Una selezione di scritti del prof. Bruno Schettini

LA FILOSOFIA CON I BAMBINI E I RAGAZZI
COME SFIDA PER IL CAMBIAMENTO SOCIALE
Uovo dell’Arcobaleno
Disegno realizzato dai bambini della Scuola dell‟Infanzia “Bruno Ciari” del 244° C.D. di Roma
Una selezione di scritti del prof. Bruno Schettini, a cura di Pina Montesarchio, ad uso dei partecipanti al convegno:
“FARE FILOSOFIA CON I BAMBINI E I RAGAZZI EDUCARE AD UN NUOVO UMANESIMO”
Napoli, gennaio 2012
1
2
"Ai miei studenti di ieri e di oggi.
A quelli ai quali ho proposto itinerari arditi
di cambiamento e di trasformazione
affinché, ovunque siano,
non cessino mai di crescere e sfidare
le intemperie della vita"
(Bruno Schettini)
In questo opuscolo viene raccolto un primo gruppo di scritti e interventi di Bruno Schettini, con la prospettiva di arrivare a
un libro che renda debitamente conto del suo creativo pensiero pedagogico.
Bruno non è più tra noi, al convegno di Napoli non potremo ascoltare le sue parole. Queste pagine vorrebbero restituirci pur
sempre qualcosa della sua penetrante idea di una filosofia con i bambini e i ragazzi e di quel retroterra che, per ora, noi di Amica
Sofia conosciamo meno bene.
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Indice
Educazione: riforma o rivoluzione?
Una scuola per la democrazia cognitiva
Alfabetizzare per coscientizzare: la lezione di Paulo Freire
Leggere le parole per leggere il mondo
Educarsi attraverso la fiaba
Perché e come fare disegnare i bambini in modo spontaneo
Ogni età merita la sua domanda
Appunti sparsi I
Appunti sparsi II
La Filosof-azione con i bambini
La filosofia con i bambini: quale pedagogia, quale comunità
FILOSOF-AZIONE! Ma di che stiamo parlando?
La filosofia con i bambini e i ragazzi come sfida per il cambiamento sociale
Un ricordo
Nota biografica
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Educazione: riforma o rivoluzione?1
La domanda è complessa e cercherò di dare delle risposte senza banalizzare. Senz‟altro ci sono più risposte; la prima è questa: nella
nostra società, soprattutto europea, l‟educazione è maggiormente considerata come istruzione o formazione continua cioè professionale e,
quindi, è finalizzata a che gli studenti, i giovani e quanti hanno lasciato da tempo la scuola senza conseguire un titolo di studio o sono
disoccupati, conseguano un titolo di studio certificato; ma questa non è educazione, è istruzione o formazione. Altri, poi, pensano che
l‟educazione sia introdurre i più giovani nella società degli adulti; questa - però - è socializzazione, non è ancora educazione e per la
maggior parte delle persone l‟educazione è in parte istruzione e in parte socializzazione secondaria; poi ci sono alcuni, anche io la penso
così, i quali ritengono che l‟educazione sia tutt‟altra cosa, sia, cioè, accompagnamento dei bambini, dei giovani e degli adulti, durante tutto
il corso della vita e nei vari cicli di essa, quando cioè il tempo della crescita esige uno sforzo per il cambiamento proattivo; ecco, questa
include l‟istruzione, la socializzazione, ma non si riduce a istruzione e a socializzazione; è stimolo al cambiamento e alla crescita, è un
aiuto ad allargare gli orizzonti delle vita e a far vedere criticamente sempre più oltre, è facilitazione a cercare punti di arrivo che non siano
già dati anche se, però, nella nostra società c‟è sempre la tentazione, da parte di qualcuno, di indicare dove andare; c‟è sempre qualcuno
insomma - fra i vari sistemi come la chiesa, le organizzazioni economiche, finanziarie, sindacali, istituzionali, ecc… - che si erge a sistemaguida indicando e sostenendo una direzione da seguire attraverso una costante pressione morale, sociale, psicologica ed economica, che fa
largo uso degli strumenti mediatici, affinché giovani e adulti vadano in una direzione precostruita.
Ecco, credo che neanche questa sia educazione, perché l‟educazione deve lasciare lo spazio alle persone per orientarsi e autodirezionarsi, altrimenti non si ha cambiamento autentico né formazione della persona: educazione e cambiamento sono i due volti della
stessa medaglia non si dà cambiamento senza educazione e l‟educazione è cambiamento per dare forma continuamente ad un sé dinamico,
processuale, che staziona quel tanto che basta in una “posizione”, per subito riprendere il cammino. La maturità, quella dell‟adulto
anagrafico che ci è stata consegnata sia da una vecchia pedagogia essenzialista, quanto da quella naturalistico deterministica o comunque
ad orientamento normativo-riproduttivo che porta l‟individuo a operare le proprie scelte basandosi sul sistema morale vigente nella propria
società, è una falsa maturità, certamente rassicurante, ma che declina ogni responsabilità circa il futuro.2 Il cambiamento può essere
radicale, ma esso in genere avviene lungo il corso della vita delle persone e mai in modo repentino; a volte si incontrano persone conosciute
dopo un qualche di tempo e le scorgiamo totalmente trasformate; ecco questo è un cambiamento, alle volte radicale quando le esperienze
della vita sono così tanto fortemente incidenti sui nostri sistemi di comprensione dei fatti e degli avvenimenti da esigere una risposta
1
Intervista rilasciata da Bruno Schettini alla prof.ssa Artemis Torres a Cuiabà (Universidade Federal de Mato Grosso) 19.11.2008.
In http://edasociety.educazione-degli-adulti.it/farm/materiali/articoli/entrevista-artemis.pdf
2
Cf: SUCHODOLSKI B., Trattato di pedagogia generale. Educazione per il tempo futuro, Armando Editore,
Roma 1972.
5
adeguata nell‟immediato ai fini della sopravvivenza; ma tutto ciò dipende dalle esperienze della vita, perché in educazione le esperienze
della vita sono importanti anche se non tutte le esperienze sono educative, perché per esserlo bisogna riflettere criticamente su di esse,
occorre tematizzarle, discriminarle per capire che cosa di esse è veramente importante per la crescita della propria persona nel confronto
con le altre. Penso, in questo momento, a tutto il Movimento della cosiddetta “Pedagogia non direttiva” e, in particolare, a pedagogisti
come Paulo Freire od anche all‟italiano Ettore Gelpi, e più ancora ad Antonio Gramsci, ma penso anche allo stesso “Grupo de Pesquisa em
Movimentos Sociais e Educação” brasiliano, all‟esperienza dei “Sem Terra”, a quella di Porto Alegre o del World Social Forum ecc… e ad
altri ancora.3
Senz‟altro c‟è chi pensa anche che l‟educazione sia un accompagnamento blando, dolce che marchi il tempo dei cicli della vita. Io
penso che l‟educazione abbia sia questo aspetto cioè di un accompagnamento lento, sia anche quello che dà luogo a dei veri e propri
breakdown che mettano le persone dinanzi alle loro responsabilità, perché la crescita è espressione di scelte e quando il cambiamento bussa
alla porta è allora che bisogna dare spazio a ciò che di nuovo, di originale, di creativo c‟è nei pensieri, nelle azioni e negli affetti delle
persone.4 Ecco questa non è una visione dell‟educazione molto condivisa perché, in Europa, in Italia nei Paesi dell‟Unione Europea 5 c‟è
un‟omologazione imperante, una pressione che i governi, i decisori politici, gli amministratori e il mondo dell‟economia fanno
continuamente sulla gente attraverso le televisioni sia pubbliche che private, ma anche attraverso la carta stampata, attraverso le martellanti
pubblicità, talk show, fiction ecc… propagandando le diffuse immagini di una società dell‟effimero in cui ciò che in genere è considerato
come valore positivo ormai viene di fatto deriso attraverso le azioni della quotidianità e indicato come obsoleto non attraverso le parole,
3
Sull’argomento, cf. MAYO P., Gramsci, Freire e l’educazione degli adulti. Possibilità di un’educazione trasformativa, Carlo Delfino Editore, Sassari 2007.
Il concetto è stato successivamente sviluppato di recente dallo stesso A., Il lavoro dell’educazione con gli adulti, in “Pedagogika.it”, n.2-3 (2009),
pp.62- 66.
5
I Documenti principali dell’U.E. in materia di lifelong learning:
Consiglio dell’UE, L’apprendimento permanente per la conoscenza, la creatività e lo sviluppo, Bruxelles 2008; Commissione delle Comunità europee, E’
sempre il momento di imparare. Piano di azione in materia di educazione degli adulti, Bruxelles 2007; Commissione delle Comunità europee, Educazione
degli adulti: non è mai troppo tardi per apprendere, Bruxelles 2006; Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio, Le competenze chiave per
l’apprendimento permanente, Bruxelles 2006; Commissione delle Comunità europee, Realizzare uno spazio europeo dell’apprendimento permanente,
Comunicazione della Commissione, Bruxelles 2001; Commissione delle Comunità europee, Gli obiettivi futuri e concreti dei sistemi di istruzione,
Relazione della Commissione, Bruxelles 2001; Commissione delle Comunità europee, Memorandum sull’istruzione e la formazione permanente,
Bruxelles 2000; Decisione del Parlamento europeo e del Consiglio che proclama il 1996 “Anno europeo dell’istruzione e della formazione lungo tutto
l’arco della vita”, Bruxelles 1995; Commissione delle Comunità europee, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Libro Bianco su Istruzione e
Formazione, Bruxelles 1995; Commissione delle Comunità europee, Crescita, competitività, occupazione: le vie da percorrere per entrare nel XXI secolo,
Lussemburgo 1993. Sui documenti citati, cf: TORIELLO F., Fondamenti epistemologici del lifelong learning, Tecnodid Editrice, Napoli 2008.
6
4
pure celebrate ma svuotate del loro significato originario, ma attraverso i pervasivi messaggi che creano e distruggono continuamente quei
nuovi miti che tendono ad alimentare l‟immaginario delle giovani generazioni – e non solo – ormai svuotate di idealità positive. Certo,
dinanzi ad una situazione di questo genere, che è planetare, parlare di educazione nel senso di un cambiamento che viaggi sui tempi molto
lunghi, appare quanto meno privo di senso o di futuro; forse quello che oggi occorre è un modello di educazione “radicale” che crei ed
evidenzi quel gap esistente fra le melliflue lusinghe di una società votata alla deriva cosmica e la necessità cogente di una ripresa di temi
che invitino ad una severa riflessione politica, etica sulla dignità dell‟uomo al quale è stata tolta la prospettiva di uno spazio futuro di
umana vivibilità e condivisibilità: una città non già costruita, ma un luogo nel quale gli uomini possano scambiare, condividere,
confrontarsi anche con il conflitto delle idee, nella prospettiva, però, di creare sintesi dialetticamente nuove. Questo però è possibile a
partire da una rinnovata idea di educazione degli adulti e da un‟educazione che si ponga come strumento di contrasto a quanti, con i loro
comportamenti mediaticamente ampliati a dismisura, finiscono con il convincere le persone adulte e giovani che questa è la vita che vale la
pena di vivere, una vita che non ha spazi futuri ed è come se essa andasse consumata tutta nell‟oggi perché del domani non v‟è affatto
certezza alcuna anche dal punto di vista dell‟impatto ambientale. Questo messaggio toglie proprio ogni prospettiva al mondo
dell‟educazione e toglie anche autorevolezza agli educatori perché essi non hanno la possibilità di Freire, che abbia il coraggio di riproporre
il futuro come progetto personale e collettivo da costruire6, pur considerando il contesto estremamente riduzionistico in cui si è chiamati a
lavorare fra le incomprensioni della stessa gente oppressa a cui ci si rivolge per aiutarla a riscattarsi da ogni forma di oppressione;
quell‟oppressione che essi neanche sono in grado di riconoscere tant‟è l‟avvilimento a cui sono sottoposti.7
E‟ vero che in italia e, in modo particolare, in Europa si parla molto e si discute di educazione degli adulti o del lifelong learning.
Ma sui programmi europei e nazionali di lifelong learning, come un pesante maglio, è caduta l‟ideologia neoeconomicistica e neoliberistica
interamente asservita al fine del mercato del lavoro; quello stesso mercato che, mentre chiede sempre nuovi titoli di studio e livelli più alti
di formazione, svuota continuamente la propria domanda attraverso la drastica riduzione di posti di lavoro e l‟indottrinamento mediatico
che priva le menti di un sapere critico e le avvilisce attraverso la dimostrazione dell‟inutilità di una formazione veramente diffusa e degna
di questo nome sia a livello umanistico che scientifico. Tuttavia, stiamo assistendo ad un timido risveglio delle coscienze; c‟è una tensione
e anche un‟attenzione a cambiare l‟orientamento che ci viene imposto; la lotta, però, è dura perché è controcorrente, perché l‟educazione è
disarmata di fronte a questa situazione e occorre trovare forme di lotta nuove per poter affermare un‟educazione per un mondo vivibile per
tutti. Io non so se quello di oggi sia ancora il tempo di un‟educazione graduale, progressiva, di tipo riformistico cioè; sarà senz‟altro così
per alcuni e a certe condizioni; tuttavia, credo che ci sia un grande bisogno di trovare nuove forme di lotta molto forti per poter opporre una
6
Cf. SEMERARO G., Il Circolo di studio: “Dizer a palava, pronunciar o mundo, estar sendo”, in SCHETTINI B., TORIELLO F., PAULO FREIRE. Educazione Etica
Politica. Per una pedagogia del Mediterraneo, LucianoEditore, Napoli 2008. pp. 127-133.
7
7 Sul punto, la riflessione più adeguata e ancora attuale è proprio quella condotta da Paulo Freire nel suo volume Pedagogia do oprimido.
7
resistenza, forse non necessariamente cruenta, ma che avrà i suoi morti sul campo, morti in senso metaforico ma non solo; morti, per idee e
valori positivi e proattivi, ben consci di non poterle vedere realizzate in costanza della stessa vita. Ma questo è importante perché
l‟educazione è sempre educazione alla libertà cioè lotta per una libertà sempre in costruzione nello svelamento continuo di ciò da cui
esplicitamente e/o occultamente dipendiamo; ma non c‟è educazione senza lotta per la libertà delle persone singole e associate, perché
nessuno regala niente a nessuno! La storia, poi, ci insegna che chi lotta veramente per la libertà compie un sacrificio autentico giungendo
talora anche all‟estremo sacrificio; e questa è la grande utopia dell‟educazione nascosta sotto le vesti del magistrato e delle forze
dell‟ordine che lottano contro la mafia e la camorra, del giornalista che documenta la violenza e le ingiustizie da chiunque operate, dei
sindacalisti che lottano contro le sopraffazioni e gli abusi, dei docenti, preti e suore che formano ai valori e sono di esempio e
testimonianza, dei ricercatori che valorizzano la creatività a servizio dell‟uomo, degli imprenditori che pensano al lavoro come a uno
strumento autentico, accanto alla conoscenza, di emancipazione dell‟uomo e di produttività e non di mera speculazione, ecc...8
Vale la pena di cimentarsi, di sperimentarsi, però è controcorrente e dinanzi c‟è solo il muro dell‟incomprensione quando non anche
dell‟interesse personale o di casta o di famiglia che, purtroppo, si riproduce nel tempo secondo meccanismi invasivi e mascherati. In questo
senso, a ben rivedere, la storia italiana ed europea di educazione degli adulti, ma anche di oltre Oceano, è già sempre stata in questa
direzione, occorre riprenderla e toglierla dalle mani di chi di essa si è impadronita per dirottarla in direzioni quanto meno improprie. E‟ una
difficile, ma bella scommessa!
8
In questo senso e a titolo esemplificativo, si veda il volume di IORIO P., Il Sud che resiste, Ediesse, Roma 2009.
8
Una scuola per la democrazia cognitiva9
Ai nostri giorni la formazione dovrebbe diventare un vero e proprio progetto politico per una cultura della conoscenza e della
comprensione e non soltanto per un‟informazione finalizzata al mercato del lavoro anche se quest‟ultimo fosse inteso nell‟accezione di
strumento ineludibile della capacità di una società di evitare forme di marginalizzazione e di esclusione sociale. Uno sguardo al mercato del
lavoro, comunque, ci fa capire che al mercato dei titoli di studio non fa automaticamente riscontro quello del lavoro.10
Questo significa che a fronte dell‟asservimento della scuola alle tesi confindustriali più spregiudicate, è stato anche perpetrato un
grave inganno a danno delle nuove generazioni quando si è spostato il discorso dall‟occupazione all‟occupabilità e/o impiegabilità
attraverso quell‟analfabetismo strisciante di ritorno e quell‟illetteratismo attraverso i quali si è potuto ambiguamente giocare su di un
concetto di flessibilità inteso come discontinuità del diritto al lavoro per tutta la vita e come carenza dei diritti sul lavoro.
In tale contesto, la Scuola di oggi porta in sé numerosissime contraddizioni; il processo di globalizzazione, per esempio, ha
comportato certamente un flusso notevole di informazioni, allargando confini, ma la scuola non si è mostrata in grado di direzionare
didatticamente e pedagogicamente tale flusso, anzi per lo più vive soggiogata come presa da un complesso di inferiorità, mentre un numero
di persone enorme, ma esiguo rispetto alla totalità della popolazione mondiale, gestisce la maggior parte delle informazioni, comportando
un rischio reale e non virtuale per la democrazia. Nello stesso tempo, la scuola è stata fatto oggetto di quel totalitarismo tecnoscientifico per
il quale conterebbe solo la quantità e non la qualità dei contenuti, la celerità e non la durata dell‟istruzione, come hanno fatto notare, a vario
titolo, Karl Popper e Edgar Morin.
Allora, più che di società della conoscenza (e dell‟informazione) diffusa dovremmo parlare di una società dell‟opinione diffusa che
scalza continuamente sia una conoscenza autorevole frutto di studio e di ricerca e a cui occorrerebbe riferirsi quale mediatrice di civiltà, sia
una corretta informazione indipendente dai centri di potere. Il rischio più forte al quale andiamo incontro è quello di lasciare che le
economie neoliberiste, sempre più slegate dal controllo e dalla regolamentazione dei governi (anzi condizionandone, spesso, le decisioni),
scelgano le linee di modificazione ed investimento nei sistemi educativi e di istruzione, sempre più orientati verso la mercantilizzazione
dell‟offerta formativa, la mercificazione dei prodotti “culturali” e la considerazione dei destinatari come clienti/consumatori. Tutto ciò
esige che mete formative di media e lunga scadenza con chiari obiettivi educativi tesi alla cittadinanza, alla democrazia cognitiva, alla
solidarietà e all‟istruzione costituiscano lo snodo di un progetto di società che, dopo circa 30 anni di intenzionale informazione spazzatura,
si presenta a rischio di democrazia.
9
Il testo di questo intervento è tratto dalla relazione presentata da Bruno Schettini per il Laboratorio di filosofia “Siamo in pensiero…” al
Fantasio Festival 2009 di Perugia, in Amica Sofia, giugno 2009.
10
Cf. SVIMEZ, Rapporto Svimez 2007 sull’economia nel Mezzogiorno, FrancoAngeli, Milano 2007.
9
Ci si dovrebbe chiedere, dunque, quale sia oggi il compito della scuola per il futuro. Da più parti, ormai, si sostiene che i processi
formativi non debbano seguire pedissequamente le condizioni dettate, anche in modo accattivante, dall‟ideologia neoliberistica e
neoeconomicistica che suggerisce di inseguire fluidamente il mercato del lavoro, ma di interconnettere i canali della conoscenza, procedere
alla riforma del pensiero e dell‟insegnamento in modo da ricomporre – come già auspicava Elio Vittorini - il sapere umanistico, scientifico
e tecnologico, oggi scissi. Più che una “scuola liquida”, per dirla alla Zygmunt Bauman – piacerebbe una “scuola oleosa” che lasci traccia
del suo lavoro in processi consistenti di apprendimento significativo.11
In realtà, le competenze, in quanto risorsa per rispondere a esigenze individuali e sociali sempre più estese, necessarie per svolgere
attività e compiti di lavoro e della vita, chiamano in causa dimensioni cognitive e affettive da esplicarsi sapientemente nella vita individuale
e collettiva, come scrive Howard Gardner12 che ricorda come una mente educata in senso creativo, e non solo tecnologico, possa aiutare
chiunque a dare risposte inattese, in grado di fronteggiare il mondo del futuro che esigerà capacità oggi ritenute opzionali come la capacità
di fare scelte adeguate attraverso un intuito ancorato ad abilità di sintesi su cui esso dovrà saldamente poggiare. Raccogliere questa sfida
significa procedere ad una riforma dell‟insegnamento che deve condurre alla riforma del modo di pensare.
Una proposta dunque non esclusivamente didattica, ma paradigmatica. Si tratta di apprendere a vivere, a trasformare le informazioni
in conoscenza e la conoscenza in saperi e apprendere a vivere significa affrontare l‟incertezza, apprendere a diventare cittadini del proprio
“villaggio” e, contemporaneamente, del villaggio connesso con il mondo intero. Per imparare a vivere nell‟incertezza, Edgar Morin ha
avanzato, con lucidità, molteplici proposte tra cui quella di praticare un pensiero che si sforzi di contestualizzare e sintetizzare le
informazioni e le conoscenze.
Morin, archiviando quella che comunemente viene definita la “conoscenza diffusa”, suggerisce una “democrazia cognitiva”13 che
permetta ad ogni cittadino di incorporare (non di sommare) i vari saperi, poiché la conoscenza non deve essere additiva, ma organizzatrice
e setacciatrice, deve, cioè, sapere individuare ciò che è ridondante, superfluo, effimero, volgare, banale e privo di significato. Ora il
paradigma dell‟educazione e dell‟istruzione per tutto il corso della vita è diventato centrale, ma ancora incerta e confusa è la strategia per
realizzarlo. Se la scuola non saprà impegnarsi per fornire gli strumenti per pensare criticamente, avrà fallito il suo compito, perché essa non
è chiamata a erogare solo quelle abilità e conoscenze che servono a far crescere il sistema economico, incrementandone il PIL, ma anche
quelle competenze che, in quanto frutto di un sapere umanistico, forniscano strumenti critici ed etici per orientare e dirigere la società degli
uomini, la scienza e le sue scelte. Ma qui si sta aprendo il discorso ad un‟aria pedagogica nuova e stiamo parlando di un nuovo umanesimo
a cui approdare, così come tratteggiato da autorevoli esperti quali Paulo Freire, Ettore Gelpi, Erich Fromm ed altri ancora.
11
Cf. Jedlowski P., Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1994.
Cf. Gardner H., Five minds for the future, Harvard Business School Press, Boston 2006.
13
Cf. Morin E., La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, RaffaelloCortina, Milano 2000. Ma si veda anche il volumetto a cura
di Francesco Morace: Edgar Morin, Dialogo: l’identità umana e la sfida della convivenza, Libri Scheiwiller, Milano 2003.
10
12
Alfabetizzare per coscientizzare: la lezione di Paulo Freire14
Una lezione sempre attuale
A dieci anni dalla sua morte, occuparsi di alfabetizzazione significa anche tornare con la mente ad un pedagogista ed educatore Paulo Reglus Neves Freire15- che fece della sua vita un impegno costante per la lotta contro l‟analfabetismo, quale strategia per
l‟umanizzazione delle condizioni di vita non solo dei diseredati e svantaggiati delle favelas ma anche di molti altri Paesi del mondo intero.
Di fatto, l‟alfabetizzazione degli adulti fu un preciso campo di riflessione e di intervento privilegiato, maturato all‟interno di una
vita travagliata sin dall‟infanzia e della quale egli stesso ricorda:“Bambino ancora, mi sono trasformato in un uomo grazie al dolore e alla
sofferenza, che tuttavia non mi hanno sommerso nelle ombre della disperazione”.
D‟altra parte, il Nord Est del Brasile presentava una quantità così innumerevole di analfabeti e una condizione di vita talmente
degradata che era impossibile, per un educatore come lui, ignorare questa dura realtà e contemporaneamente non lasciarsi prendere da essa,
per un‟avventura pedagogica la cui scommessa fosse la coscientizzazione degli adulti. Finalità a lui cara che sicuramente vide come culla
del suo pensiero le qualità intellettuali, etiche ed educative del padre, Joaquin, che, costretto da un incidente a non lavorare, si dedicò ai
figli intensamente, tanto che lo stesso Freire scrisse: “alcune cose che propongo come teoria pedagogica, democratica, in fondo le ho
sperimentate assieme a lui”.
Anche prescindendo dal contesto politico e storico in cui Freire operò, la sua lezione torna ancora di estrema attualità se si considera
che essa parte dall‟assunto che la reiterazione di una concezione non-strutturale dell‟analfabetismo ha messo in luce una visione sbagliata
degli analfabeti, come fasce di persone definibili a-storicamente come soggetti emarginati, per i quali la stessa offerta educativa diventa un
ammortizzatore sociale.
In realtà, proprio questa concezione costringe coloro che li considerano tali - sostiene Freire - a dover riconoscere l‟esistenza di una
realtà in rapporto alla quale gli analfabeti sono emarginati, non solamente all‟interno di uno spazio fisico, ma nella realtà storica, sociale,
culturale ed economica, vale a dire in una dimensione strutturale della realtà.
Se, quindi, l‟analfabetismo è la risultante di scelte politiche ed economiche che conducono ai margini dell‟esistenza fasce
considerevoli di popolazione, bisogna allora riconsiderare tutto ciò che implica una posizione del genere: non solo povertà in relazione alle
14
B. Schettini, Alfabetizzare per coscientizzare: la lezione di Paulo Freire, in La Rivista LLL (Lifelong Lifewide Learning) promossa da EdaForum Forum Permanente per l'Educazione degli Adulti - (vedi sito:http://rivista.edaforum.it/numero7/monografico_schettini.html)
15
Paulo R. N. Freire nacque a Recife, Rua do Encarnament, quartiere della Casa Amarela, nello Stato del Pernambuco, nel NE del Brasile, il 19
settembre 1921 e morì il 2 maggio 1997 nell’ospedale di San Paolo del Brasile. Fra l’altro, nel 1989 gli fu conferita la Laurea “honoris causa” in
Pedagogia presso l’Università di Bologna, ma ricevé lo stesso conferimento anche dalla Open University di Londra, dall’Università di Lovanio, e
dalle Università del Michigan e di Ginevra.
11
più elementari necessità per la conduzione di una vita almeno dignitosa, ma anche, e soprattutto, una costrizione a disperare, a non poter
nutrire cioè la speranza per un futuro che possa essere rappresentato con scenari ipoteticamente diversi a motivo di un contesto che
strutturalmente li nega, per poter continuare ad alimentare la parte “graziosa” della società. Ai giorni nostri, la forbice della
globalizzazione, nell‟ampliare secondo una progressione matematica il numero - comunque fortemente contenuto - dei ricchi, amplia a
dismisura, secondo una progressione esponenziale, quello dei poveri. E questa è una condizione che Freire definirebbe strutturale.
Nell‟analisi di Freire appare chiaro ed evidente che nessun uomo opterebbe per una esistenza del genere; essa può continuare ad
esistere solo lì dove ci sia qualcuno ad imporla, anche se non necessariamente con la forza brutale di una dittatura cruenta: l‟analfabetismo
non è, quindi, una forma di ineluttabile emarginazione scaturente da condizioni fatalisticamente intrinseche, perché esse si vengono a
creare in una situazione di scelte, operate in ristretti luoghi decisionali, alle quali resistere sarebbe d‟obbligo se il riscatto non fosse
impedito da condizioni strutturali espresse attraverso l‟esercizio di un potere comunicativo abilmente persuasivo o mediante il ricorso, ad
hoc, ad una legge di natura che riporta l‟uomo a quella società istintiva dalla quale si era sottratto attraverso l‟incessante e defatigante
lavoro generazionale.
Da questo punto di vista, l‟analfabeta non è solo colui che non sa dire la parola, ma è, soprattutto, l‟oppresso cui viene negato il
diritto ad esprimere la parola e, quindi, l‟analfabetismo è una condizione mentale che trascende anche dalle più o meno possedute capacità
alfabetiche e numerarie. Lo stesso Freire critica gli sforzi di tutti quegli alfabetizzatori che, considerando quale ultimo scopo
dell‟educazione il possesso della parola - oggi potremmo dire delle competenze per l‟occupabilità - si sono dati l‟illusoria certezza di stare
operando per il riscatto di un‟umanità sofferente.
In realtà, l‟alfabetizzazione è qualcosa di più del semplice dominio meccanico di tecniche per scrivere e leggere. Essa è il dominio
di queste tecniche in termini coscienti e, dunque, porta con sé un atteggiamento di creazione e ricreazione . Implica un‟auto-formazione che
porta a un atteggiamento attivante dell‟uomo su se stesso, sul suo contesto per una sorta di cura di sé in uno con quella degli altri. Nella
prospettiva educativa freieriana occorre fornire all‟analfabeta la capacità di utilizzare la parola in maniera personale, autonoma e il metodo
proposto è quello della scoperta della parola stessa dall‟interno del contesto a cui l‟alfabetizzando appartiene e a cui riferirsi per poterla
riconoscere come propria.
L‟alfabetizzazione è, quindi, concepita da Paulo Freire come processo di ricerca non come “deposito”, di creazione non come
trasmissione, di recupero da parte dell‟adulto della sua possibilità di semiticamente “nominare” e, quindi, di esprimere la soggettività
rispetto all‟oggetto, affrancandosi in tal modo da quelle forze rappresentate come ineluttabili delle quali si servono gli oppressori per
conservare lo status quo ovvero la propria egemonia. Di qui la necessità, in Freire, di educare anche gli oppressori per liberarli dalla
condizione di oppressori che li tiene nel costante allertamento per difendersi dagli oppressi che temono, ovunque essi siano. In ciò, se è
senz‟altro ravvisabile la visione antropologica cristiana del pedagogista-educatore Paulo Freire, non è possibile non scorgere anche la
visione Gelpiana di aspra critica rivolta agli intellettuali, agli insegnanti, ai pedagogisti, agli educatori, agli operatori culturali nel severo
12
richiamo alle loro responsabilità storiche e di funzione sociale ormai inespressa o quanto meno accomodante se non funzionale al principe
di turno. Alfabetizzare, dunque, secondo Freire, non vuol dire solo “insegnare a leggere, scrivere e fare di conto ma anche insegnare ad
ascoltare, parlare e gridare. (…) L‟essere umano, prima di parlare, grida; infatti, noi nasciamo gridando. Se al popolo… è stato proibito di
parlare… è necessario imparare a gridare con il popolo”. L‟uomo apprende la necessità di scrivere la sua vita, di approfondire la sua
vocazione ontologica e storica, di umanizzarsi e di inserirsi criticamente nella propria realtà per cercare, come soggetto tra altri soggetti, la
propria trasformazione. In questa prospettiva si comprende come alfabetizzare significa dare, o meglio restituire, alla gente comune ciò di
cui è stata defraudata, perché possa percepirsi come soggetto con una propria dignità, in grado di prendere le proprie decisioni in maniera
libera e autonoma, almeno per quel tanto o quel poco che consente la condizione umana di ciascuno. Non a caso l‟obiettivo principale
dell‟alfabetizzazione, secondo il pensiero di Freire, consiste nella coscientizzazione, cioè nella presa di coscienza attiva e consapevole delle
proprie condizioni nel contesto lavorativo e sociale in cui ciascuno si trova a vivere e a lavorare. Ciò perché, attraverso un‟alfabetizzazione
che non si limiti all‟acquisizione di tecniche funzionali, è possibile aiutare e sostenere una percezione politica della realtà vissuta e
rappresentata, abilitare e mettere gli oppressi, cioè i nuovi analfabeti di base e/o di ritorno, nelle condizioni di acquisire conoscenza e
condizionare l‟esercizio di un potere che stenta sempre di più a chiudere il cerchio virtuoso della democrazia partecipante.
Coscientizaçao
La parola portoghese “coscientizaçao” è utilizzata da Freire per indicare il processo con il quale gli uomini si preparano ad inserirsi
criticamente nell‟azione di trasformazione, avendo così l‟opportunità di riscoprire se stessi attraverso la riflessione sul processo stesso della
propria esistenza. “Coscientizaao”. Molti credono che questa parola, diffusa in Europa e negli Stati Uniti dal vescovo brasiliano Helder
Camara, sia stata coniata dallo stesso Freire. Il pedagogista ne ha sempre rifiutato la paternità, attribuendone la creazione ad uno dei
professori dell‟èquipe dell‟Istituto Superiore degli Studi Brasiliani, disciolto dal regime militare del „64. Così egli scrive: “ho partecipato
molto alle loro ricerche ed è stato precisamente lì che ho udito per la prima volta la parola coscientizzazione e mi sono accorto
immediatamente della profondità del suo significato, perché ero assolutamente convinto che l‟educazione, come pratica della libertà, è un
atto di conoscenza, un avvicinarsi criticamente alla realtà”. Ciò che si cerca di fare nel processo di coscientizzazione non è attribuire alla
coscienza un ruolo di creazione, ma al contrario nel riconoscere il mondo statico “dato” come un mondo dinamico “che dà”. È la capacità
di elaborare la realtà esterna e darle un nome con l‟aiuto dell‟educatore, che favorisce questo processo.
L‟ alfabetizzazione e la coscientizzazione sono, dunque, per Freire, inscindibili – forse sovrapponibili -, così come qualsiasi
apprendimento deve essere legato alla presa di coscienza della situazione reale dell‟educando; riflessione e azione sono, quindi,
indissociabili perché l‟azione è prassi solo se il sapere che l‟accompagna si fa esso stesso oggetto di riflessione critica per la trasformazione
di una realtà troppo spesso data come fissa perché abilmente invocata come appartenente ad un ordine immutabile.
La coscientizzazione ha come punto di partenza proprio l‟uomo illitterato o semi-illitterato, con la sua maniera propria di percepire
e comprendere la realtà ed è per questo che l‟azione educativa di Freire e la sua riflessione trovano fondamento nella vita quotidiana della
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gente comune e nei luoghi da essa abitati: il lavoro, la famiglia, la vita nelle periferie degradate o abbandonate, nelle città tumultuose e
alienanti.
L‟alfabetizzazione, per Freire, deve rimandare al contesto in cui vivono gli alfabetizzandi: ai suoi allievi brasiliani non insegnava
“F” di farfalla ma, piuttosto, “F” di favela, non le parole decise dall‟accademia, ma quelle nate dall‟esperienza quotidiana. Radicando i
processi di alfabetizzazione nelle esperienze e conoscenze della gente a cui si rivolgeva, Freire riusciva a cogliere la dimensione
motivazionale dell‟apprendimento innescando, così, il meccanismo virtuoso della rapidità dell‟apprendimento stesso. In tal modo risulta
evidente che l‟alfabetizzazione era da intendersi, anche e soprattutto, come un processo socio-cognitivo di emancipazione e al tempo stesso
di crescita politica, come una risorsa a cui attingere per una più ricca ed equilibrata crescita individuale e di comunità, in ciò offrendo un
contesto di lettura fortemente politico per ogni forma di conoscenza diffusa quale opportunità per la cittadinanza e la vita democratica.
Conoscenza, dunque, per la cittadinanza e la vita democratica, non per l‟asservimento a nuove forme di schiavitù più sofisticate e, dunque,
più subdole.
Da questo punto di vista, occorrerebbe insegnare a leggere la “T” come totalitarismi - vecchi o nuovi che siano - e non solo come
“T” di tecnologie che, ove rappresentate come l‟unico panorama possibile di alfabetizzazione, si palesano come un richiamo seduttivo e
una nuova forma di totalitarismo di tipo tecnocratico; e così pure occorrerebbe imparare a leggere la “I” come intelligenza e idiograficità e
non solo come internet e inglese, laddove lo stesso studente, protagonista de‟ “L‟auberge espagnole” , dopo tanto “navigare” e
“meticciarsi”, ogni volta che dismetteva i panni del giovane funzionario europeo correva a ripercorrere i luoghi dove, talora
spensieratamente, talaltra con non poca vicissitudine, aveva appreso a crescere, ad essere se stesso, a tessere la sua personale storia di vita.
Il pensiero di Freire, pur raccogliendo valutazioni spesso positive, non è stato esente da critiche, e tra le più diffuse si ricordano
quelle di E.W. Vasiloff e C. Scurati, le quali, pur essendo ormai datate, hanno contribuito non poco al permanere, in Italia, di un
atteggiamento ostile o di dimenticanza nei confronti di un pedagogista che, invece, torna oggi di estrema attualità, mentre non poche
esperienze contemporanee, europee e del bacino del Mediterraneo, fanno riferimento ai suoi scritti e alle sue rivisitate pratiche. Se, per il
primo, Freire sembrerebbe tralasciare altre questioni pedagogiche molto differenti da quella da lui esaminata in favore della sola
alfabetizzazione, per il secondo il pedagogista brasiliano appare quasi banale nelle sue critiche rivolte alla scuola e ai metodi didattici.
In realtà, è proprio il suo ultimo libro, recentemente rieditato, Pedagogia dell‟autonomia: saperi necessari per la pratica educativa
che pone Freire nuovamente all‟attenzione di pedagogisti, educatori, insegnanti, politologi e decisori pubblici, per il suo interesse verso i
temi della professionalizzazione degli insegnanti, dell‟autonomia gestionale, didattica e pedagogica della scuola, dell‟interdisciplina,
avendo sullo sfondo, da un lato, i temi forti della globalizzazione economica, dello sfruttamento della Terra, della mercantilizzazione delle
risorse e della mercificazione della vita e, dall‟altro, la necessità di educare verso una comune cittadinanza terrestre, nella consapevolezza
del debito contratto da ciascuna generazione nei confronti di quelle precedenti e più ancora verso le successive, della convivenza
democratica e accogliente, di una conoscenza diffusa ma che, nella sua ridondanza disorientante, si mostra sempre più oligocratica.
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Di fatto, una delle conseguenze più rilevanti della globalizzazione, come della rivoluzione tecnologica che l‟accompagna, è la
trasformazione della natura stessa del lavoro. Lo sviluppo tecnico ha reso possibile un‟incorporazione nelle macchine di molte funzioni
cognitive e un cambiamento strutturale del processo di produzione. L‟alienazione non solo non è scomparsa, ma tende ad assumere forme
storiche diverse rispetto al passato, forme che sfuggono alla criticità, al controllo e alla possibilità della lotta per la costante saturazione
delle menti da parte di un‟assordante vocìo volutamente privo di senso e di significato.
Tutti questi cambiamenti hanno avuto un impatto fortissimo anche sui sistemi educativi che risultano indeboliti sia nella loro
capacità di formare individui autonomi e consapevoli di se stessi e del mondo, sia nel loro ruolo di sostegno alla produttività del sistema.
Quest‟ultimo aspetto è particolarmente importante perché costituisce una novità nella storia dei sistemi educativi, dal momento che appare
in controtendenza rispetto alla tesi, mai dimostrata come veritiera, delle virtù della società globale e della conoscenza a valorizzare, per
intrinseca capacità, il cosiddetto “capitale umano”. Un‟analisi non viziata dall‟ottimismo positivista si soffermerebbe un po‟ più
attentamente sul fenomeno della sovraqualificazione apparso negli ultimi dieci anni nelle società industrializzate e sul mito del self-mademan che fa transitare dalla soggettività centrata sulla coscientizzazione e sull‟autonomia critica del soggetto al più pericoloso soggettivismo
fagocitante e autoritario.
Nonostante l‟aggressività del neo-liberismo, che cerca di piegare l‟uomo e la scuola alle richieste di mercato senza regole, gli
individui esprimono un inconsapevole e represso bisogno di una educazione umanizzatrice. Occorrerà, allora, declinare la pedagogia di
Freire, tentare di contestualizzarne il pensiero ed il metodo valorizzando soprattutto la tesi che non è possibile per gli educatori, per gli
insegnanti, per i ricercatori essere neutrali dinanzi a ciò che accade nel mondo e che non vi può essere scissione fra educazione e politica ,
pena per taluni d‟essere cattivi maestri e per altri dei don Chisciotte.
La pedagogia di Freire, nonostante i suoi molteplici detrattori, con la sua visione fenomenologico-esistenziale della coscienza, getta
le basi per una filosofia dell‟educazione centrata sul soggetto e sulla sua libertà all‟interno di una nuova narrazione, intersoggettiva ed
eticamente fondata, del mondo, perché le parole non veicolano soltanto significanti, ormai pietrificati, ma evocano storie individuali e
collettive, emozioni ed esperienze vissute che riempieno quelli di nuovi significati accomunanti in una rinnovata comprensione della realtà
per la sua trasformazione dall‟interno stesso delle comunità di appartenenza, come sosteneva Raffaele Laporta.
In questo orizzonte, la pedagogia di Paulo Freire diventa uno straordinario supporto per una rinnovata riflessione sui temi propri
dell‟educazione oltre che dell‟alfabetizzazione degli adulti, al fine della costruzione di un neoumanesimo del quale si avverte sempre di più
la necessità, collocandolo così accanto a pensatori contemporanei di pari sintonìa quali Erich Fromm, Carl Rogers, Victor E. Frankl, Ettore
Gelpi, Edgar Morin, per citarne solo alcuni.
Non a caso, in fondo, ad un giornalista israeliano che gli chiedeva in un‟intervista, pochi giorni prima di morire, come volesse
essere ricordato, egli rispondeva:“come una persona che ama la vita, che ama uomini, donne, il mondo, le montagne, l‟acqua, la terra”;
questa, d‟altra parte è una filosofia della vita per la quale l‟importante è l‟avere pienamente vissuto negli affetti autentici - e non di
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circostanza - delle persone e secondo la quale alle prove della vita occorre rispondere all‟appello con tutta la propria lacerata Umanità bandiera onorevole del combattente - e non con il suono monocorde e monotono di un meccanismo servente. Tuttavia, alla luce
dell‟insegnamento di Freire, anche i meccanismi serventi e gli oppressori devono essere alfabetizzati perché abbiano coscienza di ciò che
sono e rappresentano per i pochi o i molti che opprimono.
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Leggere le parole per leggere il mondo16
Nel dibattito pedagogico degli ultimi venti anni, a livello internazionale ed europeo, la prospettiva del life long learning - all‟interno
della quale si inscrive l‟educazione degli adulti come prassi e come disciplina - ha assunto una funzione fondamentale di ripensamento
pedagogico più generale sull‟educazione. Lo stesso concetto di educazione permanente, in effetti, spinge a riflettere contemporaneamente
tanto su di un apprendimento di tipo idiografico che ne connota la permanenza quanto sulla capacità delle istituzioni educative, o più
ampiamente formative, di considerare l‟educazione come un processo che dura per tutto il corso della vita (life wide learning) e, quindi, di
sapervi corrispondere adeguatamente.
Tuttavia, una volta accantonato il puerocentrismo pedagogico, una riflessione più spinta e generale sull‟educazione ha di mira
l‟ineludibile domanda di umanizzazione che proviene, troppo spesso inconsapevolmente, proprio dal mondo degli adulti - soprattutto
quello a vario titolo sofferente, che è poi la maggioranza - al quale è possibile dare una concreta risposta solo se ci si accosta ad esso
rispettando la dignità delle tante storie personali e collettive e si intende acconsentire ad un‟autorealizzazione che necessita di opportunità
in grado di offrire, strutturalmente e non come ammortizzatori sociali, momenti ed occasioni di crescita individuale e sociale lungo tutto il
corso della vita. In questa seconda prospettiva la riflessione sull‟educazione - degli adulti, in particolare - tende a farsi più complessa e di
natura politica, perché il presupposto di tutto ciò è la modificazione permanente della realtà da parte dell‟uomo ogni volta che essa tende per precisi e ben definiti interessi di gruppi di potere - a cristallizzarsi nelle forme corrotte di una democrazia tanto “liquida” da lasciare
scorrere ogni nefandezza e crimine e non concedere il tempo di porre un argine a tutto ciò, con l‟esito - intenzionalmente atteso - di una
qualunquistica assuefazione.
Da questo punto di vista, se il fine di ogni educazione autentica è la libertà non solo come aspetto paradossale e metaforico, ma
soprattutto come condizione storica sempre perfettibile, allora, come sostiene Paulo Freire , “l‟idea di libertà acquista il suo pieno
significato solo quando si identifica con la lotta concreta degli uomini per la loro liberazione” . Ma, la modificazione permanente della
realtà destabilizzerebbe sinanche la fluidità di una società globale già fin troppo orientata da una “conoscenza diffusa” e protesa verso un
mercato planetario senza regole, dunque sprezzante tanto della dignità dell‟uomo quanto delle forme storiche della sua autorealizzazione.
Ciò egli lo aveva ben compreso quando scriveva: “la realtà può essere modificata soltanto quando l‟uomo scopre che è modificabile e che
egli è in grado di farlo.
E‟ necessario, pertanto, fare di questa presa di coscienza il primo obiettivo di qualsiasi educazione” suscitando, anzitutto, un
atteggiamento critico di riflessione in grado di impegnare nell‟azione per la trasformazione e non quale mero esercizio mentale. La strategia
16
B. Schettini, Leggere le parole per leggere il mondo” ovvero l’alfabetizzazione dalla prospettiva di Paulo Freire, in NEWSLETTER AISLo febbraio 2007,
www.aislo.it
17
per realizzare ciò fu l‟alfabetizzazione il cui assunto di base è nelle stesse parole di Freire: “Gli uomini sono gli unici esseri, tra quelli
inconclusi, capaci di avere come oggetti della propria coscienza non solo la propria attività, ma anche se stessi, e ciò li distingue dagli
animali, incapaci di separarsi dalla loro attività. L‟animale, non potendo separarsi dalla propria attività, sulla quale non può esercitare un
atto riflessivo, non riesce ad impregnare di significato (che va oltre lui stesso) la trasformazione che realizza del mondo. L‟animale, per il
fatto che si identifica con la sua attività, senza potersene separare, si struttura fondamentalmente come un essere chiuso in sé. L‟animale è
astorico. Il mondo umano, che è storico, diventa per l‟essere chiuso in sé semplice supporto. L‟animale per ciò stesso non può impegnarsi.
La sua condizione astorica non gli permette di assumere la vita, e dal momento che non l‟assume, non la può costruire”.
Così, per prima cosa, egli invitava gli individui ad interrogare il loro ambiente sociale, politico, economico e culturale alfine di
coglierne il senso e riuscire ad attribuire un significato alla propria vita. Insegnava, cioè a “leggere le parole per leggere il mondo”, come
amava ripetere, ben sapendo che in ciò non pochi scorgevano il pericolo di un‟utopia pienamente aperta a forme di una sua realizzazione
storica. Di fatto, “nella maggior parte degli interrogatori ai quali fui sottoposto, quello che si voleva provare, oltre alla mia ignoranza (come
se ci fossero un‟ignoranza assoluta o una sapienza assoluta: quest‟ultima esiste solo in Dio), quello che si voleva provare, ripeto, era il
pericolo che io rappresentavo” . Non a caso, l‟obiettivo principale dell‟alfabetizzazione, nella teoria e nell‟azione freieriana, consisteva
nella coscientizzazione, cioè in una pratica educativa il cui esito corrisponde alla presa attiva e consapevole delle proprie condizioni nel
contesto lavorativo e sociale in cui ciascuno si trova a vivere e a lavorare o a non lavorare. Un‟alfabetizzazione che non si limita
all‟apprendimento della tecnica di saper decodificare segni, confinandola in un mero funzionalismo, ma si associa ad una percezione
politica della realtà rappresentata, mentre abilita ad acquisire conoscenza per la trasformazione della realtà e, dunque, all‟esercizio
autenticamente democratico del potere.
In Freire alfabetizzazione e coscientizzazione sono inscindibili, perché il suo scopo era quello di aiutare gli individui a uscire da una
forma puramente sensibile di esistenza, mostrando loro che il mondo non è dato, ma si dà alla curiosità di chi lo interroga. Se nella selve e
nelle favelas brasiliane, l‟alfabetizzazione coincideva con l‟insegnare a leggere e scrivere e a discutere i problemi della quotidianità, nelle
società attuali del Nord e del Sud del mondo essa molto probabilmente coincide con il rendere pienamente coscienti del mondo in cui le
generazioni attuali e future sono chiamate a vivere. Questa “alfabetizzazione”, nella prospettiva freieriana, correttamente ecosistemica,
riguarda tanto gli oppressi che gli oppressori, perché la realtà non può cambiare se gli uni e gli altri non partecipano del processo di
coscientizzazione, anche se a partire da posizioni diverse e confligenti.
18
Educarsi attraverso la fiaba17
Un tempo - quando il tempo aveva un suo spazio interiore ed esteriore significativo nella vita di relazione delle persone che
curavano questo tempo - genitori, nonni ed altre figure più o meno parentali raccontavano fiabe per educare, poi, quando si accorgevano
che il raccontare produceva estraniazione, ascolto passivo, allora invitavano i figli, i nipoti, gli educandi a costruirle insieme; in tal modo il
tempo all‟interno del quale si dispiegava la narrazione diventava il tempo della costruzione della fiaba, della socialità, dell‟impegno
cooperativo, della ricerca ed espressione della soggettività, dell‟identità che si svela attraverso la relazione identificante e poi attraverso
l‟elaborazione della separazione. Il passaggio dalla fiaba raccontata alla fiaba costruita non è indolore soprattutto perché la fiaba, dal punto
di vista della pedagogia attiva, respinge la favola, il cui fine è quello di svolgere una funzione di carattere moralistico e precettistico.
La fiaba, invece, chiede ulteriore tempo che è il tempo della cura di sé da parte dell‟adulto che, nell‟avere cura dell‟altro, cioè del
bambino, insegna anche a quest‟ultimo ad avere cura di sé, a non affannarsi dietro la paura delle punizioni, ma ad apprezzare invece il
coraggio e l‟audacia, la divergenza e la creatività, l‟autodeterminazione, l‟autostima positiva di sé all‟interno di contesti, immaginati,
fiabeschi, per l‟appunto, che mettono alla prova l‟affermazione individuale e dove il momento sociale è dato proprio dal costruire insiemecon-altri e non da soli la fiaba: primato della soggettività non del soggettivismo.
In questo senso la favola è prondamente diversa dalla fiaba, la prima utilizza il protagonista e le vicende di cui esso è interprete per
illustrare le punizioni in cui incappa colui che trasgredisce alle regole sociali, morali, religiose di cui il racconto si fa portatore. I
protagonisti della favola, a differenza della fiaba, sono scelti per costituire convenzionali tipizzazioni di difetti e di virtù umane in funzione
di ammonizione e di esempio morale; la seconda, invece, vede sempre il trionfo dell‟individuo-protagonista, al quale, spesso perché
trasgressore o comunque individualmente coraggioso e audace, la fiaba accorda sostegni magici e soprannaturali.
“E‟ quindi evidente che la favola viene privilegiata, come strumento didattico, da quei regimi educativi che privilegiano il momento
collettivo su quello individuale, e ritengono essere valori fondamentali l‟obbedienza - e come si dice - la normalizzazione. La fiaba invece
viene oggi promossa ed enfatizzata da coloro che privilegiano l‟affermazione individuale, la divergenza, il diritto
all‟autodeterminazione”.18 Si potrebbe giungere ad una prima evidente conclusione e cioè che l‟impiego del genere letterario favolistico o
fiabesco all‟interno dei processi educativi rivela il paradigma educativo di riferimento dell‟adulto genitore, educatore o insegnante. Una
seconda riflessione potrà tornare utile al lettore genitore, docente, educatore. La fiaba raffigura con un linguaggio simbolico, ma impastato
di immagini corpose e affidate in molta parte al dialogo, lo sviluppo dell‟individuo e della stessa cultura come un processo storico e
dinamico, riproponendone con tenace iteratività le fasi di lotta e di maggiore tensione. Essa è perciò stesso un racconto “reale”, giacché
17
18
B. Schettini, in Centro per le Famiglie, II Report d’Attività 2002-2007 a cura di Gabriella Ferrari Bravo (resp. Progetto). Napoli 2008, pp.164-168.
Cf. voce “Favola” in Bertolini P., Dizionario di Pedagogia e Scienze dell’educazione, Zanichelli, Bologna 1996.
19
della realtà umana, contraddittoria ed ambigua, difficile e pur meravigliosa, ci offre icasticamente gli aspetti più pregnanti con un
linguaggio e con una movenza narrativa che piacciono al bambino. Questi, infatti, mostra di gustare espressioni, ritmi e formule magiche,
divertendosi a dar corpo a personaggi paurosi e benigni che esorcizza o rivive attraverso una ripetuta imitazione drammatica il cui modello
è emotivamente costruito sull‟intonazione con cui per la prima volta ha udito raccontare la fiaba. Il racconto fiabesco, benché sorto non per
essere proposto ai bambini, possiede molti requisiti grazie ai quali può essere utilizzato con i bambini nel processo educativo sia come
espressione delle più profonde ed inalienabili esigenze di essi, sia in virtù di quella forza fantastica che essa può alimentare per operare
sulle cose con una visione pedagogicamente progettuale.
In questo senso la tecnica della fiabazione impegna certamente il bambino nel mondo della fantasia, ma lo chiama anche a dare
forma di progetto alle soluzioni a cui intende pervenire nella costruzione della fiaba, abilitandolo a dare senso al tempo e simboli allo
spazio, a costruire e a dotare di significato gli eventi che desidera fortemente che accadano, a vincere la frustrazione del tempo differito
quello cioè che trascorre prima che l‟evento auspicato si realizzi, ma anche a modificare gli obiettivi in funzione dello svolgimento degli
avvenimenti e dei contesti. Da questo punto di vista, la fiabazione si inserisce a pieno titolo all‟interno del costruzionismo sociale e
dell‟approccio sistemico perché consente, e nello stesso tempo costringe, a chi si impegna nella fiabazione, a fare i conti con le molteplici
retroazioni circolari dei microsistemi e con l‟unità/molteplicitià del contesto.
La fiaba, inoltre, ha l‟indubbio vantaggio, rispetto ad altri generi letterari, della indiscutibile centralità e primarietà del linguaggio
nei confronti dei contenuti. Il linguaggio, cioè, usato dalla fiaba consente di instaurare agganci con la psiche del bambino e, laddove questi
agganci corrono il rischio di vanificarsi per la presenza di contenuti (azioni) ansiogeni e violenti, è sempre possibile operare, tramite un
“dosaggio” del linguaggio, un ridimensionamento degli stessi contenuti, senza peraltro snaturare la fiaba, giacché non ne vengono alterate
le funzioni narrative. L‟importante è però non lasciare i bambini in balìa della fiaba come lettura isolata, dato che proprio questo aspetto
richiede la presenza attiva di una guida che, ponendosi come compagno di viaggio, impedisca alla fantasia di degenerare in una vera e
propria evasione solipsistica da una realtà che il soggetto non riesce ad accettare, “dal momento che la capacità di inventare e presentare
immagini difformi da quanto sia reperibile nella realtà è una dimensione che, perlomeno a livello di predisposizione, può essere considerata
come strutturale della mente umana”.19
Dal punto di vista dinamico, infine, leggendo o costruendo una fiaba, è possibile dare volto e voce a quei processi interiori profondi
che nella vita di tutti i giorni restano nascosti alla nostra coscienza e che, tuttavia, una parte di noi sa che vive dentro di sé. In fondo, la
simbiosi tra noi e la fiaba esprime la nostra storia o la parte più vulnerabile di essa rappresentata sotto forma di metafora. La tecnica della
fiabazione, tuttavia, non utilizza la fiaba come strumento per pervenire ad una diagnosi nella sua accezione clinico-nosografica o di
19
Cf. Voce “Fantasia” in Genovesi G., Le parole dell’educazione. Guida lessicale al discorso educativo, Corso Editore,
Ferrara 1998.
20
refertazione in ambito psicopatologico, bensì come strumento di narrazione congruo all‟età dei narratori che, impegnati nel rappresentarsi
simbolicamente, possono avvicinarsi ai loro processi più profondi in corso e portarli alla coscienza con effetto terapeutico20 o autonoetico,
impegnandosi a ricercare, attraverso la fiaba, le modalità di gestione delle difficoltà esperite e immagazzinate. Nello stesso tempo, la
tecnica della fiabazione con le sue regole narratologiche, attraverso il momento immaginativo positivamente diretto, consente a genitori,
insegnanti, educatori, senza farsi interpreti dei racconti per esprimere giudizi, ed essere intrusivi ed ansiogeni, di utilizzare la fiaba come
strumento di conoscenza dei propri figli e di essi anche come allievi.21 Le fiabe, costruite secondo la tecnica della fiabazione, non
propongono soluzioni magiche ai problemi e dunque inapplicabili alla realtà della vita quotidiana, ma al contrario accostano gli individui
alla realtà talora problematica, favorendo un vero e proprio processo di empowerment, dal momento che certi sentimenti ed emozioni non
attendono che dall‟esterno giunga il “principe/demiurgo” risolutore del problema, ma necessitano senz‟altro che vengano attivate forze e
capacità sul piano intrapsichico che sono rappresentate attraverso un linguaggio tipicamente simbolico e mediante personaggi e passaggi
della fiaba che non hanno il significato di rappresentanti di situazioni reali, bensì di attivatori delle nostre personali forze interiori per
superare le difficoltà e raggiungere equilibri più armoniosi. D‟altra parte, i problemi che una fiaba fronteggia sono tutte quelle condizioni
fisiche, relazionali, ma anche lavorative, in cui si presenta una nuova esigenza posta sotto forma di domanda e a cui non c‟è ancora risposta
o non si sa come rispondervi22 e, soprattutto, significa aprire una finestra sugli orizzonti del possibile, liberandosi dai vincoli della logica e
creare un contesto all‟interno del quale si può provare a risolvere un problema rischiando con la fantasia, prima di cimentarsi sul piano
della realtà e vedere il mondo con occhi nuovi o quanto meno da una nuova prospettiva in precedenza ignorata o trascurata, questo perché
“ogni fiaba (olistico tassello nell‟infinito quadro d‟uno sconosciuto Sé) e l‟atto di fiabare (l‟action fabuleaux) prevedono, rivelano,
consentono la scoperta, l‟indagine, l‟approfondimento e, spesso, la soluzione di ogni particolare e peculiare situazione che il soggetto, di
volta in volta, di fiaba in fiaba, intende affrontare nel (col) proprio inconscio che è tassello dell‟inconscio collettivo (se uno di noi si taglia,
sanguiniamo tutti”).23
Dal punto di vista pedagogico, la fiaba e la tecnica della fiabazione contrastano con una visione performativa dell‟educazione in
quanto processo totalizzante, rinvenibile in espressioni quali: travasamento, riepimento del vaso vuoto o della cera da plasmare a
20
Cf. Santagostino P., Guarire con una fiaba, Feltrinelli, Milano 2006.
Il Centro per le famiglie del Comune di Napoli e del Dipartimento Socio Sanitario dell’Asl Na1 ha condotto un’esperienza significativa nel
biennio scolastico 2004-2006 in alcune scuole napoletane utilizzando il metodo della fiabazione. Il progetto denominato “Matrioska”, condotto in
collaborazione con la II Cattedra di pedagogia della Facoltà di Psicologia della S.U.N., è stato al centro di un intervento con genitori, insegnanti e
alunni. Le riflessioni contenute nel presente lavoro costituiscono un primo contributo di elaborazione teorica dal punto di vista pedagogico e
didattico e offrono spunti per la ricomprensione complessiva dell’esperienza nella prospettiva della prosecuzione del progetto.
22
6 Ibidem.
23
Cf: Parsi M.R., in “Riza Scienze”, n.38 (1990).
21
21
piacimento secondo il progetto dell‟educatore. “L‟attenzione per la memoria, l‟esperienza, i vissuti con i quali ciascuno entra in un contesto
didattico risponde invece a quanto appartiene ad una tradizione, quella dell‟attivismo, che non considera mai l‟individuo una tabula rasa
sulla quale incidere i saperi. Certo l‟educazione è anche trasmissione di norme, istruzioni, modi di essere e fare, purtuttavia non è riducibile
solo a questo, poiché ciascuno di noi viene da una storia, da un intrico di storie che lo hanno preceduto e di queste occorre tener conto
affinché educazione significhi sviluppo delle potenzialità naturali, incoraggiamento, orientamento verso la scoperta delle proprie risorse”.24
Il discorso sembra allora farsi ancora più interessante perché l‟evoluzione del progetto educativo implicherebbe il passaggio, senza
soluzione di continuità, dalla fase di lavoro attraverso la tecnologia della fiabazione alla fase della narrazione autobiografica perché
consentirebbe al discente ormai svezzato dal linguaggio della fiaba di accostarsi al linguaggio corrente, utilizzando la molteplicità dei
generi letterari, ma impegnandosi anche a costruire una storia di sé con i frammenti della sua stessa storia. Le storie ci dicono sempre chi
siamo e chi siamo stati e, soprattutto, senza l‟ascolto delle storie degli altri non possiamo conoscerci e conoscere l‟altro. Ora, di fronte alla
crisi della narrazione e della ricerca del sé poste in essere dalla condizione postmoderna, l‟autobiografia si configura come decifrazione
dell‟io con le sue dimensioni personali, affettive, emozionali e biografiche che si rendono esplicite mediante un processo riflessivo di
ricostruzione dell‟esperienza vissuta. A partire da ciò è possibile pensare ad una autobiografia che si disvela nella modalità del prendersi in
cura, intesa come possibilità di ripensarsi, riscoprirsi, modificarsi e ricostruirsi in un‟esperienza vissuta come racconto di sé a se stessi e
agli altri e come ascolto del racconto di sé, dell‟altro, a noi. La soggettività grazie alla pratica autobiografica ritrova qui il suo significato ed
una sua dimensione peculiare. Grazie al metodo narrativo-autobiografico assumono centralità importanti dimensioni dei vissuti e la
concezione di una soggettività in relazione col mondo. In questo dialogo col Sé e col mondo la metodologia formativa autobiografica si
dispiega nella modalità della cura: verso se stesso, verso gli altri e verso le cose del mondo. La pratica autobiografica non esprime solo
importanti dimensioni dell‟esperienza vissuta, ma, più radicalmente, cura il soggetto; configura il paradigma del prendersi-cura e si
dispone come pratica formativa altamente significativa perché libera il soggetto, svincolandolo da pregiudizi e, soprattutto, perché
attraverso il dispositivo della cura, che mette in gioco un io dialogico e la sua natura relazionale e comunitaria – dove la soggettività è
anche autotrascendenza e intenzionalità e, soprattutto, scommessa sul futuro – quella pratica autobiografica si rivela come strumento
formativo che favorisce i processi di autoriflessione. In tali processi di autoriflessione divengono manifeste simultaneamente componenti
emancipative e di crescita. Il passaggio dalla fiabazione ad accenni autobiografici, prima ancora che ad una vera e propria narrazione
autobiografica. è un passaggio graduale e non frettoloso, che deve seguire il lento maturare della capacità dei soggetti impegnati ad
utilizzare non soltanto il racconto orale, il disegno, la metafora, ma anche la propria vita quale contenuto del raccontare e la scrittura quale
momento di oggettivazione della parola e mezzo a cui affidare sé perché gli altri possano leggermi e perché io stesso possa ritrovare me
stesso nel frastuono delle tante cose scritte e riscritte.
24
Demetrio D., Ricordare a scuola, Editori Laterza, Bari 2003, p. 26.
22
Se la tecnologia della fiabazione si addice di più ai bambini della scuola primaria, perché congeniale al loro mondo mentale ed
affettivo, quella dell‟autobiografia si addice di più a quei ragazzi che entrando nel ciclo di vita adolescenziale avvertono con urgenza il
bisogno di dare un nuovo senso alla loro esperienza di vita, presi come sono dalla voglia di scoprire il mondo e le riserve di potenzialità
accumulate nell‟età precedente che aprono verso nuovi orizzonti inesplorati ma dei quali di è sentito parlare, si è visto qualcosa e molto si è
immaginato. In questa delicata fase della vita in cui essi si proiettano con slancio verso quel futuro che cercano di fare diventare realtà, con
quegli adattamenti continui che la vita stessa esige, qualcuno dovrà pur accompagnare questa metamorfosi ed impedire che la memoria
della fanciullezza vada perduta o relegata in anfratti della memoria per poi tornare solo nei momenti della nostalgia in età adulta o nei
momenti più difficili delle chiusure, delle resistenze e delle regressioni. Ecco che l‟autobiografia, allora, appare come un felice e naturale
accompagnamento, perché, in fondo, utilizzando ancora una tecnologia narrativa prende per mano il fanciullo che quell‟adolescente è stato
e lo traghetta verso la nuova età che esige il recupero di tutte quelle risorse di svelamento autonoetico che la fiaba a suo modo proprio
aveva prodotto e che ora tornano ancora una volta ma come svelamento consapevole di chi si è stati e su che cosa è possibile costruire il
futuro attraversando il presente.
Bene, questo atteggiamento è proprio di chi si dà il tempo per avere la cura di sé, ma anche degli altri in quanto genitori, insegnanti,
educatori e tutto ciò è possibile soltanto se tutte le figure che gravitano intorno al fanciullo, ora adolescente, si sono impegnate nel percorso
di svelamento metaforico di sé a se stessi e agli altri ed hanno a loro volta partecipato del processo altrui (fiabazione), prima di transitare in
quello del racconto timidamente autobiografico. Il pensiero autobiografico è, quindi, quell‟insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di
ciò che si è stati e di ciò che si è fatto. E‟ una presenza che da un certo momento in poi ci accompagna lungo il resto del viaggio della
nostra vita, è una compagna segreta, meditativa, comunicata agli altri solo attraverso ricordi sparsi, a meno che non diventi uno scopo di
vita. Solo in questo caso, oltre a mutarsi in un progetto narrativo compiuto, storia di vita e suo romanzo, questa compagna invisibile,
impalpabile e pur presente e consistente ridà senso alla vita stessa e consente a colui o colei che si sente invadere da questo pensiero
spiccato e particolare di percepire che ha vissuto e sta ancora vivendo. E‟ uno stato che entra a far parte della nostra esperienza umana e
intellettuale solo quando siamo in grado di dargli uno spazio quotidiano, quando siamo in grado di fare esercizio filosofico su noi stessi
domandandoci chi siamo e chi siamo stati, quando diventa un luogo interiore di benessere e cura.
Non è un momento solo mentale ma è molto di più: laddove vi è un passato personale doloroso, pieno di errori e di occasioni perse,
di storie consumate male o non vissute affatto, di prospettive aperte e mai concluse, di attimi di gioia fuggevoli e talora ingannevoli,
rappresenta una sorta di ripatteggiamento con quanto si è stati, un modo per riconciliarsi con il proprio passato e aprire la nostra
soggettività verso nuovi orizzonti proprio grazie a questi sentimenti di riappacificazione, di compassione e di malinconia. Chi nella vita si è
trovato in una situazione di stress o difficoltà sa bene che esprimere le proprie emozioni negative aiuta subito a stare meglio e a superare un
momento difficile.
23
Nell‟istante in cui il pensiero autobiografico, che nasce nella nostra individualità e di cui noi siamo gli unici attori, svela questi
istanti affettivi, abbandona la sua origine individualistica diventando altro e quell‟iniziale egocentrismo, che sembra caratterizzarlo, si
trasforma in una storia solidale, comunque comprensiva di altre storie, lasciando così una traccia benefica soprattutto quando la nostra
storia non è più del tutto nostra e quando il lavoro sul passato ci riavvicina ed è difficile giudicare. Ciò che è stato forse poteva compiersi in
altro modo e avere un finale diverso, ma in ogni caso ora quella storia è ciò che è stata, è ciò che è, e l‟unica cosa che bisogna cercare di
fare è amarla perché, la storia della nostra vita, è il primo e l‟ultimo amore che ci è dato in sorte. In tal modo il pensiero autobiografico,
ricomponendo la dimensione cognitiva con quella esperienziale, ci cura, ci fa sentire meglio attraverso il raccontare e il raccontarci che
diventano allo stesso tempo sia forme di riconciliazione che forme di liberazione. Nel rivederci, nel ricostruire il nostro passato, ci
prendiamo consapevolmente in carico - forse per la prima volta - assumendoci la responsabilità di tutto ciò che siamo stati e di tutto ciò che
abbiamo fatto non facendo altro che accettare la nostra storia che ci rende unici e irripetibili. Il soggetto è l‟unico che può ritrovare, nel
personale processo di trasformazione, le coordinate che hanno dettato il cambiamento e attribuirne finalmente il significato dopo avere a
lungo cercato il senso delle cose. Ed è proprio in questa capacità attributiva che è ravvisabile la dimensione autoformativa del pensiero
autobiografico.
Occorre, però, stare attenti a non vivere l‟autobiografia come farmaco, come un qualcosa che serve a liberarci del nostro passato
prendendone le distanze. Il vero prendersi in carico, la vera cura di sé, inizia quando, non più il passato, ma il presente entra in scena e
diventa terreno fertile per inventare e svelare altri modi di sentire, osservare, scrutare e registrare il mondo dentro e fuori di noi. Si accede
così, dalla storia del passato all‟autobiografia del tempo attuale, ai quaderni, agli appunti, alle note di un diario quotidiano che è necessario,
per “sentire” che si sta ancora vivendo. Questo non è solo un modo per ritornare a vivere, ma è anche un modo per tornare a crescere per se
stessi e per gli altri, è un incoraggiamento a continuare a rubare i giorni al futuro che ci resta da vivere, a vivere più intensamente quelle
esperienze che, un po‟ per fretta, un po‟ per disattenzione, non sono state vissute con la stessa intensità, a lasciare tracce nell‟oggi per
riprenderle quando il futuro, diventando presente, cerca “luoghi” dove radicarsi trascendendolo continuamente. Per quanto i ricordi possano
essere sbiaditi e lontani, il ricordare è una conquista mentale, un apprendere da se stessi, un imparare a vivere attraverso un rivivere
organizzato e meditato. Ogni singolo ricordo è un segno che ha lasciato un‟ impronta nella nostra vita collocandosi ora in una scena, ora in
una storia, e l‟intelligenza retrospettiva non si limita a rievocare immagini isolate e vaganti ma costruisce, collega e attribuisce uno
spazio/tempo all‟evento, “lo socializza” passando dal momento evocativo a quello interpretativo, cercando nessi, cause ed effetti, per
spiegare quell‟evento che può, apparentemente, apparire singolare. Non è solo come sfogliare un album fotografico soffermandosi su un
volto, un oggetto, un colore dimenticato: l‟autobiografia prende vita perché il suo autore principale ha bisogno di presentarsi al mondo e di
attribuirsi ben più di un significato.
Ecco, allora, che si chiude il circolo virtuoso della cura di sé entrando e uscendo continuamente nella propria vita con rispetto e
senza rumori assordanti, nella consapevolezza che nulla può essere spostato o cancellato, perché è avvenuto, e resterà per sempre come
24
risorsa, come riconoscimento di sé, come vita che si svolge giorno dopo giorno lasciando tracce innumerevoli che sono altrettante ipotesi
progettuali di vita. Dal punto di vista pedagogico e didattico, credo che la fiabazione così come tratteggiata in queste pagine si dischiuda
naturalmente verso la narrazione autobiografica, sia pure con i limiti ad essa propri nel momento in cui ci si accosta al mondo della scuola e
a tutte le sue componenti; tuttavia, ciò qualifica l‟azione didattica propria dell‟insegnante perché la narrazione, sia essa intesa come
fiabazione che come autobiografia, favorisce una visione personale olistica di sé, degli altri, della cultura e del mondo, promuove anche la
trasformazione in competenze personali della capacità narrativa che è ad un tempo costruzione retrospettiva di storie individuali e sociali:
quella storia che l‟alunno ha negoziato con se stesso e con gli altri momento per momento, nella quale ha finito con l‟identificarsi e grazie
alla quale ha potuto anche porsi in relazione e guardare ormai al futuro senza paure ed angosce infantili.
25
Perché e come fare disegnare i bambini in modo spontaneo25
L‟articolo nasce a seguito di attività di ricerca pilota condotta in 6 Scuole dell‟Infanzia Statali della Città di Napoli all‟interno delle
quali è stata svolta, con insegnanti ed allievi, l‟attività di “disegno spontaneo”. Scopo della ricerca pilota che, nel nuovo anno scolastico
2011-12, vedrà la partecipazione di 16 Scuole dell‟Infanzia è quello di distinguere fra disegno spontaneo o senza committenza e disegno
con committenza nei bambini di età compresa fra i tre ed i cinque anni, confrontandola con la letteratura esistente in ambito sia pedagogico
che psicologico. La ricerca pilota ha prodotto anche un Catalogo intitolato “Lo scarabocchio” (edito dall‟Associazione Amici del
Margherita di Savoia-già Liceo Psicopedagogico) comprendente due articoli a firma dei referenti scientifici (prof.ssa Daniela Cantone,
ricercatrice di Psicologia generale presso la Seconda Università di Napoli e il prof. Bruno Schettini coautore del presente articolo) e un
DVD con 615 disegni di bambini. La ricerca pilota ha contribuito a problematizzare il discorso sul disegno spontaneo all‟interno del mondo
scolastico contattato, a fare affinare gli strumenti operativi sul modello del Closlieu del pedagogista francese Arno Stern ed a generare un
maggiore interesse scientifico sul tema della Formulazione come unica modalità d‟espressione della memoria organica. La ricerca estensiva
procederà alla falsificazione del prodotto della ricerca pilota ai fini della costruzione di un modello educativo metodologicamente corretto.
Lo scarabocchio di Sofia
L‟Uovo dell‟Arcobaleno è stato deposto il 15 maggio del 2010 praticamente al termine dell‟anno scolastico che vedeva la Storia di
una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, di Sepulveda, al centro del percorso educativo-didattico. Un anno, sin dall‟inizio,
attraversato da un uovo, quello di Kengah, mamma gabbiana morente, affidato alle cure del gatto Zorba a condizione di rispettare tre
promesse: la prima di non mangiare l‟uovo; la seconda di averne cura fino alla schiusa e la terza di insegnare al piccolo a volare.
Un po' sulla falsa riga del cappello non cappello de Il Piccolo Principe e di come la visione adulta banalizzi ciò che nei bambini e
nelle bambine è invece espressione profonda di vissuti, Martina, 5 anni, ha rappresentato, con l‟Uovo dell‟Arcobaleno, l‟esperienza
corporea, relazionale, cognitiva e affettiva di ciò che ha dato vita ad una piena e autentica ricerca di senso.
Un tempo lontano, quando avevo sei anni, in un libro sulle foreste primordiali, intitolato “Storie vissute della natura”, vidi un
magnifico disegno. Rappresentava un serpente boa nell‟atto di inghiottire un animale. Eccovi la copia del disegno. C‟era scritto: “I boa
ingoiano la loro preda tutta intera, senza masticarla. Dopo di che non riescono più a muoversi e dormono durante i sei mesi che la
digestione richiede”. Meditai a lungo sulle avventure della jungla. E a mia volta riuscii a tracciare il mio primo disegno. Il mio disegno
numero uno.
25
Perché e come fare disegnare i bambini in modo spontaneo, di Bruno Schettini e Marina Perrone, in www.educare.it.
26
Era così:
Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: “ Spaventare? Perché mai,
uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?” Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un
elefante. Affinché vedessero chiaramente che cos‟era, disegnai l‟interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. Pur
lavorando da lunghissimo tempo nella scuola dell‟infanzia e avendo dato nel 2008 il nome di Scarabocchio di Sofia al Progetto di Circolo
de Il filo di Sofia26. Pur credendomi immune dalla leggerezza dei giudizi disattenti, dalla superficialità e dalla banalità dei frettolosi sguardi
adulti, accadde che rimasi estremamente colpita quando, davanti ad un disegno spontaneo consegnatomi per essere titolato e poi inserito
nella mostra del Concorso Ghirlando27, lo scambiai per un esercizio, si di abile fattura, ma pur sempre un semplice miscuglio di colori e
che accolsi con la frase di rito:
“Che bello, cos‟è?”
Con mio enorme stupore seppi che si trattava dell‟Uovo dell‟Arcobaleno!
Come gli adulti descritti da Antoine Sainte-Exupery, mi sentii improvvisamente “troppo adulta”, troppo distante dall‟immediatezza,
profondamente spontanea, espressa con il massimo della semplicità dal genio artistico di Martina, che si era venuta a trovare, come ne Il
26
Il Filo di Sofia è un progetto di circolo che prevede l’attuazione di percorsi di filosofia con bambini e bambine. Tale progetto intende attuare la
pratica del filosofare come strumento didattico e come progetto edificante in senso educativo. Referente S. Bacchetta.
27
Ghirlando Filosofo Giramondo è il nome di fantasia che Stefano Bacchetta, referente del progetto Il Filo di Sofia, ha adottato per presentarsi e
presentare ai bambini e alle bambine se stesso come amico di Sofia e poeta. Tutto il percorso è iniziato nell’a.s. 2007-08 con l’arrivo di una
lunghissima poesia. Il Concorso Ghirlando ne è figlio. E’ nato nel 2008-2009 su proposta di Giorgia, una bambina di 5 anni che nel tentativo di
sfidare Ghirlando in una gara di poesia, voleva catturare tutte le rime così da impedire a Ghirlando di fare le sue. Al concorso hanno partecipato
genitori, fratelli e sorelle, assistenti, collaboratori scolastici ed insegnanti. La vittoria chiaramente è stata attribuita al “rimese” come lo definì la
nonna di Alice, cioè del linguaggio poetico che trionfò come mezzo comune di espressione del piacere per la condivisione della bellezza e del
pensare. Tutti ricevettero un diploma di riconoscimento.
27
Piccolo Principe, nella condizione di dover pensare: “Bisogna sempre spiegarle le cose ai grandi” e aggiunse: “Prima c‟è l‟uovo e poi
nasce l‟arcobaleno!”
Improvvisamente non avevo più tra le mani un semplice foglio ben riempito di colore, non era più un semplice passatempo di abile
destrezza e manualità, non era neanche una copia di un unico gesto ripetuto quasi all‟infinito. Avevo tra le mani un‟opera d‟arte unica,
profondamente artistica, espressiva e rappresentativa di una grande riflessione sulle esperienze e sui vissuti, trasformati e trasferiti
fantasticamente su un foglio bianco. Degna opera artistica, del nome di grandi maestri.
Una lunga traccia filata di esperienze psicomotorie relazionali aveva fatto vivere a Martina le tappe della storia. Dalla deposizione
fino al prendersi cura dell‟uovo. Dalla schiusa alla ricerca del nutrimento adeguato. Dal difficile compito della scoperta e del
riconoscimento di una evidente e grande diversità, fino alla ricerca della strategia per riuscire a far spiccare il volo alla piccola gabbianella
Fortunata. Nel laboratorio grafico il percorso si era soffermato sul contrasto bianco (Fortunata) e nero (gatto Zorba), giorno e notte, vita
prenatale e nascita. Il tutto era stato poi racchiuso e concretizzato nella realizzazione individuale de Il libro della vita, dove foto e disegni
illustravano l‟arco di tempo che andava dalla gravidanza ai loro primi anni di vita. Un altro spunto importante di esperienze le aveva
ricevute nel percorso grafico sulle luci e le ombre in preparazione della visita alla mostra “Caravaggio” presso Le Scuderie del Quirinale a
Roma dove le creature, osservando le opere del grande maestro, scoprirono autonomamente l‟espressione “mette in luce” .
Martina ha saputo rielaborare l‟esperienza e l‟ha trasferita in un nuovo contesto, l‟ha applicata ad un aspetto della realtà che non era
stato preso in considerazione. Dove nasce l‟arcobaleno? Dove nascono i colori? Queste implicite domande danno la dimensione della
capacità che possiedono i bambini di essere nella domanda di senso. Di come il dialogare, tanto ricercato nei percorsi del filosofare verbale
e adatti ai bambini più grandi, trovi proprio in queste modalità di educazione scolastica l‟approccio che consente, prima di tutto, di trovare
un senso di profonda percezione di sé come possibilità personale di dialogo e si trasformi da intima rappresentazione ad espressione
corporea e grafico-pittorica. Non è meraviglioso come le infinite tracce racchiuse nell‟Uovo si intersechino, si sovrappongano così
strettamente le une alle altre fino a formare L‟uovo dell‟arcobaleno? Una riflessione da mettere sul Filo:
Lo straordinario viaggio simbolico del me corpo, alla traccia lasciata sul foglio
Quando la vita inizia il suo percorso corporeo, inizia contemporaneamente nell‟essere umano l‟esperienza legata alle sensazioni,
alle percezioni di un essere in continua relazione con ciò che lo circonda.
La relazione che dapprima è completamente avvolgente ed esclusiva, privilegiata, embrionale e uterina, dipendente, con la nascita
incomincia a registrare e a ricevere l‟imprinting dal contatto sensoriale corporeo e dalle percezioni che da esse dipendono. Mi chiedo:
quanto dell‟esperienza prenatale c‟è nel disegno dell‟uovo dell‟arcobaleno di Martina?
Mi incanta la sua rappresentazione simbolica e luminosa. Martina è riuscita a rappresentare, nel gioco grafico di colori con-fusi e
racchiusi, la potenza-uovo che origina un essere distinto e differenziato: l‟arcobaleno. “A narrare il mutare delle forme in corpi nuovi mi
28
spinge l‟estro” sono le parole che aprono la grande opera di Ovidio 28 Le metamorfosi volendo narrare il passaggio dal Caos primordiale “di
cose mal combinate tra loro” … e dove … “niente aveva una forma stabile” per poi arrivare al Cosmo ordinato. Oppure penso alla stella
danzante di Nietzsche. Forse è questo l‟approccio educativo attraverso l‟infanzia della filosofia che Kohan nel suo testo Infanzia e filosofia
descrive come “La sola cosa che la filosofia come esperienza esige è un gruppo di persone che prendano sul serio questo proposito di
problematizzare se stessi e ciò che li circonda”.29 Ed è importante che ciò avvenga nelle strutture educative scolastiche, perché indica la
qualità di attenzione e rispetto per la dignità del pensare di tutte le persone, siano esse bambini o adulti e fa sì, come in questo caso, che lo
spiazzamento adulto sia fonte di ulteriori riflessioni e scoperte. Perché, insieme a Kohan, mi piace domandarmi “…che cosa vogliamo fare
in maniera seria e gioiosa con la filosofia?”30.
Il valore pedagogico del disegno spontaneo o “senza committenza”
Riprendo lo scritto di Marina Perrone per sostenere, attraverso una visione fenomenologica, che ogni bambino ha un diverso modo
di considerare l‟arte e il suo stile individuale nel disegno, caratterizzato da gusti particolari per i colori, le forme, le grandezze, la spazialità
realizzando, in tal modo, un genere personale di espressività.
Y. Pappas sostiene che “far disegnare un bambino ci appare come uno dei metodi più significativi di cui possiamo disporre per
avvicinarci all‟animo infantile.
Senza dubbio, essendo la nostra conoscenza quello che è, restano in noi molti segreti inaccessibili, ma è proprio in essi che
risiedono l'originalità e la libertà di ognuno.
Non è male che questa originalità e questa libertà si manifestino per tempo: esistono nella vita del bambino tante occasioni per
inaridirle”.31
Il bambino attraverso il disegno fa emergere il proprio mondo personale, quello più creativo, quello più autentico che non sottosta a
regole e divieti. Anzi è possibile sostenere che il disegno infantile si esprime attraverso forme innate, basate su strutture neuromentali
fondamentali, che si possono percepire nel gioco di una costruzione psichica.
Secondo A. Stern32, tutti i bambini del mondo e tutti gli esseri umani lasciano tracce grafiche qualunque sia il contesto ambientale e
culturale in cui vivono, perché il disegno non è soltanto uno degli strumenti della comunicazione umana ma è, originariamente, un atto
compiuto per una necessità interiore che non produce un‟opera d‟arte o una comunicazione, ma basta a se stesso e dà un piacere
sconosciuto perché con questa traccia viene liberata una ritenzione molto antica. Essa è la manifestazione materiale della memoria
28
Ovidio, Le metamorfosi, Primo volume Libri I-VIII, I grandi libri, Garzanti Editore, Milano 2008.
W.O Kohan, Infanzia e filosofia, a cura di C. Chiapperini, Morlacco Editore, Perugia, 2006, pXX.
30
Ibidem, p. XXII.
31
Pappas Y., Lo sviluppo psicomotorio, cit. in "Universo della psicologia", Motta, Vol. III, pag. 1296, I, Milano 1983.
32
Cf. www.arnostern.com
29
29
cosiddetta organica (memoria degli avvenimenti della formazione dell‟organismo) che viene ancora prima della ritenzione mnestica che è
la capacità di ricordare ciò di cui si ha esperienza.
In linea con questa prospettiva, A. Stern definisce “Formulazione” l‟insieme di segni che nascono dalla loro concatenazione e,
dopo numerosi studi, è pervenuto alla considerazione che essa è un sistema coerente ed universale, non limitata ad un‟età particolare, che
accompagna l‟uomo in tutti i cicli della sua esistenza. Secondo lo studioso francese, la Formulazione è legata al codice genetico e
rappresenta l‟unico mezzo d‟espressione della memoria organica; sicché, nel momento stesso in cui rappresenta le sue prime immagini, il
bambino ci offre anche uno strumento per comprenderlo meglio, assai più di quanto non consenta il linguaggio, strumento che il bambino
impara presto a controllare, a seconda delle reazioni dell‟adulto nei suoi confronti e che richiede, per esprimersi a fondo, ben altre finezze
di quelle di cui egli può disporre. Per imparare a comprendere ciò che i disegni rivelano, bisogna innanzi tutto domandarsi cosa disegnano i
bambini.
J. H.Di Leo indica in sei punti per rispondere a questa domanda33. I bambini disegnano:
Quello che è importante per loro: in primo luogo le persone, quindi gli animali, le case, gli alberi;
una parte, ma non tutto di ciò che essi conoscono dell'oggetto;
ciò che si ricordano in quel momento;
l'idea colorata dai sentimenti;
ciò che è visto;
una realtà interiore, non ottica.
L'adulto non deve preoccuparsi perciò che le opere infantili siano corrette dal punto di vista formale e tanto meno premiarle per
questo, L. Radice (1936) metteva in guardia da una precoce correzione che è “disturbatrice, anzi devastatrice, della intuizione pittorica e del
relativo sforzo di estrinsecazione grafica”. Insomma, l‟adulto, come scrive Perrone, è «troppo adulto, troppo distante dall‟immediatezza,
profondamente spontanea, espressa con il massimo della semplicità dal genio artistico di Martina, che si era venuta a trovare, come ne Il
Piccolo Principe, nella condizione di dover pensare: “Bisogna sempre spiegarle le cose ai grandi” e aggiunse: “Prima c‟è l‟uovo e poi
nasce l‟arcobaleno!”». Molti adulti, infatti, incorrono nell‟errore descritto dalla Perrone: “lo scambiai per un esercizio, si di abile fattura,
ma pur sempre un semplice miscuglio di colori e che accolsi con la frase di rito: Che bello, cos‟è?”.
L'adulto deve fornire, invece, appropriati mezzi d'espressione e creare un ambiente di vita in cui il bambino sia stimolato a fare
esperienze che siano insieme reali ed estetiche.
33
J. H. Di Leo, I disegni dei bambini come aiuto diagnostico, Giunti, Firenze 1981, G.Gallino"Presentazione", pag.VI.
30
Come sostiene il pedagogista francese Stern34, bisogna evitare di imporre ai bambini di “copiare”, o ai più piccoli di colorare
disegni con contorni già tracciati, con questi mezzi si pensa di attuare la discussa educazione al realismo, in realtà si finisce solo con
l‟annoiare e a non far emergere la personale creatività e/o spontaneità.
Anche imporre temi d'espressione obbligatori è sbagliato per vari motivi. In generale qualsiasi forma d'imposizione che provenga
dall'esterno, senza una motivazione valida, condiziona il bambino bloccandone il flusso creativo. L'espressione artistica è un avvenimento
non comune in cui prendono forma esigenze personali, stati inconsci, sensibilità, intelligenza.
In un soggetto in età evolutiva si possono produrre dei disagi, perché la richiesta dell'adulto è superiore alle obiettive possibilità del
bambino, ad esempio nel chiedere ad un bimbo, di tre anni di disegnare nei dettagli un omino, quando ancora non avverte l'esigenza o non
ne possiede le capacità, non si ottiene altro che di inibirlo favorendo l'insorgere di un senso di soggezione
Se la maggior parte dei bambini è per natura incline al disegno e a trarre gioia da tale attività, non è però detto che tutti i bambini si
divertano a disegnare. Anche l'esigere modi d'espressione o temi superati per età o per esperienze, ha conseguenze negative. In questi casi il
bambino si fissa su moduli standardizzati e li riproduce meccanicamente, questo tipo di ripetizione stereotipata ha carattere frenante o
inibitorio.
Per poter fare esperienze che arricchiscano la sensibilità, il bambino deve poter vivere, quando disegna o dipinge, momenti densi di
godimento.
Affinché ciò avvenga è necessario che ci siano alcune condizioni che nella maggior parte dei casi devono essere predisposte
dall'adulto.
Il pedagogista F. De Bartolomeis35 si dice contrario al non intervento dell'adulto, egli ritiene che sia compito dell'educatore
intervenire a rafforzare l'influenza dei “fattori favorevoli”.
Cosa l'adulto può predisporre?
il materiale artistico: spesso il bambino si scoraggia perché non ha i mezzi adeguati;
un disegno di gruppo: l'attività di gruppo è spesso di stimolo alla fantasia;
della musica e disegno: la musica è come il colore, molto sentita dal bambino;
un ambiente educativo: l‟adulto può intervenire sul comportamento espressivo, sia ampliando le conoscenze del bambino, sia
influenzandone l'immaginazione.
34
35
Cf. www.arnoster.com
Cf. De Bartolomeis F., Il bambino da 3 a 5 annie la nuova scuola materna, La Nuova Italia, Firenze 1968.
31
Secondo Stern l‟insegnante, l‟educatore, il genitore o meglio ancora il praticien non insegna, non giudica, non fa commentare la
traccia, ma è un “servitore”; deve conoscere le leggi della Formulazione. Il praticien, nel Closlieu ha acquisito un‟attitudine rispettosa
verso la persona e verso la traccia della persona. Comprendere il funzionamento della Formulazione esige un percorso scientifico ed è
tutt‟altra cosa che interpretare i disegni.
A differenza di De Bartolomeis, Stern indica alcune caratteristiche fondamentali dell‟ambiente del Closlieu:
un luogo che metta la persona al riparo da pressioni e interferenze;
la presenza degli altri, non come spettatori, ma come compagni di gioco che accettano l‟emissione, conferendole il suo carattere di
non-comunicazione e di normalità;
la presenza di un praticien che non giochi il ruolo di figura di riferimento, né quello di destinatario di ciò che viene formulato: il suo
ruolo è quello di un servitore.
Un modo per stimolare l'immaginazione della classe è il racconto.36 Sarebbe interessante, per esempio, se dopo il racconto, alla cui
costruzione tutti partecipano, i bambini fossero invitati a produrre disegni spontanei. Così facendo, l'insegnante non avrà bisogno di
suggerire i temi di rappresentazione, ma l'ispirazione e le intuizioni scaturiranno spontaneamente dal bambino che desidererà illustrare i
fatti e le esperienze vissute per approfondirle e conoscere meglio.
La finalità dell'attività di disegno è l'arricchimento emotivo e intellettuale; nell'educazione è principalmente il primo aspetto che va
potenziato, perché interessa soprattutto che il bambino si senta realizzato e viva delle esperienze che maturano la sua personalità. Più del
prodotto interessa il momento realizzativo in cui il bambino si sente di fare una cosa sua e la vive intensamente.
Dai disegni dei bambini noi possiamo conoscere a quale stadio sia la loro maturazione intellettuale, che cosa essi pensino del mondo
e delle persone con cui vivono, che cosa abbiano appreso…Tuttavia ciò che risalta particolarmente dai loro disegni spontanei è la visione
concreta d'un mondo che l'adulto ha dimenticato. “L'infanzia, che pure è alle radici del nostro essere e con i cui occhi un tempo
guardavamo al mondo, ci sfugge a tal punto che, per capire i disegni infantili, non ci è più sufficiente guardarli, ma dobbiamo studiarli.
Quello che siamo diventati ci nasconde quello che avremmo potuto essere e che portiamo dentro di noi come un vecchio ritratto; ma il
mondo è pieno di bambini, di menti vive e intelligenti che possono farci riacquistare con il loro talento il senso della vita, purché
nell'avvicinarli non siamo noi stessi a distruggerli”37. Nell'opera Il disegno infantile – afferma G. Luquet – “ogni momento dell'evoluzione
si distacca dal precedente secondo un progresso quasi insensibile, si prolunga più o meno nei successivi, attenuandosi gradualmente […].
36
Cf. Schettini B., Fiabazione i narrazione autobiografica fra filosofia e metacognizione, in “Scienze del pensiero e del comportamento” in:
ww.avios.it/spc.html.
37
Oliviero Ferraris A., Il significato del disegno infantile, Bollati Boringheri, Torino, 1990 pag. 172.
32
La descrizione che diamo è schematica, la continuità dei differenti momenti di questa evoluzione nella realtà è meno distinta che
nell'analisi; la data e la durata di ciascuno di essi variano considerevolmente secondo il bambino preso in esame”38.
L'interpretazione di G. Luquet si basa sul concetto di realismo del disegno del bambino che ordina gli eventi grafici, che si
manifestano nello stesso soggetto individuandone quattro fasi.
Generalmente gli autori moderni fanno delle descrizioni evolutive di concezione e di terminologia più o meno analoghe,
aggiungono a queste una fase iniziale denominata dello “scarabocchio”. In questa fase il bambino traccia delle forme indipendenti rispetto
al significato, questa fase dura per i primi due anni di vita.
Di fatto, si tratta di un'attività grafica non ancora realmente elaborata. Per Luquet le quattro fasi si manifestano secondo la seguente
sequenza:
Il realismo fortuito
Il bambino evidenzia un'analogia più o meno vaga, e spesso impercettibile all'adulto, tra il tratto che sta
facendo e qualcosa di reale: dà al segno il nome dell'oggetto. Durante il 3° anno di vita il ripetersi di queste
esperienze viene superato da una "intenzione rappresentativa" che è all'origine delle fasi successive che sono
strettamente intrecciate
Questa fase copre l'arco di tempo dai 4 ai 12 anni.
Il realismo mancato
38
Luquet G., Le dessin enfantin, Paris 1927, cit. in "Universo della psicologia", Vol. III, pag. 1296, I, Motta, Milano 1983.
33
Il realismo intellettivo
Il realismo visivo
Il bambino cerca di rappresentare la realtà in modo significativo, ma all'inizio la rappresentanza del
mezzo grafico "non è adeguata "rispetto al suo proposito; successivamente l' "intenzione realista" e il "senso
sintetico" costruiscono una rappresentazione della realtà riconoscibile, ma in cui "ciò che il bambino dice"
sostituisce l'evidenza visiva. Una serie di processi permette il compromesso necessario tra l'uno e l'altro:
enucleazione dei dettagli, trasparenza, piano, ribaltamento molteplici punti di vista. Progressivamente il ricorrere
a questi processi lascia spazio ad una visione più unitaria.
Verso il 12° anno di età si instaura la quarta fase, durante la quale sembra vi sia una subordinazione della
rappresentazione all'apparenza visiva delle cose; questa caratteristica classicamente viene considerata come il
declino del disegno infantile. Di fatto lo studio dell'espressività dell'adolescente dovrebbe lasciare da parte questo
giudizio.
I lavori di Luquet esaminano il disegno dal punto di vista della rappresentazione; e anche se cerca di mettere in evidenza le forme
che testimoniano le tappe di una "evoluzione intellettiva", l‟esito dei suoi studi costituisce un‟originale elaborazione descrittiva; nonostante
tali interpretazioni siano datate all'inizio del secolo, esse restano attuali.
A proposito, poi, della interpretazione dei disegni e del gioco dei bambini, a favore di un uso pedagogico di essi, concludo con un
brano di Melanie Klein riguardante le interpretazioni “selvagge” che possono essere fatte sul gioco infantile: “Orbene io non mi sono mai
azzardata a fare interpretazioni simboliche così selvagge del gioco infantile. (…) Solo se il bambino manifesta ripetutamente in vari modi –
per lo più in realtà servendosi di mezzi vari, per esempio giocattoli, acqua o ritagliando, disegnando, ecc. – lo stesso materiale psichico; e
rilevo, inoltre, che queste attività sono di norma accompagnate da senso di colpa che si palesa come angoscia o in rappresentazioni nelle
quali è insita della sovracompensazione, e cioè in formazioni reattive; se pervengo a rendermi conto che nel complesso di tutto ciò esistono
nessi precisi, ebbene, solo allora io interpreto i singoli fenomeni e li connetto all‟inconscio e alla situazione analitica”39.
39
Klein M. (1921), Simposio sull’analisi infantile, in «Scritti 1921–1958», Boringhieri, Torino 1983.
34
Ogni età merita la sua domanda40
Ho assistito da osservatore critico e incuriosito alle sessioni di filosofia con i bambini che si sono susseguite nei giorni del «Fantasio
Festival 2009», presso la Rocca Paolina, nella città di Perugia e, amante della mia autonomia di apprendimento, tipica di chi fa il
ricercatore di mestiere su di una materia tanto complessa qual è quella dell‟educazione, sono tornato più volte con il rigore del ricordo a
quelle giornate trascorse. Alla ricerca del «metodo», ho scoperto che non c‟era alcun metodo, ma che ogni insegnante-facilitatore ne
proponeva uno che si adattasse, di volta in volta, al «gruppo dei ricercatori in erba» che hanno saputo dimostrare che non è vero che
l‟«erba del vicino è sempre più verde» - come si usava dire ai miei tempi, quando si andava a scuola e c‟era il famigerato compito in classe
- e che muoversi come il mitico Prometeo, se è rischioso, è anche più appagante e autentico, perché il prodotto della ricerca, che è la
conoscenza o una abilità, è qualcosa che si deve «rubare»; rubare, proprio come si fa per imparare un mestiere e una professione al di là
del metodo o dei metodi e delle conoscenze che gli istituzionali luoghi della formazione pure ti hanno insegnato.
Non ho trovato neanche una «comunità di ricerca» e, a dire il vero, non amo neanche il termine «comunità di ricerca», come dicono
alcuni, ed essendo io, fra l‟altro, smaliziato dalla personale esperienza, temo sempre che ci possa essere qualcuno che aspiri a cose più
ambiziose possedendo quel «metodo» che è l‟arte dell‟avere sempre l‟ultima parola nella comunità; soprattutto, non credo nella felicità
che sgorga dal pensiero, che non sia quella che provenga dalle «euchine» e dalle «endorfine» o da una coscienza calata in un continuo
processo di liberazione - come direbbe Paulo Freire - perché critica rispetto ad ogni forma di oppressione e in grado di prendere la distanza
da ogni forma di esercizio del potere dell‟uomo sul proprio simile anche di quella dell‟adulto sull‟infanzia. «Pedagogia nera» (ovviamente
negata), come la definirebbe la psicoanalista austriaca Alice Miller. Temo, invece, quella felicità che discende da un pensiero pago di se
stesso, che non ha la forza di trasformare quello stesso pensiero in una prassi di cambiamento per sé, per gli altri. A questo punto, mi piace
chiarire un concetto. Le esperienze o sessioni di filosofia con i bambini sono esercitazione didattica e quindi addestramento - non
educazione - per quando i bambini entreranno a pieno regime nella vita - che però, a questo punto, è tutt‟altra cosa da quella esperita
nell‟aula scolastica - oppure le esperienze di filosofia con i bambini introducono la vita nell‟aula - fanno cioè a meno di un qualsivoglia
ortodosso contenuto didattico preconfezionato - e riproducono quindi quello che «c‟è» concretamente nella vita di ogni giorno? Altra cosa
ancora è la modalità narrativa ed argomentativa attraverso la quale i bambini sono in grado di esprimersi. Il problema è tutto in quel «c‟è»
fenomenologico, esistenziale, provocatorio quanto basta, che apre la discussione in una tempesta di cervelli elettrizzata dalla possibilità di
«esser-ci» per quello che si è, bambini in riflessione, a cui è riconosciuta da subito una soggettività epistemica che è anche quella di
«prendere e dire la parola» in un mondo in cui la parola o ti è data per esercitazione didattica o ti è tolta perché non appartieni al gruppo dei
grandi, dei grandi che contano.
40 B. Schettini, Ogni età merita la sua domanda, in http://edasociety.educazione-degli-adulti.it
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Qui ancora una volta il riferimento va a Paulo Freire e ai pedagogisti della cosiddetta «Pedagogia non direttiva» ed anche a Gregory
Bateson che sostiene che non c‟è apprendimento senza quel sano conflitto che genera la differenza del potenziale di apprendimento e a
Carl Rogers che, insieme con Paolo Jedlowski ed altri, sostiene che l‟apprendimento autentico, cioè significativo, è quello libero,
autonomo, esperienziale, fatto per prove ed errori.
Questo è l‟ultimo punto su cui intervengo. Non dico che le sessioni perugine siano state l‟una o l‟altra cosa - non tocca a me in
questa breve riflessione; non saprei neanche articolare il discorso che sarebbe troppo lungo; è stato troppo poco il tempo di osservazione e,
fra l‟altro, fuori dai contesti di appartenenza dei «gruppi di filosofi in erba» - penso, però che se la filosofia non è altro che la questione,
riproposta senza fine, del senso e dell‟Essere (Jaspers), allora ogni età merita di porsi le sue domande; ma penso anche che ogni
adultofacilitatore debba essere una persona risolta non soltanto nel senso psichico (la grande differenza nella struttura dell‟Io e nel
funzionamento del principio di realtà ostacola la compresione tra grandi e piccoli), ma anche nel senso più propriamente politico
(pedagogia e didattica hanno a che fare quotidianamente con le scelte della vita), nel senso cioè di sapere ridiscutere se stessi, i propri
rapporti con la vita e la società per evitare ogni forma di alienazione, sia essa ballostica o baunasica, che fa perdere, in ambedue i casi, la
coscienza intenzionale della propria interazione con l‟altro da sé e fanno dell‟altro da sé la protesi di se stessi. Ecco, io penso che il
problema della filosofia con i bambini non sia da incentrarsi su falsi problemi, anche se metodologicamente corretti, ma sull‟eterno
paradosso dell‟educazione; anche la Pedagogia, come la Filosofia, ha una domanda paradossale, e perciò imperitura, alla quale nessun
secolo potrà mai dare risposta definitiva, perché è come un comando autopoietico indipendente dal colore, dalla fede, dall‟etnìa, dalle idee,
dal genere, dal grado di istruzione e cultura, dalla latitudine e dalla longitudine: sii libero, sii autonomo, sii te stesso! Ma, la libertà,
l‟autonomia, la crescita sono processi e mentre qualcuno da un lato si arroga il diritto-dovere di renderci liberi, autonomi, di farci crescere,
dall‟altro lato, abbiamo la necessità invece di potere pensare e nutrire la segreta speranza di chiedere noi a qualcuno di aiutar-ci (nel senso
della reciprocità che è la misura dell‟autenticità) a tradurre il comando in una domanda di senso: come posso io, qui e ora, «esser-ci
libero», «esser-ci autonomo», «esser-ci in crescita», quindi cambiare senza che il mio educatore, chiunque sia, si senta tradito (ma allora
non è un educatore) e, comunque, di farlo lo stesso anche se egli si sentisse tradito, per crescere, essere libero ed autonomo? Non è forse
questo il senso freiriano di quel “nessuno educa nessuno, ma tutti si educano reciprocamente”? Queste sono domande circolari che devono
porsi prima di tutto gli educatori, gli insegnanti, i genitori, coloro che professano la relazione di aiuto; vuol dire anche «esser-ci in
formazione» e nutrire il desiderio di proporre continuamente la democrazia del sapere e della vita per sé e per gli altri.
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Appunti sparsi I41
Distinguerei due dimensione del fare filosofia a scuola. La prima, ed è un'affermazione apodittica: si può non fare filosofia a scuola
nelle ore canoniche o tradizionali? A questa domanda io risponderei in questo modo: la scuola risponde a un dettato del legislatore o
meglio alle direttive vincolanti dell'esecutivo cioè del ministro ad hoc. In questo senso è presente una “filosofia” di ciò che debba essere la
scuola e questa filosofia viene trasmessa, direttamente o indirettamente, agli studenti e agli insegnanti stessi; da questi ultimi nuovamente
agli studenti attraverso la didattica e, dunque, attraverso lo stile didattico. Se il sapere non è neutrale tanto meno la scuola lo è...e questo
nel bene e nel male. Dunque, dal mio punto di vista occorrerebbe che l'insegnante capisse qual è il paradigma filosofico ufficiale/politico di
riferimento e quale posizione ha rispetto ad esso. Ci si potrebbe chiedere: qual è la funzione che assolve la mia materia d'insegnamento
rispetto al paradigma filosofico ufficiale/politico di riferimento? Quale è la posizione della mia scuola (Collegio docenti/Consiglio di
Istituto-Circolo ecc...)?
Tuttavia c‟è una filosofia implicita o occulta che gira nei corridoi e nelle aule di ogni scuola, che lo si voglia o no. Su questa gli
insegnanti dovrebbero interrogarsi o cominciare nuovamente ad interrogarsi. Un tentativo in questo senso lo abbiamo fatto alcuni di noi
insegnando nelle SISS...ma è stato poco e non abbiamo riscontri di cosa sia accaduto.
La seconda: la domanda secca potrebbe essere: filosofia trasversale e a tutte le ore o filosofia in un'ora precisa? Penso che un'ora di
libertà risponda ad un break down cioè alla possibilità di creare una situazione limite (break) che faccia cadere (down) lo steccato canonico
e dia spazio ad una modalità didattica diversa. Intendo dire che non è fuori dalle regole avere modalità didattiche diverse nelle varie ore del
calendario settimanale dello studente; di fatto, è già così. Sono rari gli esempi di collegi docenti e consigli di classe che si interrogano e
attuano una didattica condivisa. Allora non mi stupirei né mi stupisco che un gruppo-classe viva durante la settimana e per ciascuna
giornata didattiche diverse alcune delle quali anche escludentesi fra di loro. Non è la prima volta ed è così da sempre. Forse, un'ora di
filosofia può mettere in evidenza questo aspetto di incongruenza e sollecitare nuovi quesiti fra gli stessi studenti e docenti o addirittura
degli insight, nel bene e nel male, s'intende.
Sul fatto poi che gli studenti facciano filosofia o si interroghino per giungere ad una risposta della quale l'insegnante sia già titolare
avrei una perplessità. Questa perplessità è la stessa che mi ponevo quando a partire dagli anni Sessanta si chiedeva agli insegnanti di fare
ricerca didattica in scuola con gli allievi fingendo che gli alunni avrebbero trovato la risposta al problema posto e che questo avrebbe da un
lato favorito l'atteggiamento euristico del discente, dall'altro la capacità dello stesso studente di alimentare la sua conoscenza in un modo,
diciamo, attivistico. Questo secondo me è stato il grande imbroglio di una pedagogia e di una didattica pseudo attivistiche perché secondo
me la vera ricerca didattica, di tipo attivistico è: posto che le materie di insegnamento ci danno un certo sapere all'oggi e che questo sapere
41
Riflessioni inviate tramite email da B. Schettini agli amici di Amica Sofia, 25 giugno 2009.
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non è affatto neutrale, cosa ne facciamo ora - oggi - di questo sapere se lo utilizziamo per risolvere i problemi che il mondo, la natura, la
società, la storia e quanto altro ci pongono? proviamo ad applicare questo sapere? Ci sono risposte univoche o ci possono essere anche altre
risposte? ecc....
E ancora: esiste un altro sapere, concorrente con quello ufficiale, che può darci altre risposte rispetto a quello dei manuali e dei libri
di testo? Come è giustificato questo sapere? Come giustifichiamo i nostri comportamenti e i nostri modi di pensare, posto che non esiste
un'unica risposta e un unico modo di leggere le domande? Ecco quest'ultima domanda, secondo me, apre il discorso del fare filosofia a
scuola che contraddice i metodi chiusi di indagine come io preferirei definirli, perché sono metodi autoreferenziali che non aprono
alternative al sapere ufficiale, ma sono conchiusi nella posizione diadica classica o tradizionale del docente che sa e del discente che non sa
e che si approssima al sapere del docente attraverso metodi affatto aperti, ma che già contengono la risposta e quest'ultima la detiene il
docente. Io lo definisco "il metodo della finta ricerca e della falsa democrazia del sapere".
Non è un caso se la filosofia che sorregge il metodo chiuso di indagine faccia ampio riferimento alla filosofia di Dewey il quale, da
buon migliorista, americano conforme, riteneva che la scuola fosse un laboratorio nel quale riprodurre in piccolo - cioè didatticamente - la
società e i suoi problemi. La scuola come laboratorio di riproduzione, a misura dei discenti, della grande società e, dunque, un luogo di
socializzazione delle nuove generazioni come, di fatto, pensava anche il sociologo Durkheim a proposito dell'educazione, per favorire
l'ingresso indolore di esse in quelle adulte senza troppi scossoni per gli uni e per gli altri.
Non è neanche un caso se i Deweyani contemporanei non citino mai l'esperienza della Scuola-Città Pestalozzi di Firenze e che
quando la citano ne fanno un pezzo da museo. Credo che non sia un caso, però! Lì si faceva ricerca didattica perché i docenti si mettevano
in discussione e trasferivano questa inquietudine o atteggiamento euristico negli alunni. La scuola non era un luogo di riproduzione, bensì
di produzione. In fondo credo che l'atteggiamento filosofico sia quello di consentire la produzione di un pensiero non omologato e/o
omologante, bensì un pensiero originale - a tutti i livelli ed età - e che questo pensiero non risponda ad un principio di causa/effetto cioè
causal-lineare, ma ad un punto di vista fra gli altri che sia però suffragato dalla indagine e dai contributi di altri punti di vista concorrenti o
anche dal confronto dialettico con quei punti di vista contraddittori con quello espresso e con i quali si deve fare i conti fino all'
"experimentum crucis". Pronti a ricominciare e come è detto nel cartoon: "verso l'infinito e oltre".
Carpire l'ingenuità del bambino/ragazzo e fargli credere che stia facendo ricerca per poi condurlo a noi non è educazione, ma plagio
o, come scriveva la pedagogista Anna Lorenzetto: "asservimento".
Avviare i bambini e i ragazzi all'atteggiamento filosofico significa aprire loro l'orizzonte, non farli accontentare, gettare il seme
della inquietudine per una ricerca non già conclusa nel sapere del docente che, invece, dovrebbe sapere o sa di avere una risposta che in
ogni momento può essere falsificata anche grazie alle conoscenze che già possiede.
Didattica trasversale o in un'ora? La domanda non è infondata, ma ci potrebbe anche essere un'altra domanda: una didattica della
filosofia con bambini e ragazzi, ma per fare che cosa? Quì il mio riferimento andrebbe ovviamente a Paulo Freire.
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Se la filosofia è domanda di senso, di riorientamento continuo, di conoscenza nuova ascrivibile ad un percorso di riflessività ed
autoriflessività, di comprensione, allora il metodo della ricerca filosofica con i bambini/ragazzi, pur severamente regolamentato, non deve
avere già la risposta finale nella conoscenza dell'insegnante anche se questa coadiuva, sostiene e incoraggia gli interrogativi del postulante
filosofo, ma in quel rigore metodologico del fare conoscenza che non appartiene a nessuno ma all'umanità, in quel rigore metodologico che
apre orizzonti e dischiude a nuovi quesiti lasciando liberi e non sottomettendo l'allievo ad un percorso di allineamento che gratifica
momentaneamente l'ingenuità dell'alunno e straordinariamente il docente.
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Appunti sparsi II42
I - Un nuovo modo di intendere la formazione dovrà trovare la strada di un pensiero dialogico. Che cosa significa dialogica?
Significa che due logiche, due „nature‟, due principi sono connessi in un‟unità senza che con ciò la dualità si dissolva nell‟unità. Stanno in
ciò le radici di quell‟idea di „unidualità‟ da me proposta in taluni casi: così l‟uomo è un essere uniduale, nello stesso tempo completamente
biologico e completamente culturale”43. Sembra un principio, così come esposto da Edgar Morin, che a prima vista poco interessa alla
pedagogia. Invece, esso diventa comprensibile e agibile quando si tratta di definire il nuovo tipo di “identità” che si viene a creare
nell‟incontro dialogico-relazionale tra due o più persone chiamate in un percorso di co-costruzione dell‟identità personale in via di crescita
e del proprio sapere. In fondo, colui il quale entra in un rapporto dialogico-relazionale, e quindi circolare, di incontro con l‟altro inizia un
percorso personale di crescita incontrando altri modi di pensare e di spiegare le cose. E‟ questa la funzione della dialogica, di questo
particolare dispositivo metodologico che nella vita relazionale, nell‟incontro tra due vite, due mondi, due idee diverse della realtà, ci
trasforma, diventa conciliazione, in una sola persona, di opposti. Una metodologia dialogica pone come assunto di base del suo motore
pedagogico una sorta di autolimitazione della propria persona. Autolimitarsi non è cancellarsi, è fare spazio a ciò che è diverso da me, alla
diversità. Diversamente non potrebbe esserci dialogo, né la prospettiva che tra due cose, tra due soggetti possa verificarsi qualcosa di
nuovo. Se l‟identità, di almeno uno dei due, non si trae indietro, non ci potrebbe essere spazio per l‟inabitazione dell‟altro nel proprio
mondo personale44. La stessa idea di autolimitazione non va intesa come momentanea precauzione (strategia) metodologica per permettere
un dialogo a tempo e destinato a terminare appena una parte abbassa la guardia o si fa convincere dall‟altro. La dialogica applica la decostruzione, è un invito costante a prendere le distanze dai modelli forti, autoritari e securizzanti, a guardare con una certa criticità il
sistema culturale/formativo e sociale in cui si è cresciuti, convinti che non sia necessariamente il migliore. Autolimitarsi, per chi fa
formazione, è importante, significa partire dalla considerazione che ci sono pensieri diversi dai nostri, spiegazioni diverse dalle nostre, ritmi
(rtimi individuali di apprendimento) e tempi (tempi individuali di apprendimento) diversi per arrivare al sapere. Ci costringe a riconoscere
la “verità” che è nel pensiero dell‟altro e a fare spazio alla diversità dei mondi e dei modi di pensare che consentono di spiegare e
comprendere il mondo circostante con categorie di volta in volta adeguate al personale ritmo di crescita.
Il primo passo per la decostruzione è accettare di depotenziare il proprio io, di diminuire perché l‟altro cresca. Ciò perché ci si trova
in una situazione di interdipendenza asimmetrica in cui uno (l‟insegnante) ha più potere.
42
Riflessioni inviate tramite email da B. Schettini agli amici di Amica Sofia, 3 gennaio 2011.
E. Morin, Le vie della complessità, in G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano 1997, p.57
44
Si veda P. Ricoeur, Etranger, moi-meme, in AA.VV. Immigration: defis et richesses, Bayard Edition-Centurion, Paris 1998.
43
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II - Nel ricomporre la dialettica spiegare/comprendere, per la quale spiegare e comprendere «non si riassumono in un "rapporto di
esclusione", ma nel processo di interpretazione dei testi, ove la dimensione epistemologica e quella ontologica possono articolarsi in un
intreccio nuovo e fecondo», la conclusione a cui perviene Ricoeur è duplice:
a) sul piano epistemologico non ci sono due metodi, l'uno esplicativo e l'altro comprensivo. «La comprensione è il momento non
metodico che si compone con il momento metodico della spiegazione. A sua volta, la spiegazione svolge analiticamente la comprensione»,
nella prospettiva dello «spiegare per meglio comprendere». Questo processo appartiene indistintamente agli adulti quanto ai bambini anche
se con modalità diverse.
In questa direzione diventa allora possibile situare «la spiegazione e la comprensione a due stadi diversi di un unico arco
ermeneutico» dal cui rapporto dialettico emerge l'interpretazione, che racchiude il "senso" immanente del testo e che dà origine al «circolo
ermeneutico» inteso come «struttura insuperabile della conoscenza applicata alle cose umane.
Ricoeur ribadisce esplicitamente il presupposto esistenzialistico della complementarità tra epistemologia e ermeneutica allorquando
sostiene che «comprensione e spiegazione non si oppongono come due metodi. In senso stretto, solo la spiegazione è metodica. La
comprensione è il momento non metodico che precede, accompagna e circonda la spiegazione. In questo senso, la comprensione include la
spiegazione. Di rimando, la spiegazione sviluppa analiticamente la comprensione».
In Ricoeur non c'è posto per l'aut-aut del metodo e della verità: il luogo privilegiato della loro articolazione è il testo. L'ermeneutica
si definisce come lavoro dell'interpretazione testuale.
Testo è qualsiasi discorso fissato dalla scrittura, irriducibile alle modalità discorsive del dialogo ed autonomo dall'intenzione
soggettiva dell'autore. Esso si realizza nella complessa relazione con l'atto della lettura, che a sua volta appare un atto nel quale si completa
l'autonomia dell'opera e si dischiude il destino aperto del testo: grazie alla lettura, spiegazione e comprensione si oppongono e si conciliano
integrandosi
Il fine della lettura non è tanto quello di recuperare l'intenzione presunta dell'autore quanto quello di mettersi in ascolto del testo,
confrontarsi con esso in una sorta di dialogo a distanza che ci invita a comprendere meglio il senso veicolato dal testo stesso.
L'autore del testo parla attraverso il testo ma questo, per molti aspetti, se ne libera; chi resta a parlare è il testo, che ci trasporta nel
suo mondo e ci orienta nella sua direzione in virtù della dinamica dello spiegare e del comprendere, cioè dell'interpretare: «spiegare è
liberare la struttura, cioè le relazioni interne di dipendenza che costituiscono la statica del testo; interpretare è intraprendere il cammino di
pensiero indicato dal testo, mettersi in marcia verso l'oriente del testo»
«In breve, sia dal punto di vista psicologico che sociologico, il testo deve potersi decontestualizzare in modo da lasciarsi
ricontestualizzare in una nuova situazione: precisamente questo costituisce l'atto di lettura». E non è forse anche il senso della filosofia?
Esporsi al testo significa ricevere dal testo «un io più vasto», in quanto con la lettura e la comprensione del testo si viene introdotti
nelle «variazioni immaginative dell'ego» che il testo stesso dispiega. Comprendere, dunque, è «comprendersi davanti al testo»:
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comprendersi, per il lettore, significa comprendersi davanti al testo e ricevere da esso le condizioni di emergenza di un sé altro dall'io e che
suscita la lettura.
Come un testo, così l'azione umana è un'opera aperta, il cui significato è “in sospeso”. È perché essa “apre” delle nuove referenze e
ne riceve una pertinenza nuova che anche gli atti umani sono in attesa di nuove interpretazioni che decidono del loro significato. Tutti gli
eventi e tutti gli atti significativi sono, in questo modo, aperti a questa sorta di interpretazione pratica grazie alla prassi presente. L'azione
umana, anch'essa, è aperta a chiunque sappia leggere. Dall'ermeneutica del testo si passa così all'ermeneutica dell'azione, nella direzione di
una prassi rischiarata da quel comprendersi davanti al testo» nel quale «l'io si riconosce come Sé». Ricoeur è dunque consapevole che la
propria ermeneutica non dimentica mai che tra l'atto di dire (e di leggere) e l'agire effettivo il legame mimetico non è mai del tutto spezzato
poiché fra le cose dette ci sono le esperienze di uomini che agiscono e che soffrono, e che gli stessi discorsi sono a loro volta azioni.
42
La Filosof-azione con i bambini45
Helene Schidlowsky, docente di filosofia alla Haute Ecole “F. Ferrer” di Bruxelles, scrive che «già da piccolo il bambino si pone
tutte le questioni filosofiche che sono dotate di un senso: intorno alla vita, alla morte, all‟amore, al tempo, al pensiero.. I bambini
interrogano il mondo molto precocemente ed è qui il punto di partenza della pratica filosofica. La filosofia è intesa qui come questione e
non come sapere che accompagna la meraviglia e lo stupore di fronte al mondo. Un corso di filosofia con i bambini non sarà un luogo nel
quale si espone la teoria platonica ma un luogo dove li si impegna a porre le loro domande, a svilupparle e a riferirle al mondo».46 Nello
stesso tempo, scrive Maria Antonella Galanti, «la filosofia nella sua veste di riflessione sugli aspetti fondanti dell‟esistenza – la vita e la
morte, la giustizia, il bene e il male, il conflitto, l‟amore e l‟odio – non può essere insegnata, […] ma può solo essere praticata
dialogicamente, confrontando il proprio linguaggio specialistico con altri linguaggi legati a soggetti o a contesti diversi». 47
Sui punti citati condivido il pensiero della Schidlowsky e della Galanti, tanto da sostenere che ogni pratica educativa che sottragga il
bambino alla possibilità della domanda affinché dia risposte ai nostri quesiti, comunque posti, sia pure nella comunità definita di ricerca, è
di fatto una forma di violenza che rientra a pieno titolo nella “pedagogia nera”, così definita dalla psicologa polacca Alice Miller 48 e
parimenti da ritenere che qualsiasi conversazione fra adulto e bambino che utilizzasse solo il linguaggio convenzionale tenderebbe a
mancare sia di profondità di espressione che di comprensione, da esseri umani, non ci sarebbe bisogno dell‟arte, della musica, del teatro o
della poesia. Posti i termini del discorso, aggiungo che da un lato la filosofia è un‟esperienza del pensare49 e che, come tale, si addice a ogni
età, dall‟altra, ritengo che essa favorisca l‟empowerment alla cittadinanza in quanto la problematizzazione filosofica non è un
intrattenimento intellettuale, sia pure a scopo didattico, alienato e alienante, una fuga dall‟azione, un modo per nascondere la negazione del
reale, ma è inseparabile dall‟atto stesso della conoscenza e dalla situazione concreta che non soltanto costituisce il contenuto su cui la
conoscenza pone il suo cimento, ma anche l‟incipit del processo riflessivo.
In questo senso la problematizzazione filosofica è un atto squisitamente pedagogico, non didattico, in quanto è il motivo per cui,
partendo dalla situazione concreta, costringe ogni ragionamento a un confronto che implica un ritorno critico all‟azione stessa dalla quale si
45
B. Schettini, La Filosof-azione con i bambini, in AmicaSsofia | dicembre 2010
H. Schidlowsky, La filosofia per bambini: una educazione alla felicità e alla democrazia, Dossier International de: “L’AGORA” – Revue internationale de
didactique
de
la
philosophie
(http://www.fasf.uniba.it/area_docenti/documenti_docente/materiali_didattici/45_La_filosofia_per_bambini_Schidlowsky.pdf).
47
A. Galanti, Introduzione. Curiosità, sperimentazione e meraviglia come stimoli per la conoscenza, «Ead», 2008, p.24.
48
Cf. A. Miller, La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987.
49
Cf. G. Valera-Villegas, G.M. y Arleny Carpio, La filosofia como experiencia del pensar, Fundación Imprenta de la Cultura, Caracas 2008.
43
46
era partiti. Parte da essa e da essa ritorna.50 Per questo considero tale pratica filosofica con i bambini una vera e propria attività di “filosofazione” una pratica cioè trasformativa – non meramente socializzatrice e didattica – che impegna azione e pensiero per tornare all‟azione.
In questo senso tendo a distinguere fra simulazione didattica e processo educativo in quanto la prima è artefattamente costruita dall‟adulto
per conseguire obiettivi prefissati di conoscenza e di comportamento, il secondo è un ingaggio fra due o più persone che sono coprotagoniste in un percorso fondamentalmente paranormativo aperto cioè all‟imprevedibilità tipica di ogni sistema vivente umano, e di cui
si fa carico l‟azione educativa. Percorso che ammette l‟autovalutazione, la customer satisfaction, e una valutazione di tipo formativo, più
che certificativa in senso stretto, anche perché sarebbe ben arduo utilizzare prove di valutazione docimologica individuale in situazioni in
cui il sapere è diffuso e irradiante cioè condiviso per contaminazione. Per questo concordo – benché a ciascuno debba essere riconosciuto il
diritto di optare fra le varie proposte – con chi non condivide percorsi vincolanti come racconti creati ad hoc, rigide sequenze di tappe
operative e la proposta indifferenziata e indiscriminata di contenuti e attività a bambini/e appartenenti a contesti socio-geografici-culturali
diversi. Anzi, l‟intolleranza a percorsi diversi, di tipo non strettamente curriculare, e al confronto con essi è tipica dei modelli didattici
autoritari sia pure occultati attraverso il riferimento ad autori considerati, a torto o a ragione, progressisti. Il mio riferimento letterario,
allora, va a Gilles Deleuze51 e più ancora a Jacques Ranciére52 secondo il quale, come riferisce Walter O. Kohan, «chi insegna accompagna
l‟esperienza di chi apprende senza sapere il luogo cui intende giungere l‟altro e si preoccupa, soprattutto, affinché questa ricerca si possa
realizzare con attenzione.
Chi insegna ignora, oltre a ciò che si dovrà conoscere, anche qualsiasi precedente disuguaglianza relativa al pensiero: solo se siamo
intellettualmente uguali possiamo avere un‟esperienza di apprendimento e insegnamento in grado di trasformare tutti i partecipanti. In
questo contesto uguaglianza non significa assenza di differenza bensì assenza di gerarchie in campo intellettuale. Siamo umani perché
pensiamo e se non siamo tutti nella stessa condizione di pensiero avremo, con tale presupposto, mutilato sfacciatamente e irreparabilmente
l‟umanità».53
In questo modo Kohan precisa magistralmente quello che ho inteso dire quando ho scritto, in precedenza, circa la differenza fra
pratica didattica e pratica educativa, la diversità delle opzioni metodologiche in campo, il co-protagonismo di educatore e educando nel
processo educativo e l‟imprevedibilità di ogni azione autenticamente umana anche in risposta a input educativi e a prescrizioni al
cambiamento pure previsti nel setting educativo.
50
Cf. J.E. Corona, Talleres de filosofia para niños. Un espacio para el desarrollo de la lectura, la escritura y la expresión oral, «Revista del Programa de
Educación Básica con énfasis en lengua castellana», 5, 2008.
51
G. Deleuze (1968), Differenza e ripetizione, il Mulino, Bologna 1972.
52
J. Ranciére (1987), O mestre ignorante, Autêntica, Belo Horizonte 2002.
53
W.O. Kohan, Infanzia e filosofia, a cura di Chiara Chiapperini, Morlacchi Editore, Perugia 2006, p.13.
44
Un autentico fare educativo implica «che insegnare e apprendere filosofia significhi condividere un gioco che fa del pensiero
un‟esperienza aperta, imprevedibile, trasformatrice. Significa aprire il pensiero a un‟avventura che permetta di andare più in là del già
pensato, che dia, ogni volta, la possibilità di pensare a se stesso, senza condizioni. Incontrare il pensiero dei filosofi, interrogarsi e creare
concetti con loro. Non credere in nessun‟altra cosa se non all‟impossibilità di continuare ad essere nello stesso modo in cui si era
all‟inizio»;549 anzi, l‟incapacità auto e co-trasformativa di chi propone la filosofia con i bambini restando immutabili, come simulacro sub
specie aeternitatis, è la prova certificata che si tratta di una proposta didattico-curriculare e non educativa e, in quanto proposta didattica è
cosa altra da un autentico pensare che fa della filosofia lo strumento per eccellenza per non continuare ad essere nello stesso modo in cui si
era all‟inizio di tale percorso e, dunque, uno strumento pedagogico del quale si assume, per intera, tutta la dignità del termine “strumento”.
E‟ fuori discussione che la filosof-azione non sia assimilabile a una pratica nel senso pragmatico del termine in quanto essa è una modalità
prassica cioè trasformatrice e non meramente socializzatrice e didattica; nel senso prassico, la filosofia con i bambini o con gli adulti si
coniuga strattemente con la prassi politica sia perché lo scopo fondante della pratica filosofica fu sin dagli inizi, nel pensiero socraticoplatonico, politico-pedagogico, sia perché come progetto per il cambiamento essa si pone nella linea del perseguimento di obiettivi concreti
che in quanto tali ammettono necessariamente il coinvolgimento dell‟ambito socio-politico. In questo senso mi piace il riferimento, ancora
una volta a Kohan: «perché diciamo che si tratta di un lavoro politico? Perché a partire dall‟intervento filosofico possiamo pensare a ciò
che solitamente si mostra impensabile, ridicolo, impossibile, assurdo; si apre la possibilità di pensare a un altro mondo radicalmente
diverso dal mondo che pensiamo e abitiamo. In altre parole, la filosofia è un lavoro politico del pensiero. Nella misura in cui ci permette di
pensare a un altro mondo, nello stesso tempo ci aiuta a pensare a ciò che oggi si pretende sia impossibile da pensare. La filosofia ci aiuta a
costruire in un altro tempo e in un altro spazio ciò che oggi non ha né tempo e né luogo in questo mondo».55
Da questo punto di vista il mio riferimento si dirige spontaneamente verso la figura di Gramsci, al Gramsci filosofo, dunque politico
e, dunque, educatore. Ma questa è una scelta non “riduttivamente” politica bensì anche epistemologica. Allora, da filosofo alle prime armi,
ma da pedagogista smaliziato, mi sorge spontanea una domanda: cos‟è l‟educazione? E senza attendere che altri diano la risposta al posto
mio, dico che l‟educazione autentica è “provocatoria mai omologante”, “eversiva mai neutrale”, “trasgressiva mai normalizzatrice”,
“perturbante mai acquiescente”, “rivoluzionaria mai reazionaria”. In questa direzione provo a immaginare le categorie dello
“spiazzamento”, dello “stupore” e della “meraviglia” in modo diverso, non riferite cioè alla scoperta di contenuti, ma alla scoperta della
natura diversa del metodo di approccio alla realtà e alla conoscenza ovvero dei modelli interpretativi della realtà. E, dunque, lo
spiazzamento inteso come lo scoprirsi fuori dai comuni percorsi della conoscenza e di un diverso posizionamento personale nel cammino
verso di essa e lo scoprire che ciò è possibile e che c‟è un luogo metaforico in cui ciò si rende possibile; lo stupore quale scoperta e presa
54
55
Ivi, p. 16.
Ivi, pp. 19-20.
45
d‟atto che si può pensare, agire anche in modo diverso dal mio e da quello che ci viene continuamente trasmesso e nello stesso tempo lo
scoprire che in quel luogo metaforico ciò è legittimo anzi è la regola; la meraviglia quale scoperta che anche io posso pensare
legittimamente in modo diverso dagli altri e in modo diverso anche da come pensavo prima e nello stesso tempo scoprire anche che questa
diversità costituisce la molteplicità dei punti di vista tutti aventi pari opportunità.
E, dunque, il modello del fare filosofia è un modello cibernetico, dove l‟incipit dell‟algoritmo è una domanda alla quale è pertinente
rispondere con un‟altra domanda perché gli indizi che consentono di darsi delle risposte, appunto, sono solo indizi, frammenti di avvio alla
conoscenza, come ci insegna l‟epistemologia che accompagna la teoria della complessità. Ma si tratta di una conoscenza non curriculare,
bensì esperienziale che nasce da un apprendimento autenticamente significativo e un apprendimento è significativo quando, come scrive P
Jedlowski, è consistente56 e come tale consente di attribuire significato. Questa è un‟esperienza di filosofia che apre la porta alla vita e si
nutre degli interrogativi fondamentali della vita stessa: cos‟è la vita e cos‟è la morte; perché il dolore e cos‟è la felicità; cos‟è la realtà e
cos‟è la natura; chi è l‟uomo e che cos‟è ciò che è diverso dall‟uomo; cos‟è la conoscenza e cos‟è ciò che chiamiamo inconoscibile; esiste
un dio e se esiste chi è, e se non esiste perché ce lo rappresentiamo… Tuttavia occorre sapere riconoscere che prima ancora che una
“domanda di senso ed eziologica”, attraverso i loro “perché” i bambini esprimono una “domanda di cura e di attenzione” che non possiamo
trasformare, per nostro comodo, in una domanda gnoseologica, a scopo didattico; sarebbe una forzatura o, per dirla con la A. Miller, una
violenza.
Sono domande che accompagnano da sempre l‟uomo, ogni uomo, e alle quali egli ha dato risposte diverse nel tempo secondo le sue
possibilità; ed ecco allora le cosmogonie, le teogonie, le mitologie, le filosofie allorquando la risposta non è stata più di tipo teosofico e
teologico bensì gnoseologico e antropologico e la stessa domanda non era più di tipo né finalistico né morale; tuttavia, ancora oggi le
risposte spesso intrecciano i vari percorsi compiuti dall‟umanità attraverso il tempo. La filosofia con i bambini, ma anche con gli adulti, è
una risposta che pone al centro la svolta antropologica. Ed è per questo motivo che la filosofia – la filosofia non professionale, non
curriculare – non appartiene a nessuna scuola e a tutte, ma preminentemente appartiene all‟uomo e, dunque, ha un valore pedagogico ed
esprime una scelta politica.
56
Cf. P. Jedlowski, Il sapere dell’esperienza, Il Saggiatore, Milano 1994.
46
La filosofia con i bambini: quale pedagogia, quale comunità57
Il punto del discorso
Come è stato illustrato nell‟articolo precedente,58 con l‟introduzione del costrutto definito di “filosofazione” è stato descritto il tipo
di approccio filosofico alla pratica della filosofia con i bambini e, dal punto di vista pedagogico, con il riferimento a una pedagogia
dell‟autonomia è stato brevemente delineato anche verso quale processo educativo ci si intende orientare posto che sia stata esclusa
l‟opzione strettamente didattico-curriculare. Dal punto di vista pedagogico, fare filosofia con i bambini vuol dire sollecitarli a praticarla
come ricerca di una identità che si va compiendo lungo tutto il corso della vita e che, dunque, esige in fieri un atteggiamento personale di
costante messa in discussione. Si tratta di considerare la filosofia come attività di ingaggio alla comprensione di sé e del mondo che la
pratica del vivere quotidiano necessariamente comporta; è anche un accompagnare i bambini nel loro tentativo di interrogare il mondo
attraverso l‟avvio di una pratica discorsiva che sappia valorizzare il loro pensiero concreto e consenta anche di esternarlo non con logica
adulta, ma con quella che essi sono capaci di esprimere e comprendere. Tale pratica mira a educare a un modo di pensare che opta per un
paradigma epistemologico di tipo narrativo più che scientifico in senso stretto.
La filosofia con i bambini diventa, così, un‟esperienza del “pensare-concreto”, dove la problematizzazione non è un atto del
conoscere distaccato dal reale, ma da questo prende l‟avvio per dirigere il ragionamento e consentire la rivisitazione del punto di partenza.
Per questi motivi, la filosofia con i bambini è un‟attività di “filosof-azione” nel senso di una prassi trasformatrice in cui azione e pensiero
costituiscono un tutt‟uno operazionale. Pertanto, la filosof-azione non può essere considerata una simulazione didattica dove sono presenti
itinerari e obiettivi prefissati dall‟adulto secondo le esigenze di un sapere e di una logica formalmente costituiti, ma un vero e proprio
processo educativo che vede coinvolte due o più persone che diventano co-protagoniste di un percorso aperto all‟imprevedibilità. Per la sua
azione trasformatrice, la filosof-azione più che una pratica è una prassi, non meramente socializzatrice e didattica. In linea con il pensiero
di Kohan, si può affermare che la filosofia è un lavoro politico del pensiero che permette di pensare a un altro mondo, a ciò che oggi
crediamo assurdo, irrealizzabile. Insegnare e apprendere filosofia diventa, quindi, un gioco in cui il pensiero, con la sua azione
trasformatrice, va oltre il già pensato, oltre il risaputo, oltre la falsa credenza che nulla di questo mondo si possa cambiare.
Due paradigmi costituenti
Nel presente studio ci si vuole soffermare su due concetti ritenuti fondativi; il primo attiene strettamente alla scelta di un concetto di
“educazione vs didattica” e il secondo attiene al costrutto di “comunità di pratica vs comunità di ricerca”, anche se concetti e costrutti non
sono fra di loro alternativi. Il costrutto di base è quello che considera l‟apprendimento in prospettiva socio-culturale all‟interno del quale è
57
58
La filosofia con i bambini: quale pedagogia, quale comunità, di Bruno Schettini e Egidia Lotti, in Amica Sofia, luglio 2011.
Cfr. B. Schettini, La Filosof-azione con i bambini, «Amica Sofia», 2/2010, pp. 27-29.
47
ampiamente riconosciuto che la dimensione soggettiva del nostro conoscere e imparare avviene attraverso la partecipazione a più sistemi
sociali di apprendimento.59 Coniugando i due approcci e con riferimento ai bambini, appare interessante il richiamo alla prospettiva
winnicottiana60 secondo la quale, a parere di chi scrive, sarebbe possibile considerare la filosof-azione come un apprendere insieme
attraverso il gioco inteso come quella situazione nella quale, fin dalla nascita, cominciamo ad apprendere, a conoscere e a costruire e ricostruire immagini mentali su un mondo esterno, ma anche interno. Gioco attraverso il quale bambini e adulti, interagendo, possono
liberamente dare luogo alla loro creatività in uno spazio transizionale; spazio che consente di sviluppare un pensiero relazionale e a suo
modo critico in grado di esprimere una pluralità di repertori di narrazione, descrizione, spiegazione e di partecipazione graduale alla
dimensione manipolativa/trasformativa della realtà.61
In questo modo si è già venuto delineando il costrutto paradigmatico dell‟attività prassica della filosof-azione con riferimento ai
nodi delle relazioni e dei legami sociali (comunitari) veicolati dalle dinamiche del prendersi cura che il tema dell‟educazione introduce, ma
anche lo strutturale rapporto che conoscenza e apprendimento istituiscono con l‟azione (nodo politico) e con i contesti di azione all‟interno
dei quali «le forme soggettive e private del conoscere e dell‟apprendere possono trovare espressione pubblica riconoscibile, mediata
attraverso transazioni discorsive e reticoli relazionali».62
E‟ resa così più stringente l‟opzione di fondo che considera la costruzione dell‟identità nella sua forma dinamica e narrativa.
Identità che si viene costruendo proprio attraverso l‟esperienza dell‟impegno concreto nella pratica della vita quotidiana, nella negoziazione
costante dei significati, che in essa avviene e che invita – costringe – anche allo svelamento della responsabilità personale sul significato,
che non può accadere all‟interno di logiche adulte (im)poste dall‟esterno artificiosamente e in modo non dichiarato al bambino stesso sia
pure sotto forma di dialogo. In questo modo il dialogo manifesta tutta la sua re-sistenza verso un ascolto capace di accogliere e
dialogicamente accettare, nel senso moriniano,63 quella pluralità di repertori già richiamati in precedenza. Il dialogo, infatti, come la logica
presente nelle aule, esige un punto di arrivo, come sottilmente esigeva Socrate; punto di arrivo che Socrate già conosceva rispetto al suo
interlocutore così come l‟insegnante. Questo non è più un gioco, nel senso winnicottiano, né un apprendere dalla prassi quotidiana
attraverso la vita di relazione per riferire nella comunità di pratica dove responsabilmente negoziare i significati in prima persona, né un
59
Il riferimento immediato è alla psicologia culturale di J. Bruner e all’orientamento situazionale e costruzionista di A. Bandura.
D.W. Winnicott, Gioco e Realta, Armando, Roma 1974 [1971].
61
Sul punto, in questo stesso numero, cfr. V. Giugliano, Il gioco del filosofare. Dialogare con bambini di sei anni; L. Formenti, La metacognizione e la
facilitazione cognitiva, in Scandella O. (a cura di), Interpretare la tutorship a scuola. Nuovi significati e pratiche nella scuola dell’autonomia, Franco Angeli,
Milano 2007, pp.159-171.
62
G. Scaratti, L’(in)effabile dicibilita delle comunita di pratica, “Prefazione” all’edizione italiana del volume di E. Wenger, Comunita di pratica.
Apprendimento, significato e identita, Raffaello Cortina, Milano 2006, p. XX.
63
Cf. E. Morin, Le vie della complessita, in G. Bocchi, M. Ceruti (a cura di), La sfida della complessita, Feltrinelli, Milano 1997.
48
60
crescere pedagogicamente sano nella identità. Poco importa se l‟attività del filosofare del bambino, magari da lui positivamente rimembrata
in età più matura, e l‟uso di una struttura logica adulta sin dalla più tenera età diventano per l‟insegnante testimonianza positiva del
successo dell‟impresa didattica. Dal punto di vista del costrutto paradigmatico dichiarato in apertura dello studio, «l‟educazione, nel senso
più profondo, e a qualunque età avvenga, concerne l‟apertura di nuove identità – ossia l‟esplorazione di nuovi modi di essere che
travalicano la nostra condizione attuale.
Mentre la formazione mira a creare una traiettoria diretta verso l‟interno, intesa a sviluppare la competenza in una pratica specifica,
l‟educazione deve puntare ad aprire nuove dimensioni per la negoziazione del Sé. Posiziona i discenti su una traiettoria diretta all‟esterno,
verso un vasto campo di possibili identità. L‟educazione solo formativa, è anche trasformativa». 64 L‟educazione, a differenza della
didattica, si occupa prevalentemente, se non esclusivamente, di costruzione dell‟identità e di modalità dell‟apprendimento e marginalmente
di abilità e di conoscenze, anche se non ne misconosce l‟importanza, ma si affida alla didattica curriculare e non a se stessa, poiché essa
enfatizza il significato e non le meccaniche dell‟apprendimento; infatti, «le meccaniche di apprendimento devono assolutamente essere
presenti, ma non devono assumere un ruolo centrale, né diventare l‟oggetto primario della progettazione educativa», 65 cosa che invece
avviene nelle didattiche curriculari laddove «la focalizzazione sulle meccaniche dell‟apprendimento a spese dei significati tende a rendere
problematico l‟apprendimento stesso reificandolo come processo e reificando i partecipanti come discenti. Imparare una parola nuova, per
esempio, è molto più difficile se lo scopo è memorizzarla in un elenco, anziché includerla in attività significative».66
«Da questo punto di vista, lo scopo della progettazione educativa non è appropriarsi dell‟apprendimento e istituzionalizzarlo in un
processo strutturato, ma supportare la formazione di comunità di apprendimento»,67 per evitare di riprodurre le comunità e le economie di
significato che stanno all‟esterno e che sono imposte ai bambini dall‟adulto anche se con metodologie finemente elaborate. La filosofazione con i bambini, pertanto, dal punto di vista pedagogico non appartiene alla categoria didattica della ricerca di soluzione di problemi o
a una euristica ripiegata sue stessa, ma a quella della costruzione delle identità in contesti situati attraverso la negoziazione di significati dei
quali si viene assumendo nel tempo la responsabilità. I tempi sono quelli individuali dell‟apprendimento di ciascun bambino, non quelli
posti dall‟esterno secondo ritmi di una logica che non appartiene al bambino stesso bensì all‟adulto e alle finalità della scuola. Questo è
proprio l‟errore della scuola come istituzione formativa omologante ed è anche la sua paradossale contraddizione. Affrontare questo
paradosso è proprio dell‟educazione, non della didattica. Il paradosso è lasciare che i bambini diventino ciò che non sono – in termini di
identità – e iniziare ciò che non si può iniziare a meno che, nella reciprocità, anche l‟adulto accetti la prospettiva del cambiamento per sé e
64
E. Wenger, op. cit., p. 293.
Ivi, p. 296.
66
Ibidem.
67
Ivi, p. 301.
65
49
la rinegoziazione dei suoi significati sia all‟interno della comunità di pratica sia nel confronto con altre comunità di pratica.6812 In questo
senso, è condivisibile l‟affermazione di chi, in riferimento a pratiche di filosofia con i bambini di impostazione deweyana, ritiene, pur senza
notare la contraddittorietà dell‟enunciato, che «se trata de entender que la filosofia como forma de pensar y de un vivir individual y
colectivo, hace del pensamiento una acción social que compromete a todas las personas en su desarollo ciudadano. Se trata, entonces, de
tener en la “comunidad de investigación” a niños que estén libres de algún tipo de adoctrinamiento, reglas o ideologías que sean
incompatibles con el desarrollo de su libertad de pensamiento. Lo que se desea es ir preparando a personas con identica propria, dueños de
sus pensamientos y que sepan o estén conscientes de por qué piensan como piensan y en qué se basan para ello».69
Pertanto, se la finalità dell‟educazione non è semplicemente quella di preparare gli studenti all‟acquisizione di una determinata
capacità o abilità, ma quella di dare loro una percezione delle possibili traiettorie a disposizione nella varie comunità allora la pratica di
filosofia con i bambini non può scaturire da un‟unica letteratura – l‟unica possibile70 – sganciata dalla comunità di pratica e dalle altre
comunità con cui occorre confrontarsi.
Considerazioni finali
La filosof-azione è dunque il luogo in cui più identità si incontrano, dove il sé di ognuno si riconosce e non si arresta di fronte a
nulla di ciò che obbligatoriamente si deve pensare, conoscere, sapere, ma va oltre il già dato, il risaputo, per scoprire nuove potenzialità. La
filosof-azione diventa, pertanto, il luogo in cui, nella negoziazione di significati, non si corre il pericolo di rinunciare alla primitivita intesa
come l‟opportunità dell‟uomo di andare oltre i confini già predefiniti di ciò che si riconosce come culturale per riscoprire «il tessuto vivo
del proprio pensare e sentire, del proprio avvertire e percepire, dell‟apprezzare, godere e intravedere, e della singolarità del proprio
esprimere.71
68
Cfr. ivi, p. 308.
B. Álvaro Márquez-Fernández, Yésika Rincón, La comunidad de investigación como práctica educativa en la filosofía para ninos y ninas de M. Lipman, in
G. Valera-Villegas, G. Madriz, A. Carpio (a cura di), La filosofía como experiencia del pensar, Fundación Imprenta de la Cultura, Caracas 2008, p. 180.
70
Sul punto, scrive Valera-Villegas: «a este respecto vale la pena referir aquí algunas perspectivas que se han hecho en torno a la enseñanza de la
filosofia y el problema filosófico que lleva aparejado: en primer lugar, tenemos la de Mathew Lipman, contenida en su programa “Filosofía para
niños”. El llamado modelo Lipman, como se sabe, está basado en el uso de unas istoria (Harry, Pixie, Elfie, entre otras), las cuales fueron escritas
para ser leídas y discutidas en grupo, y en él los alumnos deben dialogar entre ellos, constituyendo así una comunidad de investigacíon
(community of inquiry)» (.Filosofía en la escuela? Formación, pensamiento e infancia, “Presentación” in G. Valera-Villegas, G. Madriz, A. Carpio (a cura
di), op. cit., p. 13.
71
E. Ducci, Approdi all’umano. Il dialogare minore, Anicia, Roma 1992, p. 24.
50
69
In tale contesto, «l‟educatore deve esserci e non esserci, essere presente e attivo ma non lasciare segni della sua presenza». 72 Nella
narrazione aperta della filosof-azione è proprio l‟idea di uomo il cardine di questo agire filosofico e la dia logicità il luogo metaforico e/o il
setting in cui si attua l‟educabilità.
72
Ivi, pp. 36-37.
51
FILOSOF-AZIONE!
Ma di che stiamo parlando?73
In un mio precedente articolo introdussi il neologismo filosof-azione,74 collegato alla filosofia con i bambini, con i giovani e gli
adulti, e ne spiegai il motivo. Alcuni obiettarono che fosse un termine estraneo alla filosofia, per di più cacofonico, e che, in fondo, già
esisteva la dizione “filosofia pratica”. Risposi che avrei scritto un secondo articolo per rendere ragione del neologismo, avendo cura di
distinguere fra quella pratica che negli ambienti pedagogici e didattici è la traduzione lineare del termine pragma caro al pensiero del
filosofo pragmatista per eccellenza, l‟americano John Dewey, e praxis che fa capo alla filosofia marxiana e, in specie, per quanto mi
riguarda, al pensiero di Antonio Gramsci.
Il neologismo filosof-azione deriverebbe, secondo alcuni, dalla più esplicita denominazione filosofia dell‟azione. Ciò potrebbe stare
bene se la specificazione soggettiva e oggettiva stesse a indicare non soltanto che l‟azione, nel suo porsi letterario e politico, si fa filosofia
(specificazione soggettiva), ma anche che la filosofia nel discutere il suo oggetto - che è l‟azione - assumesse quest‟ultimo come oggetto
del suo stesso esistere e pensare (specificazione oggettiva). Ovviamente sto parlando di un pensiero che, prima ancora di essere immateriale
è materiale; parlo di un‟azione che è pratica del pensare e del pensare prospettico. Il termine filosof-azione, per me, risponde
contemporaneamente ad una specificazione indiscutibilmente soggettiva ed oggettiva e non ad un mero speculare sull‟azione, qualsiasi
azione.
Nello stesso tempo, la filosofia, in quanto tale, è volta ad approfondire il pensiero nei suoi aspetti storici, presenti e futuri per
rivendicare a sé il diritto a indicare nuove prospettive e piste di riflessione-azione nella contemporaneità, come scriveva il filosofo
Benedetto Croce ripreso da Gramsci nel suo scritto La barba e la fascia, “un fatto passato, per essere storia, e non semplice segno grafico,
documento materiale, strumento mnemonico, deve essere ripensato e in questo ripensamento si contemporaneizza, poiché la valutazione,
l‟ordine che si dà ai suoi elementi costitutivi dipendono necessariamente dalla coscienza <contemporanea> di chi fa la storia anche passata,
di chi ripensa il fatto passato”.75 Qui torna, con insistenza, il problema anche politico oltre che pedagogico, del fare filosofia, o meglio
73
FILOSOF-AZIONE! Ma di che stiamo parlando? di Bruno Schettini, in Amica Sofia, gennaio 2012.
Cfr: Schettini B., La Filosof-azione con i bambini, in “Amica Sofia”, n. 2 (2010), pp.27-29. In realtà, il termine compare per la prima volta, solo
accennato, in un altro mio precedente scritto: L’educazione degli adulti in italia e in Europa: una difficile scommessa, in “I Problemi della Pedagogia”, n.
1-3 (2009), pp.265-274.
75
Gramsci A., La barba e la fascia (05.02.1918), in Odio gli indifferenti, nella edizione curata da David Bidussa, Instant Book, CHIARELETTERE, Milano
2011, pp.54-55; ridenominato dal curatore: La storia è sempre contemporanea.
52
74
filosof-azione, con i bambini, con i giovani e gli adulti.76 “La politica è per Gramsci il nucleo non soltanto della strategia per realizzare il
socialismo, bensì del socialismo stesso. E‟ per lui, come a ragione sottolineano Hoare e Nowell Smith, <l‟attività umana centrale, il mezzo
attraverso cui la coscienza del singolo viene messa in contatto con il mondo sociale e naturale in tutte le sue forme>”.77 Da questo punto di
vista è chiaro che, secondo Gramsci, tutto il complesso della riflessione sull‟economia e sulle strutture fosse soprattutto un problema di
educazione e di istruzione tanto che egli ritenne che il concetto di lavoro fosse centrale da un punto di vista educativo, e che il fondamento
stesso della scuola elementare fosse quello di liberare il mondo da ogni forma di magìa e stregoneria per lo sviluppo ulteriore di una
concezione storica, dialettica, del mondo, e per comprendere il movimento e il divenire (…) a concepire l‟attualità come sintesi del passato,
di tutte le generazioni passate, che si proietta nel futuro. Questo – scrive Gramsci nei Quaderni del carcere – è il fondamento della scuola
elementare.78 Per tutti questi motivi scrivo e discuto di filosof-azione.
Come illustra la definizione abbastanza “ingenua”, perché volgarizzata, del Vocabolario della lingua italiana Zingarelli: FILOSOFIA
è “ricerca di un sapere capace di procurare un effettivo vantaggio all‟uomo”.79 La filosofia, dunque, è azione non soltanto nelle sue ricadute
operazionalmente storicizzate, ma anche in sé e per sé e si affianca alla politica perché si propone di indagare “del posto che la scienza
politica occupa o deve occupare in una concezione del mondo sistematica (coerente e conseguente), in una filosofia della praxis”.80 Nel
dettaglio, la differenza sta proprio nell‟opzione filosofica e politica, dunque anche pedagogica, fra azione in quanto pratica (pragma) e
azione in quanto prassi (praxis). Esplicito, in questo modo, un‟opzione di campo che è sia filosofica che politica, oltre che pedagogica, che
non assorbe la “verità” in sé del contenuto della scelta, ma la distinzione del punto di partenza e della coerenza del discutere non soltanto in
astratto, ma anche in modo operazionale ed operativo e, quindi, della contrapposizione dialettica e/o dialogica fra una pedagogia
dell‟autonomia V/S una pedagogia della socializzazione e della pedagogia V/S la didattica così come già trattate in un precedente
articolo.81
Giungo così a quella che definirei la necessità di una formazione del cittadino, a partire dai bambini, che non sia la società che canta
le donne, i cavalieri e gli amori quale “sintomo dello spappolamento che caratterizza la vita umana , per cui non si riesce mai a graduare
76
Sul problema dell’educazione degli adulti in Gramsci, cfr: Schettini B., Antonio Gramsci e il problema educativo. La formazione degli adulti come
<guerra di posizione> per la trasformazione, in Salmeri S., Pignato R.S. (a cura di), Gramsci e la formazione dell’uomo, Bonanno Editore, Acireale – Roma
2008, pp. 15-27.
77
Hobsbawn E., Come cambiare il MONDO, perché riscoprire l’eredità del MARXISMO, Rizzoli, Milano 2011, p.322.
78
Cfr: Gramsci A., Quaderni del carcere, vol. 3, Einaudi, Torino 1975, p.1541.
79
Zingarelli N. (a cura di), Vocabolario della lingua italiana,Ed. Zanichelli, Bologna 1971, p.669; Edizione elaborata a cura di 109 specialisti diretti e
coordinati da Miro Dogliotti, Luigi Rosiello, Paolo Valesio.
80
Gramsci A., Quaderni del carcere, op.cit., p.1568.
81
Cfr: Schettini B., Lotti E., La filosofia con i bambini: quale pedagogia, quale comunità, in “Amica Sofia”, n.1 (2011), pp.35-38.
53
con esattezza né i valori umani né i valori politico-sociali”, né quella che porta ad una conoscenza elevata a pettegolezzo, o a gossip diremmo oggi – della quale scrive Gramsci in Modernita, per cui la “modernità trionfante soddisfa l‟istinto dell‟animalità troglodita”. 82 In
questo senso, “occorre che cambiamo noi stessi, che cambi il metodo della nostra azione. Siamo avvelenati da un‟educazione riformistica
che ha distrutto il pensiero, che ha impaludato il pensiero, il giudizio contingente, occasionale, il pensiero eterno, che si rinnova
continuamente pur mantenendosi immutato. Siamo rivoluzionari nell‟azione, mentre siamo riformisti nel pensiero: operiamo bene e
ragioniamo male. Progrediamo per intuizioni, più che per ragionamenti; e ciò porta a una instabilità continua, a una continua
insoddisfazione, siamo dei temperamenti più che dei caratteri”.83
E vengo al punto conclusivo. Come non chiamare filosof-azione ogni pratica filosofica che chiami in causa il tema di una
conoscenza che voglia modificare ciò che è in atto in quanto azione del pensiero che recupera il confronto con quello degli altri e, quindi, si
presta ad una retroazione circolare dello stesso pensiero modificato da un dialogo profondamente maieutico ed esperienziale, non
meramente persuasivo proprio di colui che già sa dove dirigersi? Forse che la filosofia con e/o per i bambini non voglia essere un agito in
termini significativamente esperienziali? Temo, così, una filosofia astratta, per professionisti e/o conformata al pensiero degli altri che
desiderano e pretendono di fare discutere a partire dalle loro o altrui formule sia pure didattiche e che non sia lettura e interpretazione
fattuale del mondo, sia pure esperita da bambini. Non questo revisionismo è necessario. Cambiare le formule non serve a nulla. Esse non ci
danno la coscienza di essere autori della nostra storia e, d‟altra parte, è sempre più necessario comprendere che conoscere il mondo e
cambiarlo sono la stessa cosa, come ci hanno insegnato il pedagogista brasiliano Paulo Freire e tutti quegli educatori che ricadono, secondo
Georges Snyders, nella nomenclatura dei pedagogisti progressisti.84 Insomma, “E‟ la prassi, la storia compiuta dagli uomini stessi – e
perché no, dai bambini (NdA) – seppure in condizioni storiche date e in via di sviluppo, è ciò che essi fanno, e non semplicemente le forme
ideologiche nella quali gli uomini – e i bambini (NdA) – diventano consapevoli delle contraddizioni della società”.85 Ora, il punto è: quale
filosofia con i bambini? La risposta, dal mio punto di vista è già data, ed è nelle mani degli insegnanti a cui è affidata la “direzione
intellettuale e morale”86 - purché non sia quella “tradizionale” - della “classe” dei bambini e/o delle famiglie a cui essi appartengono. Qui,
ovviamente, è necessario rivedere lo stesso concetto di classe, non genericamente definita, ma così come è data e dal sentimento e
82
Entrambi gli scritti sono pubblicati in: Antonio Gramsci, Odio gli indifferenti, op.cit.; in part., il primo: Caratteri italiani (10 luglio 1917), è alle pp.
35-40, ridenominato dal curatore: Le donne, i cavalieri e gli amori, e il secondo: Modernità (18 marzo 1918), è alle pp. 43-45, ridenominato dal
curatore: Conoscenza e pettegolezzo. I testi si riferiscono all’edizione degli scritti di A. Gramsci curata da Sergio Caprioglio (Giulio Einaudi Editore),
in particolare alla raccoltà La città futura Scritti 1917-1918 (1982).
83
Gramsci A., Letture (24 novembre 1917), in Id., Odio gli indifferenti, op, cit., p.89, ridenominato dal curatore: Occorre cambiare noi stessi.
84
Cfr: Snyders G. (1973), Le pedagogie non direttive, Editori Riuniti, Roma 1975.
85
Hobsbawn E., op. cit., p.322 con riferimento a K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Utet, Torino 2009, libro I, p.1013.
86
Gramsci A., Quaderni, op. cit., p.2010.
54
coscienza di appartenenza ad essa a prescindere dal ceto di provenienza di ciascun insegnante, educatore, genitore, in quanto tutti si è
ingaggiati per un‟opzione attraverso la quale “una classe deve trascendere quella che Gramsci chiama organizzazione <economicocorporativa> per diventare politicamente egemone”87; così come è necessario rivedere anche il concetto stesso di intellettuale, dal momento
che chiunque può essere intellettuale – per riprendere Gramsci -, ma non tutti esercitano la funzione sociale di intellettuale. Ora, gli
insegnanti che dicono di praticare la filosofia con i bambini, da quale posizione si pongono: sono essi dei ripetitori di formule, anche
didattiche e apparentemente progressiste o sono propositori, con la propria azione – anche didattica – della restituzione ai bambini (eterni
defraudati della parola e della storia) e ai loro adulti di riferimento (genitori, parenti, insegnanti, educatori) della possibilità concreta, cioè
storica, di vivere autentiche comunità di uomini liberi cioè di essere facitori di storia e di trasformazioni individuali e collettive, mutuando
dall‟esperienza pedagogica del gruppo di apprendimento-lavoro? Ed ancora, non è nelle comunità di pratiche, più che nelle comunità di
ricerca, che è richiesta la massima tolleranza nel gruppo che pratica la filosofia, a partire dal facilitatore, dal momento che “si può essere
intransigenti nell‟azione solo se nella discussione si è stati tolleranti, e i più preparati hanno aiutato i meno preparati ad accogliere la verità,
e le esperienze singole sono state messe in comune, e tutti gli aspetti del problema sono stati esaminati, e nessuna illusione è stata
creata”?88 E questa è educazione alla vita democratica, alla cittadinanza, al confronto costruttivo e partecipato più che ad un sapere
disciplinare89.
Ora, questa è la filosof-azione – altro si potrebbe ancora scrivere - se poi la filosofia con i bambini, sotto mentite spoglie, deve
essere puro didatticismo, esercizio di una pedagogia autoreferenziale, compiacente e autoritaria, meramente socializzatrice, e business di
una “innovativa strategia didattica” che, in realtà, precede nel tempo anche gli stessi fautori della filosofia con i bambini (nihil ex novo sub
sole), allora, confesso che questa filosofia non mi interessa, né mi interessano i loro profeti e vestali che, talora, nell‟enfasi apologetica non
si accorgono della contradditorietà dei loro stessi enuciati e degli strumentali confronti fra paradigmi diversi talora attivati per difendere la
propria egemonia di intellettuali tradizionali; né mi interessano quelle prèfiche che piangono la “volgarizzazione” di un‟idea che si fa
democrazia.
Il problema, dunque, non è quale autore chiamare in causa a giustificazione delle proprie tesi, quanto quale incipit. Per me l‟incipit
non è nella filosofia pragmatica e omologatrice dell‟America del nord, ma in quella filosofia della praxis90 così come interpretata da
87
Hobsbawn G., op. cit., p.324.
Gramsci A., Intransigenza-tolleranza, Intolleranza-transigenza, scritto dell’8 dicembre 1917, in Gramsci A, Odio gli indifferenti, op.cit., p.29,
ridenominato dal curatore: Nessuna tolleranza per lo sproposito.
89
Condivisibile è quello che scrive A. M. Iacono a proposito del fatto che il fare filosofia con i bambini non debba tradursi in un modello
disciplinare né tanto meno in uno terapeutico, cfr: Iacono A.M. , Il modello ICHNOS. Laboratorio filosofico sulla complessità
(http://ichnos.humnet.unipi.it).
90
Gramsci A., Quaderni, op.cit., p.1568.
55
88
Gramsci – benché per certi versi rivisitabile - intorno alla quale si ritrovano gran parte dei pedagogisti ed educatori che lavorano per dare
agli uomini come ai bambini la speranza di un futuro degno di questo nome, in qualsiasi parte del mondo essi siano.
56
La filosofia con i bambini e i ragazzi come sfida per il cambiamento sociale91
L‟educazione liberatrice da sola
non produce il cambiamento sociale,
ma non ci sarà mai un cambiamento sociale
senza educazione liberatrice.
(Paulo Freire)
Con l‟entrata nel nuovo millennio noi non incontriamo un‟epoca di cambiamenti, ma un “cambiamento d‟epoca”. Tutti i campi di
vita e di pensiero oggi sono stimolati da nuove circostanze e domande.
L‟industria culturale suscita i bisogni e determina i consumi degli individui, rendendoli passivi ed etero-diretti annullandoli come
persone e riducendoli a una massa informe. Si impone l‟ideale rivoluzionario di un‟umanità futura libera e disalienante, ossia una forma
di pensiero proteso a smascherare le contraddizioni profonde dell‟esistente.
E ciò tramite un modello utopico in grado di fungere da pungolo rivoluzionario per un mutamento radicale della società.
In questo cambiamento di millennio, la relazione tra educazione e cambiamento sociale e l‟importanza di un‟azione etico-politica e
pedagogica coerente, non si collocano solamente come temi di analisi e di studio, ma come un‟esigenza teorico-pratica decisiva: si tratta
di rispondere, verso la costruzione di una cittadinanza globale, alla domanda: “Di quale Educazione abbiamo bisogno per quale tipo di
Cambiamento Sociale?”92
Oggi, più che mai, questa situazione esige di ripensare alla nostra visione dell‟educazione e scavare nei fattori sostanziali che
possono costituire una proposta educativa alternativa, più in là delle sue forme, delle sue modalità o dei suoi sistemi amministrativi.
Si richiede una ricerca e una riflessione intorno ai fondamenti filosofici, politici e pedagogici di un paradigma educativo che
orienti gli sforzi diretti alla trasformazione sociale e alla formazione integrale delle persone di fronte alla costruzione di nuove strutture
sociali e nuove relazioni tra le persone basate sulla giustizia, l‟equità, la solidarietà e il rispetto dell‟ambiente.
Costruire un nuovo paradigma educativo suppone fare una opzione epistemologica che ci permetta di pensare “la storia come
possibilità” perché non siamo semplicemente oggetto della storia, ma ugualmente suoi soggetti” (Paulo Freire). La possibilità di edificare
“un altro mondo possibile” nel quale si esercitino relazioni di potere democratiche ed eque, in tutti gli ordini. Utopia e realtà, sono così i
91
Il presente paragrafo è tratto da un mio recente articolo pubblicato in http://www.educationduepuntozero.it/
A questa domanda cerca di rispondere il rapporto che elaborò per l’UNESCO la commissione Internazionale sull’Educazione per il Secolo XXI
presidiata da Jacques Delors.
57
92
poli dinamici del nostro agire. 93 Un cambiamento sociale che implica la realizzazione di un determinato tipo di educazione; opzione che
significa anche la fiducia, la speranza che i valori etici possano realizzarsi nella storia e che gli educatori e le educatrici abbiamo una
responsabilità nel loro conseguimento.
Sorgono due visioni e prospettive in confronto: la prima afferma che abbiamo bisogno di un'educazione che si adatti a questo
mondo. La seconda, al contrario, afferma che abbiamo bisogno di un'educazione che contribuisca a cambiare il mondo, umanizzandolo. È
la prospettiva per cui si cerca formare le persone come agenti di cambiamento, con capacità di incidere sulle relazioni economiche,
sociali, politiche e culturali come soggetti di trasformazione; è la prospettiva della razionalità etica ed emancipatrice (Habermas).
In questa seconda prospettiva si iscrive la proposta della filosofia con i bambini e i ragazzi, nell‟ottica di una educazione che
faciliti le persone a costruirsi come individui ed attori sociali:
- capaci di creare rotture con l'ordine sociale imperante che ci si impone come unica possibilità storica (il modello di
globalizzazione neoliberale);
- capaci di discutere gli stereotipi e modelli ideologici ed etici vigenti come verità assolute, l'individualismo, la competenza, il
mercato come regolatore delle relazioni umane;
- capaci di imparare e disimparare permanentemente, (appropriarsi di una capacità di pensare e di una propedeutica e
metodologia, più che di contenuti finiti);
- capaci di immaginare e di creare nuovi spazi e relazioni tra gli esseri umani concreti con i quali conviviamo in casa,
comunità, lavoro, paese, regione;
- capaci di suscitare una disposizione vitale solidale con l'ambiente sociale ed ambientale come affermazione quotidiana;
- capaci di affermarci come persone autonome ma non auto-centrate, bensì come esseri dialogici che hanno superato
l'antagonismo io-altro.
Assumendo tale prospettiva ci posizioniamo a beneficio di un cambiamento sociale umanizzatore e umanizzante, il quale implica il
contrapporre alla logica del modello neoliberale predominante centrato nel mercato, un‟affermazione etica centrata nella persona umana.
La filosofia con i bambini e i ragazzi per impedire l‟adesione in modo piatto e conservatore all‟esistente.
P.M.
93
L’utopia, scrive Freire, esige conoscenza critica. E’ un atto di conoscenza. Io non posso denunciare la struttura disumanizzante se non la
penetro per conoscerla. Non posso annunciare se non conosco, ma, tra il momento dell’annuncio e la realizzazione dello stesso esiste qualcosa
che deve essere distaccato: è che l’annuncio non è l’annuncio di un anti-progetto, perché è nella prassi storica che l’anti-progetto diviene
progetto. E’ mettendomi in atto che posso trasformare il mio anti-progetto in progetto, nella mia biblioteca ho cioè un anti-progetto che si fa
progetto in mezzo alla praxis.
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Un ricordo
L‟incontro con Bruno Schettini è stato per me un evento illuminante, non un fatto, ma un evento che ha aperto (in me) una nuova
conoscenza della vita, del mondo, della morte, della sofferenza, della gioia. È lo stesso Bruno a suggerirmi queste parole.94 Contro il
potere dei ruoli Bruno afferma la forza delle idee delle persone libere. Ai suoi studenti e amici ricorda che resistere è un dovere politico ed
etico, che resistere è un dovere di cittadinanza. Bruno era ciò che faceva. Costruttore di ponti, favorì, attraverso le pagine del notiziario
“Educazione degli adulti.it” la conoscenza delle attività di filosofia con i bambini e i ragazzi avviate in Campania e in altre Regioni,
promuovendo proficue occasioni di scambio e collaborazione tra i docenti.
Contrario ai testi preconfezionati che fingono la libertà di esplicitazione del pensiero, (espressione di un gioco sottile di
direzionamento che simula la neutralità dell'educatore, e di una concezione della scuola di tipo bancario-depositario, secondo un concetto
di educazione puramente socializzante), intese la filosofia con i bambini, o „filosofazione‟ come amava definirla, come filosofia
fondamentalmente prassica, non pragmatica, che nel momento stesso in cui dà l‟incipit della riflessività, traduce la riflessività in un‟azione
concreta, pratica, trasformatrice. Un‟attività riflessiva che non si esaurisce in un‟attività astratta, ma che nasce nella quotidianità, dalla
concretezza delle cose; non una filosofia con i bambini come simulazione didattica dove sono presenti itinerari e obiettivi prefissati
dall‟adulto, ma un processo educativo che vede coinvolti gli adulti e i bambini co-protagonisti di un cammino di formazione.
Bruno insiste sulla necessità che ricercatori, insegnanti di strada, poeti, politici, sindacalisti, comincino a interrogarsi – che cosa
insegnare, come insegnare, perché insegnare – e a cercare le modalità per un nuovo convenire dell‟umanità, verso un nuovo disegno
politico, di responsabilità e corresponsabilità. Luogo nel quale le persone riescano a vivere lo stare insieme, potersi parlare, potersi
riconoscere come accomunati in una tensione che è come un filo che riconduce i vari punti di vista e le varie conoscenze e competenze
verso un progetto che non necessariamente deve essere unico ma certamente, nella sua complessità, unitario.
Amica Sofia95 risponde a questa sua idea. Bruno Schettini sostiene inizialmente Amica Sofia come socio fondatore, entrando poi a
far parte del Direttivo come Consigliere Nazionale. L‟impegno in Amica Sofia si caratterizza presto per lo sforzo di Bruno di indicare e
chiarire ai soci nuove piste di ricerca con cui smascherare i falsi pedagogici e restituire alla filosofia con i bambini il suo senso autentico.
In punta di piedi, lavora perché i suoi temi di ricerca possano essere nostri secondo la dimensione della scoperta personale. I testi di
Freire e di Gramsci divengono nostri interlocutori in un cammino di formazione che genera nuove ed originali idee, fioriere di un nuovo
94
B. Schettini, Comprendere l'umanità dell'altro, archivio multimediale in www.amicasofia.it
Amica Sofia, associazione di promozione sociale per la filosofia con i bambini e i ragazzi, con sede legale presso il Dipartimento di Scienze
Umane e della Formazione dell'Università di Perugia. Amica Sofia apre sulle pagine del sito www.amicasofia.it una sezione dedicata a Bruno
Schettini, al cui interno contiamo di raccogliere immagini, video e testimonianze.
59
95
modo di pensare la filosofia con i bambini. Bruno sovente parla a noi di libertà. Ne parla attraverso il valore di quanti morendo sanno
farsi artefici di libertà. Riprendo un passo della sua relazione tenuta a Perugia, in occasione del Fantasio Festival, il 26 aprile 2009:
<<Credo sia una necessità impellente dare un senso alla nostra morte, non tanto alla nostra vita, ma alla nostra morte, perché al
di là delle credenze che ciascuno di noi può avere c‟è un senso immanente che dobbiamo necessariamente dare alle giovani generazioni
che ci interpellano, che è il senso del come moriamo, posto che quando uno muore non può fare più tesoro della sua esperienza di morte,
ma certamente può dare un‟esperienza agli altri. Solo chi muore per un‟aspirazione di libertà è un facitore di libertà. E io credo che
morire per la testimonianza di democrazia cognitiva, o politicamente per la libertà, perché nessuno possa mai esercitare il potere
dell‟uomo sull‟uomo, sia una gran bella morte.>>96 Queste parole oggi vivono in noi di altra luce. Grande l‟eredità che Bruno lascia a
noi di Amica Sofia, avendo appreso da Bruno la grande lezione dell‟educazione come pratica di libertà, sempre in costruzione nello
svelamento continuo di ciò da cui esplicitamente e/o occultamente dipendiamo.
P.M.
Sessione Estiva di Amica Sofia
Marino, luglio 2011
96
B. Schettini, Una Scuola per la Democrazia Cognitiva, in www.portadimassa.net
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Nota Biografica
Bruno Schettini (Napoli, 30/07/1952) Ordinario di Pedagogia e vice preside con delega alla didattica della Facoltà di Psicologia
nonché Direttore responsabile del Centro di Ateneo per l‟Apprendimento Permanente della Seconda Università degli Studi di Napoli.
Membro del collegio dei docenti della scuola di dottorato in Filosofie e Scienze Umane dell'Università di Verona e Direttore del
Ce.Ri.Form (Centro Ricerca Interventi e Formazione di Benevento), di cui dirigeva la collana Quaderni di Ricerca. Tra le sue
pubblicazioni vanno ricordati i due Rapporti di ricerca dal titolo: Il progetto SAPA - Regione Campania. Pubblici resistenti e domanda
sociale debole (QdR1, 2009) e Quale governante per l'educazione degli adulti in Campania (QdR2, 2009). Sempre al tema della
governance nel 2010 ha curato e dato alla stampa per la ESI il volume a più voci: Governare il lifelong learning. Prospettive di educazione
degli adulti.
Va segnalata la sua traduzione di uno dei libri fondamentali di Ettore Gelpi dal titolo Lavoro futuro. La formazione come progetto
politico, e la pubblicazione del volume dedicato a Paolo Freire su Educazione,Etica,Politica, Liguori 2008. Bruno era anche molto attivo in
campo internazionale, in particolare nel Mato Grosso in Brasile, nel Sud America, in Europa e a Malta. Qui aveva avuto relazioni e scambi
professionali con alcuni dei più autorevoli studiosi in pedagogia sociale (da Peter Mayo a Paolo Freire, da Ettore Gelpi a tanti altri ).
Fondatore e animatore del notiziario „Educazione degli adulti.it‟.
Socio fondatore dell‟Associazione Amica Sofia e componente del Consiglio Direttivo.
Negli ultimi mesi il suo pensiero costante è stata la preparazione del convegno di Napoli in programma per il febbraio 2012 e, più in
generale, la credibilità e l'avvenire dell'associazione in cui si era subito sentito di casa, Amica Sofia.
Dall'autunno 2009 è operosamente convissuto con la malattia che, il 21 dicembre 2011, ha finito col prevalere e portarcelo via.
Lascia un figlio, Francesco.
Il suo ricordo evoca memoria di affetto, collaborazione, ricerca e soprattutto condivisione di ideali.
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