a più voci provenute dal simposio hanno generato
ricadute positive all’interno del contesto scolastico e possibili collegamenti con
esperienze di ricerca analoghe che si stanno realizzando in altri luoghi (Sistema
scolastico della Val Tiberina, Liceo Classico Giulio Cesare di Roma). L’impatto
sugli studenti partecipanti è parso generatore di stimoli e coinvolgimento
notevoli.
Scrittura di sé e orientamento post-scolastico: un contributo per riconoscere le
competenze-chiave
La proposta di iniziativa di scrittura consiste nella realizzazione di un focus
group in orario pomeridiano (extra aula) o antimeridiano (in aula) per la classe V
in cui agli studenti interessati viene chiesto di produrre uno scritto in tre fasi
diverse. Gli stimoli delle scritture, opportunamente intervallati da letture
volontarie degli scritti e riflessioni conseguenti, riguardano alcuni incipit di
scrittura libera:
Io ero…
Io sono…
Io sarò…
Ai partecipanti è lasciata la libertà di scegliere il registro linguistico, lo
stile, i campi semantici in cui declinare le scritture per la redazione delle quali
sono concessi 15 minuti ciascuna. La durata totale dell’attività per un piccolo
gruppo di 4/5 studenti e studentesse è prevista in circa 2 ore.
L’intento è quello di aiutare a riflettere attraverso la scrittura sui passaggi
esistenziali, sulle svolte importanti della propria vita, su ciò che si abbandona e
sulle direzioni che si vorrebbero prendere. Questi passaggi sono sottoposti a una
selezione grafematica operata dalla scrittura39 e possono divenire riferimento
simbolico verso possibili ambiti di impegno di studio e professionale, senza
alcuna pretesa di effettuare bilanci di competenze o bilan de vie che seguono
tradizioni e metodi ormai consolidati e più strutturati.
39
Cfr. D. Demetrio, Il gioco della vita. Kit autobiografico. Trenta proposte per il piacere di raccontarsi,
Guerini e associati, 1997, p. 39.
42
L’attività è stata proposta alla classe V ed ha ottenuto l’adesione informale di
alcuni allievi e allieve ma non è stata purtroppo realizzata in tempo utile per
consentire una riflessione valida ex post per il presente elaborato. Mi ripropongo
pertanto una sua applicazione nel prossimo anno scolastico.
Conclusione: verso un’idea possibile di educazione
Le riflessioni sulle pratiche didattiche ed educative descritte sopra si situano
non in un laboratorio asettico della conoscenza ma all’interno del contesto
scolastico e, pertanto, mantengono il loro carattere di frammentarietà e
incompiutezza.
La parola con-testo - nel suo significato di ciò che sta insieme al testo, ossia
all’intreccio orizzontale e verticale dei fili esistenziali -
ci richiama al
disvelamento della parola in-segnare, indicare mediante segni, e dell’in-segnante
come un amministratore di segni, un mediatore simbolico che dovrebbe unire più
che separare i concetti, le persone, le relazioni. Tutt’altro da istruire (da instruere)
che
significa
instillare,
inserire
qualcosa
dentro
qualcuno
indipendentemente che si tratti di una nozione o di uno stato emotivo. Questa
condizione apre verso la complessità dell’insegnare come attività mediatrice e
sim-bolica, che può realizzarsi in virtù di un’attitudine e di una pratica oggi
apparentemente smarrita40: l’educazione.
Dell’educazione si potrebbe dire come Sant’Agostino del concetto di tempo:
se nessuno me lo chiede so di cosa si tratta, ma se appena qualcuno me lo
chiede non so più proferir parola. Mai idea è stata tanto utilizzata in modo
differente, agita e praticata per scopi anche opposti fra loro e connessa ai
comportamenti specifici degli esseri umani. Tanto che si potrebbe anche definire
l’uomo, senza pretesa di esaustività, come un essere educante.
Per recuperare un’idea possibile di educazione sarebbe necessario oggi
ripercorrere la storia di questi tentativi, dei momenti critici e dei successi parziali,
sempre inevitabilmente votati allo scacco. Almeno apparentemente non hanno
funzionato i modelli educativi di Platone, che per ben tre volte si recò a Siracusa
dal tiranno Dionigi e tre volte se ne tornò deluso e sconfitto, né i modelli
educativi religiosi e dogmatici che non hanno potuto tener fuori dal campo del
conoscibile la crisi dei fondamenti delle verità assolute, né le ambizioni di
40
Cfr. D. Demetrio, L’educazione non è finita. Idee per difenderla, Raffaello Cortina, 2009.
43
costruire un uomo nuovo foss’egli il protagonista di un’era di uguaglianza e
solidarietà o di un popolo dominatore sugli altri. Se dunque l’educazione è
destinata a non ottenere successi, perché recuperarla oggi come fondamento
della relazione tra l’insegnante e la classe-gruppo e chiave del successo
formativo?
Perché l’educazione è ciò che costituisce la nostra esistenza, ciò per cui ne va
della nostra esistenza, è ciò che non possiamo non essere in quanto insegnanti
ma anche in quanto uomini esistenti, rappresenta la condizione del nostro essere
uomini come l’aria è ciò che sostiene il volo della colomba.
In ambito scolastico si declina in un rapporto asimmetrico tra insegnante e
allievo nel gruppo, è la stessa tensione che c’è in quel rapporto. Questo non
significa
attribuire
all’educazione
un
compito
assoluto
e
prioritario,
ma
considerarla nel suo aspetto di ineludibilità e di implicita duplicità di significato.
Quando educhiamo noi siamo nel contempo educati in un rapporto biunivoco che
ci co-implica nella relazione. Ciascuno di noi è quel che di lui è stato fatto e solo
un’operazione di autoriflessione ci può aiutare a diventare quel che di noi è stato
fatto. Non può darsi eteroeducazione se non vi è anche autoeducazione. Ciò vale
nei diversi contesti in cui si verifica l’evento educativo (formale, informale, non
formale) e tanto più è necessario in quel terreno dove l’educazione è stata a
lungo confinata, l’ambito formale dell’educazione scolastica, e da cui spesso oggi
si tende ad espungerla in ossequio alla crisi dei modelli di riferimento, alla
debolezza dell’autorità, alla pluralità dei contesti educativi di cui la scuola non è
altro che un tassello che ha ormai perduto la sua centralità. Un’educazione che ci
interroga sulle nostre responsabilità di adulti, che non si accontenta di facili
spiegazioni sulle mutazioni antropologiche delle generazioni, che ci spinge a porci
sempre ulteriori domande e a sostare nelle contraddizioni, che tende a
trasformarsi in relazione di aiuto e ci spinge ad accettare l’andirivieni dei successi
e dei fallimenti. Se non si riconoscerà lo specifico dell’educazione nelle pratiche di
comportamento umano, in primis nella scuola, il delicato rapporto tra insegnante
e gruppo di allievi semplicemente non potrà realizzarsi in termini consapevoli.
Saremo educatori comunque, visto che non possiamo sottrarci a questo
destino, ma lo saremo in modo inconsapevole, irriflesso e diventeremo noi stessi
soggetti all’educazione imposta dalle consuetudini e dagli schemi ordinativi
invece che soggetti di un’educazione attiva e costruttiva.
44
L’insegnamento è un’attività che si realizza mediante l’indicazione di segni, la
mediazione metaforica, la creazione di ponti tra oggetti conoscitivi complessi
(oggetti-problema) e potenzialità cognitive degli studenti. Ne emerge dunque
un’idea di insegnamento che sempre più si allontana dall’idea di insegnante
professionista, inteso come colui che ha acquisito un sapere teorico disciplinare e
metodologico e lo mette in atto su incarico di terzi, e si avvicina all’idea di
insegnante esperto che sottopone le sue teorie a una contaminazione continua
con la realtà processuale, con l’orizzonte di attesa degli studenti e del contesto
istituzionale, si misura con il problema attualissimo delle capacità e delle
competenze, riflette sulla propria esperienza per costruire teorie locali ed
elaborare strategie del sapere41.
Con strategie del sapere si possono intendere almeno due movimenti,
entrambi compresi nel rapporto che si costruisce tra l’individuo e il sapere: le
strategie che il sapere, scientifico in particolare, mette in opera per trovare
legittimazione agli occhi dell’individuo e le strategie che l’individuo elabora per
appropriarsi ed usare il sapere. Il riferimento corre qui al dibattito sulla psicologia
culturale che si è sviluppato a partire da Piaget e oltre Piaget, grazie agli studi e
alle esperienze di insegnamento-apprendimento della scuola di Ginevra e dei
Laboratori di Epistemologia Operativa (LEO) di Alberto Munari e Donata Fabbri.
L'idea di psicologia culturale, nata nel 1982, si definiva come un progetto che
si proponeva di studiare la costruzione,
l'evoluzione e le trasformazioni del
rapporto particolare che l'individuo stabilisce con il sapere: rapporto che non è
soltanto di natura cognitiva ma che ci coinvolge interamente come individui, e
sapere che non è soltanto scientifico o disciplinare, ma che porta anche verso
credenze, comportamenti, convenzioni, aspettative individuali e collettive.
L'ambito d'applicazione e di studio della psicologia culturale si definisce quindi
come
quello
in
dell'apprendimento
cui
in
il
sapere
diversi
si
sviluppa
contesti
e,
più
e
si
costruisce:
l'ambito
particolarmente,
l’ambito
dell’apprendimento scolastico e della formazione.
L’idea fondamentale che traggo da questo campo di studi è che l’insegnante
debba e non possa non possedere un bagaglio di teorie, strumenti, cassette per
gli attrezzi fatte di metodi, proposte, stili comunicativi, conoscenze ma che
41
Si veda a questo proposito il fondamentale testo, datato ai primi anni Ottanta ai tempi della fondazione del
Centro Internazionale di Psicologia Culturale di Ginevra, ma recentemente riscoperto e ripubblicato con
prefazione di G. Varchetta, di Donata Fabbri e Alberto Munari, Strategie del sapere. Verso una psicologia
culturale, Guerini, 2005 (ed. orig. 1984).
45
questo armamentario di saperi debba altrettanto essere messo alla prova nella
situazione concreta e risultare da questa trasformato. Si tratta in definitiva di
un’operazione complessa e mai conclusa di adattamento co-evolutivo delle teorie
e delle pratiche che si può sintetizzare nell’espressione delle teorie etiche locali.
Queste ultime non sono delle pre-etiche ma rappresentano una connessione
fra diverse teorie in senso sistemico verso un superamento “di un ideale tipico
della razionalità classica di un sistema di valori unificante e unificato”42. In tal
modo il sapere dell’insegnante diventa frutto di un programma di ricerca che
tiene insieme elementi complessi come le credenze, i sistemi di valori, l’orizzonte
cognitivo degli studenti, il contesto culturale. Ciò che ne risulta non può essere
una strategia valida universalmente ma una pratica innervata di senso43, capace
di riflettere su se stessa, che ha abbandonato le pretese assolutistiche e
omologanti e si costruisce la propria strada lungo la via, come un viandante che
cerchi il sentiero col lume delle proprie teorie senza conoscere esattamente dove
porterà il percorso ma senza per questo andare a tentoni.
42
Ibidem p. 24.
Il riferimento corre qui alla teoria del sensemaking nella definizione di Karl Weick applicata alle
organizzazioni.
43
46
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Nota biografica
Massimo De Bortoli (1972), docente abilitato di filosofia e storia, formatore,
giornalista pubblicista e scrittore.
Mi sono laureato in filosofia teoretica alla Facoltà di Filosofia dell’Università
Cattolica di Milano con Virgilio Melchiorre nel 1996 con una tesi sul pensiero utopico di
Ernst Bloch. Ho ottenuto il Master in Training Manager (Formazione Formatori)
all’Università di Venezia realizzato in collaborazione con l’Associazione Italiana Formatori
e la Scuola Internazionale di Scienze della Formazione, con uno studio sul rapporto tra
comunicazione e formazione e ho collaborato alla cattedra di Estetica dell’Università
Cattolica di Brescia negli anni 1999-2001. Ho svolto l’anno di servizio civile come
educatore di strada con i ragazzi di Quarto Oggiaro, un quartiere della periferia milanese.
Ho svolto attività di formazione e consulenza di progettazione in particolare per
enti pubblici e del terzo settore. Sono membro attivo del consiglio dell’AIF, delegazione
del Friuli Venezia Giulia. Negli ultimi anni indirizzo la mia ricerca sui temi del rapporto tra
il soggetto e i sistemi simbolici delle comunità e delle organizzazioni, approfondendo con
Duccio Demetrio la prospettiva autobiografica e narrativa nell’educazione degli adulti.
Sono collaboratore scientifico della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Ho
collaborato a riviste di pedagogia e intervento sociale (Animazione Sociale, Redattore
Sociale). Dirigo il periodico regionale di politiche giovanili Alidee edito dalla Provincia di
Pordenone.
Nel 2001 ho partecipato in qualità di artista selezionato alla X Biennale dei Giovani
Artisti del Mediterraneo con il racconto Paesaggi della memoria. Alcuni scritti poetici e in
prosa sono stati pubblicati nella recente antologia Viadalfreddo (2006) nella sezione
Presenze poetiche in Friuli Venezia Giulia.
Pubblicazioni
- Contributi specifici (40 voci) in Enciclopedia di Filosofia e delle Scienze Umane
"Compact", De Agostini, Novara, 1996.
- Recensioni di opere in Rivista di filosofia neo-scolastica, Milano, LXXXVIII, ott.-dic.1996,
pp. 741-744 e in Testo, Roma, XX, gen.-giu. 1999
- “Allegoria, simbolo e utopia in Ernst Bloch e Walter Benjamin”, in Testo, Roma, XIX,
gen.-giu. pp. 3-34 e lug.-dic. 1998, pp. 27-44.
- Contributi specifici in M. Gentile, Logiche d’intervento e abbandono scolastico. Note per
una prassi dell’agire formativo, Milano, Franco Angeli, 2000.
- Ipertesto sulla storia del concetto di tempo per l’osservatorio Tempòs a cura di Franco
Berardi (Bifo) in http://www.mediaevo.com/tempos.
- “Paesaggi della memoria”, in Chaos and Communications, catalogo delle opere
selezionate alla Biennale dei Giovani Artisti d’Europa e del Mediterraneo di Sarajevo e in
Lignano ti racconto, La Nuova Base Editrice, 2002.
- “New Pop Details”, in Work Art in progress – Periodico trimestrale della Galleria Civica
di Arte Contemporanea di Trento, gennaio 2005.
- “Viaggiar per mare sulle rotte dell’autobiografia: disegnare nuove mappe di significati
nelle pratiche di formazione autobiografiche”, in Animazione Sociale n. 3, 2005 (pp. 1019).
- “Confronto fra paradigmi dello sviluppo e della decrescita” in L’Ippogrifo, Libreria al
Segno Editrice, Pordenone, 2005.
- “Dal disagio si esce con le capriole”, intervista a Pino Roveredo in Animazione Sociale n.
3, 2006 (pp. 94-96).
- Selezione antologica di scritti in Viadalfreddo. Nuove presenze e nuove voci poetiche, Il
Nuovo, Udine, 2006.
- Glossario della consulenza autobiografica in D. Demetrio, La scrittura clinica, Raffaello
Cortina, Milano, 2008.
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