la teoria della relatività e la meccanica quantistica

Vincenzo Pappalardo
LE GRANDI RIVOLUZIONI SCIENTIFICHE
DEL XX SECOLO:
LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ E LA
MECCANICA QUANTISTICA
Vincenzo P appalardo LE GRANDI RIVOLUZIONI SCIENTIFICHE DEL XX SECOLO :
LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ E LA MECCANICA QUANTISTICA
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Tutti i diritti sono riservati
I capitoli in esame sono stati tratti dal libro di Vincenzo Pappalardo “Storia della
fisica e del pensiero scientifico” che è possibile consultare sul sito
www.liceoweb.webnode.it
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
3 INDICE 4
Mappa concettuale
5
Introduzione
7
CAPITOLO 1 – BREVE STORIA DELLA FISICA E DEL PENSIERO SCIENTIFICO
14
CAPITOLO 2 – CRISI DELLA FISICA CLASSICA
La crisi del meccanicismo – Riflessioni critiche sul meccanicismo – La nuova
metafisica della natura
34
CAPITOLO 3 – LA RIVOLUZIONE RELATIVISTICA
Premesse e conclusioni della teoria della relatività ristretta - I paradossi e le
verifiche sperimentali della relatività ristretta - Premesse e conclusioni della
teoria della relatività generale - La gravitazione e la curvatura dello spaziotempo L’immagine del mondo di Einstein - Le principali verifiche sperimentali della
relatività generale – Conclusioni
50
CAPITOLO 4 – INTERPRETAZIONE FILOSOFICA DELLA TEORIA DELLA RELATIVITA’
Le radici filosofiche di Einstein – Il significato filosofico del pensiero di Einstein –
Il significato filosofico della relatività
67
CAPITOLO 5 – LA RIVOLUZIONE QUANTISTICA
Introduzione – Il crollo della visione classica del mondo – L’ipotesi di Planck –
L’atomo di Bohr e l’origine della meccanica quantistica – Dualità
onda/corpuscolo della materia – Nascita della meccanica quantistica – Il
significato fisico della funzione d’onda – Il principio d’indeterminazione di
Heisenberg – Il principio di complementarità – La meccanica quantistica
dell’atomo – La meccanica quantistica relativistica - L’immagine del mondo della
meccanica quantistica: la teoria dei campi
85
CAPITOLO 6 – INTERPRETAZIONE FILOSOFICA DELLA TEORIA DEI QUANTI
Oltre il linguaggio – La filosofia di fronte alla nuova fisica - Fondamento filosofico
della meccanica quantistica - Interpretazioni della meccanica quantistica – La
realtà e l’informazione
100 Conclusioni
102 Bibliografia
4 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Mappa concettuale SPECULAZIONE FILOSOFICA
Protagonisti: Parmenide – Aristotele
Aspetti salienti:
1.
2.
3.
La finalità è la conoscenza del mondo ontico mediante principi universali in se stessi intelligibili.
Principio della causalità finale: ogni ente è per sua natura orientato ad un fine.
Metodo filosofico: fiducia nella ragione come fonte di conoscenza superiore ed indipendente dall’esperienza (Parmenide: il
pensiero e l’essere sono un’unica cosa).
VISIONE FENOMENICA-MECCANICA
Protagonisti: Democrito – Zenone – Galileo – Bacone – Newton – Laplace – Maxwell
Aspetti salienti:
1.
2.
3.
Si cerca di inquadrare i dati fenomenici osservati in leggi sempre più generali, le quali servono a prevedere nuovi fatti
fenomenici; un’ipotesi o una teoria è credibile se da essa si deducono risultati comprovati dalla verifica sperimentale o
dall’osservazione.
L’intero universo è visto come un immenso meccanismo assemblato e regolato da leggi ben precise che consentono di stabilire
una causalità ferrea.
La visione newtoniana è caratterizzata da due tratti principali:
a)
b)
semplicità di tutto il sistema: Newton fonda tutta la sua costruzione su quattro grandezze fisiche (spazio, massa, tempo
e quantità di moto) ed altrettante leggi fisiche (i tre principi della dinamica ed il principio di conservazione della quantità
di moto);
Con elementi così semplici Newton riesce a dare una visione coerente ed unitaria non solo dei fenomeni meccanici, che
avvengono sulla Terra, ma anche di quelli degli astri (legge della gravitazione universale).
Conseguenze metodologiche:
1.
2.
3.
4.
5.
Prevale d’ora in poi la sfiducia di fronte alle intuizioni dettate dal senso comune quale interprete della realtà;
Si afferma il valore dell’osservazione e dell’esperienza e la necessità della verifica empirica. I sistemi puramente speculativi,
come costruzioni mentali, cedono il passo ad ipotesi di lavoro fondate sull’esperienza e soggette a continua revisione; ipotesi
confutabili e sostituibili con altre, allorquando si presentano fatti con esse incompatibili.
La deduzione (vedi Parmenide) cede il passo all’induzione, che Galileo mette in pratica e Bacone le fornisce una giustificazione
teorica;
La descrizione della realtà si matematizza: la fisica intende prevedere con esattezza i fenomeni, per cui devono essere
inquadrati in leggi fisico – matematiche;
La scienza diventa autonoma ed indipendente dalla filosofia e dalla teologia.
Conseguenze filosofiche:
1.
2.
L’autorità di Aristotele si oscura
Non ha più interesse l’ontico ma il fenomenico
Conseguenze religiose:
1.
2.
3.
La Bibbia perde efficacia nel campo scientifico;
Lo scienziato, anche se non è ateo, rifugge dalle spiegazioni predeterminate dei fenomeni fisici e cerca solo le cause
immanenti;
La Terra non è più il centro dell’Universo, e l’uomo cessa di essere il centro fisico del cosmo.
Risultati scientifici: Meccanica celeste
VISIONE RELATIVISTICA-INDETERMINISTICA
Protagonisti: Einstein – Bohr – Heisenberg
Aspetti salienti:
1.
2.
3.
4.
Relativizzazione dello spazio e del tempo: spazio e tempo non sono più entità assolute e separate ma fanno parte di un’unica
struttura spaziotemporale soggetta a deformazioni prodotte dalla materia e dall’energia.
Crisi del meccanicismo: Nuove scoperte, inspiegabili con le leggi della fisica classica, manifestano una realtà assai più
complessa di quanto non si fosse creduto; la scienza si vede pertanto costretta a limitare le proprie competenze,
abbandonando la pretesa di fornire una spiegazione di tutto.
Quantizzazione del campo e dell’energia: L’aspetto più sconcertante della meccanica quantistica è il radicale contrasto tra i
risultati cui essa conduce e l’immagine che della realtà ci è fornita dalla nostra intuizione e dalla fisica classica, ossia le nuove
scoperte non riescono a collocarsi entro le strutture concettuali dell’esperienza quotidiana. La meccanica quantistica come
spiegazione e superamento della fisica del continuo a favore di una fisica del discreto (quantizzazione dell’energia che insieme
alla scoperta del fotone introduce la dualità tra la natura corpuscolare ed ondulatoria non solo della luce ma anche delle
particelle elementari).
Carattere probabilistico delle leggi fisiche: il principio di indeterminazione introduce un limite teorico invalicabile di
approssimazione nella misura di due grandezze, come la posizione e la quantità di moto, per cui una particella è
intrinsecamente indeterminata ed acquista le sue determinazioni solo quando sottoponiamo ad un atto di misurazione uno dei
suoi valori, modificando irrimediabilmente gli altri.
Conseguenze metodologiche e filosofiche:
1.
2.
3.
Il mondo acquista realtà solo in quanto vi è qualcuno che lo osserva, ossia il manifestarsi del mondo microscopico non può
essere separato dal nostro atto di osservazione;
Il principio di indeterminazione sostituisce leggi deterministiche con leggi puramente probabilistiche, non per difficoltà tecniche
insite nell’analisi del problema, ma dettate dalla natura della realtà fisica;
Lo spazio è curvo in misura diversa e il tempo scorre diversamente in punti diversi dell’universo. Le idee di spazio euclideo
tridimensionale e di tempo che scorre linearmente sono limitate alla nostra esperienza ordinaria del mondo fisico e devono
essere completamente abbandonate quando ampliamo questa esperienza.
Risultati scientifici: Cosmologia – Struttura atomica
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
5 Introduzione La scienza è puro interesse culturale, è desiderio di sapere, è conoscenza, metodo,
è pensiero scientifico. Essa serve unicamente a soddisfare la curiosità innata nell’uomo,
da sempre, di conoscere l’ambiente che lo circonda e sé stesso. La scienza è un continuo
ridisegnare il mondo e il pensiero scientifico è un’appassionata esplorazione di modi
sempre nuovi di ripensare il mondo. La forza del pensiero scientifico non consiste nelle
certezze raggiunte, anzi è nella sua continua ribellione al sapere del presente e a tutte
quelle certezze che appaiono ovvie. La ricerca della conoscenza non si nutre di
certezze, ma di una radicale mancanza di certezze. L’ignoranza come molla per
sovvertire l’ordine delle cose e ripensare continuamente il mondo. La scienza nasce da
ciò che non sappiamo e dalla messa in discussione di ciò che crediamo di sapere. La
natura del pensiero scientifico è critica, ribelle, insofferente a ogni concezione a priori,
a ogni riverenza, a ogni verità intoccabile. La scienza, quindi, è soprattutto
esplorazione continua di nuove forme di pensiero. Ma se il sapere scientifico cambia
continuamente, perché dobbiamo ritenerlo affidabile e credibile? Perché a ogni dato
momento della storia, la descrizione del mondo che abbiamo è la migliore. Le risposte
scientifiche non sono mai definitive, sono semplicemente le migliori risposte di cui
disponiamo. La credibilità della scienza poggia sulla certezza che nulla è definitivo.
La scienza, però, in quanto elemento di civiltà, non sta isolata dagli altri aspetti
della cultura e come tale è connessa col modo di vivere e di pensare, con i rapporti
sociali e le istituzioni degli uomini che l’hanno elaborata e continuano ad elaborarla. La
scienza e la poesia, per esempio, nell’antica Grecia, venivano considerate entrambe
come imprese dell’immaginazione, modi complementari di esplorare il mondo della
natura.
Partendo da queste considerazioni, questa “Storia della Fisica e del pensiero
scientifico”, vuole raccontare la fisica come un viaggio, un’avventura del pensiero
umano, dei continui cambiamenti delle visioni del mondo, dalle prime civiltà, in
particolare quella greca, con i vari filosofi come Anassimandro, Platone, Aristotele e
Archimede, passando attraverso i protagonisti della rivoluzione scientifica come
6 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Copernico, Galileo e Newton fino alla rivoluzione relativistica con Einstein e a quella
quantistica con Planck, Heisenberg, Bohr, Schrodinger, Dirac.
Questo libro, però, non ha la pretesa e la presunzione né di essere originale, né di
proporre nuove tesi rispetto a quelle esposte da autorevoli studiosi di storia della fisica,
di filosofi della scienza e del pensiero scientifico in generale. Anzi, interi passi di questo
libro sono stati tratti dalle opere riportate nella bibliografia. Se un merito deve avere
questo libro è quello di rappresentare una sintesi di storia della fisica sullo sfondo della
filosofia della scienza, al fine di offrire a tutti coloro che si avvicinano allo studio della
fisica, uno strumento per indagare sul faticoso cammino delle idee per giungere alla
formulazione di leggi fisiche, o teorie scientifiche, ed il loro successo in un particolare
momento storico. In più, vuole sfatare il mito che le teorie scientifiche siano il frutto del
lavoro spontaneo e solitario di uno scienziato, ma bensì il risultato di secoli d’indagine,
anzi di secoli di avventura del pensiero umano, che trovano il loro compimento, l’atto
finale, nel lavoro del genio, come Galileo, Newton, Einstein.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
7 CAPITOLO 1 BREVE S TORIA D ELLA F ISICA E D EL P ENSIERO S CIENTIFICO In Grecia, e fino al Medioevo, la finalità della filosofia era la conoscenza del
mondo ontico mediante i principi universali in sè stessi intelligibili. Nelle loro
dissertazioni sull'universo e sulle sue componenti, i filosofi rivolgevano l'attenzione
all'essenza delle cose per scoprirvi l'essere primordiale, il sostrato immutabile di tutti gli
enti. Da qui le teorie cosmologiche da Talete fino ad Aristotele e le loro diverse
soluzioni: l'acqua, l'indeterminato, i quattro elementi, la quintessenza. Determinate la
sostanza primigenia e le essenze delle cose gli uomini dell'antichità e quelli del
Medioevo deducevano aprioristicamente l'attività propria d'ogni ente in ossequio
all'aforisma che “l'agire segue l'essere”. Il loro interesse non era tanto di conoscere gli
effetti quanto le cause generali. Di speciale importanza è il principio della causalità
finale. Ogni ente è per sua natura orientato ad un fine, e Aristotele nella Fisica dice: “La
natura è causa, anzi propriamente causa finale”. Il confronto vero con la realtà
attraverso la verifica sperimentale o l'osservazione scientifica risultava così per essi
superfluo. Per loro erano sufficienti la semplice osservazione e il senso comune, inteso
come interpretazione razionale dei dati percepiti attraverso i sensi, senza decantazione,
né analisi ulteriore.
Il loro universo risultava antropomorfico in un duplice senso. Primo, perchè
s'adattava alla visione ingenua, ch'essi avevano, dello stesso: la Terra è piatta, il Sole
gira attorno alla Terra che, essendo la dimora dell'uomo, occupa il posto centrale, il cielo
sta in alto, ecc. E, secondo, perchè a tutti gli enti è attribuita una teleologia in maniera
che tutto opera, analogamente all'uomo, per una finalità: la pietra cade, perchè tende al
luogo suo proprio e il fuoco sale, per la stessa ragione, verso l'alto. Il moto e il
mutamento obbediscono generalmente a questa naturale appetenza del fine, che è la
causa del mutamento, come è scritto chiaramente nella Summa theologica di Tommaso
d’Aquino: “E’ necessario che tutti gli agenti agiscano per un fine. Infatti in una serie di
cause ordinate tra loro, non si può eliminare la prima, senza eliminare anche le altre.
Ma la prima delle cause è la causa finale. E lo dimostra il fatto che la materia non
raggiunge la forma, senza la mozione della causa agente: poiché nessuna cosa può
passare da se stessa dalla potenza all'atto. Ma la causa agente non muove senza mirare
al fine. Infatti, se l'agente non fosse determinato a un dato effetto, non verrebbe mai a
compiere una cosa piuttosto che un'altra: e quindi, perchè produca un dato effetto, è
necessario che venga determinato a una cosa definita, la quale acquista così la ragione
di fine. Ora, questa determinazione, che nell’essere ragionevole è dovuta all'appetito
8 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
intellettivo, detto volontà, negli altri esseri viene prodotta dall'inclinazione naturale,
chiamata appunto appetito naturale”.
Diametralmente opposta alla filosofia si trova la tecnica, la quale persegue
l'utilità immediata attraverso regole pratiche concrete, senza formulare leggi generali né
principi. Per la mentalità del cittadino ateniese o romano questo era un compito
riservato agli schiavi ed agli artefici di bassa estrazione sociale. E nessuno spirito nobile
brama d'essere Fidia o Policleto, poiché propria dell'uomo liberale è la contemplazione
delle idee, non l'osservazione dei fatti, ne l'utilità dei risultati.
In un ambito intermedio, la scienza, nel prescindere dalla conoscenza ontica e dai
principi in sé stessi intelligibili, cerca d'inquadrare i dati fenomenici osservati in leggi
sempre più generali, le quali servano a prevedere nuovi fatti fenomenici. Il criterio
filosofico di verità è sostituito dal criterio scientifico. Quello stabilisce la verità di una
proposizione, se la si può logicamente dedurre partendo da alcuni principi in se stessi
intelligibili. Il criterio scientifico, invece, afferma che un'ipotesi o una teoria è credibile
se da essa si deducono risultati comprovati dalla verifica sperimentale o
dall'osservazione.
Come già san Tommaso aveva giustamente osservato, il criterio scientifico di
verità è relativo, poiché la verifica sperimentale non assicura la verità della teoria.
Accade talvolta che una nuova teoria spieghi ugualmente bene, o addirittura meglio, i
fenomeni osservati. Le teorie scientifiche sono, infatti, sostituite costantemente da altre
nuove. Così avvenne con le teorie intese a spiegare il moto degli astri: dalla teoria delle
sfere celesti dei pitagorici si pervenne a quella tolemaica degli epicicli; quindi
all'eliocentrismo circolare di Copernico e, infine, alle orbite ellittiche di Keplero.
A distinguere la filosofia dalla scienza non è soltanto la finalità. Anche il
rispettivo metodo è differente. Punto di partenza della filosofia è la ragione, la quale
fissa i principi intelligibili, in accordo con il senso comune e con l'esperienza volgare, in
alcuni casi, o anche prescindendo assolutamente dall'esperienza, in altri. La fiducia
nella ragione come fonte di conoscenza superiore ed anche indipendente dall'esperienza
è retaggio di Parmenide, per il quale il pensiero e l'essere sono un'unica cosa. Per
questo, Aristotele stabilisce il principio, fondamentale per il suo sistema, secondo cui
tutto ciò che si muove, è mosso da altro. E lo stabilisce come deduzione razionale dal
fatto che, quando cessa la causa, cessa anche l’effetto. Così, infatti, gl'insegna
l'esperienza comune: un oggetto cessa di muoversi quando cessa l'atto di spingerlo. E
Zenone non può fare a meno di negare l'esperienza stessa del moto, poiché la ragione
non sa risolvere l'aporia della divisibilità infinita della traiettoria da percorrere.
Un testo di Aristotele riassume perfettamente questo metodo deduttivo, o
discendente, che va dall'universale al particolare: “Chi preferisce il puro conoscere,
sceglierà massimamente quella che è scienza al massimo grado, e tale è, appunto, la
scienza di ciò che è conoscibile nel grado più alto; e sono conoscibili nel grado più alto i
primi principi e le cause, giacché mediante questi e in base a questi sono conosciute le
altre cose, e non questi sono conosciuti mediante le cose che da essi dipendono “.
Aristotele, utilizzando esclusivamente il metodo deduttivo costruì quel modello
complesso e articolato della natura, ma in gran parte sbagliato, che influenzerà il
pensiero scientifico per circa duemila anni.
Spetterà a Galileo Galilei, attraverso il metodo induttivo (o meglio ancora
attraverso le sensate esperienze e le dimostrazioni matematiche) ribaltare il metodo di
indagine della natura e quindi distruggere l'intero edificio del sapere costruito dai
filosofi greci nell'antichità, metodo che ispirerà Newton a formulare le leggi della
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
9 dinamica, Maxwell a realizzare la prima grande unificazione della fisica con
l’elettromagnetismo, Einstein a rivedere i concetti di spazio e di tempo e gli interpreti
della meccanica quantistica a descrivere il mondo microscopico con leggi nuove e in
conflitto con il senso comune. La scienza moderna, da Galileo in poi, segue quindi un
processo inverso. L'osservazione dei fenomeni le presenta un complesso di fatti in cui si
possono dare, e solitamente si danno, fenomeni di diverso tipo. Da codesti aggregati
confusi, ottenuti con l'osservazione o con l'esperienza, la scienza cerca di pervenire ad
alcune leggi generali che consentano conclusioni suscettibili di osservazione. Quando
queste conclusioni osservabili sono comprovate sperimentalmente, la legge generale
assurge a ruolo di teoria generale. Il conflitto fra Galilei e l'Inquisizione non fu, quindi,
semplicemente l'antitesi fra libero pensiero e oscurantismo o fra scienza e religione, ma
la contrapposizione fra il metodo induttivo e quello deduttivo applicato allo studio
della natura. Con le regole imposte da Galilei nello studio dei fenomeni naturali,
diventava evidente lo scontro tra due visioni differenti del mondo, quella religiosa, che
offriva verità assolute, spiegazioni complete e definitive, e quella scientifica animata dal
dubbio e da risposte parziali o provvisorie.
La fisica moderna prende dunque l'avvio con Galileo il quale, anziché mirare,
come Aristotele, a spiegare il “perché” della realtà ontica in base a principi intelligibili,
si limita a studiare il “come” avvengono i fatti della realtà fenomenica. Non si esige che
sia stabilita la natura degli esseri e poi, partendo da essa, il loro modo di operare, in
ossequio all'aforisma aristotelico-scolastico secondo cui “l'operare segue l'essere”; e che,
quindi, la conoscenza dell'operare debba seguire la conoscenza dell'essere; ma si
esamina il modo di procedere di ogni cosa per stabilirne la norma generale,
prescindendo dalla sua natura ontica. Il metodo di Galileo è sperimentale ed il suo
strumento è la matematica, così che la visione, ch'egli ha dell'universo, risulta a tal
punto quantificata, che per la prima volta, dopo Democrito ed in anticipo su Locke, è da
lui introdotta la differenziazione fra qualità che sono inerenti agli oggetti e qualità che
sono insite nei sensi. Fra le prime Galileo pone la figura e il movimento e, fra le seconde,
i sapori, i colori e gli odori, i quali non possono esistere separati dall'animale che sente.
Alla nascita della scienza moderna fa riscontro tutta una serie di conseguenze per
il sapere in generale e nel campo filosofico in particolare. In primo luogo l'interesse si
sposta dal sapere puro, contemplativo, alla scienza applicata. Quanto è lontano da
Aristotele Bacone quando scrive: “L'obiettivo vero e legittimo della scienza non è altro
che questo: che la vita umana sia arricchita da nuove scoperte e nuove forze”.
Per ciò che concerne l'oggetto stesso di studio, l'interesse si sposta dall'ontico
(ossia dalla sostanza od essenza) al fenomenico (all'accidente). La questione di fondo
non è più quella di sapere che cosa siano le cose, ma com'esse si effettuino, cioè in
connessione a quali leggi, che siano traducibili matematicamente s'intende. Motivo per
cui la qualità cede il primato alla quantità misurabile. Procedendo nella stessa linea
fenomenica di Galileo, Keplero riesce a ridurre a leggi matematiche il moto apparente
dei pianeti. Fu, tuttavia, merito di Newton se la visione fenomenico-meccanica del
mondo giunse al suo apogeo. Newton formula quattro regole fondamentali per
l'investigazione nel campo delle scienze naturali:
1. Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che
sono vere e bastano a spiegare i fenomeni.
2. Perciò, finché può essere fatto, le medesime cause vanno attribuite ad effetti
naturali dello stesso genere.
10 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
3. Le qualità dei corpi che non possono essere aumentate e diminuite, e quelle che
appartengono a tutti i corpi sui quali è possibile impiantare esperimenti, devono
essere ritenute qualità di tutti i corpi.
4. Nella filosofia sperimentale, le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni,
devono, nonostante le ipotesi contrarie, essere considerate vere, o rigorosamente
o quanto più possibile, finché non interverranno altri fenomeni, mediante i quali
o sono rese più esatte o vengono assoggettate ad eccezioni.
Due tratti principali caratterizzano la visione newtoniana. Il primo è la semplicità
di tutto il suo sistema. Newton fonda tutta la sua costruzione su quattro grandezze
fisiche (spazio, tempo, massa e quantità di moto) ed altrettante leggi o principi. Con
elementi così semplici Newton riesce a dare una visione coerente ed unitaria non solo
dei fenomeni meccanici, che avvengono sulla Terra, ma anche dei moti degli astri.
Questa visione unitaria costituisce la seconda caratteristica del sistema newtoniano e
relega nel dimenticatoio la dicotomia aristotelica fra corpi sublunari e corpi celesti, tra
fisica terrestre e fisica celeste. Newton, partendo da queste grandezze e da questi
principi, giunse infine a scoprire e a formulare la famosa legge della gravitazione
universale, che costituisce forse l'esempio più chiaro del cambiamento operato nella
concezione della scienza e nella visione del mondo. Prescindendo dall'intenzione di
Newton, tale legge non pretende di chiarire la natura reale, ontica, dei corpi, né della
stessa gravitazione, che era sconosciuta a Newton come continua ad esserlo tuttora, né
ha la pretesa d'essere una verità filosofica, ma semplicemente una verità scientifica,
ossia un'ipotesi di lavoro, che è vera nella misura in cui corrisponde ai fatti fenomenici
conosciuti e in quanto serve a predirne altri comprovabili mediante la verifica
sperimentale e l'osservazione. Questa visione dell'universo come macchina gigantesca,
le cui parti sono fra di loro collegate dalla gravitazione, ebbe in seguito numerose e
splendide conferme come nell’opera di Laplace e la scoperta di Nettuno fatta da Verrier
esclusivamente mediante calcolo matematico.
Tutto ciò ha come conseguenza che la scienza e la filosofia vadano sempre più
distanziandosi e rendendosi indipendenti, con pregiudizio di entrambe, in special
modo della seconda, che si chiude in se stessa e tralascia di rispondere alla problematica
del mondo d'oggi. Più ancora, la molteplicità dei sistemi filosofici, spesso in
opposizione fra di loro, induce gli stessi filosofi a interrogarsi sulla validità della
conoscenza stessa. Non è allora a caso che Cartesio proponga il suo dubbio metodico
sulla conoscenza, per quanto egli creda di riuscire a trovargli una via d'uscita vittoriosa.
In questa stessa direzione, ma in forma più radicale, Kant, sorpreso
dell'insicurezza della metafisica di fronte alla sicurezza delle matematiche e della fisica,
nella prefazione della seconda edizione della Critica della ragion pura scrive: “Alla
metafisica, conoscenza speculativa razionale, affatto isolata, che si eleva assolutamente
al di sopra degli insegnamenti dell'esperienza, e mediante semplici concetti (non, come
la matematica, per l'applicazione di questi all'intuizione), nella quale dunque la ragione
deve essere scolara di se stessa, non è sinora toccata la fortuna di potersi avviare per la
via sicura della scienza; sebbene essa sia più antica di tutte le altre scienze, e
sopravvivrebbe anche quando le altre dovessero tutte quante essere inghiottite nel
baratro di una barbarie che tutto devastasse. Giacché la ragione si trova in essa
continuamente in imbarazzo, anche quando vuole scoprire (come essa presume) a priori
quelle leggi, che la più comune esperienza conferma. In essa si deve innumerevoli volte
rifar la via, poiché si trova che quella già seguita non conduce alla meta; e, quanto
all'accordo dei suoi cultori nelle loro affermazioni, essa è cosi lontana dall'averlo
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
11 raggiunto, che è piuttosto un campo di lotta: il quale par proprio un campo ad
esercitare le lotte antagonistiche, in cui nemmeno un campione ha mai potuto
impadronirsi della più piccola parte di terreno e fondar sulla propria vittoria un
durevole possesso”.
Agli inizi del secolo XX gli scienziati cominciano a distanziarsi dalla visione
meccanicistica newtoniana dell'universo in conseguenza di certi fenomeni che
avvengono nel mondo dell'estremamente piccolo (l'atomo) e dell'estremamente grande
(le galassie), e che non trovano una spiegazione congrua nella meccanica classica, dando
vita, così, alle due grandi e rivoluzionarie teorie del Novecento: la relatività e la
meccanica quantistica. Sorvolando sui contenuti specifici di tali teorie, che saranno
approfonditi nel corso del libro, ci limiteremo a menzionare quegli aspetti concettuali e
logici che hanno avuto un carattere autenticamente rivoluzionario sotto diversi punti di
vista, dal momento che non riguardavano più l'impossibilità di "visualizzare" il mondo
fisico, ma addirittura quello di pensarlo impiegando le categorie che il senso comune
utilizza per intendere il mondo e che, in particolare, sono state precisate ed elaborate in
seno alla tradizione filosofica dell'Occidente. Si pensi, per esempio, al fatto di dover
conciliare continuità e discontinuità nell'interpretazione del mondo microfisico, alla
dualità della rappresentazione corpuscolare e ondulatoria delle particelle elementari,
all'indeterminatezza di principio nell'attribuzione simultanea di valori a grandezze
coniugate a livello microfisico, alla necessità di considerare la massa e le dimensioni
spaziali di un corpo non più come le sue proprietà più inalterabili e intrinseche, ma
come variabili in funzione della sua velocità, per non parlare delle interdipendenze fra
due entità concettualmente tanto distinte come lo spazio e il tempo e, per finire, della
conversione da una concezione deterministica a una probabilistica delle leggi naturali,
con la correlata riconsiderazione del principio di causalità.
Daremo ora solo qualche breve cenno per mostrare come queste difficoltà siano
venute dipanandosi e connettendosi l'una all'altra in modo irresistibile. Per il senso
comune e per la fisica classica il concetto di simultaneità di due eventi ha un valore
assoluto (essi sono tali se hanno luogo nel medesimo istante temporale). Einstein ha
però chiarito che questo concetto ha un reale significato fisico solo se possiamo
precisare come stabilire tale simultaneità, e la sua analisi ha condotto a riconoscere che
essa dipende dal sistema di riferimento e può risultare sussistente o non sussistente a
seconda del moto relativo dei sistemi di riferimento. Tale simultaneità intrinseca ai due
eventi può essere affermata dal senso comune solo con riferimento implicito a un tempo
assoluto, ma questo è stato eliminato dalla teoria della relatività, la quale ha anche
operato un mutamento più radicale, mostrando che spazio e tempo sono
interdipendenti, per non accennare ad altre peculiarità, come i concetti di spazio a
quattro dimensioni o di spazio curvo.
Passiamo ora ad altre proprietà che il senso comune considera come intrinseche e
invariabili per un dato corpo, come la massa e la lunghezza di un corpo rigido. La
relatività mostra che esse dipendono dalla velocità di traslazione di quel corpo la quale,
a sua volta, è relativa ai sistemi di riferimento. Per di più la massa può convertirsi in
energia e viceversa, cosicché la vecchia legge di conservazione della massa deve esser
riformulata in una più complessa formula di conservazione dell'energia (o della massaenergia). Si noti che, anche così, la vecchia concezione dell'uniformità della natura,
espressa dalle leggi fisiche, non è stata abbandonata, poiché la teoria della relatività è
un grande sforzo per trovare una formulazione delle leggi di natura che sia invariante
rispetto alla relatività delle misure possibili nei diversi sistemi di riferimento.
12 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Passando alla fisica quantistica, basti ricordare che essa pone un limite teorico (e
non solo pratico) alla possibilità di determinazione esatta e simultanea delle grandezze
coniugate di un sistema microfisico (come, per esempio, posizione e velocità di una
particella), secondo quanto stabilito nelle relazioni di indeterminazione di Heisenberg e
ciò si riflette anche sulla possibilità di precisione esatta consentita dalle leggi fisiche (che
assume un carattere soltanto statistico). Tutto ciò è anche conseguenza del fatto che nei
procedimenti di misura si deve realizzare una preparazione che rende impossibile una
netta separazione fra osservatore (o apparecchio di misura) e oggetto osservato,
togliendo una delle caratteristiche più spontanee che il senso comune (e la fisica
tradizionale) sottendevano per una conoscenza oggettiva del mondo. Finalmente,
perfino le due visioni rivali (corpuscolare e ondulatoria) sono obbligate a convivere,
non già in campi separati della fisica, come accadeva in precedenza, ma nella
descrizione del comportamento di una medesima entità, secondo il cosiddetto principio
di complementarietà enunciato da Bohr.
Possiamo fermarci qui e chiederci come mai gli scienziati accettino teorie tanto
strane per il senso comune e gli stessi intelletti delle persone colte. La risposta è che esse
non solo hanno ricevuto molte conferme sperimentali inoppugnabili e permesso
applicazioni tecnologiche di grande rilievo, ma anche che relatività e fisica quantistica
non hanno incontrato una sola smentita sperimentale e debbono esser considerate come
verificate ancor più di quanto lo fosse, nel suo campo, la fisica classica. Proprio queste
conferme sperimentali e queste riuscite applicazioni tecnologiche costituiscono un certo
ritorno verso il senso comune, anche se sono venute meno quasi tutte le possibilità di
rappresentazione di senso comune di cui godeva abbastanza ampiamente la vecchia
fisica e che, ben inteso, possono esser tentate con strumenti più complessi anche per la
nuova fisica.
Questi fatti ben noti hanno alimentato, sin dai primi decenni del Novecento,
dibattiti filosofici vasti e approfonditi sulla fisica, in cui sono intervenuti i maggiori
scienziati del tempo, ma anche filosofi forniti di una sufficiente competenza scientifica;
dibattiti che hanno riguardato temi di filosofia della conoscenza, di ontologia e
metafisica, di filosofia della natura, di metodologia delle scienze e nei quali sono emerse
le più diverse posizioni. Tutto ciò sta a confermare che una filosofia della fisica si
sviluppò robustamente a partire dalla crisi dei fondamenti della fisica, non meno di
quanto i dibattiti sui fondamenti della matematica e i risultati inattesi delle ricerche di
logica matematica abbiano innervato una filosofia della matematica. Entrambe poi
hanno contribuito notevolmente alla costituzione della filosofia della scienza come
nuova branca ormai specializzata della filosofia.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
13 All’alba del Novecento si apre un nuovo universo di idee. Le avanguardie artistiche
inaugurano la rivoluzione modernista. Nascono l’architettura funzionale e il design
industriale come risposta alla civiltà delle macchine. Letteratura e teatro disgregano
relativisticamente il personaggio-uomo. La pittura rifiuta le immagini della percezione
ottica, per indagare la realtà mentale delle cose. La musica abbandona la tonalità.
Tutto l’universo ottocentesco è rimesso in discussione. Cambiano i costumi, i modi di
pensare , i criteri etici, mentre compaiono esperienze inedite che domineranno il secolo,
come la psicanalisi e il cinema.
Per la scienza si chiude un’epoca che durava dalla rivoluzione newtoniana. La
teoria della relatività di Einstein e la meccanica quantistica, che mettono in
discussione lo stesso nucleo fondamentale della rappresentazione classica del mondo
fisico, modificano le leggi della meccanica newtoniana indicandone i limiti di validità.
Sull’opera di Einstein e sulla meccanica quantistica sarà avviato anche un
dibattito filosofico estremamente impegnato, che vede intervenire molti nomi di spicco
della prima metà del Novecento, da Bergson a Cassirer, da Carnap e Reichenbach a
Meyerson e Whitehead fino a Popper. In tutti questi filosofi, e le correnti che
incarnano, occupa un posto centrale la riflessione sul significato e i fondamenti
dell’esperienza e sulla validità della scienza. I problemi posti dalla nuova fisica, oltre a
suscitare l’interesse dei filosofi, costringono i fisici, come Einstein, Bohr e Heisenberg, a
interessarsi delle implicazioni filosofiche delle loro teorie. Si pensi ai nuovi concetti di
spazio e tempo, al dibattito su casualità e leggi probabilistiche, o ancora alle discussioni
sul concetto di “complementarietà”.
14 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
CAPITOLO 2 LA C RISI D ELLA F ISICA C LASSICA 2.1 La crisi del meccanicismo
La concezione del mondo che fu trasformata dalle scoperte della fisica moderna
era stata costruita sulla base del modello meccanicistico newtoniano dell'universo che
costituiva la struttura portante della fisica classica. Si trattava in effetti di una
fondazione veramente formidabile, che sorreggeva graniticamente tutta la scienza e che
per quasi tre secoli offrì una solida base alla filosofia naturale.
Lo scenario dell'universo newtoniano nel quale avevano luogo tutti i fenomeni
fisici era lo spazio tridimensionale della geometria euclidea classica: uno spazio
assoluto sempre immobile e immutabile. Secondo le parole di Newton: “Lo spazio
assoluto, per sua stessa natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane sempre
uguale e immobile”. Tutti i mutamenti che si verificano nel mondo fisico erano descritti
in funzione di una dimensione separata, chiamata tempo, anch'essa assoluta che non
aveva alcun legame con il mondo materiale e che fluiva uniformemente dal passato al
futuro, attraverso il presente. Sempre secondo le parole di Newton: “Il tempo assoluto,
vero, matematico, in sé e per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, scorre
uniformemente”. Gli elementi del mondo newtoniano che si muovevano in questo
spazio e in questo tempo assoluti erano le particelle materiali. Nelle equazioni
matematiche queste venivano trattate come punti materiali e Newton le considerava
oggetti piccoli, solidi e indistruttibili dei quali era costituita tutta la materia. Questo
modello era del tutto simile a quello degli atomisti greci. Tutti e due erano basati sulla
distinzione tra pieno e vuoto, tra materia e spazio, e in entrambi i modelli le particelle
rimanevano sempre identiche a se stesse in massa e forma; perciò la materia era sempre
conservata ed essenzialmente inerte. La differenza importante che c'e tra l'atomismo di
Democrito e quello di Newton è che quest’ultimo contiene una precisa descrizione della
forza che agisce tra le particelle materiali: si tratta di una forza molto semplice, che
dipende solo dalle masse e dalla reciproca distanza tra le particelle. Secondo Newton,
questa forza, cioè la forza di gravità, era strettamente connessa ai corpi sui quali agiva e
la sua azione si manifestava istantaneamente a qualsiasi distanza.
Sebbene quest'ultima fosse un'ipotesi abbastanza singolare, non fu indagata
ulteriormente. Si riteneva che le particelle e le forze che agivano tra esse fossero state
create da Dio, e che quindi non si potessero sottoporre a ulteriori analisi. Nella
meccanica di Newton, tutti gli eventi fisici sono ridotti al moto di punti materiali nello
spazio, moto causato dalla loro reciproca attrazione, cioè dalla forza di gravità. Per
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
15 esprimere in una forma matematica precisa l'effetto di questa forza su un punto
materiale, Newton dovette inventare concetti e tecniche matematiche completamente
nuovi, i concetti e le tecniche del calcolo differenziale. Questo fu un successo
intellettuale talmente straordinario da spingere Einstein ad affermare che esso è “forse il
più grande progresso nel pensiero che un singolo individuo sia mai stato capace di
compiere“.
Le equazioni di Newton relative al moto dei corpi sono la base della meccanica
classica; esse furono considerate le leggi immutabili secondo le quali si muovono i punti
materiali e si pensava quindi che potessero spiegare tutti i mutamenti osservati nel
mondo fisico. Secondo Newton, all'inizio Dio creò le particelle materiali, le forze che
agiscono tra esse e le leggi fondamentali del moto. In questo modo tutto l'universo fu
posto in movimento e da allora ha continuato a funzionare, come una macchina,
governato da leggi immutabili. La concezione meccanicistica della natura è quindi in
stretto rapporto con un determinismo rigoroso. La gigantesca macchina cosmica era
considerata completamente causale e determinata. Tutto ciò che avveniva aveva una
causa definita e dava luogo a un effetto definito e, in linea di principio, si sarebbe
potuto prevedere con assoluta certezza il futuro di una parte qualsiasi del sistema se si
fosse conosciuto in un qualsiasi istante il suo stato in tutti i suoi particolari.
La base filosofica di questo determinismo rigoroso era la fondamentale divisione
tra l'Io e il mondo introdotta da Cartesio. Come conseguenza di questa divisione, si
riteneva che il mondo potesse essere descritto oggettivamente, cioè senza tener mai
conto dell'osservatore umano e tale descrizione oggettiva del mondo divenne l'ideale di
tutta la scienza. Nel Settecento e nell'Ottocento si assiste a un enorme successo della
meccanica newtoniana. Newton stesso applicò la sua teoria al moto dei pianeti e riuscì a
spiegare le caratteristiche fondamentali del sistema solare. Tuttavia il suo modello
planetario era estremamente semplificato, vi era trascurata, per esempio, l'influenza
gravitazionale tra i pianeti, cosicché ne risultavano alcune irregolarità che Newton non
riusciva a spiegare. Egli risolse questo problema supponendo che Dio fosse sempre
presente nell'universo per correggere tali irregolarità.
Il grande matematico Laplace si propose l'ambizioso compito di affinare e
perfezionare i calcoli di Newton al fine di offrire una soluzione completa dell'enorme
problema di meccanica presentato dal sistema solare e portare la teoria a coincidere così
strettamente con l'osservazione che le equazioni empiriche non avrebbero più dovuto
trovare posto nelle tavole astronomiche, arrivando così alla conclusione che le leggi del
moto formulate da Newton assicuravano la stabilità del sistema solare e trattò
l'universo come una macchina capace di autoregolarsi perfettamente. Incoraggiati dal
brillante successo della meccanica newtoniana in astronomia, i fisici la applicarono
anche al moto continuo dei fluidi e alle vibrazioni dei corpi elastici, e ancora una volta
essa servì allo scopo. Infine, anche la teoria del calore fu ridotta alla meccanica quando
si capì che il calore è l'energia associata a un complicato moto di agitazione delle
molecole.
Lo straordinario successo della meccanica di Newton fece nascere nei fisici
dell'inizio dell'Ottocento la convinzione che l'universo fosse in realtà un enorme sistema
meccanico che funzionava secondo le leggi del moto di Newton. Queste leggi furono
viste come le leggi fondamentali della natura e la meccanica di Newton venne
considerata la teoria definitiva dei fenomeni naturali e generalmente considerata nel
XIX secolo epistème, sapere certo, costituito da proposizioni vere, indubitabili e
definitive, sia che si ritenga, come lo stesso Newton, che i suoi principi siano
16 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
“proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni”, sia che li si consideri, come Kant,
proposizioni di cui “è chiara la [...] necessità, e pertanto la loro origine a priori”. Sulla
base di questa dominante convinzione, la meccanica viene posta a fondamento sicuro
dell'indagine scientifica del mondo. Si pensa, infatti, che se essa è epistème, se ci dà
un'immagine vera della realtà fisica, allora tutti i fenomeni fisici devono essere descritti
e spiegati in termini meccanici.
Il programma meccanicistico era riuscito a conseguire significativi risultati,
rafforzando la convinzione che la meccanica classica era il fondamento sicuro non solo
della fisica ma anche delle scienze naturali e che la via del completo disvelamento della
natura era ormai definitivamente imboccata. Einstein ha dato una vivida ed efficace
descrizione dell'atmosfera in cui si svolgeva la ricerca scientifica del XIX secolo: “In
materia di principi predominava una rigidezza dogmatica; in origine (se origine vi fu)
Dio creò le leggi del moto di Newton insieme con le masse e le forze necessarie. Questo è
tutto; ogni altra cosa risulta deduttivamente attraverso lo sviluppo di metodi
matematici appropriati. Ciò che il secolo XIX riuscì a fare basandosi solo su questo […]
non poteva non suscitare l’ammirazione di ogni persona intelligente. […] Però, ciò che
faceva più impressione non era tanto la costruzione della meccanica come scienza a sé,
o la soluzione di problemi complicati, quanto le conquiste della meccanica in campi che
apparentemente non avevano nulla a che fare con essa [...]. Questi risultati
confermavano che la meccanica costituiva [...] la base della fisica [...]. Non dobbiamo
quindi stupirci se tutti, o quasi tutti, i fisici del secolo scorso videro nella meccanica
classica la base sicura e definitiva di tutta la fisica, e anzi, addirittura di tutte le
scienze naturali”.
La crisi della fisica ha inizio quando il programma di ricerca meccanicistico
esaurita la sua capacità progressiva, si imbatte in difficoltà che sembrano insuperabili e
che portano ad abbandonare l'idea della meccanica come base unitaria della fisica,
nonché a ripensare in generale la natura e lo status epistemologico delle teorie
scientifiche. Questa presa di coscienza non si verificò improvvisamente, ma fu avviata
da avvenimenti che erano già iniziati nel diciannovesimo secolo e che prepararono la
strada alle rivoluzioni scientifiche del XX secolo.
Il primo di questi avvenimenti fu la scoperta dell’elettromagnetismo che non
poteva essere descritto adeguatamente dal modello meccanicistico, e comportavano
l'esistenza di un nuovo tipo di forza. Il passo importante fu compiuto da Faraday e da
Maxwell, i quali, invece di interpretare l'interazione tra una carica positiva e una
negativa dicendo semplicemente che le due cariche si attraggono tra loro come avviene
per due masse nella meccanica newtoniana, trovarono più appropriato dire che ogni
carica crea nello spazio circostante un campo, cioè una perturbazione o una condizione
tale che un'altra carica, se presente avverte una forza. Era un mutamento profondissimo
della concezione della realtà fisica da parte dell'uomo. Nella visione newtoniana, le
forze erano rigidamente connesse ai corpi su quali agivano. Ora il concetto di forza
veniva sostituito da quello, molto più sottile, di campo, il quale aveva una sua propria
realtà e poteva essere studiato senza alcun riferimento ai corpi materiali. Il punto più
alto raggiunto da questa teoria (l’elettromagnetismo) fu la comprensione del fatto che la
luce non è altro che un campo elettromagnetico rapidamente alternante e che si sposta
nello spazio sotto forma di onda.
Quanto al secondo di questi avvenimenti, la termodinamica, progressi molto
brillanti erano stati compiuti interpretando temperatura, quantità di calore, pressione di
un gas all'interno della teoria cinetica della materia, ossia come effetti globali del moto
caotico delle miriadi di particelle materiali che costituiscono i gas (e in generale i corpi).
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
17 La meccanica statistica aveva permesso, mediante considerazioni probabilistiche
ingegnose e complesse, di definire le grandezze termodinamiche come somme o medie
di grandezze strettamente meccaniche riguardanti il moto di tali particelle, e di ricavare
anche le fondamentali leggi della termodinamica. Una difficoltà notevole era tuttavia
costituita dal secondo principio della termodinamica, che introduceva l’irreversibilità
dei fenomeni di cui non riusciva a ottenere la spiegazione utilizzando leggi e principi
della meccanica che sono tutti reversibili (ossia, che permettono di determinare lo stato
futuro di un sistema, ma anche il suo stato passato).
Alla fine di molti sforzi teorici e complessi calcoli matematici una via d’uscita fu
trovata e possiamo esprimerla, molto sommariamente, così: lo stato finale cui tende il
processo non è assolutamente irreversibile, ma soltanto quello di massima probabilità;
la reversibilità non è teoricamente impossibile, ma ha una probabilità talmente bassa
che può essere praticamente escluso il suo verificarsi. La riduzione della termodinamica
alla meccanica era in tal modo ottenuta, ma a un prezzo notevole, ossia l'introduzione
del punto di vista probabilistico nella scienza fisica, che intaccava il rigoroso
determinismo della fisica tradizionale, vera colonna portante del meccanicismo (le leggi
naturali non ammettono eccezioni, e se i risultati previsti non si verificano, è solo perchè
le condizioni di applicazione della legge non erano adeguatamente realizzate).
Notiamo che l’ingresso del punto di vista probabilistico precede la nascita della fisica
quantistica, che introdurrà un probabilismo di tipo diverso e più radicale rispetto a
quello della termodinamica classica, un probabilismo come legge di natura.
In definitiva, le due nuove branche della fisica ottocentesca, ossia
l'elettromagnetismo e la termodinamica, risultarono alla fine irriducibili a sottocapitoli
della meccanica. Nonostante questi mutamenti che aprivano nuovi orizzonti, la
meccanica newtoniana mantenne inizialmente la sua posizione come fondamento di
tutta la fisica. Maxwell stesso cercò di dare una spiegazione meccanicistica ai propri
risultati interpretando il campo come stati di tensione meccanica in un mezzo molto
leggero, chiamato etere, che riempiva tutto lo spazio, e le onde elettromagnetiche come
onde elastiche di questo etere. Tuttavia, Maxwell fece uso contemporaneamente di
diverse interpretazioni meccaniche della sua teoria e manifestamente non ne prese
alcuna in seria considerazione. Egli doveva aver compreso intuitivamente, anche se non
lo espresse in maniera del tutto esplicita, che le entità fondamentali della sua teoria
erano i campi e non i modelli meccanici. Fu Einstein a riconoscere chiaramente questo
fatto cinquant'anni dopo, quando dichiarò che non esisteva alcun etere e che i campi
elettromagnetici erano vere e proprie entità fisiche, che potevano spostarsi attraverso lo
spazio vuoto e non potevano essere spiegate meccanicamente.
All'inizio del Novecento, dunque, i fisici disponevano di due teorie valide, capaci
di spiegare fenomeni differenti: la meccanica di Newton e l'elettrodinamica di Maxwell;
di conseguenza, il modello newtoniano non costituiva più la base di tutta la fisica.
2.2 Riflessioni critiche sul meccanicismo
Questi fatti si erano prodotti negli ultimi tre decenni dell'Ottocento e avevano
incrinato la fede nel meccanicismo non tanto presso il pubblico e la maggior parte degli
scienziati, quanto presso alcuni spiriti più attenti. Con l’abbandono dell’interpretazione
meccanicistica dei fenomeni, perdeva terreno l’idea di una gerarchia delle scienze, e in
18 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
conformità alla concezione fenomenistica della scienza, nello studio della natura non
può esserci altra verità all’infuori di ciò che si percepisce con i sensi, per cui, i veri
oggetti della fisica sono i colori, i suoni, le temperature, i moti, le pressioni, ecc. Scopo
della fisica è quindi quello di associare opportunamente, e in modi quanto più possibili
molteplici, tali dati elementari. Nasce così l’idea di una fisica fenomenologia da
contrapporre a quella meccanica, che da un lato, è vero che comporta una restrizione
del campo operativo, dall’altro però rappresentava un soffio vivificante, che liberava la
fisica dall’idea di sostanza, e dalla faticosa e deviante pretesa di interpretare
meccanicamente i fenomeni, a cui soggiacevano ancora grandi spiriti, come quello di
Maxwell. Protagonisti di questa riflessione critica furono Mach, Duhem e Poincarè.
Ernst Mach (1838-1916), in un primo tempo, è stato un convinto meccanicista:
“l’intera fisica non è altro che meccanica applicata”. L’affermazione secondo cui la
materia è costituita di atomi, anche se risulta un’ipotesi, è convinto di doverla accettare
tante sono le prove, sia pure indirette, che la convalidano; ammette però che esistano
due specie ben distinte di atomi, quelli corporei costituenti i corpi, e quelli eterei
costituenti l’etere: fra i primi agisce una forza attrattiva regolata dalla legge della
gravitazione, fra i secondi invece una forza repulsiva e, poiché ogni atomo corporeo è
circondato da vari atomi eterei, la forza repulsiva di questi ultimi sarà ciò che impedisce
ai primi di congiungersi fra loro. Scopo della scienza è di stabilire il maggior numero
possibile di leggi sperimentali, che il ricercatore dovrà poi ricondurre a pochi principi
generali. Anche se in taluni casi questi principi sono soltanto ipotetici, risulterà in
ultima istanza possibile, date due ipotesi antitetiche avanzate per spiegare il medesimo
fenomeno, scoprire qualche esperimento cruciale capace di escludere definitivamente
l’una a favore dell’altra.
Però ben presto Mach comincia a respingere i postulati generali del
meccanicismo, ed in particolare le critiche vengono rivolte ad Helmholtz, lo scienziato
dell’epoca che aveva dato maggiori contributi alla spiegazione fisica di parecchi
fenomeni sensitivi (in particolare del suono). Helmholtz viene accusato di non limitarsi
ad avanzare ipotesi per la spiegazione dei fenomeni, ma di voler elevare le teorie
scientifiche a criterio supremo per distinguere i fenomeni veri da quelli illusori, senza
tenere conto che esse mutano da un periodo all’altro, onde il presunto criterio
risulterebbe sempre qualcosa di provvisorio. In realtà il meccanicismo di Helmholtz ci
impedisce di guardare all’esperienza in tutta la sua ricchezza, ci allontana dai fatti
concreti, sostituisce ad essi dei presupposti speculativo-metafisici. Quello di Mach è, se
vogliamo, un atteggiamento che presenta qualche analogia con lo stato d’animo
diffusosi prima tra i romantici nei confronti della scienza illuministica. Con una
differenza radicale però, e cioè che Mach non intende collocarsi al di fuori del grande
filone della scienza moderna, ma soltanto rimuovere gli ostacoli metafisici che ne
impediscono lo sviluppo. Non intende, in particolare, rinunciare all’uso della
matematica, ma anzi avvalersi largamente e sistematicamente per misurare i fenomeni
e per determinare direttamente le relazioni che intercorrono tra essi, senza presumere di
poterle ricavare da una realtà, inafferrabile ai sensi, che costituirebbe la vera base
dell’esperienza. Non fa perciò ricorso a nessun genere di intuizione sovrasensibile, che
dovrebbe porci immediatamente a contatto col cuore della realtà, come pensavano i
romantici, ma si sforza di potenziare la nostra osservazione, liberandola dalle categorie
predeterminate in cui siamo soliti rinchiuderla per una malintesa fedeltà alla tradizione
scientifica. Mach non ha certo difficoltà a riconoscere che, nel Seicento e Settecento, il
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
19 meccanicismo fornì utilissimi strumenti per correlare i fatti; nega però che possa ancora
assolvere un’analoga funzione. L’utilità, che esso indubbiamente rivelò in passato,
dipende in realtà, come dimostra un’attenta analisi storica, dal fatto che le stesse
nozioni generali cui il meccanicismo faceva ricorso erano inconsapevolmente ricavate
dall’osservazione; la pretesa che le medesime nozioni risultino perennemente valide,
equivale all’affermazione, del tutto ingiustificata, che l’esperienza non potrà in alcun
modo subire arricchimenti tali da suggerirci nuove categorie, diverse da quelle
costituitesi in una fase antecedente della ricerca. L’interesse di Mach per la storia della
scienza trova proprio qui le sue radici, deriva cioè dalla capacità, insita in tale storia, di
mettere a nudo l’effettiva origine empirica delle nozioni che siamo soliti accogliere
come evidenti, assolute, immodificabili, e di farci quindi comprendere che abbiamo
pieno diritto di modificarle, correggerle, e anche abbandonarle. Così interpretata, essa
diventa quindi una nuova potentissima arma contro il meccanicismo; ci dimostra che
nessuna teoria scientifica, per quanto affermata e rispettabile come la meccanica, è
autorizzata a farci chiudere gli occhi di fronte a ciò che concretamente osserviamo; che
nessun dogma può venir invocato per nascondere o soffocare la ricchezza dei dati
empirici. È evidente il legame tra la polemica machiana contro il meccanicismo e quella
di Comte contro la metafisica, per cui a buon ragione Mach può essere considerato un
positivista. Non va però dimenticata una notevole differenza: mentre per Comte il puro
e semplice avvento della scienza segnava, in qualsiasi campo, la fine della metafisica,
per Mach invece il periodo metafisico è sempre presente, nascondendosi nelle pieghe
stesse delle più accredidate teorie scientifiche. La stessa meccanica classica galileianonewtoniana, è carica di presupposti metafisici, e se all’inizio essi non erano in grado di
arrecarle nessun danno, oggi invece sono pericolosissimi potendo frenare e distorcere lo
sviluppo di tutta la scienza. Di qui la necessità di snidarli, di combatterli, di eliminarli
con il più coraggioso spirito critico. L’istanza antimetafisica comtiana si trasforma così
in istanza metodologica interna alla scienza, diventando così uno degli sbocchi più
accettabili e fecondi dell’indirizzo positivistico.
Mach, che aveva una rilevante competenza nel campo delle scienze fisiche, è uno
dei filosofi che meglio comprendono certe radicali trasformazioni teoriche del sapere
scientifico dell'epoca. Nella Meccanica nel suo sviluppo storico-critico (1883) egli dà anzi un
importante contributo a tale trasformazione demolendo la fede dogmatica nella
meccanica quale fondamento ultimo e definitivo della fisica, compiendo un esame
rigoroso e completo dei concetti che stanno alla base della meccanica e che si erano
consolidati nel corso dei secoli, che gli consente di portare una luce veramente nuova
sui fondamenti e sul valore scientifico del maestoso edificio, aprendo definitivamente la
via a una nuova fase critica dell’intera fisica. E da non trascurare, la storicizzazione
delle pretese verità universali della scienza, delineando una concezione non più
assoluta ma funzionale (cioè relativa a determinati presupposti e contesti) della legge
scientifica. Con molta, e molto moderna, lucidità egli assegna al sapere il compito non
già di cogliere improbabili (e comunque meta-empiriche) essenze naturali, bensì di
comprendere le strutture e i comportamenti dei dati fenomenici.
In questa opera affronta uno dei problemi più interessanti sia dal punto di vista
storico sia da quello filosofico: lo svolgimento dei principi della dinamica in Galileo,
Huygens e Newton. Secondo Mach essi sono sostanzialmente quattro: 1)
generalizzazione del concetto di forza; 2) enunciazione del concetto di massa; 3)
formulazione precisa e generale del parallelogramma delle forze; 4) enunciazione del
principio dell’uguaglianza di azione e reazione. I due punti sui quali si accentra in
20 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
particolare la sua critica sono il concetto di massa e il principio di azione e reazione.
Mach dimostra facilmente che la definizione newtoniana della massa di un corpo come
“la sua quantità di materia misurata dal prodotto del suo volume per la densità”
contiene un manifesto circolo vizioso, dato che la densità non è altro che il rapporto tra
la massa e il volume. In realtà il concetto di massa proviene, secondo Mach, da un fatto
empiricamente accertabile: l’esistenza nei corpi di “una particolare caratteristica che
determina accelerazione”. Ne segue che il confronto tra le masse di due corpi dovrà
venire eseguito confrontando l’accelerazione che il primo comunica al secondo con
quella (inversa) che il secondo comunica al primo quando essi agiscono un o sull’altro; e
ciò dimostra l’inscindibile legame che connette tale concetto con il principio di azione e
reazione, sicchè Mach può concludere che i due “dipendono l’uno dall’altro, cioè l’uno
suppone l’altro”, e precisando ancora meglio, il principio di azione e reazione “è
incomprensibile se non si possiede un concetto corretto della massa; ma una volta che
questo concetto sia stato formulato in base a esperienze dinamiche, esso è inutile”. Oggi
tutti gli epistemologi concordano sull’impeccabilità di questa analisi. In modo analogo
Mach dimostra che il primo e il secondo principio della dinamica sono già contenuti
“nella definizione della forza, secondo la quale senza forza non si verifica
accelerazione, e quindi si verifica quiete o moto rettilineo uniforme”. Pericolosissima
risulta, secondo Mach, l’interpretazione dei principi della dinamica quali verità
assolute, in primo luogo perché nasconde gli effettivi loro legami con i fatti, in secondo
luogo perché li trasforma in dogmi intoccabili: “La ricerca storica sullo svolgimento
avuto da una scienza è indispensabile, se non si vuole che i principi che essa abbraccia
degenerino a poco a poco in un sistema di prescrizioni capite solo a metà, o addirittura
in un sistema di dogmi. L’indagine storica non soltanto fa comprendere meglio lo stato
attuale della scienza, ma, mostrando come essa sia in parte convenzionale e
accidentale, apre la strada al nuovo”. Alla meccanica, primogenita fra le scienze fisiche
moderne, non compete alcun privilegio intrinseco, ma soltanto un valore storico
contingente e perciò storicamente modificabile: “Lasciamoci condurre per mano dalla
storia. La storia ha fatto tutto, la storia può cambiare tutto”.
Di altre nozioni - lo spazio, il tempo, il movimento - Mach dà una nuova versione
in chiave empiristica, che eserciterà una notevole influenza su Einstein. Per Newton le
nozioni di spazio, tempo e moto assoluti traevano origine sia da ragioni fisiche
(giustificare il principio di inerzia e l'esistenza privilegiata di osservatori inerziali), sia
da ragioni metafisiche (giustificare la presenza e l’azione di Dio nello spazio e nel
tempo). Leibniz si era opposto a questa visione, essendo sostenitore di una “concezione
relazionale” che interpretava spazio e tempo solo in relazione agli oggetti fisici, ma lo
spazio assoluto di Newton, infinito, tridimensionale, omogeneo, indivisibile,
immutabile, vuoto che non offriva alcuna resistenza ai corpi che in esso si muovevano o
restavano a riposo divenne lo spazio accettato della fisica newtoniana e della
cosmologia. D'altra parte, gli effettivi progressi della meccanica tra il Settecento e
l’Ottocento furono scarsamente influenzati dalla nozione di spazio assoluto e tempo
assoluto. Mach non solo respinge come inutili e metafisici i concetti newtoniani di
tempo, spazio e movimento assoluti, ma cerca di porre in luce l’incontestabile contenuto
empirico effettivamente implicato da ogni nostra nozione al riguardo.
“Dire che una cosa A muta con il tempo significa semplicemente dire che gli
stati di A dipendono da quelli di un’altra cosa B. le oscillazioni di un pendolo
avvengono nel tempo, in quanto la sua escursione dipende dalla posizione della terra.
Dato però che non è necessario prendere in questa considerazione questa dipendenza, e
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
21 possiamo riferire il tempo a qualsiasi altra cosa i cui stati naturali dipendano dalla
posizione della terra, si crea l’impressione errata che tutte queste cose siano
inessenziali”. È indubbiamente vero che noi possiamo riferire le oscillazioni del pendolo
ai nostri stati psichici anziché a corpi esterni, onde scopriremo “che a ciascuna
posizione del pendolo corrispondono nostre sensazioni e pensieri diversi … Ma non
dobbiamo dimenticare che tutte le cose sono in dipendenza reciproca e che noi stessi,
con i nostri pensieri, siamo solo una parte della natura”. In altre parole, la
rappresentazione del tempo proviene da qualcosa di empirico, dalla constatazione della
reciproca dipendenza di tutte le cose (ivi inclusi le nostre sensazioni e i nostri pensieri);
voler parlare di un tempo in sé, che prescinda da tale dipendenza, è quindi
semplicemente illusorio, è il frutto di un’arbitraria ipostatizzazione. Ne segue che un
moto potrà dirsi uniforme “solo in rapporto ad un altro. Il problema se un moto sia
uniforme in sé è privo di significato”. E ancora la critica di Mach si incentra soprattutto
sui fatti che secondo Newton fornivano solide basi alle nozioni di spazio e moto
assoluto: “Consideriamo ora i fatti sui quali Newton ha creduto di fondare solidamente
la distinzione tra moto assoluto e moto relativo. Se la Terra si muove con moto
rotatorio assoluto attorno al suo asse, forze centrifughe si manifestano su di essa, il
globo terrestre si appiattisce, il piano del pendolo di Foucault ruota, ecc. Tutti questi
fenomeni scompaiono se la Terra è in quiete, e se i corpi celesti si muovono intorno ad
essa di moto assoluto, in modo che si verifichi ugualmente una rotazione relativa.
Rispondo che le cose stanno così solo se si accetta fin dall'inizio l'idea di uno spazio
assoluto. Se invece si resta sul terreno dei fatti, non si conosce altro che spazi e moti
relativi”.
Impostato così il problema, è chiaro che Mach dovrà affermare che anche la
quiete è relativa, ed inoltre che è relativa la stessa nozione di forza: ogni volta che noi
constatiamo l’esistenza di corpi che si muovono con velocità diverse, noi possiamo
parlare di forze, rispettivamente collegabili alla massa di ciascuno di tali corpi. Ma non
vi è motivo di non collegarle anche ai corpi in quiete, dato che è privo di significato
parlare di quiete assoluta. Noi non potremmo più introdurre il concetto di forza, solo se
tutti i corpi fossero in quiete, e cioè se l’esperienza non ci facesse constatare che di fatto
esistono copri i quali si muovono con velocità diverse. Il punto fondamentale, e anche
quello di partenza per tutte le considerazioni fatte, di Mach è quindi l’esclusione
dall'ambito della riflessione tutto quanto non può essere riportato alla diretta
esperienza empirica. Bisogna rinunciare "a rispondere a domande riconosciute prive di
senso" e il "senso" manca dove non è possibile mostrare i dati sensibili che potrebbero
confermare una determinata asserzione. Là dove i sensi non possono giungere non v'è
per Mach, propriamente parlando, nulla. In definitiva, secondo Mach, il tempo, lo
spazio e il moto assoluti sono soltanto “puri enti ideali, non conoscibili
sperimentalmente”.
Anche l'interpretazione data da Newton all'esperienza del secchio rotante, per
dimostrare l’esistenza di moti assoluti, è quindi criticabile: “L'esperimento newtoniano
del secchio d'acqua rotante semplicemente ci dà informazioni sul fatto che la rotazione
relativa dell'acqua rispetto alle pareti del secchio non produce forze centrifughe
percepibili, ma che tali forze sono prodotte dal suo moto relativo alla massa della Terra
e agli altri corpi celesti. Non ci insegna nulla di più. Nessuno può dire quale sarebbe
l'esito dell’esperimento se le pareti del secchio diventassero sempre più massicce, fino a
uno spessore di qualche miglio”.
La sottigliezza e il rigore di queste argomentazioni sono indiscutibili e
dimostrarono a tutti, anche a quelli meno persuasi, la necessità di riflettere criticamente
22 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
sulla dinamica newtoniana, non più accettabile ormai come qualcosa di acquisito una
volta per sempre. E con ciò apersero la via alla rivoluzione einsteiniana.
Tra le molte conclusioni che si possono trarre dalle critiche della meccanica
newtoniana, due sono particolarmente significative. La prima è che risulta sfatata in
maniera definitiva l’idea, largamente diffusa nel Settecento, che i principi della
dinamica rappresentassero delle verità assolute e evidenti, non bisognose di conferma
empirica, ma anzi capaci di garantire a priori la validità delle leggi scientifiche
particolari, dimostrabili entro il quadro della meccanica. La seconda è che la meccanica
deve rinunciare alla posizione privilegiata di cui godeva rispetto alle altre scienze,
cosicchè non si potrà più fare ricorso ad essa, come molti speravano, per realizzare, sia
pure in linea ideale, l’unificazione del sapere scientifico. Tale posizione privilegiata era
dovuta, secondo Mach, unicamente al fatto che la meccanica venne studiata con metodo
scientifico prima delle altre discipline, ma “la conoscenza più antica in ordine di tempo
non deve necessariamente restare il fondamento dell’intelligibilità di ciò che si è
scoperto più tardi”. Pertanto, l’evidenza di una legge o di una nozione scientifica non
proviene da una presunta capacità, insita in essa, di svelarci una realtà più profonda di
quella spettante al mondo empirico; tale evidenza proviene solo dall’abitudine, cosicchè
può accadere che una nozione venga pacificamente accolta come evidente in un’epoca
mentre in altre apparire quasi inaccettabile. Il vero compito dello scienziato non potrà
quindi essere quello di trascendere i fenomeni per scoprire al di sotto di essi qualcosa di
più essenziale, ma semplicemente quello di astrarre dal variopinto mondo
dell’esperienza alcune semplici relazioni che colleghino un certo gruppo di fenomeni ad
un altro: “Nella ricerca scientifica importa solo la conoscenza della connessione dei
fenomeni”.
Stando così le cose, quale potrà essere il criterio di base a cui lo scienziato
attribuirà maggiore importanza a certe connessioni rispetto a certe altre? In conformità
al principio dell'economicità della conoscenza (Occam) Mach aggiunge che le
connessioni più importanti sono quelle più semplici, più rapide e più controllabili. La
formulazione delle connessioni in esame risulterà senza dubbio opera dell’uomo, e
perciò avrà un carattere sostanzialmente convenzionale, magari avvalendosi del
linguaggio matematico per la sua ben nota esattezza e rigore; ma l’oggetto in esame di
cui si vuole formulare una legge, sarà sempre una connessione empirica, cioè qualcosa
che può venire confermata o smentita dall’osservazione dei fatti. Il lavoro dello
scienziato non può né limitarsi alla pura descrizione dell’esperienza, che è comunque
sempre incompleta, né aver di mira l’illusoria ricerca di principi forniti di una validità
logica, indipendente dall’esperienza; consiste invece nella formulazione di nessi che
l’esperienza è in grado di confermare o smentire parzialmente e che nel contempo si
estendono al di là delle esperienze già eseguite: “Le idee sono tanto più scientifiche
quanto più esteso è il dominio in cui hanno validità e più ricco è il modo con cui
completano l’esperienza. Nella ricerca si procede secondo il principio di continuità, che
solo può offrire una concezione utile ed economica dell’esperienza”. Mach non ritiene
fra loro incompatibili il carattere convenzionale delle leggi scientifiche e l’origine
empirica della loro validità. Così non ritiene che il parlare di economicità delle nostre
concezioni della natura significhi riconoscere implicitamente che esse sono qualcosa di
meramente soggettivo. È vero che siamo noi a qualificare una connessione fra fenomeni
con i caratteri di semplicità, rigore e larga applicabilità, ma è pur vero che spetta
all’esperienza e ad essa sola di provarci se effettivamente una data connessione gode
oppure no di tali caratteri. Parlare di economicità di un sistema di leggi non significa
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
23 relegare tale sistema al campo dell’utile, e quindi negargli ogni valore conoscitivo;
significa invece fare riferimento alla sua capacità essenzialmente conoscitiva, di fornirci
una visione unitaria del mondo fenomenico. In sostanza, il progresso della scienza
conduce alla restrizione, cioè alla determinazione e precisione crescente, delle nostre
attese del futuro. Certamente questa determinazione e precisione non può ottenersi se
non astraendo, semplificando, schematizzando i fatti fisici e costruendo elementi ideali
che, come tali, non si trovano mai in natura, come sono, ad esempio, i moti uniformi e
uniformemente accelerati, le correnti termiche ed elettriche stazionarie, le correnti di
intensità uniformemente crescente e decrescente: “Una proposizione scientifica non ha
mai altro significato che quello ipotetico [...]”. Pertanto, concetti, leggi e teorie non
hanno una portata ontologica di tipo metafisico, ma soltanto un valore “economico”,
come utili strumenti per organizzare le nostre percezioni sensibili e operare previsioni.
In tal senso sono convenzionali e rivedibili, e possono essere abbandonati e mutati, e
perciò non è possibile parlare di verità della conoscenza scientifica, e l’idea che la
meccanica sia la vera rappresentazione del mondo fisico e costituisce la base, il
fondamento della fisica, è un’idea che resta definitivamente assegnata alla sua natura di
semplice pregiudizio.
In quest’ordine di considerazioni si inquadrano due tesi fondamentali di Mach:
1) il suo antiatomismo; 2) la sua affermazione del carattere funzionale (non casuale)
delle leggi scientifiche.
La ragione dell’avversione alla concezione atomistica dei fisici meccanicisti a lui
contemporanei è dovuta al fatto che, secondo tali scienziati, l’atomo costituirebbe la
vera realtà della natura, realtà non afferrabile dall’osservazione ma dotata ciò malgrado
delle proprietà comunemente attribuite ai corpi effettivamente osservati, e capace, sulla
base di queste proprietà, di darci la ragione ultima dei fenomeni. Così inteso, l’atomo è
un ente di ragione, non di fatto; è un postulato metafisico, non un oggetto di ricerca
fisica. La sua accettazione non potrà che disturbare le nostre libere indagini
sull’esperienza; introdurrà nella fisica qualcosa di dogmatico, che non potrà non essere
di impedimento al suo sviluppo. Ma anche per quanto riguarda i corpi empirici (che
pure sembrerebbero oggetto di esperienza sensibile) bisogna evitare pericolosi
fraintendimenti, derivanti da presupposti realistici e fattualistici che Mach combatte con
ancor maggior radicalità. Considerati con rigore, i corpi empirici non esistono come tali,
non hanno alcuna consistenza di tipo sostanzialistico. Ciò che esiste è solo una serie di
sensazioni semplici, irriducibili, tra loro intimamente congiunte in una sorta di flusso
continuo. Spesso anche Mach preferisce chiamare queste sensazioni "elementi", per
cercare di non dare una connotazione soggettivo-psicologica al suo pensiero. La sua tesi
principale è, in ogni caso, che: "non sono i corpi che generano le sensazioni, ma sono i
complessi di sensazioni che formano i corpi … Le sensazioni non sono i simboli delle
cose. Piuttosto è la cosa un simbolo mentale per un complesso di sensazioni
relativamente stabili". E ancora: "Non le cose, ma i colori, i suoni, le pressioni, gli spazi,
i tempi (ciò che noi ordinariamente chiamiamo sensazioni), sono i veri elementi
dell'universo". E quindi, in linea con la sua posizione antiatomistica, gli atomi di data
forma e velocità, che noi pensiamo come veri costituenti dei corpi, non sono altro che
immagini che noi deriviamo dalla nostra effettiva esperienza, dagli elementi, attraverso
un procedimento intellettuale, astrattivo e, in fin dei conti, ipotetico. Non bisogna
peraltro interpretare queste tesi come ritorno puro e semplice a un vecchio sensismo
fenomenistico di tipo berkeleyano (esse est percipi: l’essere è l’essere percepito).
Nell'Analisi delle sensazioni (1886) lo stesso Mach, pur non tacendo la sua simpatia per
24 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Berkeley (e per Hume), respinge esplicitamente un avvicinamento delle sue posizioni a
quelle del filosofo irlandese. In effetti egli considera la realtà come qualcosa di più
complesso che la mera risultante di un insieme di sensazioni: "devo osservare che
neppure per me il mondo è una semplice somma di sensazioni. Io parlo piuttosto,
espressamente, di relazioni funzionali degli elementi".
Analogo è il motivo per cui Mach si oppose alla pretesa che la scienza debba
cercare le cause dei fenomeni. Nel concetto di causa è sempre implicito un carattere di
necessità che dovrebbe determinare in un certo modo, ad esclusione di altri, la
produzione dell’effetto. Orbene, l’esperienza non ci pone mai in grado di constatare
questa necessità, per cui, parlando di causa, noi siamo spinti a trascendere il mondo dei
fatti osservati. Se vogliamo realmente limitarci a ciò che l’esperienza ci insegna,
dovremo semplicemente parlare di nessi funzionali, applicando alla fisica il concetto di
funzione, rivelatosi da tempo fondamentale in tutta la matematica. Questo ci
permetterà, fra l’altro, di enunciare in forma rigorosa anche dei tipi di connessione fra
fenomeni che non rientrano nei soliti schemi casuali (gli unici usati dalla fisica
meccanicistica). È fuori dubbio che la concezione così delineata basata sul più schietto
fenomenismo e sul principio di economia, porta non di rado Mach ad affermazioni che
sembrano improntate a un manifesto soggettivismo. Così per esempio quando egli
afferma, a proposito dell’ottica geometrica, che “nella natura non esiste la legge di
rifrazione, ma esistono solo molti casi di questo fenomeno. La legge di rifrazione è un
metodo di ricostruzione concisa, riassuntiva, fatta a nostro uso, e inoltre unicamente
relativa all’aspetto geometrico del fenomeno”. Non dobbiamo però dimenticare che con
queste affermazioni Mach ha soprattutto di mira un intento polemico, vuole sfatare
l’opinione che la legge in esame sia una relazione necessaria che obbliga i raggi a
comportarsi in un certo modo anziché in un altro, se di fatto i casi concreti del
fenomeno non rientrassero nella legge anzidetta, lo scienziato dovrebbe modificare la
legge, non già negare i dati osservativi. Qualunque legge scientifica è modellata su ciò
che noi abbiamo osservato in passato, e potrà sempre venire corretta in base a ciò che
osserveremo in futuro; è solo la metafisica che pretende di sottrarsi al costante controllo
dell’esperienza.
Lo sforzo machiano è di sottolineare il contenuto non meramente psicosoggettivo dei fenomeni costituenti il mondo. D'altronde anche la sensazione in sé e per
sé tende in Mach a sganciarsi da un troppo immediato riferimento all'io, al soggetto. La
sua oggettività è garantita dall'oggettività delle sue matrici fisiologiche e
dall'elaborazione scientifica cui è sottoposta. In effetti, uno degli aspetti più significativi
del pensiero machiano è proprio il tentativo di autonomizzare i fenomeni, e la
riflessione su di essi, dalla soggettività. Non può, egli scrive, interpretare correttamente
il mondo chi "non è in grado di abbandonare l'idea dell'io considerato come una realtà
che sta alla base di tutto". La modernità del pensiero machiano sta, tra l'altro, proprio in
questa sua concezione di un mondo senza "base", senza fondamento; cioè un mondo
dove semplicemente avvengono certi fenomeni che si tratta di spiegare nel modo più
immediato e sobrio possibile, attraverso l'uso di quelle osservazioni empirico-sensoriali
e di quelle misurazioni fisico-matematiche che saranno di lì a poco privilegiate dai
neopositivisti. Un altro aspetto del pensiero di Mach sul quale occorre richiamare
l'attenzione è l'efficacia con cui si è saputo sbarazzare di tutta una serie di categorie e
principi gnoseologici (la sostanza, l'accidente, lo stesso assetto categoriale kantiano) che
apparivano non più attuali.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
25 Per quanto riguarda la realtà del soggetto umano, Mach non riserva ad essa
alcun trattamento privilegiato. Così come le 'cose' sono solo insiemi di sensazioni (o di
"elementi"), anche l'io deve essere privato di qualsiasi particolare consistenza
ontologica. Esso è composto degli stessi "elementi" che si ritrovano sia nelle 'cose' che
negli altri soggetti: ciò consente, fra l'altro, di garantire la relazione io-mondo nonché la
comunicazione intersoggettiva. Certo, "non si può considerare esaurito l'io quando, in
modo del tutto provvisorio, si dice che consiste in una connessione peculiare degli
elementi". Occorre, in effetti, approfondire la natura di questa connessione, sollecitare
"psicologi, fisiologi e psichiatri" ad un'analisi più sistematica di questo ente. Ma
fondamentalmente Mach ribadisce il suo rifiuto di considerare l'io come qualcosa di
'consistente', di 'oggettivo', di 'sostanziale'. L'io, per lui, è solo un complesso di "ricordi,
disposizioni, sentimenti"; esso è "così poco persistente in assoluto, come i corpi". Non può
non colpire il fatto che questa radicale demitizzazione dell'io avvenga negli stessi anni
in cui tanti esponenti della cultura europea d'avanguardia, da Nietzsche a Freud,
andavano anch'essi 'de-costruendo' in più modi la soggettività umana.
Per completare l’indagine sul pensiero di Mach, ci resta da trattare il problema
dell’unità del sapere scientifico. Già sappiamo che lo scienziato meccanicista riteneva di
poter trovare nella meccanica il fondamento dell’unità delle scienze, in quanto tutte le
leggi scientifiche dovrebbero risultare, se indagate nelle loro ultime cause,
completamente riducibili a leggi meccaniche. Mach respinge per principio tale
riduzione, ma non per questo condanna il programma di unificare le scienze; ritiene
però che esso vada attuato attraverso la delineazione di una nuova fisica rigorosamente
aderente ai fenomeni e non avente più la pretesa di trascenderli, facendo appello agli
atomi o ad altre entità inosservabili, sottostanti all’esperienza. Tale fisica avrebbe
dovuto contenere come propria parte la meccanica, senza però ridursi ad essa. Egli
ritenne di scorgere nella termodinamica il nucleo della nuova scienza unitaria; i principi
della termodinamica, seppur legati a quelli della meccanica, posseggono infatti una
generalità molto maggiore e rivelano una maggiore aderenza all’esperienza, in
particolare il secondo principio che introduce la nozione di irreversibilità estranea alla
meccanica.
Fu il trionfale successo dell’atomistica a rivelare i limiti della fisica fenomenistica,
che pretendeva di ridurre l’oggetto della scienza ad una rapsodia di percezioni, di fare
della scienza il frutto delle impressioni che gli oggetti lasciano sui sensi, e non invece un
libero processo costruttivo della nostra attività teoretica, implicante vaste possibilità di
previsioni (il puro fenomenismo non ne chiarisce in alcun modo l’origine) a partire da
determinate strutture rappresentative, da coordinazioni logiche e concettuali.
Comunque, i due punti fondamentali della dottrina di Mach: l’interpretazione dei
concetti come segni, e quella delle leggi scientifiche come strumenti di previsione,
costituiscono i due cardini della fase critica della fisica che la teoria della relatività e la
meccanica quantistica porteranno a compimento.
Su una linea in larga parte convergente con quella di Mach, al quale
esplicitamente si richiama, si muove l'analisi critica della natura delle teorie fisiche, e
quindi anche della meccanica di Newton, sviluppata da Pierre Duhem (1861-1916). Le
tesi più originali di Duhem, esposte nell’opera La theorie physique (1906), sono
essenzialmente due.
La prima tesi: se le teorie fisiche avessero per oggetto la spiegazione delle leggi
sperimentali, la fisica teorica non sarebbe a giudizio di Duhem una scienza autonoma,
26 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
ma una scienza subordinata alla metafisica. Secondo lui, infatti, è facile scoprire, al di
sotto di ogni presunta spiegazione fisica, una postulazione metafisica sulla costituzione
della materia. Proprio per poter difendere l'autonomia della fisica nei confronti della
metafisica, si dovrà dunque ammettere che una teoria fisica non è una spiegazione, ma
soltanto “un sistema di proposizioni matematiche, dedotte da un ristretto numero di
principi, che hanno lo scopo di rappresentare nel modo più semplice, più completo e più
esatto, un insieme di leggi sperimentali”. Non è difficile comprendere l'importanza di
questa sostituzione della funzione del “rappresentare” a quella dello “spiegare”. Vale la
pena riferire alcune considerazioni con cui egli illustra tale importanza: “Così, una
teoria vera non dà una spiegazione delle apparenze fisiche conforme alla realtà; essa
rappresenta in modo soddisfacente un insieme di leggi sperimentali; una teoria falsa
non è un tentativo di spiegazione fondato su presupposizioni contrarie alla realtà, ma
un insieme di proposizioni che non concordano con le leggi sperimentali”. Ma quale
potrà essere l'utilità di una teoria fisica, se escludiamo che essa possa “spiegare le
apparenze fisiche conforme alla realtà”? In primo luogo sarà quella di realizzare
un'economia intellettuale; già la sostituzione di una legge sperimentale ai fatti concreti
ci procura una siffatta economia, ma un'economia ancora maggiore sarà procurata dalla
concentrazione di più leggi sperimentali in una teoria. In secondo luogo l'utilità di una
teoria fisica risiederà nel fatto che tale teoria è anche una classificazione delle leggi
sperimentali, cioè una ripartizione di esse su diversi piani, uno subordinato all'altro. E
Duhem, giunto a questa concezione positivista e pragmatica della natura, era
completamente d'accordo con Mach nel proclamare che la teoria fisica è innanzitutto
una 'economia di pensiero'. Per lui tutte le ipotesi basate su immagini sono transitorie e
instabili; solo le relazioni di natura algebrica che le teorie-sonda hanno individuato tra i
fenomeni possono durare imperturbabili.
La seconda tesi di Duhem riguarda la portata del metodo sperimentale, cioè del
metodo che la scienza moderna considera come lo strumento privilegiato per la
dimostrazione dei propri risultati. Le critiche che formula a proposito di tale metodo
possono essere riassunte in questi sei punti.
1. Che cosa è esattamente un'esperienza di fisica? Un'analisi sottilissima conduce
Duhem a fornire una risposta assai sorprendente, ma di cui è difficile negare la
fondatezza: “Un esperimento di fisica non consiste soltanto nell'osservazione di un
fenomeno, ma anche nella sua interpretazione teorica”. E come se ciò non bastasse,
Duhem ne ricava poi il seguente corollario: “La sola interpretazione teorica dei
fenomeni rende possibile l'uso degli strumenti”.
2. Il metodo sperimentale applicato nella fisica fa corrispondere ai fatti osservati una e
una sola legge? La risposta è decisamente negativa: ad uno stesso insieme di fatti si
può far corrispondere un'infinità di formule diverse, di leggi fisiche distinte;
ciascuna legge, per essere accettata, dovrà far corrispondere a ogni fatto non già il
simbolo del fatto, ma uno qualunque dei simboli—in numero infinito—in grado di
rappresentare quel fatto. Se ne ricava che: “Ogni legge fisica è una legge
approssimativa, e di conseguenza per il logico rigoroso essa non può essere né vera,
né falsa. Ogni altra legge rappresentante le stesse esperienze con la medesima
approssimazione può aspirare, tanto quanto la prima, al titolo di legge vera o, più
esattamente, di legge accettabile”.
3. Un esperimento di fisica non può mai condannare un'ipotesi isolata, ma soltanto
tutto un insieme teorico. Duhem sottolinea la novità di questa tesi in questi termini:
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
27 “Si pensa comunemente che ogni ipotesi di cui la fisica fa uso possa essere presa
isolatamente e sottoposta al controllo dell'esperienza, poi, quando prove svariate e
molteplici ne hanno constatato il valore, può essere collocata in modo definitivo nel
sistema della fisica. In realtà non è così. La fisica non è una macchina che si lasci
smontare; non si può verificare ogni pezzo isolatamente e attendere, per ripararlo,
che la solidità ne sia stata minuziosamente controllata. La scienza fisica è un
sistema che bisogna prendere nella sua interezza, è un organismo di cui non si può
far funzionare una parte senza che quelle più lontane entrino in gioco, le une di più,
le altre di meno, ma tutte in qualche misura”.
4. Questo punto riguarda la critica del cosiddetto experimentum crucis: “Supponente che
esistano soltanto due ipotesi, e cercate condizioni sperimentali tali che l'una
annunci la produzione di un fenomeno e l'altra la produzione di un fenomeno
completamente diverso; realizzate le condizioni e osservate cosa succede. A seconda
che osserviate il primo dei fenomeni previsti o il secondo, condannerete la seconda
ipotesi o la prima”. Ebbene, un procedimento del genere, mentre è perfettamente
lecito in matematica, non lo è in fisica: “Tra due teoremi di geometria tra loro
contraddittori non c'è posto per un terzo giudizio: se l'uno è falso, l'altro è
necessariamente vero. Due ipotesi di fisica costituiscono mai un dilemma
altrettanto rigoroso? Oseremo mai affermare che non è immaginabile nessun'altra
ipotesi?”
5. Il quinto punto consiste nella critica della pretesa di poter dimostrare direttamente,
mediante l'induzione, le ipotesi a partire dalle quali le teorie fisiche svolgono le loro
conclusioni. L'autorità dello scienziato a cui può venire fatta risalire tale pretesa è
Newton, e la conclusione che Duhem ne trae è che il metodo newtoniano di
dimostrare una a una le ipotesi delle teorie fisiche è assolutamente chimerico: “Il solo
controllo sperimentale della teoria fisica che non sia illogico consiste nel confrontare
l'intero sistema della teoria fisica con tutto l'insieme delle leggi sperimentali e nel
valutare se il secondo insieme è rappresentato dal primo in modo soddisfacente”.
6. Il sesto punto consiste nella risposta al quesito: ma quale sarà allora il metodo che il
fisico dovrà seguire per la scelta delle ipotesi da portare alla base delle sue teorie?
Certamente una scelta non gli può venire suggerita dalla logica, che si limita a
prescrivergli di evitare le contraddizioni. Né le ipotesi possono essere dedotte da
assiomi forniti dalla conoscenza comune. La risposta di Duhem al quesito è
sconcertante nella sua semplicità: “Il fisico non sceglie le ipotesi sulle quali fondare
una teoria”; tali ipotesi non sono infatti “il prodotto di un'ideazione improvvisa”, ma
sono “il risultato di una progressiva evoluzione”. Di qui l'importanza del metodo
storico nell'esposizione della fisica: “Soltanto la storia della scienza può
salvaguardare il fisico dalle folli ambizioni del dogmatismo, come anche dalle
disperazioni del pirronismo. Descrivendo la lunga serie degli errori ed esitazioni che
hanno preceduto la scoperta di ogni principio, essa lo mette in guardia contro le
false evidenze; ricordandogli le vicissitudini delle scuole cosmologiche [filosofiche],
facendo riemergere dall'oblio dove giacciono le dottrine che un tempo trionfarono,
essa lo costringe a ricordare che i sistemi più seducenti altro non sono che
rappresentazioni provvisorie e non già spiegazioni definitive. Illustrandogli la
tradizione continua secondo cui la scienza di ogni epoca si è nutrita con i sistemi
dei secoli passati e con cui è piena della fisica dell'avvenire, citandogli le profezie
formulate dalla teoria e realizzate dall'esperienza, essa crea e rafforza in lui la
convinzione che la teoria fisica non è un sistema puramente artificiale, oggi utile e
domani non più, che essa è vieppiù una classificazione naturale, un riflesso sempre
28 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
più chiaro della realtà con cui il metodo sperimentale non saprebbe confrontarsi”.
Ciò che le singole teorie fisiche non sono in grado di fornirci, ciò che il metodo
sperimentale è impotente a farci conseguire, ci viene invece suggerito da un attento e
approfondito studio dello sviluppo storico della fisica.
Duhem fu fisico teorico di indiscutibile valore, e si occupò soprattutto di
termodinamica, dedicandosi all’edificazione di una termodinamica generale capace di
unificare i fenomeni meccanici, che aborriva, termici, elettrici e magnetici, chimici. I suoi
sforzi in questa direzione culminarono nell’opera Traité d’énergétique générale (1911).
Convinto fautore della scuola dell'energetica, Duhem, però, non seppe rendersi conto
dell'autentico peso scientifico della rinascita della teoria atomica all'inizio del XX secolo,
né riuscì a intuire i prodigiosi sviluppi cui essa avrebbe dato luogo nel giro di pochi
decenni. È chiaro che dall'inizio del XX secolo le ricerche epistemologiche hanno
compiuto notevolissimi progressi, ora sviluppando e approfondendo le tesi di Duhem,
ora invece respingendole o comunque apportandovi sostanziali modifiche. Una cosa
sembra in ogni caso sicura: che le sottili e stimolanti analisi duhemiane dimostrano, al
di là di ogni dubbio, che l'esigenza di accrescere la nostra consapevolezza intorno alla
struttura della fisica e ai metodi da essa praticati non è soltanto il frutto di una
discutibile curiosità di certi filosofi, ma si radica nel lavoro stesso degli scienziati, o per
lo meno di quelli, fra essi, più provvisti di spirito critico, più attenti all'autentico
significato del progresso scientifico.
Anche l'analisi critica delle teorie fisiche sviluppata da Henri Poincarè (18541912) approda a un depotenziamento della concezione epistemica della scienza. Per lui
nessuna forma di sapere è in grado di farci conoscere la vera natura delle cose, neppure
la scienza: “quello che essa può cogliere non sono le cose stesse, come credono gli ingenui
dogmatici, bensì soltanto i rapporti tra le cose; all'infuori di questi rapporti non vi è
alcuna realtà conoscibile”. Perciò, i concetti delle teorie scientifiche sono: “semplici
immagini, sostituite agli oggetti reali che la natura ci nasconderà eternamente”; le
teorie “hanno un senso semplicemente metaforico”; la scienza, in quanto ci fa conoscere
i rapporti fra gli oggetti, è un sistema di relazioni, “sopra tutto una classificazione, una
maniera di avvicinare i fatti che le apparenze separano”: come tale è sì oggettiva,
perchè esprime relazioni che sono comuni a tutti gli esseri pensanti, ma non è vera,
poiché una classificazione “non può esser vera ma comoda”.
Allo sviluppo di questa fase critica portò un ulteriore contributo Hertz, autore
dei Principi di meccanica (1894) che costituiscono una prima revisione critica della
meccanica classica. Accettando la teoria di Mach dei concetti come segni, Hertz
modifica conseguentemente il concetto della descrizione come compito della scienza:
“Noi ci formiamo immagini o simboli degli oggetti esterni; e la forma che diamo ad essi
è tale che le conseguenze logicamente necessarie delle immagini sono invariabilmente le
immagini delle conseguenze necessarie degli oggetti corrispondenti”. Questa
corrispondenza, non tra simboli e cose, ma tra le relazioni tra i simboli e le relazioni tra
le cose, rende possibile la previsione degli eventi che è lo scopo fondamentale della
nostra conoscenza della natura. Essa basta inoltre a garantire la validità di tale
conoscenza; e, aggiunge Hertz: “noi non abbiamo mezzo di conoscere se i nostri concetti
delle cose si accordano con le cose stesse anche sotto qualche altro aspetto che non sia
questo fondamentale”. Ma Hertz vede pure che da questo punto di vista i principi della
scienza non sono imposti alla scienza stessa dalla loro evidenza ma sono scelti in vista
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
29 di render possibile l'organizzazione deduttiva della scienza stessa. “Variando la scelta
delle proposizioni che noi assumiamo come fondamentali, possiamo dare varie
rappresentazioni dei principi della meccanica. Possiamo così ottenere varie immagini
delle cose; e possiamo mettere a prova queste immagini e paragonarle l'una con l'altra
sulla base della loro permissibilità, correttezza e appropriatezza”. Hertz stesso si
avvalse di questa libertà, certamente non arbitraria, di scegliere i principi di una scienza
ricostruendo la meccanica sulla base delle nozioni di tempo, spazio e massa e mettendo
in secondo piano il concetto di forza. Il riconoscimento della natura convenzionale, per
quanto non arbitrario, dei principi della scienza è uno dei risultati dello sviluppo della
metodologia scientifica moderna.
Il declino del programma di ricerca meccanicistico e la discussione critica sullo
status epistemologico delle teorie scientifiche non rappresentano ancora il momento
culminante della crisi che investe la fisica classica. Infatti, benché la meccanica di
Newton non venga più posta a fondamento della fisica, non è tuttavia messa in
discussione la validità dei suoi principi; a sua volta, la critica sviluppata da Mach,
Duhem e Poincarè della pretesa che le teorie scientifiche siano sistemi di proposizioni
vere non segna la fine della convinzione dominante secondo cui la teoria di Newton è
episteme. Il profondo mutamento della situazione scientifico-epistemologica si ha invece
con le due grandi rivoluzioni scientifiche del novecento, la teoria della relatività di
Einstein e la meccanica quantistica, che mettono in discussione lo stesso nucleo
fondamentale della rappresentazione classica del mondo fisico, modificando le leggi
della meccanica newtoniana e indicandone i limiti di validità.
2.3 La nuova metafisica della natura
Se da una parte l'opera dei filosofi-scienziati conducevano la scienza e in
particolare la fisica verso quella svolta critica che doveva accentuarsi nel terzo decennio
del XX secolo, dall’altra parte non sono mancati, anche da parte di scienziati, i tentativi
di utilizzare la scienza per una metafisica della natura.
Il chimico Wilhelm Ostwald (1853- 1932), che fu il fondatore della chimica fisica,
è il sostenitore dell'energetismo (tra i suoi scritti: L'energia e le sue trasformazioni, 1888; La
crisi del materialismo scientifico, 1895; Fondamenti della scienza dello spirito, 1909; La moderna
filosofia della natura, 1914), teoria che pose come punto di partenza di una nuova filosofia
monistica. Ostwald rileva che nuovi settori dell’indagine fisica, quali
l’elettromagnetismo, non possono essere interpretati in base alla meccanica. Ciò non
significa soltanto il fallimento del meccanicismo sul piano scientifico, ma anche il
superamento della concezione materialistica del mondo che si fonda sul meccanicismo.
Non è infatti la materia ma l’energia il substrato di tutti i fenomeni. Noi non
percepiamo direttamente coi sensi una sostanza materiale ma soltanto degli effetti
energetici. Anche l’impenetrabilità, che sembra costituire l’attributo fondamentale della
materia, è una semplice qualità sensoriale che è percepita quando vi è una differenza di
energia cinetica fra un oggetto ed il nostro organismo. La materia non è quindi che un
puro costrutto mentale e tutti i suoi aspetti possono essere risolti in energia: la massa
non è che la capacità dell’energia cinetica, l’occupare spazio è energia di volume, la
gravità non è che una particolare energia di posizione. In tal modo la materia non è
30 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
altro che un “gruppo spazialmente ordinato di diverse energie”. Ostwald sostiene
inoltre che il principio di conservazione dell’energia è la base del principio di casualità,
poiché ogni successione di causa ed effetto non è che una trasformazione di una forma
di energia in un'altra. Il secondo principio della termodinamica esprime poi in modo
assoluto la fatale irreversibilità dei fenomeni naturali e vani sono i tentativi dei
meccanicisti di ammettere una loro possibile reversibilità
Accettando l'idea fondamentale di Mach, Ostwald ritiene che la scienza non
abbia altro compito se non quello di prevedere gli avvenimenti futuri. Lo strumento di
questa previsione è il concetto, che riassume e conserva i caratteri generali e costanti
dell'esperienza passata e consente così di anticipare quella futura. Ma i concetti
scientifici sono il più delle volte concetti composti, che risultano da una scelta e da una
combinazione di elementi attinti dall'esperienza; sicché il compito della scienza si può
definire come quello di: “consentire di porre concetti arbitrari che, nelle condizioni
previste, possono trasformarsi in concetti sperimentali”. Questa concezione suppone
naturalmente che ci sia un certo determinismo negli eventi naturali, che questi eventi si
concatenino causalmente; ma poiché non conosciamo nella sua totalità la catena causale,
l'affermazione che tutto è determinato e l'affermazione opposta, che c'e nel mondo
qualcosa di non determinato e che lascia campo al libero arbitrio dell'uomo, portano in
pratica allo stesso risultato; possiamo e dobbiamo comportarci, in rapporto al mondo,
come se esso fosse solo parzialmente determinato. Queste idee coincidono
sostanzialmente con quelle di Mach. Ostwald deriva poi da Comte il principio di una
classificazione delle scienze ordinate, secondo il grado di astrazione che esse realizzano,
in tre gruppi: 1) Scienze formali, come la matematica, la geometria e la teoria del
movimento. 2) Scienze fisiche, come la meccanica, la fisica, la chimica. 3) Scienze
biologiche.
Il concetto più generale delle scienze formali è quello di coordinazione o di
funzione; mentre il concetto che domina sia le scienze fisiche sia le scienze biologiche è
quello di energia. E difatti gli esseri viventi possono procurarsi l'energia libera di cui
hanno bisogno per garantire la persistenza della vita solo dalla irradiazione solare.
L'energia libera è difatti quella che si sottrae alla degradazione dell'energia, prevista dal
secondo principio della termodinamica, ed essa sola è il fondamento della vita. Da ciò
deriva la necessità di amministrarla economicamente; e a questa economia dell'energia
libera serve l'organismo vivente, come servono i processi psichici della sensazione, del
pensiero e dell'azione, e l'organizzazione sociale. Da questo principio Ostwald deduce
anche la giustificazione della tendenza politico-sociale verso l'uguaglianza degli
uomini. La stessa scoperta del principio dell'energia non ha altro significato che quello
di economizzare una certa quantità di energia per tutte le generazioni future. Difatti
quel principio, mostrando che l'energia libera (in base al secondo principio della
termodinamica) non può che diminuire, comunica agli uomini l'esigenza e i mezzi di
risparmiarla quanto più è possibile.
Non una metafisica scientifica, ma una interpretazione metafisica della scienza è
presentata da Emile Meyerson (1859-1933), in libri sorretti da una vastissima cultura
scientifica e filosofica: Identità e realtà, 1908; La deduzione relativistica, 1925; La spiegazione
nelle scienze, 1927; Il cammino del pensiero, 1931. Secondo Meyerson, scienza e filosofia
hanno lo stesso punto di partenza, cioè il mondo della percezione e lo stesso punto di
arrivo, cioè l'acosmismo (il mondo non ha una realtà effettiva, s'identifica nell'unica
realtà di Dio) e adoperano lo stesso meccanismo fondamentale della ragione. Su questo
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
31 meccanismo vertono soprattutto le analisi di Meyerson. La sua tesi fondamentale è che
solo l'identità dell'essere con se stesso, quale fu concepita da Parmenide, è
perfettamente omogenea con la ragione e trasparente ad essa; e che perciò ogni
spiegazione razionale è una identificazione del diverso e consiste nel ricondurre
all'identità e all'immutabilità la molteplicità e il mutamento che sono dati
nell’esperienza.
Meyerson cerca di mostrare, con l'utilizzazione di un vastissimo materiale
scientifico, che tale è in primo luogo il procedimento che di fatto la ragione adopera sia
nel senso comune, sia nella scienza, sia nella filosofia; e in secondo luogo che tale deve
essere, in linea di diritto, non essendoci altro criterio o misura di intelligibilità. Il
concetto di cosa, di cui sia il senso comune sia la scienza hanno bisogno, è un caso
d'identificazione del diverso sensibile. Il concetto di causa è l'altro caso fondamentale:
giacché ogni spiegazione causale tende, secondo Meyerson, a identificare, al limite,
l'effetto con la causa. Spiegare causalmente un fenomeno significa dimostrare che in
qualche modo esso preesiste nella sua causa e cioè che v'è sostanzialmente identità tra
causa ed effetto. Nel rendere più facilmente possibile l'identificazione, consiste la
superiorità esplicativa dell’ipotesi meccanica, e delle teorie quantitative rispetto a quelle
qualitative della natura.
Il relativismo di Einstein, conducendo a risolvere la realtà fisica nello spazio
porta molto più in là dello stesso meccanismo il processo d'identificazione. Allo stesso
processo sono dovuti i principi fondamentali della fisica: quello d'inerzia e quelli di
conservazione della materia e dell'energia. Questi principi difatti non sono ammessi
sulla base della loro verifica sperimentale, che è solo imperfetta o parziale, ma perchè
sono espressioni del principio di causalità come identità delle cose nel tempo.
Tuttavia in questo processo d'identificazione la scienza incontra ostacoli o punti
di arresto che costituiscono veri e propri irrazionali. La riduzione dei fenomeni nello
schema dell'identificazione, implicando la negazione del tempo, porta a considerare i
fenomeni come reversibili; e tale infatti li considera la meccanica razionale. Ma il
secondo principio della termodinamica impedisce di ammettere questa reversibilità. Il
calore non passerà mai naturalmente da un corpo meno caldo a un corpo più caldo e ciò
stabilisce un ordine irreversibile dei fenomeni naturali. Ora il principio di Clausius è, a
differenza degli altri principi della fisica, fondato esclusivamente su fatti
dell'esperienza; di qui la sua mancanza di plausibilità e il tentativo che è sempre stato
fatto di negarlo sostanzialmente e di ristabilire la reversibilità e l'identità dei fenomeni.
Ma questo tentativo è impossibile per la presenza di quegli irrazionali che la scienza
incontra ad ogni passo. Uno di essi è la sensazione nella sua natura di dato ultimo e
irriducibile. Altri sono l'azione reciproca dei corpi, gli stati iniziali da cui partono i
sistemi di energia, la dimensione assoluta delle molecole, ecc.
Lo schema d'identificazione è proprio della scienza perchè è proprio della
ragione umana: la filosofia stessa non può che seguirlo. La sola differenza tra scienza e
filosofia è che la filosofia tenta di raggiungere di colpo e in misura completa
quell'identità che la scienza realizza solo parzialmente e provvisoriamente. La filosofia
in altri termini non può riconoscere quegli irrazionali a cui la scienza si adatta: tale
riconoscimento sarebbe per essa un suicidio. Ma l'unità della scienza e della filosofia è
sostanziale e profonda. I filosofi devono tener conto non dei risultati della scienza, ma
dei suoi procedimenti e del suo atteggiamento nei confronti del mondo esterno; e gli
scienziati non possono non fare della metafisica appena si elevano ad una concezione
32 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
generale. L'unità della scienza e della filosofia è l'unità stessa della ragione come
procedimento o schema d'identificazione.
La dottrina di Meyerson si può considerare, più che un contributo alla nuova
metodologia, la critica o la riduzione all'assurdo della vecchia metodologia fondata
sulla spiegazione causale, intesa come spiegazione razionale, dei fenomeni. In realtà la
scienza contemporanea è contrassegnata dall'abbandono di questo ideale di spiegazione
e dal ricorso all'esigenza della semplice descrizione dei fenomeni quale fu affacciata da
Newton e dalla scienza settecentesca; e poi dal ricorso all'esigenza della previsione che
già abbiamo visto prevalere nelle concezioni di Mach e Hertz e che soppianterà
definitivamente le altre negli sviluppi più moderni della scienza stessa.
2.4 Lo studio degli inosservabili e la crisi dell’intuizione in fisica
Per comprendere le ragioni più profonde dell'adesione generalizzata al
meccanicismo nelle scienze bisogna tener conto del fatto che esso offriva una base
all'intuizione. I punti materiali e le onde della meccanica erano una sorta di immagine
idealizzata del granello di sabbia o delle onde che si producono in uno stagno in cui
cade un sasso e non era difficile immaginare che, all'interno dei corpi, ci fossero entità
di questo tipo molto minuscole, ma dotate delle medesime proprietà. A partire dagli
ultimi decenni dell'Ottocento, invece, la fisica in particolare, ma anche altre scienze,
diventano sempre più scienze dell'inosservabile e la cosa è diventata del tutto generale
nel Novecento.
La transizione dall’osservazione del macroscopico al microscopico è di
importanza fondamentale perché cambia profondamente il modo di interrogare la
natura e la sua comprensione. La fisica fino al termine dell'Ottocento studiava
sostanzialmente fenomeni dell'ordine di grandezza dell'esperienza ordinaria o, come si
dice talvolta, "macroscopici". Per comprendere e spiegare le loro proprietà si
introducevano concetti limite idealizzati e si postulavano anche costituenti
"microscopici" di questi corpi, costituenti tuttavia che non erano dotati di proprietà
diverse e il cui compito era esclusivamente quello di dar ragione dei fenomeni
macroscopici studiati. Possiamo dire che questo era il mondo di oggetti della fisica
classica. Nella fisica moderna invece (che possiamo fare iniziare col Novecento, ma i cui
prodromi si verificano a fine Ottocento), sono gli enti microscopici stessi l'oggetto di
studio, ciò di cui si cerca di stabilire proprietà e leggi. Tutto questo mondo microscopico
non è osservabile nel senso tradizionale di essere accessibile alla percezione sensibile
(specialmente alla vista) e può esser considerato tale solo se si riconosce come
osservazione anche l'osservazione strumentale, la quale però coinvolge sempre più
l'accettazione di intere parti di teorie fisiche. Né vale obiettare che anche per trattare
degli inosservabili dobbiamo in ultima istanza affidarci a quanto si può direttamente
osservare dentro gli strumenti, poiché la sostanza del problema è un'altra: prima si
postulava il componente inosservabile come ipotesi per spiegare il comportamento dei
corpi osservabili, ora invece il comportamento dei corpi osservabili (per esempio degli
strumenti di osservazione e misura) viene utilizzato per scoprire le proprietà dei
componenti inosservabili. Quanto detto non vale soltanto riguardo all'infinitamente
piccolo, ma anche riguardo all'infinitamente grande, ossia a ciò che è lontanissimo nello
spazio e nel tempo (per esempio, negli studi di astrofisica e di cosmologia).
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
33 È chiaro che tutto questo è possibile grazie a un cospicuo lavoro di tipo teorico.
Tutte queste conoscenze sono possibili se non si ritiene che unica fonte legittima di
conoscenza sono le percezioni sensibili, ossia se si accorda all'intelletto una capacità di
conseguire vera conoscenza, anche quando non è più direttamente assistito
dall'esperienza sensibile. I positivisti, che erano propugnatori di un empirismo radicale,
non riuscivano ad ammettere un simile contributo dell'intelletto e pertanto si trovarono
completamente spiazzati quando la scienza incominciò a dover sempre più rinunciare a
quello che possiamo chiamare il requisito della visualizzabilità dei suoi oggetti, e la
posizione di Mach è proprio la migliore conferma di questo fatto. Avendo ridotto la
conoscenza autentica al puro contenuto delle percezioni sensibili e avendo ridotto i
prodotti dell'intelletto (concetti, leggi, teorie) a semplici espedienti economici per
ordinare e prevedere in certa misura le nostre percezioni, egli fu costretto a negare
l'esistenza fisica degli inosservabili e, per quanto stupefacente ciò possa apparire a noi
(che consideriamo atomi, molecole e particelle come costituenti normali del mondo
fisico), egli non credette all'esistenza delle molecole e degli atomi pur essendo morto nel
1916 (ossia dopo la rivoluzione relativistica e quantistica).
Le crisi del meccanicismo descritte in precedenza possono infatti esser
considerate, in sostanza, proprio come "crisi della visualizzabilità" degli enti della fisica,
nel momento in cui essi appaiono come degli inosservabili che si tenta di comprendere
mediante modelli intuitivi. Di fronte alle difficoltà emerse nella costruzione di tali
modelli si aprono sostanzialmente due strade: l'una consiste nel riconoscere che
l'intelletto è in grado di farci conoscere anche al di là di quanto è intuitivamente
modellabile, e allora si rimane in una concezione realista della scienza (ossia si ritiene
che la scienza ci faccia conoscere qualcosa della realtà); oppure si ritiene che là dove non
arriva la diretta percezione sensibile non c'è conoscenza, e allora si cade
nell'antirealismo.
L'empirismo radicale corrisponde a questa seconda scelta, ma è il caso di
sottolineare che, essendo la scienza naturale contemporanea quasi per intero una
scienza dell'inosservabile, questa opzione implica che si tolga la caratteristica di
conoscenza alla scienza, ossia a quella forma di sapere a cui la fisica classica aveva
attribuito quasi il monopolio della conoscenza.
34 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
CAPITOLO 3 LA R IVOLUZIONE R ELATIVISTICA 3.1 Premesse e conclusioni della teoria della relatività ristretta
Verso la fine del XIX secolo la maggior parte degli studiosi era convinta che le
leggi fondamentali della fisica fossero state ormai scoperte: “In fisica non c’è nulla di
nuovo da scoprire ormai” dichiarava Lord Kelvin nel 1900. Le equazioni della
meccanica newtoniana spiegavano con successo il moto degli oggetti sulla Terra e nei
cieli. L'interpretazione teorica dei principali aspetti fisici del mondo macroscopico era
poi completata dalle equazioni di Maxwell, che avevano riunito in un'unica teoria i
fenomeni elettrici e magnetici, e avevano consentito di riconoscere la natura
elettromagnetica della luce.
Però, nelle fondamenta della fisica classica avevano cominciato ad aprirsi delle
crepe, come è stato ampiamente discusso nel capitolo precedente e, in particolare, i due
gruppi di equazioni, quelle di Maxwell e di Newton, cominciavano a mostrare delle
fondamentali contraddizioni. In primo luogo, nella meccanica newtoniana ogni mutua
azione si manifesta istantaneamente, qualunque sia la distanza fra i corpi interagenti,
mentre le forze elettromagnetiche descritte dalle equazioni di Maxwell si propagano
con una velocità finita, corrispondente a quella della luce. Proprio per questo, si
comprese ben presto la necessità di elaborare una teoria che riunisse sotto una stessa
logica i principi della meccanica e dell'elettromagnetismo. In secondo luogo, gli
scienziati, per quanto si sforzassero, non riuscivano a trovare nessuna prova del moto
della Terra attraverso l’ipotetico etere, introdotto da Maxwell, per spiegare la
propagazione delle onde elettromagnetiche nel vuoto.
La storia della relatività comincia nel 1632, allorché Galileo formulò il principio
che le leggi del moto e della meccanica sono identiche in tutti i sistemi di riferimento
che si muovono a velocità costante. Per cui all’interno di una nave che si muove a
velocità costante, tutti i fenomeni che in essa avvengono, come la caduta di un sasso, il
propagarsi delle onde all’interno di un catino pieno d’acqua o il propagarsi delle onde
sonore, sono gli stessi e con le stesse modalità se la nave fosse ferma. In sostanza,
dall’analisi di questi fenomeni non siamo in grado di stabilire se la nave è ferma o è in
moto rettilineo uniforme. Tutto ciò portava ad una domanda per Einstein: la luce si
comporta nelle stesso modo? Maxwell aveva scoperto che le onde elettromagnetiche
dovevano propagarsi ad una ben determinata velocità, circa 300.000 km/s, che era
proprio la velocità con cui si propagava la luce, per cui la luce era proprio un’onda
elettromagnetica. Tutto ciò sollevava alcuni grandi interrogativi: qual era il mezzo che
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
35 consentiva la propagazione di queste onde? E la loro velocità di 300.000 km/s era una
velocità relativa a che cosa? Parve che la risposta dovesse essere che le onde luminose si
propagassero attraverso un mezzo, chiamato etere, e che la loro velocità era relativa
all’etere. In sostanza, l’etere era per le onde luminose qualcosa di simile a ciò che l’aria
era per le onde sonore, e l’idea dell’esistenza di questo mezzo universale penetrante
ovunque, così da riempire ogni spazio all’interno e all’esterno dei corpi materiali era
saldamente radicata nella fisica fino alla fine del XIX secolo.
Se la luce era davvero un’onda che si propagava attraverso l’etere, si sarebbero
dovute vedere le onde procedere a una velocità maggiore quando ci si muoveva
attraverso l’etere verso la sorgente luminosa. L’esperimento più famoso fu progettato e
condotto nel 1887 dal fisico americano Albert Abraham Michelson (1852-1931; Premio
Nobel) e dal suo assistente Edward Williams Morley (1838- 1923), con il quale volevano
dimostrare l’effetto del movimento della Terra nello spazio sulla velocità della luce
misurata alla superficie terrestre. Infatti, la Terra si muove nello spazio intorno al Sole
alla velocità di 30 km/s, dovrebbe, quindi, esistere una sorta di vento dovuto all’etere
cosmico sulla superficie terrestre o addirittura attraverso anche la sua massa. I risultati
furono negativi.
Nel 1905, a 26 anni, pubblicò sulla rivista scientifica tedesca Annalen der Physick,
tre articoli che scossero e sconvolsero l’ambiente scientifico di tutto il mondo, e che si
innalzano all’inizio del Novecento come imponenti monumenti intellettuali, piramidi
della civiltà moderna. Questi tre articoli riguardavano tre vastissimi campi della fisica: il
calore, l’elettricità e la luce. Il terzo, il più importante per gli sviluppi della fisica e
quello che ci interessa più da vicino, recava il seguente titolo: Sull’elettrodinamica dei
corpi in movimento, ed era dedicato ai paradossi nati dagli studi sulla misura della
velocità della luce. Esso costituì il primo atto ufficiale della teoria della relatività, ed una
delle più profonde e sconvolgenti rivoluzioni nel mondo della fisica e del pensiero
umano.
Ma se non esiste un etere che riempia tutto l’Universo, non ci può essere un moto
assoluto, poiché non ha senso un movimento riferito al nulla. Così, affermò Einstein, si
può parlare solo di moti di un corpo materiale rispetto ad un altro o di un sistema di
riferimento rispetto ad un altro sistema di riferimento. E allora quali postulati assumere
come assunti fondamentali di principio per la teoria? I postulati che Einstein assunse
come base per la sua Teoria della relatività speciale o ristretta, valida nel caso di sistemi in
moto rettilineo uniforme l’uno rispetto all’altro, che spazzò via tutte le contraddizioni
alle quali conduceva il modo di ragionare della fisica classica, sono i seguenti:
PRIMO POSTULATO
Principio della relatività: Le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi di
riferimento inerziali
SECONDO POSTULATO
Costanza della velocità della luce: La velocità della luce è la stessa in tutti i
sistemi di riferimento inerziali, indipendentemente dal moto della sorgente
rispetto all’osservatore.
36 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Il primo enunciato rappresenta l’estensione del principio di relatività anche ai
fenomeni elettromagnetici, ed include tutte le leggi della fisica e quindi va oltre il
principio di relatività galileiano che riguarda solo le leggi della meccanica. Il secondo
postulato è coerente con il primo: le equazioni di Maxwell non potrebbero avere la
stessa forma in tutti i sistemi inerziali se la velocità della luce non fosse una costante
universale. Inoltre, se la costanza della velocità della luce non dipende dallo stato di
moto del corpo che la emette, l’introduzione di un etere necessario per la sua
propagazione è superflua.
Però, il postulato della luce sembrava incompatibile con il principio di relatività:
immaginiamo che un raggio di luce venga inviato da un faro lungo la banchina di una
linea ferroviaria. Un
uomo
fermo
sulla
banchina che misurasse
la velocità del raggio
mentre
gli
sfreccia
accanto troverebbe che
essa è di 300.000 km/s.
Ma ora immaginiamo
che il raggio di luce venga inviato da un faro di un treno che viaggi a 3000 km/s. Ci
aspetteremmo che l’uomo misuri per il raggio di luce una velocità di 303.000 km/s,
ossia una velocità superiore a quella precedente. Questo risultato, però, è in contrasto
con il principio di relatività; infatti, proprio nel rispetto di tale principio, come per ogni
altra legge generale della natura, la legge di propagazione della luce nel vuoto deve
essere uguale tanto per il vagone ferroviario assunto come sistema di riferimento
inerziale, quanto per la banchina, intesa anch’essa come sistema di riferimento inerziale.
In altre parole, le equazioni di Maxwell, che determinano la velocità con la quale la luce
si propaga, dovrebbero operare nello stesso modo nel vagone in movimento come sulla
banchina. Non dovrebbe esistere nessun esperimento, compresa la misurazione della
velocità della luce, che consenta di distinguere quale sistema di riferimento inerziale sia
in quiete e quale sia in moto con velocità costante.
Era una conclusione strana. L’uomo fermo sulla banchina dovrebbe vedere quel
raggio sfrecciarle accanto esattamente con la stessa velocità, sia che provenga dal treno
in movimento sia dal faro fermo sulla banchina. In generale, la velocità della luce
dovrebbe essere invariante qualunque sia il moto relativo tra l’uomo e la sorgente,
anche se la velocità relativa dell’uomo rispetto al treno varierebbe, a seconda che stesse
correndo verso di esso o in direzione opposta. Tutto ciò rendeva, secondo Einstein, i
due postulati apparentemente incompatibili.
Combinando il postulato della luce con il principio di relatività, ne derivava che
un osservatore, misurando la velocità della luce, troverebbe lo stesso valore sia che la
sorgente si muovesse verso di lui o in direzione opposta, sia che lui si muovesse verso
la sorgente o in direzione opposta, sia che si muovessero entrambi o nessuno dei due.
La velocità della luce sarebbe la stessa qualunque fosse il moto sia dell’osservatore sia
della sorgente. Come superare l’apparente incompatibilità? Einstein, attraverso uno dei
più eleganti ed audaci balzi di immaginazione della storia della fisica e della scienza in
generale, si accorse che bisognava modificare drasticamente le idee sullo spazio e sul
tempo che da secoli erano considerati due enti del tutto indipendenti e che nei suoi
Principia il grande Newton così scriveva:
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
37 ü Lo spazio assoluto, per sua natura, resta sempre tale e invariabile senza alcuna
relazione con l’esterno;
ü Il tempo assoluto, vero e matematico, per sua natura scorre allo stesso modo,
senza alcuna relazione con l’esterno.
La prova sperimentale della costanza della velocità della luce, così come fece
crollare la teoria dell’esistenza di uno spazio assoluto, provocò anche un crollo
inaspettato del sistema universale di riferimento del tempo. Più precisamente,
l’intuizione decisiva era che due eventi i quali sembrano essere simultanei a un
osservatore non appariranno tali a un altro osservatore che si muove rapidamente. E
non c’è modo di dire che uno degli osservatori ha realmente ragione. In altre parole non
c’è modo di dire che i due eventi sono veramente simultanei. Einstein spiegò questo
concetto servendosi di uno dei suoi famosi esperimenti mentali che potremmo così
descrivere: due fasci di luce
emessi da una sorgente posta al
centro del vagone raggiungono le
due estremità. All’osservatore O’,
che si trova sul vagone (a), i due
eventi appaiono simultanei. Per
l’osservatore O, a terra (b), la
coda del vagone è colpita dalla
luce prima della testa: infatti,
mentre la luce viaggia alla stessa
velocità in entrambe le direzioni,
l’estremità posteriore del vagone va incontro al fronte d’onda luminoso e quella
anteriore se ne allontana. Il principio di relatività afferma che non c’è modo di stabilire
che l’osservatore O a terra è in quiete e l’osservatore O’ sul treno è in moto, ma può
solamente stabilire che essi sono in moto relativo l’uno rispetto all’altro. Quindi, non c’è
alcun modo che consenta di affermare che due eventi sono in assoluto simultanei.
Perveniamo così al seguente importante risultato: due eventi simultanei verificatesi in due
punti diversi di un sistema non appariranno tali se osservati da un altro sistema in moto rispetto
ad esso.
Einstein aveva compreso che non esiste la “simultaneità assoluta”, cioè non esiste
un insieme di eventi nell’Universo che siano tutti esistenti “adesso”. Il nostro “adesso”
esiste solo qui. L’insieme degli eventi dell’Universo non si può descrivere correttamente
come una successione di presenti.
Il concetto di simultaneità di due eventi è relativo, cioè dipende da chi osserva gli
eventi
È un’idea semplice, ma anche radicale e foriera di profondi sconvolgimenti
concettuali non solo scientifici ma anche filosofici. Significa che non esiste un tempo
assoluto. Al contrario, tutti i sistemi di riferimento in moto hanno un proprio tempo
relativo. Questa idea comporta le seguenti conseguenze sui concetti di spazio e di
tempo:
38 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
CONTRAZIONE DELLE LUNGHEZZE
DILATAZIONE DEL TEMPO
Un oggetto in moto diventa più corto
Gli orologi in moto battono il tempo più
lentamente
Il fenomeno della contrazione delle lunghezze e della dilatazione dei tempi
formalmente possono essere espressi nel seguente modo:
CONTRAZIONE DELLE LUNGHEZZE
DILATAZIONE DEI TEMPI
L = L0/γ
Δt = γΔt0
L0 è la lunghezza propria (la lunghezza
dell'oggetto
osservato nel suo sistema di riferimento)
L è la lunghezza misurata
dall'osservatore in movimento
Δt0 è l’intervallo di tempo proprio
(l’intervallo di tempo osservato nel suo
sistema di riferimento)
Δt è l’intervallo di tempo misurato
dall'osservatore in movimento
γ è il fattore di Lorentz (sempre maggiore di 1)
u è la velocità relativa tra l'osservatore e l'oggetto
c è la velocità della luce.
Un’altra notevole conseguenza della meccanica relativistica è che la massa m0 di
una particella in movimento non rimane costante, come in meccanica classica, ma
aumenta con la velocità secondo la formula:
La massa di una particella in movimento non rimane costante:
m = γ⋅m0
Nel caso limite u = c, la massa m diventa infinita, cioè ci sarà una resistenza
infinitamente grande ad ulteriori accelerazioni. Questo fatto mette in evidenza un altro
aspetto della teoria della relatività:
Nessun corpo materiale può raggiungere una velocità superiore alla velocità della
luce
Infatti, a causa dell’aumento di m (resistenza inerziale) con l’aumento della
velocità, l’energia che sarebbe necessario fornire ad un corpo materiale per accelerarlo
sino a farlo muovere alla velocità della luce diventa infinita.
Hermann Minkowski (1864–1909), decise di conferire una struttura matematica
formale alla teoria della relatività. Minkowski convertì tutti gli eventi (un evento è
qualcosa che accade in un particolare punto nello spazio e in un particolare tempo) in
coordinate matematiche in quattro dimensioni, con il tempo come quarta dimensione.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
39 La scelta delle coordinate è arbitraria: si possono usare ogni volta un insieme qualsiasi
di tre coordinate spaziali ben definite e una qualsiasi misura di tempo. Nella relatività
non c'è alcuna distinzione reale fra le coordinate spaziali e la coordinata temporale, così
come non c'è alcuna reale differenza fra due coordinate spaziali quali si vogliano. È
spesso utile pensare le quattro coordinate di un evento come se ne specificassero la
posizione in uno spazio quadridimensionale, lo spaziotempo.
Einstein sviluppò un’altra nuova e meravigliosa idea: i concetti di spazio e di
tempo sono talmente fondamentali per la descrizione dei fenomeni naturali che una
loro modificazione comporta una trasformazione dell’intero schema teorico di cui ci
serviamo per rappresentare la natura. La principale conseguenza di tale trasformazione
è che la massa non è altro che una forma di energia. Il risultato era un’elegante
conclusione: massa ed energia sono manifestazioni diverse della medesima entità, come
lo spazio e il tempo (spaziotempo) o il campo elettrico e il campo magnetico (campo
elettromagnetico). C’è una fondamentale intercambiabilità tra esse. In altre parole: la
massa di un corpo è una misura del suo contenuto di energia.
La formula di cui si servì per descrivere questa relazione era a sua volta
sorprendentemente semplice, tale da diventare l’equazione più famosa della scienza:
EQUIVALENZA MASSA – ENERGIA
E = mc2
Poiché massa ed energia sono intercambiabili, i due principi classici di
conservazione di queste due grandezze (conservazione della massa e dell’energia), non
valgono più separatamente. Come la massa può essere distrutta e trasformata in
energia, così l’energia può essere distrutta e trasformata in massa.
In definitiva basta un unico principio di conservazione:
PRINCIPIO DI CONSERVAZIONE DELLA MASSA-ENERGIA
La somma complessiva di tutte le energie e di tutte le masse dell’universo deve
rimanere inalterata nel tempo
3.2 I paradossi e le verifiche sperimentali della relatività ristretta
La relazione tra massa ed energia può essere estesa a tutti gli altri tipi di energia.
Un litro d’acqua alla temperatura di 100 °C pesa di più della stessa quantità di acqua
fredda. Viceversa, l’energia contenuta nella massa di qualche grammo di materia
soddisferebbe gran parte della domanda giornaliera di elettricità della città di New
York.
L’equivalenza massa-energia può essere verificata in modo quantitativo nei
decadimenti radioattivi, nella fissione e fusione nucleare, ed in tanti altri fenomeni
riguardanti le particelle elementari. Per esempio, nella fissione di un nucleo di uranio si
40 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
creano molti frammenti più leggeri, dotati di elevata energia
cinetica, la cui massa totale, però, è minore della massa del
nucleo di partenza. L’energia corrispondente alla perdita di
massa è esattamente uguale all’energia cinetica totale dei
frammenti. Così come la reazione di fusione deuterio-trizio
produce un atomo di elio più leggero dei reagenti e la
mancanza di massa la ritroviamo sotto forma di eccesso di
energia.
Se il tempo, in certe condizioni di moto, scorre più
lentamente, anche qualsiasi altro processo temporale, sia
esso biologico, chimico, atomico, ecc., considerato nelle
stesse condizioni cinematiche, dovrebbe presentare lo stesso
fenomeno relativistico, per cui il fenomeno della dilatazione
dei tempi, così come quello della contrazione
delle lunghezze, conducono ad una serie di
paradossi. Cominciamo con il più noto, il
paradosso dei gemelli. Se Romolo rimane sulla
Terra mentre Remo parte su un’astronave che
percorre lunghe distanze a una velocità prossima
a quella della luce, quando questo ritorna sarà
più giovane di Romolo.
Esaminiamo ora, sempre in termini paradossali, una conseguenza concettuale del
fenomeno della contrazione delle lunghezze. Supponiamo di avere un'automobile lunga
3 m e di possedere un garage, lungo anch'esso 3 m. Immaginiamo che la macchina,
guidata dall'osservatore O' (sistema dell'automobile), entri nel garage a una velocità che
si avvicina a quella della luce. Per un osservatore O all'interno del locale (sistema del
garage) l'automobile si contrae, diventando lunga per esempio 2,5 m, e per qualche
istante si trova entro il garage (fig. a). Dal punto di vista dell'osservatore O', è invece il
garage che si è contratto diventando lungo 2,5 m, per cui il veicolo non entra nel garage
(fig. b).
L'aspetto straordinario di questo paradosso è che
entrambi gli osservatori hanno ragione. Per la persona
ferma nel garage la circostanza "macchina in garage" e la
circostanza
"porte
chiuse"
si
verificano
contemporaneamente; per l'autista invece no. Come si sa,
d'altra parte, la simultaneità è un concetto relativo. Da un
punto di vista relativistico, non esiste un'unica realtà, ma
soltanto delle realtà individuali associate ai singoli
osservatori, ognuna dedotta ed elaborata sulla base dei
postulati einsteiniani. E così come la teoria della relatività
ristretta ci ha liberato dall’etere, afferma anche che non c’è nessun sistema di
riferimento definito in quiete che sia privilegiato rispetto a qualsiasi altro.
A questo punto è doveroso indicare qualche verifica sperimentale a supporto
della teoria della relatività ristretta, per sgombrare il campo dall’idea che tale teoria sia
lontana dalla realtà fisica e sia solo il frutto di una mente fantasiosa.
La prima verifica, con orologi e persone concretamente viaggianti, del diverso
comportamento degli orologi in moto relativo, è stata fatta nel 1971. Utilizzando orologi
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
41 atomici al cesio, portati in volo intorno al mondo a bordo di un aereo e confrontati con
uguali orologi a terra i due ricercatori americani riuscirono a fornire una diretta
dimostrazione sperimentale del fenomeno della dilatazione del tempo. Lo stesso risultato è stato anche confermato, con precisione maggiore, dai voli nello spazio di
alcuni satelliti militari americani, aventi a bordo sofisticati orologi atomici.
I raggi cosmici sono costituiti da particelle di elevata energia, soprattutto protoni,
che dallo spazio arrivano sulla Terra e, urtando contro i nuclei degli atomi presenti
negli strati superiori dell'atmosfera, danno origine a numerose altre particelle più
leggere, come i mesoni, una particella instabile che si disintegra in altre particelle
spontaneamente dopo un intervallo di tempo molto piccolo (vita media 2,2·10-6 s).
Poiché dalla creazione fino al decadimento, anche viaggiando alla velocità della luce, i
mesoni potrebbero percorrere una distanza media non più grande di circa 660 m, ben
pochi riuscirebbero ad arrivare sulla Terra. Invece si osserva che essi investono il nostro
pianeta in gran numero. La ragione è che queste particelle, prodotte nell'alta atmosfera
con velocità prossime alla velocità della luce, vivono, nel sistema di riferimento della
Terra, un tempo più lungo di 2,2·10-6 s. L'orologio dei muoni scorre infatti più
lentamente per tutti gli osservatori terrestri che vedono le particelle in movimento.
Conseguentemente queste possono percorrere distanze maggiori, tanto da attraversare
tutto lo spessore dell'atmosfera. Fu il fisico italiano Bruno Rossi (1905-1993) il primo a
verificare sperimentalmente che la vita media dei muoni, come previsto dalla teoria
della relatività, aumenta all'aumentare della loro velocità.
3.3 Premesse e conclusioni della teoria della relatività generale
Dopo aver formulato la teoria della relatività ristretta nel 1905, Einstein si era
reso conto che era incompleta almeno sotto alcuni aspetti. In primo luogo, postulava
che nessuna interazione fisica potesse propagarsi a una velocità superiore a quella della
luce, e ciò era in contrasto con la teoria della gravitazione di Newton, la quale concepiva
la gravità come una forza che agisce istantaneamente tra corpi distanti. In secondo
luogo, valeva solo per moti con velocità costante e quindi non valeva per quelli
accelerati. Infine, non includeva la teoria della gravitazione di Newton.
La relatività generale, presentata nella sua forma definitiva il
4 novembre 1916, generalizza le teorie di Einstein, nel senso che
estende le leggi della relatività ristretta, valide
solo per i sistemi in moto relativo rettilineo
uniforme, anche ai sistemi non inerziali. La
logica concettuale della relatività generale è
fondamentalmente espressa dal cosiddetto
principio di equivalenza.
Consideriamo un osservatore dentro un
ascensore fermo rispetto alla Terra. Ogni
corpo, indipendentemente dalla sua natura, è
soggetto alla stessa accelerazione di gravità g.
Supponiamo che, a causa della rottura del cavo di sostegno, l'ascensore precipiti in caduta libera. Durante il volo lo sperimentatore constata che tutti i
corpi, e lui stesso, galleggiano privi di peso.
42 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Trasportato da un'astronave, immaginiamo
poi il nostro ascensore localizzato nello spazio
lontano da qualsiasi corpo materiale. Anche in
questo caso lo sperimentatore non avverte il peso
degli oggetti, né la reazione del pavimento
dell'ascensore sotto i suoi piedi. Egli non riesce a
distinguere questa situazione da quella precedente,
nel senso che nessuna esperienza fatta all'interno
dell'ascensore gli permette di capire se sarà
destinato a precipitare al suolo o a galleggiare
eternamente nello spazio.
Se, infine, l'ascensore, spinto dai motori
dell'astronave, si muove verso l'alto con un'accelerazione pari, in modulo,
all'accelerazione gravitazionale che si avverte sulla superficie della Terra, l'osservatore
stima di trovarsi nelle stesse condizioni all’interno dell’ascensore fermo rispetto alla
Terra.
È l'ascensore che sta accelerando nello spazio, o è un effetto gravitazionale?
Nessuna esperienza eseguita dentro l'ascensore può avvalorare una delle due
alternative a scapito dell'altra. Possiamo dunque affermare che, con un opportuno
riferimento accelerato, è possibile eliminare o simulare un campo gravitazionale reale.
In sostanza, gli effetti locali della gravità e dell’accelerazione sono equivalenti.
Perciò enunciamo il principio di equivalenza come segue:
PRINCIPIO DI EQUIVALENZA
Un campo gravitazione omogeneo è completamente equivalente ad un sistema
di riferimento uniformemente accelerato
Supponiamo, adesso, che un riflettore sia appeso alla parete della cabina e invii
un fascio di luce attraverso il locale. Per osservare il
passaggio del fascio disponiamo sul percorso un
gran numero di lastre di vetro fluorescente tra di
loro equidistanti. Se la cabina non è accelerata i
punti nei quali il fascio di luce attraverserà le lastre
di vetro saranno allineati e sarà pressoché impossibile stabilire se il razzo sia fermo oppure si stia
muovendo rispetto alle stelle fisse (stessa
situazione dell’esperimento mentale di Galileo
nella stiva della nave). La situazione sarà invece
molto diversa nel caso in cui la cabina si muova con
accelerazione uniforme a. Poiché il moto del razzo è
uniformemente accelerato, le tracce che il fascio di
luce lascerà sulle lastre fluorescenti formeranno
una parabola, cioè la stessa traiettoria di un sasso
lanciato orizzontalmente.
Se l'equivalenza tra l'accelerazione e la gravità
si estende ai fenomeni elettromagnetici i raggi
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
43 luminosi devono dunque venire deviati dal campo gravitazionale.
Se il principio di equivalenza non riguarda solo i fenomeni meccanici, ma tutti i
fenomeni fisici, allora il principio di relatività può essere esteso a tutti i sistemi,
compresi quelli non inerziali, per cui:
PRINCIPIO DI RELATIVITA’ GENERALE
Le leggi della fisica hanno la stessa forma in tutti i sistemi di riferimento
Ossia: se non c’è modo di differenziare i sistemi di riferimento in moto, allora in
ognuno di essi le leggi della fisica devono funzionare esattamente nello stesso modo.
Con la relatività generale Einstein superò il primo postulato della relatività
ristretta in quanto i sistemi di riferimento inerziali perdono il loro ruolo privilegiato e
tutti i sistemi assumono pari dignità.
3.4 La gravitazione e la curvatura dello spaziotempo
Il principio di equivalenza ha una conseguenza veramente inaspettata: nella
logica relativistica non c'è più bisogno di una forza gravitazionale. La gravità diventa
una proprietà geometrica dello spaziotempo. La presenza di un oggetto dotato di massa
modifica le proprietà geometriche dello spazio quadridimensionale, nel senso che tende
a incurvarlo. Reciprocamente, una curvatura del cronotopo (spaziotempo) einsteiniano
sta a indicare la presenza di un campo la cui sorgente è la massa. Poiché nella relatività
generale la massa rappresenta una forma di energia, le proprietà geometriche dello
spaziotempo sono determinate, oltre che dalla materia ordinaria, dalla densità di
energia dell'universo; ogni forma di energia, come per esempio la radiazione, produce
cioè un campo gravitazionale, che si manifesta come una curvatura del cronotopo.
Come afferma un grande esperto delle teorie relativistiche, lo scienziato americano John
A. Wheeler (1911): "la materia dice allo spazio come incurvarsi e lo spazio dice alla materia
come muoversi".
Consideriamo un foglio di
gomma abbastanza esteso che possa essere deformato da una causa esterna.
Quando la superficie del foglio è
perfettamente piana, essa può simulare
lo spazio in assenza di gravità. Se ora
poniamo in un punto del foglio un
oggetto materiale, questo provoca una
depressione più o meno profonda e il foglio diventa incurvato. La superficie deformata
del foglio è una rappresentazione degli effetti gravitazionali. Essi sono più intensi dove
la curvatura è più accentuata; diminuiscono dove il foglio, lontano dall'oggetto
deformante, tende ad assumere una configurazione piana. Supponiamo di lanciare
nell'universo einsteiniano, idealmente rappresentato dalla superficie incurvata, alcune
sferette con diversa velocità iniziale. Come rappresentato dalle linee tracciate in rosso, le
sferette rotolano descrivendo delle traiettorie simili a quelle seguite dai satelliti intorno
44 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
alla Terra o dai pianeti intorno al Sole. Mentre in uno spazio euclideo, quello della
dinamica newtoniana, le traiettorie descritte da corpi non soggetti a forze sono linee
rette, in uno spazio curvo descritto dalla geometria non euclidea, quella della relatività
generale, le traiettorie sono curve chiamate geodetiche.
Poiché l’intera struttura dello spaziotempo dipende dalla distribuzione di
materia nell’universo, ciò significa che il tempo, inseparabile dallo spazio, scorre con
ritmi differenti in punti diversi dell’universo, e che il concetto di spazio vuoto perde di
significato.
Nota la distribuzione delle masse, la geometria dello spaziotempo può essere
determinata mediante procedimenti matematici molto complessi basati sulle cosiddette
equazioni di campo della gravitazione, che rappresentano la base teorica fondamentale
della relatività generale. Le loro soluzioni possono essere utilizzate per dedurre un
modello cosmico capace di svelare una larga parte della storia dell’universo.
Le equazioni di campo della gravitazione hanno la seguente forma:
EQUAZIONI DI CAMPO DELLA GRAVITAZIONE
R µν −
1
gµνR = 8πTµν ⇒ Gµν = 8πTµν
2
Gµν=tensore di Einstein; Rµν=tensore di Ricci; gµν=tensore metrico; R=scalare di Ricci (traccia del
tensore di Ricci)
q
q
Il primo membro dell’equazione condensa in sé tutta l’informazione sul modo in
cui la geometria dello spaziotempo è deformata e incurvata dalla massa e
dall’energia;
Il secondo membro descrive il movimento della materia (massa ed energia) nel
campo gravitazionale.
L’interazione tra i due membri mostra come massa ed energia curvano lo
spaziotempo e come, a sua volta, questa curvatura influenza i moti di massa ed energia.
3.5 L’immagine del mondo di Einstein
Da Aristotele a Cartesio, cioè per due millenni, l’idea democritea di uno spazio
come entità diversa, separata dalle cose, non era mai stata accettata come ragionevole.
Per Aristotele, come per Cartesio, le cose sono estese, ma l’estensione è una proprietà
delle cose: non esiste estensione senza una cosa estesa. Se fra due cose non c’è nulla,
ragionava Aristotele, come fa ad esserci lo spazio? L’idea di uno spazio vuoto nel quale
si muovono gli atomi, posto alla base dell’immagine del mondo di Democrito, in bilico
tra “l’Essere” e il “Non Essere”, non brillava certo in chiarezza.
Newton era tornato all’idea di Democrito secondo cui i corpi si muovono nello
spazio di moto rettilineo uniforme fino a quando le loro traiettorie non vengono curvate
dall’azione di una forza. Newton aveva faticato non poco a superare la resistenza alla
sua idea di resuscitare la concezione democritea dello spazio. Solo l’efficacia
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
45 straordinaria delle sue equazioni, la loro capacità di predizione, aveva finito per tacitare
le critiche. Ma di cosa è fatto questo spazio contenitore del mondo? Che cos’è lo spazio?
Per Newton era il sensorium dei. Ma la spiegazione non sembrava per niente
convincente, e i dubbi dei filosofi sulla ragionevolezza della nozione newtoniana di
spazio persistevano, e Einstein, conoscitore della filosofia, ne era consapevole.
Einstein raccoglie dunque non uno, ma due problemi. Primo: come descrivere il
campo gravitazionale? Secondo: che cos’è lo spazio di Newton? E le risposte sono: le
equazioni del campo gravitazionale; lo spazio di Newton è il campo gravitazionale.
Quindi, il mondo è fatto solo di particelle e campi, e nient’altro. In questa immagine del
mondo non c’è posto per lo spazio come ingrediente addizionale.
A differenza dello
spazio di Newton, che
è piatto e fisso e non è
influenzato
dalla
presenza dei corpi, il
campo gravitazionale è
incurvato dalla massa e
dall’energia e, a sua
volta, influenza il moto
della materia (massa e
energia). Lo spazio (o
meglio lo spaziotempo), ossia il campo gravitazionale, non è più qualcosa di diverso
dalla materia. E’ una delle componenti “materiali” del mondo, insieme al campo
elettromagnetico. È un’entità reale che ondula e s’incurva, e costringe i pianeti a ruotare
intorno al Sole o al tempo di fermarsi in un buco nero. Lo spaziotempo di Einstein, però,
non è curvo nel senso che si curva dentro un altro spazio più grande. E’ curvo nel senso
che la sua geometria intrinseca, cioè la rete delle distanze fra i suoi punti, non è la stessa
di uno spazio piano. In sintesi è uno spazio in cui non vale il teorema di Pitagora.
3.6 Le principali verifiche sperimentali della relatività generale
q
LA PRECESSIONE DELL’ORBITA DI MERCURIO
Fra i primi fatti sperimentali che hanno trovato
spiegazione grazie alla teoria della relatività generale, e
che pertanto rappresentano una conferma della teoria,
sono le anomalie, da tempo riscontrate, nel moto di
alcuni pianeti rispetto alle orbite previste dalle leggi
newtoniane. Ci riferiamo, in particolare, all'inspiegabile
lenta rotazione, fra una rivoluzione e la successiva,
dell'asse dell'orbita del pianeta Mercurio. Nel 1860 il
matematico francese Urbain Le Verrier (1811-1877), per
giustificare la misteriosa traiettoria descritta dal pianeta
più vicino al Sole, ipotizzò la presenza di un altro pianeta
che ne perturbava le orbite. Nonostante le molte ricerche astronomiche, il presunto
pianeta, già battezzato Vulcano, non fu mai trovato.
46 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Il comportamento di Mercurio appariva strano a causa dell'impossibilità di
calcolare con sufficiente precisione le sue orbite in base alla meccanica newtoniana. Solo
dopo aver applicato la fisica relativistica ogni anomalia scomparve definitivamente.
q
LA DEFLESSIONE DEI RAGGI LUMINOSI PER EFFETTO GRAVITAZIONALE
Una notevole conseguenza del principio di equivalenza riguarda la propagazione
della luce. Einstein indicò il Sole come sorgente di un campo gravitazionale
sufficientemente intenso da produrre effetti osservabili sulle traiettorie dei raggi di luce
che, emessi da stelle lontane, passano nelle sue vicinanze. A causa dell'interazione della
luce con la massa solare, la posizione apparente di una sorgente emittente deve
discostarsi dalla sua posizione reale. La verifica sperimentale di questo effetto è
ostacolata dal fatto che, in condizioni normali, non si riesce a osservare la direzione dei
raggi che passano vicino alla superficie solare, perché essi vengono mascherati
dall'intensa luminosità del Sole. L'unica soluzione è quella di osservare la luce di una
stella, di cui sia nota la posizione nella volta celeste, quando questa luce sfiora il Sole
durante un'eclisse totale.
Mediante le attuali tecnologie fotografiche e radiointerferometriche è infatti
possibile confrontare, durante la fase di oscurità provocata da un'eclisse solare, la
posizione di alcune stelle lontane visibili dietro al Sole con la posizione che le stesse
stelle hanno quando il Sole non si trova allineato con esse.
La prima verifica sperimentale degli effetti gravitazionali del Sole sui raggi
luminosi provenienti dalle stelle fu effettuata nel 1919. La Royal Astronomical Society
organizzò appositamente una spedizione, proposta e diretta dall'astrofisico inglese
Arthur Eddington, durante un'eclisse totale perfettamente visibile dall'isola di Principe,
isolotto portoghese situato al largo delle coste occidentali dell'Africa. Ancora una volta i
fatti dettero ragione a Einstein.
Un'altra probabile conferma della deflessione della luce è
rappresentata
dalla
scoperta
delle
cosiddette
lenti
gravitazionali. Consideriamo un massiccio oggetto celeste, per
esempio una galassia G relativamente vicina alla Terra: poiché la
sua massa incurva la traiettoria dei raggi che passano nelle sue
vicinanze, essa si comporta come una normale lente di vetro che
mette a fuoco o distorce un oggetto. Un
altro esempio è la cosiddetta “croce di
Einstein”. Le quattro macchie luminose
esterne sono interpretate come immagini
dello stesso quasar prodotte, per effetto della deflessione
gravitazionale della luce, da una galassia visibile al centro. Se la
galassia fosse perfettamente simmetrica, l’immagine del quasar
assume la forma di anello.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
q
47 IL RALLENTAMENTO DEL RITMO DEGLI OROLOGI
La frequenza della luce, come vedremo nella meccanica quantistica, è determinata
da certi parametri energetici che caratterizzano gli atomi che la emettono. Essa può
essere pensata con una frequenza propria di vibrazione degli atomi e, da questo punto
di vista, scandisce il ritmo degli orologi atomici. Poiché la gravità perturba i costituenti
della materia responsabili dell’emissione luminosa, ci si aspetta che gli orologi marcino
con ritmi diversi a seconda dell'intensità del campo in cui sono immersi. Precisamente,
più intenso è il campo, più lenti, stando alle previsioni relativistiche, devono essere gli
orologi. Per esempio, la teoria prevede che un orologio posto sul Sole accumuli rispetto
a un identico orologio situato sulla Terra, un ritardo di un minuto all'anno. Su una stella
di neutroni, la cui densità può assumere valori dell'ordine di 1015 g/cm3, il ritardo in un
anno sarebbe di alcuni giorni. Inversamente, a grandi altezze dalla superficie terrestre, il
tempo dovrebbe scorrere più velocemente che a bassa quota, dove la gravità è più
intensa. Una delle prime verifiche di questa suggestiva previsione è stata fatta
dall’Istituto Elettrotecnico Galileo Ferraris di Torino in collaborazione con il Laboratorio
Cosmologico del C.N.R., confrontando due orologi atomici identici, uno a Torino e
l'altro a Plateau Rosa. Come rilevato dopo una lunga osservazione, il secondo orologio
aveva un ritmo più veloce del primo di circa 30 miliardesimi di secondo al giorno.
Numerosi altri esperimenti, effettuati sia in altri laboratori, sia soprattutto su
satelliti artificiali, hanno confermato, in perfetto accordo con la logica relativistica,
queste lievi differenze temporali.
q
LA PROBABILE ESISTENZA DELLE ONDE GRAVITAZIONALI
Un altro fenomeno previsto dalla relatività generale, attualmente ancora al limite
della credibilità a causa di molteplici effetti perturbativi che ne ostacolano la verifica
sperimentale, è l'esistenza di onde gravitazionali provenienti da remote sorgenti dello
spazio cosmico. Come le cariche elettriche accelerate emettono onde elettromagnetiche,
anche una massa accelerata deve irraggiare, secondo la teoria einsteiniana, onde
gravitazionali che si propagano nello spaziotempo con la velocità della luce. In molti
laboratori sono in corso diversi esperimenti per tentare di captare i segnali di qualche
macroscopica increspatura generata da un violento e rapido spostamento di materia nel
tessuto geometrico dello spaziotempo.
Per molti aspetti la gravità resta ancora un argomento ricco di misteri, anche se
molti, dai tempi di Newton, sono stati risolti. I Principia della meccanica newtoniana
conservano comunque, anche dopo l'avvento della relatività generale, una loro validità
ogni qualvolta gli effetti gravitazionali non sono molto intensi, cioè quando il cronotopo
relativistico tende a diventare piano. Nell'ambito del sistema solare, per esempio, il
modello newtoniano riesce con sufficiente approssimazione a calcolare il moto dei
pianeti e gli effetti gravitazionali locali.
Quando, invece, gli oggetti stellari sono molto densi, o dotati di massa molto
grande, i fenomeni gravitazionali sono così intensi e talvolta così catastrofici che solo le
più alte leggi della relatività generale riescono a fornire un valido mezzo teorico per
comprenderli.
La teoria prevede la possibilità che si verifichi una situazione veramente
incredibile, rappresentata da un limite critico del potenziale gravitazionale per cui ogni
dimensione si annulla, ogni orologio si ferma e la velocità della luce tende a zero. Un
48 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
oggetto enormemente denso che raggiunge
queste condizioni prende il nome di buco nero.
Si tratta di un aspirapolvere cosmico che ingoia
tutto e che diventa invisibile perché luce e
materia non riescono a uscire da esso.
Secondo i fisici, la presenza di un simile
"vampiro" si manifesta attraverso le intense
forze gravitazionali che si estrinsecano sugli
oggetti che vengono a trovarsi nelle sue
vicinanze. Esistono forti indizi della probabile esistenza di buchi neri all'interno di
molte galassie.
3.7 Conclusioni
All'età di trentasei anni, Einstein aveva prodotto una delle più fantasiose e
spettacolari revisioni dei nostri concetti sull'universo che la storia ricordi. La teoria della
relatività generale non era soltanto l'interpretazione di alcuni dati sperimentali o la
scoperta di un insieme di leggi più precise. Era un modo interamente nuovo di
considerare la realtà. Newton aveva lasciato in eredita ad Einstein un universo in cui il
tempo aveva un'esistenza assoluta e scorreva ticchettando indipendentemente dai corpi
e dagli osservatori, e in cui anche lo spazio aveva un'esistenza assoluta. La gravità si
pensava fosse una forza che le masse esercitavano l'una sull'altra attraverso lo spazio
vuoto in un modo piuttosto misterioso. All'interno di questa cornice i corpi obbedivano
a leggi meccaniche che si erano dimostrate straordinariamente precise, diremmo quasi
perfette, nello spiegare ogni cosa, dalle orbite dei pianeti alla diffusione dei gas, fino ai
moti convulsi delle molecole e alla propagazione delle onde sonore (ma non della luce).
Con la teoria della relatività ristretta Einstein aveva mostrato che spazio e tempo
non avevano esistenze indipendenti, ma costituivano la struttura unica dello
spaziotempo. Ora, con la versione generale della teoria, la struttura dello spaziotempo
divenne qualcosa di più di un semplice contenitore di corpi ed eventi: un’entità dotata
di una propria dinamica, che era determinata dal moto dei corpi al suo interno, e a sua
volta contribuiva a determinare tale moto. Il curvarsi e incresparsi della struttura dello
spaziotempo spiegava la gravità, la sua equivalenza all'accelerazione e, a detta di
Einstein, giustificava la relatività generale di tutte le forme di moto.
Secondo Paul Dirac, uno dei pioniere della meccanica quantistica, la relatività
generale era: “probabilmente la massima scoperta scientifica mai fatta”. Un altro dei giganti
della fisica del XX secolo, Max Born, la definì: “la più grande impresa del pensiero umano
per la conoscenza della natura, la più ammirevole commistione di acume filosofico, d'intuito
fisico, e di abilità matematica”.
Vi sono momenti storici in cui una convergenza di forze causa un mutamento
della prospettiva dell’umanità. Accadde per l’arte, la filosofia e la scienza all’inizio del
Rinascimento, e di nuovo al principio dell’Illuminismo. Ora, all’inizio del XX secolo, il
modernismo nasceva grazie alla rottura dei vecchi vincoli e al crollo delle vecchie verità
grazie alle opere di Einstein, Picasso, Matisse, Stravinskj, Schonberg, Joyce, Eliot,
Proust, Freud, Diaghilev, Wittgenstein, e tanti altri innovatori che sembravano spezzare
i legami del pensiero classico. Einstein fu fonte di ispirazione per molti artisti e
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
49 pensatori moderni, anche quando questi non lo comprendevano. Proust scrisse ad un
amico: “Come mi piacerebbe parlarti di Einstein. Non capisco una sola parola delle sue teorie …
sembra che abbiamo modi analoghi di deformare il tempo”. Un momento culminante della
rivoluzione modernista si ebbe nel 1922, l’anno in cui fu annunciato il premio Nobel di
Einstein. L’Ulisse di Joyce fu pubblicato in quello stesso anno, così come La terra desolata
di Eliot. In maggio ci fu una cena di mezzanotte all’Hotel Majestic di Parigi per l’esordio
di Renard, composto da Stravinskij ed eseguito dai Ballets Russes di Diaghilev.
Stravinskij e Diaghilev erano entrambi presenti, così come Picasso, Joyce e Proust, e tutti
stavano distruggendo le certezze letterarie, artistiche e musicali del XX secolo con la
stessa determinazione con cui Einstein stava rivoluzionando la fisica.
L’apparente rifiuto delle certezze, un abbandono della fede nell’assoluto, pareva
ad alcuni eretico, e la relatività venne associata ad un nuovo relativismo nei campi della
morale, dell’arte e della politica, più sulla spinta dei fraintendimenti dei profani che
sulla base del pensiero di Einstein. Ha scritto Paul Johnson nella sua vasta opera sul XX
secolo, Modern Times: “Esso costituì un coltello che contribuì a liberare la società dai suoi
ormeggi tradizionali”.
Quali che fossero le cause del nuovo relativismo e modernismo, il distacco del
mondo dai suoi ormeggi classici avrebbe presto prodotto echi e reazioni inquietanti. E
in nessun altro luogo quel clima fu più problematico che nella Germania degli anni ’20.
50 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
CAPITOLO 4 INTERPRETAZIONE F ILOSOFICA DELLA T EORIA D ELLA R ELATIVITA’ 4.1 Le radici filosofiche di Einstein
Le letture di Einstein furono rivolte soprattutto a quei libri che indagavano
sull’interazione tra scienza e filosofia, in particolare i seguenti testi furono fondamentali
nella formazione di una propria filosofia della scienza: Trattato sulla natura umana di
Hume, L’analisi delle sensazioni e La meccanica nel suo sviluppo storico-critico di Mach,
l’Etica di Spinoza e La scienza e l’ipotesi di Poincarè.
Il più influente tra questi era stato Hume, che poneva come presupposto alla
propria filosofia lo scetticismo su qualsiasi conoscenza distinta da ciò che poteva essere
percepito direttamente dai sensi. Perfino le evidenti leggi della causalità erano sospette
ai suoi occhi, semplici abitudini della mente; una palla che ne colpiva un’altra poteva
comportarsi nel modo predetto dalle leggi di Newton innumerevoli volte, eppure, a
rigore, ciò non costituiva una ragione per credere che si sarebbe comportata nello stesso
modo la volta successiva. Einstein osservò: “Hume vide chiaramente che alcuni
concetti, come ad esempio quello di casualità, non si possono dedurre con metodi logici
dai dati dell’esperienza”. Hume aveva applicato il suo rigore scettico al concetto di
tempo, per cui non aveva senso parlare del tempo come se avesse un’esistenza assoluta,
indipendente dagli oggetti osservabili i cui movimenti ci permettevano di definirlo:
“Dal succedersi delle idee e impressioni ci formiamo l’idea di tempo, la quale, senza di
esse, non fa mai la sua apparizione nella mente”. Questo concetto che non esista nulla
di simile al tempo assoluto avrebbe trovato un’eco nella teoria della relatività di
Einstein. Anche Kant occupò la scena della filosofia di Einstein con un’idea che doveva
costituire un progresso rispetto ad Hume, e cioè che alcune verità rientrano in una
categoria di conoscenza assolutamente certa che è radicata nella ragione stessa. In altre
parole, Kant distingueva tra due tipi di verità: le proposizioni analitiche, che
discendono dalla logica e dalla ragione stessa, piuttosto che dall’osservazione del
mondo; le proposizioni sintetiche che sono basate sull’esperienza e sulle osservazioni.
Le proposizioni sintetiche potrebbero subire modifiche ad opera di nuovi dati empirici,
ma non così le proposizioni analitiche, nella cui categoria rientra la geometria e il
principio di casualità, che sono tipi di conoscenza a priori che non devono essere
preventivamente ricavati dai dati sensoriali.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
51 Da principio Einstein trovò meraviglioso che certe verità potessero essere
scoperte mediante la sola ragione. Ma presto cominciò a mettere in discussione la rigida
distinzione tra verità analitiche e sintetiche: “Io sono convinto … che questa distinzione
sia erronea”. Una proposizione che sembra puramente analitica, come la somma degli
angoli di un triangolo è pari a 180°, poteva rivelarsi falsa in una geomeria non euclidea
o in uno spazio curvo.
L’empirismo di Hume fu spinto un passo più avanti dalla filosofia di Mach, la cui
essenza è contenuta nelle parole dello stesso Einstein: “I concetti hanno senso soltanto
se possiamo indicare gli oggetti a cui si riferiscono e le regole mediante le quali sono
riferiti a questi oggetti”. In altri termini, perché un concetto abbia senso ne occorre una
definizione operativa, che descriva come si osserverebbe il concetto in termini di
operazioni. Questa idea avrebbe dato i suoi frutti quando Einstein discusse su quale
osservazione avrebbe dato significato al concetto che due eventi si verificano
contemporaneamente. L’applicazione di questo punto di vista ai concetti newtoniani di
tempo assoluto e spazio assoluto comportò l’impossibilità di definire tali concetti in
termini di osservazioni che fosse possibile compiere. Pertanto, secondo Mach, essi erano
privi di significato: “una cosa puramente ideale che non può trovare riscontro
nell’esperienza”.
L’ultimo eroe intellettuale era Spinoza, la cui influenza su Einstein fu
principalmente religiosa. Einstein fece proprio il suo concetto di un Dio amorfo che si
riflette nella bellezza che incute riverenza, nella razionalità e nell’unità delle leggi di
natura. Inoltre, Einstein trasse da Spinoza la fede nel determinismo, e cioè l’idea che le
leggi di natura, una volta che fossimo in grado di sondarle, stabiliscono cause ed effetti
immutabili, e che Dio non giochi a dadi consentendo a qualsiasi evento di essere casuale
o indeterminato.
4.2 Il significato filosofico del pensiero di Einstein
Non è facile parlare del pensiero filosofico di Einstein, dal momento che ci
troviamo di fronte a una specie di antinomia. Da un lato infatti tutti sono disposti a
riconoscere che dopo Einstein la filosofia non è più quella che era prima di Einstein;
eppure egli non è stato un filosofo nel senso tecnico del termine, né ha avuto un
pensiero filosofico sistematico e univoco, tanto è vero che il pensiero filosofico di
Einstein è stato interpretato in modi diversi, da alcuni come sostenitore di una filosofia
empiristica, in quanto la teoria della relatività dimostra che le più profonde categorie
del pensiero umano sono effettivamente legate all’esperienza, da altri, per come ha
trattato i problemi dello spazio, del tempo e della materia, come sostenitore di una
filosofia platonica. Einstein come Platone dunque? Non certo nel senso che egli sia un
platonico, ossia che ammetta delle forme immutabili nel mondo materiale, forme che
l'uomo dovrebbe contemplare intuitivamente; ma nel senso che egli rinnova il tipo di
problemi trattati dialetticamente da Platone. Purtroppo vi è un diffuso equivoco che è
quello di intendere il rapporto fra Platone ed Einstein nel significato proposto da
Eddington, secondo cui Einstein sarebbe platonico perché le sue teorie mostrerebbero
l'assoluta libertà della mente d'imporre i suoi schemi al mondo fisico. Tuttavia vi è
grande differenza tra la posizione di Einstein e quella di Eddington nel modo
d'intendere il convenzionalismo. Infatti Eddington crede che la necessità
52 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
dell'esperimento venga a cadere e ritiene che la teoreticità delle strutture fisiche riposi
su una pura scelta formale. Ma allora definire Einstein platonico nel significato di
Eddington significa sbagliare due volte, sia perché si attribuisce ad Einstein una forma
di convenzionalismo che in realtà egli non condivideva (ritenendo che una convenzione
scientifica necessitasse sempre di conferma sperimentale), sia perché si fraintende anche
quello che diceva Platone.
Invece il parallelo si deve svolgere ad un altro livello: Platone nel Timeo ha
affermato che per quanto la scienza possa portare avanti la spiegazione dei fatti come
conseguenza di una legge razionale, permane sempre una necessità, un dato puro, di
cui la scienza deve tener conto. “La mente persuade la necessità”, vuol dire proprio che
attraverso l'analisi del dato è possibile razionalizzarlo, ma vuol dire anche che la
spiegazione lascia sempre dietro di sé un residuo che non è ancora chiarito. Ebbene,
Einstein ha riassunto nella nostra cultura tutti i temi di una grande tradizione
matematica e li ha portati alle loro conseguenze filosofiche ed operative, senza ritenere
però che la realtà si esaurisse in essi. Egli può dunque essere considerato il Platone
moderno proprio perché ha tenuto sempre presente come il grande filosofo ateniese
l'esistenza di una realtà da spiegare, non costruita dalla mente ma da essa conoscibile.
In questo senso la sua opera ha un'importanza insostituibile ed inesauribile; essa è il più
grande edificio creato dalla scienza moderna, ed anche il più vero.
Comunque, al di là delle considerazioni che si possono fare sulla catalogazione
del pensiero di Einstein, egli fu filosofo almeno per due ragioni: primo perché ha
distrutto molte concezioni ritenute valide in sé (ad esempio quella tradizionale di
simultaneità e di distanza, quella di spazio assoluto, quella di forze gravitazionali) con
la semplice analisi logica di concetti in certi casi, con la capacità di ideare esperienze
mentali o con l'uso di teorie matematiche nuove in altri, ma ha sempre ricostruito in
forma nuova quello che ha distrutto; così i nuovi concetti di spazio-tempo, di campo, di
inerzia e di materia sono entrati a far parte del patrimonio teorico dei fisici moderni. E
le sue grandi idee direttrici, l'unità fra spazio e geometria, fra spazio e materia, la
semplicità delle leggi invarianti, sono diventate patrimonio di tutta la cultura, anche di
quella filosofica. Secondo, in quanto non ammise mai che la ricerca scientifica e la
riflessione generale sulla natura potessero svilupparsi secondo direzioni o programmi
divergenti, e sostenne, in varie occasioni, il valore oggettivo della conoscenza umana.
Respinse, costantemente, l'opinione che gli epistemologi avessero il dovere di indicare
alla scienza le strade da seguire o le norme cui ubbidire, così come criticò
l'atteggiamento di quegli scienziati che si mostravano scettici o indifferenti di fronte ai
quesiti generali che la ricerca scientifica suggeriva come produttrice di cultura. Ciò
spiega come mai egli abbia insistito, per decenni, nella polemica contro le
interpretazioni filosofiche dominanti della meccanica quantica, e come abbia colto molte
occasioni per mettere in luce l'esigenza di un rapporto positivo tra ricerca scientifica e
concezioni filosofiche. In età matura seppe descrivere questo atteggiamento affermando
che i rapporti tra scienza e filosofia dovevano essere analizzati con cura e con interesse,
poiché una teoria della conoscenza priva di correlazioni con l'impresa scientifica era
semplicemente uno “schema vuoto”, mentre la scienza priva di considerazioni
epistemologiche era “primitiva e informe”. Ma la necessità di rapporti fecondi non
doveva in alcun modo trasformarsi nell'accettazione, da parte dello scienziato, di rigidi
canoni metodologici: le condizioni della ricerca scientifica erano solamente dettate
dall'esperienza e dall'elaborazione concettuale per via matematica. Pertanto, osservava
Einstein, il vero scienziato appariva “all’epistemologo sistematico come una specie di
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
53 opportunista senza scrupoli”,
in quanto agiva scegliendo liberamente una posizione
filosofica che poteva variare sull'intero spettro degli atteggiamenti possibili: realista,
quando voleva descrivere il mondo indipendentemente dagli atti della percezione
oppure idealista, quando sosteneva che le teorie non erano logicamente deducibili dai
dati empirici, oppure positivista, quando collocava i criteri di giustificazione degli
apparati teorici nella possibilità di dare una rappresentazione logica delle relazioni tra
le esperienze sensoriali.
Dopo questa ampia premessa, è lecito affermare che oggi non è più possibile fare
una seria ontologia o una seria filosofia della natura se non si tiene presente la fisica
teorica; il grande merito di Einstein è stato proprio quello di aver posto su basi nuove il
rapporto fra fisica e filosofia.
Einstein ha un atteggiamento realistico, come la maggior parte degli scienziati.
Egli pensa che la scienza ci fa comprendere il mondo, la realtà. Ciò non significa che
Einstein non si rendesse conto dell'esistenza di problemi filosofici molto grossi quando
si parla di realtà. Egli ragionava da scienziato, convinto di avere di fronte a sé una realtà
che deve essere elaborata attraverso i concetti scientifici. A questo proposito scrive una
frase che ha un valore filosofico molto grande: “La cosa più incomprensibile
dell'universo è la sua comprensibilità”. Egli tuttavia non si comporta da filosofo
speculativo, il quale si preoccuperebbe di ragionare sulla comprensibilità dell'universo,
sui perché di questa comprensibilità, sulle sue implicazioni, ma da filosofo scienziato, e
dà inizio a una generazione di filosofi-scienziati, che, pur rendendosi conto che esiste il
problema della comprensibilità dell’universo, si applica a esaminare i mezzi che
abbiamo a nostra disposizione per conoscerlo, cercando di renderli sempre più efficaci.
Questi strumenti sono sostanzialmente due. Uno è lo strumento dell'osservazione
sensibile, e su questo possiamo dire che Einstein è certamente influenzato da Mach, per
il quale i dati importanti erano quelli sensoriali; così per Einstein un concetto che non si
possa a un certo punto riferire a dei dati, a delle impressioni sensoriali, deve essere
respinto dalla scienza; in questo senso, Einstein è stato considerato uno dei padri del
neopositivismo. Accanto a quelle che Galileo avrebbe chiamato “sensate esperienze”,
Einstein introduce però dimostrazioni ed elaborazioni di carattere altamente
matematico, ed in questo si distacca decisamente da Mach: è vero che l'oggetto della
scienza è la coordinazione delle esperienze umane e la loro riduzione ad un sistema
logico coerente, ma i principi di questo sistema non possono essere ricavati totalmente
dall’esperienza, dice Einstein; mentre per Mach quei principi sono sostanzialmente
deducibili dall'esperienza. A questo proposito, Einstein dichiara di non credere
nell'induzione matematica; di non credere cioè che i concetti matematici siano ricavabili
dall'induzione empirica, ma che invece le formule ed i concetti matematici hanno nella
fisica un valore a posteriori. In sostanza questi concetti sono libere invenzioni della
mente umana, ed in questo senso Eddington ha potuto affermare che Einstein è un
platonico. Però, bisogna dire che tali concetti non hanno valore conoscitivo se non
possono essere messi al vaglio dell'esperienza proprio attraverso l’analisi operativa dei
concetti fisici. Esistono molte dichiarazioni di Einstein stesso a questo proposito, tra cui:
“Noi dobbiamo sempre essere pronti a modificare le nostre cognizioni fisiche per poter
considerare i fatti in modo sempre più perfetto”. “Le teorie fisiche non sono che
invenzioni dell'uomo, nel senso che non sono verità assolute a priori (qui è antikantiano)
ma sono sempre modificabili”. (Non derivano dall'esperienza, ma sono modificabili per
risultare in grado di aderire all'esperienza).
54 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Ci accorgiamo che Einstein tende, da un lato, a difendere il realismo dello
scienziato, il quale è ben convinto che esiste una realtà da conoscere e che occorrono
duri sforzi per conoscerla almeno in parte, mentre d'altro canto pensa che questa realtà
non sia metafisicamente al di là della nostra conoscenza.
Anche se la maggior parte delle opere di Einstein fu scritta prima che il
neopositivismo si sviluppasse completamente, bisogna riconoscere che tutti i problemi
della più moderna epistemologia posti in luce da tale indirizzo sono già presenti nelle
opere einstemiane. Tra questi troviamo, per esempio, il rapporto tra i principi e le
conseguenze delle teorie fisiche, il rapporto tra teoria ed osservabili, la rilevanza della
geometria per la fisica, ed altri. Certo manca il rigore dell'analisi di Carnap o di
Reichenbach, che analizzeremo in seguito, e così pure i termini del linguaggio filosofico
non sono precisi come quelli usati da questi filosofi della scienza, ma quello che
interessa è che un fisico di enorme notorietà come Einstein, dovendo trattare della sua
specialità in senso generale, si sia posto da solo nella direzione dell'epistemologia
moderna. Si può aggiungere che Einstein riuscì ad evitare due grossi errori, il secondo
dei quali sarà presente in parecchi neopositivisti. Infatti per un lato egli reagisce come i
migliori neopositivisti con un profondo impegno metodologico all'ondata di
irrazionalismo e di sfiducia nella scienza che le nuove teorie della fisica facevano
sorgere presso i meno preparati; per l'altro lato si tiene lontano dal metodologismo fine
a se stesso, pur nella consapevolezza critica che lo studio della fisica contribuisce a
svuotare di senso molti falsi problemi.
In definitiva Einstein non credeva all'intuizione priva di ogni controllo ma
riteneva che il fine della fisica fosse la costruzione di un modo nuovo di vedere il
mondo, ossia la ricerca di una moderna immagine del cosmo. Come egli stesso più volte
ripete, uno dei compiti essenziali della filosofia è quello di riflettere sopra la storia della
fisica e sulla sua funzione attuale. La filosofia ci può chiarire cos'è il metodo scientifico,
senza sostituirsi ad esso, e ci permette di conservare la coscienza del collegamento
esistente fra le teorie fisiche e il mondo quotidiano che ci circonda. Non solo: essa ci
deve rendere consapevoli dello stato di strumento delle costruzioni scientifiche, che non
sono delle verità immutabili ma possono essere sostituite e modificate nel corso del
tempo. Certo, l'edificio della scienza fisica non può più essere ritenuto un'unità coerente
nel senso ingenuo del meccanicismo; esso risulta però un'unità complessa e strutturata,
della quale è sempre possibile recuperare il senso profondo. La ricerca di questo senso,
che è poi la ricerca di una visione del mondo radicata nella scienza, è presente in
Einstein soprattutto nel momento della relatività generale e delle teorie del campo
unificato.
Stabilito così questo canone del realismo, che potremmo chiamare realismo
critico di Einstein, non nel senso kantiano del termine, possiamo parlare di un altro
carattere fondamentale della scienza, che per Einstein è la semplicità. Tutti gli studiosi
del pensiero di Einstein sottolineano l'importanza da lui attribuita alla semplicità. C'è
una citazione di Einstein in cui si dice: “Le nostre esperienze ci permettono finora di
sentirci sicuri che nella natura si realizza l'ideale della semplicità matematica”.
Einstein pensa alla semplicità come a un criterio che ci permette di cogliere l'oggetto, la
natura stessa, perché la natura è semplice e questa semplicità della natura è anche una
dimostrazione della sua razionalità, e la semplicità della natura deve riflettersi in una
semplicità delle leggi scientifiche, a questo punto potremmo anche discutere se qui
lavori più da scienziato o più da filosofo, e sarebbe proprio questa semplicità a portare
Einstein a enunciare il principio della relatività ristretta e quello della relatività
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
55 generale. A questo proposito è interessante un confronto tra la formula della
gravitazione proposta da Newton e quella di Einstein. Newton scelse la sua legge tra
tutte le altre leggi possibili per il successo delle previsioni che essa permetteva. Al
contrario, la legge della gravitazione di Einstein fu trovata cercando per lo spaziotempo
la legge più semplice. In altri termini, non è il successo che ci fa scegliere la legge di
gravitazione di Einstein; ma Einstein arriva ad essa sulla base del criterio di semplicità,
cioè proprio perché è convinto che la semplicità sia in grado di riflettere la razionalità
della natura in modo diretto.
Mirare al semplice, però, non vuol dire semplificare; infatti, semplificare
vorrebbe dire trascurare certe differenze dichiarandole irrilevanti, e come è noto questo
tipo di semplificazione, che era presente nel sapere comune e in tutta la fisica
pregalileiana, non lo è nella scienza moderna. La fisica aristotelica in fondo era molto
semplice: distingueva i corpi in due categorie, quelli pesanti che vanno verso il basso e
quelli leggeri che vanno verso l'alto. La descrizione che Aristotele faceva dei fenomeni
naturali era molto semplice, ma non si trattava di semplicità bensì di semplificazione,
ciò che significa trascurare certe caratteristiche profonde esistenti in natura, e procedere
come se esse non esistessero. In questo modo, si fanno discorsi che sarebbero
condannati da Einstein, il quale ha cercato sempre la semplicità e non la
semplificazione.
Tutta l'opera di Einstein è permeata da questo acume critico, che di fatto gli viene
riconosciuto da tutti, e pur coltivando opinioni di stampo razionalista e realista
concernenti la conoscibilità del mondo e l'esistenza di quest'ultimo indipendentemente
dalla coscienza, e pur facendo spesso leva su tali opinioni nelle discussioni sullo stato
della teoria dei quanti, sia stato flessibile rispetto alle idee possibili in seno ad una
filosofia personale, e abbia piuttosto nutrito un profondo rispetto per le tortuosità
attraverso le quali la ragione deve passare per costruire un sapere oggettivo. Egli stesso,
parlando della relatività nel 1917, scrisse: “Condurrò il lettore lungo la strada che io
stesso ho percorso, una strada piuttosto aspra e tortuosa, perché altrimenti non posso
sperare che egli prenda molto interesse al risultato della fine del viaggio”.
4.3 Il significato filosofico della relatività
L’influenza esercitata dal pensiero di Einstein non può essere completamente
recepita se si tiene presente solo la trasformazione portata nella fisica dalle sue idee; per
capirla a fondo bisogna infatti considerare anche il suo profondo significato filosofico. Il
significato filosofico della teoria della relatività è stato oggetto di opinioni contrastanti,
anche se, ed è indubitabile, i principi di tale teoria, per il loro carattere filosofico
ontologico, vale a dire che sono relativi all’oggetto della conoscenza scientifica
indipendentemente dai suoi rapporti con l’osservatore, hanno modificato
profondamente la filosofia moderna alterando radicalmente la concezione filosofica
dello spazio e del tempo e della loro relazione con la materia. Fra le tante
interpretazioni, tutte interessanti e che hanno contribuito a rendere tale teoria una delle
massime espressioni dell’intelletto umano, quella di Hans Reichenbach (1891-1953),
filosofo della scienza tedesco, ci sembra la più feconda e che è alla base delle idee
attuali. Infatti ricordiamo che già in un lucido saggio del 1921 sullo stato delle
discussioni filosofiche sulla relatività metteva in luce come il principale compito
epistemologico davanti all’opera di Einstein fosse quello di formulare le conseguenze
56 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
filosofiche della teoria e ritenerle come parte permanente della conoscenza filosofica.
L’analisi della rivoluzione einsteniana permetteva a Reichenbach di concludere che il
significato filosofico più profondo da essa dato è che non esistevano concetti a priori,
per cui veniva superata la concezione kantiana che faceva dello spazio e del tempo delle
forme a priori dell’intuizione. Ma adesso riportiamo le considerazioni di Reichenbach
sulla portata filosofica della teoria della relatività di Einstein tratte dal libro Albert
Einstein: Filosofo-scienziato (1949).
Mentre molti scrittori hanno sottolineato le implicazioni filosofiche della teoria e
hanno perfino tentato d’interpretarla come una specie di sistema filosofico, altri hanno
negato l'esistenza di tali implicazioni e hanno sostenuto l'opinione secondo cui la teoria
di Einstein è semplicemente una teoria fisica, e ritengono che le idee filosofiche si
costruiscano con mezzi diversi dai metodi dello scienziato, e siano indipendenti dai
risultati della fisica. Ora, è ben vero che la cosiddetta filosofia della relatività
rappresenta in gran parte il risultato di travisamenti della teoria, piuttosto che del suo
contenuto fisico. I filosofi che considerano saggezza estrema il ritenere ogni cosa
relativa, sbagliano se credono che la teoria di Einstein costituisca una prova di una così
eccessiva generalizzazione; e il loro errore è ancor più grave se trasferiscono questa
relatività al campo dell'etica, pretendendo che la teoria di Einstein implichi un
relativismo dei diritti e dei doveri dell'uomo. La teoria della relatività si limita al campo
della conoscenza. Se le concezioni morali variano con le classi sociali e la struttura della
civiltà, questo è un fatto che non si può dedurre dalla teoria di Einstein; il parallelismo
fra la relatività dell'etica e quella dello spazio e del tempo è soltanto un'analogia
superficiale, che confonde le differenze logiche essenziali fra il campo della volontà e
quello della conoscenza. È ben comprensibile, allora, che chi era abituato alla precisione
dei metodi fisico-matematici desiderasse separare la fisica da queste efflorescenze della
speculazione filosofica.
Eppure, sarebbe un altro errore credere che la teoria di Einstein non sia una
teoria filosofica, soprattutto per le conseguenze radicali per la teoria della conoscenza: ci
costringe a prendere in esame certe concezioni tradizionali che hanno avuto una parte
importante nella storia della filosofia, e dà una soluzione a certe questioni, vecchie come
la storia della filosofia, che prima non ammettevano nessuna risposta. Il tentativo di
Platone di risolvere i problemi della geometria con una teoria delle idee; il tentativo di
Kant di spiegare la natura dello spazio e del tempo con una intuizione pura e con una
filosofia trascendentale, sono altrettante soluzioni agli stessi interrogativi a cui la teoria
di Einstein ha dato poi una risposta differente. Se sono filosofiche le dottrine di Platone
e di Kant, anche la teoria della relatività di Einstein ha importanza filosofica, e non
semplicemente fisica. I problemi di cui essa tratta non sono di carattere secondario, ma
d'importanza primaria per la filosofia; e questo risulta evidentissimo dalla posizione
centrale che questi problemi occupano nei sistemi di Platone e di Kant. Questi sistemi
diventano insostenibili, se si mette la risposta di Einstein al posto di quelle date agli
stessi problemi dai loro autori; le loro basi sono scosse, se i concetti di spazio e di tempo
non possono più considerarsi rivelati da una visione del mondo delle idee, o generati
dalla ragion pura, come l’apriorismo filosofico pretendeva di aver stabilito.
L'analisi della conoscenza è sempre stata la questione fondamentale della
filosofia; e se la conoscenza è soggetta a revisione in un campo così fondamentale come
quello dello spazio e del tempo, le conseguenze di questa critica non possono non
interessare tutta la filosofia. Sostenere l'importanza filosofica della teoria di Einstein non
significa però fare di Einstein un filosofo; o, per lo meno, non significa che Einstein sia
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
57 soprattutto un filosofo. Gli interessi principali di Einstein sono tutti nell’ambito della
fisica. Ma egli capì che certi problemi fisici non potevano essere risolti se prima delle
soluzioni non si fosse fatta un’analisi logica dei concetti fondamentali di spazio e di
tempo, e capì anche che questa analisi, a sua volta, presupponeva una rielaborazione
filosofica di certe concezioni tradizionali della conoscenza. Il fisico che voleva capire
l'esperimento di Michelson doveva orientarsi verso una filosofia in cui il significato di
un'affermazione fosse riducibile alla sua verificabilità, cioè doveva adottare la teoria
della verificabilità del significato, se voleva sfuggire a un intrico di questioni ambigue e
di complicazioni gratuite. È questo orientamento positivistico, o per meglio dire
empiristico, che doveva determinare la posizione filosofica di Einstein. Ma a lui non era
necessario svilupparla oltre certi limiti: gli era sufficiente ricollegarsi alla linea di
pensiero caratterizzata, nella generazione di fisici che lo aveva preceduto, da nomi come
Kirchhoff, Hertz, Mach; e portare alle estreme conseguenze un indirizzo filosofico
individuato, ai suoi inizi, da principi come quello dell'induzione di Occam, o quello
della identità degli indiscernibili di Leibniz.
Einstein si è riferito a questa concezione del significato in molte sue osservazioni,
sebbene non abbia mai sentito la necessità di addentrarsi in una discussione sui principi
fondamentali di essa, o in un'analisi del suo significato filosofico. Nei suoi scritti non si
può certo trovare l'esposizione e l'approfondimento di una teoria filosofica. Di fatto, la
filosofia di Einstein non è tanto un sistema filosofico quanto un atteggiamento
filosofico; tranne qualche osservazione fatta incidentalmente, egli ha lasciato che fossero
altri a dire quale filosofia corrisponda alle sue equazioni, cosicché è rimasto, per così
dire, un filosofo implicito. Questa è la sua forza e la sua debolezza a un tempo: la sua
forza, perché ha reso tanto più concreta la sua fisica, la sua debolezza, perché ha lasciato
la sua teoria esposta ai travisamenti e alle interpretazioni sbagliate.
Il fatto che la fondazione di una nuova fisica preceda una nuova filosofia della
fisica sembra costituire una legge generale. L'analisi filosofica diventa più facile quando
si applica a scopi concreti, quando è condotta nell'ambito di una ricerca intesa a
un'interpretazione dei dati dell’osservazione. I risultati filosofici di questo
procedimento si raggiungono spesso in uno stadio successivo; essi sono il frutto della
riflessione sui metodi impiegati nella soluzione dei problemi concreti. Ma quelli che
costruiscono la nuova fisica di solito non hanno tempo, o non considerano loro compito,
illustrare ed elaborare la filosofia implicita nelle loro costruzioni.
Non sono soltanto i limiti delle capacità umane a richiedere una divisione del
lavoro fra il fisico e il filosofo. La scoperta di relazioni generali che si prestino a una
verifica empirica richiede una mentalità differente da quella del filosofo, i cui metodi
hanno un carattere analitico e critico, più che ipotetico-deduttivo. Il fisico che persegue
nuove scoperte non deve essere troppo critico; negli stadi iniziali deve basarsi su ipotesi
di lavoro, e troverà la sua strada soltanto se sarà sorretto da determinate convinzioni
che servano di guida alle sue ipotesi. Ma un credo non è una filosofia. Il filosofo della
scienza non ha molto interesse per i procedimenti del pensiero che portano alle scoperte
scientifiche; egli persegue una analisi logica della teoria già completa, ivi comprese le
relazioni che stabiliscono la sua validità. Cioè, non si interessa al contesto della scoperta,
ma al contesto della sua giustificazione. Il filosofo non ha nulla da obiettare alle
convinzioni di un fisico, quando non si presentano sotto forma di filosofia. Egli sa che
una convinzione personale si giustifica come strumento di ricerca di una teoria fisica; e,
anzi, non è altro che una forma primitiva di ipotesi, destinata eventualmente a essere
sostituita dalla teoria già elaborata, e soggetta in ultima istanza alle stesse verifiche
58 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
empiriche a cui è soggetta la teoria. La filosofia della fisica, d'altra parte, non nasce da
un credo, ma dall'analisi. Per essa, le convinzioni del fisico appartengono alla psicologia
della scoperta; essa tenta di chiarire il significato delle teorie fisiche indipendentemente
dal modo in cui esse sono interpretate dai loro autori, e s'interessa delle sole relazioni
logiche. Da questo punto di vista, è sorprendente vedere fino a che punto l'analisi logica
della relatività coincida con l'interpretazione originaria del suo autore, quale si può
ricostruire dalle scarse osservazioni contenute nelle pubblicazioni di Einstein.
Contrariamente a ciò che avvenne per certi sviluppi della meccanica quantistica, lo
schema logico della teoria della relatività conserva una straordinaria corrispondenza al
programma che ne regolò la scoperta. Questa chiarezza filosofica distingue Einstein da
molti fisici, l'opera dei quali diede vita a una filosofia diversa dall'interpretazione data
dall'autore.
Dopo questa ampia premessa possiamo passare ad analizzare i risultati filosofici
della teoria di Einstein, che include implicitamente più filosofia di quanta ne sia
contenuta in molti sistemi filosofici.
La base logica della teoria della relatività è la scoperta che molte affermazioni, la
cui verità o falsità si riteneva dimostrabile, non sono che semplici definizioni
convenzionali. Questa formulazione sembra enunciare una scoperta tecnica poco
importante, e non mette in evidenza le conseguenze implicite, di enorme importanza,
che costituiscono il significato filosofico della teoria. Nondimeno essa è una
formulazione completa della parte logica della teoria. Consideriamo, ad esempio, il
problema della geometria. Che l'unità di misura sia una questione convenzionale, è cosa
nota, ma il fatto che anche il confronto delle distanze sia una questione convenzionale è
noto soltanto all'esperto della relatività. Lo stesso discorso si può fare per il tempo: il
fatto che la simultaneità degli eventi che si producono in luoghi distanti fosse una
questione convenzionale non era noto, prima che Einstein fondasse la sua teoria della
relatività ristretta su questa scoperta logica.
Nelle esposizioni della teoria della relatività, l'uso di definizioni convenzionali
diverse viene spesso esemplificato col riferirlo a osservatori diversi. Questo modo di
presentare le cose ha dato origine alla concezione erronea che la relatività delle
misurazioni spazio-temporali sia legata alla soggettività dell'osservatore, che
l'individualità del mondo della percezione sensoriale sia l'origine della relatività
sostenuta da Einstein. Tale interpretazione protagorea della relatività di Einstein è
completamente sbagliata. Il carattere convenzionale del concetto di simultaneità, per
esempio, non ha nulla a che vedere con le variazioni prospettiche relative a diversi
osservatori collocati in diversi sistemi di riferimento. Coordinare diverse definizioni di
simultaneità a osservatori diversi serve semplicemente a semplificare l'esposizione delle
relazioni logiche. Parlare di diversi osservatori è solo un espediente per esprimere la
pluralità dei sistemi convenzionali. In un'esposizione logica della teoria della relatività
l'osservatore potrebbe essere completamente eliminato.
Le definizioni sono arbitrarie; e in conseguenza del carattere convenzionale dei
concetti fondamentali si ha che, al cambiare delle loro definizioni, nascono vari sistemi
di descrizione. Ma questi sistemi sono equivalenti l'uno all'altro, ed è possibile passare
da ciascun sistema a un altro con un'opportuna trasformazione. In tal modo il carattere
convenzionale dei concetti fondamentali conduce a una pluralità di descrizioni
equivalenti. Tutte queste descrizioni rappresentano linguaggi diversi che esprimono la
stessa cosa: possiamo dire, quindi, che descrizioni equivalenti esprimono lo stesso
contenuto fisico. La teoria delle descrizioni equivalenti si può anche applicare ad altri
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
59 campi della fisica; ma il caso dello spazio e del tempo è diventato il modello di questa
teoria.
La parola "relatività" dovrebbe essere interpretata nel senso di "relativo a un
certo sistema di definizioni convenzionali". Che la relatività implichi la pluralità, deriva
dal fatto che la variazione delle definizioni porta alla pluralità delle descrizioni
equivalenti. Ma noi vediamo che questa pluralità implicita non è una pluralità di punti
di vista differenti, o di sistemi di contenuto contraddittorio; è soltanto una pluralità di
linguaggi equivalenti, e pertanto di forme di espressione che non si contraddicono le
une con le altre, ma hanno lo stesso contenuto. La relatività non significa un abbandono
della verità; significa soltanto che la verità può essere formulata in modi diversi. Le due
proposizioni “la stanza è lunga 4 metri" e "la stanza è lunga 400 centimetri" sono
descrizioni equivalenti; esse affermano la stessa cosa. Il fatto che la semplice verità così
enunciata possa essere formulata in questi due modi non elimina il concetto di verità,
ma dimostra semplicemente che il numero che caratterizza una lunghezza è relativo
all'unità di misura. Tutte le relatività della teoria di Einstein sono di questo tipo. Per
esempio, la trasformazione di Lorentz ricollega descrizioni diverse di relazioni spaziotemporali fra di loro equivalenti nello stesso senso in cui lo sono una lunghezza di 4
metri e una lunghezza di 400 centimetri.
Una certa confusione è nata dalle considerazioni che si riferiscono alla proprietà
di semplicità. Un sistema descrittivo può essere più semplice di un altro ; ma ciò non lo
rende "più vero" dell'altro. Soltanto nell'ambito di considerazioni induttive la semplicità
può essere un criterio di verità; per esempio, la curva più semplice fra i dati
dell'osservazione rappresentati in un diagramma si considera "più vera", cioè più
probabile, di altre curve che colleghino gli stessi dati. Questa semplicità induttiva, però,
si riferisce a descrizioni non equivalenti, e non riguarda la teoria della relatività in cui si
confrontano soltanto descrizioni equivalenti. La semplicità delle descrizioni usate nella
teoria di Einstein è quindi sempre una semplicità descrittiva. Per esempio, il fatto che la
geometria non euclidea spesso fornisca una descrizione dello spazio fisico più semplice
di quella della geometria euclidea non rende "più vera" la descrizione non euclidea.
Di un'altra confusione è responsabile la teoria del convenzionalismo, che risale a
Poincarè. Secondo questa teoria, la geometria ha un carattere convenzionale, e non si
può attribuire alcun significato empirico a una proposizione sulla geometria dello
spazio fisico. Ora è vero che lo spazio fisico può essere descritto sia da una geometria
euclidea che da una geometria non euclidea; ma dire che una proposizione sulla
struttura geometrica dello spazio fisico sia priva di senso sarebbe interpretare male
questa relatività della geometria. La scelta di una geometria è arbitraria soltanto finché
non si fissa una definizione di congruenza. Quando questa definizione è data, stabilire
quale geometria valga per uno spazio fisico diventa una questione empirica. Invece di
parlare di convenzionalismo, quindi, noi parleremo della relatività della geometria. La
geometria è relativa esattamente nello stesso senso degli altri concetti relativi. L'essenza
della teoria della relatività sta nel fatto che anche i concetti fondamentali di spazio e
tempo sono considerati dello stesso tipo.
La relatività della geometria deriva dalla possibilità di rappresentare l'una
sull'altra geometrie diverse, con una corrispondenza biunivoca . Per alcuni sistemi
geometrici, però, la rappresentazione non sarà continua dappertutto, e in certi punti o
linee si manifesteranno delle singolarità. Per esempio, una sfera non può essere
proiettata su un piano senza una singolarità in almeno un punto; nelle solite proiezioni,
il polo nord della sfera corrisponde all'infinito del piano. Questa particolarità comporta
60 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
certe limitazioni per la relatività della geometria. Supponiamo che in una descrizione
geometrica, fondata ad esempio su uno spazio sferico, si abbia una causalità normale
per tutti gli avvenimenti fisici; allora una trasformazione in certe altre geometrie,
inclusa la geometria euclidea, porterà a violazioni del principio di causalità, ad
anomalie causali. Un segnale luminoso che andasse da un punto A ad un punto B
attraverso il polo nord, in un tempo finito, sarebbe rappresentato, in un'interpretazione
euclidea di questo spazio, come se si movesse da A in una certa direzione verso
l'infinito e ritornasse dalla parte opposta verso B, passando così attraverso una distanza
infinita in un tempo finito. Anomalie causali ancora più complicate risultano da altre
trasformazioni. Se il principio della causalità normale, cioè una diffusione continua
dalla causa all'effetto in un tempo finito, o azione per contatto, è posto come condizione
preliminare necessaria per la descrizione della natura, certi mondi non possono essere
interpretati con certe geometrie. Può darsi benissimo che la geometria così esclusa
debba essere la geometria euclidea; se l'ipotesi di Einstein di un universo chiuso è
corretta, una descrizione euclidea dell'universo dovrebbe essere esclusa per tutti coloro
che ammettono una causalità normale.
È questo fatto che rappresenta la confutazione più forte della concezione
kantiana dello spazio. La relatività della geometria è stata usata dai neokantiani come
una porta di servizio per introdurre l'apriorismo della geometria euclidea nella teoria di
Einstein: se è sempre possibile scegliere una geometria euclidea per la descrizione
dell'universo, i kantiani affermano che si dovrebbe sempre usare questa descrizione,
perchè la geometria euclidea, per un kantiano, è la sola che possa essere rappresentata
visivamente. Abbiamo visto che questa regola può condurre a violazioni del principio
di causalità; e poiché la causalità, per un kantiano, è anch'essa un principio a priori
come la geometria euclidea, la sua regola può costringere il kantiano ad una
contraddizione profonda. Non c'è difesa per il kantiano, se le proposizioni della
geometria del mondo fisico sono formulate in un modo completo, comprensivo di tutte
le loro implicazioni fisiche; poiché in questo modo le proposizioni sono verificabili
empiricamente e derivano la loro verità dalla natura del mondo fisico.
Sebbene noi ora possediamo, con la teoria di Einstein, una formulazione
completa della relatività dello spazio e del tempo, non dobbiamo dimenticare che
questo è il risultato di un lungo sviluppo storico. In particolare Leibniz, applicando il
suo principio dell'identità degli indiscernibili al problema del moto, arrivò alla relatività
del moto su basi logiche e andò tanto oltre da riconoscere la relazione fra ordine causale
e ordine temporale. Questa concezione della relatività fu in seguito sviluppata da Mach,
il cui contributo alla discussione consiste essenzialmente nell'importantissima idea che
una relatività del moto rotatorio implichi una estensione del relativismo al concetto di
forma inerziale. Einstein ha sempre riconosciuto in Mach un precursore della sua teoria.
Un'altra linea di sviluppo, che ha trovato anch'essa il suo completamento nella
teoria di Einstein, è data dalla storia della geometria. La scoperta di geometrie non
euclidee da parte di Gauss, Bolyai e Lobacevskij, fu associata all'idea che la geometria
fisica potesse essere non euclidea. Ma l'uomo a cui dobbiamo la chiarificazione
filosofica del problema della geometria è Helmholtz. Egli vide che la geometria fisica
dipendeva dalla definizione di congruenza per mezzo dei corpi solidi, e arrivò così a
una chiara definizione della natura della geometria fisica, superiore per profondità
logica al convenzionalismo di Poincarè. Non è colpa di Helmholtz se non riuscì a
dissuadere i filosofi contemporanei da un apriorismo kantiano sullo spazio e sul tempo.
Le sue vedute filosofiche erano conosciute solo in un piccolo gruppo di esperti.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
61 Quando, con la teoria di Einstein, l'interesse pubblico si rivolse a questi problemi, i
filosofi incominciarono ad abbandonare l'apriorismo kantiano.
Sebbene esista un'evoluzione storica dei concetti di spazio e di moto, questa linea
di sviluppo non trova il suo analogo per il concetto di tempo. Il primo a parlare di una
relatività della misura del tempo, cioè di quello che si chiama lo scorrere uniforme del
tempo, fu Mach. Tuttavia, l'idea einsteiniana di una relatività della simultaneità non ha
precursori. Forse questa scoperta non avrebbe potuto esser fatta prima del
perfezionamento dei metodi sperimentali della fisica. La relatività della simultaneità di
Einstein è strettamente associata all'ipotesi che la luce sia il segnale più rapido; idea che
non poteva essere concepita prima del risultato negativo di esperienze come quella di
Michelson. Fu la combinazione della relatività del tempo e del moto che rese così
efficace la teoria di Einstein e portò a risultati ben superiori a quelli ottenuti dalle teorie
precedenti. La scoperta della teoria della relatività particolare, a cui nessuno dei
precursori di Einstein aveva mai pensato, divenne così la chiave di una teoria generale
dello spazio e del tempo, che comprese tutte le idee di Leibniz, Gauss, Riemann,
Helmholtz e Mach, e aggiunse ad esse alcune scoperte fondamentali che non potevano
essere anticipate in uno stadio anteriore. In particolare mi riferisco alla concezione di
Einstein secondo cui la geometria dello spazio fisico è una funzione della distribuzione
delle masse, idea completamente nuova nella storia della geometria. Tutte le
considerazioni precedenti mostrano che l'evoluzione delle idee filosofiche sono guidate
dall'evoluzione delle teorie fisiche. La filosofia dello spazio e del tempo non è opera del
filosofo che sta nella sua torre d'avorio. È stata costruita da uomini che tentarono di
combinare i dati delle osservazioni con l'analisi matematica . La grande sintesi delle
varie linee di sviluppo, che dobbiamo ad Einstein, è una testimonianza del fatto che la
filosofia della scienza ha assunto una funzione che i sistemi filosofici non potevano
assolvere.
La questione di ciò che siano lo spazio e il tempo ha sempre affascinato gli autori
dei sistemi filosofici. Platone la risolse inventando un mondo di realtà "più elevate", il
mondo delle idee, che comprende lo spazio e il tempo fra i suoi oggetti ideali e rivela le
loro relazioni al matematico capace di compiere lo sforzo necessario a vederle. Per
Spinoza lo spazio era un attributo di Dio. Kant, a sua volta, negò la realtà dello spazio e
del tempo e considerò queste due categorie concettuali come forme di rappresentazione
visiva, cioè come costruzioni della mente umana per mezzo delle quali l'osservatore
umano combina le sue percezioni in modo da collegarle in un sistema ordinato. La
soluzione che noi possiamo dare al problema sulla base della teoria di Einstein è assai
differente dalle soluzioni di questi filosofi. La teoria della relatività mostra che lo spazio
e il tempo non sono né oggetti ideali, né forme ordinatrici necessarie alla mente umana.
Esse costituiscono un sistema di relazioni che esprime certe caratteristiche generali degli
oggetti fisici, e pertanto sono capaci di descrivere il mondo fisico.
Cerchiamo di render chiaro questo fatto. È ben vero che, come tutti i concetti, lo
spazio e il tempo sono invenzioni della mente umana. Ma non tutte le invenzioni della
mente umana sono adatte a descrivere il mondo fisico. Con quest'ultima frase
intendiamo dire che i concetti si riferiscono a certi oggetti e li differenziano dagli altri.
Per esempio, il concetto di "centauro " è vuoto, mentre il concetto di "orso" si riferisce a
certi oggetti fisici e li distingue dagli altri. Il concetto di "cosa", d'altra parte, sebbene
non sia vuoto, è tanto generale che non stabilisce differenze tra gli oggetti. I nostri
esempi riguardano predicati semplici, ma la stessa distinzione si applica a predicati più
complessi. La relazione "telepatia" è vuota, mentre la relazione "padre" non lo è. Se noi
62 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
diciamo che predicati semplici e non vuoti, come "orso", descrivono oggetti reali
dobbiamo anche dire che predicati non vuoti e più complessi, come “padre”,
descrivono relazioni reali. È in questo senso che la teoria della relatività sostiene la
realtà dello spazio e del tempo. Questi sistemi concettuali descrivono relazioni che
valgono fra oggetti fisici, cioè corpi solidi, raggi luminosi e orologi. Inoltre queste
relazioni formulano leggi fisiche di grande generalità, determinando alcune
caratteristiche fondamentali del mondo fisico. Lo spazio e il tempo hanno tanta realtà
quanta ne hanno, ad esempio, la relazione "padre" e le forze newtoniane di attrazione.
La considerazione seguente può costituire un'ulteriore spiegazione del perché la
geometria descriva la realtà fisica. Finché si conosceva una sola geometria, la geometria
euclidea, il fatto che questa geometria potesse essere usata per una descrizione del
mondo fisico rappresentava un problema per il filosofo; e la filosofia di Kant deve
essere intesa come un tentativo di spiegare perché un sistema strutturale derivato dalla
mente umana potesse dar conto delle relazioni osservate. Con la scoperta di una
pluralità di geometrie, la situazione cambiò completamente. La mente umana si
dimostrò capace di inventare ogni tipo di sistema geometrico, e la questione di quale
fosse il sistema adatto a descrivere la realtà fisica si trasformò in una questione
empirica, cioè la sua soluzione fu lasciata in definitiva ai dati dell'esperienza. Ma, se le
proposizioni sulla geometria del mondo fisico sono empiriche, la geometria descrive
una proprietà del mondo fisico nello stesso senso in cui, ad esempio, la temperatura o il
peso descrivono certe proprietà degli oggetti fisici. Quando parliamo della realtà dello
spazio fisico, intendiamo appunto questo.
L'importanza che hanno i raggi luminosi nella teoria della relatività deriva dal
fatto che la luce è il segnale più rapido, cioè rappresenta la forma più rapida di catena
causale. Si può dimostrare che il concetto di catena causale è il concetto fondamentale
su cui si erige la struttura dello spazio e del tempo. L'ordine spazio-temporale deve
essere quindi considerato come l'espressione dell'ordine causale del mondo fisico. La
stretta connessione fra spazio e tempo da una parte, e causalità dall'altra, è forse la
caratteristica più pronunciata della teoria di Einstein, sebbene questa caratteristica non
sia sempre stata riconosciuta nel suo profondo significato. L'ordine temporale, l'ordine
del prima e del dopo, è riducibile all'ordine causale; la causa è sempre anteriore
all'effetto, e questa relazione non può essere invertita. Che la teoria di Einstein ammetta
un'inversione dell'ordine temporale per certi eventi, risultato ben noto per la relatività
della simultaneità, è semplicemente una conseguenza di questo fatto fondamentale.
Poiché la velocità della trasmissione causale è limitata, esistono eventi di natura tale che
nessuno di essi può essere causa o effetto dell'altro. Per eventi di questa natura un
ordine temporale non è definito, e ciascuno di essi può essere considerato anteriore o
posteriore all'altro.
In definitiva, anche l'ordine spaziale è riducibile a ordine causale; un punto
spaziale B è considerato più vicino ad A di un punto spaziale C, se un segnale luminoso
diretto, cioè una catena causale rapidissima, passa da A a C attraverso B. La
connessione fra ordine temporale e causale porta alla questione della direzione del
tempo. La relazione fra causa ed effetto è una relazione asimmetrica; se P è la causa di
Q, allora Q non è la causa di P. Questo fatto fondamentale è essenziale per l'ordine
temporale, perché riduce il tempo a una relazione seriale. Per relazione seriale
intendiamo una relazione che ordina i suoi elementi in una disposizione lineare; tale
relazione è sempre asimmetrica e transitiva. Il tempo della teoria di Einstein ha queste
proprietà; ed è necessario che le abbia, perché altrimenti non si potrebbe usare per la
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
63 costruzione di un ordine seriale. Tuttavia ciò che chiamiamo direzione del tempo deve
essere distinta dal carattere asimmetrico dei concetti "prima" e "dopo". Una relazione
può essere asimmetrica e transitiva senza distinguere una direzione da quella opposta.
Per esempio, i punti di una linea retta sono ordinati mediante una relazione seriale che
possiamo esprimere con le parole "prima" e "dopo". Se A è prima di B, allora B non è
prima di A, e se A è prima di B e B è prima di C, allora A è prima di C. Ma quale
direzione della linea dobbiamo chiamare "prima" e quale "dopo", non è indicato dalla
natura della linea; questa definizione si può dare soltanto compiendo una scelta
arbitraria, per esempio indicando una direzione e chiamandola direzione del "prima". In
altre parole le relazioni "prima" e "dopo" sono strutturalmente indistinguibili, e quindi
intercambiabili; dire che il punto A viene prima del punto B, o dire che viene dopo,
dipende da una definizione arbitraria.
Il problema della relazione temporale è di vedere se sia unidirezionale. La
relazione "prima di" che usiamo nella vita comune è strutturalmente diversa dalla
relazione "dopo di". Il fisico formula questa direzione come irreversibilità del tempo: il
tempo scorre in una sola direzione, e il flusso del tempo non può essere invertito.
Vediamo quindi che, nel linguaggio della teoria delle relazioni, la questione della
irreversibilità del tempo è espressa non dalla questione se il tempo sia una relazione
asimmetrica, ma dalla questione se sia una relazione unidirezionale. Per la teoria della
relatività, il tempo è certamente una relazione asimmetrica, perché altrimenti la
relazione temporale non stabilirebbe un ordine seriale; ma non è unidirezionale. In altri
termini l'irreversibilità del tempo non trova un'espressione nella teoria della relatività.
Non dobbiamo però concludere che questa sia l'ultima parola che il fisico può dire sul
tempo. Possiamo dire soltanto che, per quanto riguarda la teoria della relatività, non
dobbiamo dare una distinzione qualitativa fra le due direzioni del tempo, fra il "prima"
e il "dopo". Una teoria fisica può ben fare astrazione da certe proprietà del mondo fisico;
ma ciò non significa che queste proprietà non esistano. L'irreversibilità del tempo,
finora, è stata trattata soltanto in termodinamica, dove è concepita come qualcosa di
carattere essenzialmente statistico, non applicabile ai processi elementari. Questa
concezione non è soddisfacente, soprattutto se si considera che ha portato a certi
paradossi. Ma la fisica quantistica, finora, non offre soluzioni migliori. Qualche
spiraglio sulla direzionalità del tempo, se non addirittura su una sua possibile assenza,
può venire da una teoria che unifichi relatività e meccanica quantistica (teoria delle
stringhe o gravità quantistica a loop: capitolo 15).
È sorprendente constatare che la trattazione fisico-matematica del concetto di
tempo, formulata nella teoria di Einstein, ha condotto a una chiarificazione che l'analisi
filosofica non avrebbe potuto ottenere. Per il filosofo, certi concetti come ordine
temporale e simultaneità erano nozioni primitive, inaccessibili a un'analisi più
dettagliata. Ma la pretesa che un dato concetto non ammetta di essere analizzato spesso
nasce semplicemente dall'incapacità di comprenderne il significato. Con la riduzione
del concetto di tempo a quello di causalità e la generalizzazione dell'ordine temporale a
una relatività della simultaneità, Einstein non ha soltanto cambiato le nostre concezioni
del tempo, egli ha anche chiarito il significato del concetto classico di tempo che aveva
preceduto le sue scoperte. In altri termini, noi ora conosciamo il significato del tempo
assoluto meglio di qualsiasi fautore della concezione classica del tempo. La simultaneità
assoluta varrebbe in un mondo in cui non esistesse un limite massimo alla velocità dei
segnali, cioè a una trasmissione causale. Un mondo di questo tipo è immaginabile tanto
quanto il mondo di Einstein. Dire a quale tipo appartenga il nostro mondo è una
64 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
questione empirica: l'esperienza ha deciso a favore della concezione di Einstein. Come
nel caso della geometria, la mente umana è capace di costruire varie forme di schemi
temporali; la questione dello schema più adatto al mondo fisico, cioè più vero, può
essere risolta soltanto riferendosi ai dati dell'osservazione. Il contributo della mente
umana al problema del tempo non può essere un ordine temporale ben definito, ma una
pluralità di possibili ordini temporali, e la scelta di un ordine temporale che possa
considerarsi reale è lasciata all'osservazione empirica. Il tempo è l'ordine delle catene
causali; questo è il risultato più alto delle scoperte di Einstein. Il solo filosofo che
anticipò questo risultato fu Leibniz; anche se, naturalmente, ai suoi tempi sarebbe stato
impossibile concepire una relatività della simultaneità. E Leibniz era tanto un
matematico quanto un filosofo. La soluzione del problema del tempo e dello spazio
pare sia riservata ai filosofi che, come Leibniz, sono matematici, o ai matematici che
come Einstein, sono filosofi.
Dal tempo di Kant, la storia della filosofia presenta una frattura sempre più
grande fra i sistemi filosofici e la filosofia della scienza. Il sistema di Kant fu costruito
con l'intenzione di provare che la conoscenza è il risultato di due componenti, quella
dell'intelletto e quella dell'osservazione; e si considerò che la componente intellettuale
fosse data dalle leggi della ragion pura, concependola come un elemento sintetico
differente dalle operazioni puramente analitiche della logica. Il concetto di sintetico a
priori definisce la posizione kantiana; una parte della conoscenza è sintetica a priori,
cioè vi sono proposizioni non vuote, assolutamente necessarie. Fra questi principi della
conoscenza Kant include le leggi della geometria euclidea, del tempo assoluto, della
causalità e della conservazione della massa. I suoi seguaci, nel diciannovesimo secolo,
ripresero questa concezione, apportandole molte varianti. Lo sviluppo della scienza,
d'altra parte, ci ha allontanati dalla metafisica kantiana. La verità dei principi che Kant
considera sintetici a priori fu riconosciuta discutibile, altri principi, in contraddizione
con essi, furono sviluppati e usati per la costruzione della conoscenza. Questi nuovi
principi non furono proposti come verità assoluta, ma come tentativi di trovare una
descrizione nella natura che si adattasse ai dati materiali dell'osservazione. Fra la
pluralità dei sistemi possibili, quello che corrispondesse alla realtà fisica poteva essere
individuato soltanto dall'osservazione e dall'esperienza. In altri termini i principi
sintetici della conoscenza, che Kant aveva considerato a priori, furono riconosciuti come
principi a posteriori, verificabili soltanto con l'esperienza e validi nel senso ristretto di
ipotesi empiriche.
È in questo processo di dissoluzione del sintetico a priori che noi dobbiamo porre
la teoria della relatività, se vogliamo giudicarla dal punto di vista della storia della
filosofia. Una linea di sviluppo che incominciò con l'invenzione delle geometrie non
euclidee, 20 anni dopo la morte di Kant, si svolge ininterrottamente fino alla teoria di
Einstein dello spazio e del tempo. Le leggi della geometria, considerate per 2000 anni
come leggi della ragione, furono riconosciute come leggi empiriche, che si adattano al
mondo circostante all'uomo con una precisione estremamente elevata, ma che debbono
essere abbandonate per le dimensioni astronomiche. L'apparente autoevidenza di
queste leggi, che le faceva apparire come presupposti inoppugnabili di ogni
conoscenza, risultò essere un frutto dell'abitudine; attraverso la loro adattabilità a tutte
le esperienze della vita quotidiana, queste leggi avevano acquistato un grado di
sicurezza erroneamente interpretato come certezza assoluta. Helmholtz fu il primo a
sostenere l'idea che, se esseri umani vivessero in un mondo non euclideo, essi sarebbero
capaci di sviluppare una forma di rappresentazione visiva mediante la quale sarebbero
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
65 portati a considerare necessarie e di per sé evidenti le leggi della geometria non
euclidea, nello stesso modo in cui le leggi della geometria euclidea appaiono evidenti a
noi. Trasferendo quest'immagine alla concezione einsteiniana del tempo, potremmo
dire che, se vi fossero esseri umani a cui le esperienze quotidiane rendessero
apprezzabili gli effetti della velocità finita della luce, essi si abituerebbero alla relatività
della simultaneità e considererebbero le regole della trasformazione di Lorentz
necessarie e di per sé evidenti, proprio come noi consideriamo di per sé evidenti le
regole classiche del moto e della simultaneità. Ciò che i filosofi avevano considerato
come leggi della ragione si sono dimostrate essere un adattamento alle leggi fisiche
dell'ambiente circostante; e vi è ragione di credere che, in un ambiente diverso, un
adattamento corrispondente avrebbe portato l'uomo ad avere un'altra formazione
mentale.
Il processo di dissoluzione del sintetico a priori è una delle caratteristiche più
importanti della filosofia del nostro tempo. Noi non commetteremo l'errore di
considerare come un fallimento delle capacità umane il fatto che certi concetti, ritenuti
assolutamente veri, si siano dimostrati di validità limitata e, in certi campi della
conoscenza, debbano essere abbandonati. Al contrario, il fatto che noi siamo in grado di
superare queste concezioni e di sostituirle con altre migliori rivela capacità inaspettate
della mente umana, e una versatilità enormemente superiore al dogmatismo d'una
ragion pura che detta le sue leggi allo scienziato. Kant si illuse di possedere una prova
dell'asserzione che i principi sintetici a priori fossero verità necessarie; per lui questi
principi erano condizioni necessarie della conoscenza. Egli trascurò il fatto che una tale
prova può dimostrare la verità dei principi solo se si ammette che il sistema costruito da
questi stessi principi consenta sempre di arrivare alla conoscenza. Lo sviluppo della
teoria di Einstein dimostra appunto che la conoscenza, entro lo schema dei principi
kantiani, non è possibile. Per un kantiano, tale risultato può significare soltanto un
fallimento della scienza. Ma per fortuna Einstein non era un kantiano e, invece di
abbandonare i suoi tentativi di costruire la conoscenza, cercò il modo di cambiare i
cosidetti principi a priori. Con la sua capacità di usare relazioni spazio-temporali
essenzialmente diverse dallo schema tradizionale della conoscenza, Einstein ha aperto
la strada a una filosofia superiore alla filosofia del sintetico a priori. La relatività di
Einstein appartiene quindi alla filosofia dell'empirismo. E l'empirismo di Einstein non è
quello di Bacone, il quale credeva che tutte le leggi della natura si potessero trovare con
semplici generalizzazioni induttive. L'empirismo di Einstein è quello del fisico teorico
moderno, l'empirismo della costruzione matematica, concepita in modo da connettere i
risultati dell'osservazione per mezzo di operazioni deduttive, e da permetterci di
prevedere nuovi risultati dell'osservazione. La fisica matematica resta sempre
empiristica, finché fonda sulla percezione dei sensi il criterio ultimo di verità. L'enorme
sviluppo del metodo deduttivo, in tale fisica, si può spiegare benissimo in funzione
delle operazioni analitiche. Oltre alle operazioni deduttive, la fisica delle ipotesi
matematiche comporta, naturalmente, un elemento induttivo; ma anche il principio
dell'induzione, l'ostacolo di gran lunga più difficile a un empirismo radicale, si può oggi
giustificare senza bisogno di credere in un sintetico a priori. Il metodo della scienza
moderna si può completamente spiegare nei termini di un empirismo che riconosce
soltanto la percezione dei sensi e i principi analitici della logica come sorgenti di
conoscenza. Nonostante il suo enorme edificio matematico, la teoria di Einstein dello
spazio e del tempo è un trionfo di tale empirismo radicale, in un campo che è sempre
stato considerato riservato alle scoperte della ragion pura.
66 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Il processo di dissoluzione del sintetico a priori continua. All'abbandono dello
spazio e del tempo assoluto la fisica quantistica ha aggiunto quello della causalità;
inoltre, essa ha abbandonato il concetto classico di sostanza materiale e ha mostrato che
i costituenti della materia, le particelle atomiche, non possiedono la natura non ambigua
dei corpi solidi del mondo macroscopico. Se intendiamo per metafisica la fede in
principi che non siano analitici, ma che ciononostante derivino la loro validità dalla sola
ragione, la scienza moderna è antimetafisica. Essa ha rifiutato di riconoscere l'autorità
del filosofo che pretende di conoscere la verità attraverso l'intuizione, col penetrare,
cioè, in un mondo delle idee, o nella natura della ragione, o nei principi dell'essere, o in
qualsiasi altro modo che trascenda l'empirico. Anche per i filosofi, la via della verità non
può essere diversa. Il cammino dei filosofi è indicato da quello degli scienziati: tutto ciò
che il filosofo può fare è analizzare i risultati della scienza, trovarne il significato e
definirne i limiti di validità. La teoria della conoscenza è un'analisi della scienza.
Si è detto prima che Einstein è un filosofo implicito. Questo significa che il
compito del filosofo è di esplicitare le implicazioni filosofiche della teoria di Einstein.
Non dobbiamo dimenticare che le implicazioni deducibili dalla teoria della relatività
sono di enorme portata, e dobbiamo renderci conto che solo una fisica eminentemente
filosofica può prestarsi a tali deduzioni. Non capita molto spesso che ci si trovi di fronte
a sistemi fisici di tale importanza filosofica; in questo senso, l'unico predecessore di
Einstein fu Newton. È un privilegio del XX secolo annoverare un fisico la cui opera
assurge alla stessa grandezza di quella dell'uomo che ha determinato la filosofia dello
spazio e del tempo per due secoli. Se i fisici presentano filosofie implicite di tale
eccellenza, è un piacere essere filosofi. La fama imperitura della filosofia della fisica
moderna andrà giustamente all'uomo che costruì la fisica, più che a coloro i quali si
sforzarono di trarne le conseguenze e di collocarle nella storia della filosofia. Molti
hanno contribuito alla filosofia della teoria di Einstein, ma vi è un solo Einstein.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
67 CAPITOLO 5 LA R IVOLUZIONE Q UANTISTICA 5.1 Introduzione
Uno dei metodi da sempre adottati nelle sintesi di particolari periodi della storia
del sapere umano è quello che procede attraverso descrizioni complessive, e cioè
immagini efficaci che rendano immediatamente riconoscibili e classificabili movimenti e
situazioni anche complessi. Questo è avvenuto soprattutto per quel che riguarda le
epoche passate: il XVII secolo è passato alla storia come l'età della modernità, il XVIII
come quella dei Lumi, il XIX come quella delle macchine e dell’industrializzazione
mondiale. Se volessimo applicare tale metodo anche al XX secolo, scopriremmo di
trovarci in un notevole imbarazzo: mai come nel '900 le direzioni di sviluppo della
nostra civiltà e del pensiero sono apparse difficili da individuare. Il compito sarebbe più
facile e interessante se ci si limitasse ad un'analisi condotta attraverso l'individuazione
di alcune parole chiave, intese come guide per posare lo sguardo sulla realtà. Una di
queste parole da usare come lente di ingrandimento, soprattutto per esplorare il campo
dello sviluppo della fisica, e, più in generale, della filosofia e della scienza, potrebbe
essere senz’altro il termine "crisi".
La storia della fisica e del pensiero scientifico e filosofico contemporaneo è infatti
segnata, già a partire dalla fine del XIX secolo, come abbiamo già visto, dalla
progressiva presa di coscienza di un lento ma inesorabile dileguarsi delle certezze, dei
fondamenti teorici e pratici del sapere. Il XX secolo è caratterizzato dalla scoperta del
fatto che la scienza non è onnisciente, che la sua pretesa di conoscere il mondo senza
errori è soltanto un mito, o al più una confortante ipotesi di lavoro.
L'epoca contemporanea ha dovuto rinunciare al sogno della fisica classica di
conoscere il mondo in maniera completa a partire dalle componenti minime ed
elementari, quello che potremmo chiamare il "sogno di Cartesio". Gli sviluppi della
scienza hanno prodotto inoltre un lento ma inesorabile smascheramento della nostra
più fondata certezza: l'immagine di un mondo deterministico, un mondo, cioè, sui cui
eventi e fenomeni è sempre possibile operare previsioni da cui far derivare leggi
assolute. Insomma, il sogno galileiano è svanito, è sfumata la possibilità di prevedere
l'evoluzione futura di ciascun fenomeno a partire dalla conoscenza della legge che lo
regola. Il sapere ereditato dall'età moderna, per poter sopravvivere, deve mettere in
discussione, uno dopo l'altro, tutti i suoi fondamenti, abbandonare il bisogno di
ritrovare confermati i propri schemi mentali, le proprie strutture teoriche.
68 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
5.2 Il crollo della visione classica del mondo
Ci accingiamo ora a percorrere l'affascinante cammino che ha portato, nel primo
quarto del XX secolo, all'elaborazione di quella rivoluzione scientifica rappresentata
dalla meccanica quantistica, lo schema concettuale che, assieme alla teoria della
relatività, ha mutato radicalmente le concezioni della fisica classica e che sta alla base di
tutta la moderna visione del mondo. In primo luogo, essa distrugge la tradizionale
nozione di causalità, nel senso che le previsioni quantistiche non garantiscono certezze,
ma, a differenza della meccanica newtoniana, descrivono solo in maniera probabilistica
le modalità con cui accadono gli eventi. Ogni nozione, ogni conoscenza delle "cose"
presenta certi limiti di natura intrinseca: quando ne possediamo una parte, esiste
qualche altra parte che ci sfugge. Infine, termini come "particella", "stato", "traiettoria",
"misura" mutano il loro significato originario.
Raramente la nascita di una nuova teoria è stata altrettanto travagliata, ha
richiesto così rilevanti sforzi da parte di alcune delle più brillanti menti di tutti i tempi
e, pur avendo registrato un successo sul piano predittivo ineguagliato da ogni altro
schema teorico nella storia della scienza, ha suscitato un così vivace e appassionante
dibattito e controversie così accese circa il suo vero significato. Questi fatti non
risulteranno sorprendenti allorché avremo penetrato almeno in parte i segreti del
microcosmo che il nuovo schema concettuale ci andrà svelando. Questi segreti, le
incredibili prodezze di cui scopriremo capaci i sistemi microscopici, risultano di fatto
così innovativi e rivoluzionari rispetto alle concezioni classiche elaborate sulla base
della nostra esperienza con i sistemi macroscopici, che risulta quasi naturale che
l'elaborazione della nuova teoria sia stata tanto sofferta e che tuttora il dibattito sulle
sue implicazioni concettuali e filosofiche risulti notevolmente acceso.
Le origini della meccanica quantistica vanno ricercate proprio nella fondamentale
incapacità degli schemi concettuali classici di rendere conto di alcuni basilari fenomeni
fisici. L’assetto che alla fine dell’Ottocento aveva raggiunto la fisica classica, e cioè la
meccanica, la termodinamica e l’elettromagnetismo, sembrava definitivo; rimanevano
da sciogliere certe incongruenze, ma si pensava fossero dovute a limiti tecnologici e
problemi di calcolo, non certo a carenze concettuali delle teorie. È facile immaginare la
crisi che conseguì all'identificazione di alcuni semplici processi fisici, come le righe
sprettrali lo spettro d’irraggiamento di un corpo al variare della sua temperatura, o
modelli atomici, come quello planetario, che risultavano assolutamente incomprensibili
secondo le teorie ora menzionate e che resistevano ad ogni tentativo di ricondurli
all'interno della visione classica del mondo.
Iniziò così quella crisi che, grazie al lavoro di un gruppo assolutamente
eccezionale di geni come Planck, Einstein, Bohr, Schrodinger, Heisenberg, Pauli, Dirac e
tanti altri, scardinò alle fondamenta la visione classica del mondo, catapultando così il
Novecento all’interno di una rivoluzione non solo scientifica, ma anche culturale, che
ancora oggi è in atto.
5.3 L’ipotesi di Planck
Tutti i tentativi di spiegare lo spettro d’irraggiamento di un corpo al variare della
sua temperatura in termini delle teorie classiche erano miseramente falliti. Max Planck
(1858-1947; Premio Nobel) mostrò che una soluzione del problema poteva ottenersi
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
69 ammettendo che gli scambi di energia tra radiazione e materia avvenissero non in modo
continuo, come implicato dal modello classico, ma per “quanti”, ossia quantità discrete.
CONDIZIONE DI QUANTIZZAZIONE DI PLANCK
Una carica elettrica oscillante può scambiare energia con la radiazione
elettromagnetica solo per quantità discrete ΔE, legate alla frequenza f di
oscillazione da:
ΔE = hf
h= costante di Planck
L'energia viene a essere, dunque, una grandezza fisica quantizzata, che può
assumere solo valori discreti, ossia valori ben definiti.
L'ipotesi di Planck, che rappresenta certamente una delle tappe decisive nello
sviluppo della moderna concezione scientifica, non ottenne immediatamente il
consenso che meritava, proprio a causa della difficoltà di accettare la rottura che tale
ipotesi introduceva nella continuità dei fenomeni naturali, allora universalmente
accettata, e che rappresentava un ostacolo insormontabile per la concezione causale del
mondo insita nella fisica classica. Questa ipotesi apparve allo stesso Planck come un
artificio matematico, una costruzione astratta che non comportava direttamente la
necessità di un mutamento profondo nella concezione della realtà. Planck si vide, in un
certo senso, costretto ad introdurre l’ipotesi allorché si rese conto che non esistevano
altre vie per dare una base teorica ai fenomeni dell'irraggiamento.
Solo cinque anni dopo la prima ipotesi di Planck, il quanto venne riconosciuto,
per merito di Einstein, come un’entità fisica reale. Nel primo dei tre famosi articoli
pubblicati nel 1905, Einstein introdusse i quanti di luce, o fotoni, per sviluppare su basi
quantistiche l'interazione fra la radiazione e la materia. Mentre Planck aveva
quantizzato solo l'energia associata alla radiazione uscente dal corpo nero, per Einstein
la discontinuità insita nella dottrina dei quanti divenne un concetto fondamentale,
generalizzato a qualsiasi tipo di radiazione.
QUANTIZZAZIONE DELLA LUCE
Ogni radiazione elettromagnetica, come la luce, può essere considerata,
indipendentemente dalla sorgente, come una corrente di quanti (fotoni), ciascuno
dei quali possiede l’energia:
E = hf
In questo modo il fenomeno dell’effetto fotoelettrico aveva la sua spiegazione.
Immaginando che la luce arrivi in maniera granulare, in grani di energia, un elettrone
viene sbalzato fuori dal suo atomo se il singolo grano che lo colpisce ha molta energia
(frequenza elevata) e non se ci sono tanti grani, ma di bassa energia (bassa frequenza).
Ossia luce molto intensa (energia elevata) ma costituita da fotoni di bassa energia (bassa
frequenza), non fa avvenire il fenomeno; mentre, anche un singolo fotone, purchè abbia
l’energia giusta (alta frequenza), può far avvenire il fenomeno.
70 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Una delle più importanti prove sperimentali della validità dell'interpretazione
quantistica della radiazione elettromagnetica, fu l’effetto Compton, che decrive lo
scattering tra fotone ed elettrone
5.4 L’atomo di Bohr e l’origine della meccanica quantistica
Il modello planetario dell’atomo, dovuto a Ernest Rutherford (1871–1937; Premio
Nobel), con elettroni stazionari disposti intorno ad un nucleo positivo sarebbe instabile,
perché gli elettroni con la loro carica negativa sarebbero attratti da una forza elettrica
verso il nucleo. Newton aveva mostrato che qualunque corpo in moto circolare subisce
un’accelerazione, e Maxwell che tale corpo, se è una particella carica come l’elettrone,
emette continuamente energia sotto forma di radiazione elettromagnetica. Quindi
l’elettrone, in breve tempo dovrebbe perdere tutta la sua energia per poi collassre sul
nucleo. Ma ciò non avviene. Come spiegare, quindi, la stabilità di un atomo?
Niels Bohr (1885-1962; Premio Nobel), per spiegare la stabilità dell’atomo e il
fatto che l’elettrone, pur soggetto ad accelerazione centripeta nel suo moto rotatorio
intorno al nucleo, non irraggi energia, confinò gli elettroni su orbite speciali in cui non
potevano emettere con continuità radiazioni né cadere a spirale nel nucleo, e così
quantizzò le orbite elettroniche. Gli elettroni, di tutte le orbite permesse dalla fisica
classica poteva occuparne soltanto alcune, i cosiddetti stati stazionari. Bohr arrivò così a
formulare i seguenti due postulati:
POSTULATI PER LA QUANTIZZAZIONE DELLE ORBITE E DELL’ENERGIA
1. Un elettrone può descrivere intorno al nucleo solo una successione discreta di
orbite, nel senso che non tutte le orbite sono permesse.
2. Quando un elettrone percorre una data orbita non irraggia energia: il
contenuto energetico dell’atomo varia solo per effetto di una transizione da
un’orbita a un’altra.
Nonostante i limiti della teoria legati soprattutto all'introduzione di ipotesi ad
hoc e all'uso non perfettamente coerente di idee quantistiche in un contesto classico, il
modello di Bohr, per la sua relativa semplicità, deve essere considerato un geniale
contributo scientifico di importanza storica, nonché un'incomparabile sorgente di
ispirazione per ricerche teoriche e sperimentali successive.
L’atomo di Bohr, però, incontrava difficoltà nel spiegare sistemi atomici con più
di un elettrone. Arnold Sommerfeld (1868-1951) risolse il problema modificando il
modello atomico di Bohr. Per semplificare il suo modello, Bohr aveva imposto agli
elettroni di muoversi intorno al nucleo soltanto su orbite circolari. Sommerfeld decise di
lasciar cadere questa restrizione, permettendo agli elettroni di muoversi su orbite
ellittiche. Per diversi anni il modello atomico di Bohr-Sommerfeld rappresentò lo
schema fondamentale per interpretare i fatti sperimentali della fisica atomica.
Come la meccanica relativistica, nata dalla revisione di alcuni concetti
riguardanti lo spazio e il tempo, contiene la meccanica classica, così, da una sistematica
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
71 revisione del modello di Bohr, si sperava di costruire una nuova meccanica che potesse
dare risultati conformi all'esperienza nelle applicazioni ai domini microscopici e, nello
stesso tempo, tendesse alla fisica classica per quei fenomeni nei quali le discontinuità
quantistiche diventano trascurabili. In questo consiste il:
PRINCIPIO DI CORRISPONDENZA
Le previsioni della meccanica quantistica devono concordare con quelle della
meccanica classica man mano che il sistema quantistico si ingrandisce verso
dimensioni macroscopiche. Quando, cioè, la meccanica quantistica è applicata al
mondo macroscopico, essa deve essere in grado di riprodurre le leggi classiche.
La via per arrivare a formulare una nuova fisica atomica iniziò verso il 1924 con
due diverse teorie elaborate quasi contemporaneamente: la meccanica ondulatoria di
Schrodinger e la meccanica delle matrici sviluppata da Heisenberg.
5.5 Dualità onda-corpuscolo nella materia
Come abbiamo visto precedentemente, per risolvere le difficoltà incontrate nei
riguardi dell'effetto fotoelettrico, all'inizio del 1900 si rese necessario attribuire alla
radiazione elettromagnetica proprietà corpuscolari, introducendo i cosiddetti quanti o
fotoni. Questa nuova concezione, proposta da Einstein, fu per molti un vero shock. I
fenomeni di interferenza e diffrazione della luce erano infatti manifestazioni inconfutabili di una natura ondulatoria. D'altra parte, oltre all'effetto fotoelettrico, anche
altre esperienze, come la diffusione Compton della luce da parte di elettroni liberi, davano fondamento all'ipotesi corpuscolare. Si doveva quindi ammettere che la dualità
onda-corpuscolo fosse insita nella natura della luce. Ma le sorprese dovevano ancora
arrivare.
Nel 1924 Louise de Broglie (1892-1987; Premio Nobel) avanzò, nella sua tesi di
laurea, un'ipotesi che portò ulteriore sconcerto nel mondo della fisica classica. Partendo
dal presupposto che la dualità onda-corpuscolo dovesse riflettere una legge generale
della natura, egli pensò di estendere questa proprietà alle particelle. Se le radiazioni
luminose, che presentano così palesemente un aspetto ondulatorio, possono talvolta
comportarsi come particelle, anche un elettrone o un protone, o una qualsiasi altra
particella, che sono evidentemente dei corpuscoli, devono comportarsi in determinate
circostanze come delle onde.
Gli esperimenti di Compton avevano dimostrato che Einstein aveva ragione a
ritenere che la luce avesse una natura anche corpuscolare. Ora de Broglie stava
suggerendo lo stesso tipo di fusione, il dualismo onda-particella, anche per la materia.
Ma ciò era veramente possibile? De Broglie aveva immediatamente compreso che se la
materia ha proprietà ondulatorie, un fascio di elettroni dovrebbe subire il fenomeno
della diffrazione.
La prima verifica delle proprietà ondulatorie delle particelle fu effettuata nel 1927
da Clinton Davisson (1881-1958; Premio Nobel) e Lester Germer (1896-1971; Premio
Nobel). I due fisici americani osservarono che un fascio di elettroni, interagendo con un
72 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
cristallo di nichel, produceva una figura di diffrazione. Intorno al 1930, Otto Stern
(1888-1969), dimostrò che anche corpuscoli più complessi come gli atomi presentano
proprietà ondulatorie: le onde di de Broglie diventarono un'indiscutibile realtà fisica,
sebbene nessuno capisse perfettamente che cosa fossero. Nel 1931, Max Knoll (18971969) ed Ernst Ruska (1906-1988; Premio Nobel), servendosi della natura ondulatoria
dell’elettrone, inventano il microscopio elettronico.
5.6 Nascita della meccanica quantistica
La fisica atomica offriva un gran numero di risultati sperimentali ancora da
interpretare e certe manifestazioni della natura a livello microscopico sembravano
contraddirne altre e nessuno, fino a questo momento, aveva idea delle correlazioni che
potevano sussistere. Per superare i problemi che affliggevano la fisica atomica era
necessario porre fine alle ipotesi ad hoc introdotte ogni qualvolta gli esperimenti
fornivano dati in conflitto con la teoria esistente. Un simile modo di procedere poteva
soltanto nascondere i problemi senza mai condurre alla loro soluzione. Il metodo da
seguire doveva essere quello utilizzato da Einstein che lo aveva portato ad elaborare la
teoria della relatività, ossia stabilire i principi fisici e filosofici prima di passare a
sviluppare le minuzie matematiche formali necessarie per tenere insieme il complesso
edificio teorico. Per un quarto di secolo, gli sviluppi della fisica quantistica - dalla legge
della radiazione di corpo nero di Planck al quanto di luce di Einstein, dall’atomo
quantistico di Bohr-Sommerfeld al dualismo onda-particella per la materia di de Broglie
– erano stati il prodotto di un matrimonio infelice tra concetti quantistici e fisica classica.
I fisici dovevano liberarsi di cercare di far rientrare concetti quantistici nella cornice
rassicurante e familiare della fisica classica. Ciò che occorreva era una nuova teoria, una
nuova meccanica del mondo quantistico, appunto la meccanica quantistica.
Il primo a farlo fu Werner Heisenberg (1902-1976; Premio Nobel), quando adottò
in modo pragmatico il credo positivista secondo il quale la scienza doveva basarsi su
fatti osservabili, e tentò di costruire una teoria basata esclusivamente sulle grandezze
osservabili. Infatti l’idea di Heisenberg era quella di separare ciò che era osservabile da
ciò che non lo era. L’orbita di un elettrone intorno al nucleo di un atomo di idrogeno
non era osservabile, per cui l’idea di elettroni in orbita doveva essere abbandonata, così
come qualunque tentativo di visualizzare ciò che accadeva all’interno di un atomo.
Pertanto Heisenberg, nel suo tentativo di costruzione di una teoria coerente ed unitaria,
decise di ignorare tutto ciò che era inosservabile e concentrando l’attenzione soltanto su
quelle grandezze che potevano essere misurate in laboratorio, come le frequenze e le
intensità delle righe spettrali associate con la luce emessa o assorbita quando un
elettrone salta da un livello energetico ad un altro. In qualsiasi calcolo erano ammissibili
soltanto relazioni tra grandezze osservabili, ossia quelle che potevano essere misurate in
via di principio. L’osservabilità era il promettente principio di questa nuova meccanica,
chiamata Meccanica delle Matrici. Heisenberg aveva conferito lo status di postulato
all’osservabilità di tutte le grandezze che comparivano nelle sue equazioni, e alla
definitiva sostituzione del concetto delle traiettorie orbitali in quanto non osservabili. La
teoria così costruita esclusivamente con osservabili sembrava riprodurre ogni evidenza
sperimentale.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
73 Le originali idee di de Broglie sulla natura ondulatoria della materia
acquistarono un soddisfacente formalismo matematico nel 1926 per opera del viennese
Erwin Schrodinger (1887-1961; Premio Nobel). La fisica di un’onda, qualunque essa sia,
è sempre descritta da un’equazione, quindi Schrodinger decise di trovare l’equazione
per le onde materiali di de Broglie. Dopo mesi di lavoro Schrodinger arrivò a formulare
l’equazione che descriveva le onde di materia, molto simile a quella che descrive la
propagazione delle onde meccaniche o elettromagnetiche:
EQUAZIONE D’ONDA DI SCHRODINGER
ih
∂ψ
h2 ∂2ψ
=−
+ Vψ
∂t
2m ∂t
Schrodinger constatò che la sua equazione d’onda riproduceva effettivamente la
serie di livelli energetici dell’atomo di idrogeno di Bohr-Sommerfeld. Tutte le ipotesi ad
hoc finora introdotte nell’atomo quantistico per dar conto delle sue evidenze
sperimentali, adesso scaturivano in modo naturale dall’interno della struttura della
nuova meccanica di Schrodinger, la Meccanica Ondulatoria.
In netto contrasto con la fredda e austera meccanica delle matrici, che metteva al
bando anche il minimo accenno di visualizzabilità, Schrodinger offriva un’alternativa
familiare e rassicurante che, rispetto alla formulazione altamente astratta di Heisenberg,
prometteva di spiegare il mondo dei quanti in termini più vicini alla fisica classica.
Qual era, ammesso che ve ne fosse una, la connessione tra meccanica delle
matrici e meccanica ondulatoria? Fu lo stesso Schrodinger a trovare la connessione. Le
due teorie che sembravano così diverse per forma e contenuto, l’una impiegando
equazioni d’onda e l’altra algebra matriciale, l’una descrivendo onde e l’altra particelle,
erano matematicamente equivalenti.
5.7 Il significato fisico della funzione d’onda
La soluzione dell’equazione di Schrodinger, nota come funzione d'onda e indicata con la lettera ψ, contiene tutte le informazioni circa l'evoluzione dell'ondaparticella nello spazio e nel tempo, ossia dalla cui conoscenza è possibile ricavare lo
stato della particella. Ma quale era il significato fisico della funzione d'onda? Fu Max
Born (1882–1970; Premio Nobel) a fornire la risposta. Born proponeva
un’interpretazione della funzione d’onda che metteva in discussione un principio
fondamentale della fisica classica: il determinismo.
Nella meccanica classica lo stato di un sistema, in linea di principio, è
completamente determinato in ogni istante, grazie alle leggi di Newton, se si
specificano posizione e velocità ad un dato istante. La meccanica quantistica sostituisce
questa immagine concreta dello stato di un sistema fisico con un oggetto matematico,
che abbiamo chiamato funzione d’onda. Ma la differenza sostanziale tra la meccanica
quantistica e quella classica è che la funzione d’onda fornisce solo una probabilità sulle
grandezze osservabili, cioè si possono dedurre solo le probabilità che la particella si
trovi in una determinata regione dello spazio e che abbia una certa velocità. Bohr, nella
74 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
sua interpretazione della meccanica quantistica (interpretazione di Copenaghen), che
tratteremo nel capitolo 6, sosterrà addirittura che, finchè non viene effettuata
un’osservazione o una misurazione, un oggetto microscopico come un elettrone non
esiste da nessuna parte. Tra una misurazione e la successiva esso non ha alcun tipo di
esistenza al di fuori delle possibilità astratte della funzione d’onda. Soltanto quando
viene compiuta un’osservazione o misurazione la funzione d’onda subisce il collasso
mentre uno dei possibili stati dell’elettrone diventa lo stato effettivo e la probabilità di
tutte le altre possibilità diventa nulla.
È molto importante notare
che la probabilità di cui stiamo
parlando è molto diversa da
quella che si incontra in altri
campi della fisica. Per esempio, in
sistemi (come i gas) che
contengono un gran numero di
particelle è impossibile sia
conoscere le proprietà di tutte le
componenti del sistema, sia
calcolarne l'evoluzione. In tale
contesto si deve introdurre una
probabilità da ignoranza: non
sapendo fare di meglio, ci limitiamo a calcolare, per esempio, la probabilità che, presa
una molecola, essa abbia una certa velocità. Ciò non toglie che, almeno in linea di
principio, possedendo più informazioni e capacità di calcolo rispetto a quelle che
abbiamo, la soluzione esatta del problema sarebbe possibile. La probabilità quantistica
rappresentava, invece, una caratteristica intrinseca della realtà atomica. Il fatto che fosse
impossibile predire quando un singolo atomo in un campione radioattivo sarebbe
decaduto, non era dovuto ad una mancanza di conoscenza ma era conseguenza della
natura probabilistica delle leggi quantistiche che governano il decadimento radioattivo.
Secondo Born, se si tenta di rivelare sperimentalmente in un certo istante t la
posizione (x, y, z) di un corpuscolo, la probabilità di trovare l'oggetto microscopico in
una piccola regione di volume ΔV contenente il punto (x, y, z) e in un piccolo intervallo
di tempo Δt centrato intorno a t è proporzionale a:
DENSITA’ DI PROBABILITA’
2
ψ ΔVΔt
Il quadrato del modulo della funzione d'onda, chiamato densità di probabilità (a
indicare la probabilità per unità di volume e per unità di tempo) possiede così un
significato fisico reale: la densità di probabilità non dice dove un fotone è in un dato istante,
ma semplicemente dove è probabile che sia. In generale, l’ampiezza di uno stato dà la probabilità
dei vari possibili risultati di un’osservazione.
Tutti i risultati sperimentali sono in accordo con questa visione probabilistica
cosicché, alla luce delle conoscenze odierne, dobbiamo rinunciare al determinismo che
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
75 era tipico della fisica classica: in generale, non possiamo più pretendere di prevedere in
dettaglio l'evoluzione di un sistema fisico, ossia la sua traiettoria, o il risultato di una
misura sperimentale. Dobbiamo «accontentarci» di calcolare con quale probabilità
avranno luogo le possibili evoluzioni di uno stesso stato fisico, oppure con quali
probabilità, eseguendo un esperimento, otterremo uno dei risultati possibili piuttosto
che un altro.
E come cambia, con la meccanica ondulatoria, la descrizione
degli stati stazionari atomici? Abbandonato il concetto classico di
traiettoria, gli stati stazionari non sono più pensati come orbite
circolari percorse da un elettrone puntiforme, ma sono
caratterizzati da funzioni d'onda che definiscono, tramite il loro
modulo quadro, la densità di probabilità di trovare l'elettrone in un
determinato punto intorno al nucleo. A ogni stato stazionario è
dunque assegnata una distribuzione di probabilità, chiamata orbitale. Questo può essere
visualizzato mediante una "nuvola", più densa nei punti dove è più facile trovare
l'elettrone, più rarefatta dove l'elettrone si trova con minore probabilità.
Con la meccanica ondulatoria la descrizione dell'atomo che Bohr aveva proposto,
senza riuscire a dame una spiegazione plausibile al di là dell'accordo con l'esperienza,
diventa più logica e organica, conservando una sua validità. Certo, non è facile farsi una
ragione di questa incertezza implicita nella natura. In fondo, la spesso citata frase di
Einstein, "Non credo che Dio giochi a dadi con l'universo", sicuramente esprime il
disagio per avere introdotto nella scienza una teoria i cui concetti sono piuttosto lontani
dalla nostra vita quotidiana.
5.8 Il principio di indeterminazione di Heisenberg
Nel 1927, anno della scoperta del principio d’indeterminazione da parte di
Heisenberg, l’incertezza non era certo sconosciuta alla fisica. Ai risultati sperimentali
manca sempre qualcosa per essere pienamente d’accordo con le previsioni teoriche. Nel
continuo avanti e indietro tra esperimento e teoria, è l’incertezza a indicare allo
scienziato come procedere. Gli esperimenti indagano dettagli sempre più minuti e le
teorie subiscono modifiche e revisioni. L’incertezza, o dir si voglia, la discrepanza tra
teoria ed esperimento sono gli arnesi del mestiere di ogni disciplina che voglia definirsi
scientifica. Heisenberg, quindi, non introdusse l’incertezza nella scienza, ma ne
modificò, e in maniera profonda, la natura stessa e il significato.
Nella visione classica del mondo naturale come grande macchina, si era dato per
scontato che fosse possibile definire con precisione illimitata tutte le parti funzionanti
della macchina e comprendere esattamente tutte le loro interconnessioni. Per poter
sperare di comprendere l’universo, si doveva innanzitutto presumere di poter scoprire,
un pezzo alla volta, quali sono e che funzione hanno tutte le parti che compongono
questa grande macchina che è l’universo. Heisenberg, invece, affermava che non
sempre possiamo scoprire quel che vogliamo sapere, che anche la nostra capacità di
descrivere il mondo naturale è limitata.
Nella fisica classica si supponeva che la misura di una grandezza potesse essere
eseguita con precisione sempre maggiore, a condizione di utilizzare un dispositivo
sempre più qualificato e una tecnica sempre più razionale. In realtà ciò non è esatto:
76 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
misurare significa sempre perturbare il sistema e quindi anche le grandezze che lo
caratterizzano. Immaginiamo di voler
stabilire la posizione di un oggetto in
movimento. Per far ciò dobbiamo vederlo;
dobbiamo, cioè, per esempio, far arrivare
sul corpo un fascio di luce. Fra l'oggetto e
lo strumento di misura si verifica dunque
uno scambio energetico, un'interazione
che tende a modificare qualche grandezza
dinamica dell'oggetto. Da questo discende
in modo inequivocabile che "conoscere" significa "misurare" e "misurare" significa
"perturbare". Logicamente, l'andamento del processo perturbativo dipende, oltre che
dai metodi di osservazione, anche e soprattutto dal tipo di sistema che si vuole studiare.
Per esempio, facendo arrivare un fascetto luminoso su una palla da biliardo in
movimento, possiamo studiare il suo moto senza che esso sia influenzato dalle
grandezze, quantità di moto, energia, ecc., associate alla radiazione. Queste sono infatti
trascurabili rispetto ai valori delle corrispondenti grandezze fisiche che caratterizzano
l'oggetto. Non è lo stesso con un elettrone che, per le ridotte dimensioni del corpuscolo,
alcune sue grandezze dinamiche verranno sensibilmente perturbate e i mutamenti
introdotti non potranno più essere trascurati.
Partendo da queste premesse, Heisenberg introdusse un principio secondo il quale
affermò l'impossibilità di valutare simultaneamente in modo rigoroso e senza alcun limite
la posizione e la quantità di moto di un oggetto, oppure l'istante di tempo in cui un sistema
si trova in un particolare stato e la corrispondente energia del sistema. La posizione e la
quantità di moto, così come il tempo e l'energia, sono coppie di parametri usualmente
indicati come grandezze coniugate. Questa indeterminazione era il prezzo imposto dalla
natura per la conoscenza esatta di una delle due grandezze coniugate. Si può guardare
il mondo con l’occhio x o con l’occhio p, ma se si aprono entrambi gli occhi si ha una
visione confusa.
Per la completa descrizione meccanica, in senso classico, di un sistema, le
grandezze coniugate devono essere sempre note simultaneamente. La meccanica
quantistica introduce invece, con il seguente enunciato, un'indeterminazione intrinseca
in tali coppie di grandezze, o meglio, una correlazione fra le incertezze con cui i loro
valori possono essere determinati:
PRINCIPIO DI INDETERMINAZIONE DI HEISENBERG
Ogni qualvolta vogliamo determinare simultaneamente la posizione x di un
corpuscolo lungo una data direzione e la sua quantità di moto px lungo la stessa
direzione, le incertezze Δx e Δpx delle due grandezze sono legate dalla relazione:
Δx ⋅ Δpx ≥ h
Similmente, se misuriamo l'energia E di un corpuscolo mentre esso si trova in un
determinato stato, impiegando un intervallo di tempo Δt per compiere tale
osservazione, l'incertezza ΔE sul valore dell'energia è tale che:
ΔE ⋅ Δt ≥ h
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
77 L'indeterminazione Δpx sulla quantità di moto risulta dunque tanto maggiore
quanto più esatta è la misura della posizione e viceversa. Per rendere minima la
perturbazione sul moto dell'elettrone, potremmo utilizzare una radiazione di lunghezza
d'onda molto grande; in tal caso, però, non saremmo più in grado di rivelare con
esattezza la posizione della particella.
Al limite, se potessimo conoscere perfettamente la quantità di moto di una
particella, essendo Δpx=0 avremmo Δx=∞, e la posizione sarebbe perciò totalmente
indeterminata, cioè la particella può essere trovata con eguale probabilità ovunque.
In definitiva:
q
In generale, quanto più si cerca di migliorare la precisione della misura di una delle due
grandezze coniugate, tanto più aumenta l'imprecisione della conoscenza dell'altra.
q
L’indeterminazione nella conoscenza contemporanea dell’energia e del tempo, della
velocità e della posizione, non significa che la conoscenza dello stato fisico del sistema è
indeterminata, ossia dovuta a tecniche di misura insufficienti, ma che l’indeterminazione
è insita nello stato fisico del sistema.
Per la profonda coerenza della teoria quantistica, le relazioni di Heisenberg sono
valide per ogni fenomeno che avviene in natura e quindi anche per il moto di un
oggetto macroscopico. Solo che in questo caso l'indeterminazione quantistica è così
piccola che appare trascurabile di fronte all'incertezza che deriva dagli errori
sperimentali delle misure.
Tutte queste considerazioni ci inducono a rivedere il concetto di "oggetto fisico".
Seguendo il suggerimento di Born, conviene considerare come autentiche proprietà del
reale solo quelle entità che siano degli osservabili, cioè le grandezze che possono essere
sottoposte a un'operazione di misura. L'acuta osservazione di Born, che a prima vista
sembra ovvia, rappresenta invece uno dei capisaldi della nuova meccanica. Spesso
infatti, nella fisica prequantistica, venivano utilizzati alcuni concetti "intuitivi" ed
"evidenti" che in realtà non si potevano in alcun modo valutare operativamente: per
esempio il concetto di "traiettoria" o "orbita" di un elettrone, o quello ancora più comune
di "raggio luminoso che si propaga in linea retta". Concettualmente la traiettoria di una
particella rappresenta certo qualcosa che esiste; si tratta però di un'esistenza che si
concretizza, ossia diventa oggettiva, solo quando è misurata. Ma il presupposto
necessario per definire una traiettoria è conoscere in un certo istante l'esatta posizione
della particella e la sua precisa velocità, e la possibilità di ottenere operativamente
queste informazioni è esclusa dal principio di indeterminazione. Anche il classico
concetto di raggio non può in alcun modo rappresentare una realtà fisica osservabile.
Benché si possa stabilire sia l'istante in cui un fotone luminoso viene emesso, sia quello
in cui esso viene assorbito da un atomo, è concettualmente impossibile osservare
sperimentalmente il fotone mentre si propaga in linea retta con la velocità della luce.
Osservarlo significa infatti interagire con il fotone, tramite un processo di diffusione o
di assorbimento. Dopo l'osservazione il fotone o è deviato o è addirittura scomparso:
nel campo atomico si deve rinunciare al tradizionale concetto di traiettoria, inteso come
linea matematica.
Grazie alla sua profonda analisi critica Heisenberg ha potuto concludere che
esiste un limite invalicabile alla precisione con cui possono misurarsi coppie di variabili
incompatibili. L'esistenza di questo limite, sempre qualora si accetti la teoria come vera,
78 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
non è dovuta a difficoltà pratiche ma ha un carattere fondamentale: essa è una diretta
ed inevitabile conseguenza della peculiare duplice natura corpuscolare ed ondulatoria
di tutti i processi fisici.
5.9 Il principio di complementarità
Bohr, riflettendo sugli aspetti corpuscolari e ondulatori dei processi fisici, arrivò
alla conclusione che era impossibile realizzare esperimenti che mettessero in evidenza,
simultaneamente, i due aspetti. Ogni possibile apparecchio concepito per informarci
sulla posizione (con precisione arbitraria), necessariamente non ci informa con
altrettanta precisione sulla velocità e, in modo perfettamente analogo, ogni situazione
sperimentale nella quale si mettano in evidenza gli aspetti corpuscolari del processo
non consente al tempo stesso di metterne in evidenza gli aspetti ondulatori. I due
aspetti contraddittori non emergono mai, per cosi dire, assieme. In questa prospettiva
chiedersi se la luce sia un’onda o una particella è privo di senso. Nella meccanica
quantistica non c’è modo di sapere che cosa la luce sia in realtà. L’unica domanda che è
lecito farsi è: la luce si comporta come una particella o come un’onda? La risposta è che
talvolta si comporta come una particella, altre volte come un’onda, e questo lo stabilisce
l’esperimento scelto.
Mentre Heisenberg attribuiva all’atto della misurazione l’origine della
perturbazione che precludeva una simultanea misura precisa di una delle grandezze
coniugate, Bohr assegnava un ruolo cruciale all’atto della scelta di quale esperimento
eseguire. La complementarità fu assunta da Bohr come principio: non è possibile
soddisfare entrambe le condizioni (onda e corpuscolo, traiettoria e figura d’interferenza)
contemporaneamente e nello stesso esperimento. Tale principio fu esposto per la prima
volta nel 1927, e rappresenta uno dei punti fondamentali della meccanica quantistica:
PRINCIPIO DI COMPLEMENTARITÀ
Se un esperimento permette di osservare un aspetto di un fenomeno fisico, esso
impedisce al tempo stesso di osservare l'aspetto complementare dello stesso
fenomeno.
La complementarietà per Bohr non era soltanto pura teoria o un principio, ma la
struttura concettuale ancora mancante necessaria per descrivere la strana natura del
mondo quantistico, e quindi lo strumento per superare il carattere paradossale del
dualismo onda-particella. La complementarietà evitava in modo semplice e chiaro le
difficoltà che derivavano dalla necessità di utilizzare due disparate rappresentazioni
classiche, onde e particelle, per descrivere un mondo non classico. Sia le particelle che le
onde erano, secondo Bohr, indispensabili per una descrizione completa della realtà
quantistica, ma entrambe le descrizioni erano di per sé solo parzialmente vere. I fotoni
dipingevano un quadro di luce, le onde un altro. Ma i due dipinti erano esposti l’uno
accanto all’altro. L’osservatore ne poteva guardare soltanto uno in ogni dato istante.
Nessun esperimento potrebbe mai mostrare una particella e un’onda nello stesso
momento, simultaneamente.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
79 5.10 La meccanica quantistica dell’atomo
L'equazione di Schrodinger, a parte gli effetti relativistici, fornisce la più ampia
descrizione del comportamento di una particella quantistica. Per quanto riguarda in
particolare l'atomo di idrogeno, l'equazione permette di determinare non solo la forma
degli orbitali, ma anche il valore dei corrispondenti livelli di energia.
Possiamo dire che l'equazione di Schrodinger svolge nella fisica quantistica la
stessa funzione che la seconda legge di Newton svolge nella fisica classica.
Uno dei risultati fondamentali della meccanica ondulatoria è rappresentato dal
fatto che, essendo l'atomo di idrogeno un sistema tridimensionale, per descrivere gli
stati stazionari del suo elettrone sono necessari tre numeri quantici, ciascuno associato a
una particolare grandezza fisica e che può assumere un certo insieme di valori:
SIMBOLO
NOME
ASSOCIATO A
VALORI AMMESSI
n
numero quantico
principale
energia
1,2,3,...
l
numero quantico orbitale
ml
numero quantico
magnetico
modulo del
momento angolare
direzione del
momento angolare
0, 1,2,... n - 1
-l... -2, - 1, 0, 1,2, ...l
Il primo numero quantico è quello introdotto da Bohr: chiamato numero quantico
principale, fornisce i livelli di energia En, ossia le energie permesse. Qualsiasi sistema
atomico possiede un momento angolare, che, al pari dell’energia e della quantità di
moto, si conserva. Con questa espressione si intende asserire che esiste un asse
privilegiato, e un’orientazione rispetto a questo asse, attorno al quale il sistema ruota
come una trottola. Anche il momento angolare risulta quantizzato, sia per quanto
concerne la sua grandezza L, a cui è associato il secondo numero quantico, sia per le
orientazioni (per esempio Lz) che può assumere nello spazio, a cui è associato il terzo
numero quantico. Questo equivale, nell'analogia con un sistema classico, ad asserire
che, per esempio, una trottola non può ruotare con un'arbitraria velocità angolare
attorno al suo asse, ma solo con quelle che corrispondono ai valori tipici della
quantizzazione; e che una trottola non può ruotare in modo che il suo asse formi un
angolo arbitrario con la verticale ma che quest'angolo può assumere solo alcuni valori
fissati.
Per completare la descrizione degli stati atomici, oltre ai tre numeri quantici
esaminati, che derivano dalla teoria originale di Schrodinger, è necessario introdurne
un quarto: il numero quantico di spin. Se si osservano infatti le righe spettrali emesse dagli
atomi con uno spettroscopio ad alta risoluzione, si nota che esse si suddividono in più
righe separate da alcuni angstrom. Questa struttura fine non può essere in nessun modo
spiegata con i soli primi tre numeri quantici. Per interpretare i risultati sperimentali, nel
1925 Wolfgang Pauli (1900-1958; Premio Nobel) ipotizzò l'esistenza di un ulteriore
numero quantico ms, che a differenza degli altri tre poteva assumere soltanto due valori:
1/2 e -1/2. Stabiliti i numeri quantici che individuano i possibili stati elettronici, nonché
la forma delle corrispondenti funzioni d'onda e il valore dell'energia associata a
ciascuno stato, un fondamentale principio dovuto a Pauli fissa il criterio con cui gli
elettroni sono distribuiti negli stati permessi:
80 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
PRINCIPIO DI ESCLUSIONE DI PAULI
In un atomo non possono mai trovarsi due elettroni aventi la stessa quaterna di
numeri quantici.
Così se, per esempio, due elettroni di un atomo hanno i primi tre numeri quantici
n, l, ml uguali, il quarto numero quantico ms dell'uno deve essere opposto a quello
dell'altro, in modo che i due spin siano, come si usa dire, antiparalleli. La terna di numeri
quantici n, l, ml descrive completamente la forma della "nuvola elettronica", cioè
individua un ben preciso orbitale. Possiamo pertanto enunciare il principio di
esclusione anche dicendo che: ogni orbitale può essere occupato al massimo da due
elettroni, con diverso numero quantico di spin. Questo principio non solo permette di
interpretare in modo naturale la struttura del sistema periodico degli elementi, ma
rappresenta la chiave per capire una numerosa serie di fenomeni sperimentali, dalla fisica atomica a quella nucleare.
Qual era la base fisica del quarto numero quantico di Pauli? Nel 1925 Samuel
Goudsmit (1902-1978; Premio Nobel) e George Uhlenbeck (1900-1988; Premio Nobel)
compresero che la proprietà della bivalenza proposta da Pauli non era un altro numero
quantico. A differenza dei tre esistenti n,l,m che specificavano rispettivamente il
momento angolare dell’elettrone nella sua orbita, la forma di tale orbita e la sua
orientazione spaziale, la bivalenza era una proprietà intrinseca dell’elettrone, e quindi i
due giovani fisici suggerirono che tutti gli elettroni fossero dotati di un momento
angolare intrinseco, lo spin S, oltre al momento angolare orbitale L. In questo modo lo
spin risolveva alcuni dei problemi che ancora affliggevano la teoria della struttura
atomica e al tempo stesso forniva una limpida giustificazione fisica del principio di
esclusione. Certo la scelta del nome spin (giro vorticoso in inglese) non fu proprio felice
dal momento che il nome evoca immagini di oggetti in rotazione, mentre lo spin
dell’elettrone è un concetto puramente quantistico.
La grandezza fisica spin è considerata la più quantomeccanica di tutte le quantità
fisiche. Che cos'è lo spin? Essenzialmente, è una misura della rotazione di una
particella, ed indica il fatto che alcune particelle elementari, pur essendo puntiformi, si
comportano come microscopiche trottole. Lo spin è il momento angolare intrinseco
associato alle particelle, che diversamente dagli oggetti rotanti della meccanica classica,
che derivano il loro momento angolare dalla rotazione delle parti costituenti, lo spin
non è associato con alcuna massa interna. Lo spin risulta del tutto e per tutto analogo al
momento angolare a parte alcune significative differenze. Innanzitutto esso può
assumere più valori che non il momento angolare. Tuttavia nel caso dello spin l'analogo
della quantità l che indicheremo come s può assumere, oltre al valori 0,1,2, ... anche
valori semi-interi positivi, vale a dire s=1/2, 3/2, 5/2 ... e così via.
Una particella con spin semintero si dice fermione (elettroni, protoni e neutroni);
le particelle con spin intero si chiamano bosoni, come i fotoni.
5.11 La meccanica quantistica relativistica
La meccanica ondulatoria era stata formulata da Schrodinger per il moto non
relativistico, ed i fisici si dibattevano nel tentativo di estenderla anche alle particelle
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
81 relativistiche, in modo da unificare le due grandi teorie, quella della relatività e quella
dei quanti.
Nel suo famoso articolo, pubblicato nel 1930, Paul Dirac (1902-1984; Premio
Nobel) formulò una nuova equazione. Tale equazione soddisfaceva a tutte le condizioni
relativistiche, è applicabile ad elettroni di qualunque velocità e, nello stesso tempo,
porta alla conclusione che l'elettrone deve comportarsi come una piccola trottola rotante
magnetizzata. Pur essendo veramente geniale come concezione, l'equazione di Dirac
portò, immediatamente, ad una seria complicazione, proprio perché riusciva ad
unificare in modo tanto limpido la teoria dei quanti e quella della relatività. La
complicazione nacque per il fatto che la meccanica quantistica relativistica ammetteva la
possibilità matematica dell'esistenza di due mondi, una simmetria tra il nostro mondo,
fatto di materia, ed uno strano mondo, fatto di antimateria. La simmetria tra materia e
antimateria implica che per ogni particella esista un’antiparticella con massa uguale e
carica opposta. Se l'energia a disposizione è sufficiente, possono crearsi coppie di
particelle e antiparticelle, che a loro volta si ritrasformano in energia pura nel processo
inverso di annichilazione. Questi processi di creazione e di annichilazione delle
particelle erano stati previsti dalla teoria di Dirac prima che fossero effettivamente
scoperti in natura. La creazione di particelle materiali da energia pura è certamente
l'effetto più spettacolare della teoria della relatività.
Nell'anno 1931, il fisico americano Carl Andersson (1905-1991; Premio Nobel)
studiò le tracce prodotte in una camera a nebbia dagli elettroni ad alta energia degli
sciami cosmici. Per misurare la velocità di questi elettroni, circondò la camera a nebbia
con un intenso campo magnetico e, con sua grande sorpresa, le fotografie eseguite
mostrarono che circa la metà degli elettroni era deviata in una direzione per la presenza
del campo magnetico, e l'altra metà in direzione opposta: cioè il 50% erano elettroni
negativi e il 50% elettroni positivi, chiamati positroni, entrambi con la stessa massa. Gli
esperimenti eseguiti sui positroni confermarono la teoria di Dirac, che rappresenta uno
degli esempi più sbalorditivi di anticipazione della realtà.
Dopo la scoperta degli elettroni positivi, i fisici sognavano la possibilità di
scoprire i protoni negativi, i quali avrebbero dovuto trovarsi con i normali protoni nella
stessa relazione esistente tra gli elettroni positivi e quelli negativi. Emilio Segrè (19051889; Premio Nobel) ed altri, nell'ottobre 1955, annunciarono l'avvenuta scoperta di
protoni negativi. Alla fine del 1956 fu scoperto anche l'antineutrone.
Dopo la conferma della possibilità di elettroni, protoni e neutroni di esistere in
certi antistati, si può pensare seriamente ad un'antimateria formata da queste particelle.
Tutte le proprietà chimiche e fisiche dell'antimateria dovrebbero essere identiche a
quella della materia ordinaria ed il solo modo per rendersi conto della loro differenza è
attraverso i processi di annichilazione. La possibilità di esistenza dell'antimateria
propone pesanti problemi all'astronomia ed alla cosmologia. La materia dell'Universo è
tutta dello stesso tipo o esistono agglomerati di materia ed antimateria sparsi
irregolarmente nell'infinità dello spazio?
82 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
5.12 L’immagine del mondo della meccanica quantistica: la teoria dei campi
La concezione meccanicistica classica del mondo era basata sull'idea di particelle
solide e indistruttibili che si muovono nel vuoto. La fisica moderna ha prodotto un
cambiamento radicale di questa immagine, giungendo non solo a una nozione
completamente nuova di particella, ma trasformando anche profondamente il concetto
classico di vuoto. Questa trasformazione, che si realizzò nelle cosiddette teorie dei
campi, ebbe inizio con l'idea einsteiniana di associare il campo gravitazionale alla
geometria dello spazio, e divenne ancora più profonda quando la teoria dei quanti e la
teoria della relatività furono unite per descrivere i campi di forza delle particelle
subatomiche. In queste teorie quantistiche dei campi, la distinzione tra le particelle e lo
spazio che le circonda diviene sempre più sfumata e il vuoto è concepito come una
entità dinamica di importanza fondamentale.
Il concetto di campo venne introdotto nel XIX secolo da Faraday e da Maxwell
nella loro descrizione delle forze tra cariche elettriche e correnti. Un campo elettrico è
una condizione, nello spazio attorno a un corpo carico, che può produrre una forza su
una qualsiasi altra carica posta in quello spazio. I campi elettrici sono quindi creati da
corpi carichi e i loro effetti possono essere risentiti solo da altri corpi carichi. I campi
magnetici sono prodotti da cariche in moto, cioè da correnti elettriche, e le forze
magnetiche da essi generate possono essere risentite da altre cariche in moto.
Nell'elettrodinamica classica, cioè nella teoria costruita da Faraday e da Maxwell, i
campi sono entità fisiche primarie che possono essere studiate senza fare alcun
riferimento a corpi materiali. I campi elettrici e magnetici variabili possono propagarsi
attraverso lo spazio sotto forma di onde radio, di onde luminose, o di altri tipi di
radiazione elettromagnetica.
La teoria della relatività ha reso molto più elegante la struttura
dell'elettrodinamica unificando i concetti di carica e di corrente da una parte, di campo
elettrico e di campo magnetico dall'altra. Dato che ogni moto è relativo, ogni carica può
apparire anche come corrente, in un sistema di riferimento in cui essa si muove rispetto
all'osservatore, e di conseguenza il suo campo elettrico può anche manifestarsi come
campo magnetico. Nella formulazione relativistica dell'elettrodinamica, i due campi
sono così unificati in un unico campo elettromagnetico. Il concetto di campo è stato
associato non solo alla forza elettromagnetica, ma anche all'altra forza fondamentale
presente su larga scala nell'universo, la forza di gravità. I campi gravitazionali sono
creati e risentiti da tutte le masse, e le forze che ne derivano sono sempre attrattive, a
differenza dei campi elettromagnetici che sono risentiti solo dai corpi carichi e danno
luogo a forze sia attrattive che repulsive. La teoria dei campi adatta per il campo
gravitazionale è la teoria generale della relatività; in essa l'influenza di una massa sullo
spazio circostante ha una portata più vasta di quanto non lo sia la corrispondente
influenza di un corpo carico in elettrodinamica. Anche qui lo spazio attorno all'oggetto
è condizionato in modo tale che un altro oggetto può risentire una forza, ma questa
volta il condizionamento modifica la geometria, e quindi la struttura stessa dello spazio.
Materia e spazio vuoto, il pieno e il vuoto, furono i due concetti,
fondamentalmente distinti, sui quali si basò l'atomismo di Democrito e di Newton.
Nella relatività generale, questi due concetti non possono più rimanere separati.
Ovunque è presente una massa, sarà presente anche un campo gravitazionale, e questo
campo si manifesterà come una curvatura dello spazio che circonda quella massa. Non
dobbiamo pensare, tuttavia, che il campo riempia lo spazio e lo incurvi. Il campo e lo
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
83 spazio non possono essere distinti: il campo è lo spazio curvo. Nella relatività generale,
il campo gravitazionale e la struttura, o geometria, dello spazio sono identici. Essi sono
rappresentati nelle equazioni del campo di Einstein dalla medesima grandezza
matematica. Nella teoria di Einstein, quindi, la materia non può essere separata dal suo
campo di gravità, e il campo di gravita non può essere separato dallo spazio curvo.
Materia e spazio sono pertanto visti come parti inseparabili e interdipendenti di un
tutto unico. Gli oggetti materiali non solo determinano la struttura dello spazio
circostante, ma a loro volta sono influenzati in modo sostanziale dall'ambiente. Secondo
il fisico e filosofo Mach, l'inerzia di un oggetto materiale, ossia la resistenza che oppone
ad essere accelerato, non è una proprietà intrinseca alla materia, ma una misura della
sua interazione con tutto il resto dell'universo. Nella concezione di Mach, la materia
possiede inerzia solo perchè esiste altra materia nell'universo. Quindi la fisica moderna
ci mostra di nuovo, e questa volta a un livello macroscopico, che gli oggetti materiali
non sono entità distinte, ma sono legati in maniera inseparabile al loro ambiente; e che
le loro proprietà possono essere comprese solo nei termini della loro interazione con il
resto del mondo. L'unità fondamentale del cosmo si manifesta, perciò, non solo nel
mondo dell'infinitamente piccolo ma anche nel mondo dell'infinitamente grande.
L'unità e il rapporto reciproco tra un oggetto materiale e il suo ambiente, che è
evidente su scala macroscopica nella teoria generale della relatività, appare in una
forma ancora più sorprendente a livello subatomico. Qui, le idee della teoria classica del
campo si combinano con quelle della meccanica quantistica per descrivere le interazioni
tra particelle subatomiche. Una combinazione di questo tipo non è stata finora possibile
per l’interazione gravitazionale a causa della complicata forma matematica della teoria
della relatività di Einstein; ma l'altra teoria classica del campo, l’elettrodinamica, è stata
fusa con la meccanica quantistica in una teoria chiamata elettrodinamica quantistica che
descrive tutte le interazioni elettromagnetiche tra particelle subatomiche. Questa teoria
incorpora sia la teoria quantistica sia quella relativistica. Essa fu il primo modello
quantistico-relativistico della fisica modera ed è, a tutt'oggi, quello meglio riuscito.
La caratteristica nuova e sorprendente dell'elettrodinamica quantistica deriva
dalla combinazione di due concetti: quello di campo elettromagnetico e quello di fotoni
intesi come manifestazione corpuscolare delle onde elettromagnetiche. Poiché i fotoni
sono anche onde elettromagnetiche, e poiché queste onde sono campi variabili, i fotoni
devono essere manifestazioni dei campi elettromagnetici. Di qui il concetto di campo
quantistico, cioè di un campo che può assumere la forma di quanti, o particelle. Il
campo quantistico è un concetto completamente nuovo che è stato esteso ed applicato
alla descrizione di tutte le particelle subatomiche e delle loro interazioni, facendo
corrispondere a ciascun tipo di particella un diverso tipo di campo. In queste teorie
quantistiche dei campi, il contrasto della teoria classica tra le particelle solide e lo spazio
circostante è completamente superato. Il campo quantistico è visto come l’entità fisica
fondamentale: un mezzo continuo presente ovunque nello spazio. Le particelle sono
soltanto condensazioni locali del campo, concentrazioni di energia che vanno e vengono
e di conseguenza perdono il loro carattere individuale e si dissolvono nel campo
soggiacente ad esse.
In definitiva, il mondo, secondo la meccanica quantistica, non è fatto di campi e
particelle, ma di uno stesso tipo di oggetto, il campo quantistico. Non più particelle che
si muovono nello spazio al passare del tempo, ma campi quantistici in cui eventi
elementari esistono nello spaziotempo.
84 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
La concezione delle
cose e dei fenomeni fisici
come manifestazioni effimere
di una entità fondamentale
soggiacente non è solo un
elemento di fondo della teoria
dei campi, ma anche un
elemento
basilare
della
concezione
orientale
del
mondo. Come Einstein, i
mistici orientali considerano
questa entità soggiacente come la sola realtà: tutte le sue manifestazioni fenomeniche
sono viste come transitorie e illusorie.
Col concetto di campo quantistico, la fisica moderna ha trovato una risposta
inattesa alla vecchia domanda se la materia è costituita da atomi indivisibili o da un
continuum soggiacente ad essa. Il campo è un continuum che è presente dappertutto
nello spazio e tuttavia nel suo aspetto corpuscolare ha una struttura discontinua,
granulare. I due concetti apparentemente contraddittori sono quindi unificati e
interpretati semplicemente come differenti aspetti della stessa realtà. Come succede
sempre in una teoria relativistica, l'unificazione dei due concetti opposti avviene in
modo dinamico: i due aspetti della materia si trasformano perennemente l'uno
nell'altro. La fusione di questi concetti opposti in un tutto unico è stata espressa in un
sutra buddhista: “La forma è vuoto, e il vuoto è in realtà forma. Il vuoto non è diverso
dalla forma, la forma non è diversa dal vuoto. Ciò che è forma quello è vuoto, ciò che è
vuoto quello è forma”.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
85 CAPITOLO 6 INTERPRETAZIONE F ILOSOFICA D ELLA T EORIA D EI Q UANTI 6.1 Oltre il linguaggio
L’idea che le teorie e i modelli scientifici siano tutti approssimati e che le loro
interpretazioni verbali risentano sempre delle imprecisioni del nostro linguaggio era già
comunemente accettata dagli scienziati dell’inizio del XX secolo, quando, con
l’elaborazione della teoria dei quanti, si verificò uno sviluppo nuovo e del tutto inatteso.
Lo studio del mondo degli atomi costrinse i fisici a rendersi conto che il
linguaggio comune è non solo impreciso, ma assolutamente inadeguato a descrivere la
realtà atomica e subatomica. Da un punto di vista filosofico, questo è senz’altro lo
sviluppo più interessante della fisica moderna. A questo proposito Heisenberg scrive:
“Il problema più difficile … concernente l’uso del linguaggio sorge nella teoria dei
quanti. In essa non abbiamo al principio la benché minima indicazione che ci aiuti a
mettere in rapporto i simboli matematici con i concetti del linguaggio ordinario.
L’unica cosa che sappiamo fin dall’inizio è che i nostri concetti comuni non possono
essere applicati alla struttura degli atomi”.
Per secoli gli scienziati sono andati alla ricerca delle leggi fondamentali della
natura soggiacenti alla grande varietà dei fenomeni naturali. Questi fenomeni facevano
parte dell’ambiente macroscopico degli scienziati e quindi erano direttamente
accessibili alla loro esperienza sensoriale. Le immagini e i concetti intellettuali del
linguaggio che essi usavano, dato che erano stati tratti da questa stessa esperienza
mediante un processo di astrazione, risultavano sufficienti e adeguati per descrivere i
fenomeni naturali.
Nella fisica classica, le domande sulla natura essenziale delle cose trovavano
risposta nel modello meccanicistico newtoniano dell'universo il quale, in modo molto
simile al modello di Democrito nell'antica Grecia, riduceva tutti i fenomeni al moto e
all'interazione di atomi duri e indistruttibili. Le proprietà di questi atomi furono
ricavate dalla nozione macroscopica di palle da biliardo e quindi dall'esperienza
sensoriale diretta. Non ci si chiedeva se questa nozione si potesse effettivamente
applicare al mondo atomico. In realtà, questo fatto non poteva essere indagato
sperimentalmente.
Nel Novecento, tuttavia, i fisici furono in grado di affrontare sperimentalmente il
problema della natura intima della materia. Con l'aiuto di una tecnologia raffinata, essi
riuscirono a esplorare la natura sempre più in profondità, scoprendo uno dopo l'altro i
vari strati della materia, alla ricerca dei suoi mattoni elementari. I delicati e complessi
86 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
strumenti della fisica sperimentale moderna penetrano in profondità nel mondo
submicroscopico, rivelando aspetti della natura del tutto estranei al nostro ambiente
macroscopico e rendono quel mondo accessibile ai nostri sensi, ma ciò che noi
“vediamo” o “sentiamo” non è mai direttamente il fenomeno che abbiamo indagato, ma
sempre soltanto qualcuna delle sue conseguenze. Il mondo atomico e subatomico sta al
di là delle nostre percezioni sensoriali.
Con l'aiuto delle moderne apparecchiature siamo dunque in grado di osservare
in maniera indiretta le proprietà degli atomi e dei loro costituenti, e quindi, sia pure
limitatamente, di esperire il mondo subatomico Non si tratta, tuttavia, di un'esperienza
ordinaria, confrontabile con quella dei nostro ambiente quotidiano. A questo livello, la
conoscenza della materia non è più ricavabile dall'esperienza sensoriale diretta e perciò
il nostro linguaggio ordinario, che trae le sue immagini dai mondo dei sensi, non è più
adeguato a descrivere i fenomeni osservati. A mano a mano che penetriamo più
profondamente nella natura, siamo costretti via via ad abbandonare le immagini e i
concetti dei linguaggio ordinario.
Esplorando l'interno dell'atomo e studiandone la struttura, la scienza oltrepassò i
limiti della nostra immaginazione sensoriale. Da questo punto in poi, essa non poteva
più affidarsi con assoluta certezza alla logica e al senso comune. La fisica atomica
consentì agli scienziati di dare un primo rapido sguardo nella natura essenziale delle
cose. Come i mistici, i fisici ora avevano a che fare con un'esperienza non sensoriale
della realtà e, come quelli, dovevano affrontare gli aspetti paradossali di questa
esperienza. Da quel momento in avanti, quindi, i modelli e le immagini della fisica
moderna divennero simili a quelli della filosofia orientale.
6.2 La filosofia di fronte alla nuova fisica
Che ai fisici piacesse o meno, i filosofi professionisti non potevano certo fare a
meno di notare le strane idee introdotte nella fisica dai pionieri della meccanica
quantistica. Il prindipio d’indeterminazione entrò nella fisica in un periodo di notevole
incertezza tra i filosofi, i quali, anche nei confronti della nuova fisica, ed in particolare
nei confronti del principio di Heisenberg, avevano posizioni diverse.
Pur essendo dalla parte dei perdenti nella battaglia sulla realtà degli atomi, il
pensiero positivista sopravviveva e di fatto divenne più ambizioso nella corrente
filosofica nota come positivismo logico, che si sviluppò negli anni Venti nel circolo di
Vienna. I positivisti logici proposero di costruire una sorta di calcolo filosofico per la
scienza stessa. Partendo dai dati e dai fatti empirici, il loro sisterna avrebbe mostrato
come creare teorie rigorosamente fondate in grado di resistere all’analisi filosofica più
severa. Se la scienza si fosse potuta rendere logicamente infallibile, la sua credibilità
sarebbe stata indiscutibile. Mach e i vecchi positivisti erano convinti che le teorie fossero
solo sistemi di relazioni quantitative tra fenomeni misurabili; non indicarono la strada
verso qualche verità segreta relativa alla natura. I positivisti logici, in generale,
condividevano tale convinzione, però sostenevano che se la scienza non poteva aspirare
al significato profondo, poteva almeno sperare di diventare attendibile. E ciò significava
che il linguaggio della scienza andava scritto in termini di logica pura, verificabile. Le
opere dei positivisti di quest'epoca sono incredibilmente piene di formule della logica
simbolica e di equazioni probabilistiche, destinate a convincere il lettore che esiste un
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
87 calcolo per stabilire l’attendibilità di una teoria. Ma tale procedura non si è dimostrata
infallibile come avevano sperato i suoi autori. Infatti, Carl Hempel (1905-1997), un
membro del circolo di Vienna, per dimostrare i limiti del procedimento logico induttivo
(l’acquisizione di un nuovo riscontro empirico di una teoria renda più probabile che
questa teoria sia vera), prese ad esempio la teoria che tutti i corvi siano neri per trarne
conclusioni di paradosso. Esaminando ad uno ad uno un milione di corvi, notiamo
infallibilmente ed invariabilmente che essi sono tutti neri. Dopo ogni osservazione,
perciò, la teoria che tutti i corvi siano neri diviene ai nostri occhi sempre più
probabilmente vera, coerentemente col principio induttivo. Pare ogni volta sempre più
corretto registrare l'assunto come probabilmente vero: tutti i corvi sono neri. Ma
l'assunto "i corvi sono tutti neri" è logicamente equivalente all'assunto "tutte le cose che
non sono nere, non sono corvi". In base al principio induttivo, d'altra parte, questo
secondo enunciato diventerebbe più probabilmente vero in seguito all'osservazione di
una mela rossa: osserveremmo, infatti, una cosa non nera che non è un corvo. Perciò,
l'osservazione di una mela rossa renderebbe più probabilmente vero anche l'assunto che
"tutti i corvi sono neri". Può darsi che sia logicamente inevitabile, ma non somiglia
neanche lontanamente al modo di procedere della scienza.
Il progetto del positivismo logico, in un certo senso un’applicazione del pensiero
deterministico dell’Ottocento, prese l’avvio proprio quando i fisici si stavano
sbarazzando del determinismo nel proprio settore. Alcuni filosofi, già convinti che la
ricerca di un resoconto oggettivo della natura fosse un'illusione, interpretarono il
principio di Heisenberg come una prova del fatto che la scienza stessa ora aveva
confermato i loro sospetti. Non aveva più senso, quindi, discutere del significato delle
teorie scientifiche in funzione della loro relazione con qualche presunto mondo di fatti.
La cosa interessante era invece riflettere su come gli scienziati arrivano a un accordo
sulle loro teorie, su quali convinzioni e pregiudizi li guidano, sul modo in cui la
comunità scientifica costringe sottilmente a rispettare l'opinione prevalente e così via. I
filosofi più tradizionali, d'altro canto, continuavano a essere convinti che una
descrizione razionale del mondo fisico non fosse un obiettivo tanto irragionevole. Per
questi filosofi, il principio di indeterminazione fu davvero una brutta notizia. Karl
Popper, che prenderemo in considerazione nel capitolo 17, ne La logica della scoperta
scientifica (1934), diede il colpo di grazia al vivo desiderio del positivismo logico di poter
dimostrare la verità delle teorie e introdusse il concetto che è possibile soltanto
dimostrarne la falsità. Le teorie diventano via via più credibili, sostenne, a ogni prova
che superano, ma, indipendentemente da questi successi, possono sempre essere
confutate da qualche nuovo esperimento; non possono mai guadagnarsi una garanzia
di correttezza. La scienza costruisce un quadro della natura sempre più completo, ma
anche le più preziose leggi della scienza continuano a essere soggette a revoca, se le
prove dovessero richiederlo.
Data l'importanza che attribuiva alla capacità di verificare le teorie, Popper fu
obbligato ad affermare che gli esperimenti producono sempre risposte coerenti,
oggettivamente attendibili. Forse l'inattendibilità della teoria era inestirpabile, ma la
scienza empirica doveva essere assolutamente affidabile. E a questo proposito si
scontrò, uscendone sconfitto, con il principio di Heisenberg, secondo il quale la somma
di tutti i test immaginabili di un certo sistema quantistico non produce necessariamente
un insieme di risultati coerenti. Affinchè la sua analisi filosofica potesse funzionare,
Popper era convinto di aver bisogno della vecchia idea di casualità, ossia una certa
azione produce sempre, in un modo totalmente prevedibile, un certo risultato. La
88 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
risposta di Popper alla meccanica quantistica era semplice, producendo il risultato che
Heisenberg certamente era in errore. Nell'edizione originale tedesca de La logica della
scoperta scientifica, Popper fece la dubbia affermazione che la meccanica quantistica
poteva essere corretta anche se fosse stato possibile realizzare un esperimento per
confutare il principio di indeterminazione e descrisse un esperimento di sua invenzione.
Questo accadde un anno prima della pubblicazione dell'articolo EPR. La traduzione
inglese de La logica della scoperta scientifica fu pubblicata solo nel 1959; nelle appendici
era riportata una lettera scritta nientemeno che da Einstein, che, pur condividendo il
desiderio di eludere le sgradevoli implicazioni della meccanica quantistica, affermava
che l’esperimento proposto da Popper non sarebbe servito allo scopo.
Uno dei pochi filosofi contemporanei che presero sul serio le concezioni dei fisici
fu Moritz Schlick (1882-1936), che dopo aver conseguito un dottorato in fisica sotto la
guida di Max Planck era stato uno dei fondatori del circolo di Vienna. Schlick ebbe
un'intensa corrispondenza con Heisenberg per scoprire che cosa significasse realmente
il principio di indeterminazione e nel 1931 scrisse un saggio illuminante, Causality in
Contemporary Physics (La causalità nella fisica contemporanea), in cui sostenne che non
tutto era perduto. Analizzando nei dettagli il concetto classico di causalità, concluse che
si trattava non tanto di un principio logico preciso quanto di una direttiva o una
convinzione che gli scienziati usavano come guida nel costruire le teorie. Il significato
dell'incertezza, sostenne Schlick, e che disturba solo in parte la capacità dello scienziato
di formulare previsioni. Nella meccanica quantistica, un evento può portare a una gran
varietà di risultati distinguibili, ciascuno con una probabilità calcolabile. Ciò
nondimeno, la fisica consiste ancora di regole relative a sequenze di eventi: accade
qualcosa, che prepara la scena per qualcos' altro, poi, a seconda del risultato, entrano in
gioco altre possibilità. Questo è uno scenario basato su connessioni causali, disse
Schlick, a parte il fatto che la casualità è diventata probabilistica. Il fatto che le cose
possano avvenire spontaneamente non significa che in ogni momento possa accadere
qualsiasi cosa. Vi sono ancora regole. La descrizione di Schlick offre una sorta di
compromesso filosofico affine per significato allo spirito di Copenaghen promosso da
Bohr. La forza dell'analisi di Schlick stava nel fatto che offriva un vago principio per
capire come avrebbe potuto continuare a funzionare la fisica.
Per la maggior parte dei filosofi, però, la vaghezza è inaccettabile. Al giorno
d'oggi, i filosofi che si avventurano a scrivere su questioni tecniche della meccanica
quantistica in generale sembrano voler far sparire l'interpretazione di Copenaghen e
mostrano invece una notevole simpatia per l'interpretazione di Bohm della meccanica
quantistica, che, come abbiamo già avuto modo di vedere, ristabilisce il determinismo
per mezzo delle cosiddette variabili nascoste che determinano in anticipo quale sarà il
risultato delle misurazioni. Certi filosofi dichiarano di trovare tale interpretazione molto
soddisfacente, anche se hanno difficoltà a spiegare perchè. Einstein, tra gli altri, non
rimase favorevolmente colpito dalla natura artificiosa della rielaborazione di Bohm
della meccanica quantistica, facendogli affermare che: “Mi sembra una soluzione troppo
a buon mercato”. In definitiva, pochi filosofi, nel frattempo, hanno seguito l'esempio di
Schlick cercando di prendere per vera l'interpretazione di Copenaghen in modo da
valutarne i meriti e le difficoltà.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
89 6.3 Fondamento filosofico della meccanica quantistica
Perché ancora oggi fisici e filosofi sono così affascinati dalla meccanica
quantistica? La risposta sta nel fatto che questa nuova fisica prevede un comportamento
delle particelle a livello microscopico che contraddice il nostro modo comune di
interpretare la realtà, e i suoi "paradossi" sembrano mostrare i limiti della consueta
concezione oggettiva e materialistica dell'universo. Inoltre, ha introdotto una
sostanziale modificazione alla teoria epistemologica sulla relazione esistente fra
l’osservatore (lo sperimentatore) e l’oggetto della sua conoscenza scientifica.
La tradizione scientifica e filosofica, che si è fissata anche nel linguaggio comune,
ha determinato un certo tipo di spiegazione che è la spiegazione causale. Per essa, un
oggetto risulta spiegato qualora se ne può assegnare la causa. La risposta al perché di
un oggetto indica la causa dell'oggetto stesso. La causa è ciò che, se si verifica,
necessariamente si verifica l'oggetto di cui è causa. Essa è quindi il fattore di
quest’oggetto, nel senso che infallibilmente lo produce o lo pone in essere. Poiché, data
la causa, l’effetto segue necessariamente, il verificarsi dell'effetto è perfettamente
prevedibile. La spiegazione causale rende perciò infallibilmente prevedibili gli oggetti
ai quali si applica. La causa viene intesa, in tali spiegazioni, come una forza attiva che
produce immancabilmente l’oggetto sì che questo non può non verificarsi. Quindi, nella
fisica classica c'e, in accordo col senso comune, un mondo obiettivo esterno che evolve
in modo chiaro e deterministico, ed è governato da equazioni matematiche ben precise.
Questo vale per le teorie di Maxwell e di Einstein come per la meccanica di
Newton. Si ritiene, secondo questo schema d’indagine, che la realtà fisica esista
indipendentemente da noi, e come sia esattamente il mondo fisico non dipende dal
nostro criterio di osservazione. Inoltre, il nostro corpo e il nostro cervello fanno parte
anch'essi di tale mondo. Anch'essi si evolverebbero secondo le stesse equazioni
classiche precise e deterministiche. Tutte le nostre azioni devono essere fissate da queste
equazioni, per quanto noi possiamo pensare che il nostro comportamento sia
influenzato dalla nostra volontà cosciente.
Pertanto, la spiegazione causale poggia su due capisaldi ben precisi:
1. La causa è un fattore produttivo irresistibile, al quale l’effetto segue
necessariamente;
2. Per conseguenza, data la causa, l’effetto è infallibilmente prevedibile.
Questi due aspetti della spiegazione causale costituirono le caratteristiche
fondamentali della scienza fino alla fine del XIX secolo. Essi erano il fondamento di ciò
che si soleva chiamare “la necessità delle leggi di natura”. Un tale quadro sembrava
costituire lo sfondo delle argomentazioni filosofiche più serie sulla natura della realtà,
delle nostre percezioni coscienti e del nostro apparente libero arbitrio. Ma la fisica
quantistica, quel sistema fondamentale ma sconvolgente sorto nei primi decenni del XX
secolo, ha smentito l’ideale causale rimasto saldo per millenni, proponendo una scienza
che si occupa di corpi che non sembrano essere soggetti al determinismo e non
sembrano obbedire a leggi rigorose. La previsione infallibile non è possibile, non per
una imperfezione dei mezzi di osservazione e di calcolo in possesso dell’uomo, ma
perché questi stessi mezzi influiscono imprevedibilmente sui fatti osservati.
La teoria quantistica non è in grado di determinare con precisione il
comportamento di una particella atomica, per esempio di un elettrone; essa può
soltanto effettuare una previsione statistica circa il suo movimento in determinate
90 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
condizioni. L'elettrone sembra non essere soggetto a leggi rigorosamente
deterministiche, appare dotato di una sorta di "capacità di scelta" tra vari percorsi
possibili. Questa caduta del determinismo mise in difficoltà l'ideale di scienza che aveva
dominato sin da Aristotele, ideale secondo il quale la scienza è conoscenza
dell'universale e si esprime secondo leggi che non ammettono eccezioni; proprio per
questo motivo, grandi scienziati come Einstein, Planck e Schrodinger si rifiutarono di
ammettere che la nuova fisica fosse una teoria scientifica completa, definitiva, non
superabile da una ulteriore teoria atomistica che ripristinasse il determinismo degli
eventi naturali. Questi critici finirono però per essere tacitati dai crescenti successi della
meccanica quantistica e si affermò, dell'indeterminismo atomistico, un'interpretazione
che si fondava sulle concezioni di Heisenberg.
Per Heisenberg i gravi problemi interpretativi che si associavano alla meccanica
quantistica dipendevano dall'abitudine a usare immagini ricavate dal mondo
dell'esperienza macroscopica per rappresentare gli oggetti del mondo atomico, come
quando si rappresenta un elettrone rotante attorno a un nucleo atomico usando
l'analogia di un satellite che gira attorno a un pianeta. Che senso ha parlare allora di
grandezze delle orbite o di forma delle orbite quando queste sono al di là di ogni
esperienza possibile? Dal punto di vista scientifico, nessuno. Meglio allora rinunciare a
ogni visualizzazione, a ogni rappresentazione modellistica degli oggetti atomici per
limitarsi a trattare teoricamente solo di quei dati circa tali oggetti che l'esperienza ci
consente di raccogliere.
Dal punto di vista filosofico l'idea non è nuova; sostanzialmente era la
concezione della filosofia pragmatista che era stata posta a base della teoria della
relatività. Ma, assunta a fondamento della nuova meccanica, e spinta, fin dove era
possibile, alle conseguenze logiche, essa contribuì potentemente a far rivivere le teorie
pragmatiche della conoscenza scientifica di Mach e di Ostwald, conquistando
rapidamente vive simpatie di moltissimi scienziati e filosofi. Come già i pragmatisti del
XX secolo si opposero alla teoria atomistica, considerandola una concezione rozza e
ingenua, così la nuova scuola dichiara che alla radice della crisi della fisica sta
l'immagine ingenua di rappresentarsi l'elettrone come un corpuscolo, come il punto
materiale della meccanica classica.
Heisenberg crede di superare il dissidio onda-corpuscolo attribuendo ai due
concetti soltanto il valore di analogia e accontentandosi di dire che “l'insieme dei
fenomeni atomici non è immediatamente descrivibile nella nostra lingua”. Dobbiamo
rinunciare al concetto di punto materiale esattamente localizzato nello spazio e nel
tempo. La fisica, spoglia di ogni attributo metafisico, può dare di un corpuscolo o
l'esatta posizione nello spazio e una completa indeterminazione nel tempo o un'esatta
posizione nel tempo e la completa indeterminazione nello spazio.
Più intuitivamente si suole dire che il principio fondamentale della meccanica
quantica, cioè il principio d’indeterminazione, parte dalla constatazione che ogni
strumento o metodo di misura altera la grandezza che si vuole misurare e la altera in un
modo non esattamente prevedibile. La verità che gli strumenti alterino la grandezza che
si vuole misurare era cosa notissima alla fisica classica, quasi banale. Ma si sapeva
anche che affinando gli strumenti l'errore si poteva diminuire e, quindi, al limite, si
poteva pensare, per le costruzioni teoriche, a una misura priva di errore. Ebbene, gli
indeterministi moderni negano la legittimità di codesto passaggio al limite. Noi non
possiamo dire che l'errore si può considerare nullo, se contemporaneamente non
diciamo quale o almeno quale potrebbe essere la via sperimentale per ottenere una
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
91 determinazione priva di errore. E siccome questa via sperimentale non c'e, noi, se
vogliamo attenerci ai fatti e non ai pregiudizi, dobbiamo dire che nessuna grandezza
fisica è esattamente misurabile , se non a scapito dell’assoluta indeterminazione di
un'altra grandezza a essa coniugata.
È il disturbo provocato dagli apparati di misura sulle particelle a impedire di
conoscere le coordinate canoniche, è l'interazione tra oggetto e apparato di osservazione
a generare un comportamento apparentemente indeterministico degli oggetti
microscopici. Difatti, l’energia impiegata nell’osservazione (per esempio un fotone) non
può scendere al di sotto di una certa quantità minima (il quanto di energia) e questa
basta già a modificare il fenomeno osservato. La quantizzazione dell'energia
rappresentava una brusca rottura con la millenaria convinzione circa la sostanziale
continuità dei processi naturali. L'antica massima secondo cui "la natura non fa salti" era
manifestamente violata dal comportamento dell'elettrone che, nel modello di Bohr,
mutava il proprio stato con repentine discontinuità, con salti quantici.
Così nella meccanica quantistica gli oggetti "quantistici" (atomi, elettroni, quanti
di luce, ecc.) si trovano in certi "stati" indefiniti, descritti da certe entità matematiche
(come la "funzione d'onda" di Schrödinger). Soltanto all'atto della misurazione fisica si
può ottenere un valore reale; ma finché la misura non viene effettuata, l'oggetto
quantistico rimane in uno stato che è "oggettivamente indefinito", sebbene sia
matematicamente definito: esso descrive solo una "potenzialità" dell'oggetto o del
sistema fisico in esame, ovvero contiene l'informazione relativa ad una "rosa" di valori
possibili, ciascuno con la sua probabilità di divenire reale ed oggettivo all'atto della
misura. E poiché ogni processo fisico non è separabile dallo strumento con cui è
misurato e dall’organo di senso con cui è percepito: l’osservato, gli strumenti
d’osservazione, l’osservatore costituiscono una totalità fisica.
La conseguenza del principio di indeterminazione è che le particelle atomiche non
possono essere considerate come “cose”, nel senso che a questa parola si attribuisce nel
mondo macroscopico. Il comportamento delle cose macroscopiche è infatti descrivibile
totalmente e quindi prevedibile in modo sicuro. La fisica quantistica ora parla dello
stato di un complesso atomico, altro non è che una determinazione matematica, una
funzione, la quale mentre riassume tutto ciò che è stato osservato intorno al complesso
atomico ad un dato istante, permette di calcolare la probabilità di trovare un
determinato risultato quando, ad un istante futuro, si eseguirà sul sistema un'altra
osservazione. Lo stato non somiglia quindi a nessuna cosa visibile tangibile e
descrivibile, ma è soltanto una determinazione matematica, esprimente, in un
determinato linguaggio analitico, i risultati delle osservazioni eseguite e il risultato
probabile delle osservazioni future.
In definitiva, gli oggetti quantistici si trovano in certi stati che non sono sempre
dotati di valore definito delle osservabili prima della misura: infatti è l'osservatore che
costringe la natura a rivelarsi in uno dei possibili valori, e questo è determinato
dall'osservazione stessa, cioè non esiste prima che avvenga la misurazione. Le
caratteristiche reali ed oggettive del sistema fisico sono definite solo quando vengono
misurate, e quindi sono "create" in parte dall'atto dell'osservazione.
Sarebbe però insensato, prosegue Heisenberg, porsi la questione di come si
comportino questi oggetti quando nessuno li osserva, quando nessuno strumento li
disturbi, e chiedersi se in realtà il loro comportamento è di tipo deterministico oppure
no, in quanto è evidente che lo scienziato non ha nulla da dire circa quello che fa la
natura allorquando nessuno la osserva. Limitandosi a quel che dicono le esperienze, la
92 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
scienza non può far altro che sottolineare come nel mondo atomico le esperienze non
consentono di misurare con precisione quei dati che sarebbero necessari per poter
effettuare una previsione deterministica e lasciare ad altri l'onere di discutere se la
natura sia o no "in sé stessa" intrinsecamente deterministica.
La natura dunque si sottrae a una precisa fissazione dei nostri concetti intuitivi,
per l'inevitabile perturbazione che è collegata con ogni osservazione. Mentre in origine
lo scopo di ogni indagine scientifica era quello di descrivere possibilmente la natura
come essa sarebbe di per sé, vale a dire senza il nostro intervento e senza la nostra
osservazione, ora noi comprendiamo che proprio questo scopo è irraggiungibile. Nella
fisica atomica non è possibile astrarre in alcuna maniera dalle modificazioni che ogni
osservazione produce sull'oggetto osservato. L'osservatore umano costituisce sempre
l'anello finale nella catena dei processi di osservazione e le proprietà di qualsiasi
oggetto atomico possono essere capite soltanto nei termini dell'interazione dell'oggetto
con l'osservatore. Ciò significa che l'ideale classico di una descrizione oggettiva della
natura non è più valido. Quando ci si occupa della materia a livello atomico, non si può
più operare la separazione cartesiana tra l'io e il mondo, tra l'osservatore e l'osservato.
Nella fisica atomica, non possiamo mai parlare della natura senza parlare, nello stesso
tempo, di noi stessi.
Su questa questione primordiale per la conoscenza scientifica della realtà in sé
avviene la vera insanabile frattura tra la filosofia della fisica contemporanea e la
filosofia della fisica classica. Heisenberg, Bohr, Born e forse la maggioranza dei fisici
contemporanei, accogliendo in pieno la tesi del neopositivismo, negano che abbia
significato fisico parlare di una realtà in sé, indipendente dall'osservatore, cioè non
esiste, come ammetteva la fisica dominante nel XIX secolo, un mondo reale a sé stante e
indipendente da noi, nascosto dietro il mondo sensibile. Un problema come questo è
privo di significato per i neopositivisti. Scopo della scienza non è la scoperta di
frammenti di verità assolute di un mondo esterno, ma la coordinazione razionale delle
molteplici esperienze umane. Ne discende che le leggi fisiche non sono leggi della
natura, nel senso classico, ma regole comode per riassumere economicamente il
succedersi delle nostre sensazioni; sono pure invenzioni, non scoperte, come diceva la
fisica classica. A questa interpretazione, che è quella che veramente sconvolge le
tradizionali idee della fisica classica, si opposero con pari fermezza i fautori della
concezione classica.
Con ciò il concetto stesso di “fatto scientifico” ha subìto, nella scienza
contemporanea, un mutamento radicale. Per la scienza dell'800 il fatto è una realtà
solida, massiccia, necessitante: per la scienza attuale il fatto è una semplice possibilità di
misura e di calcolo. Questo è forse il punto capitale, quello in cui meglio si capisce la
differenza tra il vecchio e il nuovo indirizzo della scienza. Esso risulta dalla risposta che
la scienza dava e dà alla domanda intorno al significato del predicato ontologico, cioè
della parola è o c'è.
Per la fisica classica un fatto fisico esiste sempre di suo pieno diritto e
l’osservazione scientifica vale solo a dimostrare il carattere e le manifestazioni. Per essa,
in altri termini, l’esistenza del fatto è presupposta come qualcosa di necessario. Per la
fisica moderna tale attribuzione preliminare di una realtà necessaria al fatto fisico è
completamente priva di senso. L’esistenza, la realtà di fatto, viene ricondotta a un’altra
categoria, cioè non è più a quella del necessario ma a quella del possibile. La possibilità
ulteriore dell’accertamento del controllo e del calcolo costituisce, nella fisica
contemporanea, il totale significato del predicato ontologico.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
93 Il punto di vista instaurato dalla fisica quantistica segna quindi l’abbandono
della spiegazione casuale, della previsione infallibile, ed introduce l’idea che i risultati
di una osservazione futura non sono mai infallibilmente prevedibili, perciò non si può
più assumere che esiste una causa che immancabilmente li produca. Consideriamo
un’obiezione. Si può dire che la negazione della prevedibilità rigorosa nella fisica
quantistica dipende esclusivamente dall'osservazione: è infatti l'intervento attivo
dell'osservazione che modifica la condizione del sistema atomico osservato e introduce
in esso quell'indeterminazione per la quale o la velocità o la posizione delle particelle
del sistema risultano modificate. Si potrebbe quindi dire: se si prescinde
dall'osservazione, il corso dei fatti atomici è necessario (nel senso che manca di
indeterminazione). Ma è qui un altro dei punti fondamentali della fisica
contemporanea. Se si prescinde dall'osservazione, non si può dire assolutamente nulla
sullo stato di un sistema atomico. Senza l'osservazione questo stato, propriamente
parlando, non esiste cioè non ha caratteri o determinazioni riconoscibili e controllabili.
Affermare che i fatti atomici hanno una propria causalità necessaria, che viene
disturbata dall’osservazione, non ha senso. Non ha senso in primo luogo perchè, se
avessero una causalità veramente necessaria, non potrebbero essere disturbati
dall'osservazione. E in secondo luogo perchè la fisica contemporanea si rifiuta di
riconoscere fatti o realtà che non siano controllati o controllabili da osservazioni
effettivamente eseguite. In sostanza, perciò, la fisica contemporanea che è, tra tutte le
scienze della natura la più rigorosa e la più feconda di risultati, ha abbandonato la
spiegazione causale. Tutti i fisici indeterministi assumono questo atteggiamento. In
questo senso essi affermano che in natura non ci sono leggi rigorosamente esatte,
soggiacenti a un principio di causalità. Quelle che la fisica chiamava leggi della natura
sono invece semplicemente regole che hanno un grandissimo grado d'approssimazione,
ma mai l'assoluta certezza. La nuova fisica è così costretta a cercare in tutte le leggi
fisiche una radice statistica e a formularle in termini di probabilità. E come la relatività
aveva detronizzato le kantiane categorie a priori di spazio e tempo, la meccanica
quantica detronizza la categoria a priori della causalità. Al carattere a priori di codeste
categorie vengono sostituiti nuovi principi; alla causalità, in particolare, si sostituisce la
probabilità.
E’ chiaro in via preliminare, che se la fisica, cioè la disciplina scientifica sulla
quale tutte le altre cercano di modellarsi per acquistare rigore e precisione, ha
abbandonato un certo tipo di spiegazione, non c’è motivo di ritenere questo tipo di
spiegazione valido per le altre discipline e continuare a servirsi di esso anche là dove
appariva, anche prima, assai inadatto. In altri termini, sarebbe strano che la biologia, la
sociologia, la storiografia continuassero a invocare il principio causale che, nel loro
ambito si è mostrato sempre di assai dubbia e incerta applicazione, quando la fisica ha
per suo conto abbandonato questo principio.
La meccanica quantistica, quindi, introduce due elementi nuovi ed inaspettati
rispetto alla fisica classica: il primo elemento è la violazione dell'oggettività. Il secondo è
l'indeterminazione, che rappresenta un'inaspettata violazione della perfetta
intelligibilità deterministica. Entrambi gli elementi sono estranei alla mentalità della
fisica classica, cioè rispetto a quella concezione ideale (galileiana, newtoniana e perfino
einsteiniana) che pretende che l'universo sia perfettamente oggettivo ed intelligibile.
Questo rivela la strana situazione in cui gli scienziati si trovano nell'analisi dei sistemi
quantistici. Con la meccanica quantistica la scienza sembra essere arrivata a rivelare
quella misteriosa frontiera tra soggetto ed oggetto che in precedenza era stata del tutto
94 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
ignorata a causa del principio (nascosto e sottinteso) dell'oggettivazione: fino agli anni
‘20 la realtà poteva essere considerata del tutto "oggettiva" ed indipendente
dall'osservazione di eventuali esseri coscienti. Ma con la formulazione della meccanica
quantistica sembrò che si dovesse tener conto necessariamente della figura
dell'osservatore cosciente! Vi furono subito delle reazioni a tale concezione, poiché in
fisica era sottinteso da sempre che l'universo esiste oggettivamente, indipendentemente
dal fatto che noi lo osserviamo o meno. In effetti, la scienza ebbe il suo grandioso
sviluppo fin dal 1600 proprio grazie all'ipotesi dell'oggettivazione. Così i fisici degli
anni '20 e '30 cercarono delle soluzioni concettuali per sfuggire a tale insolita situazione
(che nella cornice dell'oggettivazione appare del tutto paradossale).
Le reazioni in questione furono numerose ed energiche, e misero a confronto le
convinzioni di grandissimi scienziati, come Einstein (che riteneva che la meccanica
quantistica fosse incompleta o comunque inaccettabile in questa forma) e come Bohr
(che sosteneva invece la validità della teoria in questione).
I paradossi quantistici sembrano evidenziare che la "consapevolezza"
dell'osservatore giochi un ruolo decisivo ai livelli fondamentali della realtà e si
accordano con la concezione di Berkeley, filosofo del secolo XVIII, secondo il quale "Esse
est percipi" (esistere significa essere percepito): si tratterebbe di una concezione
immateriale dell'universo, una sorta di "empirismo idealistico". In effetti sembra che la
meccanica quantistica dia un messaggio nuovo sulla struttura della realtà, e che
sancisca la fine del "realismo" oggettivo e materialistico a favore di una concezione
"idealistica", in cui gli oggetti esistono in uno stato "astratto" e "ideale" che rimane
teorico finché la percezione di un soggetto conoscente non lo rende reale. Il fisico Pagels
avverte: "La vecchia idea che il mondo esista effettivamente in uno stato definito non è
più sostenibile. La teoria quantistica svela un messaggio interamente nuovo: la realtà è
in parte creata dall'osservatore…La situazione si presenta paradossale al nostro
intuito, perché stiamo cercando di applicare al mondo reale un'idea dell'oggettività che
sta solo nelle nostre teste, una fantasia".
Noi dobbiamo in effetti affrontare la teoria quantistica se vogliamo analizzare in
profondità alcune fra le questioni più importanti della filosofia: come si comporta il
nostro mondo, e che cosa costituisce le menti, ossia di fatto noi stessi? Quindi è venuto il
momento di rivisitare l'intera storia della filosofia, o crearne una nuova, per vedere se vi
è qualche idea o qualche concezione che riesca a inquadrare adeguatamente i risultati
che emergono dalla fisica quantistica.
6.4 Interpretazioni della meccanica quantistica
Nel
1935
Schrodinger,
per
evidenziare le molte problematiche legate
all'estrapolazione dei concetti dal mondo
microscopico dei quanti al mondo reale,
propose
un
famoso
esperimento
concettuale, subito definito il paradosso del
gatto di Schrodinger. Un gatto viene messo in una stanza, completamente isolata dall'esterno, dove si trova un sofisticato congegno azionato da un evento puramente casuale,
l'emissione spontanea di una particella da parte di una sostanza radioattiva. Per
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
95 disgrazia del gatto, quando il nucleo radioattivo libera la particella, questa mette in
movimento un sistema articolato in grado di rompere un recipiente contenente una
dose letale di cianuro. Non ci sarebbe nulla di paradossale se la sorte del gatto fosse comunque oggettivamente definita. Invece la meccanica classica e la meccanica
quantistica danno due risposte diverse nei riguardi dello stato di salute del gatto.
In un determinato istante, da un punto di vista classico, l'animale o è
completamente vivo o è completamente morto. Da un punto di vista quantistico, invece,
i due stati potenzialmente coesistono. Poiché nell'istante considerato c'è una certa
probabilità che la particella sia stata emessa e un'equivalente probabilità che nessuna
particella sia andata ad azionare il diabolico meccanismo, il gatto, con l’intero contenuto
della scatola, considerato come un unico sistema quantistico, si trova in una
sovrapposizione di due stati, ossia in uno stato rappresentato da una simultanea
combinazione di vita e di morte. In altri termini, fino a quando non viene osservato, il
gatto è metà vivo e metà morto. L'atto della misura trasforma così la probabilità in una
certezza selezionando un risultato specifico da una gamma di possibilità. Questa
selezione produce un'improvvisa alterazione nella forma della funzione d'onda,
chiamata “collasso della funzione d’onda”, la quale influisce in maniera drastica sulla
sua successiva evoluzione. Lo stato quantico è, per così dire, ridotto dall’osservazione,
ed è chiamato riduzione dello stato quantistico o anche problema della misura quantistica.
Pertanto, quando eseguiamo una misura di un sistema quantistico la nostra conoscenza
del sistema cambia, allora la funzione d’onda si modifica (collassa) per adattarsi a
questo cambiamento. D’altra parte, l’evoluzione della funzione d’onda determina le
relative probabilità dei risultati di misurazioni future, così che il collasso ha un effetto
sul comportamento successivo del sistema.
Un sistema quantistico evolve in maniera differente se si esegue una misura
invece di lasciarlo indisturbato. In verità, lo stesso vale per un sistema classico, solo che
in meccanica quantistica questo disturbo costituisce un aspetto fondamentale,
inevitabile, irriducibile e inconoscibile, in meccanica classica è semplicemente una
caratteristica accidentale che può essere ridotta a piacere. La misura quantistica è un
chiaro esempio di casualità verso il basso, perché qualcosa che è significativo ad un
livello macroscopico produce un mutamento fondamentale nel comportamento di
un’entità a livello microscopico.
Il collasso della funzione d'onda è fonte di parecchia perplessità fra i fisici, per
questo motivo. Fino a che un sistema quantistico non viene osservato, la sua funzione
d'onda evolve in maniera deterministica, infatti
obbedisce all’equazione di
Schrodinger. D'altro canto, quando il sistema viene esaminato da un osservatore
esterno, la funzione d'onda subisce un salto improvviso, in aperta violazione
dell'equazione di Schrodinger. Il sistema è perciò in grado di mutare nel tempo in due
modi completamente diversi: quando nessuno lo sta guardando e quando viceversa
viene osservato.
I tentativi fatti per risolvere il paradosso quantistico rappresentato dal gatto di
Schrodinger sono molteplici, e che rappresentano anche le varie interpretazioni che si
possono dare della meccanica quantistica. In particolare, le varie interpretazioni devono
dare le risposte alle seguenti domande: che cosa succede effettivamente quando, tra le
molte possibilità presenti in una sovrapposizione se ne verifica concretamente una
nell’esperimento? Perché durante una misurazione si verifica proprio la possibilità
osservata e non un’altra?
96 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
E’ l'interpretazione più condivisa della meccanica
quantistica, formulata da Bohr e Heisenberg durante la loro collaborazione a
Copenaghen nel 1927, che estesero l'interpretazione probabilistica della funzione
d'onda, proposta da Born ed introdussero l’idea che le misurazioni non sono una
registrazione passiva di un mondo oggettivo, ma interazioni attive in cui l’oggetto
misurato e il modo in cui lo si misura contribuiscono inseparabilmente al risultato. La
reale novità di questa interpretazione non è il fatto, d’altronde noto, che una
misurazione comporta una perturbazione di ciò che viene misurato, ma che la
misurazione definisce ciò che viene misurato. Quello che si ottiene da una misurazione
non è solo il fatto che dipende da che cosa si è scelto di misurare, ma che misurare un
certo aspetto di un sistema chiude la porta a tutte le altre cose che si potranno scoprire e
quindi limita l’informazione che potrà produrre qualsiasi misurazione futura.
In questa interpretazione abbiamo a che fare con un fenomeno quantistico, inteso
come un’entità unica che comprende sia il sistema quantistico osservato sia l’apparato
di misura classico. Quindi non ha alcun senso parlare delle caratteristiche del sistema
quantistico in sé stesso, senza specificare esplicitamente gli strumenti di misura. E ha
ancora meno senso attribuire a un sistema quantistico variabili simultaneamente
complementari come posizione o momento, in quanto gli apparati necessari per
determinarli si escludono reciprocamente. Nell’interpretazione di Copenaghen, la
funzione d’onda è solo il nostro modo di rappresentarci quella parte della nostra
conoscenza della storia di un sistema, la quale è necessaria per calcolare future
probabilità di specifici risultati di misure. Pertanto, il processo di misura estrae
casualmente una tra le molte possibilità permesse dalla funzione d'onda che descrive lo
stato. Per conoscere in quale stato si trovi il gatto occorre "osservare", "misurare",
effettuare cioè la sola operazione che secondo la meccanica quantistica potrà stabilire la
buona o la cattiva sorte del gatto. In base a questa logica, il destino del gatto è
determinato solo nell'istante in cui l'osservatore decide di aprire la stanza, perché è
allora che o l'uno o l'altro dei due stati, prima entrambi potenzialmente presenti al 50%,
è reso reale.
INTERPRETAZIONE DI COPENAGHEN –
INTERPRETAZIONE DI COPENAGHEN
Quando in un sistema fisico possono accadere cose diverse, allora per ognuna di
esse ci sarà un’ampiezza e lo stato totale del sistema sarà dato dalla somma, o
sovrapposizione, di tutte queste ampiezze. Quando viene effettuata
un’osservazione, si troverà un valore corrispondente ad una di queste ampiezze e le
ampiezze escluse scompariranno.
In fisica classica non vi sono limitazioni di principio alla misurazione delle
caratteristiche di un sistema fisico: per esempio ad ogni istante possiamo misurare la
posizione di un certo oggetto in movimento, la sua velocità, la sua energia, eccetera.
Non è così nella meccanica quantistica: gli oggetti "quantistici" (atomi, elettroni, quanti
di luce, ecc.) si trovano in certi "stati" indefiniti, descritti da certe entità matematiche
(come la "funzione d'onda" di Schrödinger). Soltanto all'atto della misurazione fisica si
può ottenere un valore reale; ma finché la misura non viene effettuata, l'oggetto
quantistico rimane in uno stato che è "oggettivamente indefinito", sebbene sia
matematicamente definito: esso descrive solo una "potenzialità" dell'oggetto o del
sistema fisico in esame, ovvero contiene l'informazione relativa ad una "rosa" di valori
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
97 possibili, ciascuno con la sua probabilità di divenire reale ed oggettivo all'atto della
misura. Se la realtà non esiste in assenza dell’osservazione, un oggetto microfisico non
ha proprietà intrinseche, per cui un elettrone semplicemente non esiste da nessuna
parte finchè non viene effettuata una misurazione per localizzarlo. Poiché la meccanica
quantistica non dice nulla su una realtà fisica che esista indipendentemente dal
dispositivo di misura, soltanto nell’atto della misurazione l’elettrone diventa reale. Un
elettrone non osservato non esiste. Per Bohr lo scopo della fisica non è quello di scoprire
com’è fatta la natura, ma ciò che possiamo dire sulla natura. A differenza di Einstein,
secondo il quale lo scopo della fisica è quello di afferrare la realtà com’è
indipendentemente dall’osservazione, per Bohr il mondo microfisico è un mondo di
possibilità e di potenzialità piuttosto che un mondo di cose o di fatti. La transizione dal
possibile al reale ha luogo solo in seguito all’atto dell’osservazione. Non c’è nessuna
realtà quantistica sottostante che esiste indipendentemente dall’osservatore.
In definitiva: gli oggetti quantistici si trovano in certi stati che non sono sempre
dotati di valore definito delle osservabili prima della misura, infatti è l'osservatore che
costringe la natura a rivelarsi in uno dei possibili valori, e questo è determinato
dall'osservazione stessa, cioè non esiste prima che avvenga la misurazione.
Per introdurre una definizione apparentemente audace, le caratteristiche reali ed
oggettive del sistema fisico sono definite solo quando vengono misurate, e quindi sono
"create" in parte dall'atto dell'osservazione. Come dice Heisenberg: “Ciò che osserviamo
non è la natura in sé stessa ma la natura esposta ai nostri metodi di indagine”.
L’osservatore decide come predisporre il dispositivo di misura e la soluzione
adottata determina, almeno in parte, le proprietà dell’oggetto osservato. Se viene
modificato il dispositivo sperimentale, le proprietà dell’oggetto cambieranno a loro
volta. Nella fisica atomica, quindi, lo scienziato non può assumere il ruolo di
osservatore distaccato e obiettivo, ma viene coinvolto nel mondo che osserva fino al
punto di influire sulle proprietà degli oggetti osservati. Wheeler considera questo
coinvolgimento dell’osservatore come l’aspetto più importante della meccanica
quantistica e ha quindi suggerito di sostituire il termine “osservatore” con
“partecipatore”, e pertanto, in un certo qual modo, l’universo è un universo
partecipatorio.
La meccanica quantistica, secondo l’interpretazione di Copenaghen, introduce
due elementi nuovi ed inaspettati rispetto alla fisica classica. Il primo elemento
inaspettato è la violazione dell'oggettività. Il secondo è l'indeterminazione, che
rappresenta un'inaspettata violazione della perfetta intelligibilità deterministica.
Entrambi gli elementi sono estranei alla mentalità della fisica classica, cioè rispetto a
quella concezione ideale (galileiana, newtoniana e perfino einsteiniana) che pretende
che l'universo sia perfettamente oggettivo ed intelligibile.
Tra le altre interpretazioni, diamo dei cenni solo sulla seguente:
- In questa interpretazione tutte le ramificazioni della
funzione d’onda esistono nello stesso tempo, motivo per cui viene asserito che non
avviene alcun collasso della funzione d’onda, per cui viene rifiutato l'irreversibile e non
deterministico collasso della funzione d'onda associato all'operazione di misura
nell'interpretazione di Copenaghen, in favore di una descrizione in termini di
entanglement quantistico e di un'evoluzione reversibile degli stati.
I fenomeni associati alla misura sono descritti dalla decoerenza quantistica che si
verifica quando un sistema interagisce con l'ambiente in cui si trova, o qualsiasi altro
INTERPRETAZIONE A MOLTI MONDI
98 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
sistema complesso esterno, in un modo termodinamicamente irreversibile tale che i
differenti elementi nella funzione d'onda di sistema e ambiente non possano più
interferire tra loro. Secondo questa interpretazione, tutti i mondi quantici sovrapposti
sono ugualmente reali. L’atto della misura fa sì che l’intero universo si scinda nelle
varie possibilità quantiche (gatto vivo e gatto morto). Queste realtà parallele coesistono,
ciascuna di esse abitata da una diversa copia dell’osservatore cosciente.
Questa interpretazione, dovuta a Hugh
Everett (1930-1982), presuppone, quindi, che lo stato
quantistico sia sempre una rappresentazione
completa della realtà, e che in una misurazione
niente vada perduto, il gatto è sia vivo che morto, e
quindi ciascuna possibilità si realizza comunque, nel
proprio universo, quando si esegue la misurazione.
Così, con ogni misurazione, con ogni osservazione,
l’universo si divide in più universi, e in ognuno di questi si realizza una delle possibilità
previste dalla fisica quantistica. Secondo questa interpretazione, quando l’universo si
divide in due copie (gatto vivo e gatto morto, particella attraverso la fenditura A e B), in
ognuna delle quali avviene uno dei due eventi, questo accade anche alla nostra
coscienza, che in un universo una copia constaterà il gatto vivo o la particella attraverso
A, e nell’altro universo la seconda copia constaterà il gatto morto o la particella
attraverso la fenditura B. Il concreto “io”, la mia consapevolezza, è hic et nunc in uno
stato ben definito e quindi può essere trovato in una certa ramificazione dell’universo,
in quello in cui solo uno, vale a dire uno particolare dei possibili risultati di uno
specifico processo di misura individuale può essere realizzato.
L'interpretazione a molti mondi consentiva di aggirare un problema per il quale
l'interpretazione di Copenaghen non aveva alcuna soluzione: quale atto di osservazione
poteva mai causare il collasso della funzione d'onda dell'intero universo?
L'interpretazione di Copenaghen richiede che vi sia un osservatore all'esterno
dell'universo, ma siccome non ce ne sono, la-sciando da parte Dio, l'universo non
dovrebbe mai cominciare a esistere, ma dovrebbe rimanere per sempre in una
sovrapposizione di molte possibilità. L'equazione di Schrodinger che descrive la realtà
quantistica come una sovrapposizione di possibilità, e assegna un ventaglio di
probabilità a ogni possibilità, non include l'atto della misurazione. Non ci sono
osservatori nella matematica della meccanica quantistica. La teoria non dice nulla sul
collasso della funzione d'onda, l'improvviso e discontinuo cambiamento dello stato di
un sistema quantistico che segue a un osservazione o a una misurazione, quando il
possibile diventa reale. Nell'interpretazione a molti mondi di Everett non c'era alcun
bisogno di un'osservazione o una misurazione per determinare il collasso della
funzione d'onda, dal momento che ogni possibilità quantistica, nessuna esclusa, coesiste
come una realtà effettiva in una gamma di universi paralleli.
L’interpretazione dei molti mondi è tuttavia fondamentalmente incapace di
prevedere in quale ramificazione posso fare esperienza di ritrovarmi. L’asserzione che
l’osservatore coesiste in molti stati differenti è intrinsecamente non verificabile. La più
seria critica che si può avanzare deriva dall’adozione del principio noto come il rasoio
di Occam: "entia non sunt multiplicanda sine necessitate" (Non bisogna aumentare senza
necessità gli elementi della questione), o "pluralitas non est ponenda praeter necessitatem"
(non si deve imporre la pluralità oltre il necessario). E, nell’interpretazione in esame, la
moltiplicazione degli enti risulta addirittura infinita. Va riconosciuto che in anni recenti
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
99 questa interpretazione ha suscitato l’interesse di grandi fisici come Stephen Hawking e
Murray Gell-Mann. L’idea dei molti mondi, per quanto peculiare e strana possa
sembrare, ha una sua logica ed un suo fascino, che deriva anche dai molti esempi
letterari in cui una visione di questo tipo è stata adombrata. Uno degli esempi più belli è
costituito dal racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges.
100 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Conclusioni Ho cercato di raccontare attraverso lo sviluppo delle idee, dall’antica Grecia, ai
giorni nostri, le varie immagini del mondo che l’uomo ha disegnato nella propria
mente. Siamo arrivati alla descrizione definitiva della realtà del mondo? No. Il
pensiero scientifico esplora e ridisegna il mondo in continuazione; è un’esplorazione
continua di forme di pensiero. La sua forza è la capacità visionaria di far crollare idee
preconcette, svelare territori nuovi del reale e costruire nuove e più efficaci immagini
del mondo. Ciò che l’universo realmente sia non lo sappiamo, ed è senza significato
cercarlo. Noi possiamo solo formarci rappresentazioni della natura che mutano con i
tempi e saranno sempre incomplete.
La consapevolezza dei limiti della nostra conoscenza è il cuore del pensiero
scientifico. E’ lo stimolo continuo che ci permette di non considerare mai definitiva
l’immagine del mondo che ci siamo costruiti, perché sono ombre proiettate sulla parete
della caverna di Platone. Per imparare qualcosa in più rispetto a quello che sappiamo,
bisogna avere il coraggio di mettere in discussione le conoscenze e le idee accumulate
dai nostri padri. Senza questo sentimento di ribellione scientifica, i vari Anassimandro,
Galileo, Copernico, Newon, Einstein, i fondatori della meccanica quantistica, non
avrebbero mai messo in discussione le idee e le concezioni dei loro predecessori. Se
nessuno di questi avesse sollevato dubbi e proposto nuove immagini del mondo,
staremmo ancora a pensare alla Terra come a un disco piatto oppure a una palla
attorno alla quale ruota l’intero universo.
La grande forza della scienza, ed è ciò che la disitingue dalle altre forme del
pensiero, è che attraverso ipotesi e ragionamenti, intuizioni e visioni, equazioni e
calcoli, possiamo stabilire se una teoria è giusta oppure no. Nella scienza non esistono
affermazioni che non possano essere messe in discussione e anche le certezze scientifiche
più radicate possono crollare davanti a nuove scoperte. Ma la scienza non consiste
solamente nei risultati delle osservazioni, altrimenti una qualsiasi collezione di esse
sarebbe
buona
quanto
un’altra.
E’
perché
la
scienza
ha
una
struttura
e
un’interpretazione teorica che consentono di avere i risultati delle osservazioni, li si
può correlare e farli coincidere in teorie.
Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
101 Ma se la scienza non è sicura di ciò che afferma perché dobbiamo fare
affidamento su di essa? La risposta è semplice: la scienza è affidabile perché fornisce le
risposte migliori che abbiamo al momento presente. La scienza rispecchia il meglio che
sappiamo sui problemi che affronta. Quando Einstein ha mostrato che Newton
sbagliava, non ha messo in discussione l’affidabilità della scienza, ma ha semplicemente
dato delle risposte migliori alle domande che il mondo poneva. La natura del pensiero
scientifico è critica, ribelle, insofferente di ogni concezione a priori, a ogni verità
intoccabile. La scienza è alla ricerca delle risposte più affidabili, non delle risposte certe
e definitive. Fare scienza significa vivere con domande cui non sappiamo (forse non
sappiamo ancora, oppure non sapremo mai) dare risposta.
La curiosità di imparare, scoprire, voler assaggiare la mela della conoscenza è
ciò che ci rende umani, perché non siamo fatti “…. a viver come bruti, ma per seguir
virtute e canoscenza”.
102 Le grandi rivoluzioni scientifiche del XX secolo:
la Teoria della Relatività e la Meccanica Quantistica
Bibliografia ü
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Ludovico Geymonat– Storia del pensiero filosofico e scientifico –Volume 4-Garzanti
Ludovico Geymonat– Storia del pensiero filosofico e scientifico –Volume 5-Garzanti
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