on-line - Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali

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1/2007
on-line
UNIVERSITÀ DELLA CALABRIA
DIPARTIMENTO DI SOCIOLOGIA E
DI SCIENZA POLITICA
DAEDALUS
Quaderni di Storia e Scienze Sociali
Direzione scientifica
Vittorio Cappelli, Ercole Giap Parini, Osvaldo Pieroni
Redattori e collaboratori
Luca Addante, Olimpia Affuso, Rosa Maria Cappelli, Renata Ciaccio, Bernardino Cozza (†), Barbara Curli, Francesco Di Vasto, Loredana Donnici,
Aurelio Garofalo, Teresa Grande, Salvatore Inglese, Francesco Mainieri,
Matteo Marini, Patrizia Nardi, Saverio Napolitano, Tiziana Noce, Giuseppina
Pellegrino, Maria Perri, Luigi Piccioni, Antonella Salomoni, Pia Tucci
Direzione e redazione
Dipartimento di Sociologia e di Scienza Politica dell'Università della Calabria
87036 Arcavacata di Rende (Cosenza).
Tel. 0984 492568-67-65
E-mail: [email protected]; [email protected]; [email protected]
Direttore Responsabile Pia Tucci
Amministrazione
DAEDALUS - Laboratorio di Storia
Conto Corrente Postale n.:13509872
Sede legale: via XX Settembre, 53
87012 Castrovillari (Cosenza)
La rivista è stata fondata nel 1988
dal Laboratorio di Storia Daedalus
Presidente: Vittorio Cappelli
Numero 1/2007 on-line
Numero 20/2007 seguendo la numerazione della precedente edizione cartacea
Pubblicato on line nel DICEMBRE 2007
SOMMARIO
PASSATO/PRESENTE
Osvaldo Pieroni, L'ecomostro diffuso. Paesaggi & identità: una
ricerca sugli abusi e le offese all'ambiente lungo la costa
calabrese
p. 5
RICERCHE/MATERIALI
Vittorio Cappelli, Tra emigranti, socialisti e massoni. “Il
complotto di Barcellona”: un fantomatico attentato a Mussolini,
immaginato lungo le piste dell’emigrazione italiana in
Colombia e in Centroamerica
Angelina Marcelli, “Illuminate menti” al servizio del
progresso: Gabriele Silvagni (1774-1834) e la Società
Economica di Calabria Citra
Núncia Santoro De Constantino, Per ricordare Teresa. Sulle
tracce di una donna tra Acquappesa e Porto Alegre
p. 27
p. 61
p. 85
LAVORI IN CORSO
Gemma Maltese, Rappresentazione dell’umano e del non
umano nell’era della tecnica
p.105
RASSEGNE/DISCUSSIONI
Saverio Napoletano, Passione storica e storia civica nella
Calabria nord–occidentale. Rassegna bibliografica e riflessioni
storiografiche
Manuela Stranges, Sui concetti di povertà ed esclusione
sociale: una rassegna bibliografica
p. 119
p.145
RECENSIONI
Simona Isabella: FEDELE PAOLO, Il computer di casa. Processi
di informatizzazione dell’ambiente domestico: fra adattamento e
creatività, Cosenza, Pellegrini Editore, 2007
Tiziana Noce: MASI GIUSEPPE (a cura di), Tra Calabria e
Mezzogiorno. Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli,
Cosenza, Pellegrini Editore, 2007
Giuseppina Pellegrino: EMANUELA MORA (a cura di), Gli
attrezzi per vivere. Forme della produzione culturale tra
industria e vita quotidiana, Vita & Pensiero, Milano, 2005
p.171
GLI AUTORI di questo numero
p.173
p.167
p.169
Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
OSVALDO PIERONI
L'ECOMOSTRO DIFFUSO.
PAESAGGI & IDENTITÀ: UNA RICERCA SUGLI ABUSI E LE.
OFFESE ALL’AMBIENTE LUNGO LA COSTA CALABRESE.
Definizione di ecomostro
L’espressione “ecomostro” – efficace neologismo – è divenuta di uso comune a seguito dell’intervento di associazioni ambientaliste impegnate nella
denuncia di costruzioni, immobili, artefatti, ecc. tali da incidere con forte impatto negativo sulla qualità ecologica ed estetica del territorio. Inizialmente
essa si riferiva a grandi strutture immobiliari, come appunto l’ecomostro di
Fuenti, un brutto e voluminoso immobile che deturpava la costiera amalfitana, o il megapalazzo di Punta Perotti, che si ergeva come enorme paratia tra il
mare e la città di Bari. Il termine, in seguito, ha assunto un significato meno
specifico, ovvero non solo riferito a interventi immobiliari di rilevante mole,
ed attualmente designa qualsiasi costruzione percepita come offensiva di contesti paesaggistici. L’art.9 della Costituzione della Repubblica Italiana indica,
fra i principi fondamentali, quello della tutela del paesaggio e del patrimonio
storico e artistico della Nazione. Tuttavia occorre notare come soltanto di recente si sia affermata, anche in campo legislativo, una concezione del paesaggio non puramente estetica, ma tale da coinvolgere non solo aspetti relativi alla ecologia dei luoghi, ma anche aspetti sociologici che riguardano la
stessa identità delle popolazioni. Basti qui citare la definizione normativa di
paesaggio introdotta dal “Codice dei beni culturali e del paesaggio” (decreto
legislativo n. 42 del 2004), che – all’art. 131 – recita:
“1. Ai fini del presente codice per paesaggio si intende una parte omogenea di territorio i cui caratteri derivano dalla natura, dalla storia umana o
dalle reciproche interrelazioni.
2. La tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguardano i valori che
esso esprime quali manifestazioni identitarie percepibili”.
Natura, storia, identità si affiancano alla concezione estetica e romantica
del paesaggio, che assume una connotazione pienamente sociologica. D’altro
canto, tra i “grandi padri” della sociologia, spicca, seppur isolata agli inizi del
5
Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
secolo scorso, la figura di Gorge Simmel che al paesaggio ed alla sua percezione dedica una serie di importanti saggi.
Benché lo stesso concetto di natura “oggettiva” dipenda dalla definizione
che un osservatore adotta (e quindi la realtà stessa si presenta come molteplice e non unica, “oggettiva” in senso proprio), si è soliti considerare analiticamente due aspetti del paesaggio: uno ancorato a quella che viene indicata
come estetica della natura, che ha a che fare non solo con la bellezza ma anche con l’equilibrio e la qualità ecologica di un luogo, ad un altro che invece
si riferisce all’immaginario, alla percezione che va oltre il dato “reale”, al suo
senso simbolico.
In un passo dello Zibaldone Giacomo Leopardi individuava con profonda
acutezza questo duplice aspetto: «All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo e immaginando, il
mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo
stesso coll’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un
altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non
vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione» .
Senza addentrarci qui in una discussione sul concetto di paesaggio, che
pur sarebbe interessante vista l’importanza trasversale che oggi ha assunto
anche nell’ambito di studi specialistici (dall’architettura all’ecologia ed alle
scienze naturali, dalla filosofia alla sociologia ed al diritto, etc.), nelle pagine
che seguono illustreremo i primi risultati di una indagine sul territorio calabrese, voluta dall’Assessorato al Governo del Territorio ed all’Urbanistica,
significativamente intitolata “Paesaggi & Identità”1. La ricerca è sostanzialmente consistita in un accurato censimento delle offese al paesaggio ed alla
conformazione ecologica del territorio lungo le coste calabresi. In altri termini si è trattato di individuare sistematicamente la presenza di “ecomostri”,
indipendentemente dalle dimensioni degli oggetti che tale termine indica.
La definizione del concetto di ecomostri si è avvalsa da un lato
dell’esame della letteratura scientifica relativa al paesaggio e dall’altro si è
basata su di un primo screening delle coste calabresi giovandosi:
1
L’indagine è stata affidata alla Università Mediterranea ed all’Università della Calabria. Il prof. Renato Nicolini ed il sottoscritto hanno diretto e coordinato la ricerca.
6
Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
a) delle differenti documentazioni cartografiche (in particolare foto aeree) disponibili messe a confronto,
b) delle segnalazioni di abusi ed impatti paesaggistici note attraverso
comunicati delle associazioni ambientaliste,
c) dell’esame delle notizie riportate dalla stampa, con particolare riferimento ai quotidiani calabresi,
d) dell’esame de visu effettuato da chi scrive in determinati luoghi ritenuti particolarmente significativi in relazione alle peculiarità dei paesaggi calabresi,
e) dell’esame relativo alla dislocazione delle aree naturalistiche di
pregio, ed in particolare dei siti classificati SIC e ZPS ed inclusi nei Parchi, delle aree umide e delle aree idrogeologicamente fragili,
f) della partecipazione a seminari e convegni aventi per oggetto tematiche attinenti l’oggetto dell’intervento.
Si è tenuto poi in particolare conto il concetto di paesaggio, nella nuova e
più ampia accezione, quale quella fornita dalla Convenzione Europea del
Paesaggio (firmata a Firenze nel 2000). Questa stessa assume rilevanza strategica, considerando che il paesaggio costituisce elemento peculiare
dell’identità del contesto territoriale e sociale, tanto da fargli assumere una
valenza fondamentale per determinare la buona qualità della vita.
Tale è l’assunto della Convenzione Europea del Paesaggio che riconosce
la qualità e la diversità dei paesaggi quale elemento caratterizzante e fonte di
ricchezza per i contesti europei. Affermando l’importanza di valorizzare le
aspirazioni delle popolazioni a godere di un paesaggio di qualità, ed evidenziando come la tutela del paesaggio non sia in contrasto con lo sviluppo economico, ma favorisca invece lo sviluppo sostenibile ed il coinvolgimento sociale.
Operativamente, gli Stati membri firmatari della Convenzione si impegnano a:
a.
riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento
della loro identità;
b.
stabilire e attuare politiche paesaggistiche volte alla protezione,
alla gestione, alla pianificazione dei paesaggi tramite l’adozione delle
misure specifiche previste dall’art. 6 della stessa Convenzione;
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Daedalus 2007
c.
d.
PASSATO/PRESENTE
avviare procedure di partecipazione del pubblico, delle autorità locali e regionali e degli altri soggetti coinvolti nella definizione e nella
realizzazione delle politiche paesaggistiche;
integrare il paesaggio nelle politiche di pianificazione del territorio,
urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo,
sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere
un'incidenza diretta o indiretta sul paesaggio.
In questa direzione si muovono le Linee Guida della Pianificazione Urbanistica della Regione Calabria, la novità dei Piani Strutturali rispetto ai Piani
Regolatori, e le modifiche proposte alla Legge Urbanistica della Regione Calabria (19/02).
Possiamo definire “ecomostro”, ai fini della nostra indagine, una costruzione (un oggetto, un manufatto, etc.) alla quale si riconoscono contemporaneamente i seguenti caratteri:
• Presenza di forte discontinuità con il tessuto ambientale e/o urbano (impatto ambientale) ;
•
Condizione di illegalità nel processo di edificazione (abusivismo);
•
Costruzione il cui forte stato di abbandono, rende impossibile un
recupero (degrado);
•
Impatto ecologico negativo (rispetto all’ecosistema);
•
Impatto sociale negativo (incrementa le disuguaglianze, diminuisce la qualità della vita, lo spazio comune e le relazioni);
•
Impatto culturale negativo (compromette norme, valori, identità);
•
Impatto economico negativo (sottrazione e spreco di risorse, soprattutto le risorse immateriali e le risorse non riproducibili, genera speculazione e rendita parassitaria).
•
Impatto urbanistico negativo (consumo di territorio e disfunzionalità)
Un edificio al quale si riconoscono, tutte o in parte, le sopradette caratteristiche può essere quindi assimilato al concetto di ecomostro e può essere
definito tale sul piano:
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Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
•
urbanistico, per l’aggiunta di quantità edilizie non necessarie e
non consequenziali a specifiche necessità (per cui la presenza
dell’ecomostro si traduce in “consumo” di territorio urbano)
•
sociale, poiché costituisce elemento di disturbo nella vita degli abitanti del centro, che abbisognano di armonia ed equilibrio, non
di caoticità e di deterioramento dell’immagine e della realtà quotidiana del paese;
•
economico, perché la costruzione dell’ecomostro si traduce in
spreco di risorse finanziarie, soprattutto se non ha mantenuto alcuna funzione (o ne ha conservato solo limitate);
•
ecologico-ambientale, perché la presenza dell’ecomostro compromette l’equilibrio naturalistico-ambientale del sito
•
morale, infine, perché l’ecomostro tollerato è un centro perennemente attivo di incentivo all’illegalità, alla speculazione ed alla
corruzione,
Una siffatta definizione, elaborata nella fase iniziale dell’indagine quale
ipotesi da verificare, ha trovato conferma a seguito della rilevazione sul campo, la quale – come si vedrà più avanti – ha fatto emerge esempi consistenti
che “coprono” ciascuno dei caratteri attribuiti al concetto di ecomostro.
La figura seguente schematizza l’articolazione e la complessità della definizione del concetto.
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Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Ecologia
Degrado
Paesaggio
Ecomostro
ed
impatto ecoterritoriale
Assetto
urbanistico
Norme
Cultura
identità
Società
economia
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PASSATO/PRESENTE
2
Metodologia
Utilizzando le tecniche di Map Overlay sono state implementate, sulla base cartografica Ortofoto IT2000, le banche dati relative ai Limiti Amministrativi dei Comuni della Calabria, ai Rischi Idraulici individuati dal Piano
d’Assetto Idrogeologico della Calabria, alle aree SIC e ZPS, alle aree protette, alle aree comprese entro 300 metri dalla linea di costa.
E’ stato così possibile individuare e cartografare tutti i fabbricati e gli oggetti, esterni ai centri urbani, che presentano caratteristiche anomale e che
quindi hanno richiesto una verifica puntuale, effettuata de visu dai rilevatori.
Per ogni oggetto individuato si sono rese disponibili le informazioni relative alla presenza di condizioni di rischio idraulico, alla presenza di aree protette, aree SIC e aree ZPS ed è stato specificato se esso è compreso nella fasce entro i 50 metri dalla linea di costa. Metodologicamente sembra utile ricordare che l’appartenenza dei casi individuati a tali condizioni è stata effettuata attraverso una serie di operazioni di Selezioni Spaziali utilizzando la
Condizione ‘Intersect’.
Complessivamente attraverso questo tipo di indagine sono stati individuati 5.210 immobili; in tab. 1 viene rappresentata la suddivisione dei casi nelle
cinque Province calabresi.
Num. di casi indiPercentuale
viduati
CS
1.156
22,19
CZ
548
10,52
KR
915
17,56
RC
2.093
40,17
VV
498
9,56
100
TOTALE
5.210
Tab. 1 – Distribuzione dei casi tra le Province
Provincia
2
Questo paragrafo è stato redatto dal Dott. Giovanni Salerno, che ha collaborato
all’indagine.
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Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Attraverso successive interrogazioni è stato possibile stabilire che, tra i
casi individuati, 412 si trovano in aree per le quali il Piano d’Assetto Idrogeologico definisce condizioni di Rischio Idraulico.
Per quanto riguarda i vincoli ambientali, si riscontra che 54 casi individuati ricadono all’interno di Aree Marine Protette, 421 ricadono all’interno di
aree SIC e 130 all’interno di aree ZPS.
La costruzione del SIT
La messa a punto del sistema di dati capace di investigare la problematica
ha in primo luogo seguito una impostazione logica facendo capo al concetto
di ecomostro, così come definito nelle ipotesi della indagine. La procedura
utilizzata per il Sistema Informativo è schematizzata in fig. 1.
Fig. 1 – Procedura di sviluppo del SIT
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Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Nella prima fase, riferita alla definizione del concetto di Ecomostro, sono
stai considerati i criteri di individuazione e classificazione indicati nel 1°
Rapporto di Ricerca. Il SIT è stato strutturato in maniera tale da consentire,
per ogni fabbricato individuato e censito, di fornire un quadro della situazione urbanistica e della situazione giuridica più in generale.
Nella fase che ha preceduto l’indagine sul campo sono state individuate
tutte le caratteristiche del SIT sia in termini statici (che tipo di dati bisognerà
archiviare ed utilizzare), sia in termini dinamici (che tipo di operazioni verranno effettuate sui dati archiviati). Questo passaggio, apparentemente banale, si è mostrato in realtà estremamente complesso ed una quanto più esaustiva definizione è parsa essenziale per garantire il funzionamento del SIT.
Nella seconda fase, ovvero relativa alla progettazione, lo schema concettuale precedentemente definito viene tradotto in un sistema di gestione della
base di dati. Lo schema che si intende seguire è quello standard utilizzato per
la progettazione della base di dati e prevede in successione i seguenti step:
1. Progettazione concettuale: vengono rappresentate le specifiche informazioni della realtà di interesse in termini di una descrizione formale e
completa, ma indipendente dai criteri di gestione dei dati utilizzati; la
progettazione concettuale è strettamente connessa alla fase della definizione dei contenuti del SIT.
2. Progettazione logica: lo schema concettuale viene tradotto nel modello
di rappresentazione dei dati: il modello Entità-Relazioni.
3. Progettazione fisica: corrisponde al linguaggio di programmazione del
software prescelto.
Si è passati quindi ad una prima fase di raccolta dati, e successivamente
alla fase di implementazione e quindi a quella di validazione, fasi che hanno
certificato la qualità dello schema del SIT; l’ultima fase, il funzionamento, ha
comportato un censimento completo di tutti i fabbricati individuati lungo le
coste calabresi (ed in tal modo ai casi individuati sono stati aggiunti altri, che
non risultavano dalla cartografia, mentre altri casi individuati cartograficamente si sono rivelati inesistenti – poiché già demoliti o trasformati – oppure
non conformi ai criteri di rilevazione).
Lo schema concettuale definito è stato tradotto in un modello EntitàRelazioni.
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PASSATO/PRESENTE
Sulla base del quadro di conoscenze già delineato si è proceduto ad una
progettazione di tale modello, che costituisce lo schema logico utilizzato per
l’implementazione del SIT. In fig. 2 viene rappresentato tale schema.
Fig. 2 – Schema logico utilizzato per la costruzione del SIT
Lo schema logico definito è stato tradotto in un’architettura di dati utilizzata per la raccolta delle informazioni alfanumeriche collegate agli oggetti
geografici. I dati, vettoriali e alfanumerici, sono stati strutturati in un Personal
Geodatabase; la gestione della componente vettoriale è avvenuta in ambiente
ArcGIS mentre per la componente alfanumerica è stato utilizzato il software
Microsoft Access.
La raccolta dati
Venti architetti, in alcuni casi dotati di palmari per l’individuazione sul
terreno dei fabbricati censiti e di una maschera di Access, realizzata per
l’immissione dei dati alfanumerici nel Geodatabase (fig. 3), hanno percorso
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PASSATO/PRESENTE
l’intera fascia costiera calabrese verificando ad uno ad uno i casi censiti cartograficamente.
Fig. 3 – Maschera di Access utilizzata per l’inserimento dei dati alfanumerici
nel Geodatabase
La versione della maschera utilizzata per la rilevazione è frutto di
un’attenta opera di revisione, successiva ad una prima raccolta dati finalizzata appunto alla verifica dei contenuti informativi definiti. Come tra breve si
vedrà dai 5.210 casi individuati attraverso la prima fase dell’indagine, attraverso la rilevazione e la verifica sul campo, si è passati alla ricognizione di
5.661 oggetti.
Primi risultati dell’indagine
I casi individuati e censiti assommano dunque a 5.561, il che significa che
statisticamente ci troviamo di fronte ad una offesa al paesaggio ogni 100/150
metri lineari di costa calabrese. Si tratta di edifici ed oggetti di vario tipo: dai
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Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
palazzi condominiali alle villette a schiera, dalle ville uni e bi familiari a piccoli edifici, da campings e villaggi turistici a lidi cementificati, via via fino ad
aree demaniali privatamente appropriate ed a costruzioni mai terminate, abbandonate, disastrate.
Da un punto di vista giuridico potremmo distinguere tre macro tipi di abuso paesaggistico, che di seguito definiremo – in termini più generali – “offesa” al paesaggio:
1. legale (ovvero legittimato dalla originaria inclusione in PRG);
2. legalizzato (cioè ricompresso in varianti ai PRG oppure in aree dotate di
servizi pubblici ed opere di urbanizzazione);
3. illegale (in area demaniale, protetta, instabile, etc…).
Per ciò cha concerne l’ambito definito come legalizzato occorre dire che
talvolta si tratta di opere legali ma non legittime, ovvero in contrasto con
normative e leggi di livello superiore all’ambito comunale ( ad esempio:
Legge Galasso). In certuni casi gli oggetti in questione sono di proprietà
pubblica.
Gli oltre 700 chilometri di costa calabrese sono stati suddivisi in zone paesaggisticamente significative tanto dal punto di vista della uniformità morfologica ed ecologica (a volte si tratta anche di aree archeologicamente significative oppure caratterizzate da insediamenti di specifica origine etnoculturale), quanto – soprattutto – dal punto di vista della percezione culturale
degli abitanti cha spesso hanno attribuito ad esse specifiche denominazioni,
come ad esempio “Costa Viola”, “Costa dei Gelsomini” oppure “Riviera dei
Cedri”, “Area grecanica”, etc., più o meno recenti. Alcune aree così denominate sono state talvolta suddivise in sottogruppi, sia a causa di dati ancorati a
vincoli di confine amministrativo, sia per una migliore e più equilibrata distribuzione dei medesimi. In ogni caso tale definizione andrà rivista e riaggiustata sulla base di nuove interviste qualitative e degli esiti dei laboratori
territoriali.
Le 30 aree, che potremmo definire come “immagini di paesaggio”, sono
elencate nella seguente tabella ed accanto a ciascuna di esse figura il numero
di offese al paesaggio censite.
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PASSATO/PRESENTE
1. Alto Tirreno
2. Riviera Cedri Nord
3. Riviera Cedri Sud e Foce del Lao
4. Litorale Paolano
5. Costiera d’Amantea
6. Foce del Savuto e “Le Vote”
7. Costiera di Pizzo
8. Marina Vibonese
9. Tropeana (Costa degli Dei)
10. Capo Vaticano- Costa degli Dei
11. Joppolo Nicotera
12. Marina di Gioia
13. Costa Viola
14. Cannitello – Villa San Giovanni (lo Stretto)
15. Foce del Gallico (Catona – Reggio Nord)
16. Reggio Calabria
17. Costa dei Gelsomini
18. Locride
19. Siderno
20. Riviera dei Bronzi
21. Punta Stilo
22. Soverato e Golfo di Squillace
23.Isola Capo Rizzuto
24. Crotonese e Foce del Neto
25. Cirotano
26. Litorale Sila Greca
27. Rossano- Corigliano
28. Sibari
29. Approdo Miceneo
30. Jonica Superiore
17
20
29
134
188
46
35
50
79
69
218
92
147
230
73
845
492
289
63
155
95
33
587
287
361
447
125
194
4
107
66
5560
0.4
0,5
2,4
3,4
0.8
0,6
0.9
1,4
1,2
3,9
1,7
2,6
4,1
1,3
15,2
8,8
5,2
1,1
2,8
1,7
0.6
10,6
5,2
6,5
8,0
2,2
3,5
0,1
1,9
1,2
100,00
Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
La seguente figura indica schematicamente la rilevanza quantitativa delle
offese.
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Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Come si noterà la distribuzione degli oltraggi investe ogni area e particolarmente intensa appare non soltanto in contesti fortemente urbanizzati ed
urbani come Reggio Calabria, ma anche in aree di pregio turisticamente note
: l’area di Tropea, la Costa Viola, la Locride, l’area di Soverato e, in particolare, l’area di Isola Capo Rizzuto e del Crotonese, in larga parte paradossalmente vincolata come Riserva Marina Protetta ed area archeologica. In
quest’ultima zona si addensa ben il 52% degli abusi illegali compresi in aree
marine protette.
Gli abusi compresi in aree protette (ZPS, SIC, Parchi e Marine) sono i
seguenti :
Area Marina Protetta
50
0,9
Area SIC
471
8,5
Area ZPS
165
3,0
Vincolo Archeologico
72
1,3
758
13,7
Ben 758 abusi in senso proprio, e quindi ricadenti nella categoria della illegalità,
si collocano in aree protette ed in particolare nell’ambito di Siti di Importanza Comunitaria (471 casi) e di Zone di Protezione Speciale (165 casi).
La distribuzione comunale dei casi che invadono le aree SIC investe le
municipalità di Bagnara (5), Belcastro (4), Borgia (1), Botricello (8), Bova
Marina (1), Brancaleone (2), Briatico (1), Condofuri (1), Corigliano Calabro
(1), Cropani (2), Crotone (3), Curinga (4), Cutro (2), Guardiavalle (3), Joppolo (2), Montegiordano (2), Nicotera (1), Palizzi (30), Palmi (23), Pizzo (1),
Reggio Calabria (215), Ricadi (83), Roseto Capo Spulico (1), Scilla (3),
Squillace (1), Stallettì (66), Trebisacce (3), Villapiana (2). Il Comune di Reggio Calabria, assai vasto per estensione territoriale, accoglie quasi la metà
degli abusi SIC individuati. Elevate concentrazioni di abusi sono state rilevate nell’area di pregio di Capo Vaticano, nell’ambito della Costa Viola ed in
particolare a Stallettì.
La Costa Viola appare inoltre particolarmente colpita in relazione agli abusi compresi in Zone di Protezione Speciale: i casi individuati riguardano
Bagnara (36), Scilla (49), Villa San Giovanni (71). I restanti casi di tale categoria sono stai individuati a Belcastro (4), Botricello (1), Trebisacce (2), Villapiana (2).
Consistenti paiono anche le abusive offese edilizie collocate nell’ambito
di pregiate aree sottoposte a vincolo archeologico, si tratta di 72 casi per quasi totalità concentrati nel comune di Reggio Calabria, mentre un caso è stato
rilevato nel comune di Locri.
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Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Gli abusi perpetrati nell’ambito del vincolo di Area marina protetta si
concentrano, ovviamente, nei due comuni di Crotone (26) e di Isola Capo
Rizzuto (24).
Altri tipi di vincolo
Particolarmente grave, non soltanto dal punto di vista dell’abuso e della
offesa al paesaggio, ma anche per il rischio di eventi disastrosi, è la presenza
di immobili e strutture nell’ambito di aree sottoposte al vincolo di rischio idraulico. In generale si tratta di edifici e manufatti che insistono nei pressi di
corsi d’acqua o addirittura nelle aree di alveo oppure in siti indicati come rischiosi dal punto di vista idrogeologico. Nel complesso l’indagine ha individuato 550 casi, la cui distribuzione è alquanto diffusa sul territorio.
Rischio Idraulico
550
9.9
Riportiamo qui di seguito i casi in cui le unità rilevate superano la decina.
Ancora una volta emerge per l’addensamento di casi il comune di Reggio Calabria (67). Anche nell’ambito del comune di Vibo Valentia, recentemente
colpito da un evento disastroso, la densità dei casi – pari a 49 unità – appare
preoccupante. Tuttavia particolarmente grave appare la situazione anche in
comuni di molto più ridotta densità abitativa, quali Rossano (30 casi), Sellia
Marina (27), Calopezzati (47), Cirò Marina (20), Davoli (28). Vanno inoltre
segnalati i casi di Belvedere Marittimo (11), Bova Marina (12), Cariati (13),
Catanzaro (10), Caulonia (10), Montebello Jonico (14), Ricadi (17), San Sostene (16), Trebisacce (18).
Altri tipi di vincolo all’interno dei cui limiti sono stati rilevati casi riguardano il vincolo stradale, ferroviario, aeroportuale ed il vincolo depuratori.
Nel complesso le violazioni assommano a 341 unità, di cui 129 riferite al
vincolo stradale e 120 a quello aeroportuale. Anche in questa evenienza il caso del comune di Reggio Calabria mostra il suo grave primato negativo, inglobando la quasi totalità degli abusi relativi al vincolo stradale (115) e la totalità di quelli relativi al vincolo aeroportuale.
Vincolo Depuratori
Vincolo aeroportuale
Vincolo Ferroviario
Vincolo stradale
20
8
120
84
129
341
0.1
2.2
1.5
2.3
6.1
Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Vincoli paesaggistici e territoriali
Analoga alle precedenti è la situazione rilevata in relazione ai vincoli paesaggistici e territoriali. In tal caso, tuttavia, la rilevazione non appare omogenea dal momento che molti tra i rilevatori hanno considerato questi tipi di
vincoli come impliciti nella definizione stessa dei criteri di abuso e quindi
hanno mancato di segnalarne la specificità.
Codice Urbani
Legge regionale 23
585
439
1024
10.5
7.9
18,4
Riflessioni conclusive
Il 48,1 dei casi si trova in area vincolata o protetta. Inoltre altri 50 casi insistono su aree demaniali e diversi altri ancora sono soggetti a vincoli paesaggistici derivanti da diverse normative, oltre quelle segnalate.
Nel 53,6% dei casi si tratta di strutture in cemento armato. Circa il 37%
dei fabbricati sono in buone condizioni ed altrettanto spesso si tratta di residenze isolate uni o bifamiliari.
In base ad una esplorazione fattoriale possiamo a questo punto sintetizzare alcune provvisorie osservazioni.
Avendo sottoposto ad analisi 17 variabili relative a vincoli da un lato ed a
servizi o forniture di urbanizzazione dall’altro, risulta che i primi cinque fattori spiegano oltre il 60 percento della varianza, mentre i primi tre raggiungono circa il 48%. Su questi ultimi ci soffermiamo.
Varianza Totale Spiegata
1
2
3
4
5
totale
4.419
2.568
1.127
1.109
1.036
% di varianza
25.994
15.104
6.632
6.522
6.092
21
% cumulata
25.994
41.099
47.731
54.253
60.344
Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Matrice di componenti
Strade residenziali
Spazi di sosta e parcheggi
Fognature
Rete idrica
Rete Elettrica (ENEL)
Rete Gas
Pubblica Illuminazione
Verde Attrezzato
Area SIC
Area ZPS
Area Marina Protetta
Vincolo Codice Urbani
Servitù Militari
Vincolo ferroviario
Rischio Idraulico
Legge Regionale 23
Vincolo archeologico
1
.771
.704
.802
.875
.865
.502
.807
.464
.061
.143
-.115
.085
-.008
.046
-.053
.054
.042
2
.169
-.245
.203
.178
.190
-.183
-.095
-.192
.530
-.142
-.012
.877
-.005
.387
-.003
.886
.534
3
.116
.156
-.101
-.155
-.138
.089
.027
.157
.566
.072
.024
-.100
.270
-.571
.076
-.014
.512
4
-.026
.150
.027
-.141
-.153
.466
.003
.421
-.119
-.635
.258
-.001
.056
.244
.309
.071
-.014
5
.006
-.090
.042
.064
.066
.079
.037
-.145
-.022
-.018
-.633
.022
.013
-.062
.760
.034
-.060
All’analisi delle componenti principali, la prima risulta particolarmente
potente (26% della varianza spiegata) e può essere definita come “forniture di
urbanizzazione”. Infatti le variabili maggiormente correlate riguardano,
nell’ordine, rete idrica, rete elettrica e fognature (r. superiore a .8) seguite significativamente da strade residenziali (r. .78), pubblica illuminazione (r. .77)
e, infine, spazi di sosta e parcheggi (0.65)
Da questa prospettiva è dunque ipotizzabile un’apprezzabile relazione tra
abuso e fornitura di servizi pubblici, che indicherebbe una doppia responsabilità – del tipo causazione circolare – del soggetto privato e del soggetto pubblico (in particolare dell’ente locale) nella costituzione del fenomeno. In questo ambito rientrano casi cha abbiamo definito “legali e legalizzati”.
E’ anche interessante notare come la seconda componente, che assieme alla
prima ci porta a spiegare il 41% della varianza, veda emergere due variabili fortemente correlate che riguardano vincoli di tipo normativo: la recente legge regionale n.23 (r. .85) ed il Codice Urbani (r. .83). In tal caso l’ipotesi da considerare è che anche le buone leggi vincolistiche non contrastano il fenomeno, il
che significa che tali norme non vengono applicate o, meglio, implementate. In
questo ambito sono compresi casi che possiamo definire “illegali”.
22
Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Le ultime tre componenti mostrano valori relativamente contenuti in rapporto ad altri tipi di vincolo (ferroviario - .61 terza componente) e area ZPS (
-.47 quarta componente): in questo caso si tratta di relazioni negative. Va però notato che aree SIC ed aree ZPS presentano segno positivo all’interno della seconda componente. Il che significa che il anche il vincolo ecologico ambientale di tipo comunitario non risulta particolarmente efficace.
Siffatti risultati inducono a riflettere sulla relazione tra azione pubblica ed
interventi privati. Non si tratta – a nostro avviso – di sottoporre a critica la
normativa vincolistica, che pur potrebbe essere efficace, quanto piuttosto di
trovare una soluzione ottimale relativa all’implementazione di essa. Il richiamo e l’attuazione delle norme che proteggono il paesaggio ed il territorio
possono essere oggetto di intervento della magistratura (e tuttavia va considerato che numerosi contenziosi non trovano soluzione per il reiterarsi di ricorsi
ed appelli), e senza dubbio l’azione politico-amministrativa può concorrere
alla corretta applicazione delle norme intervenendo attraverso interventi di
demolizione e/o ristrutturazione. Va però notato che i casi di abuso ed offesa
al paesaggio sono talmente numerosi che appare difficile se non impossibile
intervenire su larga scala. La questione si presenta in tutta la sua gravità sotto
il profilo culturale e della percezione diffusa che gli abitanti e gli stessi amministratori di livello locale hanno del proprio territorio. In altri termini, possiamo ipotizzare che l’immagine del paesaggio sia percepita e vissuta in modo estremamente contraddittorio, laddove atteggiamenti e comportamenti collidono. E’ dunque necessario che l’azione politico-amministrativa intervenga
sul piano culturale ed estetico, proponendo e recuperando valori che connettano un’immagine non corrotta del paesaggio alle identità locali.
La proposta che intendiamo avanzare, peraltro compresa negli impegni
previsti a conclusione della indagine sul campo, concerne l’attivazione di laboratori territoriali per la riqualificazione del paesaggio. Si tratterà di inaugurare interventi di animazione e discussione, coinvolgendo in primo luogo
quanti – tra gli abitanti di un determinato luogo – percepiscono il degrado paesaggistico e si mobilitano (o intendono mobilitarsi) per una ricostruzione del
paesaggio. Da questo punto di vista paiono attori importanti le associazioni
ambientaliste e culturali presenti su di un dato territorio, i comitati locali per
la difesa di beni ambientali e culturali, studiosi ed esperti che rivolgono uno
sguardo critico nei confronti dell’attuale situazione e che operano in ambiti
riferibili alla articolazione del concetto di ecomostro (architetti, urbanisti, sociologi, economisti, giuristi, geologi, agronomi, etc.). Ovviamente è imprescindibile il coinvolgimento di amministratori locali, sindaci in primo luogo,
e di tecnici delle amministrazioni locali.
23
Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Nella fase iniziale il laboratorio territoriale potrà configurarsi come un
“forum” aperto in cui, a partire dalla presentazione dei risultati dell’indagine,
si discuta dei fenomeni di offesa e degrado, individuando cause e possibili
soluzioni. Il riferimento al modello OST (open space technology) può senza
dubbio essere utile per strutturare la partecipazione ed il contributo degli intervenuti, esso inoltre potrà essere accompagnato dalla presentazione di documenti fotografici, iconografici e filmati e dalla messa in campo di iniziative
sperimentali e dimostrative.
I laboratori territoriali, in ogni caso, non dovrebbero essere intesi soltanto
come momenti di discussione e riflessione tesi a far emergere percezioni diverse del paesaggio. L’iniziativa discorsiva dovrebbe tradursi – nel tempo –
in pratica costante. I laboratori, in effetti, si riferiscono piuttosto a pratiche,
elaborazione di progetti, mobilitazioni volte a ricostituire e rafforzare il rapporto tra paesaggio ed identità. L’iniziativa che potrà svolgersi al termine di
questo nostro progetto va allora intesa come “lancio” (o “seed proposal”) di
una proposta il cui esito dovrebbe essere la durata temporale e la stabilizzazione di una struttura a supporto della pubblica amministrazione.
Gli ambiti territoriali nei quali lanciare la proposta dei laboratori territoriali per la riqualificazione del paesaggio, in congruenza con le premesse sopra enunciate, dovrebbero corrispondere ad aree tematiche che riguardano il
rapporto tra cultura-identità-paesaggio. Tra i possibili ambiti tematici ci sembra opportuno individuare in prima istanza: a) l’archeologia e la storia antica;
b) la sostenibilità ecologico-ambientale dei flussi turistici (turismo sostenibile); c) la città ed il suo contesto; d) l’associazionismo a difesa del territorio.
Ciascuno di questi ambiti dovrebbe corrispondere ad uno scenario fisico,
tale da raggruppare uno o più ambiti comunali, così – ad esempio – la Locride parrebbe sede opportuna per il primo ambito tematico (siti archeologici), il
Crotonese e l’area della Riserva Marina di Isola Capo Rizzato per ciò che
concerne il turismo sostenibile (in alternativa Capo Vaticano), la città di
Reggio Calabria e la Vallata del Gallico per il tema urbano, l’Alto Tirreno
per l’associazionismo e le mobilitazioni a difesa del territorio.
“Noi umani possediamo il linguaggio, strumento capace di operare meraviglie, che ci permette di dare un nome alle cose esistenti, ma anche, ancor
più miracolosamente, alle cose che non esistono ancora: alle cose come sono
e alle cose come potrebbero essere. Grazie al linguaggio possiamo fare scelte:
possiamo respingere certe cose in nome di altre, e possiamo anche parlare e
pensare a cose che devono o possono ancora venire. Siamo animali “trasgressivi” e “trascendenti” e non possiamo farne a meno. Viviamo in anticipo sul
presente. Le nostre rappresentazioni anticipano le nostre percezioni. Il mondo
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Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
che abitiamo è sempre un passo, o un chilometro, o un anno luce più avanti
rispetto al mondo di cui facciamo esperienza. La parte di mondo che sopravanza la nostra esperienza vissuta viene definita “ideale”: gli ideali ci devono
guidare in territori per il momento inesplorati e per i quali non esistono mappe.” (ZYGMUNT BARMAN, “La bellezza è un sogno” in “la Repubblica”, 19
settembre 2002)
Se quanto afferma Bauman appare accettabile, il progetto Paesaggi & Identità, che concretamente è intervento per la demolizione di “ecomostri”, in
realtà interviene sul terreno che il sociologo definisce dell’ideale, della rappresentazione del mondo, di ciò che chiamiamo anche immaginario sociale.
Intervenire sul paesaggio è oggi azione concreta, progettazione e pratica,
ma è soprattutto iniziativa culturale. E’ per questo che insieme al discorso sul
paesaggio occorre sviluppare un discorso ed una iniziativa sulla identità.
Termine controverso, quest’ultimo, che tuttavia in breve indica riconoscimento intersoggettivo, narrazione di sé in rapporto a quanto gli altri narrano
di noi, collegamento tra passato e futuro e – inoltre – riferimento a contesti
spaziali di appartenenza, ovvero a luoghi.
E’ il preambolo della convenzione europea sul paesaggio che richiama in
più passi la relazione tra paesaggi ed identità (plurale): “il paesaggio concorre
all’elaborazione delle culture locali e rappresenta una componente fondamentale del patrimonio culturale e naturale dell’Europa, contribuendo così al benessere ed alla soddisfazione degli esseri umani e al consolidamento
dell’identità europea.”
Con più forza l’art. 5 della medesima convenzione sancisce che le parti
firmatarie si impegnano a “riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto
componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento
della loro identità”
Se dunque il paesaggio viene considerato “componente essenziale del
contesto di vita” e fondamento della identità locale, esso è – al pari delle
prassi comunicative quotidiane e del senso comune – sfondo essenziale dei
mondi vitali (nel senso della lebenswelt habermasiana).
E dunque la distruzione, la deformazione, la mercificazione del paesaggio
procede parallelamente ed è, direi, sottostante, alla colonizzazione dei mondi
vitali.
Il paesaggio come “identità etico-estetica del luogo” non può essere separato da chi lo ha abitato, da chi lo abita e da chi si propone di abitarlo in futuro attribuendo ad esso un valore significativo, un senso profondo.
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Daedalus 2007
PASSATO/PRESENTE
Ben al di là delle discussioni (ormai superate) sulla soggettività o sulla
oggettività della definizione di paesaggio, sul carattere naturale o culturale,
occorre andare oltre la separazione cartesiana tra natura e cultura e riconoscere nel paesaggio il ruolo centrale dell’attore umano, dell’essere linguistico e
comunicante ( languaging being) che lo definisce.
La catastrofe ecologica in corso rimanda alla caduta o quantomeno al ritardo della sensibilità collettiva nei confronti dell’ambiente e si riflette sulla
percezione e sul degrado del paesaggio.
“Sembra possibile definire la massima qualità del paesaggio quella in cui
i segni dell’uomo sono in quantità e qualità tali da provocare il minor impatto
sull’ambiente, e le azioni umane sono volte a consolidare e riqualificare le
forme naturali” (A.PAOLELLA, Abitare i luoghi, BSF ed., Pisa 2004:27)
Le ragioni della dequalificazione del paesaggio, inoltre, non sono soltanto
collegate a scelte formali in termini di “architettura ed urbanistica”, quanto
piuttosto ad interessi economici ed alle tecniche, culture e politiche che li sostengono. Di qui i modelli brutti e distruttivi di insediamento, di qui le forme
architettoniche di pessima fattura e dubbio gusto…
Per contro la qualità del paesaggio migliora quando si ricompone la relazione tra comunità sociale e sistema ecologico (di cui la comunità stessa è
parte) ed il paesaggio diviene prodotto dei modi di vita.
Il degrado può sussistere anche senza essere percepito. E’ ad esempio il
caso degli stessi interventi di mascheramento, di interventi formali che paiono rispettare la fisionomia del paesaggio, di interventi cosiddetti di rinaturalizzazione che tuttavia comportano materiali, tipologie e tecniche costruttive, essenze stesse estranee al contesto, alla sua evoluzione, all’insieme
ecosistemico (talvolta con impatti ed affetti sul contesto globale e non soltanto locale o regionale). Occorre quindi porre l’accento non soltanto sulla relazione tra identità locale (riflessivamente ri-costituita) e qualità estetica del
paesaggio, ma sottolineare come la sostenibilità ecologico-ambientale sia fattore imprescindibile per qualsiasi intervento che miri alla riqualificazione del
territorio ed alla rivitalizzazione culturale delle comunità.
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Daedalus 2007
RICERCHE/MATERIALI
VITTORIO CAPPELLI
TRA EMIGRANTI, SOCIALISTI E MASSONI∗
“IL COMPLOTTO DI BARCELLONA”: UN FANTOMATICO ATTENTATO A MUSSOLINI,
IMMAGINATO LUNGO LE PISTE DELL’EMIGRAZIONE ITALIANA IN COLOMBIA E IN
CENTROAMERICA
1. A mo’ di premessa. Tra il Cilento e il Pollino: flussi migratori
verso la Colombia, il Venezuela, il Centro America e i Caraibi.
La vicenda assai particolare che è oggetto di questo studio emerge da
un’indagine di microstoria dell’emigrazione e si rifrange sulla grande storia
politica italiana e internazionale del primo Novecento. Di essa è protagonista,
in gran parte involontario, un socialista di Morano Calabro, emigrato in Colombia nel 1905 e divenuto ben presto un industriale calzaturiero. La sua avventura esistenziale, pur nei suoi caratteri straordinari, è emblematica di una
certa tipologia migratoria e suggerisce molteplici elementi di riflessione, sia
su un’America Latina “minore”, piuttosto diversa e distante da paesi ben più
noti come l’Argentina e il Brasile, sia sulle relazioni, tanto interessanti quanto trascurate, tra emigrazione transoceanica, socialismo e massoneria.
È opportuno illustrare preliminarmente i contesti nei quali si dipana
l’avventura migratoria, di cui la vicenda in oggetto è clamorosa espressione.
Agli inizi del Novecento è ormai largamente tracciato il percorso di alcune
catene migratorie che conducono da un vasto e impervio territorio
dell’Appennino meridionale a regioni dell’America centro–meridionale non
molto frequentate dall’emigrazione europea. Dalle province di Salerno, Potenza e Cosenza – più precisamente, dal territorio attualmente compreso tra i
due più estesi Parchi Nazionali italiani, quello campano del Cilento e del Val∗
Questo testo è la versione italiana – aggiornata e adattata in qualche punto – di: Entre inmigrantes, socialistas y masones. La emigración italiana en Colombia y en Centroamérica y un fantasmal atentado a Mussolini, saggio comparso sulla rivista argentina Estudios Migratorios Latinoamericanos [Buenos Aires, Cemla, a. 19, n. 57, 2005
(ma 2006), pp. 335-366].
27
Daedalus 2007
RICERCHE/MATERIALI
lo di Diano e quello calabro–lucano del Pollino – decine e decine di migliaia
di emigranti si sono diretti, dagli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, in
Venezuela e Colombia, in Ecuador, Perú e Cile, in Centro America (principalmente Panamá, Costa Rica, Honduras, Guatemala), nelle più grandi isole
dei Caraibi (Cuba, Repubblica Dominicana), nel nord amazzonico e nel
nord–est bahiano e pernambucano del Brasile1.
Si tratta di un flusso migratorio molto precoce rispetto ad altre aree del
Mezzogiorno e con peculiari tratti socioeconomici e culturali. Già negli anni
Sessanta dell’Ottocento, infatti, esso si manifesta in Cilento, coinvolgendo
contadini, pastori, artigiani e gli stessi proprietari terrieri. Non per nulla, nel
1876, il prefetto di Salerno già denuncia il carattere di massa che ha assunto
l’emigrazione verso le Americhe “nell’ultimo decennio”2. E all’interno della
provincia, l’esodo più consistente parte dal Vallo di Diano, colpito nel 1857
da un gravissimo terremoto, il cui epicentro è in Lucania, nella contigua Val
d’Agri3. Poco dopo il terremoto, che fa quasi undicimila vittime e rade al suolo numerosi comuni, giunge voce all’Intendente di Salerno che a Teggiano
“per ragion di miseria, la maggior parte de’ faticatori di campagna si fanno a
chiedere passaporti per l’estero”4. È di una palmare evidenza l’incidenza della catastrofe sullo sviluppo del processo migratorio dal Vallo di Diano e dalla
Val d’Agri. Si pensi che già negli anni Settanta dell’Ottocento si registra in
molti Comuni una contrazione demografica5.
1
V. CAPPELLI, “Nelle altre Americhe”, in Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, a cura di P. Bevilacqua, A. De Clementi, E. Franzina, Roma, Donzelli, 2002, pp.
97-109; IDEM, “Verso le Americhe. Alle origini dell’emigrazione transoceanica in Calabria e in Lucania”, in Apollinea, novembre-dicembre 2005, n. 6, pp. 32-37; IDEM,
“Immigrazione e urbanizzazione. La presenza degli italiani nelle ‘altre Americhe’”, in
Passato e Presente, n. 71, 2007, pp. 21-44.
2
D. CHIEFFALLO, “Le prime emigrazioni cilentane attraverso le relazioni dei sindaci”, in Memorie migranti, a cura di G. Pecchinenda, Napoli, Ipermedium, 1997, pp.
93-99. G. IMBUCCI, “Il Vallo di Diano tra stagnazione e recessione (1861-1961)”, in
Storia del Vallo di Diano. Età moderna e contemporanea, vol. III.2, a cura di P. Villani, Salerno, Laveglia, 1985, pp. 627-665.
3
G. FERRARI, a cura di, Viaggio nelle aree del terremoto del 16 dicembre 1857, 2
voll., Bologna, Storia Geofisica Ambientale, 2004.
4
G. ALIBERTI, “Tra blocco continentale e crisi agraria: l’economia del Vallo di
Diano nell’Ottocento”, in Storia del Vallo di Diano, cit., pp. 399-437.
5
Negli anni Settanta, Teggiano passa da 7.018 a 5.745 abitanti e Sala Consilina
da 7.732 a 6.107. Cfr. L. MUSELLA, L’agricoltura del Vallo di Diano nell’età liberale.
1861-1914”, in Storia del Vallo di Diano, cit., pp. 549-568.
28
Daedalus 2007
RICERCHE/MATERIALI
Sul finire del secolo, tra il 1884 e il 1900, espatriano ufficialmente dal
Vallo di Diano quasi 31.000 persone (alle quali se ne aggiungeranno altre
22.000 nel primo quindicennio del Novecento). Il paese che dà il maggior
contributo all’esodo è Padula, che nel 1871 ha 8.662 abitanti presenti, ridotti
a 4.553 nel 1911. Gli espatriati sono 4.546 tra il 1884 e il 1899, 2.372 tra il
1901 e il 1915.
Il circondario lucano di Lagonegro, posto tra il Vallo di Diano e il versante calabrese del Pollino, è l’area di più precoce e massiccia emigrazione verso
le Americhe in partenza dalla Lucania. Molti paesi, nell’ultimo ventennio
dell’Ottocento, perdono migliaia di abitanti e così anche i centri della vicina
Val d’Agri. Il primato spetta a San Severino Lucano, che perde il 38% della
popolazione, seguono Montemurro con quasi il 30% e Viggiano con circa il
28%6.
Infine, il territorio calabrese del Pollino e la contigua costa tirrenica detengono anch’essi una sorta di primato migratorio nella loro regione: già
nell’ultimo ventennio dell’Ottocento i Comuni di questo territorio risultano
quasi tutti spopolati. Emergono sugli altri i casi di Morano Calabro e Lungro,
che in vent’anni perdono rispettivamente il 34 e il 30% degli abitanti.
Dall’intero circondario calabrese del Pollino, che fa capo a Castrovillari, partono in vent’anni circa 45.000 persone7.
Ma già nel 1874 un periodico locale, “L’Osservatore Tipografico”, aveva
giudicato l’emigrazione un fenomeno positivo, malgrado l’allarme dei grandi
proprietari, che vedevano “per questo avvenimento dell’emigrazione deserti
di cultori le loro vaste tenute e mancare dei necessari artigiani le grandi e le
piccole borgate”. Lo stesso giornale osservava che “l’emigrazione degli abitanti dell’Italia meridionale per le Americhe prende piede e si sviluppa ogni
6
A. FRANZONI, L’emigrazione in Basilicata, Roma, Tipografia Nazionale Bertero, 1904; A. ROSSI, “Vantaggi e danni dell’emigrazione nel Mezzogiorno d’Italia. Note di un viaggio fatto in Basilicata e in Calabria. Ottobre 1907”, in Bollettino
dell’emigrazione, 1908, n. 13; N. LISANTI, “L’emigrazione lucana dall’Unità al fascismo”, in Lucani nel mondo, Rivista Basilicata Notizie, 1998, n. 1-2, pp. 11-20; R.
GIURA LONGO, “Dall’Unità al fascismo”, in Storia della Basilicata. 4. L’età contemporanea, a cura di G. De Rosa, Roma-Bari, Laterza, 2002, pp. 83-110
7
Al termine del lungo ciclo migratorio, nel 1931, Morano si ritroverà con 5.182
abitanti, dai quasi diecimila del 1881; Lungro conterà 3.571 abitanti, sui 5.742 di cinquant’anni prima. Cfr. V. CAPPELLI, Emigranti, moschetti e podestà. Pagine di storia
sociale e politica nell’area del Pollino (1880-1943), Castrovillari, Il Coscile, 1995;
IDEM, Nelle altre Americhe. Calabresi in Colombia, Panamá, Costa Rica, Guatemala,
Doria di Cassano Jonio, La Mongolfiera, 2004.
29
Daedalus 2007
RICERCHE/MATERIALI
giorno sempre più su vasta scala”, soprattutto nelle “due confinanti provincie
della vastissima Basilicata e della Calabria settentrionale”8.
“L’Osservatore Tipografico”, insomma, già nel 1874, fa dell’emigrazione
il principale argomento di discussione, nonché di critica ai comportamenti
della possidenza agraria, mostrandosi come una sorta di megafono delle agenzie d’emigrazione, che propongono non solo le mete, già ovvie e scontate,
di Buenos Aires e Montevideo, ma anche quelle più insolite del nord–est del
Brasile e dei più lontani porti del Pacifico, in Cile e Perú.
Dieci anni dopo, il fenomeno migratorio è, evidentemente, già tanto diffuso e affermato, a Castrovillari e nel Pollino, che uno scrittore locale, Cristoforo Pepe, ne registra le ripercussioni sociali e culturali, dedicando efficaci e
suggestivi racconti all’inedito problema delle mogli degli “americani”,
ovve9
ro alla questione sociale delle donne lasciate sole dai mariti emigranti 9. E ciò
accade con buon anticipo rispetto ai pochi scrittori italiani che si occuperanno
più tardi dell’argomento.
2. Mestieri artigiani e musicanti di strada, tra socialismo e massoneria.
È abbastanza evidente che non si tratta soltanto di dati quantitativi, bensì
anche di aspetti qualitativi che danno a questa precoce emigrazione particolari connotazioni. Ausonio Franzoni, in seguito all’inchiesta effettuata in Lucania nel 1902 per conto del Presidente del Consiglio Zanardelli, afferma che a
Lauria “è rara la famiglia, anche di medio ceto, che non abbia un membro in
America e che da quello non riceva soccorsi o risparmi”, aggiungendo che la
meta privilegiata è l’America Latina, ma non solo l’Argentina e il Brasile;
infatti molti “si dedicano al commercio minuto e si spargono in Centro America, nel Venezuela e nelle Antille. Ve n’hanno a Portorico in buone condizioni ed a Panama e Caracas”. A Nemoli e Rivello, aggiunge Franzoni,
8
D. R., “L’Emigrazione”, in L’Osservatore Tipografico, 1° febbraio e 1° marzo
1874, nn. 2 e 3. Del periodico escono solo quattro numeri. Vi compaiono anche numerose inserzioni pubblicitarie dei locali agenti di emigrazione, che gestiscono i viaggi
transoceanici diretti alla Plata, in partenza da Le Havre. Ma si evidenziano pure le inserzioni della “Compagnia di Navigazione a Vapore del Pacifico”, che pubblicizza i
viaggi diretti a Valparaíso e Callao, che fanno scalo nelle regioni brasiliane di Pernambuco e Bahia.
9
C. PEPE, Alle falde del Pollino. Racconti patrii (1885), a cura di G. Maradei,
Castrovillari, Il Coscile, 2001.
30
Daedalus 2007
RICERCHE/MATERIALI
“un’industriosità speciale induce gli abitanti ad occuparsi di preferenza nel
mestiere di stagnari e di calderai, ed a portare l’arte loro all’estero con grande
profitto generale. Molti di essi (…) si sono spinti al Centro America, al Venezuela ed alla Colombia”. A Maratea si riscontra “un’emigrazione specialissima, quale la danno alcuni paesi della regione dei laghi lombardi o delle prealpi venete e della riviera genovese. Sono tutti artigiani indoratori, argentari e
stagnai, che si dirigono in Francia, Spagna e Belgio e si spingono invariabilmente anche in America. Anche per essi la sola America possibile è la Latina
(…). Nella Colombia hanno formato nucleo a Bogotà e Porto Bonaventura,
nel Venezuela a San Fernando de Apure e Ciudad Bolivar; alcuni sono stabiliti in Panama ed attendono la riapertura dei lavori [di costruzione del Canale] per realizzare grossi guadagni colle proprietà acquistate. Nell’Ecuador vari di essi si stabilirono in Guayaquil (…) Nel Brasile sta la maggioranza (…)
e vi preferisce gli Stati del Nord e le città [Manaus (Amazonas), Belém (Pará), Recife (Pernambuco), Salvador (Bahia)] (…). In nessun punto – conclude Franzoni –, neppure della Liguria, ove pullula l’elemento marinaresco, mi
avvenne mai di trovare una così generale e pratica conoscenza delle condizioni materiali e politiche dei paesi sud–americani, ed una così matematica
sicurezza di quanto la gente asserisce conoscere”10.
Anche dalla Valle del Mercure, lungo il confine amministrativo tra Lucania e
Calabria, quasi tutti si dirigono verso l’America Latina e in luoghi eccentrici
come il Nord del Brasile (Manaus e Salvador de Bahia, piuttosto che le affollatissime Rio de Janeiro e São Paulo), spesso iniziando come venditori ambulanti e lustrascarpe. Non dappertutto si raggiungono i vertici dell’intraprendenza e della mobilità degli artigiani di Maratea o dei celebri suonatori
d’arpa di Viggiano, ma nella Valle del Mercure, da Castelluccio come da
Laino, anche i contadini che emigrano rifiutano il lavoro dei campi e preferiscono il piccolo commercio11.
Così accade anche, in genere, per l’emigrazione in partenza dal Cilento,
come nel caso delle catene migratorie di Camerota e Lentiscosa che privilegiano il Venezuela e in specie Caracas12.
10
A. FRANZONI, L’emigrazione in Basilicata, cit.; G. ANGELINI, “Progetto di ricerca regionale sull’emigrazione dall’Unità d’Italia al secondo dopoguerra”, in Lucani
nel mondo, Rivista Basilicata Notizie, 1998, n. 1-2, pp. 123-126.
11
L. DE ROSA, Emigranti, capitali e banche (1896-1906), Napoli, Edizione del
Banco di Napoli, 1980, pp. 47-48; A. FRANZONI, L’emigrazione in Basilicata, cit..
12
Nella capitale venezuelana, nel 1931, vengono pubblicizzate, in una rassegna
sugli italiani immigrati in Venezuela, 161 attività commerciali e industriali italiane,
31
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RICERCHE/MATERIALI
Nel primo decennio del Novecento, nella celebre Inchiesta Nitti sulla Lucania e la Calabria, si osserva che “l’emigrazione ha perduto il suo carattere
quasi drammatico: si va e si viene dall’America con la più grande facilità.
(…) dove è una emigrazione ormai antica, si considera il viaggio in America
assai meno che un viaggio a Firenze o a Milano. (…) I contadini non vanno
verso l’ignoto: molti sono già stati in America tre o quattro volte: si va, si
torna, si riparte”13.
Anche a Morano, sul versante calabrese del Pollino, quasi tutti si dirigono
in America Latina, prediligendo Porto Alegre, nell’estremo sud del Brasile,
ma concentrandosi anche in Colombia (in specie le città della costa caraibica:
Barranquilla, Ciénaga, Santa Marta, Cartagena), in Costa Rica (specialmente
a San José) e in Guatemala (nella capitale e a Quetzaltenango). La Colombia
dei moranesi è anche uno dei destini privilegiati dagli emigranti del Vallo di
Diano e in specie di Padula, che vi formano una vasta comunità. E nella stessa Colombia si dirigono tanti emigranti calabresi di Scalea, molti dei quali
dal porto fluviale di Barranquilla si diramano nell’interno lungo le stazioni
commerciali del Rio Magdalena e nell’omonima regione bananiera. Infine,
dall’intero territorio calabro–lucano–campano che stiamo considerando, molti si dirigono anche nelle maggiori isole dei Caraibi, in specie all’Avana e a
Santo Domingo, per esercitarvi i mestieri artigiani, soprattutto la calzoleria e
la sartoria, i commerci e piccole attività industriali14.
L’insieme di questi dati va collegato naturalmente al quadro economico
dell’area di partenza e alle sue stesse caratteristiche orografiche e idrografiche. Si tratta di un territorio piuttosto vasto, disposto lungo un asse di oltre
cento chilometri, che ricade in tre diverse regioni amministrative, ma ha evidelle quali 56 (il 36%) sono gestite da immigrati provenienti dal Salernitano; di questi, 45 (il 28%) provengono dal solo comune di Camerota (cfr. G. D’ANGELO, “Ermenegildo Aliprandi e ‘Gli Italiani in Venezuela’in Orillas. Studi in onore di Giovanni
Battista de Cesare, Salerno, Edizioni del Paguro, 2001, pp. 105-115).
13
F.S. NITTI, Scritti sulla questione meridionale. Vol IV. Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria (1910), tomo 1, a cura di P. Villani e A.
Massafra, Bari, Laterza, 1968, p. 154.
14
Per Cuba: D. CAPOLONGO, a cura di, Emigrazione e presenza italiana in Cuba,
4 voll., Roccarainola, Circolo Culturale B. G. Duns Scoto, 2002-2005; per la Repubblica Dominicana: E. ESPINAL HERNANDEZ, “Aspecto genealógico de la inmigración
italiana en Santiago”, in Revista Raíces, 1994, luglio-dicembre; G. AZCARATE, Los
italianos en América. Historia de familia, 2002 (http://rootsweb.com/~domwgw
/italianosamerica.htm); B. VEGA, Nazismo, fascismo y falangismo en la República
Dominicana, Santo Domingo, Fundación Cultural Dominicana, 1985.
32
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RICERCHE/MATERIALI
dentissimi dati di omogeneità interna. È, infatti, un’area prevalentemente
montagnosa, racchiusa tra i monti Alburni e i monti del Pollino, situata a ridosso della costa tirrenica, sulla quale digradano quasi a precipizio gli aspri
rilievi interni. Il territorio è attraversato da valli fluviali, alcune delle quali
sono utilizzate dalla “via delle Calabrie”, di murattiana e borbonica memoria,
l’unica strada che mette in comunicazione la Calabria con Salerno e Napoli,
fino alla costruzione della ferrovia tirrenica (1895) e della ferrovia interna “a
scartamento ridotto” Castrovillari–Lagonegro (1930). Dal punto di vista economico, nell’intera area prevalgono ovviamente l’agricoltura e la pastorizia,
ma con un vistoso predominio della piccola e della media proprietà, le quali
creano un universo sociale meno polarizzato rispetto alle aree del latifondo
meridionale e al cui interno da lungo tempo sono emerse qua e là particolari
vocazioni artigiane: si pensi ai citati indoratori e argentari di Maratea, agli
orefici, ai calderai e ai ramai di Rivello e Nemoli, agli arpisti di Viggiano, ai
liutai di Castellabate, ma anche ai più numerosi e “banali” calzolai, sarti e
falegnami, figure sociali essenziali nei circuiti dell’economia locale, e ai tanti
mestieri praticati dagli stessi contadini in una dimensione di autoconsumo, al
cui centro si pongono l’unità familiare e i legami parentali.
In questo universo, privo di consistenti centri urbani e demograficamente
frantumato in decine di piccoli e isolati comuni, si colgono preesistenti esperienze di mobilità, che predispongono anche psicologicamente e culturalmente alla emigrazione transoceanica di massa, animata principalmente da artigiani e da contadini (quasi sempre piccoli proprietari e spesso dotati di qualche abilità ed esperienza artigiana), ma alla quale non è estranea neppure la
piccola possidenza agraria locale15.
Infine, bisogna considerare gli elementi di contesto di natura politica, ideologica e culturale, che connotano fortemente i flussi migratori di quest’area.
Si tratta, in particolare, della rigogliosa presenza socialista tra gli artigiani e
anche i piccoli commercianti di Morano Calabro e della notevole tradizione
massonica di Padula, presente in qualche misura anche a Scalea e nelle sue
15
Questa mobilità di lungo periodo, nel corso dell’Ottocento, è particolarmente
evidente a Viggiano, Rivello, Nemoli e Maratea, ma non è estranea neppure al Cilento
e al Vallo di Diano, dove in più luoghi di registra un cedimento demografico già negli
anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento, e si riscontrano esperienze di mobilità preunitaria, come nel caso degli imbianchini di Padula. Cfr. L. MUSELLA, L’agricoltura del
Vallo di Diano nell’età liberale, cit.; G. IMBUCCI, Il Vallo di Diano tra stagnazione e
recessione, cit..
33
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RICERCHE/MATERIALI
immediate vicinanze, oltre che tra le compagnie degli arpisti di Viggiano e
nei paesi contermini.
A Viggiano, che nel 1881 contava quasi 500 musicanti su una popolazione di circa 6.000 abitanti16, aveva sede la Loggia Mario Pagano (fondata intorno al 1887), che pare fosse tra le più importanti del Sud. In un elenco degli
iscritti provenienti da 18 paesi della Val d’Agri risulta che il 48% è costituito
da viggianesi e che il 42% di questi sono musicanti. Sono dati che lasciano
immaginare uno stretto rapporto tra le compagnie itineranti degli arpisti e la
massoneria, la quale sembrerebbe aver predisposto per le compagnie una sorta di lasciapassare internazionale17. Del resto, già nel 1876, il giornale
“L’Arpa Viggianese” era testimonianza della sedimentazione dell’esperienza
sociale internazionale dei musicanti nella realtà materiale e nel patrimonio
colto del luogo18. Ma, sia detto per inciso, ciò non impedirà, di lì a poco, la
repressione, per iniziativa italiana ed europea, dei musicanti di strada, che
condurrà ben presto alla completa scomparsa della tradizione degli arpisti
viggianesi itineranti19.
Più in generale, nel tardo Ottocento, sono presenti logge massoniche in
quasi tutti i paesi lucani di maggiore emigrazione20. Nel Vallo di Diano, con
le logge di Padula (1887) e Sala Consilina (1891), la massoneria ha un notevole sviluppo nell’ultimo ventennio dell’Ottocento. Nei registri del Grande
Oriente si ritrovano i nomi di 184 massoni del Vallo: 57 di essi, quasi un terzo, sono di Padula; altri 39 di Sala21. Tra i padulesi si contano 27 “possidenti”
16
E.V. ALLIEGRO, “Il flautista magico. I musicanti di strada tra identità debole e
rappresentazioni contraddittorie (secc. XVIII-XIX)”, in Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et Mediterranée, 2003, t. 115, pp. 145-182.
17
G.R. CELESTE, L’arpa popolare viggianese nelle fonti documentarie, Viggiano,
Amministrazione Comunale, 1989; www.concorsodelorenzo.it.
18
“L’Arpa Viggianese”, fondata e diretta nel 1876 da Giuseppe Catalano, insegnante delle scuole comunali di Viggiano, ribadisce che, grazie al lavoro dei musicanti di strada sparsi per il mondo, nel paese lucano “ogni tugurio è divenuto casa”. Del
periodico si conoscono cinque numeri, pubblicati tra febbraio e aprile del 1876. Numerosi sono gli accenni ai viggianesi in America. L’editoriale del n. 5, L’intolleranza
e la violenza, sembra ispirarsi all’anticlericalismo tipico della tradizione massonica e
illuminista.
19
E.V. ALLIEGRO, Il flautista magico, cit..
20
È il caso di Lauria, Tramutola, Rivello, Rotonda e, più tardi, di San Severino
Lucano, Lagonegro, ecc. (www.grandeoriente.it).
21
M. CASELLA, “Massoni e massoneria nel Vallo di Diano tra Ottocento e Novecento (Appunti per una ricerca)”, in Archivio Storico Italiano, gennaio-marzo 1995, n.
563-I, pp. 3-82.
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RICERCHE/MATERIALI
(pari al 47%), ma anche 6 artigiani, 7 commercianti, 8 liberi professionisti, 4
insegnanti e impiegati, 3 appaltatori e costruttori, che nell’insieme rappresentano in qualche modo la parte più moderna della società locale. Nell’elenco
degli iscritti ricorrono molti cognomi che ritroviamo nelle comunità padulesi
formatesi tra Otto e Novecento nel Caribe colombiano22.
In Calabria, non lontano dal confine lucano, un centro massonico non trascurabile è Scalea. Nell’elenco degli iscritti alle Logge calabresi del Grande
Oriente compaiono nel primo Novecento 15 massoni nati a Scalea e altri 18
nati nei contigui centri di Maierà e Orsomarso. Si tratta soprattutto di liberi
professionisti, studenti, commercianti e artigiani (i “possidenti” sono soltanto
il 20%), che costituiscono la borghesia modernizzante del luogo. Non siamo
in grado di stabilire un nesso documentato tra l’organizzazione massonica e
l’emigrazione, ma non è certo casuale che in quest’elenco di massoni si ritrovino alcuni cognomi e individui che appartengono alla colonia italiana in Colombia, animata dagli scaleoti più intraprendenti23.
Negli anni Novanta dell’Ottocento, a Morano, dove non si ha traccia di
attività massoniche, si sviluppa, invece, per iniziativa dell’avvocato Nicola
De Cardona, il più florido circolo socialista della Calabria, che ha il suo punto di forza nell’adesione attiva del ceto artigiano, il quale a sua volta è il nerbo dell’emigrazione transoceanica, diretta principalmente a Porto Alegre, nel
sud del Brasile, ma anche in Colombia e in vari paesi del Centro America,
oltre che nelle consuete Buenos Aires e Rio de Janeiro. La giovanile formazione socialista sembra dare agli emigranti maggior determinazione e consapevolezza; e il legame col circolo di De Cardona, grazie anche alla pubblicazione del periodico “Vita Nuova”24, perdurando fino alla compiuta afferma22
È il caso di Apicella, Baratta, Brigante, Camera, Citarella, D’Amato, De Lisa,
Di Gregorio, Di Muro, Ferrigno, Gallo, Moscarella, Mugno, Pinto, Rienzo, Rizzo,
Tepedino, Vegliante e Volpe (tutti presenti, ancora oggi, tra i cognomi di Barranquilla, Cartagena e Santa Marta, come risulta dai Directorios telefónicos delle tre città
colombiane).
23
È il caso di Ciriaco Scoppetta, commerciante a Sevilla e a Santa Marta tra le
due guerre mondiali. Cfr. R. CAMBARERI, La massoneria in Calabria dall’Unità al
Fascismo, Cosenza, Brenner, 1998, p. 329; V. CAPPELLI, Nelle altre Americhe. Calabresi in Colombia, Panamá, Costa Rica, Guatemala, cit., p. 164.
24
“Vita Nuova”, fondato da Nicola De Cardona, esce con periodicità quindicinale, come giornale socialista, dall’11 gennaio 1913 al 19 agosto 1915. Il 1° maggio
1920, ha inizio una seconda serie, questa volta come quindicinale comunista, che terminerà il 15 novembre 1922, dopo l’avvento al potere del fascismo. La straordinaria
originalità dell’esperienza politicogiornalistica è costituita dallo strettissimo rapporto
35
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RICERCHE/MATERIALI
zione del regime fascista, costituisce lo strumento privilegiato per conservare
un legame col paese d’origine, dando luogo ad una singolare esperienza politico–culturale e sociale, altrove sostenuta in genere dalla Chiesa attraverso la
rete capillare delle parrocchie. La durevolezza del rapporto intrattenuto dagli
emigrati con la formazione socialista ricevuta a Morano è confermata dal
persistente antifascismo di molti emigrati moranesi, documentato fino agli
anni Trenta e talora fino alla Seconda guerra mondiale, soprattutto in Costa
Rica e in Colombia25.
2a. In Colombia.
Tra le due guerre mondiali, l’evoluzione dell’impresa migratoria, la conquista di un più elevato status economico e sociale, lo svilupparsi, nel caso
colombiano, dei rapporti tra gli immigrati moranesi e le comunità provenienti
da Padula e da Scalea, aprono la strada all’adesione alla massoneria. Tra gli
immigrati provenienti da queste e da altre località italiane26 sembra che siano
non pochi in Colombia gli aderenti a logge massoniche.
istituito con gli emigrati nelle Americhe, dove vengono inviate tra le cinque e le seicento copie del giornale (su 1.300 di tiratura dichiarata). In numerosi paesi
dell’America latina e a New York il periodico ha i suoi “rappresentanti all’estero”,
che organizzano varie sottoscrizioni tra i compaesani emigrati. Nel periodo 1913-15,
si contano 212 sottoscrizioni individuali per un totale di 1.643 lire; nel dopoguerra
giungeranno frequenti contributi al giornale, divenuto comunista, soprattutto da Barranquilla, Cienaga e Santa Marta (in Colombia), da San José (Costa Rica), da Porto
Alegre (Brasile) e dal Guatemala. V. CAPPELLI, Emigranti, moschetti e podestà, cit..
25
V. CAPPELLI, “Emigrazione transoceanica e socialismo. Il caso di Morano Calabro”, in L’emigrazione calabrese dall’Unità a oggi, a cura di P. BORZOMATI, Roma,
Centro Studi Emigrazione, 1982, pp. 115-133; IDEM, Emigranti, moschetti e podestà,
cit.; IDEM, “Tra ‘Macondo’ e Barranquilla. Gli italiani nella Colombia caraibica dal
tardo Ottocento alla Seconda guerra mondiale”, in Altreitalie, luglio-dicembre 2003,
n. 27, pp. 18-52; IDEM, Nelle altre Americhe. Calabresi in Colombia, Panamá, Costa
Rica, Guatemala, cit.; F. MAINIERI, “inamerica. Emigranti moranesi in America Latina”, in Contrade, maggio 1993, n. 1, pp. 4-63; N. SANTORO de CONSTANTINO, O Italiano da esquina. Imigrantes na sociedade porto-alegrense, Porto Alegre, Est, 1991.
26
Oltre a quelle indicate, assolutamente maggioritarie, si dirigono in Colombia
altre due piccole catene migratorie. La prima in partenza da Ghivizzano (un piccolo
centro della valle del Serchio, in provincia di Lucca), che ha inizio da una delle compagnie itineranti dei celebri “figurinai”, artefici e venditori di statuine di gesso (C.
SARDI, La Colombia e gli Italiani. Appunti, Lucca, Tipografia Editrice Baroni, 1915;
P. TAGLIASACCHI, Coreglia Antelminelli. Patria del Figurinaio, Comune di Coreglia
36
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RICERCHE/MATERIALI
In verità, già nella fase pionieristica dell’immigrazione italiana la massoneria aveva giocato un ruolo fondamentale. Nel tardo Ottocento, aveva acquisito una drammatica notorietà il caso di Ernesto Cerruti, un garibaldino torinese che aveva tentato la fortuna in Colombia nel 1870. Insediatosi nella regione andina del Cauca, affiliato alla massoneria, Cerruti aveva sposato col
solo rito civile una nipote del generale Cipriano de Mosquera – già presidente
della repubblica e capo del radicalismo federalista colombiano – ed era diventato in breve tempo il principale imprenditore del Cauca. Negli anni Settanta diventa protagonista della resistenza liberale, anticlericale e massonica
alla Regeneración conservatrice e cattolica, che più tardi lo farà prigioniero e
gli confischerà tutti beni. Ne deriverà un lungo contenzioso diplomatico tra
Italia e Colombia, che si risolverà solo nel 1899 con l’intervento della marina
militare italiana e l’imposizione di un indennizzo per l’esproprio illegale dei
beni di Cerruti27. Un caso meno eclatante dal punto di vista politico, ma non
meno vistoso dal punto di vista economico, è quello di Juan Bautista Mainero, pioniere dell’immigrazione italiana, giunto giovanissimo, nel 1849, da
Pietra Ligure, nell’antica città coloniale di Cartagena. Alla fine
dell’Ottocento, l’anziano immigrato – che nel frattempo ha investito i profitti
delle imprese di navigazione fluviale e dei commerci tra Cartagena e le regioni dell’interno, entrando in possesso dei ¾ del patrimonio edilizio della
città – ricopre la carica di Soberano Gran Comendator del Supremo Consejo
Masónico Neogranadino, la più antica organizzazione massonica, fondata a
Cartagena nel 1833, sotto la cui giurisdizione sono riunite all’epoca logge
non solo colombiane ma anche messicane, costaricensi e panamensi28.
Antelminelli, 1990). La seconda in partenza da Castelnuovo di Conza (un paesino
campano, situato tra Irpinia e Lucania), trainata in qualche modo dalle famiglie Di
Domenico e Di Ruggiero, che iniziarono proiettando film muti con un’attrezzatura
ambulante e giunsero in breve alla produzione dei primi film colombiani e alla costruzione di cinema e teatri a Bogotá e altrove (J. NIETO-D. ROJAS, Tiempos del Olympia,
Bogotá, Fundación Patrimonio Fílmico, 1992). Non vanno dimenticati, infine, i consueti pionieri dell’immigrazione in America Latina, giunti da Genova e da altre località liguri.
27
V. CAPPELLI, Tra “Macondo” e Barranquilla. Gli italiani nella Colombia caraibica, cit..
28
L.F. MOLINA, “’El Viejo Mainero’. Actividad empresarial de Juan Bautista
Mainero y Trucco en Bolívar, Chocó, Antioquia y Cundinamarca, 1860-1918”, in Boletín Cultural y Bibliográfico, 1988, n. 17; IDEM, Empresarios colombianos del siglo
XIX, Bogotá, El Áncora Editores, 1998; A. MEISEL ROCA, Cartagena 1900-1950: a
37
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RICERCHE/MATERIALI
Quelli di Cerruti e Mainero sono, ovviamente, dei casi limite, sia in termini di ascesa economica che di prestigio sociale, consacrato dal ruolo dirigente esercitato nella massoneria; ma si hanno anche altre tracce, a molteplici
livelli, della presenza di italiani nelle organizzazioni massoniche.
La cittadina costiera di Ciénaga – divenuta tra Otto e Novecento il centro
più popoloso del Magdalena, superando Santa Marta, storico capoluogo del
dipartimento, grazie al boom della coltivazione delle banane promosso e sostenuto dalla United Fruit Company – ospita una nutrita colonia di immigrati
italiani e una florida e attiva loggia massonica. Questa, che ha come sua sede
un sontuoso palazzotto in stile neoclassico, costruito appositamente nel primo
Novecento, annoverava tra i suoi fondatori, nel 1887, José de Andreis (Genova, 1828 – Santa Marta, 1894), imprenditore agricolo, assieme ai fratelli Rafael e Virginio, ed esponente di una famiglia genovese, che risultava presente
a Ciénaga già alla metà dell’Ottocento29. La colonia italiana, molto attiva nei
commerci e nella piccola industria nel primo Novecento, è formata in gran
parte da moranesi, da padulesi e da scaleoti. Ne sono prova i cognomi italiani
più diffusi a quel tempo nella cittadina colombiana: Baratta, Celìa, Contalcure, D’Amato, Di Napoli, Fuscaldo, Feoli, Gentile, Libonati, Lombardi, Mainieri, Mazzilli, Morelli, Moscarella, Paternostro, Russo, Severino, Voto30.
Ancora oggi, Ramón Illán Bacca – uno scrittore samario (cioè nativo di Santa Marta) ma d’origini familiari italiane – segnala che los italianos tenían un
poder social significativo, precisando che todavía los apellidos de origen italiano son en gran parte de clase alta31 .
remolque de la economia nacional, Cuadernos de historia económica y empresarial, n.
4, Cartagena, Banco de la República, 1999.
29
Il consapevole laicismo massonico di José de Andreisnè è documentato in un
messaggio spirituale di notevole spessore culturale, fondato sul culto della libertà e
della tolleranza, che viene allegato al testamento sottoscritto nel 1892 a Santa marta
(http://deandreis.us/phpwebsite)
30
E. RECLUS, Viajie a la Sierra Nevada de Santa Marta (1861), Bogotà, Editorial
‘Cahur’, 1947; J. MOSCARELLA VARELA e A. CORREA DE ANDREIS Los italianos en
Ciénaga, 1989 (dattiloscritto); G. HENRIQUEZ TORRES, El misterio de los Buendía,
Bogotá, Nueva América, 2003; A. MEISEL MOCA, La economía de Ciénaga después
del banano, Cartagena, Banco de la República, Documentos de trabajo sobre economía regional, n. 50, 2004; V. CAPPELLI, Nelle altre Americhe. Calabresi in Colombia,
Panamá, Costa Rica, Guatemala, cit..
31
R.I. BACCA, “Mi Caribe (notas para una improbable autobiografía)”, in Aguaita, giugno 2004, n. 10.
38
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RICERCHE/MATERIALI
Nel 1913, il calabrese Gennaro Viggiano, originario di Morano, celebra a
Ciénaga l’anniversario del XX Settembre, pronunziando in una manifestazione pubblica un vibrante discorso anticlericale, com’è sempre stato costume
della massoneria italiana, in memoria della “breccia di Porta Pia”, aggiungendovi però anche un’intonazione antimonarchica. Se ne dà notizia, con
compiacimento, su “Vita Nuova”, il giornale socialista che si pubblica a Morano:
La festa del 20 Settembre (…) fu così efficace per la nostra propaganda
che sorpassò tutte le nostre modeste previsioni. Parlò per primo Francesco
Darago [di Moliterno], un giovane colto ed intelligente, facendo un bello ed
applaudito discorso. Indi prese la parola il corrispondente Viggiano, che, fra
l’attenzione del pubblico svolse le idee che i socialisti hanno a proposito del
XX Settembre: disse che il potere dei Papi, va a poco a poco decadendo mettendo in confronto il tempo in cui erano padroni degli uomini e degli averi
con oggi, in cui anche le scomuniche si frangono di mano del povero Pio X…
Parlò poi della presente monarchia, che, venuta su combattuta dai preti,
si è oggi accodata a questi pel timore dei sovversivi socialisti. Disse che oramai questa monarchia non corrisponde più ai fini della nostra nazione, perocchè tutto il programma di riforme che doveva dare è finito in una guerra
che ha rovinato tutti ed ha fatto perdere ogni speranza in un migliore avvenire.
La manifestazione ebbe un buon successo per noi, e destò viva impressione in
questa cittadina32.
Nella stessa Ciénaga è certamente massone anche Gennaro Fuscaldo (nato
a Morano nel 1876), proprietario del calzaturificio Casa Azul33 Sia Viggiano
che Fuscaldo, da giovani – sarto il primo e calzolaio il secondo –, erano stati
attivissimi socialisti nel Circolo politico creato a Morano nel 1895 da Nicola
De Cardona (Fuscaldo era stato addirittura incarcerato per quattro mesi e
processato, nel 1896, assieme ad altri 25 socialisti di Morano e Castrovillari).
Ed essi perseverano nelle loro convinzioni politiche anche in Colombia,
V. G., “Dall’America. Cienaga, 11 ottobre”, in Vita Nuova, 1 dicembre 1913.
L’affiliazione massonica è asserita dal figlio Gennaro Fuscaldo jr (Morano,
19242007), che visse a Fundación (Magdalena) tra il 1953 e il 1973 (Testimonianza
raccolta l’8 novembre 2003 e il 18 aprile 2005). Gennaro Fuscaldo sr (Morano 1876),
dopo una breve esperienza in Costa Rica, rimane definitivamente in Colombia, dove
forma una nuova famiglia, nella quale nasceranno sei figli (Testimonianza di Juan
Luis Zapata Fuscaldo, Cali, Colombia, 16 novembre 2007).
32
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RICERCHE/MATERIALI
com’è documentato (almeno nel caso di Viggiano) fino al 193134. Ma la giovanile formazione socialista non è un ostacolo, anzi sembra predisporre agli
interessi e alle pratiche massoniche.
Spostatosi da Ciénaga a Barranquilla, Gennaro Viggiano, all’inizio degli
anni Venti, assieme ai compaesani Giuseppe Aronne e Biagio Barletta, è uno
dei corrispondenti del giornale socialista “Vita Nuova”, che mantiene strettissimi rapporti con gli emigrati. Biagio Barletta, commerciante di idee socialiste, in Colombia dal 1905, era rientrato una prima volta a Morano nel 191314, impegnandosi attivamente nelle battaglie politico–amministrative del Circolo Socialista, e nel 1917, assieme al compaesano Antonio Celìa, aveva fondato a Barranquilla un calzaturificio, che sarebbe diventato ben presto una
delle più floride industrie della città35. È questa l’epoca, probabilmente, della
sua adesione alla massoneria. In essa sembra coniugarsi emblematicamente
l’esplosivo sviluppo economico di Barranquilla – la quale alla fine degli anni
Venti è diventata, in quanto principale porto colombiano, una città commerciale e industriale di 140.000 abitanti – con i più vasti processi di modernizzazione, sostenuti anche dal laicismo massonico e culminanti, nell’intera Colombia, nella leadership liberal–radicale di Alfonso López Pumarejo (19301946)36.
Questa sorta di primavera sociale colombiana, che avrà il suo tragico epilogo nel 1948 con l’impressionante ondata di violenza successiva
all’omicidio del leader populista Eliécer Gaitán, è resa possibile, in realtà, da
diversi decenni di trasformazione anche culturale, durante i quali l’humus
mercantile della città ha assegnato un ruolo non secondario alla massoneria.
Lo scrittore Ramón Illán Bacca, in un suo testo su Barranquilla tra Otto e
Novecento, ha rievocato efficacemente l’allarme della chiesa locale rappresentato dagli scritti e dalle prediche di Padre Revollo, parroco di San Nicolás,
34
V. CAPPELLI, Tra “Macondo” e Barranquilla. Gli italiani nella Colombia caraibica, cit.; IDEM, Nelle altre Americhe. Calabresi in Colombia, Panamá, Costa Rica,
Guatemala, cit..
35
IDEM, Nelle altre Americhe, cit..
36
M. PALACIOS e F. SAFFORD, Colombia. País fragmentado, sociedad dividida.
Su historia, Bogotá, Grupo Editorial Norma, 2002; J. VILLALÓN DONOSO, a cura di,
Historia de Barranquilla, Barranquilla, Ediciones Uninorte, 2000; E. POSADA CARBÓ,
El Caribe colombiano. Una historia regional (1870-1950), Bogotá, Banco de la República-El Áncora Editores, 1998; G. BELL LEMUS, a cura di, El Caribe colombiano.
Selección de textos históricos, Barranquilla, Ediciones Uninorte, 1988.
40
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RICERCHE/MATERIALI
patrono di Barranquilla, nonché direttore spirituale della Juventud Católica,
che riuniva i giovani della élite cittadina. Il Padre Revollo sentiva la Chiesa
minacciata dalla diffusione della massoneria, dell’anarchismo, dello spiritismo e del modernismo, che accentuavano el carácter laico de la sociedad
barranquillera. La massoneria, aggiunge Bacca, tenía logias desde 1840 y su
importancia se puso de relieve con la construcción del Cementerio Universal
en 1870, en el que, a diferencia de las demás ciudades de Colombia, se inhumó a hebreos, protestantes y católicos37 . L’estesa influenza massonica e la
presenza di stranieri delle più varie provenienze culturali e religiose (tedeschi
protestanti, italiani cattolici ma anche massoni e socialisti, ebrei sefarditi di
varia provenienza, sirio–libanesi di religione cristiano–maronita o mussulmana, ecc.) spiegano anche la grande diffusione di unioni libere e matrimoni civili già nel tardo Ottocento38.
Ciò accade, naturalmente, nel contesto di un tradizionale predominio conservatore e clericale, che tuttavia provoca una crescente resistenza ideologica
e culturale, rappresentata principalmente dal liberalismo e dalla massoneria.
L’egemonia cattolica trova, inoltre, un nuovo ostacolo nell’immigrazione europea e sirio–libanese. Per comprendere il cambiamento e il conflitto in atto,
si pensi che, nel 1892, il giornale cattolico Colombia Cristiana, di fronte alla
ipotizzata colonizzazione agricola della Sierra Nevada di Santa Marta, che
sarebbe dovuta avvenire ad opera di alcune migliaia di italiani, aveva reagito
affermando senza peli sulla lingua che valía más que nos trajesen culebras o
alacranes, ritenendo evidentemente gli italiani, portatori di anarchia e di sovversione sociale, più pericolosi di serpenti e scorpioni39. Vent’anni dopo, in37
R.I. BACCA, “Voces de Barranquilla”, in El Malpensante, 1 maggio-15 giugno
2003, n. 46. La reazione cattolica all’egualitarismo tollerante del Cementerio Universal, amministrato da massoni ed ebrei che pretendevano di trattare allo stesso modo e
nello stesso luogo le sepolture dei defunti d’ogni fede religiosa, è talmente virulenta e
rabbiosa che nel 1901 l’arcivescovo Pietro Adamo Brioschi e i parroci di Barranquilla
decidono in una riunione que cada parroquia construya su cementerio católico y que
quede el Universal para celebrar a los católicos renegados y suicidados (M.
GOENAGA, Lecturas locales. Crónicas de la vieja Barranquilla, Barranquilla, Imprenta Departamental, 1953).
38
D. MIRANDA SALCEDO, “Famiglia, matrimonio y mujer: el discurso de la iglesia católica en Barranquilla (1863-1930)”, in Historia Crítica, gennaio-giugno 2002,
n. 23.
39
V. CAPPELLI, Tra “Macondo” e Barranquilla. Gli italiani nella Colombia caraibica, cit..
41
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vece, il periodico El Progreso giudica la massoneria – che a suo dire ha radici molto forti proprio nei dipartimenti del Caribe – como un incentivo poderoso para la inmigración en Europa, debido a que los prejuicios de la religión oponen a los diversos sectores en su exclusión dogmática, y hoy la vida
moderna, en los países adelantados, necesita trabajos, energía, acción. E lo
stesso giornale, nel 1912, ritiene che gli immigrati sirio–libanesi in Colombia
impulsan el progreso, se casan y se quedan, siendo modelo de sobriedad y
honradez40 .
Insomma, tra Otto e Novecento, Barranquilla si definisce, in quanto città–
porto e città–mercato, come uno spazio culturalmente eterogeneo. Eduardo
Márceles Daconte, uno scrittore colombiano nativo di Aracataca (lo stesso
luogo di nascita di Gabriel García Márquez, nel dipartimento del Magdalena),
anch’egli di origini italiane, sottolinea efficacemente queste caratteristiche
del Caribe colombiano:
El sincretismo trietnico es la base racial y cultural de la población caribeña. Los elementos españoles, indígenas y africanos se constituyen en el patrimonio de nuestra civilización. No obstante, por su posición geográfica, la
región caribeña ha estado siempre sujeta a las migraciones, o como lugar de
tránsito comercial o turístico. A partir del siglo XIX, con la migración de italianos, judios de diversas nacionalidades europeas, árabes cristianos y musulmanes, chinos, entre otros inmigrantes a la región Caribe, nuestra cultura
se ha enriquesido con estas aportaciones que obligan a reconsiderar el tronco triétnico en favor de una fisionomía racial y cultural de naturaleza íbrida
o poliétnica y multicultural41 .
In questo crogiolo si svolge, dunque, nel primo Novecento l’avventura
migratoria di Viggiano, Aronne, Barletta, Celìa e degli altri immigrati calabresi di Barranquilla. Ma, prima di concentrarci sulla figura di Biagio Barletta, le cui fortune e le cui disavventure sono oggetto privilegiato di questo
saggio, proseguiamo con la nostra carrellata sulle frequentazioni massoniche
degli immigrati anche in altri luoghi e Paesi del Caribe e del Centroamerica.
40
R. VOS OBESO, “La religiosidad en la vida de las mujeres barranquilleras”, in
Boletín Cultural y Bibliográfico, 1996, n. 42.
41
E. MARCELES DACONTE, “El Caribe: balance y retos para siglo XXI”, in El Heraldo, 20 agosto 2000.
42
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2b. In Guatemala.
Qualcosa di simile alle cose dette per la Colombia sembra accadere nei
Paesi centroamericani. Prendiamo in considerazione Costa Rica e Guatemala.
In quest’ultimo Paese, in particolare nella piccola città di Quetzaltenango (il
secondo centro urbano del Guatemala, capoluogo della regione de Los Altos),
secondo lo storico guatemalteco Arturo Taracena Arriola, si ebbe nel tardo
Ottocento
la participación de un sorprendente núcleo de arquitectos, ingenieros, escultores, pintores y decoradores italianos, algunos de los cuales eran miembros de las Logias “Fénix no. 2” y “Estrella de Occidente no. 4” [fondate,
rispettivamente, nel 1888 e nel 1894]. Dicho grupo de artistas estaba enmarcado en el seno de una fuerte migración italiana, que llegó a Guatemala a
finales del siglo XIX atraída por la política inmigratoria del régimen liberal.
Muchos de sus miembros se asentaron en la ciudad de Quetzaltenango (…)
para ejercer el comercio, la industria, las artesanías y la construcción42 .
Tra gli architetti e i costruttori italiani43, che ridefiniscono lo stile architettonico quetzalteco con una forte impronta classicista, suggerita e ispirata dalla grande influenza massonica, troviamo Carmine Rimola, giunto in Guatemala nel 1899. Si dà il caso che Rimola provenga da Castrovillari, dove esercitava il mestiere di falegname e si era manifestato come fervente socialista,
iscritto al partito, e sostenitore del dirigente moranese Nicola De Cardona44.
Giunto in Guatemala, diventa in brevissimo tempo un apprezzato “architetto”
42
A. TARACENA ARRIOLA, “La arquitectura regional quetzalteca: una proposición
de ‘unidad cultural’”, in Centroamericana, 2002, n. 10.
43
Alberto Porta, Lorenzo Durini, Gustavo Novella, Vittorio Cottone, ecc.. Cfr.
M. APPELIUS, Le terre che tremano (Guatemala, Salvador, Honduras, Nicaragua, Costa Rica, Panama), Milano, Edizioni “Alpes”, 1930, pp. 28-30; A. TARACENA
ARRIOLA, La arquitectura regional quetzalteca, cit..
44
Carmine Rimola (nato a Castrovillari nel 1868 da Rocco e da Caterina Rubini),
nel 1896 è indicato dal Prefetto di Cosenza al Ministero dell’Interno come falegname
iscritto al Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Il Prefetto precisa che Rimola riceve e legge giornali “sovversivi” e che il 9 aprile ha preso parte al banchetto organizzato in occasione dell’arrivo dell’on. Enrico Ferri, celebre penalista socialista, che
difende l’agitatore socialista moranese Nicola De Car-dona nella causa che il giorno
successivo si celebra nel Tribunale di Castrovillari per il reato di “istigazione a delinquere”. Tre anni dopo, la Prefettura registra, zelante, che Rimola il 2 settembre 1899
si imbarca a Napoli sul piroscafo “Venezuela” diretto in Panamà. Archivio Centrale
dello Stato, Casellario Politico Centrale [d’ora in poi: ACS, CPC], b. 4332, f. 8399
(Rimola Carmine); b. 1644, f. 50476 (De Cardona Nicola).
43
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(sono suoi, a Quetzaltenango, l’edificio neorinascimentale del Banco de Occidente, la facciata corinzia dell’Instituto Nacional para Varones y Escuela
Practica, il Tempio Minerva, replica filologica di un tempio greco, e il Monumento al León, dedicato a Manuel Estrada Cabrera, presidente–padrone del
Guatemala dal 1898 al 1920). Mantenendo frequenti rapporti, negli anni successivi, con i socialisti di Morano, negli anni Venti Rimola diventa presidente
della “Società Italiana di Beneficenza” (del cui gruppo dirigente fanno parte
anche i commercianti moranesi Umberto Grazioso e Rocco Rosito), nonché
membro riconosciuto di una Loggia massonica45. Il socialismo giovanile di
Rimola è condiviso anche da alcuni altri immigrati moranesi, come gli artigiani Rocco Caffaro e Umberto Grazioso, operanti, rispettivamente, nella sartoria e nella calzoleria46. Ma il contesto politico e sociale guatemalteco, con
una successione quasi ininterrotta di dittature militari, rende pressoché impraticabile questa vocazione ideologica socialista, sicché l’integrazione sociale e
i successi economici degli immigrati finiscono con l’incrociare, piuttosto, le
organizzazioni massoniche. Peraltro, nel 1932, nessun immigrato proveniente
da Morano figura tra i dirigenti del Fascio all’estero costituito in Guatemala47. Bisognerà attendere, tuttavia, l’effimera “primavera democratica” di
Juan José Arévalo e di Jacobo Arbenz (1944-1954), perché riemerga qualche
elemento della primitiva ispirazione politica degli immigrati moranesi, come
nel caso di Ernesto Capuano Del Vecchio, uno dei collaboratori del presidente Arbenz nella cosiddetta “rivoluzione d’ottobre” guatemalteca48.
45
È quanto asserisce il ricco costruttore d’origine genovese Carlo Federico Novella, nelle vesti di console italiano, il quale afferma pure che la maggioranza degli
italiani di Quetzaltenango proviene da Morano Calabro (ACS, CPC, b. 4332, f. 8399,
Rimola Carmine).
46
V. CAPPELLI, Nelle altre Americhe, cit.; F. DE MARTINO, “Corrispondenze
dall’estero. Da Quetzaltenango - Guatemala”, in Il Moto, 2 aprile 1911, a. VI, n. 1.
47
E. ALIPRANDI-V. MARTINI, a cura di, Gli italiani nell’America Centrale. II edizione (Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua, Panamá), Santa
Tecla (El Salvador), Escuela Tipográfica Salesiana, 1932
48
J.A. ZUÑIGA, Necesario unificarse para buscar la democracia en AL: Ernesto
Capuano, 2001, (www.jornada.unam.mx/2001/jun01/010624/038n2soc.html); E.
CAPUANO, “Las causas de la crisis actual”, in Debate, novembre 2001
(www.caldh.org/noviembre01.htm); D. POMPEJANO, Storia e conflitti del Centroamerica. Gli Stati d’allerta, Firenze, Giunti, 1991; V. CAPPELLI, “Guatemala di orrori e di
sorprese”, in il Quotidiano della Calabria, 18 novembre 2007, pp. 48-49.
44
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2c. In Costa Rica.
In Costa Rica, nella prima metà del Novecento, la comunità italiana ha un
leader combattivo ed estroverso nell’ex anarchico Adriano Ariè49. Nato a
Roma nel 1876, Ariè, quando aveva diciotto anni, era stato condannato per
aver partecipato ad alcuni attentati anarchici. Fintosi pazzo per sottrarsi al
domicilio coatto, nel 1898 era emigrato in America Latina. Dopo brevi esperienze in Brasile e in Venezuela, nel 1904 approda in Costa Rica, dove avvia
una brillante attività di pittore decoratore e sposa una giovane e ricca costaricense. Ai suoi apprezzati lavori artistici affianca un’intensa attività oratoria e
giornalistica, nella quale afferma con orgoglio le proprie radici italiane. Attivo interventista nella prima guerra mondiale, si opporrà poi con forza al fascismo per tutto il Ventennio, professandosi “repubblicano” e organizzando
buona parte della comunità italiana su basi laiche e antifasciste. Con questi
intendimenti presiede a San José la “Società Italiana di Mutuo Soccorso” e
dirige negli anni Trenta la radio Voz de Italia, scontrandosi ripetutamente e
violentemente col Fascio italiano all’estero di San José e con le autorità diplomatiche italiane. In queste sue esperienze conserva il laicismo della sua
formazione repubblicano–anarchica, comune anche al fratello Giuseppe, che
era tornato a Roma dopo vari anni trascorsi a Buenos Aires. Ai funerali romani di quest’ultimo, morto nel 1933, partecipano, non per caso, cento “garibaldini” in camicia rossa e vecchi repubblicani con bandiere garibaldine e
della “Società Cavalieri del Genere Umano”. Non è difficile immaginare
l’affiliazione massonica di Giuseppe Ariè, legatissimo peraltro al fratello
“costaricense”, il quale ultimo tornava spesso a Roma50.
L’aura libertaria, anticlericale e massonica di Adriano Arié trova in Costa
Rica, agli inizi del Novecento, le tracce di precedenti esperienze massoniche,
cui avevano partecipato non pochi italiani. Uno studio recente sulla massone49
La principale fonte documentaria utilizzata per ricostruire la biografia di Adriano Ariè è in ACS, CPC, b. 187; f. 74633 (Ariè Adriano), f. 74634 (Ariè Giuseppe).
50
Adriano Ariè aveva acquistato un appartamento in viale Regina Margherita,
mentre a San José, intorno al 1910, aveva costruito e personalmente decorato per la
sua famiglia una nuova casa in stile modernista nel Barrio Amón. Sull’intera vicenda
cfr. V. CAPPELLI, Emigranti, moschetti e podestà, cit.; IDEM, Nelle altre Americhe,
cit.; R. BARIATTI, Italianos en Costa Rica, 1502-1952. De Cristóbal Colón a San Vito
de Java, San José (Costa Rica), Universidad Autónoma de Centro América, 2001; F.
QUESADA AVENDAÑO, “ ‘El ambiente de la élite’. Modernidad, segregación urbana y
transformación arquitectónica: San José, Costa Rica, 1890-1935”, in Scripta Nova, 1
agosto 2003, n. 146.
45
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ria costaricense segnala, infatti, che nell’ultimo trentennio dell’Ottocento il
40% dei massoni censiti (264 su 649) è costituito da stranieri, tra i quali si
contano 23 italiani, che costituiscono il gruppo europeo più nutrito, preceduto
solo dagli spagnoli (56). Non è senza significato, inoltre, che l’attività prevalente tra i massoni fosse il commercio e che tra i commercianti massoni il
58% fosse costituito da stranieri51.
Nella prima metà del nuovo secolo, i principali interlocutori di Adriano
Ariè in Costa Rica sono i numerosissimi immigrati provenienti da Morano
Calabro, molti dei quali erano giunti a San José, tra Otto e Novecento, animati dagli ideali socialisti coltivati nel circolo guidato da Nicola De Cardona.
Per alcuni decenni, il socialismo appreso in patria viene coltivato nel paese
d’adozione, nel quale lo sviluppo economico si dipana in un singolare e dinamico contesto democratico, dando luogo ad un processo di modernizzazione davvero straordinario in Centroamerica e nei Caraibi. La matura dialettica
sociale e politica di Costa Rica consente il manifestarsi del movimento socialista, al quale diversi moranesi partecipano, sin da quando, nel 1913, si celebra per la prima volta la festa del Primo Maggio. Alcuni di essi si entusiasmeranno più tardi per la fondazione del Centro Socialista di Aniceto Montero e per le lotte sociali in atto intorno al 1920. E parteciperanno anche alle
prime iniziative comuniste costaricensi nel 1931-3252. Ma un appuntamento
ricorrente per tanti immigrati moranesi, sin dai primissimi anni del Novecento, è la celebrazione del XX Settembre53. Il laico anniversario, tradizionale
appuntamento d’ispirazione risorgimentale e massonica, abolito nell’Italia
fascista in seguito ai Patti Lateranensi (1929), nel 1931 viene ancora celebrato dagli italiani in Costa Rica. L’iniziativa è di Adriano Ariè, che in quello
stesso anno viene rieletto presidente della “Società Italiana di Mutuo Soccorso”, grazie anche al sostegno del suo amico Nicola Feoli, un ricco importatore di tessuti italiani, originario di Morano. Il percorso biografico di Feoli è
51
R. MARTINEZ ESQUIVEL, “Composición socio-ocupacional de los masones del
siglo XIX”, in Diálogos. Revista Electrónica de Historia, vol. 8, n. 2, agosto 2007 febbraio 2008, pp. 124-147 (htpp://historia.fcs.ucr.ac.cr/dialogos.htm).
52
V. CAPPELLI, Nelle altre Americhe, cit.; V. DE LA CRUZ, Las luchas sociales
en Costa Rica, San José, Editorial Universidad de CR-Editorial CR, 1980.
53
Il primo documento in proposito risale al 1906. Si tratta di una foto che ritrae
32 italiani in posa, per lo più moranesi, che festeggiano il XX Settembre a San José,
impugnando bottiglie di vino e sventolando la bandiera di Costa Rica e quella italiana.
La foto fu portata a Morano dal calzolaio socialista Francesco Celìa, che vi aveva apposto la scritta “Recuerdo del 20 de setiembre 1906” (Archivio Cisit, Morano).
46
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emblematico delle scelte migratorie e dei successi della colonia moranese di
Costa Rica: nato nel 1886, giovane calzolaio d’idee socialiste a Morano, emigra in Centroamerica nel 1907; sposata una donna romana (precedentemente emigrata in Brasile) e raggiunto un notevole successo economico come
importatore e commerciante di tessuti, diviene amico di Arié e spesso si reca
anch’egli a Roma, conservando fino ai primi anni Trenta posizioni apertamente antifasciste. È lui, infatti, che finanzia la celebrazione del XX Settembre del ’31 a San José, anche per consentire di partecipare al pranzo commemorativo a quegli italiani “che per motivi di ristrettezze finanziarie non sarebbero potuti intervenire”54.
Dopo qualche settimana, il 4 novembre 1931, Arié organizza e celebra la
posa della prima pietra della “Casa Italia” alla presenza di Cleto González
Víquez, Presidente della Repubblica di Costa Rica (1928-1932), conquistando così il riconoscimento istituzionale, da parte del governo costaricense, della presenza organizzata della comunità italiana antifascista, che peraltro seguiterà a farsi sentire fino al crollo del fascismo nella Seconda guerra mondiale55. Nel frattempo, procede l’integrazione sociale e culturale nel paese
d’adozione, assieme a un vistoso avanzamento economico della maggioranza
ACS, CPC, b. 1998, f. 6935 (Feoli Nicola).
Sull’attività antifascista degli italiani, basti segnalare, in questa sede, la “Unione Democratica Italiana Antifascista”, costituita nel 1929 dal friulano Osvaldo Salvador, alla cui attività collaborano i calabresi Nunzio Frasca, Antonio Vitola e Francesco La Regina; nonché il “Movimiento Italia Libre”, fondato da Ariè nel 1941 e diretto, tra gli altri, da Nunzio Frasca e Francisco Mainieri Aronne. Cfr. ACS, CPC, b.
2723, f. 34677 (La Regina Francesco); b. 187, f. 74633 (Ariè Adriano). Circa la credibilità acquisita da Adriano Ariè presso le autorità politiche di Costa Rica, si può aggiungere che il già ministro della pubblica istruzione Luis Doble Segreda (Heredia,
1890-1954) scrive la prefazione ad una snella ed entusiasta monografia di Ariè sulla
storia antica di Roma, nella quale l’autore non fa alcuna concessione all’imperante
uso fascista del mito della romanità, semplicemente ignorando l’armamentario retorico del fascismo e la stessa esistenza del regime. Lo stesso Ariè, ormai anziano, seguiterà nel secondo dopoguerra nella sua attività giornalistica a carattere storico-politico,
pubblicando anche un saggio sulla Carboneria e sul Risorgimento. Cfr. A. ARIÉ, Roma
a traves de su historia, con prólogo del ex ministro de la instrucción pública prof. don
Luis Dobles Segreda, San José (Costa Rica), Libreria e Imprenta Universal, 1930;
IDEM, En conmemoración del primer centenario del Resurgimiento italiano, 18481948. La Carboneria Italiana, s. l. [San José, Costa Rica], Gente Itálica, Imp. “La Nación”, 1948.
54
55
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degli immigrati, attivi nei commerci, nell’artigianato e nella piccola industria56.
3. Nel Caribe colombiano: l’ascesa economica di Biagio Barletta e
il “Complotto di Barcellona”57 .
Il 7 febbraio 1927, il farmacista colombiano Simon G. Carroll M., di ritorno da un viaggio in Italia, spedisce da Barranquilla (Calle San Blas, 85 –
Libano–Cuartel) due lettere, la prima indirizzata a Benito Mussolini, la seconda al poliziotto Angelo Abbattista, presso il Commissariato di Pubblica
Sicurezza di Palazzo Reale a Milano, che egli aveva conosciuto durante il suo
viaggio italiano, nel novembre dell’anno precedente. La lettera all’agente di
polizia è scritta su una carta intestata, a carattere pubblicitario, che illustra las
especialidades de Walter Carroll, M. de Santa Marta (il farmacista Walter
Carroll, padre di Simon, è notissimo, agli inizi del Novecento, per una sua
miracolosa Agua mineral depurativa, che cura sifilis, reumatismo, ulcera,
etc.)58. Nella lettera al Duce, Simon Carroll scrive tra l’altro:
En el mes de Noviembre p. p. tuve necesidad de ir a Barcelona por asuntos
de negocios y allí tuve ocasion de darme cuenta que en la calle Ataulfo, casa
no. 7, se reunian unos masones en secciones privadas y en ellas trataban de
un plan contra la vida de su Excm. La mayor parte de los que se reunian eran franceses e italianos hay algunos Benezolanos (sic) y Colombia-nos; en
una de esas secciones nombraron espias los cuales siguieron o deben haber
seguido con rumbo a Milan y a Roma para establecerce en esas dos ciudas
(sic) y allí poder dar los informes a los cabesillas del plan. Entre los que se
reunian y los que nombraron como espias que debian seguir a Milan hay los
señores de los nombres siguentes :
Rafel (sic) Emilio Infante, Manuel Antonio Enriquez (sic), José Francisco
Riascos, Manuel Nuñez, Hernando Soto. &. &. Estos señores tienen dinero o
56
V. CAPPELLI, Emigranti, moschetti e podestà, cit.; IDEM, Nelle altre Americhe,
cit.; R. BARIATTI, Italianos en Costa Rica, cit..
57
La documentazione d’archivio relativa al “Complotto di Barcellona” è in ACS,
Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Affari Generali e Riservati, Complotti,
H2=112, 1927. In assenza di ulteriori indicazioni, si rimanda, nelle pagine che seguono, a questa fonte.
58
L.A. LOBOGUERRERO, La botica de principios del siglo XX
(www.afidro.com/artecurar/ p37/m_tex.htm).
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mejor dicho son capitalistas y viven en Barcelona, son Colombianos; los otros son italianos y franceses, y un Venezolano de apellido Jojas y un italiano
que se llama Blas Barletta que actualmente estaba en Morano Italia y el les
suministraba muchos informes.
Estos señores se que unos de ellos iba a vivir en la Pension Bonina Milano
plaza del Duomo y los otros en los Hoteles vecinos, y otros seguian a Roma.
Creo que con estos datos, su Excelencia se pondrá en guardia y podrá prevenirse contra sementa atantado (sic).
Por la premura de mi viaje no me fue posible del mismo (sic) Italia darle el
aviso, directamente pero a algunos policias de Milano le di los informes en el
mes de diciembre que yo tuve la dicha de regresar a Italia. Ojala que estos
datos le lleguen oportunos son los deseos de este servidor suyo que b. s. m.
La denuncia, malgrado la sua evidente bizzarria, determina rapidamente
gli effetti desiderati: l’unico italiano indicato da Carroll nella sua lettera, Biagio Barletta, viene arrestato a Morano Calabro il 4 aprile, viene subito dopo
condotto in Questura a Cosenza e infine tradotto in carcere. Il giorno successivo, in un rapporto della Prefettura di Cosenza al Ministero dell’Interno, si
riferiscono le risultanze della perquisizione domiciliare e del primo interrogatorio al quale l’arrestato è stato sottoposto.
Biagio Barletta, già calzolaio socialista a Morano, vive dal 1905 a Barranquilla, dov’è diventato un industriale calzaturiero. Rientrato già due volte in
Italia (nel 1913 e nel 1923), è partito per la terza volta dalla Colombia il 3
gennaio 1926. Dopo essersi fermato per due mesi a Parigi, dove si è affidato
per i suoi problemi di salute alla clinica di un tale dottor Abrami, è giunto a
Morano il 24 marzo. Dunque, l’arresto del 4 aprile 1927 è avvenuto dopo un
anno di permanenza presso la sua famiglia italiana (la moglie, Maria Vitola,
sposata nel 1923, non l’aveva seguito in Colombia; ed egli, a Barranquilla,
come molti altri immigrati, aveva formato un’altra famiglia)59. In quel frangente, Barletta, prima di essere arrestato, si accingeva a rientrare nella città
colombiana.
Nella sua abitazione vengono sequestrate alcune lettere, “dalle quali emerge che egli frequentava in Columbia (sic) compagnie di sovversivi, date
alcune allocuzioni che debbono interpretarsi offensive verso il Governo Na59
Dal matrimonio italiano nascono, negli anni Venti, tre figli (Colombia, Franco
e Maria), dall’unione colombiana ne nascono, negli anni Trenta, altri due (Blas e
Francisco). Cfr. V. CAPPELLI, Nelle altre Americhe, cit., pp. 117-118; Testimonianza
di Blas Barletta, Barranquilla, novembre 2005.
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zionale, ed aveva ed ha relazioni con elementi di Barcellona, tra cui Manuel
Antonio Henriquez”, commerciante colombiano di Ciénaga, suo amico da
vent’anni, che vive in quel periodo nella città catalana. “Dal complesso dei
documenti sequestratigli – aggiunge nel suo rapporto il prefetto di Cosenza
Agostino Guerresi – risulta aver professato in America sentimenti massonici
ed è stato rinvenuto, fra l’altro, un discorso scritto in lingua spagnuola e da
lui letto nella ricorrenza del XX Settembre in Columbia (sic), probabilmente
in qualche loggia massonica”.
L’indagine di polizia si estende a Barcellona, dove il console italiano della città, interpellato a proposito del presunto “complotto massonico” di Barletta, in un rapporto datato 25 aprile, precisa che “nella Loggia Massonica di
Calle Ataulfo n. 7 hanno avuto ed hanno tuttora luogo riunioni, alle quali assistono sudditi colombiani. Fra essi sono un medico, un dentista e diversi
commercianti, sul conto dei quali nulla vi è da ridire né moralmente né materialmente. Saltuariamente hanno assistito a tali riunioni anche degli italiani,
ma non appartenenti alla colonia di Barcellona. Erano connazionali di passaggio, che approfittavano del loro soggiorno in questa città per salutare i
massoni qui dimoranti. Sembra che in una di tali riunioni – parecchio tempo
fa – commentarono le persecuzioni di cui erano oggetto in Italia i loro compagni di fede da parte del governo di S. E. Mussolini (…). Non risulta però vi
si siano organizzati complotti, né parlato di attentati ma soltanto di lotta politica.”
Più tardi, il console di Barcellona ribadisce “che dalle indagini ulteriormente esperite sul denunciato complotto null’altro di nuovo e d’importante è
venuto alla luce. Da parte della locale polizia si continua ad escludere in forma quasi assoluta che nella loggia massonica di Calle Ataulfo, 7, si sia ordito
o comunque progettato un complotto contro S.E. il Capo del Governo. Nella
predetta loggia non convengono che persone benestanti dedite ai propri
commerci ed aliene da ogni azione politica violenta”.
“Dal Consolato di Colombia al quale pure vennero chieste notizie
sull’Henriquez e sull’Infante, due delle persone colle quali il Barletta avrebbe
avuto rapporti, si è saputo che entrambi hanno fatto ritorno in Colombia; il
primo nel gennaio scorso ed il secondo nel febbraio. L’uno e l’altro dimoravano a Barcellona in quartieri ottimamente frequentati e dalla vita che conducevano nulla risulta che faccia supporre che professassero idee di violenza”.
“Causa la partenza dell’Henriquez – commenta il Ministero degli Affari
Esteri, in un rapporto inviato il 15 giugno alla Direzione della Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno – devesi rinunziare ad approfondire il genere
di relazioni che correvano fra il Barletta ed il predetto, ma da quanto si può
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dedurre non si tratta che di relazioni commerciali e di amicizia, benché entrambi compartissero le stesse idee politiche e frequentassero la già citata
loggia massonica che, del resto, non ha altro carattere che quello di luogo di
ritrovo frequentato specialmente da americani delle Repubbliche del Sud che
vi accorrono quando hanno occasione di venire a Barcellona per ritrovare gli
amici e i conoscenti”.
Il legale nominato da Barletta, l’avvocato cosentino Filippo Coscarella, in
attesa del completamento delle indagini, il 26 aprile chiede la scarcerazione
del suo assistito, che sarà concessa il 4 maggio, dopo un mese esatto di carcerazione e di isolamento (anche dai parenti). Nei mesi successivi, Barletta rimarrà ancora sotto sorveglianza e privo di passaporto. Potrà tornare a Barranquilla solo l’anno successivo, lasciando la moglie moranese in attesa del
terzo figlio.
In realtà, già nell’estate del 1927 le risultanze delle indagini erano per il
Ministero dell’Interno inequivocabili: “a) il Carroll era persona poco seria, di
carattere nevrastenico, e, conseguentemente dovevasi attribuire scarsa importanza alle sue denunzie; b) il Carroll avrebbe avuto animosità contro il Barletta, perché questi, proprietario di un calzaturificio a Barranquilla, si era rifiutato di fargli credito; c) secondo dichiarazione della nostra R. Legazione a Bogotà, il Barletta ‘era noto pei buoni sentimenti patriottici ed era ritenuto incapace di macchiarsi della grave azione delittuosa attribuitagli’”.
Fin qui i fatti. Il malcapitato Biagio Barletta, per difendersi dalle accuse e
per sottrarsi alla carcerazione, era stato costretto ad occultare il suo passato
socialista e a tacere della sua attività massonica, per asserire che a Morano
“sono noti i [suoi] sentimenti di Italianità ed il [suo] ossequio alle Autorità”.
Tant’è che dichiara di aver sottoscritto per circa 6.000 lire il “Prestito del Littorio”. Il 20 luglio, anche l’avvocato Pasquale D’Alessandria di Castrovillari,
nel tentativo di fargli riavere il passaporto, francamente esagera, definendolo
“sincero ammiratore del Regime” e affermando addirittura che la cosa “può
essere attestata dai connazionali di Barranquilla”.
Si tratta di dichiarazioni di fede fascista poco credibili e francamente inutili, giacché al Ministero dell’Interno risultano in modo inoppugnabile sia la
fede socialista che l’affiliazione massonica di Barletta. Né sortisce alcun effetto la “raccomandazione” che l’avvocato D’Alessandria invia a Roma, per
il suo cliente, al deputato fascista Amedeo Perna, medico originario di Mormanno, il quale trasmette la segnalazione al “direttore generale della pubblica
sicurezza” Arturo Bocchini.
Quest’ultimo, il noto capo della polizia del regime fascista, non si lascia
certo convincere da un così improbabile “ravvedimento”. Piuttosto, gli sono
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bastate poche settimane di ricerche per appurare l’insussistenza del “complotto” denunciato dal farmacista colombiano. E tuttavia, le indagini confermano
le idee politiche antifasciste di Barletta (nonché dei suoi amici italiani di Barranquilla) e documentano la sua affiliazione massonica, la quale non si limita
agli incontri avvenuti nella Loggia di Barcellona, che si prospetterebbero
come una frequentazione quasi soltanto amicale dei colleghi in affari presso
l’ospitale sede massonica di calle Ataulfo, situata vicino alla Plaza Real e a
due passi dal porto della città catalana. L’attività massonica di Barletta, in
effetti, sembra essere qualcosa di più consistente, se egli, come si è detto, era
stato chiamato a celebrare il XX Settembre a Barranquilla con un discorso
scritto, pronunciato in spagnolo.
Peraltro, bisogna considerare che i Fasci all’estero nei paesi latinoamericani ignorarono, in genere, la violenta campagna antimassonica che era stata
combattuta dal partito fascista in Italia. Il capo dei Fasci all’estero Giuseppe
Bastianini aveva addirittura apprezzato il ruolo svolto talora in Sudamerica
dalla massoneria tra gli italiani immigrati60. E in ogni caso, tra il 1927 e il
1928, viene “normalizzata” l’attività dei Fasci all’estero, stemperando il loro
carattere “militante” e affidando un generico patriottismo fascista, incentrato
sulla figura del Duce, all’azione congiunta dei Consolati e dei Fasci nelle tante “Case d’Italia” (non è questa, però, come si è accennato, la situazione di
Costa Rica, dove prosegue sempre più aspro lo scontro ideologico e personale tra il segretario del Fascio, Giuseppe Corvetti, e il “repubblicano” Adriano
Ariè, che fonda la “Casa Italia” di San José)61.
Alla luce di questa cornice politica generale va forse letta l’attribuzione di
“buoni sentimenti patriottici” a Biagio Barletta da parte della Regia Legazione Italiana in Bogotà. Ma questa fiducia sembra, tutto sommato, mal riposta.
Il Nostro, infatti, tornerà certamente ad occuparsi con impegno assorbente,
assieme al socio moranese Antonio Celìa, della sua Fábrica Italiana de Calzado “Faitala”, quella stessa fabbrica che egli aveva descritto al commissario di pubblica sicurezza che lo interrogava nella Questura di Cosenza come
“un calzaturificio dove lavorano 140 operai”, nel quale “vi sono circa 50 operai italiani fra i quali tutti i capi reparto”. Ma la fabbrica Faitala, che tra gli
anni Venti e gli anni Trenta è una delle imprese più vivaci e importanti di
Barranquilla, significativamente non comparirà in una rassegna sugli Italiani
60
L. DE CAPRARIIS, “I Fasci italiani all’estero”, in Il fascismo e gli emigrati, a
cura di E. Franzina e M. Sanfilippo, Roma-Bari, Laterza, 2003
61
. V. CAPPELLI, Nelle altre Americhe, cit.
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nel nord della Colombia, pubblicata presso la Libreria Cervantes nel 1932.
Infatti, i curatori della pubblicazione, Ermenegildo Aliprandi e Virgilio Martini, non riescono a riunire nella loro rassegna tutti gli esponenti più significativi della comunità italiana di Barranquilla e della cosiddetta “Zona Atlantica”, pur riuscendo a illustrare, complessivamente, 79 aziende o attività artigianali, commerciali, industriali e professionali. Sicché, sono costretti a pubblicare nell’ultima pagina del fascicolo la seguente precisazione: “Le Ditte
che, specialmente in Barranquilla, non figurano in questa opera sono di troppo scarsa importanza e si trovano a lottare duramente contro gravi difficoltà
dovute precisamente alla difficile situazione commerciale di oggi [si allude,
evidentemente, alle conseguenze determinate in Colombia dal crollo di Wall
Street e dalla crisi del ‘29]. Ma alcune di notevole importanza – fortunatamente pochissime – non hanno aderito, pur potendolo fare benissimo, unicamente a causa dei sentimenti politici dei loro proprietari, sentimenti palesemente od occultamente contrari all’ideale Fascista”62.
Aliprandi e Martini, dunque, pur cercando di sminuire l’entità del problema, non possono nascondere del tutto che i non pochi immigrati italiani
assenti dalla rassegna sono antifascisti. E non possono farlo, evidentemente,
più che per il numero delle assenze, soprattutto per l’importanza economica e
sociale di alcuni, tra i quali va annoverato senz’altro Biagio Barletta, che peraltro in quel momento è ben presente socialmente tra gli immigrati di Barranquilla, essendo il presidente del “Club Italiano”, che ha già dieci anni di
vita e si mantiene distinto dal Fascio cittadino.
Dopo il rientro a Barranquilla, Barletta gode della fiducia crescente del
Banco de la República e, assieme ad Antonio Celìa, investe parte dei profitti
nella costruzione dell’Edificio “Barcel”, nel centro della città, mentre il clima politico e culturale cittadino si fa più vivace e aperto. Del resto, proprio
nei due anni dell‘avventuroso soggiorno italiano di Barletta, la comunità italiana di Barranquilla aveva ribadito la sua irriducibilità al conformismo fascista. Il 4 agosto 1927, alcune migliaia di persone avevano manifestato contro
la condanna a morte degli anarchici italiani Sacco e Vanzetti, pronunciata ne62
E. ALIPRANDI-V. MARTINI, a cura di, Gli italiani nel Nord della Colombia.
Numero Unico Editato per l’Anno Decimo, Barranquilla (Colombia), Talleres Gráficos de la Librería Cervantes, 1932. La fabbrica Faitala di Barletta e Celìa non comparirà neppure nella più ampia rassegna pubblicata dagli stessi autori sei anni dopo: E.
ALIPRANDI-V. MARTINI, a cura di, Gli italiani in Colombia. Los italianos en Colombia, Guayaquil (Ecuador), Talleres Artes Graficas “Senefelder” de Wilfrido A. Moreno, 1938.
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gli Stati Uniti, esprimendo il peso, l’influenza e gli orientamenti politici degli
italiani in città63. Nell’estate del 1928, il nuovo segretario del Fascio di Barranquilla aveva chiesto un intervento repressivo nei confronti degli immigrati
ostinatamente antifascisti al governatore del dipartimento, il generale Eparquio González (contando forse sul fatto che il governatore molti anni prima
aveva sposato un’italiana). L’anziano generale aveva promesso “tutto il suo
appoggio, adottando seri provvedimenti a carico di quasi tutta la colonia di
Morano Calabro”, ma il caso vuole che egli venga “pensionato” politicamente subito dopo aver pronunciato la sua minacciosa promessa. Sicché, le attività degli immigrati antifascisti proseguiranno regolarmente, coltivando le
memorie del socialismo giovanile e il presente delle più fresche affiliazioni
massoniche, anche se dovranno fare i conti con ulteriori tentativi del fascismo
di “nazionalizzare” la colonia e con una presenza cattolica particolarmente
insistente in campo educativo e scolastico64.
In conclusione, l’intera vicenda si presenta con i caratteri di un’assoluta
singolarità, che ha il suo culmine nel fantomatico “complotto di Barcellona”.
Tuttavia essa illumina anche aspetti generali e non trascurabili della vicenda
migratoria che si svolge tra Europa e America Latina nella prima metà del
Novecento, sia in rapporto all’Italia liberale e fascista che in relazione alla
storia interna delle Americhe caraibiche, istmiche e andine. Emergono con
grande evidenza i nessi molteplici che legano l’avventura migratoria al socialismo e alla massoneria, ponendo in risalto il rapporto problematico e conflittuale intrattenuto dagli immigrati con l’Italia fascista e illuminando i percorsi
d’integrazione nei paesi d’accoglienza in termini di laico contributo alla modernizzazione novecentesca. Emerge, infine, uno spaccato dell’emigrazione
transoceanica in partenza da un’area del Mezzogiorno d’Italia, che sfugge
drasticamente al vecchio stereotipo storiografico di un flusso “tardivo”, determinato e caratterizzato soltanto dalla disperazione e dalla miseria. E si
configura, invece, un’esperienza migratoria non priva di visibili connotati politici e culturali, e una mobilità spesso dotata di ambizioni consapevoli e animata da un accentuato spirito imprenditoriale.
E. POSADA CARBÓ, El Caribe colombiano. Una historia regional (1870-1950),
Bogotá, Banco de la República-El Áncora Editores, 1998, p. 322.
64
V. CAPPELLI, Tra “Macondo” e Barranquilla, cit.; IDEM, Nelle altre Americhe,
cit..
63
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ANGELINA MARCELLI
“ILLUMINATE MENTI” AL SERVIZIO DEL PROGRESSO:
GABRIELE SILVAGNI (1774-1834) E LA SOCIETÀ
ECONOMICA DI CALABRIA CITRA
Introduzione: classi dirigenti nel Mezzogiorno preunitario
Limiti e punti di forza delle innovazioni istituzionali introdotte dai Francesi nell’Italia meridionale sono al vaglio degli storici da più tempo1. Semplificando, da una parte è stata posta l’attenzione su un modello di cambiamento
di portata ridotta in termini di modernizzazione, anche per via dell’esigua
permanenza dei Francesi nel Mezzogiorno, così come d’altra parte è stata sottolineata l’importanza delle riforme introdotte da Giuseppe Bonaparte e da
Gioacchino Murat, capaci di scuotere gli equilibri economici e sociali tipici
dell’antico regime.
Nell’ambito della ristrutturazione dell’apparato burocratico statale si inserisce la creazione di istituzioni che rispondevano all’esigenza di regolamentare i rapporti tra centro e periferia2, strutture organizzative che, pur mantenendo la loro originale fisionomia, furono poi messe a profitto durante la Restaurazione. Un paradigmatico esempio è rappresentato dalle Società economiche
che, sorte nel 18103 come Società di agricoltura e mantenute in vita con un
1
Sui termini della questione si veda ad esempio il recente saggio di A. SPAGNOLETTI, La
storiografia meridionale sul Decennio tra Ottocento e Novecento, in S. RUSSO (a cura di),
All’ombra di Murat. Studi e ricerche sul Decennio francese, Bari, Edipuglia, 2007.
2
Il territorio, oltre alla Capitale, si suddivideva in province, ciascuna delle quali si scomponeva in distretti e questi in circondari. Cfr. A. FILANGIERI, Territorio e popolazione nell’Italia
meridionale. Evoluzione storica, Milano, Franco Angeli, 1980, pp. 34-37.
3
Il provvedimento istitutivo delle Società d’agricoltura e i decreti di trasformazione in società economiche sono in Bullettino delle leggi del Regno di Napoli, 2, I, Napoli 1812, pp. 92-93,
130-36, 162-63.
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decreto del 18174, rimasero in attività fino a dopo l’Unità d’Italia5, la cui missione era quella di favorire lo sviluppo economico locale evidenziando le potenzialità regionali.
L’associazionismo economico in generale, sia esso volontario o istituzionalizzato, e le Società economiche meridionali in particolare, hanno animato
un ormai nutrito dibattito storiografico6, che ha messo in discussione la capacità di questi consessi di riuscire a rappresentare la cultura locale, ad esternare un proprio pensiero economico e a favorire il progresso.
Una parte del dibattito storiografico ha riguardato in particolare la sociabilità. È stato notato come la realtà napoletana fu contrassegnata da un sistema di reclutamento gestito con diffidenza dallo Stato attraverso il meccanismo della cooptazione, che creò di fatto una forma di “associazionismo settario”7. Posizioni più sfumate hanno sottolineato come istituzioni quali le Società economiche godevano di un certo margine di autonomia operativa e inoltre che i soci designati erano comunque liberi di accettare o rifiutare la carica8. Ulteriori riflessioni hanno condotto a ritenere che non vi fosse molta
4
Collezione delle leggi e decreti reali del Regno delle Due Sicilie, 2 ed., vol. I, Napoli
1812, pp. 410 ss.
5
Sebbene alcune rimanessero attive anche dopo l’Unità, si ritiene che il decreto del 23 dicembre 1866, che istituì i Comizi agrari nei capoluoghi di circondario, abrogò tacitamente le
Società economiche. Cfr. R. DE LORENZO, Gruppi dirigenti e associazionismo borbonico
nell’Appennino Centro-Meridionale: le Società economiche, estratto da, E. NARCISO (a cura di),
Dal comunitarismo pastorale all’individualismo agrario nell’appennino dei tratturi. Atti del
Convegno promosso dal Comune di Santa Croce del Sannio dall’istituto Storico “Giuseppe
Maria Galanti” e dalla Comunità Montana “Alto Tammaro”, Santa croce del Sannio, Istituto
Storico Giuseppe Maria Galanti, 1993, p. 43.
6
Sebbene gli studi sull’associazionismo siano ormai molteplici, il dibattito storiografico ha
avuto alcuni importanti momenti di riflessione, spesso in occasione di convegni. Il primo, risalente al 1991, è incentrato prevalentemente sull’analisi comparata di realtà associative a livello
europeo. Gli atti sono stati pubblicati nel 1996 in Le Società Economiche alla prova della storia
(secoli XVII-XIX). Atti del convegno internazionale di studi di Chiavari, Rapallo, Busco, 1996.
Nel 1994, secondo importante momento per la storiografia delle organizzazioni economiche
europee, diverse relazioni a riguardo sono state presentate all’11° congresso internazionale di
Storia Economica e successivamente pubblicate nel numero monografico della rivista «Histoire,
économie et société», aprile-giugno 1997. Per il più recente filone di indagine, che riguarda prevalentemente la capacità delle accademie ottocentesche di divenire sede di elaborazione del pensiero economico, cfr. M.M. AUGELLO e M. E.L. GUIDI (a cura di), Associazionismo economico e
diffusione dell’economia politica nell’Italia dell’Ottocento. Dalle società economico-agrarie alle
associazioni di economisti, vol. I, Milano, Franco Angeli, 2000.
7
D. L. CAGLIOTI, “Circoli, società e accademie nella Napoli postunitaria”, in Meridiana,
22-23, 1995, pp. 20-21.
8
R. DE LORENZO, Gruppi dirigenti, cit., p. 49.
62
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differenza tra le Società economiche e le associazioni volontarie, in quanto le
prime, al dovere di informare lo Stato sull’andamento economico delle province, unirono, al pari delle seconde, l’attuazione di iniziative private9.
Un secondo ambito del dibattito ha coinvolto gli storici del pensiero economico, che si sono interrogati sui motivi che indussero a istituire le Società
economiche. Alcuni hanno individuato nell’Illuminismo la matrice culturale
da cui scaturirono tali organizzazioni ottocentesche10, anche se vi è chi ha sostenuto che, in quanto espressione diretta della volontà del potere pubblico, in
esse non sia riscontrabile alcun retroterra settecentesco11.
Una terza e corposa porzione del dibattito storiografico sulle associazioni
economiche ha avuto ad oggetto la fattività, ovvero la capacità delle Società
economiche di incidere significativamente nelle realtà economiche provinciali. Nella maggior parte degli studi compiuti in proposito è emerso, infatti, che
tali associazioni ebbero uno scarso impatto sul territorio, anche se le motivazioni variano a seconda dei casi. La valutazione sull’operato delle Società
economiche non può certamente prescindere dal contesto territoriale, dai vincoli culturali e dai mezzi che avevano a disposizione per poter attuare i loro
progetti. Addirittura, secondo alcuni, le Società meridionali non possono essere considerate come organi di sviluppo nel senso contemporaneo del termine e i progressi dell'economia riscontrati nella prima metà dell'Ottocento non
sono ricollegabili all'attività di queste organizzazioni, ma devono essere ascritti alle congiunture12. Altri temi di discussione sono stati la missione divulgativa13 e i limiti delle economie locali nel recepire innovazioni proposte
dalle Società14. Non mancano, tuttavia, gli studi nei quali l’operato delle Società economiche è stato interpretato positivamente15.
9
M. PETRUSEWICZ, Agromania: innovatori agrari nelle periferie europee dell’Ottocento,
in PIERO BEVILACQUA (a cura di), Storia dell’agricoltura italiana. Mercati e istituzioni, vol. III,
Venezia, Marsilio, 1991, pp. 305-306.
10
F. DI BATTISTA, Origini e involuzione dell’Istituto di incoraggiamento di Napoli, in Augello e Guidi, op. cit., p. 261.
11
W. PALMIERI, Il dibattito economico nelle società di Campania e basilicata, in Augello –
Guidi, op. cit., p. 343.
12
Ibidem, p. 248.
13
R. DE LORENZO, “Associazionismo e gruppi dirigenti nell’Ottocento borbonico”, in Annali dell’Istituto storico italo-germanico, XVIII, 1992, p. 191.
14
Cfr. I. ZILLI, Le Società Economiche abruzzesi dalla loro origine all’Unità, in Le Società
Economiche, cit., p. 217.
15
D. DEMARCO, “Qualche aspetto dell’opera delle “Società economiche” meridionali”, in
Rassegna storica salernitana, n. 1-2, 1952, p. 24. Giudizi particolarmente positivi sono stati espressi da E. PENNETTA, L’azione delle Società Economiche ella vita delle province pugliesi du63
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RICERCHE/MATERIALI
L’analisi di queste associazioni economiche si presta anche ad ulteriori
spunti di riflessione sulla classe dirigente chiamata ad affrontare i risvolti
pratici del dibattito sullo sviluppo economico16. In generale, è stato affermato
come durante l’Ottocento le élites di proprietari terrieri e professionisti abbiano teso ad occupare cariche istituzionali per poter gestire risorse e consensi17. Sono numerosi i casi accertati di fortune economiche costruite sul controllo del potere politico e finanziario locale (soprattutto comunale) associato
ad una rete di clientela18. Tuttavia è anche stato asserito come lo sviluppo del
tessuto economico e sociale fosse stato frutto della classe borghese sorta dalle
vicende politico–amministrative del primo trentennio del secolo, considerata
essa stessa come uno dei risultati più rilevanti della Restaurazione19.
Guardando poi alle Società economiche nello specifico, il dibattito storiografico si è arricchito costantemente di contributi che hanno esaltato il ruolo
della dirigenza nell’elaborazione di strategie di intervento sul territorio. Ad
esempio, Allocati ha sostenuto che bisogna dare alle Società economiche calabresi il merito di aver contribuito allo sviluppo economico con attività significative – non sempre solerti ed efficaci – riconducibili all’impegno di singoli uomini, aperti al nuovo e consapevoli del pericolo dell’arretratezza economica e sociale del paese20.
rante il regno borbonico, Bari, Società Editrice Tipografica, 1954. Secondo Maria Ottolino, tale
giudizio deve essere ridimensionato alla luce della mancanza di finanziamenti e dell’assenteismo
dei proprietari che non erano quindi in condizione di valutare l’importanza e l’efficacia dei suggerimenti tecnici proposti dalle Società. Cfr. M. OTTOLINO, Le Società Economiche in Puglia, in
Le Società Economiche, cit., p. 189.
16
Per avere un’idea del dibattito ottocentesco sullo sviluppo economico si veda G.
CINGARI, “Il dibattito sullo sviluppo economico del mezzogiorno dal 1825 al 1840”, in Problemi
del Risorgimento meridionale, Messina-Firenze, G. D’Anna, 1965.
17
P. MACRY, Le élites urbane:stratificazione e mobilità sociale, le forme del potere locale
e la cultura dei ceti emergenti, in A. MASSAFRA (a cura di), Il Mezzogiorno preunitario. Economia, società e istituzioni, Bari, Dedalo, 1988, p. 807
18
Cfr. J. DAVIS, Società e imprenditori nel Regno borbonico 1815-1860, Bari, Laterza,
1979.
19
G. GIARRIZZO, Borghesia e “provincia” nel Mezzogiorno durante la Restaurazione, in Atti del 3° convegno di studi sul Risorgimento in Puglia. L’età della Restaurazione (1815-1830), Bari, Bracciodieta, 1983, p. 30. L. ADDANTE, Cosenza e i cosentini.
Un volo lungo tre millenni, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 27, specifica che durante il
Decennio francese si compì la scalata al potere della borghesia, grazie ai diritti politici concessi a
possidenti, intellettuali e commercianti. Tuttavia, durante la Restaurazione rimase il potere della
nobiltà e la borghesia completò il suo trionfo solo con l’Unità d’Italia.
20
A. ALLOCATI, Le Società economiche in Calabria, in Atti del II Congresso storico calabrese, Napoli, Deputazione di Storia Patria per la Calabria, 1961, pp. 413-15.
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RICERCHE/MATERIALI
Tra questi uomini proiettati verso il progresso rientrano prevalentemente i
segretari perpetui21, figure centrali per le Società, che garantivano continuità
ai lavori, appunto perché avevano un incarico vitalizio, ed erano chiamati a
svolgere compiti ritenuti essenziali. Oltre a redigere i registri e i verbali delle
adunanze, ad analizzare i lavori svolti dai soci, a mantenere i contatti con le
altre Società del Regno e con gli organi di controllo centrali, il segretario
tracciava l’indirizzo complessivo, fissava i programmi di lavoro annuali,
compendiava le analisi svolte e ne ricavava gli elementi più rilevanti ai fini
della pianificazione di interventi concreti22.
Obiettivo principale di questo lavoro è quello di interpretare il profilo
biografico di Gabriele Silvagni, segretario perpetuo della Società economica
della Calabria Citeriore23 tra il 1812 e il 1834, al fine di fornire un contributo
al dibattito sulla classe dirigente meridionale. Si vuole mettere in risalto la
sua esperienza di amministratore pubblico, evidenziare le sue capacità propositive e organizzative e rendere conto della sua “personalità innovatrice”24,
qualità considerata necessaria per favorire l’avvio di un processo di sviluppo.
Aggiungendosi ad altri studi, questo saggio vuole mettere in discussione la
21
A Cosenza, a partire dal periodo francese, furono in quattro ad avvicendarsi nella carica
di segretario perpetuo: Giuseppe Golia (1810-1812), Gabriele Silvagni (1812-1834), Raffaele
Valentini (1835-1849) e Vincenzo Maria Greco (1849-1865), cfr. A. MARCELLI, Sviluppo economico nella Cosenza ottocentesca attraverso gli atti della Società Economica di Calabria Citra, Roma, Aracne editrice, 2006.
22
Sulla centralità della figura del segretario perpetuo si veda De Lorenzo, Gruppi dirigenti,
cit., p. 56.
23
Il territorio calabrese fino al 1816 si articolava nelle province di Calabria Citeriore (Cosenza) e Calabria Ulteriore. Successivamente, quest’ultima si scompose in Calabria Ulteriore
Prima (Reggio Calabria) e Ulteriore Seconda (Catanzaro). Riferimenti e cronistoria in L. IZZO,
La popolazione calabrese nel secolo XIX, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1965, pp. 20-28.
24
Secondo E.E. HAGEN, On the Theory of Social Change: How Economic Growth Begins,
Londra, Tavistock Publications, 1964, il cambiamento economico è strettamente collegato al
capitale umano. Questi, interrogandosi su quale potesse essere l’elemento chiave dal quale scaturisse il cambiamento individuò la “personalità innovatrice”, cioè una persona aperta alle idee del
progresso in grado di elaborare e attuare progetti pertinenti alla realtà in cui vive. Si veda anche il
commento di A. GERSCHENKRON, La continuità storica. Teoria e storia economica, Torino, Einaudi, 1976, pp. 393-399. Sull’importanza del legame tra struttura economica e fattore umano si
consulti C. M. CIPOLLA, La storia economica, Bologna, il Mulino, 2003, p. 93. Riguardo al metodo, si deve segnalare che l’uso della biografia ha ricevuto nel corso del tempo favori e ostilità.
Per il dibattito si veda ad esempio A. RIOSA (a cura di), Biografia e storiografia, Milano, Franco
Angeli, 1983; G. LEVI, “Les usages de la biographie”, in Annales, 6, 1999; S. ROMANO, “Biografie” del sistema economico italiano”, in Storia contemporanea, 5, 1984; V. SGAMBATI, “Le
lusinghe della biografia”, in Studi storici, 2, 1995.
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validità della tradizione storiografica, che ha ritratto, non senza motivi,
un’immagine negativa della classe dirigente meridionale25.
Bisogna tener presente che il contributo culturale e operativo di Silvagni
per lo sviluppo economico calabrese si dispiegò nella fase istitutiva della Società. Fu quello un momento storico avvertito con grande responsabilità da
parte di coloro che erano stati designati a dare avvio ad un processo economico evolutivo. La ricostruzione critica delle attività cognitive, decisionali e
operative compiute da Gabriele Silvagni vuole rispondere anche all’esigenza
di comprendere le dinamiche di intervento del potere politico in questioni economiche e a quella di analizzare successi ed insuccessi della pianificazione
delle società economiche.
La figura di Gabriele Silvagni, non del tutto sconosciuta dalla storiografia, non ha ricevuto il giusto risalto neanche nella letteratura coeva. La pubblicistica ottocentesca, anche postunitaria, tendeva a mettere in risalto
l’inefficacia dell’operato delle Società economiche, considerate salotti di intellettuali che tuttavia non furono in grado di produrre risultati significativi26.
Anche nell’opera di Luigi Accattatis, in cui furono raccolte le linee biografiche di personaggi calabresi che “per ingegno, per virtù, per filantropismo si
resero degni di stima e di ricordo”27, si fa riferimento a Silvagni evidenziando
però maggiormente il suo impegno in campo medico e veterinario che non
quello, eppure notevole, in campo economico.
Silvagni venne ricordato anche per l’appartenenza a numerose associazioni scientifiche e culturali. Già socio ordinario della Accademia Cosentina28, nel 1818 divenne socio corrispondente della Reale Accademia delle
25
G. DE LUCIA, Ignazio Rozzi e le società economiche meridionali, Atti del congresso “Ignazio Rossi e la Storia dell’Agricoltura meridionale”, Teramo, Edigrafital, 1971; W. PALMIERI,
“Tra agronomia e amministrazione: Federico Cassetto”, in Meridiana, 33, 1998, pp. 125-161;
26
Si veda V. PADULA, “Condizione dell’industria nelle provincie napoletane e segnatamente nella nostra”. II, in Il Bruzio, n° 18 del 30. 04. 1864, p. 2.
27
L. ACCATTATIS, Biografie degli uomini illustri delle Calabrie raccolte a cura di Luigi
accattatis socio di varie accademie e società italiane ed estere, vol. IV, Cosenza, Migliaccio,
1877, p. VI.
28
Nello stesso periodo in cui fu istituita la Società d’agricoltura, l’Accademia riprese i suoi
lavori, interrotti nel 1794. Rappresentativa ancora oggi degli ingegni più illuminati della società
calabrese, è possibile verificare nel corso dell’Ottocento la presenza degli stessi personaggi
nell’una e nell’altra associazione. Cfr. ACCATTATIS, L’Accademia cosentina nei tre secoli e mezzo della sua esistenza, Cosenza, Tipografia del giornale La Lotta, 1891; F.M. AMANTEA,
L’accademia cosentina nella sua storia secolare e nell’oggi, Venezia, Tip. Successori Fusi,
1954; N. SERRA, L’Accademia cosentina nel passato e nel presente. Discorso letto nella I. tornata generale del 1929, Cosenza, Tip. Cronaca di Calabria, 1929; R. VALENTINI, Discorso storico
sull’Accademia cosentina, Napoli, Stamperia Reale, 1812.
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scienze, e più tardi dei Georgofili di Firenze, del Reale Istituto di incoraggiamento di Napoli e di molte Società economiche del Regno (Abruzzo Ultra
II, Basilicata, Catanzaro, Lecce, Bari, Terra di Lavoro, Principato Ultra). La
fama della sua ecletticità arrivò anche all'estero, dove pare che Silvagni fosse
apprezzato per le sue doti letterarie. Fu coinvolto anche in progetti scolastici
come giurì e come insegnante di matematica29.
L'attivismo di Silvagni in seno alla Società economica non passò inosservato in ambienti politici. In molte circostanze il Ministro degli Affari Interni
gli inviò lettere di lusinga e nel 1815 gli conferì una medaglia onorifica. Ricevette elogi anche per gli studi agrari, per la redazione di modelli statistici e
per i suoi studi sulle malattie dei bovini, presi in considerazione in tutte le
province30.
All’interno della Società, Silvagni godeva della stima dei colleghi che riconoscevano in lui il “centro ove riunivansi tutt’i raggi delle illuminate menti
dei […] consoci”31, anche se non fu esentato da critiche principalmente rivolte ad una gestione individualistica dei lavori societari32.
Più recentemente, chi si è occupato, a vario titolo, delle Società economiche calabresi, non ha potuto fare a meno di prendere in considerazione i numerosi scritti di Silvagni, a partire dalle relazioni che fanno parte della Statistica murattiana33. È stato indicato da Renata De Lorenzo come esempio di
“intellettuale periferico” in grado di fornire una manualistica attenta agli usi
locali34, e da Antonio Allocati come un personaggio meritevole di aver reso
29
V. COLOSIMO, Biografia del fu dottor Gabriele Silvagni professore in medicina e chirurgia, socio ordinario dell’Accademia cosentina e Segretario perpetuo della Società Economica
della Calabria Citeriore, Cosenza, Migliaccio, 1839.
30
Ivi
31
R. VALENTINI, “Rapporto del Segretario Perpetuo della Società Economica della
Provincia di Calabria Citra, nell’Adunanza Generale del 30 Maggio 1836; ricorrendo il
giorno Onomastico di S. M. il Re Nostro Signore”, in Atti della Società Economica di Calabria Citra, 1836, p. 79.
32
Ivi e V. COLOSIMO, Biografia, cit.
33
Per la provincia di Calabria Citra, la Statistica si avvalse di tre redazioni delle relazioni.
Gabriele Silvagni subentrò nella fase finale, insieme a Vincenzo Le Piane, dopo che l’impegno
di Francesco De Roberto, primo redattore statistico, manifestò difficoltà a rispondere con sollecitudine alle richieste ministeriali, Cfr. DEMARCO (a cura di), La “Statistica” del Regno di Napoli
nel 1811, Tomo I, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1988, pp. LXII, LIX e LXXIV; U.
CALDORA, Calabria napoleonica (1806-1815), Napoli, Fausto Fiorentino Editore, 1960; ID., La
Calabria nel 1811. Le relazioni della statistica murattiana, a cura di Vittorio Cappelli, Rende,
Centro Editoriale e Librario dell’Università della Calabria, 1995.
34
R. DE LORENZO, Società economiche e istruzione agraria nell’ottocento meridionale,
Milano, Franco Angeli, 1998, p. 142. Erroneamente la De Lorenzo attribuisce la paternità del
67
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RICERCHE/MATERIALI
rilevante l’azione della Società economica35. Tuttavia, sia Maurizio Gangemi
che Aldo Montaudo hanno richiamato un documento che proietta ombre sulla
figura del Segretario. Si tratta di una lettera del 181336 nella quale l’Intendete
riferì al Ministero dell’interno come l’inattività della Società economica di
Cosenza fosse da imputare ai risultati insoddisfacenti raggiunti da Silvagni,
ottimo chirurgo, ma poco istruito “nelle scienze naturali e nell’economia
pubblica”37. Poi però, proseguendo nella trattazione, lo stesso Montaudo ha
citato in più occasioni i suoi scritti, evidentemente valutati come attendibili, e
ha annotato come Silvagni non figurò fra le rimozioni compiute dal Ministero
nel 1813 volte ad allontanare dalla Società i membri inoperosi. Anche Giuseppe Barbera Cardillo, pur non menzionandolo espressamente, ha utilizzato
i resoconti del Segretario come testimonianza credibile delle attività economiche svolte in provincia38.
Gabriele Silvagni: dagli ospedali militari alla Società economica
Nato a Grimaldi nel 1774, Silvagni si recò a Salerno per frequentare gli
studi conseguendo la laurea in medicina nel 1790 e quella in chirurgia nel
181239. La sua carriera professionale, specialmente agli inizi, si presentò alquanto difficile. Nel 1790 venne nominato chirurgo di terza classe per il
Reggimento di Lancieri Regina; e dopo sette anni, per meriti straordinari, diventò chirurgo di prima classe prestando servizio presso il Reggimento di cavalleria Principe Leopoldo. Sempre al seguito delle truppe militari francesi, si
spostò a Pescara, dove l'esercito doveva sedare una rivolta per i moti del
1799. In quella occasione fu fatto prigioniero e, una volta scarcerato, andò a
Napoli40 in cerca di lavoro. Per le medesime ragioni tornò a Grimaldi e successivamente si stabilì a Cosenza, dove nel 1802 ricevette l’incarico di “chiCatechismo agrario a Francesco Silvagni, nipote di Gabriele. Il documento originale autografo è
in ASN, MI, Inv. II, B. 2576, f. 1; riprodotto anche in ASCS, SE, B. 10.
35
ALLOCATI, op. cit., p. 413.
36
In ASN, MI, app. II, f. 1870, lettera 224/4 div.
37
Cfr. M. GANGEMI, Progetto illuministico e realtà ottocentesca: le società economiche
calabresi, in Augello e Guidi (a cura di), op. cit., p. 380, A. MONTAUDO, Le Società Economiche
calabresi, in Le Società Economiche, cit., p. 115.
38
G. BARBERA CARDILLO, La Calabria industriale preunitaria 1815-1860, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1999.
39
ACCATTATIS, Le biografie, cit., pp. 73-74.
40
Ibidem.
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rurgo fiscale” a servizio del Tribunale. Nonostante avesse dimostrato di eccellere nella chirurgia, il mandato ebbe breve durata e così, a partire dall'anno
successivo, ritornò a lavorare negli ospedali militari41.
Non si conosce esattamente per quali meriti Silvagni fu chiamato ad intervenire nei lavori della Società economica, intraprendendo un tipo di attività molto distante dai suoi interessi professionali.
Appena istituita la Società d’agricoltura (1810) fu nominato segretario
Giuseppe Golia42, magistrato e proprietario terriero originario di Marzi43. Pur
rimanendo tra le fila della Società come membro ordinario, Golia si dimise
ufficialmente dal suo incarico direzionale per dedicarsi a tempo pieno alla
sua nuova carriera di giudice di pace di Rogliano. Tuttavia, pare che ad incidere sulla decisione furono soprattutto le pressioni esercitate dal governo centrale, che non lo riteneva adatto alla carica che rivestiva44.
La nomina di Silvagni, due anni dopo, coincise con la trasformazione delle Società d’agricoltura in Società economiche grazie ad un provvedimento
che intendeva ampliare la sfera d’azione alle manifatture e al commercio, oltre che, ovviamente, all’agricoltura. Insieme al vertice, il governo murattiano
intese anche rinnovare e arricchire le fila della Società, accordando la sua
preferenza a personaggi di spicco della provincia – medici, avvocati, alti prelati – e a impiegati statali45. Anche in epoca successiva, con la Restaurazione,
la Società economica continuò ad essere rappresentativa prevalentemente della classe borghese, escludendo le famiglie signorili e coinvolgendo maggiormente anche rappresentanti delle aree più periferiche. In questo periodo aumentarono anche le adesioni ed infatti nel 1817 erano presenti ben 106 soci
(18 ordinari, 21 onorari e 67 corrispondenti), che resero la Società cosentina
un esempio di particolare attivismo46. Filofrancese e conservatore, Silvagni
41
V. COLOSIMO, Biografia, cit.
Informazioni biografiche su Accattatis, Le biografie, cit., pp. 230-31 e G. GOLIA, Discorso del I° novembre 1810, in Atti delle istallazioni delle Società di Agricoltura in tutte le provincie
del Regno celebrate nel dì primo novembre 1810, Napoli, A. Trani, 1811, p. 243.
43
Nei brevi anni del suo mandato di segretario, ma anche successivamente, Golia si occupò prevalentemente di viticoltura, fornendo informazioni sull’impianto degli astoni, sulla scelta
delle diverse qualità in rapporto alle caratteristiche del terreno e sulle diverse tecniche di fermentazione delle uve Cfr. ASN, MI, Inv II, B. 3812 (verbale della seduta del 7 marzo 1811).
44
Golia era ritenuto responsabile dell’inattività della Società e dotato di scarse conoscenze
economiche. Cfr. MONTAUDO, op. cit., p. 115.
45
Ivi, p. 117.
46
R. PORTO, Uomini e istituzioni in provincia: “La Real Società economica di Calabria
Citra” (1812-1866), tesi di laurea, Università degli Studi della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia, relatore prof. R. DE LORENZO, A.A. 1992-93, p. 51.
42
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impresse da subito ai lavori della Società economica una particolare dinamismo, nonostante fosse evidente un forte accentramento di competenze. Di lui
Vincenzo Colosimo47 disse che “amava primeggiare” e che “superbo delle sue
cognizioni”, tendeva a disapprovare tutto ciò “che da lui non si proponeva”48.
Appena nominato, Silvagni dovette fare i conti con l’obiettivo prioritario
previsto dallo statuto delle Società. La legge istitutiva postulava un intervento
generico a favore della crescita economica di ciascuna provincia, ma non
chiariva esattamente cosa e come fare. Si trattava di un programma omnicomprensivo, sistematico, globale, che puntava all’ottenimento di miglioramenti in agricoltura, industria, commercio e infrastrutture e che implicava
anche un mutamento del contesto sociale ed economico. In realtà, la progettazione di iniziative concrete era quasi interamente delegata alle Società periferiche, le quali avrebbero potuto, e forse dovuto, selezionare progetti circoscritti, di minor effetto, ma praticabili49.
Il punto di partenza delle attività societarie era l’acquisizione delle informazioni, finalizzata alla formulazione di un’analisi. Ciascun membro era
chiamato ad approfondire temi generali di rilevanza economica e ad indagare
la realtà che meglio conosceva compendiando i tratti più importanti in una
relazione, definita memoria. Sia l’oggetto che la finalità di tali studi analitici
potevano essere eterogenei. In essi si includevano informazioni sulle attività
economiche svolte nella provincia, sui diversi metodi usati in agricoltura o
sugli esiti di sperimentazioni condotte dai soci stessi, con tanto di notizie statistiche, geologiche, mineralogiche e agronomiche. Sebbene si trattasse di
approfondimenti riconducibili ad un singolo esponente, la Società forniva dei
programmi annuali contenenti indicazioni di massima sugli argomenti da privilegiare, spesso prescelti sulla scorta delle direttive impartite dall’Istituto di
Incoraggiamento di Napoli.
Silvagni, più dei suoi successori, tendeva a racchiudere tutti i lavori della
Società nel suo rapporto introduttivo, che riceveva la massima diffusione. In
esso faceva rientrare il dibattito riguardante lo sfruttamento delle potenzialità
47
Vincenzo Colosimo (1781-1870), medico esperto in matematica e fisica nonché presidente della Società Economica cosentina ed esponente della carboneria, fu considerato come un
diretto antagonista di Silvagni. In più di un'occasione i due si scontrarono sul piano scientifico.
Cfr. ACCATTATIS, Le biografie, cit., p. 74.
48
V. COLOSIMO, Biografia, cit.
49
A conclusioni di questo tipo giunse M. ROSSI-DORIA (Dieci anni di politica agraria nel
Mezzogiorno, Bari, Laterza, 1958, p. XIX), a proposito degli interventi della Cassa del Mezzogiorno. Questi, teorizzando la distinzione tra “osso” e “polpa”, propose di abbandonare un progetto omnicomprensivo e difficilmente attuabile a favore di interventi mirati.
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economiche della provincia, trascurando le valutazioni individuali degli autori delle memorie che analizzava. Tuttavia pare che durante questo primo periodo, nonostante vi fosse stata scarsa partecipazione da parte dei soci ordinari, le descrizioni fossero quelle più realistiche, ma soprattutto i lavori propositivi fossero molto dettagliati e impreziositi da un approccio pragmatico.
Istruzione e divulgazione in agricoltura
La prima memoria redatta da Silvagni nel 1812 riguardò le condizioni
dell’agricoltura nella Calabria Citeriore50. Prima di addentrarsi su questioni
tecniche, rilevò come alcune delle riforme attuate dai francesi avrebbero potuto arrecare vantaggi all’economia provinciale, alludendo all’abolizione della feudalità, alla ripartizione dei beni demaniali, alla costruzione di strade rotabili, alla libertà di commercio e all’uguaglianza dei diritti tra cittadini. Oltre
a queste riflessioni, ebbe modo di annotare anche importanti considerazioni
di metodo. Espresse chiaramente il concetto che, per poter effettuare una
programmazione coerente di interventi a favore dello sviluppo locale, sarebbe
stato necessario compiere un’attenta analisi delle condizioni e delle potenzialità dell’economia provinciale.
Applicando questi precetti all’agricoltura, l’analisi di Silvagni prese spunto dalla relazione tra risorse disponibili e popolazione. Egli stesso notò come
il territorio provinciale51, “tre valli e due coste”, fosse sfruttato in modo inadeguato. Tale giudizio dipendeva dalla constatazione della sproporzione tra i
diversi distretti in termini di densità di popolazione, ma soprattutto
dall’evidenza che i distretti più fertili (Cosenza e Rossano) fossero quelli che
registravano la minore concentrazione di nuclei abitati52.
50
Memoria sullo stato dell’Agricoltura della Calabria Citeriore letta nella seduta generale
del dì 6 gennaio [1812] dal Segretario Perpetuo Gabriele Silvagni. In ASN, MI, Inv. II, B. 3812,
f. III.
51
Con decreto 8 dicembre 1806, i Francesi provvidero a riformare l’amministrazione civile
del Regno. La Calabria Citeriore fu suddivisa nei distretti di Cosenza, Castrovillari, Rossano e
Amantea. Con un ulteriore provvedimento del 1811, il capoluogo della costa tirrenica fu trasferito da Amantea a Paola. Cfr. CALDORA, op. cit., pp. 35-38.
52
Con il passare del tempo, la popolazione prese a concentrarsi maggiormente nel distretto
di Cosenza. Infatti, se in base al censimento del 1816 il 37,97% della popolazione della provincia
di Cosenza risiedeva nel distretto del capoluogo, la percentuale arrivò nel 1861 al 39,72% e nel
1901 al 41,49%. Nel distretto di Castrovillari si concentrò il 25,69% della popolazione provinciale nel 1816, il 25,28% nel 1861 e il 23. 92% nel 1901. Nelle stesse date, le percentuali del distretto di Rossano variarono dal 12,96, al 13,51 e infine al 13,19. A Paola le proporzioni variarono
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Alla conclusione che il progresso dell’agricoltura fosse frenato dalla inadeguata distribuzione della popolazione, aggiunse anche quella della mancanza di adeguate cognizioni tecniche. Si riferì, in particolare, alla scarsa conoscenza dei prati artificiali e alla inappropriata destinazione d’uso dei terreni. Per porre un riparo a tali problematiche suggerì, ad esempio, di urbanizzare la Sila, di ripristinare i boschi e di destinare un’altra area alle coltivazioni
e, ancora, di incanalare il fiume Crati per evitare inondazioni, di far dissodare
e coltivare tutti i terreni della costa ionica e di indirizzare alla pastorizia quella tirrenica53.
Oltre che per l’analisi, l’operato di Silvagni si distinse per il pragmatismo
con cui tentò di portare a compimento i suoi programmi. Rimanendo per il
momento in campo agricolo, sebbene molti progetti di ammodernamento rimasero lettera morta a causa della mancanza di investimenti, la Società sperimentò percorsi alternativi che, seppure di prospettive applicative comunque
limitate, costituiscono testimonianza di un impegno apprezzabile.
Un primo tentativo di intervenire sulle questioni tecniche si realizzò nel
1816, anno in cui Gabriele Silvagni redasse un catechismo agrario54,
sull’esempio della Società economica di Abruzzo Citra55. Il documento fu
elaborato in forma dialogica, la più semplice possibile, in quanto si propose
di costituire lo strumento base per l’istruzione agraria. Secondo il disegno
originario, il lavoro si sarebbe dovuto articolare in tre parti, una di agricoltura
teorica – l’unica di cui rimane traccia –, una di agricoltura pratica e una di
economia campestre. Destinatari del catechismo erano i proprietari terrieri e i
maestri elementari, che avrebbero dovuto adoperarlo per istruire gli scolari.
Silvagni stesso propose che lo studio fosse pubblicato nel giornale
dell’Intendenza e distribuito a tutti gli insegnanti, anche se non vi sono notizie che confermano l’effettiva divulgazione dello scritto56.
Si deve evidenziare come fin dall’istituzione delle Società d’agricoltura,
fu proprio il governo a conferire notevole importanza all’istruzione pratica e
poco: 23,39% nel 1816, 21,49% nel 1861 e 21,40% nel 1901. Cfr. ASCS, Coscrizione della
Provincia della Calabria Citeriore, rilevata dalla legge 1 maggio 1816 (manifesto a stampa esposto nella sede dell’Archivio); Censimento generale (31 dicembre 1861) per cura del Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio, Torino, Tip. Letteraria, 1864 e MINISTERO
DELL’AGRICOLTURA, INDUSTRIA E COMMERCIO, Censimento della popolazione del Regno
d’Italia al 10 febbraio 1901, vol. I, Roma, Tip. nazionale G. Bertero, 1902.
53
ASN, MI, Inv. II, B. 3812, f. III.
54
ASN, MI, Inv. II, B. 2576, f. 1.
55 Cfr. Zilli, Le Società Economiche abruzzesi, cit., p. 204. Sui catechismi agrari cfr. M.
AGULHON, La Repubblica nel villaggio, Bologna, il Mulino, 1991, p. 15.
56
ASN, MI, Inv. II, B. 2576, f. 1.
72
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RICERCHE/MATERIALI
sperimentale, nella convinzione che una innovazione colturale, per evitare
che si rivelasse fallimentare, dovesse essere preventivamente testata e insegnata nei luoghi dove si voleva applicarla57. Gli orti agrari, concepiti come
testimonianza tangibile dell’interessamento governativo allo sviluppo agricolo, rispondevano proprio all’esigenza di poter praticare esercitazioni e divulgare le innovazioni. L’istruzione pratica parve la via immediata da percorrere
per fare presa sui proprietari, per conferire maggiore dignità alle attività agricole e per rivalutare il mestiere del contadino, e gli orti agrari furono riconosciuti come strumenti privilegiati per il raggiungimento di queste finalità58.
L’importanza dell’istruzione agraria fu un motivo conduttore che accompagnò la Società per tutto il periodo in cui fu attiva e fu proprio Silvagni a
sostenere con maggior vigore l’opportunità che anche a Cosenza sorgesse un
orto agrario59, un luogo pubblico dove riuscire a formare i contadini attraverso delle esemplificazioni pratiche, piuttosto che con pubblicazioni difficilmente fruibili da una popolazione quasi totalmente analfabeta60. Il principale
dei problemi del mondo contadino, infatti, si riteneva fosse la ritrosia ad applicare nuove tecniche, oppure ad utilizzare seminativi diversi o ancora ad
avvalersi di strumenti sconosciuti. Così Gabriele Silvagni evidenziò la necessità di avere delle strutture idonee a tal fine, ovvero di poter disporre di un
orto e di una scuola di agricoltura, sull’esempio del modello di Hofwyl61.
57
R. DE LORENZO, Sperimentazione e istruzione agraria nel Mezzogiorno preunitario, in
G. BIAGIOLI e R. PAZZAGLI (a cura di), Agricoltura come manifattura. Istruzione agraria, professionalizzazione e sviluppo agricolo nell’ottocento, vol. II, Firenze, Leo S. Olschki, 2004, p.
539. Anche oggi il metodo sperimentale è particolarmente indicato nei progetti di sviluppo in
agricoltura. Il principio si basa sul fatto che se nelle fasi iniziali di attuazione emergono difficoltà
di produzione o di commercializzazione, il progetto sarà subito abbandonato e dichiarato fallito.
Cfr. A.O. HIRSCHMAN, I progetti di sviluppo. Un’analisi critica di progetti realizzati nel Meridione e in Paesi del Terzo Mondo, Milano, Franco Angeli, 1975, p. 30.
58
PETRUSEWICZ, op. cit., p. 312.
59
G. SILVAGNI, “Rapporto de’ travagli eseguiti dalla Società Economica Cosentina nel corso del caduto anno agronomico”, in Atti della Società Economica di Calabria Citra, f. 2, 1818, p.
16.
60
Al 31 dicembre 1881, nella provincia di Cosenza si contavano ben 86,36 analfabeti su
100 abitanti al di sopra dei 6 anni. Cfr. MINISTERO DELL’AGRICOLTURA, INDUSTRIA E
COMMERCIO, Annali di Statistica. Statistica industriale. Notizie sulle condizioni industriali delle
Provincie di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria, fasc. LI, Roma, G. Bertero, 1894, p. 61.
61
G. SILVAGNI, “Del Segretario perpetuo della Società Economica della Calabria Citeriore.
Rapporto dell’anno 1822”, in Atti della Società Economica di Calabria Citra, vol. II, 1822, p.
11. Circa il modello divulgativo applicato nel cantone di Berna, a cui, tra l’altro, si ispirò anche il
toscano Cosimo Ridolfi inaugurando il suo podere modello, cfr. M. L. BETRI, La giovinezza di
Stefano Jacini, Milano, Franco Angeli, 1998, pp. 81 e ss.; Id., Un’istruzione per la «carriera
73
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RICERCHE/MATERIALI
Accolto da un coro unanime di approvazione, anche da parte del potere
politico locale e centrale, si avviò dunque l’iter per procedere all’esproprio di
un terreno da destinare ad orto agrario e per la fondazione di una scuola pratica62. Nel 1819 a Cosenza fu effettivamente istituita una scuola secondaria di
agricoltura pratica comunale63, mentre per la realizzazione dell’orto si continuò invano a confidare nell’intervento pubblico.
Al fine di comprendere le frequenti tensioni che si crearono tra la Società
economica e l’Intendenza è opportuno spiegare sommariamente quale dovesse
essere l’iter da seguire affinché un progetto potesse essere finanziato e attuato.
Dopo che le Società economiche giungevano ad una programmazione di
interventi concreti, i progetti dovevano superare il vaglio dell’Istituto d’incoraggiamento, organo di coordinamento e controllo, e ottenere l’approvazione
governativa. Successivamente si doveva cercare un’adeguata copertura finanziaria, di competenza delle Intendenze, non senza aver percorso un ulteriore
procedimento farraginoso, di natura contabile–finanziaria.
L’amministrazione economica del Regno era ripartita in due principali
branche, una definita civile o degli affari interni e un’altra delle finanze. Al
Ministero dell’Interno facevano capo molte funzioni, tra cui quelle riguardanti opere provinciali e comunali. Tuttavia, a fronte delle molteplici esigenze da
soddisfare ricorrendo alla spesa pubblica, quelle locali venivano spesso accantonate con scelte largamente discrezionali. A partire dal 1806, il Ministero
dell’Interno cominciò a vincolare i fondi da assegnare alle Intendenze affinché fossero utilizzati per “spese particolari”, quali costruzione e manutenzione di stabilimenti pubblici e di strade, sussidi per le biblioteche, acquisto di
suppellettili ed in generale “per ogni altro istituto che [avesse avuto] in mira
il vantaggio particolare di ciascuna provincia”, tra cui le Società economiche64. Oltre ai fondi ministeriali vincolati, le Intendenze, qualora avessero
avvertito l’esigenza di ulteriore liquidità, avrebbero potuto finanziare le opere
provinciali attraverso un’addizionale sull’imposta fondiaria65. Così, sebbene
dell’agricoltura e del commercio»: gli Jacini ad Hofwyl, in Biagioli-Pazzagli, op. cit., vol. II, pp.
258-59.
62
G. SILVAGNI, Del Segretario perpetuo …1822, cit., p. 10.
63
Decreto n. 1681 del 10 agosto 1819, consultato in G. VALENTE, La Calabria nella legislazione borbonica, Chiaravalle Centrale, Effe Emme, 1977, p. 67. (n. 1681 – Napoli, 10 agosto
1819).
64
L. BIANCHINI, Storia delle finanze del Regno delle due Sicilie. Governo dal 1806 al
1815, e dal ritorno de’ Borboni da questa epoca insino al 1857, libro VII, Napoli, Stamperia
Reale, 1859, p. 476.
65
ALLOCATI, op. cit., p. 431, nota 15.
74
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RICERCHE/MATERIALI
il ruolo del governo rimanesse quello di fissare le linee guida della politica
economica, per ciò che riguardava lo sviluppo locale l’ultima parola spettava
sempre alle Intendenze, che avevano ampia facoltà di gestire le proprie risorse
in base alle esigenze ritenute prioritarie per la provincia, anche disattendendo
alcune direttive centrali, per le quali non vi era sufficiente copertura finanziaria.
L’Intendenza di Cosenza, pur stanziando annualmente delle somme per la
realizzazione dei progetti proposti dalla Società, non li erogava fino a che
non vi fosse stata l’approvazione del Consiglio di Intendenza, il quale sovente stornava le somme a vantaggio di altre opere66.
Così, ritornando al progetto di creare un orto agrario proposto dalla Società economica e approvato dal governo, il Consiglio di Intendenza, anche per
le continue pressioni ministeriali, deliberò affinché venisse effettuato un contratto di censuazione per un fondo di proprietà delle suore del monastero di
Santa Chiara a Cosenza, le quali, consultate, si opposero sostenendo che la
proprietà in oggetto non era adatta per orto agrario. L’Intendenza, allora, incaricò una commissione composta da membri della Società economica e da
ingegneri, per effettuare una perizia del fondo, che dopo un attento esame fu
giudicato idoneo. Tuttavia a bloccare la procedura intervenne l’Arcivescovo
di Cosenza invocando il rispetto del trattato, che prevedeva appunto che “la
proprietà della Chiesa [era] sacra ed inviolabile”67.
Il progetto fu quindi accantonato, malgrado le rimostranze di Silvagni, fu
poi ripreso in più circostanze dopo la sua morte , ma mai attuato68.
Mentre si seguiva la trafila per ottenere l’orto agrario, Silvagni tentò di intraprendere iniziative alternative, utili alle medesime finalità, ovvero la sperimentazione privata.
A tal proposito, alcuni interventi si rivelarono particolarmente proficui,
come ad esempio quello dell’introduzione in Sila della coltura della patata
come succedanea ai cereali69. Silvagni, che aveva inutilmente proposto che
fossero elargiti premi di incoraggiamento, pubblicò un’istruzione pratica che,
66
Cfr. ASN, MI, Inv. II, B. 2576.
ASCS, SE, B. 10, f. 6.
68
Cfr. MARCELLI, op. cit., p. 62.
69
V. COLOSIMO, “Memoria sulla coltura, ed usi delle patate”, in Atti della Società Economica di Calabria Citra, f. 2, 1818, pp. 23-27 e ASN, MAC, B. 214. A partire dalle carestie del
1816-17, l’esigenza di favorire succedanei dei cereali era particolarmente avvertita anche dal
governo. Cfr. F. ASSANTE, Rapporti di produzione e trasformazioni colturali in Basilicata e Calabria nel secolo XIX, in MASSAFRA (a cura di), op. cit., pp. 60 e ss. L’oscillazione dei prezzi del
grano è stata anche analizzata da A. LEPRE, Produzione e mercato dei prodotti agricoli: vecchio
e nuovo nelle crisi della prima metà dell’Ottocento, in MASSAFRA, op. cit., p. 127.
67
75
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oltre a chiarire le diverse qualità e le tecniche di coltivazione, servì a rendere
noti i diversi usi della patata, dalla panificazione all’alimentazione suina70.
Bisogna però rilevare che il successo dell’introduzione della coltivazione dei
tuberi è da ascrivere, più che all’opuscolo divulgativo, alla sperimentazione
privata di Tommaso Cosentini e Gaetano Spiriti, entrambi membri della Società economica. Il primo la coltivò nei suoi possedimenti in Sila, il secondo
a Cerisano, Morano e Castelfranco; da lì la patata si diffuse in molte zone,
anche nei distretti di Paola e Rossano71.
Un’altra iniziativa di sperimentazione agraria fu quella di Sertorio Guarasci, che mise a disposizione della Società un fondo di sua proprietà, dove poter coltivare piante esotiche e riprodurre alcune specie di semi72; ancora,
Francesco Silvagni, direttore della scuola comunale e nipote di Gabriele, in
attesa di poter disporre di un podere dove poter effettuare esercitazioni per gli
scolari, prese in fitto un giardino, addirittura anticipando le spese (che non gli
furono mai rimborsate)73.
Progetti industriali e interferenze politiche
La modernizzazione dell’agricoltura e l’implementazione delle industrie
costituirono per le Società economiche obiettivi fondanti. A Cosenza, la
maggior parte dei lavori societari si indirizzò verso studi sulla realtà rurale,
sebbene non mancassero attenzioni, anche abbastanza rilevanti, verso le manifatture. Tuttavia, si giunse ad una considerazione positiva delle industrie
solo dopo lenta evoluzione culturale.
70
G. SILVAGNI, Istruzione pratica sulla coltura, ed usi dé pomi di terra dal segretario perpetuo della Società Economica di Calabria Citeriore per ordine di S.E. il Segretario di Stato e
Ministro dell’Interno del Regno delle Due Sicilie, Cosenza, F. Migliaccio, 1817.
71
ASN, MI, Inv. II, B. 2576.
72
G. SILVAGNI, “Del Signor Gabriele Silvagni, Segretario perpetuo della Società Economica Cosentina, Socio Corrispondente dell’Accademia delle Scienze, dell’Istituto d’incoraggiamento di Napoli, e della Reale imperiale Accademia de’ Georgofili di Firenze, rapporto
dell’anno”, in Atti della Società Economica di Calabria Citra, f. 5, 1820, p. 17.
73
Non solo Francesco Silvagni pagò personalmente il canone, ma, sempre “in proprio conto”, iniziò a migliorare il fondo per adeguarlo agli usi specifici delle sperimentazioni. Cfr. ASCS,
SE, B. 10, f. 5 e Ivi, B. 6, f. 33.
76
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Andrea Lombardi74, in un Discorso divenuto celebre, pronunciato
nell’assemblea del 1817, rivolgendosi ad un pubblico assuefatto all’idea che
la Calabria dovesse rispettare la sua vocazione rurale, introdusse il concetto
di “non incompatibilità” tra agricoltura e industria. Lombardi motivò questa
sua intuizione “rivoluzionaria” sostenendo che lo sviluppo del settore industriale avrebbe arrecato il vantaggio di assorbire manodopera femminile e infantile, altrimenti destinata a rimanere inutilizzata75.
Il passaggio dalla “non incompatibilità” alla “necessità” di trasformare
l’economia della provincia da prevalentemente agricola in manifatturiera divenne tuttavia patrimonio comune soltanto a distanza di circa 15 anni da quel
Discorso. Solo nel 1832 Gabriele Silvagni si spinse a sostenere che il processo di industrializzazione europea stava ridisegnando la geografia dei mercati.
Ciascuna nazione industrializzata o in via di sviluppo, sottolineò il Segretario, oltre alla competizione per i mercati di sbocco, puntava alla ricerca di
nuovi mercati di approvvigionamento dove poter reperire materie prime e beni di prima necessità a prezzi bassi. Di conseguenza, a causa dell’aumento
della concorrenza, il Mezzogiorno correva non solo il rischio di perdere il suo
tradizionale ruolo nei mercati internazionali, ma anche quello di asservire i
consumi della Regione alle industrie estere76.
Silvagni ipotizzò che per intraprendere un percorso all’insegna di una
svolta industriale, soprattutto all’inizio, vi sarebbero stati ostacoli difficili da
superare in quanto radicati nella struttura sociale esistente. Bisognava, infatti,
che una quota di popolazione abbandonasse le occupazioni rurali per dedicarsi ad impieghi manifatturieri, magari anche cambiando residenza. Una volta
innescato il processo di cambiamento, ne sarebbero potuti tuttavia derivare
vantaggi economici e sociali a catena. Difatti l’industria avrebbe dato luogo
ad una maggiore circolazione della ricchezza e da questa sarebbero scaturiti
anche l’incremento demografico, il miglioramento delle condizioni igienico–
sanitarie ed il contenimento dell’ondata migratoria che caratterizzava la so74
Andrea Lombardi fu considerato uno dei maggiori intellettuali del tempo. Iniziò la sua
carriera al fianco dell’intendente Flack. Nel 1820 fu eletto consigliere d’Intendenza in Basilicata;
nel 1833 rivestì la carica di sottointendente del distretto di Palmi e nel 1837 quello di segretario
generale d’Intendenza. Cfr. «Atti dell’Accademia Cosentina», IV, 1865, pp. 61-84.
75
A. LOMBARDI, Discorso sulle manifatture della Calabria Citeriore letto alla Società Economica nella sessione generale del dì 30 maggio 1817, Cosenza, s.e., 1817, pp. 88-89.
76
G. SILVAGNI, “Del Segretario perpetuo della Società Economica della Calabria Citeriore,
Socio della Reale Accademia Borbonica, dell’Istituto di Incoraggiamento di Napoli,
dell’Accademia de’ Georgofili di Firenze, della Cosentina, e di quasi tutte le Società Economiche del Regno. Rapporto dell’anno 1832”, in Atti della Società Economica di Calabria Citra,
1832, pp. 136-37.
77
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cietà di quel tempo77. Apparve, quindi, evidente l’opportunità di una puntuale
programmazione economica, al fine di individuare, in prima istanza almeno
teoricamente, quali fossero le industrie o le manifatture più adatte ai diversi
comuni della provincia in base alle risorse disponibili.
Il primo problema che venne affrontato dalla Società economica fu quello
della localizzazione delle industrie. Si pensò che i luoghi più adatti ad accogliere stabilimenti industriali fossero le alture, in quanto vi era una sovrabbondanza di manodopera. La popolazione, che si era insediata prevalentemente nelle zone montane, non riusciva a far fronte ai bisogni di prima necessità, cosicché si cimentava in pericolosi dissodamenti con conseguenti
frane e alluvioni a danno delle sottostanti pianure78.
Quanto all’oggetto delle produzioni manifatturiere, le indicazioni prendevano le mosse dalla constatazione che il territorio non poteva contare né su
investimenti cospicui, né su manodopera qualificata. Di conseguenza, era necessario avviare un processo di meccanizzazione dei processi produttivi, importando le necessarie conoscenze specifiche. Per far ciò, si consigliava di
invitare “forestieri”, ovvero abili artigiani che avrebbero gestito la fabbrica
formando nel contempo tecnici locali specializzati79.
In considerazione della disponibilità di materie prime, ma anche al fine di
ridurre il rischio di impresa, Silvagni suggerì di implementare attività già praticate, ad esempio rafforzando il settore tessile. In particolare auspicò la creazione di fabbriche di seta a Cosenza e di cotone a Cassano, zone rinomate per
la produzione di tele di ottima qualità; per Corigliano, invece, raccomandò la
produzione di sapone, data la quantità e la qualità dell’olio che vi si produceva.
Per far fronte alla mancanza di capitali – non assenti, ma certamente non
adusi a essere impiegati in attività altamente rischiose – Silvagni invocò
l’assistenza dello Stato. Ad esempio, ricordò che Ferdinando I per assecondare lo sviluppo dell’industria nel Napoletano e nel Salernitano aveva accordato
protezione e concesso sovvenzioni a imprenditori, talvolta stranieri, come ad
esempio le industrie di Egg, Mayer e Sava80; in Calabria stessa, a Reggio, la
77
Ivi, p. 137.
Ivi, p. 145.
79
Ibidem.
80
Sulla fabbrica tessile di Piedimonte d’Alife, sorta per l’iniziativa dello svizzero Jacques
Egg, oppure al lanificio di Raffaele Sava, sorto nei sobborghi di Napoli cfr. JOHN DAVIS, op. cit.,
pp. 114 e 118.
78
78
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RICERCHE/MATERIALI
prima fabbrica di seta organzina era sorta per iniziativa governativa e solo in
un secondo momento fu ceduta ai fratelli Caracciolo81.
La Società economica stessa, in quanto espressione del potere politico, ritenne di poter agire in prima persona. Silvagni lanciò l’iniziativa di fondare
una fabbrica di seta “a cucire”, una di lino ed un’altra di lana nell’orfanotrofio femminile di Cosenza82. Quest’ultimo era stato fondato alla fine del
Settecento grazie alle rendite di un monastero soppresso. Inizialmente
l’istituto fu diretto da Vincenzo Telesio, appartenente al casato del più noto
Bernardino, che realizzò l’idea di dare alle fanciulle una formazione completa. Pensò di “educarle” all’arte del tessere, inviandone alcune a Catona, vicino Reggio Calabria, zona nota per la produzione di seta molto pregiata83.
Ideatore del progetto di sfruttare l’orfanotrofio per creare un polo tessile,
in verità, era stato il socio ordinario Vincenzo Mollo, che già nel 1820 meditava sulle opportunità che se ne potevano cogliere. Contando sull’ampiezza
dei locali che accoglievano le ragazze e sulla disponibilità di mano d’opera
gratuita e già abile nel lavorare tessuti, Mollo pensò che sarebbe stato possibile minimizzare i costi e al contempo creare un modello da imitare84.
Nel riprendere il progetto a distanza di anni, Silvagni si trovò a dover affrontare alcuni problemi concreti, il più rilevante dei quali era il reperimento
dei capitali necessari per gli investimenti iniziali, stimati in 10.000 ducati85.
Anche in questo caso, a causa del meccanismo dei finanziamenti già descritto, i finanziamenti pubblici non arrivarono. Non potendo confidare nel denaro
pubblico, Silvagni presentò un progetto alternativo di costituzione di una società ad azionariato diffuso con la partecipazione del Consiglio provinciale86.
Il rapporto del segretario Silvagni, apprezzato da tutti i membri della Società economica, venne portato all’attenzione del Reale Istituto d’incoraggiamento, che, oltre a reputare le proposte in esso contenute “opportunissime
al bene della Calabria Citeriore”, propose al Ministero dell’Interno di emette81
G. SILVAGNI, Del Segretario perpetuo …1832, cit., p. 149. Sulla storia della sericoltura a
Reggio Calabria cfr. P. GRECO, Sullo stato dell'industria della seta nella Calabria Ultra Prima,
s.l., [1845].
82
G. SILVAGNI, Del Segretario perpetuo …1832, cit., p. 146.
83
Cfr. L. ACCATTATIS, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie raccolte a cura di
Luigi Accattatis socio di varie accademie e società italiane ed estere, vol. III, Cosenza, Tipografia della Redenzione, 1877, pp. 118-21.
84
V. MOLLO, “Dell’agricoltura di questa provincia, e degli ostacoli, che si oppongono a
migliorarla”, in Atti della Società Economica di Calabria Citra, f. 5, 1820, p. 36.
85
Cfr. ASCS, SE, B. 7, f. 43.
86
G. SILVAGNI, “Del Segretario perpetuo della Società Economica di Calabria Citra. Rapporto dell’anno 1833”, in Atti della Società Economica di Calabria Citra, 1833, pp. 194-98.
79
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re un’ordinanza nei confronti dell’Intendenza affinché questa si impegnasse
alla realizzazione del progetto.
Dopo aver chiesto ulteriori delucidazioni87, il Consiglio provinciale si riunì per trattare la proposta, ma, tradendo le aspettative della Società, deliberò
di non attuare il programma. L’Intendenza, infatti, sostenne di non essere in
grado di fronteggiare le spese di impianto. Inoltre, valutò inopportuno che un
ente pubblico finanziasse integralmente un’attività industriale, ritenendo
maggiormente indicato che si costituisse una società di azionisti privati e che
l’intervento pubblico si limitasse all’eventualità che i capitali raccolti non
fossero stati sufficienti88.
Iniziò allora una vera e propria disputa tra Società e Intendenza. La prima
accusò la seconda di mala fede e di incauta gestione di fondi, alludendo ad
alcune spese ritenute secondarie. Ad esempio, erano stati erogati 100.000 ducati per costruire una piccola strada, 60.000 ducati per iniziare il progetto di
realizzazione di una caserma e ancora 30.000 ducati per edificare un teatro89.
Da parte sua, l’Intendenza, equivocando l’istanza, rimproverò la Società
di voler gestire fondi provinciali e quindi di disattendere il proprio ruolo di
“corpo scientifico ed istruttivo”, trasformandosi in “amministrazione finanzi[aria]”. A seguito di tale accusa, il Ministero competente si espresse a favore del governo provinciale, invitando la Società a limitare le proprie attività
alla distribuzione di premi di incoraggiamento90.
Sottesa alla riluttanza da parte dell’Intendenza nell’attuazione del progetto vi era, secondo Silvagni, la tutela di interessi privati. A quanto pare, fiutato
l’affare, alcuni facoltosi consiglieri avevano promosso la costituzione di una
“compagnia d’azionarj”, pronta a mettere a frutto i vantaggi derivanti dalla
strumentalizzazione dell’orfanotrofio91.
L’ultimo rapporto pronunciato da Silvagni fu quello del 30 maggio 1834,
in cui ripercorse le tappe del progetto di creare un opificio tessile nell’orfanotrofio di Cosenza ed in cui espresse tutte le sue riserve nei confronti
87
ASCS, SE, B. 7, f. 43.
G. SILVAGNI, Del Segretario …1833, cit., pp. 194-98.
89
R. VALENTINI, “Discorso pronunziato nella seduta generale della Società Economica di
C.C. il di’ 30 Maggio 1833, ricorrendo il giorno onomastico di S.M. Ferdinando II nostro Augusto Monarca dal socio ordinario Avvocato Raffaele Valentini”, in Atti della Società Economica
di Calabria Citra, 1833, p. 234.
90
G. SILVAGNI, “Del Segretario perpetuo rapporto dell’anno 1834”, in Atti della Società
Economica di Calabria Citra, 1834, p. 12.
91
Ibidem.
88
80
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RICERCHE/MATERIALI
dell’Intendenza. Quello stesso anno, a dicembre, morì assassinato92. Insieme
a lui venne meno la veemenza con cui era stata portata avanti il progetto, ma
non l’iniziativa stessa.
A distanza di due anni, fu lo stesso Ministero dell’Interno, preso atto che
a Cosenza non erano ancora sorte industrie, ad esortare l’Intendenza a realizzare un polo tessile nell’orfanotrofio e la Società economica a redigere proposte utili a tale scopo93. Quest’ultima suggerì di ridimensionare il progetto
preferendo la sola manifattura della seta e riducendo l’importo di ciascuna
azione, ma ancora una volta non vi furono finanziamenti pubblici94.
Nacque, invece, la tanto contestata “compagnia d’azionarj”95. Nel 1842, infatti, si costituì una società di capitali, che ottenne anche l’approvazione sovrana per stabilirsi proprio all’interno dell’orfanotrofio. Questo fu dotato di 22 telai a tecnologia avanzata, ovvero quelli a spola volante, e a dirigere i lavori fu
chiamato lo svizzero Giorgio Schrepfer96. Così, a Cosenza prese avvio una rilevante iniziativa privata, che, sfruttando la manodopera delle giovani orfane,
rappresentava una tra le più importanti realtà manifatturiere della provincia.
Si realizzava così un progetto, forse l’unico direttamente correlato
all’iniziativa della Società economica. Anche se la Società non gestì l’impresa, né direttamente né indirettamente, tuttavia il legame con la sua intuizione
appare evidente. Ne fu in qualche misura agevolata l’iniziativa privata e nacque un opificio moderno, finanziato attraverso capitali conferiti da piccoli
azionisti (non piccoli risparmiatori, ma cittadini facoltosi con bassa propensione al rischio); ma soprattutto l’impresa costituì oggetto di emulazione, così
come il segretario Silvagni aveva auspicato.
La gestione dell’opificio sorto nell’orfanotrofio, a ben vedere, fu tuttavia
discutibile. La produzione serica era stata infatti abbandonata, proprio in un
periodo in cui la produzione a Cosenza si era molto intensificata, e al suo posto era stata favorita quella cotoniera e liniera97. Così, mentre fu trascurato il
settore in cui le allieve avevano maggiore preparazione tecnica, la materia
prima era facilmente reperibile, il mercato internazionale era in congiuntura
favorevole, la direzione dell’orfanotrofio decise paradossalmente di intra92
COLOSIMO, Biografia, cit.
ASCS, SE, B. 7, f. 43.
94
Ibidem.
95
ASN, MAC, B. 211, f. 7.
96
Giornale Economico Scientifico della Real Società Economica di Calabria Citra, 1840.
La Società di azionisti divenne effettivamente operativa nel 1843. Sull’argomento cfr. B.
CARDILLO, op. cit., pp. 89-90 e 95-96.
97
ASCS, SE, B. 8, f. 55.
93
81
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prendere la lavorazione di tessuti per i quali era necessario importare la materia prima98. Al contempo però, tra gli anni ’40 e ’50, a Cosenza sorsero numerosi opifici serici in concorrenza tra loro, testimonianza se non altro
dell’avvio di un processo di cambiamento99.
Dopo la morte di Silvagni la Società economica di Cosenza iniziò a perdere smalto, riducendo notevolmente le attività propositive e confinando i
lavori in attività puramente descrittive. Tale tendenza, tuttavia, non rappresentò un fenomeno isolato e non costituì solo la conseguenza della scomparsa
di quel Segretario che tanto aveva dato lustro all’associazione. Dipese in parte anche da avvenimenti politici. In occasione dei moti rivoluzionari del ’48,
infatti, aumentò la diffidenza della Monarchia nei confronti delle associazioni, in seno alle quali spesso si fomentavano congiure. L’indirizzo politico,
quindi, fu quello di sciogliere le Società che si riteneva avessero cospirato
contro il Re, di allontanare i soci rivoluzionari e di sostituirli con personaggi
per così dire più “allineati”. Tale tendenza si realizzò anche a Cosenza. Raffaele Valentini, succeduto a Silvagni nella carica di segretario il 1835 in occasione dei moti rivoluzionari, si dichiarò apertamente contro la Monarchia e
ciò gli costò la condanna a morte100.
Con la nomina di Greco alla guida della Società economica, il rinnovamento si avvertì soprattutto nella rappresentanza dei nuovi soci, scelti tra i
magistrati che avevano caratterizzato la fase repressiva seguita ai moti del
1848 e tra i funzionari amministrativi. Nonostante le numerose e qualificate
nomine, che riguardarono soprattutto gli onorari e i corrispondenti, l’organico
della Società economica andò sempre più sfoltendosi101.
Il difficile momento politico e l’intervento repressivo del governo contribuirono ad un diradamento delle attività, testimoniato dall’esiguo numero di
memorie comparse nei resoconti del segretario, che sul finire degli anni Cinquanta si trovò a perdere alcuni tra i soci più competenti102.
98
Ivi, B. 7, f. 44. Le materie prime provenivano da altre province del Regno e dalla Gran
Bretagna.
99
MARCELLI, Sviluppo economico, cit., pp. 106-107.
100
ACCATTATIS, Le biografie, cit., vol. IV, p. 113. La pena di morte gli venne poi commutata in ergastolo. Trascorse il resto della sua vita nel Castello di Cosenza, dove morì nel 1858. Per
maggiori informazioni sul ruolo di Valentini nei moti rivoluzionari del 1848, cfr. D. ANDREOTTI,
Storia dei cosentini illustri, vol. III, Cosenza, Pellegrini Editore, 1987, pp. 349-60.
101
Cfr. ASCS, SE, B. 1, f. 1.
102
«Reddiconto della Reale Società Economica della Provincia di Calabria Citra», 1865,
pp. 28-29.
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RICERCHE/MATERIALI
Incisivo ed essenziale, Greco preferì impostare la gestione dei lavori della
Società sulla discussione collegiale in chiave descrittiva di argomenti di carattere generale, sull’analisi dei settori dell’economia provinciale, trascurando, però, il compito propositivo, interamente assolto dall’Istituto di Incoraggiamento. Il risultato ottenuto fu quello di riuscire a tracciare una mappa cognitiva analitica, dalla quale poter ricavare preziose informazioni sulle principali coltivazioni o sui più rilevanti opifici presenti nei diversi distretti, ma
nulla di più.
Conclusioni
Stabilire con esattezza se vi sia un rapporto causa–effetto tra cambiamento economico e azioni delle Società economiche è pressoché impossibile e
probabilmente non è il solo aspetto da considerare per esprimere un giudizio
storiografico su queste organizzazioni o sulle persone che si dedicarono ad
essa. Bisogna considerare che queste si ponevano un obiettivo molto ambizioso, lo sviluppo economico, che implica la trasformazione delle regole
formali e informali che guidano una società, cambiamento questo lento e
quasi impercettibile, se non in una prospettiva storica103. E’ stato già evidenziato come l’esperienza di alcune Società economiche meridionali abbia messo in evidenza la capacità di queste organizzazioni di rappresentare validi osservatori e centri di promozione per lo sviluppo, istituzioni in grado di tracciare con relativa precisione una mappa cognitiva delle realtà locali104.
Proprio questo è stato uno degli elementi presi in considerazione in questo
saggio, che, grazie alla ricostruzione critica della vita professionale di Gabriele Silvagni, ha potuto analizzare le attività svolte in seno alla Società economica di Calabria Citeriore, miranti a generare progetti di sviluppo e la
capacità di portarli ad esecuzione, evidenziandone limiti, difficoltà e successi.
Le restrizioni poste alle attività della Società dal potere politico, sia nazionale che provinciale, e alcune decisioni operative possono essere considerate alla base della scarsa considerazione che la gente aveva di questa istituzione. Tra le prime vanno ascritte la mancanza di finanziamenti e i vincoli
organizzativi. Tra le seconde la preferenza accordata in seno all’associazione
103
D.C. NORTH, Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell’economia, Bologna, il Mulino, 1994, p. 27.
104
MARCELLI, op. cit., cap. 4. Cfr. A. MARRA, La Società economica di Terra di Lavoro.
Le condizioni economiche e sociali nell’Ottocento borbonico. La conversione unitaria, Milano,
Franco Angeli, 2006.
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RICERCHE/MATERIALI
alla borghesia terriera e la scarsa attenzione prestata nei confronti della classe
contadina.
Analizzata con la lente dello storico, la particolare esperienza di Gabriele
Silvagni sembra possa essere valutata positivamente, per la dedizione manifestata verso la riconversione dell’economia agricola in funzione delle nuove
esigenze di industrializzazione105, ma soprattutto per la capacità di promuovere un dibattito con intenti pedagogici non solo astratti, ma spesso anche
pratici106. Si aggiunga che il messaggio divulgativo, sebbene non sia riuscito
ad arrivare al ceto contadino, è certo che sia stato accolto dai proprietari terrieri, soprattutto quelli di nuova formazione, molti dei quali sedevano tra le
fila della Società stessa.
In generale, si può concludere che l’esperienza di Gabriele Silvagni offre
l’immagine di un personaggio ben consapevole delle proprie finalità istituzionali. Si sentiva partecipe di una missione civilizzatrice e contribuiva ad
essa dedicandovi i propri studi e le proprie conoscenze, sopperendo in diverse
occasioni alle “disattenzioni” degli organi di governo. Nel periodo in cui Silvagni guidò la Società, è riscontrabile un interessamento concreto verso lo
sviluppo economico della provincia, una progettazione in grado di allontanarsi da previsioni irrealistiche e indirizzata verso obiettivi accuratamente scelti.
Ogni iniziativa propositiva scaturiva da una puntuale analisi delle risorse disponibili e del capitale umano di riferimento; i progetti presentati tenevano
conto delle differenziazioni territoriali, della disponibilità di manodopera e
della competenza imprenditoriale, non trascurando di appurare ogni questione concreta necessaria per l’attuazione. Nonostante il costante rifiuto da parte
del potere politico di finanziare le proprie iniziative, Silvagni cercò in ogni
modo di raggiungere qualche risultato tangibile e proprio per questo fu accusato di protagonismo nella gestione della Società.
Particolarmente interessante è stato il progetto di creazione di un’industria
tessile all’interno dell’orfanotrofio femminile. Dalla ricostruzione dei vari
passaggi è stato anche possibile evidenziare le ricorrenti difficoltà cui può
andare incontro la realizzazione di un progetto: pianificazione di un preventivo di spesa e reperimento dei capitali da investire, scarso coinvolgimento iniziale da parte dei privati, interferenze con la politica. A dispetto, però, delle
resistenze iniziali, proprio l’esecuzione di tale progetto sembra si possa ascrivere tra i principali meriti di Silvagni. Se è vero che l’impresa prese avvio
con modalità diverse da quelle pianificate, tuttavia la Società riuscì a mettere
105
106
MONTAUDO, op. cit., p. 119.
GANGEMI, op. cit., pp. 369-93.
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NÚNCIA SANTORO DE CONSTANTINO
PER RICORDARE TERESA.
SULLE TRACCE DI UNA DONNA TRA ACQUAPPESA E
PORTO ALEGRE
Una donna semplice, che ha lasciato poche tracce del suo passaggio in
questo mondo. Né ritratti sui muri con preziosi gioielli o abiti di seta, né alcun racconto di quel che può essere stata la sua vita. Per conoscere qualcosa
di Teresa é necessario arrivare “agli scantinati della casa, alle cucine e ai laboratori .... luoghi dove si muovono le figure minori e furtive”. Ecléa Bosi
utilizza metafore per ricordare le donne “...che vivevano ai margini del sistema, che si installavano nelle pieghe della società, ai margini del lavoro che
contava”; persone prive di cultura letteraria, che lottavano per sopravvivere
servendosi delle conoscenze acquisite attraverso le esperienze del lavoro
spiccio, ritenuto di nessun conto; persone che transitavano nei vicoli e nelle
cantine, lottando da sole contro le aspre condizioni del giorno dopo giorno
(Bosi, 1984: 3-4). Donne come Teresa, che caricano acqua alle fontane, che
si chinano sotto il peso delle fascine, che alimentano il fuoco e preparano da
mangiare nella camera piena di fumo dove tutti mangiano e dormono. Donne
che lavano i panni screpolandosi le mani nel freddo rigido dell’inverno, che
zappano la terra e buttano le sementi che saranno il cibo della loro famiglia,
che vendono nei mercati e che tessono panni per ripararsi dal freddo. A queste donne è quasi sempre negato il diritto alla storia, anche perché c’è grande
scarsità di testimonianze sulla loro vita e sulla loro cultura, intesa come
“...l’insieme di attitudini, credenze e codici di comportamento proprie delle
classi sottomesse in un certo periodo della storia....”. (Ginzburg, 1987: 16)
Di Teresa sono rimaste poche orme, praticamente niente. Brevi descrizioni orali tramandate dai ricordi di Teresa Zottolo, una sua nipote ormai deceduta, nata nel 1908 ed emigrata in Brasile nel 1925 dopo essersi sposata. Diceva che la nonna era affettuosa e la prendeva per mano sulla lunga salita fino al paese (Acquappesa, sulla costa tirrenica calabrese, fra Cetraro e Fuscal85
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do, non lontano da Paola). Preparava come nessuno il pesce che alimentava
tutti quanti, conservandolo per lungo tempo in vasi di coccio. La nonna le insegnò anche a sbucciare i fichi d’India evitando il pericolo delle spine.
La vecchia Teresa lavorava alla filanda quando, all’età di 19 anni, nel
1871, si sposò con Domenico Santoro, trentenne contadino senza terra che,
con il passare del tempo, diventò il campanaro della chiesa, di cui era già sagrestano. È immaginabile che la moglie dovesse seguirlo spesso al lavoro,
camminando per lunghe ore per piantare e raccogliere in qualche campagna
lontana, come era consueto per le donne povere. Era anche probabile che,
mentre crescevano i bambini, Teresa lasciasse il lavoro alla filanda, che integrava lo scarso reddito familiare, perché il frutto del suo lavoro diventava
sempre meno redditizio.
Con la grave crisi degli anni Ottanta dell’Ottocento, cresceva il declino
della pastorizia iniziato a seguito dell’Unificazione, che d’altra parte aveva
dato impulso all’ingresso dello Stato Italiano nel sistema capitalista, a partire
dalle regioni settentrionali. Il nord dell’Italia, grazie alla produzione industriale, “diventò più forte del sud agricolo”, scrivono De Boni e Costa, aggiungendo il fatto che la riorganizzazione dell’Italia si realizzò “con
l’abolizione delle frontiere, la soppressione delle tradizioni al fine di aprire la
strada alla costruzione di uno Stato Moderno” (De Boni-Costa, 1984: 50).
L’introduzione delle macchine per la produzione su larga scala aumentava
il capitale della borghesia e restringeva il mercato del lavoro al Sud, togliendo gli uomini dalle loro occupazioni tradizionali, distruggendo l’artigianato
che contribuiva ad aumentare il reddito dell’agricoltore. La Mafrici colloca
all’origine della crisi, che ha avuto luogo soprattutto nel Sud dell’Italia, la
questione dell’Unificazione e la conseguente politica volta a creare un mercato nazionale. La Calabria, a dire dell’autrice, ha sofferto danni incalcolabili a
seguito dell’abolizione della tariffa che gravava sui prodotti importati, proteggendo, in questo modo, quelli dell’antico regno di Napoli. La politica del
libero scambio non avrebbe potuto assolutamente favorire la regione dove
l’industria era ancora agli inizi e la manifattura rudimentale. Furono abolite le
divisioni politiche e di conseguenza le barriere economiche (Mafrici, 1982: 89).
Le manifatture domestiche più legate alla vita contadina ed alla trasformazione della materia prima agricola, agli inizi del XIX sec., erano state la
filatura e la tessitura, manifatture prevalentemente femminili. Nel 1874, Eugenio Arnoni registrava che tutte le famiglie possedevano una filanda e che
non era possibile passare in una strada o in un vicolo senza sentire il rumore
delle filande che, in qualche modo, favorivano la circolazione di denaro (Bevilacqua & Placanica, 1985: 252).
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RICERCHE/MATERIALI
Il commercio locale di artigianato domestico si è fortemente ristretto a
causa dell’offerta di prodotti industriali provenienti dal Nord, che invasero la
Calabria nel periodo postunitario. La filatura e la tessitura, tanto della lana
quanto della seta, diventarono attività in declino e la contrazione nella produzione della seta, a causa anche di continue calamità, disgregò attività tradizionali come la coltivazione del gelso e l’allevamento del baco da seta.
È probabile che la filanda di Teresa, pertanto, fosse diventata silenziosa e
che le difficoltà finanziarie fossero ancora maggiori mentre allevava i figli.
Erano quattro maschi: Michele, Antonio, Pasquale e Luigi, il primo emigrato
negli Stati Uniti, gli altri in Brasile. Crebbe anche la figlia Rosa, che sposò
Fedele Zottolo, in Calabria, e fu madre di Francesco Umberto e di Enrico,
che emigrarono presto, rispettivamente a Buenos Aires e Rio de Janeiro; fu
madre anche di Teresa Carmela, che sposò il conterraneo Giulio di Tullio e
quando emigrò a Santos, la città portuale della regione di San Paolo, in Brasile, portò con sé la madre vedova, che morì poi nella città brasiliana.
Attraverso le parole della nipote si percepisce la preservazione di qualche
elemento di una cucina calabrese essenziale e povera, le cui tecniche di preparazione le erano state tramandate; così figlia e nipote sapevano preparare
sarde ed acciughe sott’olio, un pallido indizio di conservazione delle tradizioni culinarie del paese.
È stata pertanto la zia Teresa che ha raccontato qualcosa della vecchia
nonna, la cui voce poco si sentiva, poiché non sapeva leggere né parlare in
italiano, comunicando solamente in dialetto, ma che sapeva parlare una lingua di Francia. Francese? Ma come francese?
Fra le tracce rimaste ci sono alcuni documenti nei quali compare il suo
nome, Tripicchio Maria Teresa, oltre ad un’unica sua fotografia, ritrovata tra
gli oggetti personali del figlio che morì anziano, sull’altra riva dell’Oceano:
Luigi–Luiz, nato nel 1880, emigrato a Porto Alegre nel 1898. Nella foto Teresa sta in piedi, con la mano sulle spalle del marito anziano, seduto, ed in compagnia del nipote Francesco Umberto, dagli occhi chiari e di circa otto anni.
La nonna é esile, di bassa statura, probabilmente sui sessant’anni; ha gli
occhi profondi e piccoli, zigomi pronunciati, la bocca senza labbra, mani
molto grandi. Indossa un vestito lungo e stropicciato, con le maniche aperte
all’altezza delle spalle, dove si intravede parte della camicetta bianca indossata sotto il corsetto attillato ed abbottonato fino al collo; la gonna è arricciata,
con ampia presa nella parte inferiore, simulando una balza arricciata che quasi tocca il pavimento, coprendole le scarpe. I capelli sono radi, con la riga in
mezzo, tirati all’indietro probabilmente con una crocchia rifinita con un cer87
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RICERCHE/MATERIALI
chietto o un nastro, del quale si intravede una parte. Teresa indossa orecchini
discreti con pendenti probabilmente in oro.
Teresa con il marito Domenico Santoro e il nipote Francesco Umberto –
Acquappesa, 1900
Poco conosco di Teresa e di lei vorrei conoscere di più. Dispongo per
questo di buoni arnesi teorici che mi sono offerti da Ginzburg e Corbin e dei
quali occorre fare il miglior uso possibile.
Importanti discussioni metodologiche hanno permeato il pensiero degli
storici negli ultimi decenni. Se negli anni Cinquanta e Sessanta la maggior
parte degli storici utilizzò metodi quantitativi, e concentrò le analisi sulle tendenze generali verificatesi in grandi gruppi di popolazioni, negli anni Settanta
alcuni studiosi passarono dal telescopio al microscopio, per usare la nota metafora di Peter Burke. Spiccano in questo approccio le famose pubblicazioni
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di Carlo Ginzburg, che spiegò le fondamenta del metodo indiziario, dimostrando, in un testo ormai classico, che gli indizi funzionano come chiavi per
la conoscenza delle realtà storiche; minuscole parti singolari tradizionalmente
poco considerate possono essere elementi fondamentali della ricostruzione
del passato (Ginzburg, 1991).
Ginzburg chiarisce che, se i documenti propongono la ricostruzione di
masse indistinte, offrono anche l’opportunità di ricostruire personalità individuali; per questa via, si estende il concetto storico di individuo alle classi più
basse. Continua lo storico piemontese, ricordando che in un individuo comune, “...di per sé privo di rilievo e proprio per questo rappresentativo, si possono scrutare come in un microcosmo le caratteristiche di un intero strato sociale in un determinato periodo storico...”; tracce individuali “...permettono di
circoscrivere le possibilità latenti di qualcosa (la cultura popolare) che ci arriva attraverso una frammentaria e deformata documentazione...” Aggiunge
inoltre, sulla scia di Bachtin, che eventuali elementi della cultura egemone
possono essere riscontrati nella cultura popolare, e viceversa (Ginzburg,
1987: 26-7; 21-2; 28). Così difende l’idea di una circolarità culturale.
I pochi dati disponibili su Teresa sono solo degli indizi, inclusi quelli provenienti dalla fotografia che, per dirla con Arnheim, offrono “piena esperienza percettiva” (Arnheim, 1981: 21). Non si può ignorare che un documento
fotografico, come qualsiasi altro documento, “...è il risultato di un montaggio
cosciente o incosciente della storia, della società che lo ha prodotto....”. È
dunque necessario smitizzare il suo significato apparente, espresso nel desiderio di affermazione della nuova borghesia, che si sviluppa alla metà del
XIX sec. attraverso una conclamata democratizzazione. Affermava il senatore italiano Mantegazza, nel 1889, che la fotografia permetteva a tutti di possedere una “galleria domestica”; e dal suo punto di vista, ampiamente condiviso dalla società europea alla fine del XIX sec., la fotografia era “...opera
umanitaria di alta e sana democrazia” (D’Autilia, 2001: 8; 86-8). In altre parole sostituiva l’assai costoso ritratto dipinto. Come fenomeno di grandi proporzioni, la fotografia è il simbolo dell’ ascesa della borghesia che, nella sua
rappresentazione, adotta modi provenienti dalla nobiltà: pose, indumenti,
gioielli, scenografie. Il ritratto borghese è il risultato di una posa nello studio
del fotografo che cerca di riprodurre gesti solenni, espressioni di dignità.
Teresa appare in una fotografia realizzata probabilmente in uno studio,
dato che lo scenario sullo sfondo è dipinto. La foto è inviata al figlio senza
dedica. Probabilmente era la sua prima esperienza fotografica, perchè la sua
espressione dimostra chiaramente disagio, rigidezza. La posa è quella praticamente d’obbligo in quel periodo: la donna in piedi, il marito seduto. Ma la
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foto era sopratutto una prova di esistenza, di appartenenza ad una famiglia
che si era dispersa; le tre persone fotografate stanno dicendo: “Siamo la tua
famiglia e siamo qui”. Le caratteristiche della fotografia rimandano agli inizi
del secolo scorso. La bocca di Teresa, senza labbra, facilita il proposito della
serietà, pretesa a quel tempo. Come il vestito a righe del nipote, l’abito stropicciato che indossa Teresa trasmette l’idea della povertà. Ma ricorda anche,
sia pur vagamente, il vestito tipico di un paese vicino ad Acquappesa, Guardia Piemontese, data la forma del corsetto e, principalmente, delle maniche
(Incontro con la Calabria, 1986:153). Non è una donna bella; in verità è ben
lontana dall’esserlo; le sue enormi e sproporzionate mani indicano il lavoro
pesante delle varie generazioni che l’hanno preceduta; sembra avere sessant’anni, ma potrebbe averne cinquanta, dato che le donne di quel periodo e
di quella condizione sociale invecchiavano presto.
Il concetto di circolarità culturale – influenza reciproca tra la cultura popolare delle classi subalterne e la cultura dominante – può essere colto nella
pettinatura con cui Teresa si presenta nella fotografia, in uso all’epoca tra le
donne benestanti, o negli orecchini discreti, probabilmente d’oro, comuni in
Calabria. C’è un altro indizio di questa circolarità, la catenina che il nipote
Francesco, vestito “in gessato” e con le scarpe consumate, porta sul ventre,
facendo capire che possiede un orologio nel taschino.
Preservando la memoria di Teresa, gli indizi raccolti permettono di ricostruire in parte la società nella quale era inserita, come ci insegna Corbin. Lo
storico francese indagò sulla vita di Louis–François Pinagot, che visse presso
la foresta di Bellême. A partire da alcune tracce della sua esistenza, ritrovate
nella vasta documentazione consultata negli archivi della regione di Perche,
Corbin è stato capace di ricostruire la storia della regione. Instancabilmente
costruì un puzzle, contando su alcuni elementi inizialmente dispersi, ma che
acquisiscono significato nel suo racconto storico (Corbin, 2001). Il francese
Pinagot è realmente esistito, nacque nel 1798 e morì nel 1876, come attestano
i registri anagrafici. Corbin ha cercato di riunire dati empirici certi e riscontrabili, coinvolgendo i contemporanei del soggetto centrale delle sue indagini,
Louis–François Pinagot, anche se riconosce che è impossibile conoscere le
sue qualità morali. Peraltro l’autore fornisce al lettore elementi che permettono di ricreare il possibile ed il probabile, quando e dove Pinagot ha vissuto,
attraverso i minimi resti che involontariamente ha lasciato alla posterità e che
rappresentano indizi della società del suo tempo.
Di Teresa rimasero pochi residui che ci permettono di argomentare sulla
sua vita e sul suo mondo, che era quello della povertà e dell’emigrazione.
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RICERCHE/MATERIALI
I suoi passi percorsero l’antico Casaletto di Acquappesa, il Casalu, sorto
nelle terre di Cetraro, donato dalla moglie di Roberto il Guiscardo ai monaci
benedettini, alla fine dell’XI sec.. Molto più tardi il Casaletto fu parte del
feudo del marchese Spinelli di Fuscaldo; fu anche un’area acquistata dal comune di Guardia Piemontese, cui appartenne fino al 1835, quando si emancipò per l’asserita differenza di idioma e di costumi tra gli abitanti delle due
comunità. Ed è probabile che la famiglia di Teresa già abitasse nella frazione
di Acquappesa, al servizio dei signori, magari nel Palazzo Gentili o nel Palazzo Battaglia. Era un paese di grandi signori davanti ai quali gli umili chinavano la schiena e si scoprivano la testa tenendo in mano l’umile berretto,
perchè i cappelli erano indossati solo dai potenti.
Di fronte ai grandi proprietari terrieri si trovava da molto tempo la massa
rustica ed ignorante dei contadini, composta da coloni, braccianti ed anche da
piccoli proprietari terrieri. Per svariate ragioni, mancava alla società calabrese
uno strato intermedio, una borghesia capitalista, capace di creare imprese che
in altre regioni, come scriveva Fortunato Seminara, promuovevano trasformazioni e rompevano strutture tradizionali. Ma, se in tempi di oppressione e
di miseria, si ebbe una ribellione espressa nelle forme violente del brigantaggio, alla fine del XIX sec. accadde un nuovo fenomeno che avrebbe determinato conseguenze mai immaginate nell’economia e nella società calabrese:
l’emigrazione verso l’America, che alleggerisce conflitti e pressioni sociali
(Seminara, 1982: 306-7). A sua volta, Cappelli sottolinea che tale fenomeno
rappresentava anche una forma di protesta delle classi subalterne. L’autore si
riferisce alla Calabria tra XIX e XX sec. come a una terra di catastrofi, che
possono essere intese non solo come terremoti naturali ma anche come terremoti sociali. Terremoti sociali di piccole dimensioni sono state le rivolte
popolari locali, facilmente controllate dalle armi dell’esercito. Ma un grande
terremoto sociale è stata l’emigrazione transoceanica (Cappelli, 1982: 8794).
Il processo di accumulazione derivante dallo sviluppo industriale italiano
accelerava la destrutturazione economica e sociale delle campagne, segnalata
in molte aree del paese, come sottolinea Sori, “per il diffuso fenomeno del
pauperismo rurale, della disoccupazione, dell’espulsione da un ruolo produttivo stabile, per la riduzione del consumo più elementare a limiti insostenibili” (Sori, 1979: 13). E così nelle ultime due decadi del XIX sec., vere moltitudini arrivavano ai porti di Genova e Napoli, allettate da agenti che promettevano lavoro e ricchezza in altre terre. Si registrò che “tra il 1861 ed il 1940,
il numero degli espatriati è stato all’incirca di venti milioni, in un’Italia che
nel 1901, aveva trentatrè milioni di abitanti”. Tra il 1876 ed il 1940, l’alta
percentuale del 33,3 dell’emigrazione appartiene al Mezzogiorno che, nelle
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RICERCHE/MATERIALI
prime decadi del ‘900, espelle il maggior numero di persone. “L’esodo in
massa dal sud dell’Italia”, scrive Sori, “è l’evidenza delle difficoltà economiche e sociali”; e la Calabria, a confronto con le altre 16 regioni amministrative italiane, tra il 1881 ed il 1910, passò dal quarto al secondo posto per il
numero di espatri, rimanendo in questa posizione tra il 1911 ed il 1940 (Sori,
1979: 23, 25).
Taruffi (1908: 706) mostra attraverso i numeri il primato dell’emigrazione
cosentina in Calabria. Fino al 1905, dei 500.000 emigranti calabresi, il 46%
erano del Cosentino, il 36% del Catanzarese ed il 18% del Reggino (Cingari,
1982: 104-5).
La via d’uscita trovata dai Cosentini fu, pertanto, l’emigrazione, che determinò la dissoluzione del vecchio ordine, dimostrando che la lunga crisi
non veniva sostituita da un nuovo modello. Si percepisce che l’esodo dei calabresi era già un fenomeno rilevante negli anni attorno al 1880, quando appena iniziava la crisi agricola italiana. Seguì una lunga fase di involuzione e
di progressivo ritardo della Regione rispetto al quadro nazionale; gli effetti
della recessione furono immediati, sconvolgendo il sistema di relazioni, con
l’indebolimento delle tradizionali forme di lavoro disimpegnate dai nuclei
familiari, sia dei piccoli proprietari agricoli, che dei coloni o dei braccianti,
nelle loro diverse combinazioni con le attività artigianali. Fu senza dubbio
questa grave crisi economica che provocò l’emigrazione di massa (Constantino, 1991: 70-6).
Con tante e tante partenze, molte lacrime avrà pianto quella Teresa che
rimase. I suoi quattro figli impararono a leggere e scrivere, perchè avevano
bisogno di andare e partirono per l’America. In verità, Michele era già da alcuni anni negli Stati Uniti quando, nell’estate del 1898, se ne andarono insieme Antonio, Pasquale e Luigi.
Michele viveva e lavorava a New York, dove si trovava insieme a dei
conterranei e aveva possibilità di lavoro. Come tante migliaia di immigrati,
era arrivato in quella enorme città “...seguendo i fili di una struttura di rete,
tessuta dai precedenti immigrati”, come osserva Vecoli, aggiungendo che si
formarono reti di affinità e concentrazione di abitazioni degli immigrati in
determinati spazi e che gli immigrati già inseriti fornivano l’infrastruttura necessaria a quelli che arrivavano. Lo stesso autore registra che a New York nel
1920, c’erano 800.000 italiani, stabiliti in vari quartieri di Manhattan e che
quando miglioravano la loro condizioni economiche, si trasferivano a Brooklyn (Vecoli, 2002: 61).
Michele fu presto prospero. Agli inizi del XX sec. era già a Brooklyn, con
una bottega di calzolaio: Boot Black Shoe Repairing. Progredendo, fece quel92
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RICERCHE/MATERIALI
lo che ci si aspetta da un emigrante: mandò soldi ai familiari rimasti in paese.
Diversamente sarebbe difficile spiegare alcuni segnali di apparente prosperità
nella foto di Teresa con il marito ed il nipote: orecchini d’oro, catenina per
l’orologio, la foto stessa. Nei primi anni del XX sec., scrive Bevilacqua, “un
anno di lavoro poteva consentire a un emigrante che lavorava negli Stati Uniti di accumulare tra le 1000 e le 1.500 lire”. E ricorda che una delle grandi
novità introdotte nella vita delle campagne calabresi fu il denaro; l’arrivo costante di dollari americani, inviati dagli emigranti, ha portato rapidi cambiamenti: le condizioni di vita e di consumo delle famiglie furono sensibilmente
migliorate, altri viaggi cominciarono a essere pagati ad altri membri delle
famiglie (Bevilacqua, 2001: 110).
Michele (a destra) davanti alla sua bottega a Brooklyn, 1913
L’America del Nord fu la destinazione principale delle popolazioni meridionali, con una tendenza alle concentrazioni urbane, il che è un percepibile
segnale dell’abbandono della vita rurale. Ricorda la Corti che, abituati a vivere nei borghi rurali, quasi sempre sfruttati dai grandi proprietari terrieri, gli
immigrati meridionali preferivano il lavoro urbano temporaneo, fondato sulle
relazioni di parentela o amicizia (Corti, 1999: 8-9).
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RICERCHE/MATERIALI
Il lavoro dell’immigrato meridionale è basato principalmente sulla mano
d’opera familiare e deriva da una struttura parentale tradizionale, riprodotta
in America, che presenta come caratteristica la persistenza e la vitalità di piccole imprese familiari, poiché la famiglia meridionale è del tipo esteso e così
si conserva per molto tempo.
La famiglia contadina in Calabria formava un nucleo molto stabile
nell’impresa agricola, un nucleo fatto di aiuto e di mutua solidarietà. La famiglia era, “indubbiamente, la cellula fondamentale intorno a cui si aggregava l’esile intelaiatura collettiva della vita delle comunità nelle campagne”
(Bevilacqua, 1985: 298). La famiglia del sud dell’Italia è del tipo nucleare,
“ma questo non esclude il mantenimento e la riproduzione di una vasta rete di
relazioni di parentela”. Ha origine nella tradizione storica della società agricola il mantenimento di moduli di organizzazione familiare che si reggono
sulla famiglia estesa e sulla linearità maschile (Paci, 1982: 71, 79).
Recenti ricerche effettuate in alcune località rurali di emigrazione, anche
in provincia di Cosenza, descrivono le strette relazioni familiari–parentali, in
cui coesistono relazioni di discendenza e collateralità; da una parte c’è un sistema di regole, valori ed aiuti che legano i membri di una famiglia; dall’altra
c’è il sistema di scambio di favori che legano tra di loro vari gruppi familiari
(Piselli, 1981: 19). La Piselli si riferisce alla collateralità come “legami di parentela, reale o acquisita”, che uniscono “attraverso una fitta rete di norme e
relazioni sociali ed economiche”; legami tra “parenti collaterali appartenenti
alla stessa generazione, per molti gradi di parentela”. Le relazioni collaterali
hanno da sempre costituito una fitta rete di obblighi reciproci che assicurano
solidarietà e cooperazione, imprescindibili per la sopravivenza e per la riproduzione delle unità produttive; i legami matrimoniali e di comparatico hanno
contribuito alla creazione ed alla stabilità delle relazioni tra i diversi gruppi
familiari (Piselli, 1981: 30).
Michele ritorna per sposarsi in Calabria e, prima di rientrare a New York,
coglie l’occasione per organizzare e finanziare un prossimo viaggio dei fratelli Antonio, Pasquale e Luigi negli Stati Uniti. Ma, nonostante gli sforzi, i
fratelli non potranno arrivare nella città nordamericana. La legislazione restrittiva per l’immigrazione si perfezionava, con forme di selezione che privilegiavano la forza fisica. Nel 1882 si vieta l’ingresso dei poveri e agli inizi
del decennio successivo si richiede che l’immigrato abbia 100 dollari e che
prenda la cittadinanza americana.
Di sicuro i fratelli Santoro non avevano i requisiti richiesti; si è sempre
raccontato che trovarono chiuse le porte degli Stati Uniti. Ma era necessario
partire subito, perchè una grande siccità aveva messo in ginocchio le coltiva94
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RICERCHE/MATERIALI
zioni e non avrebbero avuto da mangiare l’inverno seguente. Il Brasile repubblicano aveva bisogno di immigrati e faceva pubblicità in Italia per cooptarli. Si diressero allora a Rio de Janeiro, dove già vivevano molti loro paesani.
Il giorno dopo la partenza, quando sarebbero suonate le campane, Teresa
non avrebbe più sentito i passi dei ragazzi, mentre indossavano qualcosa di
pesante per ripararsi dal freddo nella lunga camminata fino alla campagna.
Non avrebbe più preparato il cibo che mangiavano nella pausa del lavoro
rannicchiati all’ombra di qualche albero, quando il sole era a picco: pane nero, patate, una manciata di olive, un pezzo di formaggio. All’imbrunire avrebbe pianto di tristezza, preparando una minestra per i pochi rimasti; a tavola intorno alla frissura erano solo in tre; dove saranno ora quei tanti cucchiai che avidamente cercavano il cibo nell’unica ciotola, alla fine di una
giornata di duro lavoro? Era ormai quasi sola in quel paese appollaiato sulla
sommità della roccia – a timpa di Zaccani – che in basso s’immerge nelle acque del Tirreno. Acquappesa, provincia di Cosenza, Calabria, un luogo del
quale pochi hanno sentito parlare. A lei rimase il marito anziano e malato,
oltre che la piccola Rosa che probabilmente aveva accompagnato i fratelli
sulla strada di Cetraro, da dove s’imbarcarono per Napoli, la prima tappa di
un lungo viaggio. La bambina scendeva contenta con tutta la famiglia per la
contrada Sciabiche e camminava scalza in riva al mare. Lo stesso percorso
avrebbe fatto anni dopo, già vedova, emigrando per il Brasile in compagnia
della figlia, che avrebbe trovato il marito a Santos.
E il mar Tirreno continua, raggiunge il Mediterraneo, che si mescola con
l’Oceano ad occidente. E prosegue a sudovest, scendendo fino ad un’America
distante e nebulosa, dove si trovavano i figli di Teresa, a Brooklyn e a Rio de
Janeiro.
Tra i primi italiani che si stabilirono in questa città brasiliana, c’erano i
fratelli Farani, provenienti dall’Italia meridionale, che, nel 1843, erano già
proprietari di una famosa gioielleria. Dieci anni più tardi c’erano almeno 126
famiglie, la maggior parte provenienti dal sud Italia, che avrebbero fondato
una Società di Beneficenza. Tra gli associati, c’erano molti calabresi di Paola
e Fuscaldo, che pare abbiano iniziato ad emigrare per la chiamata di un cuoco
del seguito di donna Teresa Cristina di Borbone, che da Napoli andò sposa
all’imperatore del Brasile Dom Pedro II nel 1842 (Constantino, 2001: 45-7).
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RICERCHE/MATERIALI
Rosa con i figli Enrico e Teresa Carmela Zoccolo, nel giorno del matrimonio di
quest’ultima con Giulio de Tullio, ad Acquappesa, 1924.
Negli ultimi anni della monarchia, ovvero negli anni Settanta e Ottanta
dell’Ottocento, c’erano a Rio de Janeiro venditori ambulanti italiani che si
contendevano uno spazio nel centro della città, vendendo biglietti della lotteria, pesce, frutta e verdura. La ‘colonia italiana’ in città aveva avuto una lenta
e continua crescita tra il 1846 e il 1870, e crebbe velocemente negli anni seguenti (Franceschini, 1908: 647). Nel primo decennio repubblicano (18891899), con il rapido aumento dell’immigrazione, si diversificava la composizione della comunità italiana, per soddisfare le esigenze di una città che aveva bisogno di mano d’opera e servizi specializzati, in virtù dell’accelerata urbanizzazione e del conseguente slancio dell’edilizia e delle opere pubbliche.
Molte imprese edili approvarono i propri statuti in quel periodo e quattro di
esse, come ricorda Diegues, stabilirono come finalità statutaria l’utilizzo di
operai abilitati all’estero (Diegues, 1964:168).
Antonio Jannuzzi, per esempio, emigrò nel 1874 a Rio de Janeiro e si distinse nel campo delle costruzioni. Originario di Fuscaldo, non lontano da
Acquappesa, divenne un anello della catena migratoria iniziata verso la metà
del XIX sec. Molti altri calabresi ricevettero lettere di chiamata dall’impren96
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RICERCHE/MATERIALI
ditore, che continuò a mantenere i legami con il suo paese d’origine. Jannuzzi
costruì la sede della Società Italiana di Beneficenza, la più antica della città,
inaugurata nel 1907. Fu direttore di una importante Società di Ingegneria,
comproprietario della seconda banca italiana fondata in Brasile, intorno al
1890, denominata Banco Italo–Brasileiro (Trento, 1988: 147). Jannuzzi fu
nella capitale brasiliana un genuino zio d’America, capace di stimolare la
lunga catena migratoria di calabresi originari di Fuscaldo, che continuarono
ad arrivare a Rio de Janeiro fino agli inizi del XX sec..
I fratelli Santoro formarono altri anelli di questa catena. Nati nelle vicinanze di Fuscaldo, arrivarono a Rio de Janeiro nel periodo in cui si registrava
il picco dell’emigrazione italiana. La tradizione familiare riporta che, per
qualche tempo, furono dei venditori ambulanti. Ma presto Pasquale e Luigi
abbandonarono la città, quando Antonio morì durante una epidemia di febbre
gialla, antico pericolo per gli europei a Rio de Janeiro, il cui clima non a torto
era considerato insalubre.
Una città perfida si presentò al giovane medico Paolo Mantegazza, che
sarebbe diventato un celebre igienista italiano, e che descrisse Rio come città
ammorbata. Davanti al vaporetto con bandiera nera che raccoglieva i cadaveri
infetti nelle imbarcazioni ormeggiate nella Baia di Guanabara e davanti alle
innumerevoli imbarcazioni con bandiere a mezz’asta, decise di ritornare immediatamente in Europa, anche a costo di salire a bordo di una nave inglese
che portava con sé una trentina di persone malate (Mantegazza, 1870:
507-9)
Città perfida si rivelò la capitale brasiliana ai giovani calabresi appena arrivati, dopo la lunga traversata dell’Oceano. Lo sguardo di Teresa si sarebbe
soffermato per molto tempo sul mare se solo avesse potuto accompagnare il
tragitto dei figli più piccoli, che continuarono ancora il lungo viaggio, fuggendo dalla malattia. Questo sguardo materno sarebbe dovuto arrivare fino al
Rio Grande do Sul, dove la febbre gialla non arrivava. Teresa certamente non
sapeva nulla di quest’altra America così distante, Porto Alegre, dove però già
vivevano almeno altri due compaesani amici, giovani delle famiglie Crivella
e Guaglianone. Teresa non avrebbe più visto i suoi figli. Antonio si trasformò
in un ricordo doloroso, una fotografia listata a lutto e un lumino acceso.
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RICERCHE/MATERIALI
Luigi e Pasquale, figli di Teresa, a Porto Alegre, con i figli Antonio e Homero, nati nella città brasiliana (1950 ca.)
La vita continuò e gli sguardi delle donne di casa certamente arrivavano
fino all’isola di Stromboli, sulla linea dell’orizzonte, solo un punto nero nei
giorni senza foschia. Era triste lo sguardo di Teresa fisso sullo Scoglio della
Regina, la roccia che spunta dal mare nei pressi della Marina di Acquappesa.
Deve aver sempre sentito raccontare la storia di una coppia di giovani
principi che non riusciva ad avere dei figli. L’imbarcazione con la quale i
principi viaggiavano naufragò ed essi trovarono rifugio sullo scoglio, dove
c’era una fonte alla quale poterono abbeverarsi. L’acqua era curativa, sgorgava limpida dalla roccia e portò fertilità a quei principi che poi diventarono
sovrani.
Dunque, Teresa è riuscita a partorire e allevare quei figli forti e laboriosi:
giovanottoni dai capelli ricci e dagli occhi nerissimi, nati con le doglie della
luna calante, allevati con il suo latte e il suo lavoro. ‘Angeli’ aveva avuto
senza nemmeno sentire il loro pianto, altri li aveva cullati, cibati e poi pianti.
Poveretti! I figli che le erano rimasti erano poi partiti; mille volte aveva assistito quei ragazzi, piegata dalla stanchezza, quando piangevano nelle notti
fredde, sul materasso di foglie di mais, cucito con le proprie mani. Gli benediva il corpo con la croce, ripetendo tre volte: “Il dolore passerà perché Cristo
è onnipotente”.
Quattro figli erano molto di più di quanto la scarsa e arida terra poteva
nutrire. Dovevano sposarsi e a loro volta avere dei figli e pertanto dovevano
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RICERCHE/MATERIALI
partire. Li ha perduti quando attraversarono il mare, quando incrociarono
l’immenso Oceano. Le è rimasta solo la piccola Rosa.
La madre che non sa leggere ascolta quando il prete decifra quelle lettere
che raccontano del lavoro, della nostalgia, del matrimonio, della vita, delle
malattie e della morte in paesi lontani. Nelle lettere inviate al parroco gli emigrati lamentavano la casa che avevano lasciato, il paese d’origine; ma sopratutto lamentavano la nostalgia dei parenti, degli amici, perfino dei vicini
di casa (Colangelo, 1982: 219-20)
Su richiesta di Teresa il prete dice quello che deve essere detto ai ragazzi
in America, scrivendo lettere che viaggiano nelle navi a vapore. Per il figlio
morto certamente prega sull’altare della Vergine del Rifugio, con il mantello
rosso e la corona dorata e il Bambino Gesù in braccio. Prega prima che cominci la messa, subito dopo che il marito ha suonato le campane nella torre
dedicata a Santa Maria, che tutti accoglie. Se non può dare accoglienza ai figli di Teresa nella terra dove sono nati, per lo meno veglierà su di loro in terre americane. Potrà anche prendersi cura degli altri in cielo, tutti battezzati e
liberi dal peccato.
Il paese sta diventando sempre più vuoto, sono tanti i ragazzi che partono
mentre Teresa lavora e prega. Quel paese tagliato dal labirinto dei vicoli è
molto più che un agglomerato di vecchie case e una chiesa. È un luogo di
luoghi vuoti e tristi per quelli che vi rimasero, come lei, che ricorda i figli in
ogni angolo del caseggiato, delle strade, nei gradini, nelle piccole baie, per
tutta la spiaggia dalla Marina a Intavolata.
Per quelli che partirono per l’America, Acquappesa è rimasta congelata. Il
paese è rimasto uguale nel racconto di quelli che se ne andarono; è diventato
luogo di memorie, pieno di significato per i tre giovani che sono diventati
vecchi. Un povero e bel luogo sul mar Tirreno.
Il 15 ottobre Teresa sarebbe andata ancora una volta a Intavolata, per accompagnare la processione della sua patrona, Santa Teresa d’Avila. Ne avrebbe approfittato per inginocchiarsi in chiesa pregando insieme San Giuseppe e la Madonna di Pompei, un’immagine tratta in salvo da un naufragio
perché ingoiata da un pesce che, miracolosamente, l’aveva riportata sulla
spiaggia, dove fu costruita molto tempo prima quella torre.
Per la festa dei morti avrebbe visitato le tombe dei cari che avevano lasciato questa vita, nel cimitero di Guardia Piemontese. Perché i suoi antenati
probabilmente erano originari di quella zona. Era anche lì che qualche volta
trovava lavoro in estate, lavando i panni o i pavimenti dove passavano i malati che venivano a curarsi nelle famose acque termali. Il lavoro è venuto a
mancare quando la grande alluvione ha distrutto tutto e le fonti d’acque mira99
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colose furono sotterrate dal fango (De Seta, 1904). Era allora molto giovane,
con i figli piccoli da allattare. Crebbero presto ed erano già lontano quando
un’altra catastrofe si abbatté sulla regione: il terremoto del 1905, con le sue
innumerevoli vittime.
Scendendo a Guardia avrebbe potuto parlare nuovamente il suo dialetto.
Tanto tempo era passato e portava ancora nell’abbigliamento e nel modo di
parlare piccoli segnali che identificavano una lontana origine occitana, anche
se da secoli la sua gente aveva abbandonato la condannata fede. Con i suoi
parenti parlava la lingua d’oc, ereditata da quegli eretici francesi che attraversarono le Alpi, fuggendo dalle persecuzioni e dai roghi, cercando rifugio nella costa tirrenica, attratti dalla protezione dei signori della Casa d’Angiò, nel
XIV sec..
A Guardia i Valdesi vissero per circa due secoli, fino a quando il re di
Spagna divenne re di Napoli e con l’aiuto dei domenicani promosse una dura
repressione, confinandoli in un ghetto nel quale le case potevano essere spiate
da fuori attraverso degli orifizi aperti appositamente. Più tardi ci fu una grande mattanza degli abitanti del ghetto, per ordine del cardinal Ghislieri.
Teresa probabilmente discendeva dai pochi sopravissuti al massacro che
avvenne alla vecchia Porta del Sangue, altro luogo di memorie, simbolo di
ingiustizia e di identità. I limiti del suo mondo erano da un lato Guardia Piemontese e dall’altro Cetraro, dove molte volte passeggiò all’ombra dei cedri.
Avrebbe potuto conoscere Paola, un pò più in là, dove ha vissuto e ha fatto
prodigi San Francesco, nella cui cappella furono conservate tante reliquie miracolose; magari vi avrebbe potuto fare un pellegrinaggio per grazia ricevuta,
collocando nell’immenso santuario una fotografia dei suoi figli che erano riusciti ad arrivare in America, dove lavoravano e davano da mangiare ai propri
figli. Ma andare a Paola, in quel tempo e nelle sue condizioni, era difficile.
In quel luogo dove viveva erano tutti molto poveri. Teresa e Domenico
erano tra i più poveri del paese; i figli di Teresa dovevano uscire presto la
mattina per i campi di mais, avena ed orzo; avevano fatto pratica dal mastru
scarparu, sapevano riparare le scarpe, ma per loro non c’era lavoro o speranza, come c’era per i figli di Zottolo, che costruivano barche. A volte mancava
il cibo e perfino il pesce scarseggiava. E allora Teresa spesso camminava per
la campagna, raccogliendo erbe da bollire e da mangiare con il pane scuro,
pane di farina di castagne. Tutti indigenti come quei pescatori che vivevano
ad Intavolata, mangiando pesce fresco, o salando il pesce da vendere (Bua,
2003; De Pasquale, 1977). Per questo da sempre i Cosentini partirono e,
nell’ultimo quarto del XIX sec., praticamente svuotarono quelle piccole località della provincia, ormai libere dalla minaccia dei corsari.
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RICERCHE/MATERIALI
Il paese non doveva più rinserrarsi in cima alla montagna, da dove per secoli si annunciava l’arrivo di una imbarcazione. Da lì si manteneva la guardia
per evitare l’assedio impietoso dei corsari che venivano dall’Algeria e dalla
Tunisia. Dall’alto delle terrazze e delle torri si succedevano i segnali che avvertivano degli attacchi, frequentemente notturni. L’antica paura era ora dimenticata, dal mare non arrivava più la minaccia di saccheggi, di rapimenti di
donne e bambini; l’ultima razzia era avvenuta agli inizi del XIX sec.. La lunga epoca di insicurezza e di timore era finita e la gente cominciava a scendere
verso il mare, si stabiliva nella marina dove presto si cominciò a percepire la
presenza di forestieri, ai quali i medici avevano raccomandato un cambiamento d’aria, bagni di mare, trattamenti con acque termali. Dalla metà del
secolo, Acquappesa era riconosciuta come luogo di villeggiatura, uno stabilimento balneare di prestigio.
Il mare non rappresentava più la minaccia dei pirati, ma passava a rappresentare la minaccia della separazione. L’antico paese si riduce in rovine, poche case hanno ancora vita attorno alla chiesa della Madonna del Rifugio, che
mano a mano veniva costruita mentre nascevano i figli di Teresa, in sostituzione della piccola e modesta cappella. Tanti andarono via, alcuni alla Marina, ma la maggior parte dall’altro lato dell’Oceano, abbandonando il vecchio
Casale.
Il luogo diveniva vuoto, ma carico di significati. Si trasformò in un deserto quando partirono i nipoti di Teresa. Poche fotografie attraversarono
l’Oceano, come misere briciole di affetti familiari. Le tracce di Teresa scompaiono nel caseggiato insieme alla sua tragedia, che è la stessa di tante donne
in tutti i tempi di emigrazione.
Traduzione dal portoghese di Dulce Maria Barbosa Leite,
che l’autrice ringrazia,
unitamente ad Assunta Orlando, di Acquappesa,
per la gentile collaborazione offerta.
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RICERCHE/MATERIALI
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103
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RICERCHE/MATERIALI
a fuoco le difficoltà pratiche riscontrate nella fase di attuazione dei vari progetti, seppe individuare con puntualità l’oggetto e la localizzazione delle attività, dimostrò la necessità di innovare tecnologicamente il settore tessile e
soprattutto diede vita ad un’iniziativa degna d’essere imitata; tutto ciò rese
l’iniziativa una “frazione privilegiata del processo di sviluppo” 107.
107
HIRSCHMAN, I progetti di sviluppo, cit., p. 13.
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LAVORI IN CORSO
GEMMA MALTESE
RAPPRESENTAZIONE DELL’UMANO E DEL NON UMANO
NELL’ERA DELLA TECNICA
Si definisce spesso la modernità mediante l’umanesimo, sia per salutare la nascita dell’uomo, sia per annunciarne la morte. Ma perfino questo atteggiamento è moderno, in quanto permane asimmetrico, trascurando la nascita congiunta della «non umanità», quella delle cose, degli oggetti o degli animali, e quella non meno strana di un Dio barrato, cancellato, fuori gioco. La modernità
sorge dalla creazione congiunta di questi tre elementi, quindi dall’occultamento di questa triplice nascita e dal trattamento separato delle tre comunità,
mentre al di sopra, continuano a moltiplicarsi gli ibridi, proprio a causa di
questo trattamento separato. É questa duplice separazione che dobbiamo ricostruire, da un lato tra l’alto e il basso, dall’altro tra gli umani e i non umani
(Latour, 1991, p. 25).
Riflettere oggi sul concetto di umano e cogliere il confine – tracciato nella
cultura occidentale dal metodo scientifico moderno – tra la comunità umana
e la comunità del non umano è quanto mai complesso. Cogliere e (decostruire e poi) ricostruire la separazione tra gli umani e i non umani, attualmente, significa addentrarsi all’interno della vita quotidiana, nei tempi
1
più familiari degli individui, e scandagliare ciò che questi danno per scontato: il rapporto continuo con il non umano, il loro essere totalmente e continuamente inseriti all’interno di un’ecologia materiale fatta di cose che mette
1
Secondo la definizione di Peter e Brigitte Berger la vita quotidiana è «il tessuto di
abitudini familiari all’interno delle quali noi agiamo e alle quali noi pensiamo per la
maggior parte del nostro tempo. Questo settore dell’esperienza è per noi il più reale: è
il nostro habitat usuale e ordinario». P. L. BERGER e T. LUCKMANN, La realtà come
costruzione sociale, trad. it. Bologna, il Mulino, 1969.
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LAVORI IN CORSO
2
in ombra l’umano che sta dietro l’artificiale . Il non umano – inteso qui in
quanto comunità entro cui si collocano (anche) beni e prodotti tecnico–
scientifici –, travolto dal totalizzante processo d’intellettualizzazione della
realtà, ha incorporato in sé un sapere che all’uomo profano non è visibile.
L’uomo convive e vive in una realtà a lui incomprensibile, se non attraverso i
discorsi che su di essa, dalle differenti voci che emergono nell’attuale villaggio globale, vengono prodotti.
In tale ecologia, da dove viene l’essere umano che interpreta oggi il non
umano differente da sé, e che, al contrario, riconosce nei sui simili l’essenza
della sua natura?
L’uomo dell’età della tecnica discende culturalmente dall’essere mortale
per cui Prometeo ha rubato il fuoco e a cui ne ha fatto dono, rendendolo co3
struttore, attraverso la tecnica, del suo destino . In questo senso, l’umano è
figlio della tecnica quanto della natura. Arnold Gehlen, in L’uomo nell’era
della tecnica (1957), propone l’umano in quanto comunità, genere, specie
biologicamente tecnica. L’uomo mancando di organi e istinti specializzati si
costituisce attraverso un’essenza tecnica: egli «(...) non è conformato per un
ambiente naturale, e di conseguenza non ha altra risorsa che trasformare con
4
la sua intelligenza qualsivoglia stato di cose da lui incontrato nella natura» .
Questa non–specializzazione si riferisce alle prestazioni organiche ed istintive dell’uomo. Dalla prospettiva di Gehlen, quindi, la tecnica è
nell’essenza stessa dell’essere umano: egli fa della realtà strumento e, a partire da questa relazione, l’uomo e la natura possono essere rappresentati in
quanto reciprocamente estranei. L’uomo dell’età della tecnica, in particolare,
può essere definito innaturale, poiché la sua condizione, il suo essere umano,
è dettata, culturalmente e materialmente, dall’artificiale che secolarmente egli stesso ha costruito.
Il concetto di umano in quanto comunità al di sopra di Dio e del non u5
mano è una rappresentazione moderna . Dall’Umanesimo all’Illuminismo si
gettarono le fondamenta per la costruzione di un nuovo mondo edificato dalla
2
Cfr. J. BAUDRILLARD, Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 1968; e J.
BAUDRILLARD, La società dei consumi, tr. it. a cura di Gozzi G., Stefani P., il Mulino,
Bologna, 1976.
3
Cfr. U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 2004.
4
A. GEHLEN, L’uomo nell’era della tecnica, Sguarco, Milano, 1984, p. 11.
5
Cfr. B. LATOUR, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica,
Eleuthera, Milano, 1995.
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LAVORI IN CORSO
razionalità soggettiva degli uomini; fatto di cose, di strutture e di discorsi
prodotti dagli uomini: l’umano è creatore consapevole del nuovo mondo moderno. Dalla nascita congiunta dell’umano e del non umano, barrando progressivamente dio dalla terra, l’uomo ha inaugurato, attraverso questa consapevolezza, una nuova epoca: l’epoca in cui egli dà forma alla sua seconda
natura, alla sua essenza tecnica.
A te, Adamo, non ho assegnato un posto determinato, né un aspetto e neanche
una dote particolare, e ciò affinché sia tu stesso a volere, a conquistare e a
possedere da solo il tuo posto, il tuo aspetto e le tue doti. La natura contempla
altre specie entro le leggi da me stabilite. Ma tu che non hai alcun confine
come limite definirai te stesso secondo il tuo arbitrio, nelle cui mani io ti ho
posto. (…) Non ti ho creato né celeste, né terrestre, né mortale né immortale,
affinché, sovrano di te stesso tu possa completare liberamente la tua forma,
come un pittore o uno scultore. Potrai degenerare in forme inferiori, come
quelle bestiali, oppure, rigenerato, potrai raggiungere le forme superiori e divine (Pico della Mirandola, 1486, p. 41).
Pico della Mirandola, in Discorso sulla dignità dell’uomo (1486), riscrive
il libro della Genesi proponendo, attraverso le parole del creatore, l’assoluta
e totale indeterminazione dell’uomo. In modo opposto a tutte le altre creature, l’uomo, nel pensiero di Pico, non ha una natura che deve necessariamente
seguire: egli ha, piuttosto, la libertà di auto–determinarsi, di fare di sé (e da
sé) ciò che vuole, fino a degenerare in forme inferiori o fino a raggiungere
forme superiori, divine, facendo dell’intero creato uno strumento di autodeterminazione.
Questo Discorso anticipa il pensiero moderno: la dignità dell’uomo non
dipende più da una posizione prefissata nell’ordine creato, ma dal suo agire
nel tempo, dalla sua capacità di superarsi continuamente e di vincere progressivamente contro ogni forza nemica che si contrappone alla realizzazione di
ciò che egli considera una vita degna e felice.
La Genesi dell’umano tracciata da Pico porta con sé il paradosso della
modernità, pur essendo calata in una epoca in cui dio rappresentava ancora il
creatore e l’uomo la creatura. Per trovare affermazione la dignità umana, per
raggiungere la libertà rispetto alle autorità, agli irrazionalismo e alla tradizione, l’uomo di Pico deve svincolarsi da ogni “natura”, deve costituirsi in quanto “terra di nessuno”: l’umano non si distingue come forma né dalle bestie né
dagli dei, se libero può assumerne entrambe le forme. In questo senso, ciò
che lo caratterizza è l’arbitrio, la contingenza – e per svincolarsi da
quest’ultima – la possibilità di essere e di fare sempre altrimenti. Il parados107
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LAVORI IN CORSO
so della modernità, a partire dall’Umanesino, per secoli, rimane adombrato
poiché tali caratteristiche legate all’indeterminatezza e alla natura tecnica
dell’uomo vengono assorbite dalla nuova fede illuminista e positivista nella
conoscenza razionale, e vengono proiettate nel potere e nel controllo tecnico
del mondo esterno, affermatosi in quanto progresso infinito.
Tuttavia, le alternative, le diverse forme assumibili dall’umano si sono
tradotte in un’unica alternativa, che però promette di perpetuarsi all’infinito:
il miglioramento e il potenziamento delle condizioni di vita dei singoli e dei
popoli, raggiungibile esclusivamente grazie alla continua innovazione tecnologica. Ebbene, il paradosso moderno risiede esattamente in questo: l’idea
moderna di umano, simboleggiata qui dal pensiero di Pico, esprime la irrefrenabile spinta al superamento di ogni limite e confine e al perfezionamento
continuo. Questa illusione produce l’artificializzazione, la proceduralizzazione della vita umana, la trasformazione dello stesso organismo umano in una
macchina, e ciò riduce lo spazio dell’arbitrio, del non programmato, della
libertà. L’uomo moderno che programma e preordina il proprio futuro lo fa
progettando sé stesso, e dunque rifacendo dell’uomo un essere dal destino
biologico e culturalmente predeterminato, pur trattandosi di un destino di
“potenziamento”. Così, se l’essenza umana è l’autodeterminazione, l’uomo
programmato attraverso la tecnica perde ciò che è proprio dell’umano.
Nel riflettere su tali processi, la prospettiva che vorrei suggerire induce a
considerare la condizione dell’umano nell’età della tecnica come effetto dovuto all’incompiuto tentativo moderno di separazione tra l’umano e il non
umano, e, da ciò, alla profusione del non umano. In un ecologia fatta di cose,
in cui entra fortemente in crisi il rapporto soggetto–oggetto, la non umanità si
dota di oggettività fino a costituirsi in quanto “quasi–soggetto”, in quanto
soggettività ibrida (cfr. Latour, 1991). A partire da tale prospettiva, l’umano,
nella storia che narra la costruzione moderna di questa ecologia artificiale, si
è indirizzato verso uno stadio di ricongiungimento alla sua (seconda) natura
tecnica. Esso si confonde con il non umano, e questa confusione viene letta
qui in quanto ricongiungimento – nell’impossibilità a tenere separati le due
comunità – dell’umano alla sua essenza tecnica, strumentale. Il mondo da
questa edificato è frutto della predisposizione umana all’agire, ed è oltremodo simbolo della natura tecnica dell’uomo. «Il mondo della tecnica per così
dire è il “grande uomo”: geniale e ricco d’astuzia promotore ed insieme distruttore della vita come l’uomo stesso, come lui in rapporto poliedrico con
6
la natura vergine. Anche la tecnica è, come l’uomo, nature artificielle» .
6
A. GEHLEN, L’uomo nell’era della tecnica, Sguarco, Milano, 1984, p. 13.
108
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Mutuando il pensiero di Gehelen, l’uomo ha ed è una seconda natura,
con leggi e caratteristiche proprie. In prima istanza, l’uomo è mosso
all’azione: la sua incompiutezza e la sua non–specializzazione, il suo dover
necessariamente prendere posizione, l’urgenza di dover compiere un’interna
autointuizione, l’impossibilità di vivere in un suo ambiente caratteristico, se
non costruendo “protezioni” tra esso e la natura, fanno si che l’uomo si contraddistingua per il suo essere in azione. Inoltre, poiché egli è aperto al mondo, è costretto ad esonerarsi dalle incombenze che la natura di volta in volta
gli presenta, ed infine, essendo costantemente soggetto al rischio, è anche
obbligato ad antivedere ed a provvedere.
Così, l’uomo incontra il mondo e lo percorre attraverso un’attività motoria plastica: un’attività di manipolazione. Oggi questa attività non è più determinata immediatamente da bisogni biologici. La manipolazione della realtà, nell’età della tecnica, è il processo attraverso cui la stessa realtà viene riprodotta. Ciò che l’uomo riproduce – al di la di ciò che materialmente produce – è la cultura. L’uomo trasforma la natura in cultura, e l’azione a cui è
mosso è volta a strumentalizzare la realtà al fine di far prevalere la sua seconda natura sulla limitatezza biologica che lo caratterizza. «L’insieme della
natura da lui trasformata con il proprio lavoro in tutto ciò che riesca utile
alla sua vita dicesi cultura, è il mondo della cultura è il mondo umano (...)
La cultura è pertanto la sua “seconda natura” – vale a dire: la natura umana, dall’uomo elaborata autonomamente, entro la quale egli solo può vivere;
e la cultura “innaturale” è il prodotto di un essere unico al mondo, lui stesso
7
“innaturale”, costruito cioè in contrapposizione all’animale» .
Pertanto, se l’uomo ha ed è una natura tecnica, e se la tecnica è di per sé
un elemento essenziale della sua “natura”, ovvero l’elemento più precipuo
alla seconda natura dell’uomo, e se, infine, la tecnica è la “natura
dell’uomo”, quali problemi può sollevare l’uomo nell’età della tecnica?
Tale questione, posta in questi termini, deve essere connessa agli orientamenti temporali sociali degli individui e alle trasformazioni che questi subiscono nelle differenti fasi della modernità. In effetti, la natura tecnica
dell’uomo presuppone che la costruzione della forma dell’uomo avvenga in
progresso, in una dimensione futura. Il futuro, in quanto rappresentazione
sociale temporale del divenire, e in quanto dimensione entro cui l’uomo può
7
Ivi, p. 64.
109
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8
progettare di agire è un elemento tipicamente moderno . Gli orientamenti
temporali sociali nel corso della modernità, nel cambiamento accelerato e
continuo che essa porta con sé, subiscono permanentemente piccoli mutamenti: il presente, il passato, il futuro e il modo di connettere tra loro tali dimensioni, dall’epoca moderna in poi, mutano al ritmo scandito dal tempo
9
dell’innovazione tecnologica .
Così, se la modernità, rispetto all’epoche passate, è percezione e consapevolezza da parte degli individui del cambiamento continuo entro cui le loro
vite sono immerse, è in tale epoca che il concetto di avvenire può essere concepito, connesso e distinto dal presente e dal passato: il futuro è nelle mani
dell’uomo; esso, al di là del passato che ha alle spalle e al di là della condizione presente, si costruisce attraverso il progettare, il prevedere. Dal superamento di una visione del tempo lineare, ciclica, in cui il passato e il futuro
si perdevano nel mito, nella leggenda, nel sacro, e il presente non consentiva
di fare progetti a lungo termine, nel mondo moderno l’uomo è in quanto essere collocato e costruttore del tempo storico, e in quanto essere potenzialmente
in grado di compiere nel futuro ogni azione. É in virtù di un dominio totale
dell’umano sul non umano, sulla natura, su dio che il tempo futuro assume il
significato che i moderni ad esso attribuiscono: in questo dominio la parola
d’ordine impressa sulla cultura occidentale è produttività, sempre maggiore
produttività, da raggiungere attraverso l’efficienza, la calcolabilità, la razionalizzazione e la programmazione del tempo.
L’idea del tempo come lineare, nella fase di modernità industriale, viene
liberata da ogni concezione legata a motivi religiosi, e assume come proprio
presupposto la linearità temporale del progresso. In questa sostituzione, il
futuro aperto solo se in termini di trascendenza, caratterizzante la concezione
dell’avvenire umano nelle epoche passate, diviene futuro aperto nella realtà
storico–sociale entro cui gli individui agiscono.
10
In questa laicizzazione del tempo lineare , il futuro aperto, in una realtà
progettabile dall’uomo, lascia il soggetto vulnerabile al rischio di un futuro
completamente nelle mani delle possibilità tecniche dell’uomo. Così, dopo
secoli di dominio dell’idea di futuro impressa dall’utopia del progresso, in8
Cfr. C. LECCARDI, Sull’interpretazione del futuro, Working paper di sociologia e
scienza politica, Università degli Studi di Messina, Università degli studi della Calabria, 1997.
9
Cfr. N. ELIAS, Saggio sul tempo, il Mulino, Bologna, 1986.
10
Cfr. C. LECCARDI, Sull’interpretazione del futuro, Working paper di sociologia e
scienza politica, Università degli Studi di Messina, Università degli studi della Calabria, 1997.
110
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sieme alla percezione di un futuro sempre migliore del presente, nelle fasi di
modernità più tarda, si percepisce come mai prima la rischiosità insita nel
progettare il tempo e, in particolare, nel programmare l’avvenire esclusivamente sulla base della razionalità strumentale dell’uomo. In modo più evidente, a partire dal secondo dopoguerra, la linearità del tempo, l’idea di un
futuro sinonimo di progresso entrano inesorabilmente in crisi: l’uomo dell’età
della tecnica riemerge dalla macerie della guerra con la sensazione che il suo
farsi agente tecnico ha innescato processi di mutamento e dinamiche di potere per cui il futuro, così come può essere progettato e volto al miglioramento
del genere umano, può anche essere pianificato secondo una logica di distruzione totale.
In questo senso, la deterrenza, la sfiducia nell’utopia del progresso, e la
minaccia continua di un’immanente e imminente catastrofe nucleare, ecologica, economica rappresentano l’immaginario collettivo entro cui fermenta la
crisi del concetto di avvenire della modernità più matura, e dunque la crisi
dell’uomo–tecnica, il quale può farsi umano solo se può immaginare, pianificare il suo futuro.
All’interno di tale crisi – per cui l’idea di avvenire aperto e lineare
11
dell’epoca moderna cede il passo ad un futuro apertamente temuto –
l’umano, immerso completamente in un’ecologia materiale e fittizia, in cui
paradossalmente sono gli oggetti a rappresentare e ad incorporare il sapere,
progressivamente va perdendo i tratti della propria umanità. L’umano è messo in ombra dal fatto che il futuro, dimensione entro cui la sua natura tecnica
può realizzarsi, non può essere più interpretato come sinonimo di miglioramento. Piuttosto l’avvenire è sinonimo di rischio: «essere moderni vuol dire
trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita,
trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo. Gli ambienti e le esperienze moderne superano tutti i confini etnici e geografici, di classe e di nazionalità, di religione e di ideologia. in tal senso si
può davvero affermare che la modernità accomuna tutto il genere umano. Si
tratta, comunque, di un'unità paradossale, di un'unità della separatezza, che
ci catapulta in un vortice di disgregazione e rinnovamento perpetui, di con12
flitto e contraddizione, d'angoscia e ambiguità» .
11 Ivi, p. 10.
12 M. BERMAN, L'esperienza della modernità, Bologna, il Mulino, 1985, p. 25.
111
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In questa sensibilità, in questo tipo di esperienze ambigue e conflittuali
caratterizzanti la vita quotidiana degli individui nel mondo della modernità,
che cosa distingue l’umano dal non umano?
Davide Sparti, nella sua riflessione su L’importanza di essere umani, pone tale dubbio al fine di far luce sulle ambiguità che attualmente attraversano
in modo totale gli individui, fino alle radici bio–antropologiche della persona
umano: «come posso avere la piena certezza di avere a che fare con un’altra
persona, invece che con – poniamo – un robot?», o in altri termini, «disponiamo di una risposta diretta alla domanda: “Esiste un dato di fatto che ci
13
dice se un individuo particolare, al tempo t, è o non è un essere umano?”» .
La questione formulata da Sparti inerisce all’umano in quanto persona, e
non all’umano in termini di soggetto appartenente biologicamente alla specie
homo sapiens. Ciò che egli vuole cogliere ne L’importanza di essere umani
sono particolari attribuiti della persona umana. Così, Sparti, riprendendo
l’analisi di Daniel Denett, tenta di comprendere «cosa differenzia la classe
delle persone da altre classi per certi versi confinanti, o quantomeno affini:
istituzioni, macchine intelligenti, primati, animali domestici, embrioni, neonati, portatori di handicap, individui senili o in stato di coma (…)», e se «esiste un minimo vitale bio–antropologico cui potersi appellare per sancire la
personhood di un individuo».
La prima condizione è la presupposizione normativa di razionalità: non posso
neppure iniziare a descrivere un individuo come persona se non la considero
un soggetto razionale, che crede in ciò che crede, desidera cose desiderabili e
agisce secondo intenzione. La seconda condizione è l’ascrivibilità di predicati
intenzionali. I predicati riferiti alle persone appartengono a famiglie olistiche
collegate fra loro in nessi concettuali: non posso predicare “pensa” a una creatura di cui non posso predicare anche “crede”, “vuole”, “ama” ecc. (…) La
terza condizione per attribuire personalità a qualcuno è il considerarlo una
persona. L’assumere certi atteggiamenti e il trattarlo in certi modi sarebbe
cioè costitutivo del suo essere persona. Queste tre prime condizioni sono (…)
tra loro interconnesse.
La persona umana è un soggetto razionale, in quanto crede, desidera e agisce coerentemente alla sua ragione. L’uomo non è solo in quanto pensa, ma
è in quanto, in connessione al suo pensiero, crede, vuole e ama: la persona
umana è poiché capace di empatia e di pensiero. L’uomo, inoltre, si costrui13
D. SPARTI, L’importanza di essere umani. Etica del riconoscimento, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 119.
112
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sce come persona solo attraverso il riconoscimento esplicito e implicito da
parte degli altri. Tali condizioni sono in stretta relazione tra loro e devono
essere connesse alla capacità dell’individuo di riprodurre gli atteggiamenti
che gli altri assumono nei suoi confronti e l’insieme delle capacità comunicative, interpretative e di attribuzioni di significato rispetto alla realtà di cui solo l’essere umano è capace.
La quarta condizione è che l’individuo deve essere in grado di contraccambiare l’atteggiamento assunto nei suoi confronti. La quinta condizione è la
capacità di comunicazione verbale. La sesta e ultima è che la persona si distingue per un modo particolare di essere cosciente (…). Ciò significa due cose: da una parte, che deve sempre poter riferire cosa sta facendo per poter partecipare in modo privilegiato a qual gioco di domande e risposte che è il fornire ragioni sui motivi dell’agire. Dall’altra parte, significa che l’individuo attribuisce non solo credenze, desideri e intenzioni ma anche credenze, desideri
e intenzioni riguardo a credenze, desideri e intenzioni (Sparti, 2003, p. 121).
L’uomo è tale poiché attribuisce significato alla realtà che lo circonda attraverso interpretazioni e rappresentazioni. Ciò significa che comprendere
come l’umano sia mutato, in particolare nel suo rapporto con il non umano,
nel corso del tempo, significa tentare di cogliere come le rappresentazioni
dell’umano si siano trasformate in relazione alle differenti condizioni e ai diversi
linguaggi attraverso cui gli uomini, interpretando, costruiscono la realtà.
L’uomo (…) non ha mai abitato il mondo, ma sempre e solo l’interpretazione
che le varie epoche hanno dato al mondo. Quando nel mondo antico il mondo
era descritto dal mito, quando nel Medioevo era descritto dalla religione,
quando nell’età moderna era descritto dalla scienza e oggi dalla tecnica, gli
uomini non hanno mai abitato il mondo, ma la sua interpretazione prima mitica, poi religiosa, quindi scientifica e ora tecnica. (…) Dagli antichi a noi, ad
esempio, la natura ha sempre ribadito il suo ciclo, ma la sua interpretazione
l’ha inserita in scenari a tal punto diversi da farla apparire come qualcosa di
completamente diverso. Una cosa infatti è pensare alla natura come
quell’ordine immutabile posto a misura di tutte le cose, altra cosa è pensarla
come creatura di Dio posta al servizio dell’uomo, altra ancora è pensarla come fondo disponibile di risorse all’interno di quella progettualità tecnica che
include anche l’uomo tra i materiali disponibili (Galimberti, 1999, pp. 353-54).
L’uomo dall’essenza tecnica interpreta la realtà come uno strumento, in
tal senso egli non ha tempo: il suo essere umano lo induce ad interpretare il
tempo come divenire, entro cui gli accadimenti e la realtà futura possono es113
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sere determinati essenzialmente attraverso l’azione e la programmazione. Così, se si considera «l’insufficiente dotazione dell’uomo, (…) sarà facile avvedersi che egli deve riconoscere per essere attivo e deve essere attivo per poter vivere l’indomani. Questa semplice formula si complica alquanto
all’inevitabile osservazione che già questo stesso riconoscere è assai condizionato: nel caos del profluvio di stimoli non c’è dapprima proprio nulla da
riconoscere, e solo il gradualissimo padroneggiamento di tale caos per mezzo di movimenti di maneggio e sperimentali fa nascere i compendiosi simboli,
con i quali può avviarsi ciò che può chiamarsi conoscenza (...). L’uomo che
“già la fame futura rende affamato” (Hobbes, De homine, X, 3), “non ha
tempo”: se non predispone il ‘domani’, questo domani non conterrà nulla di
14
cui egli possa vivere» .
Così, nel tempo della tecnica, l’orizzonte entro cui collocare l’uomotecnica senza tempo, non è più la natura, «nella sua stabilità e inviolabilità»,
né la storia, «che abbiamo vissuto e narrato come progressivo dominio
dell’uomo sulla natura», ma la tecnica, «che dischiude uno spazio interpretativo che si è definitivamente congedato sia dall’orizzonte della natura che da
15
quello della storia» .
Nell’era della tecnica gli individui vivono al ritmo scandito dal tempo che
16
invecchia : l’orizzonte, sia in quanto sfondo che in quanto dimensione futura che essi intravedono, lo spazio che si dischiude mette in luce la grandezza
delle costruzioni umane, ma pone in ombra l’umano che sta dietro
l’artificiale. L’illimitata capacità di produzione attuale, materiale e simbolica, prosciuga la capacità d’immaginazione umana. Ed è nell’infiacchirsi di
tale capacità che l’umano perde il suo essere inventore di sé stesso, piuttosto
17
si riduce alla «più importante materia prima» . L’oggetto, lo strumento, il
non umano, il prodotto tecnico determinano il presente e il futuro dell’uomo.
Questo capovolgimento nel rapporto soggetto–oggetto, è, in ultima analisi,
intrinseco alla natura tecnica dell’uomo, per cui il fine primo diviene da subito il perseguimento dei mezzi. Tutti gli altri fini si subordinano ad esso: la re-
14 Cfr. A. GEHLEN, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo (1940), tr. it. di
C. Mainoldi, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 378.
15
U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano,
2004, p. 46.
16
ESCHILO, (v. 981) Le supplici, Prometeo incatenato, Agamennone, Palamede, in
Tragedie e frammenti, Utet, Torino, 1987.
17
M. HEIDEGGER, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976.
114
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altà, l’uomo vengono costruiti secondo la sottoposizione a tale ordine. La
soggettività si sottopone all’oggettività del mezzo.
Le innumerevoli alternative a cui Pico si riferiva nella sua rappresentazione dell’umano, si traducono in un’unica forma: l’uomo, in un mondo costruito sulla base della razionalità strumentale, si costruisce anch’egli in
quanto strumento. L’essenza tecnica dell’umano fa si che sia ciò che l’uomo
fa e che è capace di fare che determini l’uomo stesso: il soggetto è così determinato dall’oggetto. In tal senso, se la parabola dell’umano inizia con il
narrare che il verbo – il logos, la scienza, il suono, la parola, il pensiero – si
è fatto carne, essa sembra concludersi attraverso l’immagine della carne che
si fa verbo: la creatura si fa nuovamente creatore, l’oggetto si fa soggetto
determinante l’essere che lo ha generato.
Dall’illusione di una totale manipolabilità della realtà attraverso la tecnica, l’uomo si tramuta esso stesso in oggetto di manipolazione. L’umano e il
non umano appaiono entrambi, in sintesi, come sfondo entro cui soggettività,
situazioni e realtà ibridate, sovrapposte, interagiscono tra loro, e tendono a
ricongiungersi, o meglio, a non poter stare separate: la natura tecnica li accomuna, l’empatia li divide. La ragione strumentale li domina e, sottraendo
all’uomo empatia poiché riduce il suo sentire e agire a puro calcolo, li rende
sempre più funzionalmente vicini.
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LAVORI IN CORSO
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
SAVERIO NAPOLITANO
PASSIONE STORICA E STORIA CIVICA
NELLA CALABRIA NORD–OCCIDENTALE. RASSEGNA
BIBLIOGRAFICA E RIFLESSIONI STORIOGRAFICHE*
1. L’attenzione di queste pagine è riservata alle ricerche svolte dagli storici e cultori di storia locali, con deliberata esclusione di quelli professionali
non autoctoni. Una scelta volutamente circoscritta non per esaltare fasti patrii
e attribuire patenti storiografiche o medaglie al merito, ma per esaminare da
vicino un settore culturale e sviluppare qualche riflessione.
Il proposito potrebbe sembrare azzardato solo se assumessimo un atteggiamento pregiudizialmente negativo o semplificatorio sui lavori storiografici
maturati a questo livello. Personalmente, da sempre mi batto per l’attenzione
verso la storia locale e il rispetto dei suoi cultori1, di cui sostengo la rilevanza
delle rispettive funzioni, pur nella coscienza che occorra tenere un costante
atteggiamento critico verso questo genere di ricerche quando sono condotte
da semplici appassionati. Ritengo che le osservazioni che svilupperò avallino
questa posizione: il silenzio e l’indifferenza, all’opposto, sarebbero stati sicuri indici di rigetto di questi studi e di disistima dei loro autori.
Credo, intanto, non si possa prescindere da una considerazione generale,
ancorché per certi aspetti ovvia: che la storiografia calabrese ha avuto ed ha
tuttora i suoi epicentri più consistenti, salvo alcune eccezioni, a Reggio, Catanzaro e Cosenza. Per le eccezioni, penso alle città destinatarie delle mono* Relazione presentata a Scalea, il 22 settembre 2007, in occasione della presentazione del volume di scritti storici (a cura di Alfonso Mirto, Salviati, Milano, 2007) di
Carmine Manco, cultore di storia locale, nato nella cittadina tirrenica nel 1939 e morto a Pavia nel 1987.
1
S. NAPOLITANO, Nuova storia locale e questione meridionale, in “Rivista storica calabrese”, n.s., V(1984); ID., Appunti per una metodologia della storia locale, in “Daedalus”, V
(1990).
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
grafie promosse dalla Banca di Crotone e pubblicate dalla Rubbettino, di cui
finora ne sono uscite una diecina che, coinvolgendo – opportunamente – molti studiosi locali e dando largo spazio alle vicende contemporanee (politiche,
economiche e culturali), ha determinato, pur nella disuguaglianza degli apporti, esiti complessivamente non disprezzabili.
Reggio è stata da sempre favorita dalla vicinanza all’Università di Messina, nella quale si sono formati e hanno svolto la propria attività diversi storici
calabresi – qualche nome per tutti: Gaetano Cingari e Carmelo Trasselli – e
dall’istituzione nel 1982 dell’Università Mediterranea. Un beneficio aggiuntivo è derivato, più che dalle riviste “Historica” e “Klearcos”, soprattutto
dall’attività della Deputazione di Storia Patria e della “Rivista storica calabrese”: un’istituzione e uno strumento di comunicazione scientifica di non
poca incidenza, se si pensa ai Congressi proposti e organizzati in tutti questi
anni, ma anche all’input non ufficiale impresso al consistente progetto della
Storia della Calabria edita da Gangemi in più volumi. Un insieme di situazioni che ha permesso a Reggio e alla sua provincia di avere un qualche vantaggio sul resto della regione in termini di esiti storiografici e di migliore
consapevolezza metodologica, benché l’enclave intellettuale reggina si sia
posta, secondo me, in insufficiente simbiosi e in debole rapporto con il resto
della regione, limite al quale non sono sfuggite, nelle rispettive province, né
le istituzioni culturali, né l’intellighenzia catanzarese e cosentina..
Per Catanzaro, va tenuto presente il ruolo svolto dal Polo universitario
Magna Graecia (istituito nel 1992), dalla Scuola di Teologia San Pio X e da
alcune istituzioni culturali cittadine nel proporre temi d’indagine e
nell’incoraggiare esperienze storiografiche con risultati esemplari negli studi
di Augusto Placanica, Antonio Carvello, Giuseppe Masi, solo per menzionarne alcuni. Le istituzioni segnalate, combinandosi, a partire dalla fine degli
anni Settanta, con un forte bisogno di cultura qualificata e di strutture di supporto, hanno fecondato, a mio giudizio, la benemerita iniziativa dell’Istituto
della Biblioteca calabrese e della rivista “Rogerius” fondati a Soriano Calabro nel 1997, senza escludere lo sviluppo impresso dalla Rubbettino di Soveria Mannelli alla sua iniziale attività tipografico–editoriale.
Cosenza vantava una tradizione culturale molto vivace tra Quattro e Settecento in buona parte facente capo all’Accademia cittadina e che ha poi trovato nuovo slancio con l’istituzione negli anni Settanta dell’Università di Arcavacata. Un evento che, col generale incremento degli studenti universitari e
dei laureati – non solo quelli usciti dall’ateneo cosentino – e il formarsi di
una coscienza più attenta al passato e al patrimonio artistico–architettonico e
folklorico, ha propagato, in maniera diretta o indiretta, onde positive un po’
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
in tutta la provincia, come dimostrato dalla costituzione a Cosenza
dell’ICSAIC (Istituto calabrese per lo studio dell’antifascismo in Calabria) e
la pubblicazione di un “Bollettino”, oggi ‘900” diretto da Giuseppe Masi;
dalla fondazione nel 1982 del Centro Internazionale di Studi Gioachimiti a
San Giovanni in Fiore; dall’istituzione dell’Istituto Regionale per le Antichità
calabresi, classiche e bizantine a Rossano nel 1989; dalla creazione della rivista “Daedalus”. Laboratorio di storia” nel 1988 a Castrovillari per iniziativa
di Vittorio Cappelli ed altri (ricordo che la cittadina del Pollino vantava in
campo storiografico i nomi di prestigio di Biagio Cappelli, Umberto Caldora
e Francesco Russo, peraltro molto legati al nostro contesto); dalla fondazione
del Museo delle tradizioni contadine a Morano Calabro grazie alla competenza e alla passione di Francesco Mainieri; dalla costituzione a Scalea del Centro studi Attilio Pepe.
Una menzione particolare, qui per brevità limitata alla parte settentrionale
della nostra provincia, merita la fioritura di case editrici programmatiche, anche se alcune di breve fortuna: Il Coscile e Teda a Castrovillari (1985 e
1986), Periferia e Progetto 2000 a Cosenza, Marco Edizioni a Lungro (tutte
del 1986).
Scusandomi anticipatamente per errori e omissioni, cercherò ora di delineare
il quadro storiografico dell’area che interessa, cominciando proprio da Scalea,
dove in campo storico si sono distinti in passato Oreste Dito e Attilio Pepe.
Oreste Dito, nato qui nel 1866 da famiglia originaria di Verbicaro e morto
a Reggio nel 1934, è nella città dello Stretto che dal 1909 si afferma come
specialista della disciplina, dopo avere fondato a Catanzaro qualche anno
prima (1893) la “Rivista storica calabrese”, ricomparsa nel 1980 nella nuova
serie a cura della Deputazione di storia patria sotto la presidenza di Maria
Mariotti. Gli interessi storici di Dito sono decorsi dalla tesi di laurea
sull’antica Velia e proseguiti nel 1916 con La storia calabrese e la dimora
degli ebrei in Calabria dal secolo V alla seconda metà del secolo XVI, con
gli studi su Reggio e la vasta ricognizione erudita sulla nostra regione sotto il
titolo di Calabria vera.
Diverso è il caso di Attilio Pepe (1880-1966) che, pur di formazione scientifica (fu docente di matematica e fisica nelle scuole superiori), si è dedicato dagli
anni Venti alla storia trattando temi scaleoti e calabresi con articoli su quotidiani
nazionali (“Il Mattino” di Napoli, “Il Giornale d’Italia” di Roma, “Il Resto del
Carlino” di Bologna) e periodici regionali (“Brutium”, “Cronaca di Calabria”).
Ne fanno fede gli scritti su san Nilo, Ruggero di Lauria, Gioacchino da Fiore, san
Francesco di Paola, Telesio, Metastasio, Gravina, in parte confluiti nel volume
Visioni e ricordi d’altri tempi (Napoli, 1958).
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A parte alcuni lavori declinati, sia pure in modo non apologetico, in una
logica fascista2, sono significative le sue relazioni al I Congresso storico calabrese del 1954 (Notizia su “Il cenotafio di Ruggero Loria” alla Scalea), al
II del 1960 (La marcia di Garibaldi in Calabria nel 1860 e la sua deviazione
per Sapri) e al III del 1964 (La torre di Giuda), nonché il contributo nel fascicolo XXV degli Atti dell’Accademia cosentina su La dimora di Metastasio
in Calabria e le sue relazioni col Gravina e col Caloprese e il volume Gregorio Caloprese e i suoi tempi (Cosenza, 1963) conclusivo di un lungo interesse per il maestro di Metastasio, su cui egli aveva pubblicato altri scritti tra
il 1923 e il 19623. Ad Attilio Pepe – e il fatto conferisce al suo lavoro un merito aggiuntivo – non furono estranee riflessioni sul metodo contenuti in due
articoli su “Cronaca di Calabria” del 1955 e 1956: Considerazioni su due argomenti di storia locale e La ricerca storica si fa coi documenti e non con la
fantasia4.
In quasi continuità cronologica con Attilio Pepe, anche se con ingiusta
minore visibilità5, si colloca l’instancabile e ramificata ricerca di Carmine
Manco, che, condotta tra il 1969 e il 1985, riprende alcuni temi non nuovi su
Scalea (le tradizioni locali, non estranee allo stesso Pepe6 e da Manco in
qualche modo collegate con le vicende socio–religiose del suo paese, benché
in un’ottica eminentemente folklorica, come negli opuscoli La festa della
Madonna del Lauro. Storia, leggenda, folklore (Scalea 1980) e ‘U pannu ‘i
Santa Lucia), affiancati ad altri temi insoliti, perché tradizionalmente specialistici, per il contesto cittadino (le vicende preistorico–protostoriche, quelle
artistiche, che pure avevano avuto un lontano precedente in un articolo di
2
“La cultura calabrese e il fascismo”, in La cultura regionale, 1928; “Le vicende della Repubblica partenopea e la politica inglese”, in Annali del fascismo, 1942.
3
“La dimora di Metastasio in Calabria”, in Atti dell’Accademia cosentina, XIV(1929);
L’estetica del Gravina e del Caloprese (con recensione di B. Croce) e altri scritti, Napoli 1955;
“Le teorie estetiche moderne e la poetica di Caloprese”, in Cronaca di Calabria del 7 giugno
1959; “La cultura in Calabria nei secoli XVII e XVIII.Gregorio Caloprese e i suoi tempi”, in
Calabria letteraria, X(1962), nn.4,5,6.
4
A. MIRTO, “Attilio Pepe: il pensiero e l’opera”, in Calabria letteraria, XLIX(2001), nn.
4-5-6, pp. 90-96.
5
A MIRTO, Carmine Manco: uno storico precocemente scomparso, XXXVIII(1990), nn.
1-2-3, pp. 112-15.
6
“La festa del Lauro a Scalea”, in Il Risorgimento del 7 settembre 1948; “La settimana
santa alla Scalea”, in Il Mattino del 12 aprile 1950.
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Carmelo Giordanelli7, gli scritti sul convento francescano, sulla chiesetta dello Spedale e la chiesa di San Pietro il Grasso, sugli apporti sociali e architettonici dei benedettini nel periodo normanno, sul Risorgimento scaleoto, infine, di cui testimonia il saggio sul 18488, che per la nostra zona rimane in fondo un unicum sulla congiuntura dal 1799 all’Unità, sulla quale, a parte il
Cingari di Giacobini e Sanfedisti in Calabria nel 1799 e il Caldora di Calabria napoleonica e di Fra patrioti e briganti, oggi possiamo appena richiamare alcuni scritti di Giovanni Celico e una ricerca di Antonello Savaglio9).
Un vasto campionario di temi, quelli di Manco, talvolta spazianti oltre i
confini scaleoti e soprattutto dilatantisi dall’età preistorica a quella classica,
dalla medievale, alla moderna, alla contemporanea, nella logica degli storici
di città che puntano a uno scavo indifferenziato, animati principalmente da
passione conoscitiva e bisogno di fornire informazione storica (da questo
punto di vista, Carmine, che non rinunciava a proporre temi di ampio respiro,
possedeva ottime capacità divulgative e di sintesi, evidenti nei lavori di taglio
giornalistico che giudico i meglio riusciti) più che la trattazione approfondita
di determinati argomenti. Un’ansia e un fervore di ricomposizione dei frammenti del passato cittadino esemplati da tutta la produzione di Manco e dal
compendio Scalea prima e dopo. Cenni storici, del 1969: pagine di ben maggiore intensità partecipativa, per la volontà di connettere passato e presente
del proprio paese, rispetto all’opera, pure apprezzabile, di Vincenzo Napolillo
(Scalea, culla della storia, edito nel 1999) e certo di una caratura storiografica non riscontrabile ne La cappella bizantina di Scalea (del 1996) di Gennaro
Serra, tenace protagonista, negli anni Sessanta–Ottanta, di molte battaglie
giornalistiche in difesa del patrimonio artistico–architettonico della località
tirrenica. A livello di divulgazione storica su Scalea e i paesi vicini, anche
come parte della neo–diocesi di San Marco Argentano, si segnalano i lavori
di Vincenzo Barone10, di Cono Araugio11 e di Amito Vacchiano12,
7
C. GIORDANELLI, “Itinerario svevo a Scalea”, in Cronaca di Calabria, LIII(1955), n.15.
Su Giordanelli, si rinvia a A. MIRTO, “Carmelo Giordanelli”, in Calabria letteraria, XXXIX
(1991), nn. 4-5-6, pp. 75-78.
8
“I moti del 1848 nell’alto Tirreno cosentino e il Comitato di insurrezione di Scalea”, in
Rivista storica calabrese, n.s., X-XI(1989-1990), nn. 1-4.
9
La “volcanica esplosione”. Le repubbliche giacobine di Calabria Citra. Fermenti, tumulti,
repressioni nei centri della costa tirrenica cosentina, in Rivoluzione e atirivoluzione in Calabria
nel 1799, Atti del IX Congresso storico calabrese, Reggio Calabria 2005.
10
Scalea. Riviera che racconta, Londra 1986.
11
Storia e itinerari della diocesi di San Marco Argentano-Scalea, Torino 1999 e San Marco Argentano-Scalea. Le porte dell’infinito, Scalea 2003.
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quest’ultimo con un volumetto che ne ha preso in considerazione l’arco temporale dalle origini al XVIII secolo.
Modelli di ricerca e informazione generale ai quali si contrappone – sia
come individuazione di un tema ben definito, sia come svolgimento e impostazione di esso – il lavoro del 1977, tuttora senza epigoni, di Enrico Esposito
(pure misuratosi con la storia classica, il pensiero di Caloprese, la presenza di
Metastasio a Scalea, personaggi del repubblicanesimo meridionale13) sulle
società di mutuo soccorso nell’area alto–tirrenica: studio animato da una consapevole scelta ideale dell’autore, che, disegnando la mappa inedita del mutualismo locale, ha illuminato sulle tendenze socialiste non del tutto esangui
presenti in un’area periferica della società calabrese ottocentesca, che, insieme a quella novecentesca, dove pure per la Calabria cosentina emergono i
lavori di Vittorio Cappelli, attende ulteriori ricerche specifiche e approfondite.
Un deliberato specialismo caratterizza la lodevole iniziativa della ristampa anastatica delle opere di Gregorio Caloprese a cura di Fabrizio Lomonaco
e Alfonso Mirto. Quest’ultimo14 ha fatto del filosofo cartesiano un suo costante argomento di studio15 senza trascurare fatti e personaggi della nostra
zona16 e del Regno di Napoli17, nonché la messa a fuoco della biografia e
12
A. VACCHIANO, Scalea antica e moderna. Storia e protagonisti dalle origini al Settecento, Milano 2006.
13
E. ESPOSITO, Laos, una città della Magna Graecia, Cosenza 1978; l’annotazione di
Dell’origine degli Imperi, cit; ID., Metastasio a Scalea. Amori e poesia, Milano 2005; ID., “C.
Mileti e la democrazia repubblicana nel Mezzogiorno”, in Archivio storico per la Calabria e la
Lucania, L (1983) .
14
G. CALOPRESE, Opere, a cura di F. LOMONACO e A. MIRTO, Napoli 2004; G. CALOPRESE, Dell’origine degli Imperi.Un’etica per la politica, con note di E. ESPOSITO e introduzione
di A. MIRTO, Milano 2003.
15
“Appunti sul pensiero “civile” di Gregorio Caloprese”, in Il pensiero politico, XIV
(1981), n.3; “L’ambiente e la cultura di Gregorio Caloprese”, in Calabria letteraria, XXIX
(1981), nn. 4-5-6, pp. 46-49. Il maestro di Metastasio è stato oggetto di analisi anche da parte di
A. GALATI, “Gregorio Caloprese”, in Almanacco calabrese, V(1955), n.5; U. MARVARDI,
“Il pensiero estetico e il metodo critico in Gregorio Caloprese”, in Lettere italiane, XIV(1962), n.
2; A. QUONDAM, Gregorio Caloprese, voce del Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XIII;
A. VALENTE, Antropologia e politica in Gregorio Caloprese, tesi di laurea Università della Calabria, Facoltà di Lettere e Filosofia, a.a. 1994-1995; R. A. SISKA LAMPARSKA, “Il sensismo sublime e razionale di Gregorio Caloprese”, in Studi filosofici, XXIII (2000).
16
A. MIRTO, “Nota sul pensiero di Francesco Maria Spinelli”, in Calabria letteraria,
XXI(1983), nn. 7-9.
17
A. MIRTO, “Rapporti culturali tra il Viceregno e la Toscana nella seconda metà del Seicento”, in Calabria letteraria, XLII(1994), nn. 10-12; ID, “Una lettera di Marco Aurelio Severino a Luca Holstenius conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana”, in Calabria letteraria,
XLV(1997), nn. 1-3. Di Mirto vanno anche ricordati gli studi maturati nei tanti anni di lavoro e
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dell’opera degli storici scaleoti. A livello specialistico vanno collocati lo studio di Ciro Cosenza su La feudalità sul Tirreno cosentino (Diamante 1979) e
la curatela da parte dello stesso del volume Comune di Scalea. Le deliberazioni decurionali (1830-1861) (Paola, 1995); il contributo di Franco Galiano
su Oreste Dito18; gli studi di Amito Vacchiano sul monachesimo italo–greco
nel Mercurion (su cui va ricordato un recente convegno19), in particolare la
ricostruzione storica complessiva fattane in San Nicola dei Greci a Scalea.
La cappella bizantina tra arte e storia (Milano, 2006), in coppia con Antonio
Vincenzo Valente (autore di uno scritto su La devozione della Madonna del
Carmelo a Scalea dal 1606 al 195520 e dell’opuscolo La chiesa di San Nicola
in Plateis a Scalea, edito nel 2003), il quale ha analizzato architettonicamente
e artisticamente il poco che oggi resta dell’antico edificio e dei suoi affreschi,
arricchendo e puntualizzando con un’attenta ricognizione icnografica e fotografica le considerazioni svolte da Marina Falla Castelfranchi in un saggio
del 198521 e da Giorgio Leone in un contributo del 199622; il libro di Carmela
Stummo, infine, su Scalea e il suo dialetto tra cultura e tradizione (Milano,
2004), che mi pare possieda il pregio di costeggiare una concezione degli
studi dialettali non tanto come tecnicismo glottologico, sulla scia pure importante del Rohlfs, ma come storia culturale: un criterio oggi con numerosi esiti
residenza in Toscana e dedicati a raccolte di epistolari e a vicende di stampatori, editori e librai
fiorentini del XVII-XVIII secolo: La biblioteca del Cardinal Leopoldo de’ Medici. Catalogo,
Firenze 1990; Lucas Holstenius e la corte medicea. Carteggio (1629-1660), Firenze 1999;
Stampatori, editori, librai nella seconda metà del Seicento, vol. I, Firenze 1989 e II, Firenze
1994; Il carteggio degli Huguetan con Antonio Magliabechi e la corte medicea. Ascesa e declino di una impresa editoriale nell’Europa sei-settecentesca, Soveria Mannelli 2005; “Lettere di
Giovanni Filippo Marucelli a Leopoldo de’ Medici (1661-1666), in Studi secenteschi, n. 47,
2006.
18
F. GALIANO, Oreste Dito massone del Sud oscuro e l’ebraismo tradito. Frammenti giolittiani fra Scalea e Cosenza, Cosenza 2003.
19
Grotte, laure, chiese e cenobi tra la Valle del Lao, la Valle del Noce e il basso Cilento,
Scalea-Tortora 15-16 gennaio 2005 a cura dell’Associazione Mercurion di Rocca di Fiuzzi-Praia
a Mare, con il contributo dell’Amministrazione provinciale di Cosenza e dei Comuni di Scalea e
Tortora.
20
In Calabria letteraria, XLV (1997), nn. 4-5-6, pp. 43-45.
21
M. FALLA CASTELFRANCHI, “Per la storia della pittura bizantina in Calabria”, in Rivista
storica calabrese, n.s., VI(1985), pp. 389-416.
22
Gli affreschi di Scalea e alcune considerazioni sulla cultura pittorica del Trecento in Calabria, in Studi in onore di Michele D’Elia. Archeologia, arte, restauro e tutela archivistica, a
cura di C. GELAO, Matera 1996.
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storiografici23, ma ancora non consapevolmente acquisito dagli studiosi di
storia locale.
Allargando lo sguardo oltre l’epicentro di Scalea, registriamo a Santa
Domenica Talao l’opera meritoria di un gruppo di giovani che ha pubblicato
un interessante manoscritto ottocentesco molto utile a tracciare un quadro
delle vicende del paese dal XVII al XIX secolo e che offre preziosi elementi
per la comprensione del poco esplorato fenomeno della formazione dei borghi nuovi nella Calabria moderna24; l’attività di ricerca di Amedeo Fulco su
Tortora25, su cui vanno menzionati anche gli studi di un “esterno” come Rocco Liberti26; di Giuseppe Guida su Aieta27 e il santuario praiese della Madonna della Grotta28, su cui si è intrattenuto anche Amato Campolongo29; di Mario Gentileschi30 su Praia e ancora di Rocco Liberti31 su Aieta e Praia; di Giovanni Celico su Praia e il suo santuario e su Tortora32 (ma qui di Celico vorrei
ricordare il tentativo, benché puramente sinottico di dati elettorali dal dopoguerra agli anni Settanta, di impostare una storia politica cittadina nel volume
Praia a Mare: un secolo…una storia), nonché su Scalea e Santa Domenica
23
P. BURKE, La storia culturale, Bologna 2006.
A. LUCCHESI, D. DE GIORGIO, M.E. MUSCARELLO, M.G. PAOLINO, M.M. PAOLINO, Santa Domenica da feudo degli Spinelli a terra di briganti, Scalea 2002. Sull’argomento rimando al
mio La formazione di un borgo nuovo nella Calabria citra moderna: il caso di Santa Domenica
Talao, in “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, L (2005).
25
Memorie storiche di Tortora, Napoli 1963, riproposto col titolo Memorie storiche di
Tortora. Con uno studio critico sull’antica Blanda, Amministrazione comunale di Tortora, Tortora 2002.
26
Francesi e briganti a Tortora durante il Decennio, 1966; Processo per stregoneria a
Tortora nel 1600, Reggio Calabria 1969; Tortora, Oppido M., 1999.
27
Aieta. Pagine della sua storia civile e religiosa, Cosenza 1991. Questo testo è ricco di informazioni tratte dall’archivio parrocchiale, ma complessivamente farraginoso perché non sostenuto da consapevolezza metodologica e dalla lucidità dei quadri storiografici.
28
Santuario Madonna della Grotta Praia a Mare, Cosenza 1988, ristampato col titolo
Santuario della Madonna della Grotta e Praia a Mare, Catanzaro 1994.
29
“Il culto della Schiavonea nella Valle del Mercure-Lao”, in Calabria letteraria,
XXIV(1976), nn. 1-2-3.
30
Praia a Mare. Origine e vicende di una “marina calabrese”, Cosenza 1968
31
Praia a Mare, perla calabrese del Tirreno, Reggio Calabria 1969; Aieta tra cronaca e
storia, Roma 1970.
32
Praia a mare: un secolo… una storia, Cosenza 1976; Tortora e terre vicine nel ‘500,
Cosenza 1980; Tortora e terre vicine. Cronaca e storia dal 1600 al 1700, Diamante 1998; Peregrinazioni storiche; Luoghi di culto e di mistero, Lagonegro 2003 (in collaborazione con Biagio
Moliterni che ha dedicato la sua parte alla chiesa del Purgatorio di Tortora, mentre Celico si è
occupato della Madonna della Grotta).
24
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Talao33; di Biagio Moliterni con un’ottima riflessione critica su un noto documento medievale attinente al santuario praiese34. I lavori di Guida e Celico
si basano consapevolmente sul recupero e la proposta di materiale d’archivio
(archivi parrocchiali e comunali e Archivio di Stato di Cosenza). Nel caso di
Celico, va segnalato l’orizzonte più vasto esplorato in collaborazione con
Amato Campolongo con riferimento alla famiglia baronale dei Sanseverino35:
un’indagine essenzialmente prosopografica, ma preziosa per la messa a fuoco
dell’articolazione genealogica e delle diramazioni economico–sociali in area
calabro–lucana di questa importante casata.
Verso Diamante, su cui si è esercitato Francesco Cirillo36, ha mostrato interesse Orazio Campagna dedicatosi essenzialmente al monachesimo italo–
greco e alla storia pre–classica e classica della nostra zona, con qualche riguardo per il suo paese di origine, Grisolia37, su cui va ricordato l’opuscolo
Χρυςολεια (Scalea, 1996) a cura di Luigi Marino38 con l’apporto della locale
Associazione culturale “Italo Muti”, dove sono stati riassunti i dati storici e
icnografici del palazzo ducale, di alcune chiese e di un convento.
Con riferimento alle vicende di Verbicaro, patria di Venturino Panebianco39, di fatto operante a Salerno, storico e stimato archeologo dell’epoca classica e alto–medievale, vanno indicati i lavori di Giovanni Cava (Verbicaro.
Spunti di storia e cronaca, Cosenza, 1988), di Biagio Gamba (Sulle origini di
Verbicaro, Verbicaro, 1993) e di Angelo Rinaldi, infine, con alcuni interventi
33
Scalea tra duchi e principi, mercanti filosofi e santi, Diamante 2000; Santi e briganti del
Mercurion, Diamante 2002; Famiglie notabili di Scalea e Santa Domenica Talao nei secoli
XVIII e XIX, Praia 2006.
34
“La chiesa di San Zaccaria e l’origine del Santuario della Madonna della Grotta di Praia
a Mare”, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, LXIX (2002).
35
I Sanseverino conti di Lauria, signori di Laino e duchi di Scalea. Regesto dal secolo XII
al secolo XVI, Soveria M/lli 2001.
36
Diamante e Cirella. Storie, leggende, itinerari, curiosità e dialetti, Diamante 1993.
37
Della sua produzione cito La “regione mercuriense” nella storia delle comunità costiere
da Bonifati a Palinuro, Cosenza 1982; “I monasteri che erano intorno al Mercurion”, in Rivista
storica calabrese, n.s. (IX(1988), nn. 1-4); “La grotta di San Michele alla Serra di Grisolia” in
Bollettino della Badia greca di Grottaferrata, XL(1986); Miti e storia da Laos a Skidros. La
Grotta dell’Orco alla Serra di Grisolia, Cosenza 1993; San Nilo di Rossano al Mercurion (940952/53). L’Athos d’Italia, Roma 2000
38
Luigi Marino aveva affrontato temi architettonici medievali relativi a Scalea con la tesi di
laurea discussa presso l’Università della Calabria nell’a.a. 1979-80 su Aspetti architettonici della
cultura medievale in Calabria: Scalea.
39
Si cita qui, a titolo esemplificativo, “Le diocesi latine di Blanda e di Turio nella sibaritide
altomedievale”, in Magna Graecia, XIV (1979), nn. 9-10.
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per ora di taglio giornalistico40. Un taglio adottato anche da Pio Sangiovanni
e soci per le succinte ricerche di storia orsomarsese rese note fino a qualche
anno fa su “Abystron”, organo dell’omonima associazione culturale (oggi
rivista on–line), ma anche dal “Diogene moderno” curato a Scalea e Praia dal
ricordato Giovanni Celico: due fogli volenterosi e coraggiosi anche per il loro
impegno politico.
Abatemarco dispone dello studio di Ciro Cosenza sulla sua condizione feudale nel XVIII secolo41. Dopo la Storia di Buonvicino di F. Casella (Cosenza 1980),
su questo paese l’attenzione è stata richiamata tramite la figura del suo patrono,
san Ciriaco, dapprima con scritti di Domenico Vizzari e Franceschino Ritondale42, poi con un convegno43. Un quadro d’insieme hanno disegnato Orazio Campagna per Maierà44, Giovannino Engels per Bonifati45, Franceschino Ritondale e
Francesco Cirillo per Cirella46, che qui ritengo doveroso ricordare come il paese
natale di Leopoldo Pagano, storico vissuto a cavallo tra Otto e Novecento e della
stessa tempra di Oreste Dito e Attilio Pepe47.
L’autore di queste pagine – si parva licet – ha dato corso al proprio impegno storiografico occupandosi di Papasidero bizantino con uno studio comparso sul “Bollettino della Badia greca di Grottaferrata” del 1976, dove nel
2003 ha ripreso e approfondito il tema analizzando i lasciti in area mercuriense del monachesimo basiliano nel basso Medioevo e in età moderna. Senza
trascurare un affresco della storia del suo paese (Il paese grigio. Storia e
40
“Il “Liber memoriarum” della parrocchia S. Maria del Piano di Verbicaro”, in Calabria
letteraria, XL(1992); “Pier Vittorio Carlomagno, poeta romantico di Verbicaro”, ivi,
XXXVIII(1990); “Verbicaro. Riemerge una chiesa del ‘500”, in ComunicAzione, Mensile
d’informazione e approfondimento della diocesi di San Marco Argentano-Scalea, n.1 del 30
gennaio 2003.
41
“Esempio di un piccolo feudo nell’alto Tirreno cosentino nel Settecento”, in La Calabria
dalle riforme alla restaurazione, Atti del VI Congresso storico calabrese, Catanzaro 29 ottobre1° novembre 1977, II, Salerno-Catanzaro 1981, pp. 95-101.
42
D. VIZZARI, “A proposito di S. Ciriaco di Buonvicino”, in Studi meridionali, nn. 3-4,
1981, pp. 301-20; F. RITONDALE, “Buonvicino patria di S.Ciriaco, abate brasiliano”, in Calabria
letteraria, XXIX(1981), nn. 1, 2, 3.
43
La figura di S.Ciriaco di Buonvicino fra gli asceti e i monasteri del Mercurion, Buonvicino, 28-29 maggio 1991.
44
Storia di Maierà, Cosenza 1985.
45
Fella benedettina (memorie storiche), Firenze 1977 e Bonifati. Un principato di Calabria Citra. Notizie storiche, Firenze 1978.
46
F. RITONDALE, Cirella, storia e leggenda, Catanzaro 1993 (preceduto da Cirella e dintorni, Cosenza 1984); F. CIRILLO, Diamante e Cirella, cit.
47
Di questo studioso si veda Natura Economia Storia in Calabria. (Studi sulla Calabria),
Napoli 1892, rist. Cosenza 1992.
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mentalità a Papasidero, Bordighera 1991, di cui Giuseppina Grisolia ha tratteggiato usi e costumi locali), il proprio campo di indagine ha riguardato specificamente (e tuttora concerne) la storia sociale e culturale dell’alto Tirreno
cosentino nei secoli dal Quattro al Settecento. Alcune di queste ricerche sono
state raccolte ne La storia assente. Territorio, comunità, poteri locali nella
Calabria nord–occidentale (XV-XVIII secolo), edito da Rubbettino nel 2003.
Per Mormanno, a parte gli antichi, succinti studi di Edoardo Pandolfi su
san Leone–Luca nel Mercurion48, di Vincenzo Minervini su Mormanno di
una volta49 e di Attilio Cavaliere su Vicende storiche e uomini illustri di
Mormanno (Castrovillari 1939), per il periodo contestuale a questa ricerca
vanno menzionati i lavori di Luigi Paternostro, prolifico di testi e appassionato di temi vari (da quelli archeologici sulla preistoria della Valle del Lao, a
quelli dialettali e storici sul territorio mormannese50), la ricerca di Domenico
Crea su Società, economia, imprenditoria in Mormanno tra ‘800 e ‘900 (Castrovillari 1995, un unicum autoctono sulle esperienze paleoindustriali nella
Calabria alto cosentina) e la breve monografia di Francesco Regina e Domenico Crea sulla chiesa cattedrale di Santa Maria del Colle51.
Diversamente dall’antico studio storico–archeologico di G. Gioia (Memorie storiche e documenti sopra Lao, Laino, Sibari, Tebe Lucana della Magna
Graecia città antichissime, Napoli 1883) e del più prossimo ma episodico
interesse di Giuseppe Caterini52, una passione lunga e costante per i due Laino è manifestata da Amato Campolongo53, che ha spinto il suo sguardo anche
ad altre zone della Calabria e che è stato coautore con Giovanni Celico del
citato volume sui Sanseverino.
48
Il Beato Leo-Luca Abate e Mormanno, Castrovillari 1909; questo studio fu preceduto dal
Catalogo degli scrittori di Mormanno e delle opere ed opuscoli da loro dati a luce e di cui han
potuto aversi gli esemplari a stampa, Mormanno 1901,
49
Testo ristampato a Castrovillari nel 1996.
50
Mormanno favola di una realtà, Firenze 1981; Gli Alti Bruzii e il loro linguaggio, Firenze 1986; Il vocabolario dialettale degli Alti Bruzii, Castrovillari 1995; Mormanno un paese nel
mondo, Castrovillari 1999.
51
Mormanno. La cattedrale di Santa Maria della Colla e del Colle: fede ed opere di popolo e clero in sette secoli (1183-1883), Castrovillari 2000.
52
Laino antichissima comunità calabrese, Cosenza 1977.
53
Sulla sua fitta prassi storiografica, si veda, limitatamente al suo paese d’origine, “Ladislao contro i Sanseverino sul castello di Laino”, in Studi medievali, IX(1976); “Notizie storiche
sulla chiesa e le cappelle di Laino Castello”, in Calabria letteraria, XXV(1977); “Laino ultima
tappa di Carlo V in Calabria”; “Un diarista calabrese del ’500: Domenico Longo pellegrino a
Gerusalemme”; “Le sacre rappresentazioni nel ‘700 e la “Giudaica” di Laino Borgo; Gli scrittori
di Laino”, tutti in Calabria sconosciuta, rispettivamente nei fascicoli XII (1989), n. 44; XIV
(1991), n. 51; XV (1992), n. 53; XVIII (1995), n. 66.
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2. Questa panoramica, necessariamente schematica e forse un po’ noiosa, ha avuto lo scopo di riepilogare lo stato degli studi storici nel nostro contesto, nella convinzione che solo la cognizione del cosa abbiamo prodotto ci
può permettere la coscienza del cosa possiamo fare, di come possiamo lavorare, quali obiettivi di ricerca e di studio ci possiamo prefiggere, quali questioni possiamo affrontare con l’ausilio di questa disciplina. Per quello che mi
riguarda, la storia si interroga sui problemi e il ruolo dell’uomo nella società,
per renderlo consapevole di essi e permettere una migliore vivibilità sociale:
non si tratta di una missione salvifica, ma del proposito di dare un senso al
lavoro dello storico, rendendo visibili e praticabili valori che meritano di essere affermati con forti e convinte petizioni di principio in un’epoca di mistificazione, revisionismo, manipolazione, semplificazione e ignoranza della
storia. Epoca in cui il modesto, paziente lavoro degli storici locali, ancorati ai
dati emergenti dagli archivi comunali, parrocchiali, provinciali, regionali e
pur con i limiti che ora porrò in luce, si qualifica comunque come un atto di
umiltà e un’iniezione di fiducia nei fatti. Questa è una benemerenza che ritengo si debba riconoscere al lavoro degli storici locali quando, pur nella loro
semplicità, lavorano in modo serio.
La panoramica tracciata mette in luce – senza con questo sminuire nessuno – che se tra quelli segnalati ci sono studiosi con un preciso bagaglio di conoscenze settoriali e adeguati strumenti metodologici, vi sono anche tanti
semplici appassionati mossi da onesta e legittima volontà di conoscere il passato delle comunità di appartenenza comprendendone e inserendone le vicende nel flusso della storia.
Diciamo, in ogni caso, che in tutti si ravvisa il comune denominatore della passione per la storia, per cui, almeno quando si propongono di fare storia
secondo gli standard minimi richiesti dalla disciplina, tutti assolvono a un
compito: quello di creare la tradizione storica, di accumulare e tramandare
una messe di informazioni destinate alla sedimentazione del passato e ad accrescere la consapevolezza di esso a vantaggio di tutti. Questo è senz’altro un
merito degli storici locali, riconosciuto anche da Huizinga54 pensando ai dilettanti, soprattutto quando essi esercitano la loro passione su e in contesti
emarginati, privi dei più ovvi supporti di lavoro (biblioteche, in primo luogo),
impossibilitati a confrontarsi con altri studiosi e ad accedere a adeguati strumenti di comunicazione (riviste, periodici). Con queste premesse, si capisce
come l’orizzonte mentale degli storici locali possa peccare di un eccesso di
54
J. HUIZINGA, La scienza storica, tr. it., Bari 1974, pp. 26, 84, 107.
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“intimità”, alimentata dalla condizione di isolamento e quindi dall’assenza di
opportunità e sollecitazioni intellettuali che ne mettano alla prova le capacità.
Notiamo che gli argomenti per così dire “forti” della ricerca, quelli che riscuotono maggior consenso, sono, nel nostro ambito, il monachesimo italo–
greco e l’epoca magno–greca, seguiti a molta distanza dal Cinque–Seicento e
dall’Ottocento, quest’ultimo avvicinato soprattutto con riguardo al brigantaggio. L’interesse per l’età moderna e contemporanea è quindi circoscritto a
pochissimi studiosi e a temi ben definiti, mentre tanti momenti e situazioni
sono saltati a piè pari o genericamente trattati in tableaux compendiali volti a
ricostruire per grandi linee la storia di un paese attraverso i secoli.
Se si può ritenere eccessivamente severo il giudizio di Marc Bloch sulla
storia regionale (ma estensibile anche alla storia locale tout court) secondo
cui l’unità di luogo è un elemento di «disordine» nella ricerca, trovo invece
fondata l’osservazione dell’insigne storico francese che a «a fare centro sia
l’unità del problema»55. Una storia per problemi in effetti e salvo eccezioni,
sia in termini monografici, sia in termini di più saggi con un oggetto comune
di indagine, non raccoglie l’adesione degli storici di cui abbiamo parlato. Analogamente, se c’è l’attenzione per gli individui singolarmente presi, non si
ravvisa curiosità per gli individui in quanto gruppi, ceti, classi, né come entità
che interagiscono tra di loro: sono sostanzialmente escluse, quindi, sia la storia sociale, sia la storia economica, sia la storia culturale, sia la storia politica.
In parecchi dei lavori qui considerati prevale nettamente la storia del luogo d’origine come ricostruzione dell’identità comunitaria nel suo aspetto cronologico, preoccupato di mettere ordine nel fluire del tempo storico, riempiendone gli spazi con fatti, protagonisti, vicende, con l’esplicita ambizione
di concatenare il tutto in una serie lineare, spiegando il presente come il regolare e ordinato esito di eventi e personaggi del passato posti in montaggio secondo il principio di causa–effetto.
Procedimento che da un lato induce all’ossessione delle “origini” di una
comunità, deprecata da Marc Bloch56 e però esaltata dai dilettanti della storia
quando dalle fonti d’archivio o letterarie la possono attribuire a progeniture
arcaiche; se le fonti non consentono retrodatazioni, si colma il vuoto ripiegando sul “buio della storia”, salvo che per intuizione o speciale intelligenza
non si ricorra ad altre fonti – la toponomastica e la conformazione dei campi,
ad esempio – capaci di illuminare “la notte dei tempi”. Da un altro lato, c’è il
55
M. BLOCH, “Une étude régionale: géographie ou histoire”, in Annales d’histoire économique et sociale, VI(1934), p. 81.
56
M. BLOCH, Apologia della storia o mestiere di storico, tr. it., Torino 1969, p. 44.
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rischio di sfociare nell’accumulo acritico e abnorme di notizie, nella bulimia
documentaria che concepisce la comunità in termini monadici, indagandola
solo per se stessa. Ciò che costringe lo studioso non professionista a doversi
destreggiare con conoscenze molto differenziate e non adeguatamente padroneggiate. Un metodo di lavoro che non garantisce risultati validi, benché possa essere ammirevole lo sforzo compiuto: quello sforzo per il quale Marc
Bloch chiedeva l’indulgenza verso gli storici locali57, specialmente – aggiungerei – nei casi in cui viene profuso con intelligenza, a conferma che per essere buoni storici non occorrono patenti speciali, né titoli accademici:
un’osservazione da cui non possiamo esimerci, perché la mala pianta di questo pregiudizio è ancora ben radicata.
Se l’unitarietà del soggetto tende a fotografare il quadro d’insieme di una
comunità, difficilmente favorisce una concezione “totale” della storia, nel
senso di percezione del passato come rete di relazione tra momenti e soggetti
diversi, colti e intesi nella loro diacronia problematica. Un obiettivo perseguibile solo se le conoscenze, più che acquisite in modo “oggettivo” e isolate
le une dalle altre, vengono utilizzate come altrettanti rivoli convogliati verso
uno stesso fiume: un’epoca determinata, uno specifico problema, un discorso
complessivo sviluppato su più piani e da punti di vista differenti.
L’angolo visuale, in effetti, nelle indagini locali è in genere statico,
l’occhio dello studioso riprende la realtà da una postazione fissa, mentre
l’approccio da angolazioni diverse può restituire un passato dinamico, mosso,
differenziato, colto nelle continuità e discontinuità: storia senz’altro più autentica e attendibile, meglio tutelata dai rischi dello schematismo e
dell’appiattimento. E’ un problema di paradigmi storiografici e di metodo
storico; un problema cioè di modelli storiografici che si intende adottare per
verificarne la coerenza col caso concreto di studio e di riflessione
sull’ermeneutica e sull’euristica della ricerca, in senso generale e in senso
specifico. L’uso di un modello interpretativo (assunto ovviamente per comprendere meglio la realtà, non certo per adattare la realtà al modello) contribuisce certamente a mettere in discussione parametri consolidati e magari desueti, a sollecitare ordini mentali sclerotizzati e poco efficaci nel rapportarsi
del ricercatore all’oggetto della sua indagine. Analogamente, è sempre auspicabile la riflessione sulle tecniche interpretative delle fonti e sulle procedure
di ricerca.
57
M. BLOCH, “Sur quelques histoires de villages”, in Annales d’histoire économique et sociale, V(1933), p. 473.
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La produzione storica che abbiamo considerato è particolarmente deficitaria
nel rapporto col territorio, che è poi quello tra geografia e storia. Le ricognizioni
del territorio con riferimento alla conoscenza del passato nei termini della geografia storica suggerita dalle “Annales” e ripresa da Lucio Gambi58, o della survey
(l’indagine topografico–storica) cara alla local history inglese rimasta una tendenza con scarse applicazioni nella storiografia italiana a carattere locale e regionale59, per non parlare del modello ecostorico proposto da Alberto Caracciolo60,
sono praticamente senza seguaci, benché penso occorra avere un giusto apprezzamento per l’archeologia storica del territorio, a proposito della quale, riguardandoci più o meno direttamente, mi piace richiamare alcuni studi di Giuseppe
Roma61 e un contributo di Onorato Tocci62.
Quelli appena ricordati sono orientamenti che, nel nostro contesto, potrebbero essere forieri di sviluppi interessanti circa i raccordi tra natura e storia, risorse economiche e storia63, l’intellegibilità del paesaggio come cultura64, il collegamento tra storia e beni culturali65: un settore, quest’ultimo, nel
quale lo storico locale è del tutto assente nella convinzione che in merito abbia poco o niente da dire e che la tutela del patrimonio artistico–architettonico–ambientale sia riservato dominio della classe politica o di gruppi finalizzati.
Questa sorta di divisione del lavoro tende a relegare lo storico all’erudizione e alla mera conoscenza del passato cittadino e induce alla scarsa considerazione del suo sapere, rifiutato come supporto agli interventi sul territorio.
Viene meno così la possibilità di attivare un sistema di relazioni conoscitive
58
L. GAMBI, Una geografia per la storia, Torino 1973.
Si vedano in questo senso le critiche, relative alla Liguria, ma estensibili a tutto il nostro
paese, di E. GRENDI, Storia di una storia locale. L’esperienza ligure 1792-1992, Venezia 1996.
Molto utile ai fini della relazione territorio/storia D. MORENO, Dal documento al terreno. Storia e
archeologia dei sistemi agro-silvo-pastorali, Bologna 1990.
60
A. CARACCIOLO, L’ambiente come storia, Bologna 1988.
61
“Sulle tracce del limes longobardo”, in Mélanges de l’École française de Rome. Moyen
Âge, 110, 1998; “Le origini della parrocchia rurale in Calabria”, in Atti della giornata tematica
dei Seminari di Archeologia cristiana, Roma 19 marzo 1998, Roma 1999; Il censimento dei
santuari cristiani in Calabria, in Per una storia dei santuari cristiani d’Italia: approcci regionali
a cura di G. CRACCO, Bologna 2002.
62
O. TOCCI, La Calabria nord-occidentale dai Goti ai Normanni. Insediamenti e vie di
comunicazione, Cosenza 1989.
63
P. BEVILACQUA, Tra natura e storia. Ambiente, economie, risorse in Italia, Roma 1996.
64
S. PICCARDI, Il paesaggio culturale, Bologna 1986; P. CLAVAL, La geografia culturale,
tr. it., Novara 2002.
65
P. SERENO, Territorio, storia e cultura materiale. Il contributo della geografia ad una
politica dei beni culturali, Torino 1978.
59
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in grado di rendere diffusa la coscienza sociale del territorio come base per
qualsiasi tipo di intervento su di esso. Ma viene meno altresì la sensibilità e
l’attenzione per tutto ciò che fonda il passato di una comunità. Il territorio va
invece concepito come contesto produttore di storia66, in quanto realtà formale, soggettiva e intenzionale, segnata da lotte, conflitti, dinamiche sociali che
si riflettono sull’organizzazione comunitaria e sui rapporti di potere a tutti i
livelli in cui essi possono esplicarsi.
Il territorio, la località, il paesaggio includono strutture visibili (o materiali: una chiesa, un palazzo signorile) e invisibili (o immateriali: le tradizioni
folkloriche, la memoria orale)67, che costituiscono altrettanti fenomeni comprensibili storiograficamente. Il paesaggio, peraltro, è portatore di valori che
non incidono solo sull’identità storica di una comunità, ma anche su quella
estetica, per cui l’eredità del paesaggio è una ricchezza che spetta anche allo
storico tutelare attraverso l’approfondimento conoscitivo del passato.
Questione di notevole rilevanza nel nostro contesto, spesso campo di interventi di recupero/restauro attuati in aperta violazione dei dati storici, del
rispetto dei canoni artistici e della fisionomia architettonica degli edifici, delle caratteristiche dell’ambiente naturale, della sensibilità estetica delle popolazioni. Fatto tanto più grave se pensiamo che la Convenzione europea del
paesaggio emanata nel 2000 e assunta dall’Italia nel 2004 con il Codice dei
beni culturali e del paesaggio, ha definito questo – cito testualmente – come
«una determinata parte di territorio così come è percepita dalle popolazioni, il
cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni». Il concetto è stato puntualizzato dal Codice intendendo i valori del
paesaggio come «manifestazione identitaria percepibile».
Il territorio antropizzato, contrassegnato da stratificazioni sociali e caratteri fisici opera dell’uomo, va studiato con riguardo a ogni genere di fonte,
che spesso solo lo studioso del posto è in grado di decodificare, rendendo storicamente intelligibili testimonianze altrimenti destinate a rimanere del tutto
ignorate e incomprese, soprattutto quando sottintendono problemi di più vasta portata e complessità.
Questo implica che allo storico si richiede non solo abilità di paleografo e
diplomatista, capacità di leggere genericamente e semplicemente le carte
d’archivio, ma l’intelligenza storica derivante, come sosteneva Croce, dal lavorare con la testa e – da questo punto di vista in netta controtendenza con
66
443-76.
67
A. TORRE, “La produzione storica dei luoghi”, in Quaderni storici, n. 110, 2002, pp.
L. GAMBI, Una geografia per la storia, cit., p. 168.
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l’orientamento del filosofo abruzzese – appoggiandosi ad altre discipline (sociologia e antropologia in particolare), recependone le logiche di lettura e interpretazione della realtà, nella consapevolezza, che dovrebbe essere sempre
viva, che il lavoro dello storico si giustifica non nella comprensione di un
passato astratto, che sarebbe pura erudizione (anch’essa utile alla storia, ma
pre–storica), bensì in ragione della comprensione del presente, ciò che introduce alla funzione sociale della storia e dello storico.
Alquanto istruttive e utili alla conoscenza del passato, ma anche del presente, perché si tratta di raffigurazioni il cui significato spesso si prolunga
fino a noi, persino al di là delle convenzioni che pure condizionano l’occhio e
la mano dei loro esecutori, sono le testimonianze iconografiche (tanto un affresco quanto una foto)68, sulle quali nel nostro contesto va incoraggiato un
più marcato interesse, ancora troppo tiepido e occasionale. Sotto questo profilo, non si può accettare che lo studio delle manifestazioni artistiche sia campo
esclusivo degli storici dell’arte accademici, troppo spesso preoccupati di questioni estetico–attribuzionistiche, utili certo a inquadrare affreschi, tele, statue, edifici e i loro artefici in correnti, movimenti, etichette stilistiche69, ma
non necessariamente adeguati e sufficienti a leggere situazioni attinenti alla
storia sociale di una comunità. Gli orsomarsesi Francesco Antonio e Giovanni Battista Colimodio (XVII secolo) e i mormannesi Angelo e Genesio Galtieri (XVIII-XIX secolo) sono artisti che attendono di essere studiati e compresi nel loro rapporto con le comunità di appartenenza e con quelle dove ebbero modo di esercitare la loro arte.
I prodotti artistici e i fatti ad essi collegati vanno situati – come sostiene
Geertz70 – in rapporto alle altre forme di attività sociale e non va dimenticato
che il loro significato culturale è sempre una questione locale. In tale prospettiva, occorre scoprire e ricostruire, abbinando analisi stilistica e analisi storica71, i messaggi che la testimonianza visiva intendeva comunicare ai contemporanei e ai posteri. Messaggio sociale o religioso di drammi collettivi, di angosce esistenziali, di devozioni in genere finalizzate alla soluzione di pro68
P. BURKE, Testimoni oculari: il significato storico delle immagini, tr. it., Roma 2002; A.
MIGNEMI, Lo sguardo e l’immagine: la fotografia come documento storico, Torino 2003.
69
Si vedano ad esempio gli inquadramenti proposti da Emilia Zinzi, Maria Pia Di Dario
Guida, Francesco Saverio Mollo, Mirella Mafrici e Ermanno Fava in Calabria, a cura di M.P. DI
DARIO GUIDA, Roma 1983.
70
C. GEERTZ, “Art as a Cultural System”, in Modern Language Notes, n. 91, 1976, p.
1475.
71
S. SETTIS, La “Tempesta” interpretata. Giorgione, i committenti, il soggetto, Torino
1978, pp. 7-14.
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blemi quotidiani che, nelle raffigurazioni, ad esempio, eseguite da ignoti frescanti, pur dotati talvolta di pregevole manualità ma non di eccelse qualità
tecnico–artistiche, costituiscono comunque il motivo più autentico dell’opera
commissionata e realizzata. L’alto Tirreno da questo punto di vista si rivela
un serbatoio non privo di sorprese, grazie a un insperato buono stato di conservazione di tante immagini, sia pure a fronte di tantissime altre più o meno
completamente degradate per i danni del tempo e l’incuria umana.
A questo proposito, voglio citare solo due esempi, rientrati nell’ambito
dei miei interessi storiografici: gli affreschi della cappella di Santa Sofia a
Papasidero e quelli raffiguranti san Leonardo di Noblat a Scalea, Verbicaro e
Grisolia.
Nel primo caso, è singolare che santa Sofia sia stata rappresentata secondo un modello iconografico che, ad un attento esame filologico, rinvia alla
peste del 1656 e che la raffigurazione della Vergine di Costantinopoli in trono del XVII secolo oltre ad essere spia della citata epidemia, segnali un altro
problema: quello della natalità e della nutrizione dei neonati. Al «mito della
procreazione», come lo ha definito Pierre Darmon72, era profondamente sensibile la società pre–industriale, in particolare nei microcontesti socialmente
emarginati ed economicamente depressi, ciò che si desume altresì dalla Madonna con l’albero di Jesse affrescata nella parrocchiale di San Giovanni Battista a Orsomarso, dalla natività di Maria rappresentata nella cappella del
Purgatorio a Mormanno, dalla presumibile nascita del Battista dipinta nella
chiesetta di Sant’Anna a Papasidero73, dall’appellativo di Madonna dello
Spasimo imposto alla titolare del santuario delle Cappelle a Laino. E’ appena
il caso di aggiungere che il tema della natalità, non solo introduce e si affianca a quello delle condizioni economico–sociali e igienico–sanitarie delle popolazioni dell’età preindustriale, ma anche al problema della donna e della
condizione femminile74, un tema che nel nostro contesto, dall’età moderna
alla contemporanea, presenta numerose opportunità di analisi storica.
Nel secondo esempio, la figura di san Leonardo di Noblat – presente a
Scalea in San Nicola in Plateis, a Verbicaro in Santa Maria ad Nives e in una
campana della chiesa parrocchiale, a Grisolia nei brandelli ormai pressoché
indecifrabili di un affresco nel diruto sacello omonimo, a Orsomarso nel tito72
P. DARMON, Le mithe de la procréation à l’âge baroque, Paris 1981 (1^ ed. 1977).
S. NAPOLITANO, “L’angoscia della natalità nella Calabria del XVI-XVIII secolo attraverso alcune testimonianze iconografiche della Valle del Lao”, in Rogerius, V(2002), n.1, pp. 3147.
74
S. NAPOLITANO, “La condizione femminile nella Calabria di antico regime. Procreazione
e maritaggio a Papasidero tra il XVI e il XVIII secolo”, in Daedalus, n.11, 1994-1995.
73
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lo della chiesa a lui dedicata – attesta il dramma delle popolazioni tirreniche
calabresi di fronte agli assalti, le razzie, i rapimenti, le forzate conversioni
all’islamismo perpetrati dai turco–barbareschi, soprattutto nel periodo più critico delle loro scorrerie, il XV-XVII secolo75. Il terrore di queste scorrerie fu
all’origine della devozione per san Leonardo inteso come confractor carcerum e speranza di «quanti so captivi in Barbaria», come verseggia il Colletta,
un rimatore calabrese del Quattrocento.
Gli esempi addotti suggeriscono che alle ricerche di ambito locale è la
lunga durata braudeliana a rivelarsi più confacente a cogliere permanenze,
persistenze, continuità tra passato e presente, se oltre ai casi evidenziati pensiamo a tutto ciò che concerne i modelli sociali e i simboli del mondo rurale,
che protraggono a lungo i loro lasciti.
Più che il tempo unilineare, quindi, alla storia locale si attaglia il tempo
multilineare, che andrebbe applicato con lucidità e determinazione, attesa la
spontanea tendenza degli storici locali a «moltiplicare i tipi di evento» senza
purtroppo la moltiplicazione dei «tipi di durata»76 e che potrebbe tradursi in
un’interessante e illuminante problematizzazione dei processi storici. Una
moltiplicazione di eventi e tempi che può rendere congeniale allo storico locale l’indirizzo della microstoria, la quale, pur non avendo mai elaborato un
proprio statuto metodologico77, permette, mediante il gioco di scala, di analizzare storicamente una vicenda o un contesto in modo lenticolare, conseguendo, attraverso una lettura intensiva delle fonti (thick description), una
visione – già lo si è detto, ma occorre ribadirlo – “totale” non come ingenua
ricostruzione della totalità del passato, ma come ricostruzione articolata di
esso e che si concretizza sia con la metadisciplinarietà, vale a dire con l’uso
di logiche e conoscenze disciplinari diverse, sia con la disponibilità a interpretare in modo nuovo fonti note, sia applicando la filologia storica al territorio. Il risultato di questo modo di procedere potrebbe non essere, alla fine, il
generico “recupero” del passato, ma la sua reviviscenza ancorata alle domande che ci poniamo nel presente.
I casi proposti alla riflessione e le considerazioni or ora svolte sono in realtà una petizione personale a favore della storia culturale, intesa come para75
S. NAPOLITANO, “Turco-barbareschi e devozione leonardiana nell’alto Tirreno cosentino
(XV-XVII secolo)”, in Archivio storico per la Calabria e la Lucania, LXX(2003), pp. 91-112.
76
M. FOUCAULT, Ritornare alla storia, nel vol. dello stesso Il discorso, la storia, la verità.
Interventi 1969-1984, a cura di M. Bertani, Torino 2001, p. 98.
77
G. LEVI, A proposito di microstoria, in P. BURKE, (a cura di) La storiografia contemporanea, Bari 1993, pp. 112-13; J. REVEL, (a cura di), Giochi di scala. La microstoria alla prova
dell’esperienza, tr. it., Roma 2006.
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digma in grado di cogliere, interpretare, misurare l’incidenza di fatti ed eventi
storici sugli atteggiamenti degli uomini in quanto individui e gruppi, così
come all’inverso l’influenza di atteggiamenti individuali e di gruppo sulla
società nell’accezione più ampia e complessa. Penso, infatti, che il paradigma
della storia culturale abbia efficacia sul piano ermeneutico e che possa averla
anche ai fini di una storia che colga il senso delle interrelazioni tra le vicende
interne ed esterne di comunità, regioni, stati. La caratteristica della storia culturale è quella di muoversi in direzione della dimensione ideale e simbolica
dei fatti sociali, verso pratiche e rappresentazioni. Più che alle strutture, essa
è attenta alle destinazioni d’uso, alle logiche che sovrintendono alle strutture
sociali, basandosi sulla teoria della costruzione sociale della realtà.
A dimostrazione di quanto affermo, voglio ritornare sul fenomeno delle
scorrerie turco–barbaresche. Ebbene, esse non si risolvevano solo in danni,
spesso ingenti, alle popolazioni locali e ai loro beni o nella cattura e conversione forzata di cristiani all’islamismo, ma determinavano, con lo scambio
dei prigionieri, anche il fenomeno inverso di musulmani che abbracciavano il
cattolicesimo, nonché a scambi attinenti alla vita economica (per fare un esempio di diretto interesse, si pensi che una imprecisata misura per i liquidi in
uso a Scalea era adottata nel corso del XVI-XVII secolo anche in area maghrebina), a imprestiti linguistici e ad influssi culturali, come la moda del
turbante o quella del moretto o della moretta di cui si circondavano le famiglie nobili per soddisfare il gusto dell’esotico e di cui testimoniano alcuni dipinti di Paolo Veronese, Lorenzo Lotto, Pietro Longhi.
In tema di storia culturale, vorrei spendere qualche parola su un argomento, che, per i suoi riflessi sugli assetti sociali contemporanei delle nostre comunità e sui modelli culturali che le improntano, è indispensabile studiare e
capire: mi riferisco alle vicende dei patronati religiosi, che non nascevano per
devozionalità pura e semplice, né solo per volontà della Chiesa. Essi erano
quasi sempre il risultato di conflitti sociali e di compromessi tra Chiesa e istituzioni locali, tra famiglie, ceti e gruppi cittadini. Come ha sintetizzato Marino Niola78, «il patronato appare un esempio cruciale della trama porosamente
viva della storia di un popolo per il quale la religiosità diviene al tempo stesso principio territoriale, politico–sociale e orientamento delle coscienze: modello e polo ordinatore dello spazio fisico, sociale e interiore. Inoltre, proprio
in forza della propria territorialità, il patronato costituisce un potente dispositivo identitario definendo la carta delle appartenenze, delle esclusioni e delle
contrapposizioni, riflettendo dunque forma e confini del paese».
78
M. NIOLA, I Santi patroni, Bologna 2007, p.8.
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Concetti che ho verificato a Papasidero analizzando il passaggio dal patronato di San Sebastiano a quello di San Rocco, che nel corso del XVII secolo si tenta si soppiantare proponendo il patronato della Madonna di Costantinopoli e che si risolve col compatronato mariano e crocchiano: l’uno sostenuto dalla Chiesa appoggiandosi al patriziato locale, l’altro profondamente
voluto dal ceto popolare, ma ovviamente con adesioni anche nel campo opposto. Di quanti di questi conflitti i nostri paesi sono ancora oggi espressione
inconsapevole, portatori sani, per usare un linguaggio medico, con incidenza
sull’ethos e sulle relazioni sociali intra e persino extra–comunitarie? Questo
lo sostengo pensando all’esempio “buono” appena riferito, ma vorrei citare
anche un esempio “cattivo”: qual è il reale rapporto tra la devozione per la
Madonna di Polsi a San Luca e il potere della ‘ndrangheta? La verità è – come avverte Torre – che le pratiche devote non sono solo la risultante di generiche mentalità e sensibilità collettive, ma fondano anche un «sistema normativo»79, che può essere anteposto a quello istituzionale, religioso e politico
con conseguenze di enorme portata.
Come si vede, la rilevanza del paradigma culturale apre prospettive insperate di ricerca e comprensione dell’agire dell’uomo, supera e sfata l’idea della
storia come campo di sole contrapposizioni, scontri, incomunicabilità: una
concezione che fossilizza l’immagine della realtà ed è fonte di ostinati pregiudizi. La visione culturale dei processi storici non si sofferma solo su contrasti, conflitti, dissensi, su tutte le dissonanze di una storiografia tradizionale
che disegna la storia come perenne campo di battaglia. Essa è utile a mettere
in relazione le situazioni storiche, ad attivare processi di interazione tra culture, più che di generiche e controverse integrazioni, a evidenziare contatti e
reciprocità di vicende ed esperienze, a ricostruire e ricomporre le tessere non
solo di un’umanità che lotta e guerreggia, ma di un’umanità che dialoga. Nonostante tutto.
La storia di città come storia civica è la cifra caratteristica dei lavori che
abbiamo segnalato. Un indirizzo che, com’è ovvio, non può essere perseguito
dagli studiosi locali senza la passione storica, motivo predominante
nell’incoraggiare il loro interesse. Motivo predominante ma non esclusivo,
perché l’interesse per la propria comunità si sostanzia anche del senso della
koinè geografica e antropica, la quale, però, quando è intesa nel senso di entità a sé stante, rischia di essere percepita come esclusiva e immune da contaminazioni esterne, di essere proposta come mito e archetipo.
79
A. TORRE, Il consumo di devozioni. Religione e comunità nelle campagne dell’Ancien
Régime, Venezia 1995, p. XII.
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
L’impegno degli storici locali non può essere rivolto a definire l’identità
del proprio gruppo sociale come cristallizzata certificazione ontologica, né ad
assimilare storia e memoria nel senso di riproporre il passato alla luce di
schemi ritualizzati non cognitivi, dimentichi che la memoria, appartenendo al
“vissuto”, corre sempre il rischio di esasperare la soggettività comunitaria e
di cadere nell’ipertrofismo. L’impegno dello storico è, sì, di attivare il senso
dell’“appartenenza”, ma attraverso conoscenze che rendano individui e comunità capaci di interrelate presente e passato ogliendone i fili che li intrecciano spesso in modo inconsapevole.
Aspirazione della storia civica dovrebbe essere la concezione
dell’individuo e della comunità come «punti di intersezione di insiemi diversi»80, ossia la visione “inclusiva” dell’agire dell’uomo elevata a coscienza
della cittadinanza individuale e del patrimonio culturale81, che non ci appartiene in modo esclusivo, ma in interazione con gli altri, con l’esterno.
In questo senso, è auspicabile che la ricerca locale non si “localizzi”, ossia non risolva la sua potenzialità e prospettiva di analisi a livello micro o,
peggio, minimale, credendo erroneamente che è nel particolare l’origine e la
fine di tutto, oppure concependo l’ambito locale come subordinato, in modo
totalmente passivo, al contesto generale. Si tratta in entrambi i casi, se non
adeguatamente motivati, di errori di prospettiva analoghi agli effetti dello
scivolamento nell’ancronismo, palese quando lo storico è proclive, con semplicistiche, anche se talvolta suggestive analogie, a trasferire acriticamente il
passato nel presente, o quando enfatizza e mitizza il passato rispetto al presente, o quando mistifica il passato in difesa di un’identità locale circonfusa
dell’aura della verginità storica.
Da qui la considerazione che nel lavoro storiografico non ci si può sottomettere passivamente all’archivio. Bisogna essere adeguatamente distaccati
da esso, per evitare di proporre il suo materiale nella logica positivistica82 dei
fatti così come sono stati (Ranke), dimentichi dell’intenzionalità, e quindi
della non neutralità della fonte e dell’archivio. Esibire documenti fuori da
qualsiasi prospettiva storica, non solo alimenta l’idea fallace dell’oggettività
delle fonti, ma induce alla ricostruzione cronologica, tassonomica, ecfrastica,
genericamente corografica di fatti, eventi e personaggi. Le fonti utilizzate in
questa chiave, pur essendo un indubbio contributo alla storia, rimangono pur
80
Carlo Ginzburg in un’intervista a “l’Espresso” del 31 luglio 2003; nello stesso senso A.
PLACANICA, “L’identità meridionale”, in Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali, numero
monografico su Luoghi e identità, n. 32, 1998, p. 153.
81
S. SETTIS, L’Italia spa. L’assalto al patrimonio culturale, Torino 2003, p. 59.
82
A. FARGE, Il piacere dell’archivio, tr. it., Verona 1991, pp. 67-68.
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sempre pre–storiche, col rischio di essere anche antistoriche se svincolate da
una critica adeguata.
Carlo Ginzburg ha di recente ricordato che le fonti, le testimonianze del
passato, «non sono né finestre spalancate, come credono i positivisti, né muri
che ostruiscono lo sguardo come credono gli scettici»83. Non per questo i dati
archivistici vanno ignorati, falsati, male interpretati: lo storico ha bisogno degli archivi, ma gli archivi non esauriscono la storia. D’altronde, se il materiale documentario non può ridursi a esclusivo fatto linguistico84, l’analisi del
linguaggio è comunque fondamentale, poiché frutto di costruzioni fortemente
formalizzate.
Queste considerazioni non vogliono essere la petizione a favore di una
storia ideologicamente o politicamente orientata. Segnalano soltanto la possibilità che passione storica e storia civica possano convergere in direzione del
“civis” e della “civitas”, ossia in direzione di un ethos pubblico.
Per ottenere qualche speranza di successo in questo senso, occorre superare
quella che a mio avviso è la lacuna più marcata che balza evidente nella panoramica storiografica tratteggiata per il contesto preso in esame: la mancanza di comunicazione tra i cultori della disciplina. Ammetto che in questi ultimi anni qualcosa sia cambiato, ma è troppo poco e non ancora consolidata l’abitudine
all’informazione sulla produzione storica e la discussione su di essa, essendo nettamente prevalente la chiusura alla dialettica e allo scambio di idee.
Una delle conseguenze pratiche di questa mancanza o insufficienza di comunicazione e informazione consiste nella scarsa propensione di molti cultori di storia municipale ad aggiornarsi sullo stato degli studi. La bibliografia di riferimento
è molto spesso ferma a vecchie ricerche non confrontate con gli esiti recenti, anche solo per opporre un commento critico. E’ giusto tenere conto della tradizione
storiografica, ma è riduttivo farla assurgere a indiscussa auctoritas: un atteggiamento sfavorevole all’avanzamento delle conoscenze, soprattutto quando questa
prassi riduttiva e anche controproducente, più che dipendere da carenza di supporti bibliografici, è volontariamente perseguita.
E’ necessario promuovere conferenze e presentazioni–dibattito sia di testi
storici di carattere generale sulla Calabria e il Mezzogiorno, il cui contenuto
può essere utilmente confrontato con situazioni particolari, sia di ricerche relative alla nostra zona, soprattutto se di studiosi locali. In modo analogo, sarebbe particolarmente fecondo organizzare visite guidate nei centri dell’alto
Tirreno, estendendole ad altri luoghi della Calabria, della confinante Basilica83
84
C. GINZBURG, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano 2000, pp. 11-13, 47-49.
R .J. EVANS, In difesa della storia, tr. it., Palermo 2001, pp. 100-01.
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ta e della Campania. Si tratterebbe di altrettante occasioni – fruibili ovviamente anche da un pubblico di semplici appassionati e curiosi – di accrescimento delle conoscenze e di comparazione di contesti apparentemente simili,
ma di fatto, e non raramente, contrassegnati da scarti e dicotomie tali da far
approdare a un’«ermeneutica dell’altro»85 e a una più articolata comprensione
della storia.
A tutto questo, dovrebbero essere preliminari incontri conoscitivi tra i cultori di storia dell’alto Tirreno, allargati gradualmente a storici di altre località,
anche extra–regionali e quando possibile a storici di professione delle Università meridionali. Se ne vedrebbero i frutti, secondo il mio intendimento,
non solo nella qualità degli studi, ma nell’affinamento dei metodi di ricerca,
nell’ampliamento dei temi di indagine, nell’approccio a fonti e chiavi di lettura alternativi. Un orientamento che potrebbe anche cambiare inveterate abitudini: lavorare in un disordinato archivio parrocchiale, piuttosto che in un ordinato archivio di Stato; spingersi in paesi interni, invece che muoversi lungo
percorsi comodi e collaudati; individuare documenti inediti ma significativi
custoditi gelosamente da privati che ne ignorano l’importanza; avvicinare interlocutori spesso validi, ma appartati nei loro paesi e magari noti solo a livello specialistico.
Succede che si viva a distanza di pochi chilometri gli uni dagli altri e ci si
ignori a vicenda, come se, ad esempio, Papasidero rispetto a Scalea, Orsomarso rispetto a Mormanno, si trovassero su pianeti diversi: un’incomunicabilità che, purtroppo e forse più di quanto non sembri, sottintende una malcelata dose di atavici pregiudizi e reciproche diffidenze, con il loro humus
nella rivendicazione di primazie e gerarchie campanilistiche. Il risultato è che
non si conoscono i rispettivi interessi di ricerca, non si confrontano le esperienze, non si realizzano sinergie, disperdendo – magari in modo irreversibile
– conoscenze, saperi, cultura. “Ignoranza” acuita anche dal non poter disporre
di biblioteche di circondario di una certa consistenza libraria, destinate non
solo a luoghi di consultazione e di studio, ma a punti di incontro e dibattito.
E’ utopistico immaginare in tale funzione il Centro studi Attilio Pepe (trasformato magari in fondazione), esigendo pertanto verso di esso una maggiore e più qualificata attenzione da parte dei soci e dell’Amministrazione comunale?
In termini più elementari, occorre, da un lato, allargare al di là del singolo
studioso il bacino di conoscenze storiche, superando quella che rimane ancora adesso, nonostante tutto, una piaga tenace della società meridionale: la
85
M. DE CERTEAU, La scrittura dell’altro, tr. it., Milano 2005, pp. 42-45.
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chiusura della socializzazione civile e della vita culturale nella cerchia del
“paese”, assunto come centro del mondo e luogo dove far primeggiare senza
confronto le proprie idee. Dall’altro lato, bisogna tenere fermo che, se la storia è fatta di assenze86 (gli archivi e il territorio non conservano purtroppo tutto il passato, ciò che del resto rientra nella logica delle cose!), una realtà fragile e travagliata come quella calabrese non può permettersi l’assenza della
storia, né «vuoti di memoria»87, così come non può prescindere dalla collaborazione tra studiosi di una stessa città e di centri diversi, tra di loro e quelli di
area accademica, individuando temi comuni di ricerca e argomenti su cui
confrontare conoscenze, esperienze, competenze.
86
87
A. FARGE, Il piacere dell’archivio, cit., p. 52.
S. PIVATO, Vuoti di memoria. Usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Bari
2007.
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
MANUELA STRANGES
SUI CONCETTI DI POVERTÀ ED ESCLUSIONE SOCIALE:
UNA RASSEGNA BIBLIOGRAFICA
“Non c’è una corretta, scientifica,
condivisa definizione perché la povertà è inevitabilmente un concetto
politico, e, di conseguenza, un concetto intrinsecamente dibattuto”
Alcock, 2003
Introduzione
Nonostante abbia da sempre fatto parte della vita sociale ed economica
dei diversi paesi, la povertà è un tema sempre attuale, ancor di più oggi in ragione della persistenza del fenomeno anche in nazioni ricche. Esistono diverse definizioni di povertà, quasi tutti riconducibili a specifiche dicotomie: uni
o multidimensionale, relativa o assoluta, soggettiva o oggettiva, transitoria o
cronica, latente o manifesta, ecc. Tali definizioni, se utili allo scopo di cogliere alcuni caratteri del fenomeno e mettere a punto misure e grandezze, hanno
però il limite di non riuscire a cogliere la dinamicità e la fluidità del concetto
di povertà. La povertà non è, infatti, un fenomeno statico, ma assume continuamente nuove forme, caratteristiche, gradi di intensità, rifuggendo alle categorizzazioni.
Emergono, oggi, forme di povertà differenti da quelle manifestatesi in
passato, non più legate solo all’aspetto economico–monetario, ma connesse a
numerose altre dimensioni che definiscono il grado di sviluppo umano
dell’individuo, determinandone l’inclusione o esclusione dalla società in cui
vive. Alcuni studiosi parlano di nuove povertà, distinguendole da quelle vecchie, connotate esclusivamente dalla carenza di reddito e mezzi materiali.
L’aggettivo nuove sembra, però, sottendere ad un superamento delle vecchie
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
forme di povertà, che invece ancora esistono e, anzi, in taluni contesti si manifestano in forma maggiormente acuta. Per definire le forme di povertà che
si manifestano oggi viene ampiamente utilizzato il concetto di esclusione sociale che, non essendo stato ancora chiaramente definito (come si vedrà in
seguito dall’analisi della pluralità di definizioni che ne sono state fornite),
finisce per comprendere diverse forme di difficoltà che l’individuo può sperimentare nel corso della sua esistenza – disagio, marginalità, povertà, precarietà, instabilità, vulnerabilità, … – in un mix più o meno intenso e disperato
delle diverse condizioni.
L’obiettivo del presente contributo è quello di tracciare una breve (e certamente non esaustiva) storia dei concetti di povertà ed esclusione sociale, delineandone un quadro definitorio attraverso una revisione della bibliografia internazionale in materia e l’analisi degli studi compiuti nei diversi paesi. La premessa
fondamentale da cui parte il lavoro è che solo la corretta definizione del fenomeno povertà ci consente di misurarla con gli strumenti metodologici più adeguati e,
quindi, di mettere a punto strategie volte alla sua eliminazione.
L’evoluzione del concetto di povertà
Uno dei problemi principali che bisogna affrontare nell’ambito dello studio della povertà è sicuramente quello della sua definizione, in quanto la scelta di quali dimensioni analizzare riflette una serie di fondamentali assunzioni
in relazione alla sua natura e alle sue cause, e finisce, a sua volta, per influenzare e definire le metodologie di misurazione da adottare. Il termine povertà
deriva dal latino pauperitas, che a sua volta deriva dal termine paucus (poco)
e si connota, quindi, come la scarsità di risorse atte a soddisfare i bisogni
dell’individuo. La sua definizione concettuale appare spesso compito molto
più arduo che non la sua individuazione: a tal proposito nel 1971 Martin Brofenbenner si espresse affermando che la povertà può essere paragonata ad una
brutta persona, che è “più facile da riconoscere che da descrivere” (p. 38).
Appare, dunque, chiaro che la prima domanda cui si deve rispondere è proprio “che cos’è la povertà?”. Una volta fornita tale definizione si potrà, infatti, procedere all’individuazione di misure adeguate per la sua valutazione
quantitativa e alla messa a punto di strumenti di analisi mirati.
La prime definizioni di povertà erano legate soprattutto alla mancanza di
reddito e di beni materiali: nel 1901 Seebhom Rowntree, il cui lavoro è considerato il primo studio di carattere scientifico sulla povertà, definì povere
quelle famiglie la cui indisponibilità di reddito era tale da non garantire la
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
“pura efficienza fisica”. In verità vi erano già stati degli studi sulla povertà,
come quello di Charles Booth del 1887, nel quale l’autore tentò una stima
della povertà nella città di Londra, correggendo al ribasso le idee del tempo
secondo cui un terzo della popolazione londinese viveva in situazioni di povertà (pervenendo, invece, ad un valore del 5%) e facendo anche ad una classificazione della popolazione in otto classi sociali, quattro delle quali si riferivano a persone in stato di povertà (cfr. Parisi, 2004, pp. 7-8). La definizione
di povertà elaborata da Rowntree era di tipo assoluto: egli infatti calcolò una
linea di povertà, espressa come ammontare monetario minimo richiesto per
avere un’alimentazione adeguata al mantenimento dell’efficienza fisica e affrontare le spese basilari per l’abbigliamento e l’abitazione. Rowntree effettuò anche una distinzione tra povertà primaria e secondaria, riferendosi col
primo termine a quelle famiglie che vivevano sotto la soglia di povertà da lui
stimata, e col secondo a quelle famiglie o individui che, pur essendo al di sopra di questa soglia, continuavano comunque a vivere in situazioni di povertà.
La definizione elaborata da Rowntree, legata solo alla mancanza dei mezzi necessari per la sopravvivenza, appare poco attuale oggi, come sottolinea
De Bartolo (2001, p.103): “voler applicare questa definizione alla società di
oggi non permetterebbe di cogliere l’attualità del fenomeno: infatti oggi la
povertà non è soltanto la mancanza di cibo ma è legata anche ad altri fattori.” Rowntree, che seguì i passi di Booth, adottando però una differente metodologia (Ruggeri Laderchi et al., 2003), quella dell’intervista, pervenne ad
una quantificazione dei poveri nell’area di York nella misura del 30% della
popolazione.
Negli studi che si sono susseguiti nel XX secolo ha preso piede la visione
della povertà come fenomeno relativo, la cui manifestazione (e, di conseguenza, la cui analisi) è fortemente connessa alla situazione sociale ed economica del paese di riferimento: tra i primi studi in questa direzione possiamo citare quelli economici di Townsend (1974; 1979) e Towsend e Abel–
Smith (1965), e quelli più sociologici di Stouffer et al. (1949) e Runciman
(1966). In particolare Townsend, nei suoi studi, parla di povertà relativa, legandone il concetto all’organizzazione sociale complessiva in termini di redistribuzione delle risorse e di condizioni di vita (DE BARTOLO, 2001, p. 103).
Le definizioni successive di povertà avranno tutte la medesima considerazione di fondo in merito alla sua relatività. Nel 1984 il Consiglio Europeo dei
Ministri definì i poveri come “[…] le persone le cui risorse (materiali, culturali, sociali) sono così limitate da escluderle dal minimo accettabile stile di
vita dello Stato Membro nel quale essi vivono”.
147
Daedalus 2007
RASSEGNE/DISCUSSIONI
Uno dei principali sostenitori dell’abbandono dell’equivalenza completa
tra povertà e basso reddito (pur riconoscendo che comunque il reddito ha un
ruolo nella determinazione dei livelli di povertà degli individui e delle famiglie) fu l’economista indiano Amartya K. Sen (1984), il quale sottolinea come “[…] essere poveri in una società ricca è già di per sé un handicap in
termini di capacità […]. La deprivazione relativa nello spazio dei redditi può
implicare una deprivazione assoluta nello spazio delle capacità. In un paese
che è in generale ricco, può essere necessario un reddito maggiore per comprare merci sufficienti ad acquisire le stesse funzioni sociali, come «apparire
in pubblico senza vergogna». Lo stesso può dirsi per la capacità di «prendere
parte alla vita della comunità»”. L’attenzione ad una visione più ampia del
benessere, che non fosse legata esclusivamente al reddito era già presente nel
pensiero di alcuni padri delle scienze economiche, da Adam Smith a Karl
Marx (ATKINSON, 1975), passando per Thomas Malthus e David Ricardo.
Smith, ad esempio, già nel 1776 parlando di povertà si espresse con queste
parole: “[…] una camicia di tela, non è rigorosamente parlando, necessaria
all’esistenza, ma attualmente, nella maggior parte d’Europa, un giornaliero
rispettabile si vergognerebbe di apparire in pubblico senza una camicia di
tela; la sua mancanza denoterebbe quel disgraziato grado di povertà cui si
presume che nessuno possa arrivare senza una condotta estremamente cattiva […]”. Tralasciando il giudizio di merito che Smith esprime nella parte
conclusiva di questo suo pensiero, possiamo comunque ravvisare una definizione (prototipale) di povertà relativa, che ne lega la manifestazione al contesto di riferimento.
Negli anni successivi, poi, il dibattito economico e l’attenzione degli studiosi si spostarono sui tassi di crescita e sui problemi di contabilità nazionale,
oscurando la prospettiva ampia dello sviluppo che si era già manifestata.
L’idea di fondo che guidava gli studiosi del tempo era che la crescita del PIL
complessivo e del PIL procapite avrebbero avuto effetti positivi su tutta la
popolazione, in termini di aumento dell’occupazione, di maggiori opportunità
economiche e, di conseguenza, di innalzamento degli standard di vita e di riduzione della povertà e delle disuguaglianze: tale meccanismo è conosciuto il
letteratura con il termine di Trickle Down Mechanism e suppone che i benefici della crescita finiscono per sgocciolare anche su coloro che stanno al di
sotto e che non hanno partecipato in prima persona la processo di crescita
stesso. L’osservazione dei dati statistici rilevati mostrò, però, che ciò non si
era realizzato nel concreto: negli anni 50 e 60 ci si rese, infatti, conto che alla
crescita del PIL che si stava realizzando nei paesi in via di sviluppo non cor148
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
rispondeva una parallela diminuzione della povertà e un’affermazione dello
sviluppo umano.
Iniziò, allora, a profilarsi con maggiore forza l’idea che il reddito non fosse un indicatore soddisfacente del grado di sviluppo di una popolazione. Fino
ad allora solo sporadiche (e, in verità, inascoltate) voci si levarono in contrasto alla visione che la crescita economica si sarebbe tradotta in maggiore sviluppo e riduzione della povertà. Ad esempio, già a partire dagli anni 50,
l’economista liberale Viner (1953), in solitudine pressoché totale (se si esclude il sostegno di Bauer, 1956, 1976), denunciò quelli che riteneva degli atti
immorali: parlando di insufficienza della crescita, l’economista si soffermò
sugli aiuti indiscriminati, sottolineando come questi non fossero esplicitamente rivolti all’abolizione della povertà (VINER, 1968, pp. 781-801).
L’economista pakistano Mahbub ul Haq, ispiratore e ideatore dei Rapporti sullo sviluppo umano, scrisse nel 1971: “Ci avevano insegnato ad occuparci solo del prodotto interno lordo perché poi quest’ultimo si sarebbe preso cura della povertà. Ribaltiamo questa opinione, occupiamoci della povertà perché ciò, a sua volta, si prenderà cura del prodotto interno lordo. In altri termini, preoccupiamoci del contenuto del prodotto lordo, ancor più del
suo tasso di incremento.” (UNDP, 1990). Iniziava a delinearsi con forza il divorzio tra gli economisti utilitaristi, le cui analisi dei livelli di sviluppo dei
diversi paesi si basavano solo sul reddito pro capite, e i tanti studiosi che palesavano la necessità di un’analisi multifattoriale.
Nel 1973 Johnson parlò di povertà come di situazione di inaccettabili privazioni a livello sociale, rimandando, dunque, ad una concezione relativa in
cui la situazione dei poveri e il loro tenore di vita non è misurato in maniera
assoluta, ma con riferimento alla situazione ed agli standard della società di
appartenenza. Si tratta, dunque, di capire quali sia l’ammontare di reddito necessario per essere socialmente integrati: tale livello può essere indipendente
dall’ammontare necessario per soddisfare certi bisogni, ma piuttosto è più
dipendente dal livello d’ineguaglianza della società (Livraghi, 1999, p. 4). In
merito a ciò Sen (1992) sottolinea come “[…] il grado di adeguatezza dei
mezzi economici non può essere giudicato indipendentemente dalle effettive
capacità di conversione dei redditi e delle risorse in capacità di funzionare
[…]” (p. 156), e come “[…] nello spazio del reddito, il concetto rilevante di
povertà deve essere basato sull'inadeguatezza (a generare livelli minimi accettabili di capacità), piuttosto che sulla scarsezza (indipendentemente dalle
caratteristiche individuali) […]” (p. 157). Quindi il metro di misura della
povertà non è il reddito di un individuo, ma lo sviluppo delle sue capacità in
relazione al contesto in cui vive.
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Nel Rapporto 1997 della Commissione di Indagine sulla Povertà e
sull’Emarginazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri si legge: “Emerge una realtà del disagio individuale e di gruppi a molte, e diverse, dimensioni: le disuguaglianze dei redditi e dei consumi; l’articolazione delle
situazioni di emarginazione nel territorio, nelle grandi città e nelle campagne; l’aggravarsi della mancata soddisfazione di taluni bisogni fondamentali
come la casa, la salute, l’occupazione, l’istruzione, le disparità intergenerazionali; le nuove povertà in rapporto alla cultura e all’accesso alle nuove
tecnologie. Questi aspetti, vecchi e nuovi, richiedono un adeguamento dei
quadri analitici e concettuali, ed un arricchimento della gamma di indicatori
disponibili per fare il punto sull’evoluzione della povertà e dell’emarginazione” (1998). Questa definizione ci rimanda al concetto di povertà multidimensionale (che sarà analizzato in seguito), in cui la povertà non più legata solo ad una condizione di privazione economica, ma ad una serie di privazioni di carattere sociale, culturale, ambientale, ecc.
Il Rapporto Eurispes 2005 sulla situazione dell’Italia così si esprime in relazione alla povertà nel nostro paese, attribuendole la connotazione di fenomeno “fluttuante”, e mettendone in evidenza tutti i caratteri di multidimensionalità di cui si accennava: “La povertà italiana ha sempre avuto un carattere complesso e multidimensionale. Infatti, alcune situazioni di tipo endemico fanno riferimento a catene causali come la numerosità del nucleo familiare, una scarsa qualificazione culturale oppure la perdita del lavoro da parte
del capofamiglia, il risiedere in aree del Paese sprovviste di determinati servizi di assistenza e di tutela dell’infanzia, la presenza di anziani con problemi
di autosufficienza, l’erosione del potere d’acquisto dei redditi.” Quindi il
Rapporto dell’Eurispes rileva come esistano nuove forme di povertà che si
slegano dal concetto tradizionale di privazione di reddito, assumendo connotazioni e caratteri del tutto peculiari che coinvolgono gruppi diversi di popolazione: “La marginalizzazione di strati sempre più ampi della popolazione,
la riproduzione di modalità nuove di esclusione economica, la manifestazione di forme di “povertà fluttuante” non si traducono soltanto in situazioni di
carenza materiale ed economica.” (pp. 11-12)
Nascita e sviluppo del concetto di esclusione sociale
Il concetto di esclusione sociale è stato introdotto nella letteratura scientifica a partire dagli anni ’70, in considerazione dell’impossibilità di misurare i
nuovi volti della povertà occidentale con le grandezze tradizionalmente ap150
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plicate. L’esclusione sociale si configura oggi come un fenomeno fortemente
radicato nella società attuale, “[…] tale da investire e talvolta compromettere
numerosi aspetti comportamentali nel rapporto tra il cittadino e la società
stessa in cui vive […]” (Capacci e Castagnaro, 2003, p. 1). Il primo uso del
termine “esclusione sociale” per descrivere i processi di marginalizzazione e
deprivazione che emergono nei paesi sviluppati, viene fatto risalire al 1974 e
attribuito a Lenoir, segretario di stato francese per l’Azione Sociale (Ruggeri
Laderchi et al, 2003, p. 20). Tale concetto venne ben presto trasferito dal dibattito strettamente politico a quello accademico e scientifico, dando il via ad
una serie di riflessioni sulla natura dell’esclusione sociale, ma anche sulle sue
possibilità di misurazione.
A livello europeo esiste oggi una notevole attenzione su questi temi: nel
1995 l’Unione Europea definì l’esclusione sociale come un processo attraverso cui gli individui o i gruppi sono completamente o parzialmente esclusi dalla piena partecipazione nella società in cui vivono (European Foundation,
1995), mentre nel 2002, Dragana Avramov, in una pubblicazione del Consiglio Europeo, definì l’esclusione sociale come la risultante dell’accumulazione di numerosi handicap sociali, che porta, quindi, ad una condizione di
deprivazione. Egli aggiunge, inoltre, come gli individui sperimentino
l’esclusione sociale sia da un punto di vista oggettivo (deprivazione), sia da
un punto di vista soggettivo (insoddisfazione), e come questa si manifesti in
molti dei più importanti “domini” dell’attività umana, dall’istruzione al lavoro, dalla partecipazione alla comunicazione, dal consumo di beni e servizi al
tempo libero (Avramov, 2002, p. 87).
Gli aspetti dell’esclusione connessi alla vita sociale, economica e culturale di ogni individuo sono estremamente numerosi, e questo determina problemi di identificazione, essendo il fenomeno dell’esclusione il peggio definito e più difficile da interpretare dei concetti di deprivazione (Ruggeri Laderchi et al. 2003, p.22), e difficoltà nell’effettuare una misurazione adeguata
con una metodologia ad hoc (Capacci e Castagnaro, 2003, p. 1). Gli approcci
di misura devono necessariamente essere multidimensionali, perché multidimensionale è il fenomeno. Nei primi anni 90 Bouget e Nogues (1993) hanno
individuato ben 22 termini utilizzati per descrivere il fenomeno
dell’esclusione all’interno di diverse ricerche e studi, a riprova del fatto che
non esiste un accordo concettuale o di definizione su questo aspetto. Molti
autori (Atkinson, 1998; Room, 1999; Micklewright, 2002) concordano sulle
caratteristiche principali dell’esclusione sociale, ossia la relatività, la dinamicità e la multidimensionalità, mentre per quanto riguarda le specifiche dimen151
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
sioni da prendere in considerazione nella definizione di un indicatore di esclusione sociale c’è ancora un certo disaccordo tra gli studiosi.
Una necessaria considerazione in relazione a questo approccio allo studio
della povertà è che esso risulta più adatto a studiare il fenomeno nei paesi sviluppati, che non in quelli in via di sviluppo. Per questi ultimi possono essere
validamente impiegati gli indicatori di sviluppo umano e di privazione umana
(come quello presentati annualmente dalle Nazioni Unite). Il concetto di esclusione sociale, del resto, si presta bene a descrivere la situazione di paesi
che hanno comunque raggiunto un certo grado di sviluppo socio–economico,
mentre appare inadeguato e poco significativo per l’applicazione in contesti
che sperimentano ancora povertà estreme.
Si pensi, ad esempio, al fatto che una delle dimensioni dell’esclusione sociale è la disoccupazione, che non ha alcun senso misurare in contesti di economie arretrate, dove permangono strutture e forme di lavoro premoderne. La
misurazione in termini di privazione di mezzi materiali, istruzione e longevità
(come accade per l’IPU delle Nazioni Unite) sembra essere, nei contesti non
sviluppati, maggiormente significativa. Ciononostante ci sono stati dei tentativi di applicazione delle misure di esclusione sociale ai paesi non sviluppati:
Nayak nel 1994 in India; Rodgers et al. nel 1995 per la Tanzania, il Camerun
e la Tailandia; Bedoui e Gouia nel 1996 in Tunisia; Figueroa, Altamirano e
Sulmont nel 1996 in Peru; Appasamy et al. nel 1996 in India; Cartaya et al.
nel 1997 in Venezuela; Mearns e Sinha nel 1999 in India. Alcuni di questi
lavori empirici, senza volerne mettere in dubbio la validità, sembrano però
sganciati dal contesto di riferimento (Ruggeri Laderchi et al., 2003, p. 22): le
scelte in relazione alle dimensioni analizzate non appaiono sufficientemente
giustificate, né vi sono riferimenti espliciti alla situazione normale della società di riferimento (il commento degli autori si riferisce ai lavori di Rodgers
et al., 1995; Bedoui e Gouia, 1996; Appasamy, 1996; Cartaya, 1997). Uno
studio realizzato da Ruhi Saith nel 2001 ripercorre brevemente le ricerche
sull’esclusione sociale effettuate nei paesi sviluppati e in quelli in via di sviluppo, realizzando anche una distinzione tra le varie forme di esclusione sociale (dal Welfare State, dalla sicurezza sociale, in relazione alla disoccupazione, ecc.).
Molto numerosi sono stati gli studi compiuti nei paesi industrializzati, la
maggior parte dei quali si sono concentrati sul ruolo svolto dalla disoccupazione come punto di partenza per la definizione e la misurazione
dell’esclusione sociale (Saith, 2001, p. 4). Tra questi: Whelan e Whelan
(1995); Paugam (1995) sulla Francia e Paugam (1996) su vari paesi
dell’Europa; Burchardt et al. (1999) sulla Gran Bretagna; Jonsson (1999) che
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Daedalus 2007
RASSEGNE/DISCUSSIONI
si è concentrato sull’analisi dell’esclusione sociale per genere; Mastropietro
(2002) che, nell’ambito del progetto “Action Research on Social Exclusion
and Poverty” del Cerfe, ha realizzato delle linee guida sulla povertà e
l’esclusione sociale a Roma, Parigi e Londra.
Povertà ed esclusione sociale: due facce della stessa medaglia?
Il nodo teorico relativo alla distinzione tra povertà ed esclusione sociale
rimane ancora da sciogliere. Il dibattito sull’ambivalenza o meno dei due
concetti è ancora estremamente articolato all’interno dei contesti scientifici
ed accademici. Secondo alcuni “non è chiaro se l’esclusione sociale ‘comprenda’ la povertà o viceversa, oppure se si tratta, invece, di due nozioni collegate ma disgiunte” (Cerfe, 1999, p. 11), mentre secondo altri il concetto di
esclusione sociale va sostituito a quello di povertà (Negri, 1995, pp. 5-22),
cercando di prendere in considerazione non solo i tratti economici del fenomeno della povertà, ma anche dando conto dei diversi meccanismi che sottostanno al processo di impoverimento (Saraceno, 1993, pp. 23-26). Alcuni
studiosi considerano il concetto di esclusione sociale come un’ulteriore specificazione del concetto di povertà, altri invece ritengono che sia un suo “allargamento” a più dimensioni, diverse da quella strettamente economica.
La questione, dunque, ridotta ai minimi termini, consiste nel determinare
se l’esclusione sociale e la povertà siano da considerarsi un unico fenomeno
oppure due fenomeni distinti, e, in quest’ultimo caso, quali siano le reciproche relazioni tra essi (sovrapposizione, inclusione, ecc.) (Cerfe, 1999, p. 49).
Molti studiosi focalizzano l’attenzione sull’opportunità di utilizzare i due
concetti in contesti differenti: il concetto di povertà, come già accennato, andrebbe utilizzato soprattutto nei contesti sottosviluppati, mentre per i contesti
sviluppati andrebbe più propriamente utilizzato quello di esclusione sociale
(Negri, 1995; Capacci e Castagnaro, 2003). Per quanto riguarda la nascita dei
due concetti Walker (1995, pp. 102-128) sostiene che la povertà sia di origine
anglosassone, mentre il concetto di esclusione sociale abbia un’origine francese. Secondo l’impostazione teorica di Walker, sulla base del concetto di
povertà, la società è vista come un insieme di individui in competizione economica tra di loro, che porta alcuni ad avere redditi più elevati rispetto alle
proprie necessità, mentre altri rischiano di non avere l’essenziale. Basando
l’analisi sul concetto di esclusione sociale, invece, la società è vista come un
insieme di individui che condividono un ordine morale che comporta diritti e
doveri, e l’esclusione sociale si sostanzia nell’allontanamento da tale ordine
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Daedalus 2007
RASSEGNE/DISCUSSIONI
morale. Le cause di questo allontanamento possono essere molteplici, ivi
compresa la carenza di reddito.
In realtà la relazione tra povertà ed esclusione sociale, nonostante i numerosi tentativi teorici e concettuali, non è ancora chiaramente definita e le due
nozioni sono spesso combinate insieme nel definire il quadro complessivo di
deprivazione di una determinata area. I tentativi di proporre una distinzione
(anche se chiaramente non può trattarsi di una distinzione netta) sono stati
numerosi, e quasi tutti riflettono, in particolare, le differenze in termini di definizioni adottate e di modalità conoscitive dei due processi: ad esempio, si
potrebbe considerare la povertà come uno stato di deprivazione di risorse che
colpisce gli individui e l’esclusione sociale come un processo prodotto
dall’accumulazione e dall’interazione tra loro di fattori di rischio sociale, che
spingono l’individuo verso una condizione di povertà. Quindi, mentre la povertà si caratterizza come uno stato di deprivazione, l’esclusione sociale si
caratterizza come un processo di impoverimento. Volendo necessariamente
individuare degli elementi analitici e concettuali che permettano di distinguere il concetto di povertà da quello di esclusione sociale (Jehoel–Gijsbers,
2004), possiamo sintetizzarne alcuni nella tabella 1.
Una distinzione netta appare in relazione alle modalità di rilevazione, in
quanto la povertà è misurata solo in termini di deprivazione monetaria, mentre l’esclusione sociale va al di là della dimensione economica, caratterizzandosi come un processo di svantaggio sociale, comprendente più dimensioni e
per tale ragione deve essere misurata con riferimento a più variabili esplicative. Inoltre è chiaro come il concetto di esclusione sociale riguardi non solo
gli individui o le famiglie, ma anche e soprattutto il contesto dove essi vivono e
tentano di inserirsi (Böhnke, 2001; Sassen, 1999; Castel, 1995; Mingione, 1991).
A queste considerazioni sulla suddivisione netta tra povertà ed esclusione
si oppongono le teorie di molti studiosi, secondo cui la distinzione ha ormai
poco senso, giacché la definizione di povertà tende ad allargarsi: gli sviluppi
recenti nelle ricerche sul fenomeno spostano l’attenzione da un approccio statico basato sul reddito ad un approccio dinamico che includa anche altri aspetti relativi allo standard di vita (Walker e Ashworth, 1994; Leibfried et al.,
1995). In particolare, secondo alcuni il concetto di deprivazione relativa si va
progressivamente avvicinando alla definizione di esclusione sociale (Townsend, 1979; Gordon e Pantanzis, 1997; Halleröd, 1995; Whelan e Whelan,
1995; Andreß, 1999, Böhnke e Delhey, 1999a e 1999b).
Anche in considerazione di tali riflessioni, i concetti di povertà ed esclusione sociale mostrano ancora delle differenze sostanziali, sia sul piano concettuale, sia su quello empirico: è indubbio che, mentre per la misurazione
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Daedalus 2007
RASSEGNE/DISCUSSIONI
della povertà si ricorre ancora alla misurazione del reddito o dei consumi, per
la misurazione dell’esclusione sociale occorre fare uno sforzo ulteriore per
l’individuazione delle diverse dimensioni di analisi. L’esclusione sociale, infatti, può essere definita in riferimento a diversi aspetti, sia economici (ad esempio, la capacità di disporre di beni e servizi ritenuti essenziali), che sociali
(la partecipazione sociale, il coinvolgimento politico e democratico, l’integrazione sociale, ecc.). Quindi la povertà monetaria è certamente un aspetto centrale dell’esclusione sociale, ma non l’unico e decisivo.
Tab. 1 – Elementi distintivi tra povertà ed esclusione sociale
POVERTÀ
Approccio
analitico
Statico:
la povertà fa riferimento ad
una data situazione reddituale,
quindi descrive una situazione
statica
ESCLUSIONE SOCIALE
Dinamico:
l’esclusione sociale descrive i
processi di impoverimento e di
non inclusione, quindi si tratta
di un’analisi dinamica
Dimensioni
considerate
Unidimensionale:
la povertà è studiata con riferimento ad una sola variabile
(reddito o consumi)
Multidimensionale:
l’esclusione sociale è studiata
con riferimento a numerose
variabili sociali
Unità di analisi
Famiglia o individuo:
la povertà descrive la situazione in riferimento al singolo
individuo o al nucleo familiare, quindi può essere interpretata come una carenza di risorse dell’individuo o della
famiglia
Società:
l’esclusione sociale fornisce
informazioni su un’intera società, quindi può essere interpretata come una carenza di
risorse dell’intera comunità (ad
esempio la carenza di dotazioni
infrastrutturali)
Elementi di
analisi
Distribuzione delle risorse:
lo studio della povertà ha come elemento centrale di analisi la distribuzione delle risorse
e dei beni
Aspetti relazionali:
l’esclusione sociale si riferisce
ad aspetti relazionali, quali, ad
esempio, la partecipazione sociale, la coesione sociale,
l’integrazione, la condivisione
di norme e valori, ecc.
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Daedalus 2007
RASSEGNE/DISCUSSIONI
Differenti approcci concettuali, differenti risultati analitici
La difficoltà di mettere a punto politiche di intervento per la riduzione
della povertà va in parte ricondotta al problema di individuare un metodo univoco di definizione e di misura del fenomeno. Ogni metodo proposto sarà,
infatti, caratterizzato da elementi arbitrari e soggettivi, che finiranno per influenzare i risultati ottenuti nelle diverse misurazioni. Ogni metodo, inoltre,
può tradursi nella possibilità di acquisire maggiori informazioni da un lato,
ma anche di perderne dall’altro. Ruggeri Laderchi et al. (2003) fanno notare
che, mentre un approccio monetario suggerisce di focalizzare gli interventi
sull’aumento dei redditi (attraverso strumenti quali la crescita economica, la
redistribuzione, ecc.), l’approccio delle capabilities tende ad enfatizzare
maggiormente la fornitura di beni pubblici.
Inoltre bisogna anche considerare che, come già rilevato, taluni approcci
possono essere validi se applicati in particolari contesti (ad esempio nei paesi
sottosviluppati o in via di sviluppo), ma rivelarsi inefficaci in altri (nei paesi
sviluppati), e viceversa. Per quanto riguarda la distinzione sin qui realizzata,
se si decide di misurare il fenomeno come povertà, sarà necessario prendere
in esame una variabile economica esplicativa (solitamente la spesa per consumi), mentre se si decide di misurarla come esclusione sociale sarà necessario osservare più variabili.
In un recente lavoro (Stranges, 2006a) abbiamo messo in evidenza come
la graduatoria delle regioni italiane per povertà monetaria (dati riferiti al
2002) non corrisponda alla graduatoria per esclusione sociale, definita in
questo caso con riferimento ad alcune variabili fornite dalla statistica pubblica (ISTAT, 2003): disagio abitativo (difficoltà connesse alle condizioni fisiche
dell’abitazione o all’area in cui si vive), difficoltà di accesso ai servizi di base
(sanitari e per l’infanzia) e difficoltà di acquisto di beni e servizi essenziali
(cibo necessario, cure mediche necessarie, pagare bollette). Se osservando il
ranking delle regioni per povertà monetaria la posizione peggiore era occupata dalla Calabria (poi scesa in quarta posizione dopo Sicilia, Campania e Basilicata nel 2005), la prima regione per difficoltà di utilizzo dei servizi sanitari era, invece, la Sardegna (ottava nella graduatoria per povertà monetaria),
mentre la prima regione per difficoltà di utilizzo dei servizi per l’infanzia era
Piemonte (tredicesima in quell’anno per povertà economica). Questi dati ci
consentono di riflettere sul fatto che la povertà economica non esaurisce tutte
le forme di disagio e deprivazione che gli individui e le famiglie possono sperimentare (Stranges, 2006a, p. 67) e, soprattutto, come tali forme di disagio
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Daedalus 2007
RASSEGNE/DISCUSSIONI
possano mostrarsi anche in contesti ricchi, dove non si manifesta povertà
monetaria. Tutte queste forme di deprivazione non strettamente monetaria
devono essere inserite sotto l’etichetta più ampia di esclusione sociale.
Anche nel presentare tali dati occorre considerare che qualunque assunzione sulle dimensioni da considerare presuppone la necessità di tralasciarne
delle altre che, comunque, potrebbero essere ugualmente importanti nel definire la situazione di una data area in termini di esclusione sociale. Oltre a ciò
occorre prendere in considerazione che dover analizzare più indicatori congiuntamente appare compito più arduo che non osservare un solo valore (come quando si guarda solo all’incidenza della povertà monetaria). Per superare
tale problema si sta facendo strada il ricorso ad indicatori di tipo sintetico che
consentano di mettere insieme più dimensioni, ottenendo, però, un unico valore. Vi sono state alcune applicazioni di questo tipo, tra cui: Castellani
(1999), Cagiano de Azevedo et al. (2001), Capacci e Castagnaro, (2003),
Stranges (2006b e 2007a).
In questi ultimi lavori (Stranges 2006b e 2007a), in particolare, l’esclusione sociale viene misurata con riferimento a tre dimensioni (selezionate sulla base di alcune analisi statistiche preliminari e sulla revisione della bibliografia sull’argomento) ritenute fondamentali nel definire il grado complessivo di esclusione/inclusione sociale delle regioni italiane: la dimensione economica, quella sociale e quella umana. La dimensione economica è stata misurata come disoccupazione, essendo l’esclusione dal mercato del lavoro la
prima fonte di mancanza di reddito e, quindi, di povertà economica; la dimensione sociale è stata misurata utilizzando due variabili di esclusione fornite dall’Istat, il disagio abitativo e le difficoltà di acquisto di beni necessari
(che sono quelle che mostrano l’incidenza maggiore nelle regioni italiane); il
disagio umano è stato, infine, misurato come mancanza di conoscenze (percentuale di persone che hanno come titolo massimo la licenza media inferiore). I risultati ottenuti nell’applicazione dell’indice sintetico di esclusione sociale alle regioni italiane confermano che la povertà monetaria non è l’unico
elemento da considerare nel definire il grado di esclusione nelle diverse aree
del paese e che vi sono regioni ricche dove si manifestano con forza forme di
marginalizzazione e di vulnerabilità sociale non necessariamente connesse
alla sfera economica (Stranges, 2006b e 2007a).
Infine, non si può non rilevare l’importanza che le misure oggettive di
povertà siano affiancate da quelle soggettive. Poiché la povertà soggettiva
misura la percezione che gli individui della propria condizione economica,
l’integrazione di questa prospettiva con quella oggettiva può aiutare a mettere
in luce le sfaccettature del disagio, oltre a favorire la definizione di strategie
157
Daedalus 2007
RASSEGNE/DISCUSSIONI
di riduzione della povertà che tengano conto anche del punto di vista dei soggetti direttamente coinvolti (Stranges, 2006c E 2007B). ALCUNE
RICERCHE RECENTI (CALLAN ET AL., 1996; LAYTE ET AL., 2001;
MUFFELS et al., 2003) si sono concentrate sul tentativo di integrare le due
misure attraverso la costruzione di indici additivi di deprivazione. Un recente
rapporto Cerfe a cura di Quaranta et al. (2005), ripercorrendo diversi studi e
ricerche sulla povertà, individua cinque aree tematiche che emergono nel dibattito accademico e politico–istituzionale sul tema della povertà, la seconda
delle quali è la soggettivizzazione dei poveri, intesa come riconoscimento a
questi ultimi del ruolo di attori propositivi nelle politiche di lotta alla povertà
e all’esclusione sociale. Ciò si concretizza nella necessità di maggiore peso
alla percezione soggettiva che i poveri stessi hanno della propria condizione.
Se è vero, dunque, che la misurazione della povertà e la successiva messa a
punto di strategie di eliminazione devono basarsi su un approccio esogeno
(misurazione oggettiva), in grado di garantire un sufficiente livello di astrazione analitica dal problema, è pur vero che l’integrazione della prospettiva
endogena di analisi (misurazione soggettiva) può aprire nuovi orizzonti nello
studio del fenomeno, facilitando la caratterizzazione della situazione di specifici sottogruppi di popolazione (Stranges, 2007b).
Riflessioni conclusive
Dalla revisione della letteratura e degli studi realizzati a livello internazionale appare chiaro come il fenomeno della povertà sia estremamente complesso, di difficile concettualizzazione ed interpretazione, e quindi, di conseguenza, di difficile misurazione. Il modo in cui viene definita la povertà
(scelte concettuali), e il modo in cui si decida di studiarla (scelte relative
all’approccio) e misurarla (scelte metodologiche) influenzano i risultati che si
ottengono. Le definizioni adottate in fase preliminare influiscono sulle misure
che vengono poi utilizzate, determinando differenze nei risultati raggiunti.
Nella misura della povertà e dell’esclusione sociale esiste un’enorme vastità
di approcci, di definizioni, di studi effettuati. Il punto di partenza per mettere
ordine in tale mole di informazioni è fornire una definizione più chiara di cosa sia l’esclusione sociale, per poter poi decidere quali dimensioni considerare nella sua misurazione.
Emerge la necessità di ripensare la povertà contemporanea, prendendone
in considerazione il carattere multidimensionale e le diverse forme di manifestazione che questa può avere. Il concetto di esclusione sociale sembra pre158
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RASSEGNE/DISCUSSIONI
starsi meglio alla definizione della povertà contemporanea: l’esclusione appare come un fenomeno complesso nella cui manifestazione si combinano insieme marginalità economica, discriminazione culturale ed esclusione dalla
vita civile e democratica. Essa tende ovviamente a manifestarsi all’interno
dei gruppi sociali svantaggiati. È necessario, a tal proposito, prendere in considerazione alcuni fattori che possono favorire l’esclusione sociale: ad esempio, le disabilità fisiche e psichiche, il sesso (le donne sono maggiormente
svantaggiate), l’età (come abbiamo visto dai dati sulla povertà, le persone anziane sono maggiormente esposte all’indigenza), la composizione del nucleo
familiare (la presenza di bambini e anziani in particolare) oppure l’appartenenza ad un’etnia o ad una cultura diversa da quella dominante (ad esempio
gli immigrati, le minoranze etniche, linguistiche, religiose). A ben guardare,
si tratta di situazioni di appartenenza a gruppi o comunità che non fanno parte
della dinamica economica, o rivestono un ruolo marginale.
L’esclusione sociale non è dunque una condizione statica di singoli e
gruppi particolari in una società (come può invece dirsi per la povertà), bensì
un percorso dinamico di progressiva deprivazione: nella spirale che si genera
s’intrecciano e si accumulano numerosi fattori, che s’influenzano e si rafforzano vicendevolmente. Tali processi finiscono per incidere su tutta la comunità interessata, configurando problemi di vulnerabilità sociale, disuguaglianze e discriminazioni, ingiustizia sociale all’interno della popolazione.
Se questo è il concetto di povertà a cui facciamo riferimento, da questa riflessione ne discende un’altra: occorre ripensare le strategie per la riduzione
della povertà non solo in termini redistributivi, ma anche in termini strutturali
ed infrastrutturali, al fine di tenere conto anche degli indicatori di disagio sociale che si manifestano con forza anche in contesti ricchi. Quando si parla di
esclusione sociale bisogna anche tenere conto di questo carattere dinamico e
multidimensionale (cfr. Bourdieu, 1991; Paugam, 1997; Saraceno, 1993;
Wilson, 1987 e 1993) nella definizione dei programmi di inclusione sociale e
degli interventi di lotta alla marginalità, considerando che si tratta di un problema di inadeguatezza più che di scarsezza: il metro di misura del fenomeno, pertanto, non può essere il reddito di un individuo o la disponibilità di risorse ed infrastrutture, ma la sua capacità di far funzionare ciò di cui dispone
secondo le proprie necessità. Questa riflessione ci rimanda alla teoria del capability approach del Premio Nobel Amartya Sen: “[…] il grado di adeguatezza dei mezzi economici non può essere giudicato indipendentemente dalle
effettive capacità di conversione dei redditi e delle risorse in capacità di funzionare […]”, e “[…] nello spazio del reddito, il concetto rilevante di povertà deve essere basato sull'inadeguatezza (a generare livelli minimi accettabili
159
Daedalus 2007
RASSEGNE/DISCUSSIONI
di capacità), piuttosto che sulla scarsezza (indipendentemente dalle caratteristiche individuali) […]” (Sen, 1992, pp. 156 – 157).
Se l’esclusione sociale è un fenomeno così complesso, necessariamente
complessi dovranno essere gli sforzi per misurarla e per combatterla.
L’obiettivo dei governi non deve essere più solo quello di innalzare il reddito
delle famiglie più povere (condizione, in ogni caso, fondamentale per sconfiggere la povertà), ma anche quello di creare un ambiente socialmente vivibile da tutti, in cui le persone possano integrarsi e svilupparsi in quanto esseri
umani. Il primo passo deve essere quello di pervenire a definizioni più chiare:
l’esclusione sociale non è solo povertà, ma include tutti quei fenomeni che, a
livello individuale o collettivo, comportano una mancata realizzazione
dell’individuo in quanto membro della società in cui vive. La povertà monetaria è certamente un aspetto centrale dell’esclusione sociale, ma non l’unico
e decisivo.
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Daedalus 2007
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Daedalus 2007
RECENSIONI
RECENSIONI
PAOLO FEDELE, Il computer di casa. Processi di informatizzazione
dell’ambiente domestico: fra adattamento e creatività, Cosenza, Pellegrini
Editore, 2007 (pp.224, €15,00).
La società moderna è caratterizzata dalla consistente presenza di tecnologie delle comunicazione e dell’informazione che oramai pervadono tutte le
sfere di vita: dal lavoro, alla casa, al tempo libero, e che, sebbene con esisti
differenti, riorganizzano il nostro modo di stare al mondo.
Il volume ci presenta una ricerca comparata che ha avuto come case studies le politiche di diffusione dell’informatica da parte delle amministrazioni
locali in due differenti comuni, uno italiano (Soveria Mannelli, in provincia
di Catanzaro) ed uno svizzero (Bellinzona, nel Canton Ticino), e ci mostra
come il rapporto tra tecnologia e società non è mai diretto e immediato, al
contrario, appare come il risultato di molteplici interazioni che intercorrono
fra i diversi attori sociali e le tecnologie stesse. In particolare, l’autore prende
in considerazione i processi di adozione delle nuove tecnologie informatiche
all’interno dell’ambiente domestico, dando voce ai vari componenti del nucleo familiare e ripercorrendo con essi le tappe di questo processo che non è
mai un processo lineare, al contrario è un processo evolutivo, dice Fedele Paolo, che procede per salti.
E’ infatti noto che parlare di tecnologie significa confrontarsi con artefatti
tecnici, con strumenti che si presentano con delle caratteristiche proprie e delle regole interne di funzionamento per cui l’introduzione di una tecnologia
all’interno di un ambiente non è mai un’operazione neutrale; al contrario essa
attiva un processo fatto di pratiche e di negoziazioni, a volte anche conflittuali, fra i diversi attori fino a definire socialmente l’oggetto tecnico. Dall’analisi
delle interviste emerge però come questo processo di informatizzazione, delle
cui tappe l’autore ci fornisce un’accurata descrizione, possa assumere risvolti
del tutto inediti e creativi. Ciò che infatti le famiglie chiedono alle tecnologie
informatiche non è tanto di risolvere problemi pratici, come la gestione dei
conti correnti bancari o il pagamento delle bollette o l’accesso a servizi di ecommerce, ma piuttosto di appagare bisogni che hanno a che fare con la sfera
relazionale e affettiva ed è per questo che sempre più utenti frequentano gli
oramai diffusissimi programmi di social networking.
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Daedalus 2007
RECENSIONI
Ma da che parte è possibile osservare il fenomeno? L’autore sceglie la
prospettiva neo–funzionalista della teoria sistemica di Luhmann e prova innanzitutto a fare una distinzione tra ciò che è più propriamente sociale da ciò
che, invece, ne resta al di fuori, collocando in questo modo l’ambiente domestico su un livello che, se da una parte non può essere propriamente considerato sociale, dall’altro non può neppure del tutto esser reputato sistema psichico, individuale che, secondo la teoria di Luhmann, non può infatti essere
oggetto di osservazione.
Inoltre, secondo tale teoria, ci dice l’autore, il processo di informatizzazione si struttura principalmente come capacità, da parte di un individuo, di
utilizzare una determinata tecnologia in maniera adeguata al fine di poter
comunicare con le grandi organizzazioni complesse. Affinché ciò possa avvenire il linguaggio che i soggetti devono apprendere è quello della comunicazione cibernetica, del codice binario si/no, che ha, però, come diretta conseguenza l’affermazione di relazioni formalizzate ed impersonali.
Questo tipo di comunicazione micro–macro, ovvero tra le famiglie e la
società è però solo una parte del tipo di comunicazione che le nuove tecnologie informatiche permettono. La ricerca mette infatti in evidenza come le famiglie informatizzate attivino tutta una serie di comunicazioni e di relazioni
con altre famiglie informatizzate (livello micro–micro), e che l’autore definisce come “fenomeni sociali emergenti”, ovvero “legami sociali mediatizzati
di mondo vitale” che stanno al margine di quelli più propriamente sistemici
ma che, in base a quanto le famiglie stesse affermano, hanno una valenza ben
superiore della comunicazione sistemica perché soddisfano tutta quella serie
di bisogni affettivo relazionali che l’altro tipo di comunicazione non prende
assolutamente in considerazione. Pratiche neo–comunitarie, relazioni caratterizzate da quel particolare tipo di legame che Simmel chiamava socievolezza
e forme di nomadismo telematico sono ciò che viene affermandosi,
all’interno di quel contesto virtuale creato dalle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, tra piccoli gruppi (individui/famiglie). Queste “effervescenze sociali”, cosi come le definisce l’autore, non sono però da considerarsi in quanto opposte alla società differenziata funzionalmente, secondo
la lettura della società proposta da Luhmann, ma come un qualcosa che vi
resta al margine, latente eppur presente tanto da manifestarsi poi in questi
ambienti telematici quali le chat, i forum, i blog.
Alla luce di quanto emerso dalla ricerca empirica, l’autore propone una riflessione teorica che si spinge al di là della mera concettualizzazione del dato: se per certi versi, infatti, la prospettiva neo–funzionalista della teoria sistemica di Luhamann sembra abbastanza esaustiva a spiegare il sociale e la
società, ciò non si può dire lo stesso per quel che riguarda queste nuove forme di sociale, questo piano intermedio delle relazioni che, invece, dice Fede168
Daedalus 2007
RECENSIONI
le Paolo, richiede un superamento della teoria stessa poiché essa si rivela incapace di dare senso a quella frattura, a quello scarto oramai esistente tra individuo e società.
Simona Isabella
MASI GIUSEPPE (a cura di), Tra Calabria e Mezzogiorno. Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli, Pellegrini Editore, 2007 (pp.423, s.i.p.).
Il volume curato da Giuseppe Masi costituisce un doveroso tributo
all’intellettuale calabrese Tobia Cornacchioli, prematuramente scomparso nel
2003. “Antifascista e libertario molto conosciuto e stimato nel territorio del
cosentino, sessantottino, fondatore dell'ICSAIC (Istituto Calabrese per la storia dell'antifascismo e dell'Italia contemporanea), studioso di didattica della
storia e della memoria dei circuiti culturali moderni e contemporanei”, così lo
descrive «Umanità Nova» in un articolo in suo ricordo pubblicato nel febbraio del 2004, che ne sottolinea inoltre la personalità, grazie alla quale
Cornacchioli è divenuto un personaggio di spicco nel campo della
cultura regionale: uomo infaticabile, anima “centinaia di iniziative, studia e
scrive, dimostrandosi uno storico fine e sensibile, amato dalla gente semplice
e dagli intellettuali per le sue qualità: apertura al dialogo, ironia, prudenza e
rigore intellettuale. Partecipa alle problematiche culturali cosentine ed è sua
la denominazione di ‘La casa delle culture’, un luogo culturale aperto di dibattito pubblico della città di Cosenza”.
Cornacchioli avrebbe certamente apprezzato quest’opera che raccoglie,
come scrive il curatore, i contributi di “studiosi, amici ed estimatori” legati a
lui non solo da vincoli personali e da sentimenti di affetto e di stima, ma anche da una particolare visione degli studi attinenti alla Calabria e al Mezzogiorno congeniale a quella dello studioso scomparso.
E’ impossibile qui richiamare il contenuto di ciascuno dei ventidue saggi
che compongono il volume. Credo sia importante sottolineare piuttosto ciò
che suggerisce la lettura complessiva dell’opera. Il dato che innanzitutto trova risalto, pur nell’eterogeneità dei contributi, è il solido filo che li accomuna: una visione della Calabria (dei calabresi) e, con essa, del Mezzogiorno
dentro alla storia generale, dentro cioè ai flussi di idee, di fenomeni, di congiunture e di persone che hanno caratterizzato la storia dell’Occidente.
Ed ecco che i singoli saggi, sia che analizzino la memoria dei luoghi e il
modo in cui le élites locali hanno ricostruito il passato classico e medievale,
sia che ripercorrano l’opera di eruditi, scrittori, filosofi e politici calabresi
vissuti in epoche diverse, sia che affrontino problematiche specifiche come
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RECENSIONI
l’emigrazione o l’organizzazione sindacale, rimandano tutti al contesto nazionale o internazionale, né dimenticano le riflessioni della storiografia sul
proprio specifico tema.
Penso al caso dello studio su Giovan Battista D’Amico, astronomo cosentino attivo nel Cinquecento, la cui opera si inscrive appieno nel pensiero rinascimentale italiano oppure a quello sul sacerdote mormannese Michelangelo
Grisolia, che riflette sul problema della sovranità in età illuministica cercando
di conciliare il giusnaturalimo di Grozio e la lezione muratoriana con la politica di Pio VI, che proprio la sovranità della Chiesa cercava di restaurare
presso le riottose monarchie europee. Allo sviluppo della modernità rimandano anche i lavori sulle strategie dei ceti emergenti calabresi che cercano nel
passato remoto le fonti della propria legittimazione sociale, e ancor più quelli
sugli emigranti che lasciano i paesi d’origine per l’America Latina, personaggi connotati da un marcato tratto imprenditoriale e assai solidi nelle loro
radici sociali e politiche, molto lontani dalla figura povera e compassionevole
che ha dominato a lungo la retorica sull’emigrazione meridionale. Ma
l’elenco potrebbe proseguire.
Particolarmente felice è inoltre la scelta del curatore di coprire un arco
temporale che va dall’età moderna al Novecento in modo da offrire un quadro articolato e di lungo periodo, nonché di dedicare alcuni contributi del libro alla dimensione simbolica del passato, così cruciale per comprendere la
cultura di una regione.
Il Mezzogiorno in generale e la Calabria in particolare risultano insomma
luoghi, che – quasi a dispetto della loro “distanza” – hanno sempre mantenuto un rapporto dialettico e una interdipendenza con il centro, in qualunque
modo lo si voglia intendere: il resto d’Italia, i soggetti politici, economici e
culturali della storia occidentale.
Un ultimo elemento che va rilevato è la consonanza delle tematiche e dei
soggetti indagati nel volume con gli interessi di Cornacchioli, a cominciare
dall’importanza che egli attribuiva all’immaginario collettivo e ai miti fondatori nella costruzione di un’identità regionale, per arrivare all’emigrazione,
all’attività di Pasquale Rossi, all’anarchismo calabrese, alle lotte contadine e
al fascismo.
Tiziana Noce
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RECENSIONI
EMANUELA MORA (a cura di), Gli attrezzi per vivere. Forme della produzione
culturale tra industria e vita quotidiana, Vita & Pensiero, Milano, 2005 (pp.
296, € 25)
E’ il rapporto con le forme e gli oggetti che popolano il nostro orizzonte
quotidiano, prodotti della cosiddetta “industria culturale”, il focus
dell’antologia curata da Emanuela Mora. Ed è in una prospettiva multidisciplinare, che attinge all’antropologia economica (Appadurai e Kopytoff), al
contributo dei Cultural Studies britannici, con autori di spicco come Hall, Fiske e Willis, ma anche alla sociologia della cultura americana (Gans e Crane)
e alla sociologia britannica (Lash e Urry), che si situa il lavoro di “tessitura”
compiuto dalla curatrice.
I saggi che entrano nell’antologia, pubblicati tra i primi anni ’80 e i tardi
anni ’90 nelle loro versioni originali, coprono un dibattito fondamentale a livello internazionale, che inquadra la categoria della cosiddetta “industria culturale”, emergente dalla teoria critica francofortese, attraverso le lenti
dell’innovazione concettuale di teorie alternative. Gli autori selezionati sono
accomunati dal fatto di posizionarsi al crocevia tra “industria e vita quotidiana”, crocevia a partire dal quale indagano le forme della produzione culturale
– forme ridefinite nel titolo, a partire dalla celebre definizione di cultura come “cassetta degli attrezzi” di Ann Swidler, come “attrezzi per vivere”.
Superare le contrapposizioni tra industria, cultura e vita quotidiana, è
l’obiettivo perseguito nella introduzione curata da Emanuela Mora, un’ampia
presentazione del percorso antologico che restituisce le interazioni, le complessità e le sovrapposizioni tra le dinamiche istituzionali della produzione
del senso (rileggendo la centralità del processo di mercificazione e scambio,
nei saggi di Appadurai e Kopytoff che formano la prima parte) ma anche
guardando alle dimensioni di innovazione e resistenza presenti nelle pratiche
di consumo culturale quotidiane, secondo l’approccio degli autori appartenenti alla scuola dei Cultural Studies. In questo percorso, si inserisce la rivisitazione critica della distinzione tra cultura popolare e cultura d’élite o elevata,
nella direzione di una riconcettualizzazione e del riconoscimento del suo essere una “costruzione sociale” (si vedano i saggi di Gans, Crane e Hall che
costituiscono la seconda parte dell’antologia).
Lo stesso concetto di industria culturale viene declinato al plurale, ed indagato nelle sue dinamiche e nelle sue forme produttive, nel saggio di Lash e
Urry (parte terza del volume). Gli autori guardano alla peculiare flessibilità
organizzativa delle industrie culturali (dall’editoria alla pubblicità), qualificandole come post fordiste ante litteram per il fatto di essere design intensive, ovvero ad alto contenuto di progettazione ed innovazione.
La quarta ed ultima parte (“la produzione culturale nella vita quotidiana”)
affronta il tema delle specificità del pubblico e della fruizione culturale, indi171
Daedalus 2007
RECENSIONI
viduando nel piacere e nella creatività esercitati dai soggetti consumatori le
fonti di una resistenza critica e di un “potere popolare” (Fiske), ma anche radicando l’estetica negli “aspetti ordinari della cultura comune” (Willis). E’ lo
stesso Willis a riconoscere l’ambivalenza del mercato rispetto alla vita quotidiana e alle possibilità di crescita culturale: il mercato è l’arena determinante
dell’agenda culturale, ma anche un serbatoio di opportunità.
A fare da “collante” a questa antologia sono, comunque, diversi percorsi
concettuali che ne costituiscono altrettanti fils rouges; il concetto di valore
(culturale) è uno di questi, insieme all’enfasi sulla circolazione dei significati
incorporati negli oggetti e alla loro valorizzazione simbolica e materiale.
In questo percorso, la politica del valore di Appadurai, a partire dalla rivisitazione critica della teoria marxiana delle merci, e della filosofia simmeliana del valore come situato nello scambio, demistifica il lato della domanda
nella vita economica, individuandone sentieri e deviazioni. L’approccio biografico applicato da Kopytoff agli oggetti culturali, d’altro canto, pone
l’enfasi sui percorsi di singolarizzazione, che ridefiniscono culturalmente ed
individualmente quegli oggetti universalmente deputati e destinati allo scambio (merci). Ancora, il valore culturale entra in tensione costante nella doppia
circolazione del capitale (circolazione culturale e finanziaria) come nella prospettiva di Fiske, e si articola nella tensione tra gli interessi degli attori in
gioco nell’industria culturale, come nel saggio di Willis.
Un secondo percorso – più generale e più rilevante ancora – che viene interrogato ed evocato da questa raccolta di contributi, è l’invito a mettere in
questione categorie consolidate in una prospettiva classica, da quella di “industria culturale” a quella di “cultura popolare”, superando e problematizzando, ad un tempo, opposizioni che oltre un decennio di produzione intellettuale anglosassone sulla produzione culturale contemporanea ha messo acutamente sotto la lente d’ingrandimento.
Infine, il riferimento alla vita quotidiana, alla materialità delle pratiche
simboliche e alla loro centralità nella vita sociale costituisce un terzo modo di
attraversare il percorso intessuto da Emanuela Mora: dallo scambio alla incorporazione dei significati e dei prodotti culturali, fino alla loro appropriazione creativa, le forme culturali rivelano la loro consistenza nel lavorìo del
giorno per giorno (organizzativo ed individuale), divenendone parte integrante.
Giuseppina Pellegrino
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GLI AUTORI DI QUESTO NUMERO
Vittorio CAPPELLI, Professore Associato di Storia Contemporanea, Facoltà di
Economia, Università della Calabria
Simona ISABELLA, Dottore di Ricerca in “Politica, Società e Cultura”, Dipartimento
di Sociologia e Scienza Politica, Università della Calabria
Gemma MALTESE, Laureata in Scienze Politiche, studiosa dei rapporti tra sociologia
e letteratura
Angelina MARCELLI, Assegnista di Ricerca e Professore a contratto di Storia
Economica, Facoltà di Economia, Università della Calabria
Saverio NAPOLITANO, Studioso di storia della Calabria in età moderna e di storia
della storiografia
Tiziana NOCE, Ricercatrice di Storia Contemporanea, Facoltà di Scienze Politiche,
Università della Calabria
Giuseppina PELLEGRINO, Ricercatrice di Sociologia dei processi culturali e
comunicativi, Facoltà di Scienze Politiche, Università della Calabria
Osvaldo PIERONI, Professore Ordinario di Sociologia dell’Ambiente, Facoltà di
Economia, Università della Calabria
Núncia SANTORO DE CONSTANTINO, Professore Aggiunto di Storia Orale e
Storia Urbana, Pontificia Università Cattolica del Rio Grande do Sul, Porto
Alegre (Brasile)
Manuela STRANGES, Assegnista di Ricerca, Dipartimento di Economia e Statistica,
Università della Calabria
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