Tessere Genitorialità nella Comunità 2014

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Via Maioliche 57/h 38068 Rovereto TN
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Atti del percorso formativo
“TESSERE GENITORIALITA’ NELLA COMUNITA’ “
e della tavola rotonda
“ ESPERIENZE A SOSTEGNO DELLE GENITORIALITÀ IN
GIUDICARIE”
30 ottobre 2013- 28 febbraio 2014
A cura della dott.ssa Barbara Altare*
*Supervisione alla stesura: Centro Ricerca e Sviluppo della Comunità Murialdo Trentino Alto Adige
Casa Generalizia della Pia Società Torinese S.Giuseppe – Comunità MurialdoC.so 3 Novembre 36 – 38122
TRENTO tel: 0461 231320 - fax: 0461 236036E-mail: [email protected] – www.murialdo.taa.itCod.
fiscale 03550730588 - P.IVA 01209641008
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Indice
Introduzione
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Capitolo 1
“ Co-educare nella comunità: lavoro con le genitorialità” di Barbara Altare e Aglaja Masè
1.1. I servizi di sostegno alle genitorialità: come distinguerli?
1.2 Verso la comprensione del genitore fragile in un lavoro di rete
Capitolo 2
“Lavoro con le genitorialità ed uso dei dati sensibili: il necessario approfondimento giuridico”
di Chiara Messina
2.1 Fonti normative in materia di privacy e segreto professionale
2.2. Codici deontologici
2.3 Ipotesi di superamento di criticità nel lavoro di rete
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Capitolo 3
“Strumenti d’interazione quotidiana con le genitorialità”
di Marzia Saglietti e Serena Olivieri
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Capitolo 4
“Lavoro con i padri, lavoro con le madri: modalità a confronto”
e“Progettare e valutare il lavoro con le genitorialità con disagio”
di Bianca Bertetti
4.1. La resilienza
4.2. Quali sono i fattori che favoriscono la resilienza
4.3. Come promuovere resilienza nei genitori
4.4. Intelligenza emotiva
4.5. Educare all’aggressività
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Capitolo 5
Tavola Rotonda.
Esperienze a sostegno della genitorialità in Giudicarie” di Marco Ius
5.1. La cornice concettuale
5.2. Le genitorialità in Italia e in valle Giudicarie
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Capitolo 6
Conclusioni: I risultati dell’intero percorso formativo
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Allegati
Allegato A: codice deontologico dello psicologo
70
Allegato B: codice deontologico Assistenti Sociali
79
Allegato C: codice deontologico del pedagogista e dell’educatore – Associazione P.ED.I.AS
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Bibliografia
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Sitografia e Fimografia
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INTRODUZIONE
Il percorso formativo tessere si colloca in una cornice di riferimento di stampo ecologico (Bronfenbrenner,
1996) e costruttivista (Kelly,1991) che parte dalla considerazione che la realtà non può dirsi oggettiva, ma
cambia secondo il modo che abbiamo di guardarla. Il mondo è in continuo movimento, secondo Kelly,
cosicchè un’ adeguata comprensione della persona richiede una continua reinterpretazione del suo modo
di costruire gli eventi (ibidem).
Da qui emerge quanto il ruolo degli operatori sia fondante nel lavoro di rete e nel lavoro educativo con le
genitorialità poiché costruttore di significati nuovi in continuo cambiamento a seconda del contesto, delle
relazioni e degli obiettivi che gli operatori decidono di condividere e su cui negoziare.
Questo approccio letto in ottica educativa riassume il filo del percorso formativo dove per comprendere
l'Altro è necessario mettersi nei suoi panni e vedere il mondo con i suoi occhi. Questo modo di conoscere
porterà a mettere in discussione i modi dell’operatore di costruire e vedere il genitore, dati per scontati, e il
modo in cui i differenti servizi perseguono lo stesso lavoro ma con obiettivi differenti.
Gli obiettivi che ci si è posti come Comunità Murialdo in questo percorso formativo riguardano la
declinazione delle buone prassi nel progetto di sostegno alla genitorialità “Familiar..mente” cercando di
comprendere come concretizzare gli obiettivi in un progetto educativo di sostegno alla famiglia. Nello
specifico vengono presentati gli strumenti utili per una collaborazione proficua con le famiglie e i servizi
stimolando un confronto tra diverse figure professionali in un’ottica di condivisione e integrazione delle
esperienze delle differenti professionalità coinvolte nella presa in carico.
Nel primo capitolo “Co-educare nella comunità: lavoro con le genitorialità” di Barbara Altare e Aglaja Masè
presenteremo il Progetto Familiarmente in una cornice che definisca i confini di applicazione
distinguendolo dal servizio di
Mediazione Familiare e dall’ Intervento Educativo Individualizzato,
specificandone metodo, tempi, obiettivi, setting, e i criteri di presa in carico.
Nel secondo capitolo “Lavoro con le genitorialità ed uso dei dati sensibili: il necessario approfondimento
giuridico” di Chiara Messina introdurremo il quadro legislativo in cui si colloca il lavoro integrato di servizi a
sostegno della genitorialità. In particolare descriveremo la sintesi di un percorso formativo atto ad
approfondire aspetti etici e deontologici nel lavoro interdisciplinare con famiglie e minori in situazioni
multiproblematiche.
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Nel terzo capitolo “strumenti d’interazione quotidiana con le genitorialità” di Marzia Saglietti e Serena
Olivieri descriveremo strumenti trasversali al lavoro di rete ed educativo di sostegno alla genitorialità,
strumenti specifici nel lavoro con le genitorialità, strumenti nel lavoro multidisciplinare.
Nel quarto capitolo “Lavoro con i padri, lavoro con le madri: modalità a confronto” e “Progettare e valutare
il lavoro con le genitorialità con disagio” di Bianca Bertetti analizzeremo tre aspetti fondanti del lavoro con
la genitorialità fragile quali la resilienza proponendone strumenti di lettura quali il pensiero creativo in
particolare individuare quali modalità che possano favorire la resilienza nei genitori, il concetto di empatia
e di gestione dell’aggressività mediante il pensiero dell’humour.
Nel quinto capitolo “Esperienze a sostegno della genitorialità in Giudicarie” descriveremo le esperienze di
sostegno alla genitorialità secondo letture interdisciplinari in un lavoro di rete e confronto attraverso il
contribuito dei seguenti relatori, coordinato dal dott. Marco ius:
-
dott.ssa Patrizia Ballardini (Presidente della comunità delle Giudicarie);
-
dott. Corrado Barone (Neuropsichiatra infantile presso l’UONPI 2 Neuropsichiatria dell'infanzia e
dott.ssa Michela Fioroni (Assistente sociale Coordinatore presso la Comunità delle Giudicarie);
-
dell'adolescenza - distretto Apss di Tione) ;
-
dott.ssa Aglaja Masè (Psicologa-psicoterapeuta, Responsabile Del Progetto Familiar..Mente In
Valle Giudicarie della Cooperativa L’Ancora);
-
dott.ssa Luisa Masè (Coordinatrice e , referente del distretto famiglia- comunità delle giudicarie);
-
dott. Davide Monti ( assistente sociale, Direttore della Comunità Murialdo Trentino Alto Adige)
-
dott.ssa Rosanna Lizzari (Psicopedagogista presso Istituto Comprensivo Don Milani del Chiese);
-
dott. Francesco Reitano (Psicologo-psicoterapeuta, Direttore dell’UO 2 di Psicologia);
Nelle conclusioni saranno raccolte le considerazioni dell’intero percorso in un’ottica di lavoro integrato.
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CAPITOLO 1
CO-EDUCARE IN COMUNITA’: LAVORO CON LE GENITORIALITA’.
Dott.ssa Altare Barbara, Psicologa- Psicoterapeuta In Formazione,
Educatrice nel Progetto E.M.A.M.e F. della Comunità Murialdo Trentino Alto Adige.
Dott.ssa Masè Aglaja, Psicologa-Psicoterapeuta,
Responsabile del Progetto Familiar..Mente In Valle Giudicarie della Cooperativa L’Ancora.
L’intervento formativo aveva come obiettivo di tracciare i confini entro cui si colloca il lavoro di sostegno
alla genitorialita’, Familiarmente, stimolando riflessioni personali sul lavoro con la genitorialità fragile da
punti di vista differenti, quali i differenti ruoli professionali coinvolti nelle prese in carico.
La metodologia utilizzata è stata di tipo partecipante ed attiva con lo scopo di promuovere dialogo tra le
diverse professionalità.
Gli strumenti proposti per raggiungere gli obiettivi sono stati: attività di role playing, condivisione dei vissuti
uniti ad una presentazione frontale utile a delineare il progetto Familiarmente e la cornice entro la quale si
colloca.
"Familiar...mente" è un progetto sperimentale di educativa domiciliare a sostegno delle competenze
genitoriali con gli obiettivi di prevenire situazioni a rischio a carico di minori, sostenere situazioni di disagio
familiare supportando le funzioni genitoriali, facilitare i rapporti sociali e promuovere reti comunitarie e
risorse informali attorno alle famiglie, migliorare le modalità di integrazione dei servizi coinvolti. Il progetto
è nato nell'ambito del processo di pianificazione partecipata delle politiche sociali, implementato dal
Servizio Sociale della comunità di valle, che ha coinvolto numerosi attori del welfare locale. Al suo interno si
è creato un Tavolo di Lavoro che ha coinvolto diverse organizzazioni pubbliche(Servizio socio-assistenziale,
Servizio di Neuropsichiatria Infantile, Servizio di Psicologia, Consultorio, Scuola, Comune di Tione) e del
privato sociale, cooperativa L’Ancora e Comunità Murialdo comprese, che da ottobre 2006 si è incontrato
con lo scopo di fare un’analisi delle problematiche inerenti la famiglia emergenti nel territorio ed
individuare obiettivi e modalità operative condivisi. E’ stato chiesto ai due enti no-profit piu’ attivi nel
territorio, la Comunità Murialdo e la Cooperativa L’Ancora, di gestire insieme il progetto “Familiar…mente”,
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nato dal Tavolo, e da gennaio 2010 è stata quindi attivata un’équipe educativa composta da tre operatori
appartenenti alle due realtà del privato, per concretizzare e dare vita al progetto. Il primo intervento in
famiglia è iniziato nell’aprile 2010; ci sono stati fino ad oggi una dozzina di interventi e attualmente ci sono
tre situazioni in procinto di partire. Per ogni famiglia si fanno in media due interventi settimanali di un’ora e
mezza- due. Si lavora su un territorio molto vasto ed eterogeneo. L’èquipe, composta da due educatori più
la coordinatrice(psicologa), si incontra settimanalmente ed una volta al mese è prevista una supervisione.
Periodicamente l’équipe si trova con le assistenti sociali di riferimento e la referente del Servizio Attività
Sociali del Progetto, per il monitoraggio degli interventi.
Giorno per giorno ci rendiamo sempre più conto di vivere, anche in questo ambito, profondi e inarrestabili
cambiamenti: ad affiancare l’immagine classica che tutti abbiamo in mente ci sono tante tipologie diverse
di famiglie (mono- parentali, separate, allargate, affidatarie…), i ruoli al suo interno non sempre sono chiari
e distinti, sono aumentati i ritmi di lavoro e parallelamente c’è sempre meno tempo da trascorrere insieme,
senza contare la perdita delle reti di supporto parentale o amicale . Chi si occupa di tutelare il benessere dei
minori e di promuoverne lo sviluppo dal punto di vista educativo e socio- relazionale, non può evitare di
riflettere su questi cambiamenti e di porre la dovuta attenzione al ruolo primario che ogni famiglia ha nel
processo di crescita e di sviluppo dei bambini che ne fanno parte. Ecco che, continuando a mantenere come
obiettivo primario il benessere dei minori, accanto alla scuola, ai servizi specialistici, ai centri diurni e a tutte
le forme di supporto “diretto” ai ragazzi, si è fatta strada l’idea di intervenire anche sulle competenze dei
genitori, all’interno del loro principale contesto di vita.
Il progetto di sostegno alla genitorialità, Familiar..mente, si caratterizza come un supporto educativo
temporaneo a domicilio, rivolto a figure genitoriali fragili o che attraversano un momento di particolare
difficoltà nella cura o nell’educazione dei bambini presenti all’interno di quel nucleo. Lo scopo è quello di
prevenire situazioni di rischio a carico dei minori, sostenere le competenze genitoriali e favorire la
costruzione di reti sociali di sostegno a favore delle famiglie. Si tratta di un progetto a carattere
fondamentalmente preventivo e rappresenta uno dei primi tentativi su tutto il territorio provinciale, di
lavorare con gli adulti per avere una ricaduta positiva sull’intero nucleo familiare ed, in particolare, sui
bambini e ragazzi che vi appartengono. Il “pioniere”, in questo senso, è stato “Progetto Domino” (e
“Domino2”) della Comunità Murialdo che, a differenza di “Familiar…mente”, interviene in situazioni di
allontanamento (o di rischio di allontanamento) del minore.
L’intervento educativo sui genitori, presuppone un vero e proprio cambio di prospettiva, soprattutto per chi
ha maturato esperienza professionale nell’ambito dell’educazione dei minori. L’operatore si trova a
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lavorare all’interno di un contesto intimo e privo di un setting strutturato -la casa- e a confrontarsi con
persone adulte, con le quali instaurare una relazione di fiducia e, contemporaneamente, definire in
maniera esplicita i reciproci ruoli e confini. Inoltre, è chiamato, attraverso il suo lavoro di
accompagnamento, a favorire la “resilienza” (Froma Walsh, 2008 ), cioè la capacità di trasformare il trauma
in qualcosa di positivo, facendo leva sulle risorse e sui punti di forza che ogni famiglia possiede, per
risolvere le situazioni di crisi. Una buona relazione di fiducia tra operatore e famiglia è un mediatore
importante per il cambiamento, un fattore chiave spesso per il successo degli interventi. Altro fattore
importante è la condivisione delle decisioni: senza condivisione può nascere una risposta all’intervento che
ostacola il raggiungimento di risultati e cambiamenti. Inizialmente le famiglie faticano a capire il ruolo
dell’educatore a domicilio comprendendo nel tempo il suo valore di sostegno e accompagnamento nelle
fatiche quotidiane. Pur sapendo che l’Operatore collabora con il Servizio Sociale, lo sentono dalla loro
parte; una delle azioni del servizio per sostenere la genitorialità in fondo è anche, oltre alle visite
domiciliari, mantenere i contatti con i Servizi coinvolti, con le realtà formali ed informali del territorio,
accompagnando e sostenendo il genitore nei rapporti con i vari Servizi.
Questo modo di operare dell’educatore è utile ad accompagnare il genitore nel vedere al suo ruolo secondo
una nuova prospettiva che è in direzione di cambiamento e movimento rispetto al benessere del minore
quando esistono condizioni interne o esterne che lo permettono.
In questo credono fermamente tutti coloro che si sono impegnati per realizzare il progetto
“Familiar…mente” augurandosi che, terminata la fase di sperimentazione e fatta ormai propria la nuova
ottica educativa, possa continuare ad essere una risorsa per molti.
1.1.
I SERVIZI DI SOSTEGNO ALLE GENITORIALITA’. COME DISTINGUERLI ?
Familiarmente, mediazione familiare ed A.E.I. sono tre servizi/progetti volti al sostegno della famiglia, della
persona ma con centrature e modalità d’intervento che si differenziano tra di loro. Proviamo a definirne le
peculiarità.
Mediazione Familiare è un servizio volto alle coppie in crisi, spesso in fase di separazione. L’operatore che
si occupa solo della coppia, senza la presenza dei figli, è un mediatore familiare con una specifica
formazione. La metodologia fa riferimento ad un approccio sistemico, dove il mediatore è un professionista
neutrale e non giudicante, è considerato super partes, questo garantisce la gestione dei conflitti e la
definizione di accordi per la coppia in crisi. L’obiettivo della mediazione familiare è di facilitare una
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comunicazione interrotta tra le parti in conflitto. I percorsi del servizio di mediazione familiare prevedono
tempi stretti e brevi commisurati agli obiettivi da raggiungere. Essi prevedono 5-6 incontri. L’intero
percorso di mediazione è articolato in un paio d’incontri con il singolo (marito e moglie) fase in cui si porta
ogni singola parte all’esplicitazione dei bisogni propri per prepararli all’incontro congiunto con l’altro in un
tavolo di mediazione dove il mediatore ha il solo compito di facilitare gli accordi lasciando l’ opportunità ai
protagonisti del conflitto di gestirli secondo le loro modalità. È un intervento che parte dal basso e per
questo motivo risulta utile che il mediatore sia super partes, utile alla facilitazione di tale processo. Il
setting è un luogo neutro, la sede del servizio di Mediazione Familiare.
L’AEI, accompagnamento educativo individualizzato, è un progetto di educativa domiciliare dove la
centratura del lavoro dell’educatore è sul minore.
Metodologia. L’approccio a cui fa riferimento è quello Rogersiano (Rogers, 2007), centrato sulla persona, e
gli obiettivi che si pone di raggiungere con tale intervento sono di proporre attività educative che stimolino
interessi ed accompagnino il minore verso un percorso di autonomia sia nel campo delle relazioni tra pari
che con l’adulto di riferimento nel campo legato all’istruzione. Gli interventi di educativa sono percorsi
costruiti tra servizi sociali, equipe educativa e tutori del minore coinvolgendo il più possibile, se possibile, il
minore stesso nella progettualità. Sono percorsi costruiti con la famiglia e il minore per cui i tempi, non
sono strettamente definibili , vanno incontro ai tempi della persona. Il setting è il domicilio del minore.
Familiar…mente è un progetto di educativa domiciliare che si distingue dall’AEI avendo la centratura sul
genitore e non sul minore. In questo modo si dà attenzione al genitore stimolando il suo protagonismo
attivo con attenzione ai tempi individuali ed a cogliere, valorizzare e restituire anche il minimo movimento.
Il ruolo dell’educatore è di affiancamento e di accompagnamento al genitore e non di controllo.
L’educatore sostiene e accompagna il genitore singolo, la coppia genitoriale, chi ricopre la funzione
genitoriale, e la relazione tra genitore e minore.
In tale progetto non vi è un unico approccio di riferimento, ma la metodologia utilizzata fa riferimento a
diversi approcci quali, sistemico ( Bateson, 2002 ), rogersiano ( Rogers, 2007) , costruttivista (Kelly, 1991).
Il primo ( Bateson, 2002 )consente di lavorare in un’ottica di rete e permette di considerare la fragilità della
persona non slegata dal suo sistema famiglia. Tale approccio è utile anche nel lavoro di rete tra i servizi
coinvolti nella presa in carico nella misura in cui ogni servzio lavora considerando la parte di lavoro in cui
sono impegnati gli altri servizi . L’approccio rogersiano ( Rogers, 2007) regola la relazione tra educatore e
genitore puntando a valorizzare e non giudicare la persona con cui si è in relazione valorizzandone le sue
risorse e non le criticità, credendo nelle sue potenzialità di cui il genitore non è consapevole. L’educatore
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lavora sulle risorse presenti e non sui problemi, sul possibile e non sul necessario e lavora in un contesto
d’empatia con il genitore stesso.
L’approccio costruttivista (Kelly, 1991) è utile nel lavoro educativo perché parte dal presupposto che la
realtà è soggettiva e quindi per comprendere il genitore è utile che l’educatore ponga a revisione il suo
punto di vista e la sua realtà. Tale comprensione è possibile se l’educatore assume un atteggiamento di
umiltà nei confronti del genitore essendo egli stesso esperto della sua storia.
Tale metodologia permette all’ educatore di non fornire consulenze e dati certi, ma offrire, a partire da ciò
che significa per lui stesso essere genitore, un punto di vista diverso.
In questo modo l’operatore pone al genitore riflessioni, sul suo modo di educare, partendo dal suo vissuto,
dalla sua storia, dalle sue fatiche e sofferenze e dalle strategie che utilizza per risolvere i problemi.
Un'altra caratteristica di questa metodologia è che l’educatore non è neutrale, ma è, sia dalla parte del
Servizio Sociale con cui costruisce il progetto e ne definisce obiettivi, che dalla parte del genitore
divenendone suo alleato. In questo lavoro a stretto contatto, tra servizi e famiglia, l’educatore non assume
un atteggiamento giudicante, ma può osservare dinamiche intra-familiari da restituire al genitore in modo
che esse possano diventare obiettivi concreti e raggiungibili per il genitore stesso.
Gli obiettivi che si perseguono in questa educativa domiciliare e che si differenziano dall’Aei e della
Mediazione Familiare sono:
 il prendersi cura del genitore attraverso un lavoro di riflessività utilizzando anche attività educative,
che sono il mezzo per raggiungere il fine;
 facilitare ponti comunicativi tra Servizi e famiglia;
 facilitare e proporre incontri di rete tra i Servizi coinvolti nella presa in carico.
Essi nella micro progettualità devono essere semplici, mirati, limitati e possibili (anche per il genitore).
I tempi. I percorsi di accompagnamento sono costruiti CON l’assistente sociale di riferimento e CON il
genitore sulla base della sua disponibilità , considerando tempi e limiti del genitore. .
I tempi devono esser condivisi e definiti nella presa in carico.
Procedura di presa in carico nel progetto Familiar…mente.
1. Primo incontro: presentazione della situazione da parte dell’assistente sociale all’equipe educativa
con invio della relazione del caso da parte del Servizio Sociale di riferimento;
2. Secondo incontro: definizione della presa in carico e degli obiettivi macro, proposti dal servizio
sociale;
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3. Terzo incontro: momento di conoscenza del genitore all’equipe educativa, dove possibile, e
comunque con l’educatore di riferimento. In tale incontro verranno ridefiniti e condivisi gli obiettivi
con il genitore stesso ;
4. Incontri successivi: a distanza di 4-6 mesi circa dalla presa in carico verifica del primo periodo di
osservazione e definizione di obiettivi micro con lo strumento del PEF e successivi momenti di
verifica con il Servizio Sociale di riferimento e con la rete;
5. Incontri finali: a chiusura intervento sono previsti con l’educatore incontri di accompagnamento
alla chiusura dell’intervento con la famiglia .
I criteri per la presa in carico delle famiglie, per il progetto Familiar..mente, sono cosi definite:
 Disponibilità effettiva dell’equipe educativa in termini di carico familiare già in atto;
 Accettazione della proposta d’intervento educativo da parte della famiglia, con disponibilità
di almeno uno dei due genitori, qualora l’altro non ponga ostacoli insuperabili;
 Assenza nella famiglia di gravi elementi di fragilità (malattia mentale, dipendenze di vario
tipo…), ritenuti tali da compromettere gravemente la presa di coscienza delle difficoltà
familiari o pregiudicare in qualche modo l’effettiva possibilità d’intervento educativa nella
famiglia stessa.
1.2.
VERSO LA COMPRENSIONE DEL GENITORE FRAGILE IN UN LAVORO DI RETE.
Definita la cornice all’interno della quale si colloca Familiar..mente ed il ruolo dell’educatore proviamo a
comprendere in cosa consiste il suo ruolo come advocacy sia della famiglia, che di collaboratore stretto del
Servizio Sociale. Durante l’attività di role playing i partecipanti vengono suddivisi in due gruppi ed a
ciascuno viene proposto di mettersi nei panni del genitore fragile, dell’educatore di Familiar..mente,
dell’insegnante, dello psicologo, e dell’assistente sociale. Ad ogni protagonista viene assegnata
un’etichetta, che rappresenta come tipicamente quel ruolo professionale è visto dall’esterno. Ogni
volontario che sceglie di mettersi in gioco in questo role playing non è a conoscenza dell’etichetta che gli è
stata assegnata, ma conosce quella che è stata attribuita agli altri attori della scena. Partendo da tali
informazioni si chiede al gruppo di negoziare un obiettivo proposto da uno di questi attori, in particolare,
l’assistente sociale convoca un incontro di verifica in cui chiede di discutere la riduzione delle visite tra
genitore e minore.
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I gruppi lavorano sullo stesso obiettivo con una sola differenza, riguardante l’etichetta dell’educatore, il
quale, in un gruppo, risulta essere l’alleato del genitore, invece, nell’altro gruppo quello del Servizio Sociale.
Dal lavoro è emerso chiaramente:
1.
La difficoltà di mettersi nei panni in un ruolo diverso dal proprio;
2.
Sensazione di frustrazione per il non raggiungimento degli obiettivi;
3.
L’educatore si è sentito “ triangolato”: questo caratterizza la complessità all’interno della quale si
trova il ruolo dell’operatore nel lavoro di sostegno al genitore, il quale evidenzia le sue positività ma allo
stesso tempo tiene presente gli obiettivi condivisi con il Servizio Sociale.
Da questa simulata è risultata evidente la metodologia che viene utilizzata nel lavoro con il genitore, tale ci
pone non come esperti sul tema della genitorialità, ma come esperti del processo.
Tale aspetto è possibile quando l’operatore, in generale, riesce a mettere da parte la propria verita’ su ciò
che significa educare il minore, a favore di una verità altra, quella del genitore. Solo se, come professionisti,
comprendiamo come le persone e nel nostro caso il genitore costruisce il mondo e come da’ senso al
mondo, riusciremo a dire qualcosa di utile per lui.
Dopo una relazione di fiducia costruita nei primi mesi con i genitori, in cui non vengono giudicati, ma
valorizzati come persone, essi possono iniziare a considerare gli spunti offerti dall’educatore, che s’inserisce
nella sua casa e nelle sue relazioni più intime.
Quando l’operatore riuscirà a vedere la persona con cui è in relazione non solo come l’etichetta attribuita,
ma come una persona con una storia e con un vissuto diverso dal proprio, solo in quel caso gli obiettivi
potranno essere perseguiti sia nella relazione con il genitore, che nelle relazioni con i differenti servizi di
riferimento.
Le relazioni tra operatori e con il genitore presuppongono un lavoro personale di autoriflessività ( kelly,
1991)dell’operatore stesso. Ad ogni incontro portiamo una parte di noi e noi diventiamo lo strumento nella
relazione educativa e quindi il nostro modo di pensare in particolare, rispetto a come crediamo che gli altri
diano senso al mondo e alla nostra presenza li con loro, influenza la relazione con il genitore stesso.
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CAPITOLO 2
LAVORO CON LE GENITORIALITA’ ED USO DEI DATI SENSIBILI: IL NECESSARIO
APPROFONDIMENTO GIURIDICO
Dott.ssa Chiara Messina,
Avvocato e vicepresidente dell’Associazione Prospettive di Trento.
Nel seguente capitolo ci occuperemo di descrivere tre aspetti importanti, quali :
1. Cenni di fonti normative in materia di privacy e segreto professionale ( tutela della privacy, segreto
professionale).
2.
Codice deontologico dell’assistente sociale e codice deontologico del pedagogista e dell’educatore.
3. Ipotesi di superamento di criticità nel lavoro di rete.
L’intervento formativo aveva come obiettivo offrire ai partecipanti una lettura partecipata delle leggi che
regolano la condivisione delle informazioni (dati sensibili) tra i professionisti che lavorano nel sociale in
particolare nel lavoro di sostegno alla genitorialità.
La metodologia è stata di tipo frontale seppur aperta a domande e riflessioni mosse dai partecipanti.
Lo strumento utilizzato è stato la lettura delle leggi e articoli ad essi legati per facilitare una riflessione sul
tema.
Quanto segue è l’estratto degli atti del percorso di ricerca-formazione promosso da Prospettive
associazione per la valorizzazione delle risorse umane nell'anno 2010 dal titolo "etica e deontologia nel
lavoro interdisciplinare e inter-istituzionale con famiglie e minori in situazioni problematiche" (Messina,
2010).
2.1. FONTI NORMATIVE IN MATERIA DI PRIVACY E SEGRETO PROFESSIONALE
In questa prima parte sono stati citati articoli e leggi che disciplinano il segreto professionale e la tutela per
privacy, dove per “tutela della privacy” si intende il diritto alla protezione dei dati personali disciplinato dalla
legge 675/96 e successive modificazioni.
L’art. 1 comma 1 della legge 675/96 recita “la presente legge garantisce che il trattamento dei dati personali
si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, nonché della dignità delle persone fisiche, con
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particolare riferimento alla riservatezza e alla dignità personale; garantisce altresì i diritti delle persone
giuridiche e di ogni altro ente o associazione”.
Nella normativa successiva il codice in materia di protezione dei dati personali (Testo Unico) fa riferimento
al D. Lgs. 196/2003 dd. 30.06.2003 (unitarietà ed uniformità di sistema). Tale legge è applicabile a tutte le
professioni.
Per “segreto professionale”, invece, s’intende l’obbligo di non rivelare informazioni aventi natura di segreto
apprese all’interno del rapporto fiduciario. Esso ha un fondamento etico legato al rispetto della persona,
deontologico in quanto sancito dai codici di comportamento professionale (codice medici, assistenti sociali,
psicologi, avvocati) e giuridico (art. 622 c.p.). La rivelazione del segreto professionale sentenzia che
”chiunque, avendo notizia, per ragione del proprio stato o ufficio, o della propria professione o arte, di un
segreto, lo rivela, senza giusta causa, ovvero lo impiega a proprio o altrui profitto, è punito, se dal fatto può
derivare nocumento, con la reclusione fino ad un anno o con la multa da € 30 ad € 516”, art. 326 c.p.
rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio “il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico
servizio che, violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità,
rivela notizie d’ufficio, le quali debbano rimanere segrete o ne agevola in qualsiasi modo la conoscenza, è
punito con la reclusione da sei mesi a tre anni” dove la differenza tra i due tipi di reati è ricollegabile alla
diversità della ratio incriminatrice, alla tutela della libertà del singolo per l’art. 622 c.p. e tutela della p.a. per
l’art. 326 c.p., alla qualificazione del reato, ovvero di danno e di pericolo, alle condizioni di perseguibilità, a
querela o d’ufficio, al tipo di segreto di cui è interdetta la divulgazione che nell’ipotesi del 326 deve
riguardare notizie di ufficio). Costituiscono giuste cause le denunce obbligatorie, le perizie, le consulenze, i
referti. Alle questioni del segreto professionale e del segreto d’ufficio sono correlati articoli del codice di
procedura civile e penale in merito al dovere/facoltà di astenersi dal deporre in sede penale e dal
testimoniare in sede civile.
Altre fonti giuridiche, sia della tutela della riservatezza che del segreto professionale, si rinvengono nella
legislazione nazionale e provinciale (normativa primaria) e fonti secondarie (regolamenti): ad es. per
assistenti sociali la legge 3 aprile 2001 n. 119 che sancisce l’obbligo del segreto professionale per gli
assistenti sociali iscritti all’albo professionale su quanto hanno conosciuto per ragione della loro
professione, esercitata sia in regime di lavoro dipendente, pubblico o privato, sia in regime di lavoro
autonomo-professionale; ad es. in campo medico la legge 194/78 sull’interruzione della gravidanza, la legge
685/75 per i componenti di centri medici e di assistenza sociale nei confronti dei tossicodipendenti assistiti.
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Per gli educatori diversi codici deontologici legati alle associazioni cui sono iscritti, regolamenti degli
enti/associazioni per cui lavorano o richiamo da parte di questi ultimi ai codici esistenti.
Il segreto professionale è valido anche per fonti contrattuali (contratti di lavoro) degli operatori.
2.2. CODICI DEONTOLOGICI
Le Regole aperte sono soggette all’interpretazione: principi e regole di comportamento condivisibili ma che
necessitano di essere calate nell’operatività (mancando norme di attuazione il rischio è che ognuno
interpreta in modo soggettivo, proponendo il proprio pensiero come oggettivo). Di seguito riportiamo
Esempi del codice deontologico dell’assistente sociale e del codice deontologico del pedagogista e
dell’educatore.
Un esempio è l’attenzione al segreto professionale quindi a garantire il rapporto di fiducia indispensabile
con la persona, sia l’obbligo di segnalazione delle persone che sono in difficoltà, nell’ottica di una loro
salvaguardia: “l’assistente sociale deve salvaguardare i diritti e gli interessi degli utenti e dei clienti, in
particolare di coloro che sono legalmente incapaci e deve adoperarsi per contrastare e segnalare all’autorità
competente situazioni di violenza o di sfruttamento nei confronti di minori, di adulti in situazioni di
impedimento fisico e/o psicologico, anche quando le persone appaiono consenzienti”. Spesso ci si chiede
qual è l’utente? E’ la mamma che viene, il papà o il bambino? La risposta non è scontata, ma è necessario
avere un’attenzione al sistema famiglia (previsioni normative) anche se questo approccio nella prassi non è
sempre condiviso. L’attenzione al sistema famiglia è necessario, visto che sempre più nelle situazioni che
arrivano ai servizi ci sono condizioni di frammentazione, conflittualità, di complessità che portano la
necessità di assumere vari punti di vista e richiedono il confronto con altri professionisti. Questo approccio
al sistema famiglia ed al lavoro interprofessionale è basilare anche per ridefinire qual è l’oggetto di lavoro e
chi è la persona di chi ci stiamo occupando. Evitare che la frammentazione e fragilità familiare si riproponga
all’interno della rete di lavoro.
Un altro esempio legge sulle tossicodipendenze pone in termini forti la questione del segreto ma impone la
collaborazione (art. 113 c.p.). quindi le norme vanno interpretate.
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2.3.
IPOTESI DI SUPERAMENTO NEL LAVORO DI RETE
Il Percorso di ricerca formazione che Prospettive ha attivato nell’anno 2010 per approfondire gli aspetti etici
e deontologici nel lavoro interdisciplinare con famiglie e minori in situazioni problematiche.4
Punto di partenza: individuazione di criteri condivisi per il modo di lavorare nelle situazioni complesse che
esigono interventi interdisciplinari e interistituzionali come buona base per attivare degli interventi con
valenza evolutiva per le famiglie che vivono situazioni di particolare criticità.
Ipotesi di partenza: negli interventi interdisciplinari con le famiglie problematiche, per raggiungere obiettivi
di tipo evolutivo, siano necessarie norme di comportamento e di azioni condivise (che perciò non si possono
costruire solo sulla base di protocolli d’intesa imposti dall’alto), cioè frutto di un lavoro comune, atto a
conoscere e riconoscere le componenti costitutive delle diverse posizioni e professioni (mandati, obiettivi,
strumenti, vincoli), al fine di poter considerare assieme, quale possa essere il lavoro comune in funzione del
benessere dei minori e delle famiglie, nel rispetto dei singoli ruoli professionali.
Domanda di fondo: nella situazioni complesse che richiedono interventi interprofessionali (che mettono di
fronte alle differenze) sono sufficienti gli orientamenti dei singoli codici deontologici, ovvero è sufficiente
che ognuno faccia riferimento al proprio codice deontologico e al proprio concetto di etica, o essi devono
essere articolati in un modo specifico per poter essere condivisi da tutti i deversi operatori e professionisti
che si trovano ad interagire?
Obiettivi: riconoscere, esplicitare, confrontare nel gruppo i pensieri, i dubbi e le difficoltà, con riferimento ai
concetti di etica, agli orientamenti teorici e alle deontologie; proporre modalità di superamento delle
criticità e individuare criteri condivisi di etica/deontologia ai quali tutti gli operatori/professionisti di un
gruppo interdisciplinare possano riferirsi nel lavoro quotidiano.
Svolgimento del percorso formativo: approfondimento teorico dell’etica con il prof. Marcello Farina,
presentazione dei diversi codici deontologici (assistenti sociali, educatori/pedagogisti, avvocati, psicologi,
medici, regole F.O.), lavori di gruppo monodisciplinari ed interdisciplinari (criticità e proposte di
superamento), approccio etico e scientifico al lavoro interdisciplinare nel sociale.
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Nodi critici: tutela della riservatezza e segreto professionale sussistenti sia in presenza di progetti/interventi
su mandato dell’Autorità Giudiziaria ovvero su base volontaria (accesso ai servizi da parte dei cittadini
oppure impulso di un operatore e conseguente attivazione di rete di sostegno). Ovviamente l’articolazione
sarà diversa per certi aspetti facilitante/ostacolante (mandato chiaro dell’A.G., talvolta possibilità o dovere
di prescindere dal consenso dell’utente/cliente ma difficoltà di salvaguardare la relazione di fiducia,
contemperamento della dimensione aiuto/controllo). Tendenza attuale alla giuridicizzazione e
burocratizzazione dei processi di lavoro (in chiave difensiva, di minor esposizione ai rischi etc..).
Ipotesi di superamento:
-
rendere espliciti i pensieri che stanno dietro la relazione con gli altri operatori anche in termini di
riferimenti normativi, etici, deontologici, di mandato, di strumenti, di obiettivi: ragionare nel gruppo
di
lavoro
ove
viene
opposta
la
questione
della
riservatezza/segreto
sul
mandato
istituzionale/dell’ente e professionale del singolo (ad esempio richiamo al sistema integrato di
risorse del territorio, alla collaborazione con altri etc…)
-
consenso dell’utente/cliente ed in presenza di minori dell’esercente la potestà genitoriale (genitori)
ovvero del tutore
-
pertinenza del contenuto delle comunicazioni rispetto agli obiettivi perseguiti (ad es. non è
necessario riferire la confidenza di un bambino ma occorre arginare il rischio di trattenere per sé
l’informazione preziosa in chiave di “potere” sulla situazione)
-
coinvolgimento dell’utente/cliente: partecipazione alla riunione di rete, previa comunicazione e se
necessario acquisizione consenso/autorizzazione, restituzione (trasparenza)
-
esplicitare nel gruppo di lavoro il dovere di riservatezza/segreto dell’altro, quindi condivisione che
ognuno è tenuto al rispetto di detto dovere o ipotizzare un segreto professionale d’equipe cercando
di declinare, nella conoscenza e rispetto e dei diversi mandati, obiettivi comuni
-
principio di realtà e responsabilità
-
il segreto professionale non è assoluto: presenta dei forti limiti tant’è che può essere derogato per
giusta causa e c’è violazione soltanto se si reca danno alla persona. Quindi la collaborazione
potrebbe essere una giusta causa di deroga nel senso che consente la comunicazione e lo scambio
dell’informazione all’interno del gruppo professionale che opera su quella situazione (certo
l’interpretazione potrebbe portare anche a concepire il segreto come ingessatura…). Questo
ragionamento si potrebbe fare anche in tema di privacy, di gestione delle informazioni date dal
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cliente/utente. Ad es. l’elaborazione della domanda che porta l’utente (non c’è un rapporto di mera
ricezione/esecuzione) viene fatta nell’interesse della persona e talvolta può imporre la
collaborazione anche in detta fase prodromica.
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CAPITOLO 3
STRUMENTI D’INTERAZIONE QUOTIDIANA CON LE GENITORIALITÀ
Dott.ssa Olivieri Serena
Pedagogista e responsabile dell’area genitorialità della Comunità Murialdo Trentino Alto Adige e
coordinatrice dell’Equipe Multidisciplinare Affido Minori e Famiglie (E.M.A.M.e F.) della Comunità Murialdo
Trentino Alto Adige.
Dott.ssa Saglietti Marzia
Psicologa e Ricercatrice è referente del Centro Ricerca e Sviluppo
della Comunità Murialdo Trentino Alto Adige.
L’intervento formativo aveva come obiettivo aprire una riflessione sul setting, quale cornice all’interno
della quale si lavora, esplorando strumenti utili al lavoro educativo e di rete. Il fine e’ quello di aumentare la
consapevolezza degli operatori nel lavorare in una cornice ben definita.
La metodologia utilizzata aveva lo scopo di attivare un percorso autoriflessivo dei partecipanti sul loro
ruolo
in
un
contesto
multidisciplinare
(si
veda
l’approccio
dell’associazione
Prospettive
-
www.associazioneprospettive.it/) e in un setting dove si è andati ad esplorare alcuni strumenti affinche’ la
formazione potesse dialogare con le buone pratiche, dentro una cornice antinomica, che comprendesse i
differenti punti di vista delle professionalità presenti senza esclusione di alcuno di esse.
Il primo strumento presentato è il setting, il quale stabilisce la cornice entro la quale ha luogo il lavoro
educativo definendo le dimensioni spazio-temporali e di senso quali: i tempi, obiettivi, esplicitazione dei
ruoli diversi a cui sono legati comportamenti ed aspettative reciproche dei partecipanti. Tali vincoli sono
utili a ridurre il senso di frustrazione rispetto ad incontri inconcludenti aumentando efficienza e produttività
degli incontri e quindi la qualità del lavoro, quindi, evita la dispersione dei tempi e migliora la prestazioni
valorizzando le competenze degli attori coinvolti.
Sono molte le difficoltà lavorative legate al ruolo: gli operatori non hanno mai lo stesso ruolo e non sono
neutri nel ricoprirlo. “Noi”, come operatori, siamo strumenti quando incontriamo l’altro: i nostri occhi
veicolano il messaggio su come interpretiamo il mondo. La differenza sui significati che l’operatore dà sta
nel tipo di approccio che si utilizza nel setting, rispetto ad uno specifico intervento educativo.
In un lavoro di rete che prevede l’incontro tra diversi attori sociali, un metodo utile al raggiungimento degli
obiettivi, che ci si prefigge di raggiungere in un contesto che tenga conti di professioni diverse, è il metodo
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multidisciplinare (ibidem) Tale metodo consiste nel sedersi intorno ad un tavolo con un approccio che
parte dagli stessi professionisti, avendo consapevolezza del proprio mandato, nel rispetto del codice
deontologico, e di un approccio orientato e attento a quali domande fare.
Nell’incontro di rete è importante esplicitare ed essere consapevoli dove si posiziona il professionista
rispetto all’altro: ponendo domande rispetto al ruolo reciproco, costruendo spazi per sperimentare
l’approccio multidisciplinare , applicandolo in seguito in contesti ufficiali.
Definire il nostro ruolo fa chiarezza rispetto ai reciproci ruoli e mandati specificando chi coordina o gestisce
l’incontro. In un lavoro di rete esiste il concetto di corresponsabilità, dove ogni attore s’impegna a portare a
termine il proprio specifico compito e ad essere chiaro rispetto allo stesso nei confronti di tutta l’equipe.
Tale corresponsabilità viene legittimata anche attraverso la normativa sull’integrazione socio-sanitaria (L.
328/2000), dove è esplicitato che le parti devono parlare e collaborare rispetto ad un obiettivo condiviso
sulla specifica situazione che seguono nell’interesse del minore.
I problemi in équipe emergono quando non sono chiari alcuni riferimenti:
 “la cornice di riferimento” all’interno della quale si lavora e dove nessuno si prende la
responsabilità di coordinare. A fronte di queste situazioni si verificano silenzi che portano ansia,
domande e molteplici punti di vista. Tutti aspetti legati alla costruzione e al mantenimento del
setting Essi sono legati alla definizione di setting, perché ci si aspetta una postura da qualcuno che
gestisce.
 “La domanda” si presenta molto lassa e quindi chi gestisce l’incontro ha il compito di decodificare la
domanda (Carli, 2003) rispetto alla quale diventa importante comprendere il bisogno e il livello di
negoziazione rispetto alla presenza di ogni attore in equipe.
I differenti ruoli che si ricoprono ci aiutano a definirci in modo chiaro per poterne condividere la postura. In
tali occasioni diventa importante presentarsi, definendo il proprio ruolo rispetto allo specifico mandato,
delineando i confini d’intervento tra Servizio Sociale, educatore e psicologo rispetto alle anticipazioni che
ognuno ha dei ruoli sopradescritti. Questo ci permette di fare emergere le teorie implicite di riferimento
(Fruggeri, 1997), poiché le aspettative non esplicitate fanno emergere significati diversi riguardo al chi
sono, cosa faccio e dove vado rispetto al professionista con cui collaboro. Da qui emerge che uno
strumento utile per fronteggiare la confusione di una cornice e una domanda non chiara è la negoziazione.
Essa permette di definire i ruoli, esplicitare i non detti, prevenire le incomprensioni derivanti da presupposti
impliciti.
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Un ulteriore strumento proposto dalle formatrici è il metodo degli otto casi di Mirko Freni, considerando
che il setting in cui si lavora è protetto dal segreto professionale e dal diritto alla privacy fra professionisti
del sociale.
Mirko Freni, esperto dei processi formativi nel suo metodo, sottolinea l’importanza delle domande come
strumenti generativi in un’ottica di cambiamento; in un tavolo multidisciplinare dove si coniugano differenti
punti di vista.
L’esperienza del metodo si distingue in quattro fasi:
1. Fase della narrazione, come narrazione terapeutica, selezionare le informazioni rispetto a ciò che è
importante sapere mettendo ordine alle cose e si conclude con una domanda (cosa fa il gruppo per
aiutarmi?). il gruppo che ascolta non può interrompere il fluire della narrazione di chi racconta. Se
ci sono urgenze può segnalarle a chi conduce. Al termine della narrazione il gruppo può fare
domande conoscitive libere da interpretazioni, ma utili a comprendere e conoscere meglio la storia
e il problema presentato
2. Fase delle domande aperte da parte del gruppo a chi ha esposto il caso. Esse sono domande di
conoscenza che aiutano a comprendere meglio, non prevedendo interpretazioni.
3. Fase della negoziazione della soluzione ,da parte del gruppo, utile per aiutare la collega sul caso
descritto.
4. Fase in cui il gruppo riporta al narrante la prassi negoziata in grande gruppo.
Il gruppo si esercita attorno ad un caso proposto che riguarda la difficoltà di una madre ad interagire con i
figli del marito. L’operatrice formula una domanda al gruppo:
Quale strumenti posso dare alla mamma per accompagnarla ad essere mamma e non matrigna?
Di seguito il gruppo pone domande conoscitive per aiutare l’operatore a costruire il contesto proponendo
di provare a comprendere i bisogni della mamma includendola in un progetto ampiamente condiviso.
In tal modo si offre la possibilità all’operatore di comprendere e conoscere il suo ruolo e il suo essere attivo
nella relazione con il genitore che la realtà e la relazione quindi non prescinde da come l’operatore si
muove nella relazione ma è parte del processo stesso( Kelly, 1991).
Il secondo strumento, quindi, siamo noi stessi, come operatori e persone, nella relazione con l’Altro,
ricordando che non siamo neutri nel momento in cui abbiamo modificato la conoscenza dell’Altro partendo
dalla nostra storia personale e dal modo di fare domande.
Il terzo strumento, in un setting, è l’ascolto e l’osservazione dell’Altro tenendo presente che la realtà è
filtrata da chi e da come la osserva. Da qui ne deriva che i fenomeni sociali sono filtrati da chi li guarda e la
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costruzione della conoscenza che si ha della famiglia non è oggettiva, ma negoziabile, poichè ci sono infiniti
modi di vedere lo stesso fenomeno sociale.
Il quarto strumento è la documentazione, come traccia scritta rispetto al lavoro che si fa quando si entra in
relazione con i diversi attori quali, i servizi e la famiglia.
Il quinto strumento è l’utilizzo del simbolo, sia nel disegno che nella scrittura come modalità di esplorare i
significati dell’operatore e/o genitore senza definirne i tempi.
Nella scrittura, noi come educatori, abbiamo una posizione nella relazione, noi la modifichiamo poiché si
parte dal presupposto che la centratura siamo noi.
Le formatrici propongono ai partecipanti un’attività simbolica rispetto ad “io gioco un ruolo
nell’interpretare la genitorialità”, cosi, ai partecipanti viene chiesto di pensare ai loro presupposti taciti
rispetto ad uno specifico tema. Dal processo di esito emerge che togliendo il “non” alle caratteristiche
elicitate, che ognuno ha trascritto pensando al genitore che segue, ci si dà la possibilità di vedere il genitore
in modo diverso. Dall’esercitazione proposta emergono le seguenti azioni creatrici:
Accogliere con un sorriso
Andare da lei
Ascoltarla
Credere
Capire
Aiutare a pensare alle conseguenze
Condividere
Ascoltare
Condividere
Portare ad aprirsi
Sostenere le fatiche
Esplicitare
Ri-vedere scelta e grandezza
Valorizzare i punti di forza e i successi
Dare e avere fiducia
Dare tempo
Raccogliere
Essere vicino fisicamente
Dare fiducia
Quando scegliamo di mettere una croce sui nostri “non” è un modo per cambiare i nostri impliciti con la
conseguenza di delimitare il mandato, ridurre l’onnipotenza e l’autoreferenzialità che invece se ci fosse
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rischierebbe di nascondere l’esplicitazione dei ruoli creando confusione e non permettendo di raggiungere
gli obiettivi.
Se i ruoli sono definiti e limitati danno a noi professionalità sulla consapevolezza della propria posizione
nella relazione.
In tal senso l’Altro non viene visto solo come una persona in difficoltà a cui manca una competenza, ma
come una persona in cui poter veder qualcosa di diverso dagli impliciti degli operatori, divenendo
consapevoli di come gli impliciti veicolano il nostro operare (Kelly, 1991).
Se l’operatore apre nuovi sguardi sul genitore può vedere un modo per andargli incontro e fargli fare un
movimento diverso da quello che blocca sia il genitore che l’operatore stesso.
Tale metodo si può applicare ad ogni tipo di relazione poiché il disegno prepara all’incontro aprendo
possibilità. In tal modo si supera l’atteggiamento di coloro che veicolano una serie di pratiche e mettono
l’altro in una posizione che non da possibilità di evolvere. A questo proposito viene condiviso uno studio di
psicologia sociale noto sotto il nome di “Effetto Pigmalione” (L. Jacobson e R.Rosenthal, 1972). Tale
esperimento condotto negli anni 60 negli Stati Uniti ha permesso di dimostrare che il rendimento degli
studenti dipende dalla valutazione implicita degli insegnanti che mettono in atto, in maniera inconsapevole,
nei confronti degli studenti considerati intelligenti.
Questo atteggiamento è legato alle teorie implicite di riferimento, le anticipazioni che ognuno ha quando si
mette in relazione con l’Altro, ad esempio insegnante/studente o educatore/genitore.
Concludendo, se crediamo alle risorse che il genitore può avere gli diamo la possibilità di evolvere e di
cambiare, altrimenti lo trinceriamo nell’etichetta che gli è stata attribuita.
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CAPITOLO 4
“LAVORO CON I PADRI, LAVORO CON LE MADRI: MODALITÀ A CONFRONTO” E
“PROGETTARE E VALUTARE IL LAVORO CON LE GENITORIALITÀ CON DISAGIO”
Dott.ssa Bianca Bertetti, Psicologa e PsicoterapeutaDocente presso l’università Cattolica di Brescia.
L’intervento formativo aveva come obiettivo definire macro concetti e far fare esperienza in tema di :
1.
resilienza
2.
intelligenza emotiva
3.
educazione dell’aggressività.
La metodologia utilizzata si bene alternava tra il frontale e il fare esperienze personale utili all’operatore
secondo l’approccio costruttivo proposto nell’ intero percorso formativo.
4.1 LA RESILIENZA.
Per resilienza s’intende la capacità di superare momenti critici con risorse di vario genere; essa è intesa
come un processo, un percorso da perseguire continuamente. Di solito sia esperti che genitori parlano
dell’Altro partendo dalle difficoltà, conservando il ricordo del trauma, affrontando le cose per vedere come
muovono e ricercando significati nella loro storia familiare e individuale.
Dalla proiezione del filmato “vasi di resilienza” ( Bertetti, 2008), è un proverbio cinese che racconta…
“ Un’anziana donna cinese portava due grandi vasi ognuno appeso all’estremità di un asse di legno che
poggiava sulle sue spalle.
Uno dei vasi aveva una crepa, mentre l'altro era perfetto e consegnava sempre tutto il suo contenuto
d’acqua.
Alla fine del lungo percorso il vaso difettoso arrivava con la metà del suo contenuto. Fu cosi per due lunghi
anni, l anziana donna portava a casa un vaso e mezzo d’acqua.
Il vaso perfetto era orgoglioso del fatto che portava sempre a termine il suo compito.
Il vaso difettoso invece si vergognava della sua imperfezione che causava la perdita della metà del suo
carico.
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Dopo due anni e percepito il suo difetto, durante il tragitto parlò all’anziana donna “sono dispiaciuto che a
causa del mio difetto si perda metà del mio carico” l’anziana sorrise “ hai notato che ci sono dei fiori dal
lato del tuo percorso mentre nell’altro non ce ne sono?”.
Questo perché ho sempre saputo della tua perdita, quindi piantai dei semi dal tuo lato, e d ogni giorno
facendo questo tragitto tu li hai annaffiati.
Per due anni ho potuto raccogliere questi meravigliosi fiori per decorare la nostra tavola. Ognuno di noi ha il
suo difetto particolare… ma sono solo le crepe e i difetti che fan si che le nostre vite siano cosi interessanti e
gratificanti”
Tale narrazione fa emergere che nel processo di resilienza è evidente l’importanza da parte del
protagonista di aver riconosciuto il proprio difetto e al tempo stesso del caregiver di valorizzarne la perdita
trasformandola in una risorsa.
Nelle prese in carico di famiglie è interessante il processo di valorizzazione e trasformazione del difetto in
risorsa poiché solitamente agli operatori viene da guardare quel che non c’è, e quindi provare a ripararlo.
Ricordiamo che la vecchietta, nel film i vasi di resilienza, non ha riparato ma ha trovato utile il suo difetto.
Il difetto si vive in negativo anche nel personale ci blocca, ci fa vergognare e ci fa fare fatica invece pensare
che è una risorsa aiuta a cambiare prospettiva.
A volte non si può riparare un difetto o qualcosa che si rompe e quindi si passa dall’idea di riparare a
trasformare.
A d’attesa, il vaso col buco si è sentito inadeguato. I tempi dall’attesa ci fanno capire che per entrare nella
relazione ed arrivare ai cambiamenti con la persona non bisogna avere fretta. Risulta importante leggere i
bisogni e ascoltare i tempi dell’Altro che non sono necessariamente quelli dell’operatore o del servizio. Di
qui nasce la necessità di lavorare con “la persona” e non con l’utente.
4.2 QUALI SONO I FATTORI CHE FAVORISCONO LA RESILIENZA?
La resilienza è il risultato dell’interazione tra due ordini di fattori: fattori di rischio e fattori di protezione.
Entrambi possono essere distali, ovvero quelli che fanno da sfondo all’esperienza quotidiana, e i prossimali
invece si riferiscono proprio all’esperienza quotidiana .
Entrambi si distinguono poi in fattori individuali, familiari e sociali. Ora proviamo a descrivere i fattori distali
di rischio. I fattori sociali sottolineano come elementi di criticità la povertà cronica o disoccupazione, il
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Basso livello di istruzione a cui si aggiungono la carenza di relazioni interpersonali e quella di reti e
d’integrazione sociale in particolare se la persona o famiglia è di recente immigrata nel paese ospitante.
I Fattori familiari che pongono il genitore a rischio sono date dall’appartenenza ad una Famiglia
monoparentale, o dall’essersi sposati presto con annessa gravidanza precoce. A tali elementi si aggiunge la
provenienza da famiglie multiproblematiche o dalla nascita del primo figlio in famiglie emigrate.
Fattori individuali di rischio si distinguono per la Giovane età della madre, per le Esperienze di rifiuto,
violenza o abuso subite nell’infanzia o Sfiducia verso le norme sociali e le istituzioni, dall’accettazione della
violenza e delle punizioni come pratiche educative e dalle Scarse conoscenze e dal disinteresse per lo
sviluppo del bambino
Tra i fattori prossimali di rischio nei genitori troviamo per i fattori familiari e sociali una Gravidanza e
maternità precoci con annesse Relazioni traumatiche con la propria famiglia di origine e/o con quella del
partner a cui si aggiungono Conflitti di coppia e violenza domestica e / o Separazione conflittuale.
Nei Fattori individuali elementi di rischio sono l’aver abusato di sostanze o laver avuto in famiglia geniotri
devianti o con aulche psicopatologia degli stessi
quale: disturbi
nell’area borderline
(personalità
borderline, istrioniche, disturbi nell’area narcisista- evitante (nevrosi ossessive, depressioni, personalità
antisociali, perversioni) e disturbi paranoidi.
Proviamo a vedere il dettaglio dei fattori di protezione e riduzione del rischio nei genitori che facilitano il
processo di resilienza.
Tra i fattori individuali rientrano le persone che hanno buona stima di se, capacità di attivarsi, intelligenza
emotiva, capacità introspettiva e di controllo. Per intelligenza s’intende che la persona possiede buone
capacità di trovare soluzioni, a questa si aggiunge l’essere creativi cioè imparare a vedere le situazioni da
un altro punto di vista e l’utilizzare humour in situazioni critiche cioè il riuscire a farsi una bella risata. La
persona per riuscire ad essere risolutrice di problema è importante possiede risorse personali quali:
Rielaborazione del rifiuto e alla violenza subiti nell’infanzia
Autonomia personale
Buon livello di autostima
Capacità empatiche di entrare in relazione con gli altri
Capacità di assunzione delle responsabilità
Desiderio di migliorarsi
Capacità di gestire i conflitti e di autocontrollo emotivo
Capacità di assumere responsabilità e di affrontare i problemi in modo attivo
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Buon livello di intelligenza
Capacità di chiedere aiuto
In aggiunta alle risorse personali ci sono quelle legate alla competenza genitoriale tra cui troviamo la
capacità di riconoscere limiti ed errori, di operare cambiamenti, di fruire di relazioni parzialmente
compensative
e
di
chiedere
e
ricevere
aiuti
dalla
rete
prossima
di
parenti
e
amici.
Tra i fattori sociali emerge l ‘importanza di avere, partecipando, una rete di supporto, un sufficientemente
buon inserimento lavorativo ed un buon Inserimento in gruppi sportivi e di aggregazione (religiosi, culturali,
ecc.). Esso è importante per sviluppare un senso di appartenenza al gruppo.
Tra i fattori familiari risulta essere importante e determinante per lo sviluppo di un attaccamento sicuro
l’avere un rapporto positivo almeno con un genitore o con uno sostitutivo, avere una rete di supporto
parentale ed un rapporto positivo con i fratelli. Si aggiunge una rete di supporto parentale (solidarietà della
famiglia allargata) e un solido rapporto di coppia soddisfacente conservando una relazione buona con
almeno un componente della famiglia di origine.
Dal confronto col gruppo formativo emerge quanto in Valle Giudicarie manchino famiglie accoglienti e affidi
diurni tali da favorire allontanamenti necessari in alcune situazioni. Emerge che i centri diurni sono pieni di
ragazzini. La frequenza agli oratori da parte dei minori dipendono dal parroco e dalla compartecipazione
della famiglia.
4.3 COME PROMUOVERE RESILIENZA NEI GENITORI?
La metodologia utile a fa fiorire risorse nei genitori piu’ sofferenti è di attivare un processo di resilienza che
sia in grado di :
 Offrire contenimento a dolore, confusione, rabbia
 Aiutare a mettere pensiero sul maltrattamento
 Aiutare a dare significato a storie complesse attraverso una narrazione coerente
 Aiutare a riconoscere difficoltà e fragilità
 Promuovere un atteggiamento attivo e di richiesta di aiuto
 Puntare sul genitore più accogliente
 Non dimenticare di cogliere e allargare gli spiragli che il genitore maltrattante presenta
 Incrementare il dialogo empatico coi figli
Di seguito illustreremo i quattro passi utili nella promozione della resilienza, quali :
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1. costruire la rete:
L’operatore che segue la famiglia può lavorare sulla possibilità che il genitore abbia un’abitazione, un
lavoro, una rete di supporto psicologica-pedagogica, una rete amicale o parentale supportiva e autorevole
e che il genitore fragile venga inserito in gruppi sportivi o di aggregazione (religiosi, culturali, ecc.) per
sviluppare senso di appartenenza
2. Agganciare i genitori ai familiari possibili:
L’ educatore che segue la famiglia si occuperà di fare rete con la famiglia d origine, parentale ( fratelli,
familiari stretti e lontani) tar cui il partner (coniuge, convivente, compagno), parenti meno stretti e
componenti (almeno un genitore, nonno, zio) della famiglia di origine.
3. Riflettere sul senso da dare alle situazioni:
Accompagnare il genitore verso un percorso di riflessività aiutandolo ad attribuire significati all’esperienza
critica che porta all’operatore connettendola ad un contesto sociale, valori culturali, storia
multigenerazionale, aspirazioni per il futuro.
Aiutare il genitore ad analizzare la situazione non come esito di malasorte ma come esito di molte variabili
concomitanti e quindi aiutarlo a trovare soluzioni possibili senza arroccarsi su aspettative impossibili.
4. Sostenere la resilienza individuale nei genitori:
L’ operatore si occuperà di favorire nel genitore il senso di autoefficacia (anche facendo qualcosa di molto
piccolo), una buona stima di sé, conoscenza di sé e riconoscimento delle emozioni(intelligenza emotiva e
sociale*) e l’’intelligenza e la creatività (Gardner, 2005), coltivare valori come protezione che orientano
nelle situazioni difficili limitando l’utilizzando difese meno primitive della scissione, negazione, proiezione.
Proporre una base “sufficientemente” sicura di relazione, un “porto” da cui potersi allontanare e ritornare.
Attivare la funzione riflessiva (Fonagy, 2000).
Il “porto sicuro” si caratterizza nella capacità di rispecchiare in modo empatico i bisogni e le emozioni
accogliendo il dolore, i sentimenti piu’ indicibili, cercando di dare significati condivisi con i genitori e
favorendo la narrazione di storie complesse. Al tempo stesso reggere alle provocazioni, proponendo limiti
costruttivi e stimolare la capacità di guardarsi dentro.
In questo lavoro cosi complesso gli operatori devono essere coerenti con gli interventi socio-psicopedagocici condivisi e devono avere un forte senso di stabilità interno.
La buona stima di sé e il sentirsi capaci permettono un atteggiamento attivo di fronte alle difficoltà e di
porsi in atteggiamento pro autonomia e non assistenziale, permettendo di armonizzare aspetti emotivi,
cognitivi e corporei.
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Come attività, viene presentato il film PRECIOUS (Lee Daniels, 2009) e viene chiesto di guardarlo ponendo
attenzioni ai fattori di rischio e protezione precedentemente descritti che sono presenti nel film e le
possibile soluzioni che come operatori è possibile proporre a Precious, protagonista del film, per sostenerla
nel suo difficile cammino.
Trama:
Nella Harlem povera e disagiata degli anni ottanta, vive l'adolescente Precious, obesa e semianalfabeta.
Violentata dal padre, ha dato alla luce una bambina con la sindrome di Down, dovendo sopportare le
quotidiane umiliazioni da parte della madre.
Quando la scuola scopre che Precious è nuovamente incinta, sempre a causa delle violenze del padre, la
espelle. Grazie all'interessamento della direttrice, la ragazza viene mandata in un istituto per ragazzi con
problemi sociali. Lì inizia pian piano a recuperare la fiducia in sé stessa, imparando a leggere e scrivere.
Grazie all'aiuto di diverse persone, Precious inizia un percorso verso una vita più umana e felice.
Di seguito sono riportati gli elementi condivisi in attività di gruppo. La relatrice chiede al gruppo
d’individuare nel film i fattori, sia di rischio che di resilienza, familiari, individuali e sociali.
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FATTORI
FAMILIARI
RISCHIO

RESILIENZA
La
mamma
della
protagonista

per superare le violenze subite;
complice della violenza psicologica

subita da Precious;

di
maltrattamento

forza
di
riscattarsi
della
la nonna della ragazza come risorsa di
caregiving per i figli di Precious.
psicologico e denigrazione nei

la
protagonista;
la rabbia della mamma espresso in
termini
I figli della protagonista come stimoli
confronti della minore;

nessuna figura parentale positiva

per Precious.
INDIVIDUALI
la passività di P.nei confronti delle

Competenza in matematica;
violenze subite;

Tenacia nelle scelte;

obesità;

Sensibilità;

sieropositività;

Pazienza;

maltrattamenti e abusi subiti;

Abilità culinaria;

discriminazione razziale subita;

Passione per il canto;

ritiro sociale;

Dedizione per la cura della casa;

scarsa autostima;

Il senso dell’humour.

maternità precoce;

pensieri di fuga e rischio di

Capacità

alienazione sociale.
SOCIALI



Mancanza
di
mediazione
tra
di
ascolto
da
Precious e sua mamma da parte
dell’assistente sociale nei confronti di
dell’assistente sociale;
P;
La povertà economica e culturale

L’insegnante come caregiver per P.;
della famiglia di P.;

le compagne come rete amicale
Lo stile di vita poco stimolante
supportiva.
proposto dalla mamma di P.;

parte
Dipendenza
da
gioco
della
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mamma di P.;

Assenza di una rete amicale
positiva per P.
VALORI

la mancanza d’affetto in famiglia;

il rispetto degli altri;

l’isolamento;

la cura di se;

la distorta idea dell’ amore;

il voler costruirsi una famiglia;

la disillusione.

l’ amore di Precious verso i figli;

l’istruzione;

l’avere la fede in Dio.
Dopo aver individuato i sopradescritti fattori la relatrice chiede al gruppo i possibili progetti di autonomia
per Precious considerando i suoi punti di forza e le sue debolezze. Le proposte pensate e condivise
riguardano:
1° proposta: Inserirla in un Appartamento con un operatore che l’aiuti a mantenere lo studio o aiutandola
in un progetto d’inserimento lavorativo valorizzando le sue passioni, come la cucina e la cura della casa. Un
progetto educativo di accompagnamento alla sua crescita personale e di mamma.
2° proposta: inserirla in una comunità mamma-bambino in modo che possa essere accompagnata e
sostenuta nella cura dei suoi piccoli avendo la possibilità di dedicarsi ad alcune sue passioni quali la scuola
di canto e l’arte .
3° proposta: attivare familiarmente come progetto di sostegno alla genitorialità.
4° proposta: Proporre l’affido o il sostegno da parte di una famiglia accogliente per Precious e i suoi
bambini con annesso supporto psicologico e inserimento in gruppo per genitori soli.
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Il gruppo rafforza l’ idea che per lavorare con le genitorialità è necessario conoscere e contattare la propria
parte interiore di genitore e favorire un processo di auto-riflessività ( kelly, 1991) su chi siamo e cosa
facciamo quando siamo in relazione con un genitore fragile. La conoscenza della nostra parte interna
facilita l’ascolto e l’individuazione degli aspetti positivi presenti nel genitore importanti da enfatizzare e
restituire al genitore nei termini di “io credo in te”. Tutti abbiamo una parte buona solo che non siamo
abituati a riconoscercela e cosi diventiamo le mamme buone in senso winnicottiane per quei genitori che
non hanno avuto questo tipo di esperienza.
4.4 INTELLIGENZA EMOTIVA.
Le persone intelligenti sono più resilienti, dove per intelligenza s’intende la capacità di risolvere problemi e
porre interrogativi. Lo strumento che permette di giungere a tale obiettivo è lo spirito creativo, come modo
di vedere i problemi e le situazioni da un altro punto di vista.
Gardner parla di sette forme di intelligenza (Gardner,1993) a cui se ne aggiungono due a cui lo stesso
autore dà particolare rilievo: la naturalistica e l’esistenziale. La prima si riferisce alla natura e alla capacità di
osservazioni, porre domande su cose naturalistiche osservate e fare piccoli esperimenti mentre la seconda
fa riferimento al senso della vita in questo contesto si è intesa la capacità della persona di porsi domande di
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senso ed di tipo esistenziale. La resilienza è favorita dall’accoglimento dell’operatore e del genitore che si
segue, nei termini del favorire:

consapevolezza nei genitori circa il motivo della loro rabbia;

consapevolezza dell’emozioni che si prova poiché esse permettono di raggiungere gli obiettivi
prefissati;

capacità introspettiva ( che emozioni ho io e cosa mi suscitano), cogliendo quelle degli altri.
Il motore di quanto sopra descritto è lo sviluppare “l’empatia” intesa come “capacità di non arroccarsi sul
proprio io, usandolo come ponte per andare verso l’altro” (Bertetti, 2008).
La dott.ssa Bertetti propone una prima attività sull’empatia al gruppo con lo scopo di fare esperienza sul
significato e su ciò che suscita in noi e nell’Altro. La richiesta era di rappresentare simbolicamente o con
una parola “quando mi sento ascoltato a fondo è come se…” da cui è emerso che per comprendere i bisogni
dei genitori è importante mettersi nei loro panni e vedere la relazione con i figli dal loro punto di vista.
Come seconda attività la dottoressa propone al gruppo un lavoro che stimoli la consapevolezza di tale
processo. La relatrice chiede al gruppo di dividersi in coppie e imitare il movimento del corpo dell’Altro, in
una seconda fase di condurre l’altro toccandosi.
Da qui emerge quanto l’entrare in empatia è anch’essa una dimensione soggettiva, dipende da molti fattori
quali la conoscenza, la distanza, il feeling, le caratteristiche personali circa il piacere versus fastidio del farsi
toccare. Emerge che non c’è una regola che vale per tutti, ma che ognuno ha i suoi tempi da rispettare e
che l ‘empatia si costruisce in maniera soggettiva, a seconda della persona con cui si è in relazione.
Come terza attività la dott.ssa Bertetti propone un esercizio di concentrazione che aiuta ad entrare in
contatto con la parte bambina di noi. L‘ attività si sviluppa nelle seguenti fasi:
1. concentrazione ( sorridere ad un bambino zero-cinque anni)-mettersi in contatto con la parte
piccola di noi;
2. disegnarlo in forma di vegetale ( simbolo);
3. disegnare le persone di riferimento in forma vegetale …(simboli).
Come quarta attività la relatrice propone al gruppo una riflessione circa …pensando ad uno dei padri e
madri che seguono :
quale figura di riferimento rappresentereste simbolicamente?
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Dall’esercizio emerge che i significati che tre operatrici diverse danno su un caso comune riconducono ad
un’idea, oggi, condivisa del genitore come fragile ma che richiama ad una possibilità di movimento della
persona non considerandola statica nella sua fragilità ma potenzialmente in evoluzione.
Dagli esercizi proposti al gruppo si possono individuare, attraverso l’esperienza fatta , gli ingredienti e i
“killer dell’empatia”( Bertetti, 2008) che possono orientare lo stare dell’operatore nella relazione con
l'altro. Gli ingredienti dell’empatia emersi dal gruppo riguardano il Guardare negli occhi, l’ascolto,
l’attenzione, la comprensione, la calma, la sospensione del giudizio, la conoscenza di stati emotivi, il non
sentirsi superiore all’altro, il mettersi nei panni dell’altro non dando soluzioni immediate, il so-stare nel
clima difficile valorizzando l’Altro, l’attenzione al non verbale (come dire le cose), il setting (organizzato,
accogliente e preparato). Quanto descritto sopra la relatrice riassume nei seguenti punti fondamentali:
Incoraggiare a trovare soluzioni insolite
Fiducia nella propria creatività
Assenza di censura
Osservazione precisa
Domande penetranti.
I killer dell’empatia, invece , il gruppo li riconduce al giudizio o pregiudizio, alla superficialità, al fare
domande sbagliate, al sostituirsi, al dare soluzioni preconfezionate, all’avere fretta di risolvere, all’essere
unicamente centrati su se stessi, all’interpretare senza ascoltare a fondo, sal ostenere un partner contro
l’altro. Tali possono essere cosi brevemente riassunti:
Aspettative irrealistiche dei genitori
Valutazione
Ricompense estrinseche
Competizione
Eccessivo controllo
Limitare le scelte
Pressione ad adeguarsi a modelli prestabiliti
Critiche eccessive
Lodi eccessive
No tempo illimitato.
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Quanto sopra descritto è un modo creativo per affrontare i problemi senza fare riferimento a soluzioni
preconfezionate ma cambiando semplicemente il punto di vista e provando a portare soluzioni che
oltrepassano la cornice di riferimento, le anticipazioni (Kelly, 1991) che hanno guidato fino a quel momento
le azioni delle persone.
Bertetti riassume le fasi del momento creativo nel seguente modo:
 La preparazione della ricerca di una soluzione, quando si raccolgono tante informazioni, si lascia
vagare l’immaginazione
 La frustrazione, quando la risposta non si presenta immediatamente ed è necessario accettare
l’ansia e continuare con determinazione la ricerca
 L’incubazione, quando si lasciano sedimentare i pensieri e ci si apre all’inconscio
 L’illuminazione, quando, improvvisamente, prende forma la soluzione
 La realizzazione, quando si traducono in realtà le intuizioni.
4.5 EDUCARE ALL’ AGGRESSIVITA’.
Il costrutto aggressività (Bertetti, 2008) è da declinare in due aspetti: distruttivo e costruttivo. L’aspetto
distruttivo è come un vulcano che esplode, un ringhio feroce, una frustata, il vortice di un ciclone. L’aspetto
costruttivo è la capacità di superare con forza gli ostacoli, la voglia di farcela, una leonessa che difende i
cuccioli. Da qui diventa necessaria la differenza tra provare rabbia e agire la violenza. Il sentimento della
rabbia è un’emozione sana che tutti provano poiché è il campanello che ci fa capire come stiamo. La
violenza si differenzia dall’emozione in sé della rabbia poiché è il modo in cui le persone agiscono la rabbia.
Se la rabbia è il bene, l’azione violenta è il male come vediamo nella figura qui sotto.
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I modi per coniugare questi due aspetti hanno luogo nella capacità di educare all’aggressività , dove con
questo costrutto s’intende :
 trasmettere sicurezza, dare risposta ai bisogni;
 contenere, recintare dolore e aggressività;
 cercare il significato del dolore e della rabbia;
 integrare aggressività e risorse;
 proporre comportamenti alternativi.
La relatrice cosi propone al gruppo un’attività che consiste nel rappresentare attraverso un disegno di
gruppo il loro costrutto di aggressività.
Emerge dal gruppo quanto spesso l’aggressività sia riferita a qualcosa di negativo da qui la necessità di
distinguere la violenza dall’aggressività, dove la prima è distruttiva, mentre la seconda deriva da una
somma di fattori accumulati, che la persona non riesce a contenere e che fuoriescono come qualcosa
d’inarrestabile, rimanendo invisibile ciò che l’ha creato. Essa tende a far allontanare le persone che ci
possono stare vicini ferendo gli altri. Si giunge alla consapevolezza che dopo l’ esplosione c’è la calma.
I passi per contenere l’aggressività, intesa come possibilità di trasformare la rabbia in qualcosa di utile per
la persona, che l’ha manifestata, sono di dare nome al sentimento; di riuscire a collegare la rabbia al dolore
che c’è dietro distinguendo il sentimento dal comportamento, di comprendere l’aggressività come qualcosa
che ha a che fare con l’attività, l’esprimere, l’agire, risultando un aspetto positivo rispetto alla chiusura; Di
proporre percorsi per prevenire scoppi di rabbia.
L’approccio buddista di Thic Nhat Hanh, propone 5 stadi per controllare la rabbia:
Riconoscere il sentimento, esserne consapevole;
Accettazione dell’emozione come non giudizio;
Abbracciare la fatica, la rabbia, la parte sofferente, nel senso del contenimento winnicottiano;
Osservazione delle cause che hanno prodotto rabbia e dolore;
Comprensione risvegliata, da cui deriva intuizione, la possibilità d’individuare cosa fare per
cambiare la situazione.
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Un'altra tecnica utile alla gestione dell’aggressività è l’humour che permette di considerare i problemi da un
altro punto di vista ,in modo piu’ distaccato.
L’umorismo come risposta inattesa serve a rompere gli schemi trovando alternative; a guardare dall’alto di
un albero i problemi favorendo la socializzazione, contenendo le emozioni e mantenendo una distanza dalle
situazioni . I partecipanti di un corso di formazione la trovano utile a : a staccare; a Liberare la mente, a far
volare liberi e leggeri, a sdrammatizzare, a rinfrescarti, a sciogliere il ghiaccio, a fare venire il sorriso agli
altri, a creare feeling e sintonia (Bertetti, 2008).
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CAPITOLO 5
Tavola Rotonda. “ESPERIENZE A SOSTEGNO DELLE GENITORIALITÀ IN GIUDICARIE”
Coordina il Dott. Ius Marco
Ricercatore e docente del dipartimento FISPA dell'università di Padova.
Intervengono:


dott.ssa Patrizia Ballardini (Presidente della comunità delle Giudicarie)
dott. Corrado Barone (Neuropsichiatra infantile presso l’UONPI 2 Neuropsichiatria dell'infanzia e
dell'adolescenza - distretto Apss di Tione)

dott.ssa Michela Fioroni (Assistente sociale Coordinatore presso la Comunità delle Giudicarie)

dott.ssa Aglaja Masè (Psicologa-psicoterapeuta, Responsabile Del Progetto Familiar..Mente In
Valle Giudicarie della Cooperativa L’Ancora)

dott.ssa Luisa Masè (Coordinatrice e referente del distretto famiglia presso la Comunità delle
Giudicarie)

dott. Davide Monti (assistente sociale, Direttore della Comunità Murialdo Trentino Alto Adige)

dott.ssa Rosanna Lizzari (Psicopedagogista presso Istituto Comprensivo Don Milani del Chiese)

dott. Francesco Reitano (Psicologo-psicoterapeuta-Direttore dell’UO 2 di Psicologia).
5.1 CORNICE CONCETTUALE
Il tema delle politiche familiari appare oggi come uno dei più urgenti ed è forte la spinta verso un approccio
che tenga conto di un’ottica multifocale e interdisciplinare, capace di integrare sinergie pubbliche e private,
evitando il rischio di limitarsi ad una serie di azioni puntiformi a carattere episodico. Il territorio provinciale
si accinge in questo momento a dotarsi di strumenti e servizi in grado di innescare circoli virtuosi nella
produzione di benessere sociale e ciò rappresenta la migliore strategia di fronteggiamento delle crescenti
forme di disagio. La famiglia e le reti familiari rappresentano, in questo senso, un contesto fondamentale
per l’azione preventiva.
La Comunità delle Giudicarie ha saputo diventare in questi anni un emblematico riferimento per le politiche
della famiglia in Trentino, annoverando diverse punte di eccellenza, nella consapevolezza che la
promozione dell’agio si configura sempre più come stimolo e risorsa per una crescita socio-economica del
territorio in grado di produrre capitale sociale.
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Da tempo nella comunità scientifica trentina ci si interroga sulla famiglia assunta nella sua doppia veste di
soggetto attivo e nel contempo fruitore di servizi, sul potenziale latente delle famiglie quali protagoniste
del proprio progetto di vita in un contesto in continuo cambiamento e sulla famiglia quale entità portatrice
di bisogni ed insieme di potenzialità e resilienza.
La domanda alla base della riflessione che la tavola rotonda intende porre, è semplice: padri e madri, per
educare i figli hanno bisogno di aiuto? Questa necessità trova costante conferma nelle discipline
psicologiche e sociali, così come nell’esperienze pedagogica. Perché il bisogno non si trasformi in malessere
occorre che i servizi, le agenzie educative e la comunità interagiscano in ottica integrata. In particolare per i
servizi che si occupano di bambini, ragazzi e famiglie, diventa prioritario co-costruire un sapere preciso che
susciti e solleciti le domande dei genitori e che allo stesso tempo li accompagni ad individuare attivamente
risposte personalizzate.
La progettualità condivisa fra Istituzioni, servizi psico-sociali, sanitari ed educativi può contribuire ad una
reale possibilità di crescita per la comunità, anche proponendo visioni nuove ed innovative per questo c’è
bisogno di pensare politiche per la famiglia con uno sguardo interdisciplinare, mutuando da un lato “buone
prassi” e dall’altro programmazione e co-costruzione di servizi in un’ottica di qualità.
I rappresentanti delle istituzioni e dei servizi invitati alla tavola rotonda, coordinata dal dott. Davide Monti e
facilitata dal dott. Marco Ius , a partecipare attivamente nel confronto sono:
-
dott.ssa Patrizia Ballardini (Presidente della comunità delle Giudicarie)
-
dott. Corrado Barone (Neuropsichiatra infantile presso l’UONPI 2 Neuropsichiatria dell'infanzia e
dell'adolescenza - distretto Apss di Tione)
-
dott.ssa Michela Fioroni (Assistente sociale Coordinatore presso la Comunità delle Giudicarie)
-
dott.ssa Aglaja Masè (Psicologa-psicoterapeuta, Responsabile Del Progetto Familiar..Mente In
Valle Giudicarie della Cooperativa L’Ancora)
-
dott.ssa Luisa Masè (Coordinatrice e referente del distretto famiglia presso la Comunità delle
Giudicarie)
-
dott. Davide Monti (assistente sociale, Direttore della Comunità Murialdo Trentino Alto Adige)
-
dott.ssa Rosanna Lizzari (Psicopedagogista presso Istituto Comprensivo Don Milani del Chiese)
-
dott. Francesco Reitano (Psicologo-psicoterapeuta-Direttore dell’UO 2 di Psicologia).
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5.2 LE GENITORIALITA’ IN ITALIA E IN VALLE GIUDICARIE
Vi presentiamo, di seguito, l’intervento di ogni attore coinvolto nella tavola rotonda a partire da chi
coordina l’incontro: il direttore della Comunità Murialdo Trentino Alto Adige, Davide Monti.
DAVIDE MONTI: Questo percorso formativo nasce dal coordinamento del Servizio Sociale locale e tramite la
Comunità di Valle. A partire dal mese di ottobre si sono susseguiti quattro moduli formativi a cura della
Comunita Murialdo Trentino Alto Adige a cui molti di voi hanno partecipato. L'idea era quella di esplorare le
buone prassi rispetto all'educativa genitoriale che fanno capo qui al territorio, in particolare attraverso il
progetto "Familiarmente", che si ispira al progetto ormai ex Domino che poi è coagulato in un contenitore
più ampio e più articolato che è quello del progetto "Costellazioni di famiglie", una partnership tra Azienda
Sanitaria, privato sociale con Comunità Murialdo e ufficio Centro per l'infanzia della Provincia Autonoma di
Trento. Il primo modulo condotto dalla dottoressa Aglaja Masè dell’Ancora e dalla dottoressa Barbara
Altare della Comunità Murialdo ha illustrato queste “best practices”. Il secondo modulo è stato gestito dalla
avvocatessa Chiara Messina, la vice presidente dell'associazione "Prospettive", che ci ha accompagnato
nell'individuare i presupposti per la costruzione di una rete tra servizi costruita anche attraverso lo scambio
di informazioni conservando il diritto alla privacy dell'utente e contemporaneamente garantendo il
proseguimento di un obiettivo esplicito e condiviso che poi è quello del benessere di bambini e genitori in
momentanea difficoltà. Il terzo modulo coordinato dalla dottoressa Saglietti e dalla dottoressa Olivieri,
rispettivamente del Centro Ricerca e Sviluppo della Comunità Murialdo e coordinatrice dell'area
Genitorialità dell'Equipe Multidisciplinare dell'Affidamento Minori e Famiglia, ha sollecitato i partecipanti su
strumenti innovativi rispetto all'intervento con le Genitorialità anche, ma non solo, per recuperare in
qualche modo quella che è la giusta posizione della famiglia nel percorso di aiuto. Essa non può essere solo
il soggetto ricevente, ma deve e può costituire una parte attiva del processo di cambiamento. Il quarto
modulo, quello più corposo, in cui abbiamo potuto beneficiare della presenza della dottoressa Bianca Maria
Bertetti dell’Università Cattolica Di Brescia, ci ha illustrato o ha sollecitato il gruppo a riflettere sul concetto
di empatia e sul concetto di resilienza letto come percorso evolutivo. Arriviamo questa mattina alla
possibilità di confrontarci con diversi testimoni privilegiati e in qualche modo stakeholder che
rappresentano una sorta di interdisciplinarietà che lavora con le Genitorialità. Diamo questo plurale per
non confinare quella che è un'esperienza che tra l'altro ci vede bene o male tutti come protagonisti. Allora
la domanda di partenza è: i genitori hanno bisogno di aiuto per educare i figli?
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È vero che noi come addetti ai lavori - credo che ci sia anche qualche genitore in mezzo a noi - per lo più
veniamo dal mondo dei servizi, dei Servizi Sociali, dei servizi alla persona, della scuola, della sanità, ci
troviamo spesso a lavorare con la Genitorialità in crisi, con la Genitorialità in difficoltà. Vogliamo uscire, lo
facciamo oggi in modo concreto, da un'idea che questa disfunzione possa essere connaturata in maniera
patologica, ce lo dice la nostra esperienza, ce lo dicono i genitori stessi.
Abbiamo questa mattina la fortuna di avere il dottor Marco Ius, dottore di ricerca dell'università di Padova
che ci porta un po' della sua esperienza, una fetta del mondo che lui in questo momento sta osservando
soprattutto a livello nazionale con diverse esperienze importanti. Abbiamo come dire l'opportunità di far
risaltare quelle che per il Trentino rappresentano delle punte di eccellenza, la comunità delle Giudicarie, il
territorio in cui ci troviamo oggi, e che ci ospita - ringraziamo la dottoressa Ballardini, che è la padrona di
casa - presenta delle punte di eccellenza che rappresentano degli esempi a cui tutto il Trentino sta
guardando. Lascio quindi la parola alla dottoressa Ballardini che introduce concretamente i lavori della
mattinata.
PATRIZIA BALLARDINI: Grazie a Davide Monti. Buongiorno a tutti. L'introduzione è già stata molto concreta
devo dire, quindi non aggiungerei altro, perché stimoli ce ne sono stati tanti. Aprirei innanzitutto
ringraziando la Comunità Murialdo, che insieme all’Ancora, ha lavorato molto su questa iniziativa. Ringrazio
i relatori e non voglio portare via troppo tempo perché la tavola rotonda è una parte davvero molto ricca e
da lì penso possano uscire dimensioni ancora più importanti. Questa mattina è un momento al quale
abbiamo voluto anche come Comunità dare un valore importante nell'ambito del percorso che abbiamo
avviato con l'inizio di questo mio mandato all'interno della comunità, dove già nelle prime problematiche
veniva posto un focus molto forte sulla famiglia. Sottolineando come noi vediamo la famiglia, sia in quei
casi sui quali occorre lavorare per riuscire a creare delle condizioni più favorevoli, sia nei confronti di questo
allargato territorio. La famiglia, quindi viene prima delle questioni economiche, sociali, e via via. Come
scelta di fondo della nostra amministrazione la famiglia è stata un po' l'idea-tutore, il filo rosso che
accompagna le nostre scelte. Colgo l'occasione anche per ringraziare le nostre assistenti sociali e la
dottoressa Annalisa Zambotti-coordinatrice dei Servizi Sociali Locali- che davvero con tanta passione hanno
accompagnato tante situazioni. Famiglia è anche il luogo a partire dal quale costruire degli esseri della
collettività, quindi famiglia è anche un luogo d'incontro tra la gestione del disagio e la creazione di
situazioni di benessere in una logica di prevenzione, ma anche di creazione di quelle convinzioni che
possono favorire la costruzione del futuro di questo territorio. Inoltre, nel confronto prima con il dottor
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Monti e anche con il professor Ius, che ringrazio a maggior ragione perché ho capito essere molto
impegnato anche in altri ambiti. Ho sottolineato, come il nostro impegno oggi, è quello di fare tutti uno
sforzo a partire dalla comunità, per superare la barriera che in qualche modo c'è tra la gestione del disagio
e il supporto alla creazione di condizione di benessere. Questo proprio per cercare di affiancare la famiglie
in un modo integrato anche alla luce del fatto che il limite tra benessere e disagio è molto labile.
Dal punto di vista di un amministratore per riuscire ad individuare le forme di sussidiarietà verticale e
orizzontale, oggi è ancora più fondamentale un approccio integrato per riuscire ad affiancare le famiglie in
un momento di contrazione delle risorse e comunque di criticità o delicatezza che scinde dalla situazione
economica e sociale. Ecco, io credo che lavorare su questo sia importante oggi, che è un momento nel
quale comunque ci sono ancora risorse e la possibilità di essere al fianco di situazioni di disagio perlomeno
nel Trentino. Per prepararci ad un futuro che certamente sarà diverso il privato sociale e le risorse
pubbliche andranno a trovare nuove sinergie, nuove forme di interazione con altri soggetti proprio per
affiancare queste famiglie. Ecco, chiudo con una considerazione rispetto a rettificare le intese come
territorio, dove davvero abbiamo esperienze pionieristiche e teoriche che oggi sono diventate esempi di
riferimento in ambito nazionale, ma non solo. A partire dal distretto Rendena che oggi vi verrà raccontato
da Luisa Masè avremo modo di raccontarvi l'esperienza della comunità che ha obiettivamente delle risorse
e delle persone eccezionali che hanno saputo dare molto al territorio. Una comunità, della quale in questo
momento parlo, quindi la comunità delle Giudicarie, che ha messo al centro la famiglia e io lo dico perché
siamo l'unica comunità che puntiamo sulla famiglia lavorando con i soggetti territoriali. Lo dico tutte le
volte non per dire l'abbiamo fatto solo noi, ma per dire davvero quanto ne abbiamo parlato delle
problematiche di centralità della famiglia. Abbiamo quindi cercato anche di avviare un percorso di
sensibilizzazione a partire dagli amministratori locali e quindi parlo di sindaci, assessori ahimè quasi sempre
donne - mi dispiace dirlo perché nell'ultimo incontro che abbiamo fatto un paio di mesi fa nella sala
dall'altra parte c'erano credo quaranta signore e un unico uomo. Perché lo dico, perché in realtà non è che i
problemi familiari siano un tema tra donne, anzi sono un tema di tutti, dove purtroppo spesso
nell'amministrazione locale però si da la competenza o la delega alle donne come se fosse un problema o
una questione di genere quando assolutamente non lo è. Su questo devo dire che anche quando parlo con i
sindaci non è facilissimo abbattere questa barriera. Loro dicono :”perché mi mandi sempre l'assessore
donna che si occupa di cultura e di sociale? Perché non vieni tu in persona?” Ma lo dico senza problemi, lo
dico solo per far passare il messaggio che c'è ancora molto da fare, molto da lavorare dal punto di vista
culturale per capire come lavorare sulle dinamiche famigliari: è oggi un lavorare per la prospettiva, pur con
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grande fatica, ma insomma credo che dobbiamo farlo. A maggior ragione qui nelle Giudicarie che abbiamo
alcune esperienze che sono state pionieristiche per avere dei risultati importanti che verranno poi
raccontati, continuare a credere in questa direzione soprattutto in questo momento difficile.
E’ quanto mai necessario prima di concludere il mio intervento permettetemi di lasciare un ringraziamneto
agli organizzatori .
Prima hanno parlato di conclusione del percorso educativo della genitorialità; ma io vorrei parlare di una
tappa, di una tappa importante di un percorso che è stato costellato da tanti momenti e che vuole avere
altrettante tappe importanti. Quindi grazie davvero alla Comunità Murialdo, al Servizio Sociale che si è
occupato in particolare dell'organizzazione di questo incontro e a tutti i relatori e buon lavoro.
MARCO IUS: Buongiorno a tutti anche da parte mia. Grazie per questo invito. Ormai la collaborazione e
amicizia con la Comunità Murialdo ci lega da un po' di anni, per cui è stato un piacere accogliere le loro
proposte ed ho anche un dovere, da buon amico, sapere che non posso dire di no tanto facilmente.
Ringrazio di questo sforzo che ogni tanto mi fanno fare e che poi sono contento di fare, perché dà sempre
la possibilità di incontrare persone nuove, nuove situazioni come quella di oggi in cui oltre a portare il mio
contributo ho anche l'occasione di imparare tante cose dagli altri, grazie poi, anche alla riflessione che si fa
insieme. Così mi sembra di poter dire e di mettere come cornice quella di provare a mettersi insieme e a
riflettere sulle esperienze che si sono fatte, provare a fermarsi per metterci un pensiero e per vedere dove
questo pensiero ci può condurre, se possiamo seguire delle piste verso le quali camminare o attraverso cui
camminare per stare nei nostri luoghi e nei nostri lavori di sostegno ai genitori, ai bambini che crescono
anche in sostegno alla nostra crescita personale. Allora mi presento brevemente per dire due o tre cose in
più di me anche perché così avete la possibilità di capire come mai sono qua, di cosa mi occupo. Io lavoro al
dipartimento FISPA dell'Università di Padova, un nuovo compartimento che ha accorpato filosofia,
sociologia, pedagogia e psicologia applicata, così vi dico anche alcune cose delle novità dell'università negli
ultimi anni e lavoro con la dottoressa Paola Milani che si occupa da tantissimo tempo di sostegno alla
genitorialità, di pedagogia della famiglia, dell'educazione famigliare, dentro la famiglia e fuori la famiglia,
famiglia e comunità. Nel mio percorso di studio di ricerca ho avuto un grande privilegio di approfondire il
tema della resilienza, che so che alcuni di voi hanno incontrato anche durante questo corso. Sono contento
di condividerlo con voi oggi, visto che ieri era la "giornata della memoria" e questa memoria mi piace
continuare così a condividerla con voi. In questo percorso sulla resilienza ho avuto la possibilità di
incontrare alcuni bambini ebrei sopravvissuti alla shoa, che sono sopravvissuti grazie al fatto di essere stati
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nascosti in altre famiglie e questo ci ha dato la possibilità di riflettere e di comprendere quali sono stati i
fattori che li hanno protetti nel loro sviluppo e nella loro crescita e di poter utilizzare anche queste
informazioni e questa conoscenza per i bambini e le famiglie, e le famiglie di oggi. Nello specifico di questi
ultimi tempi, con il gruppo con cui lavoro che è capitanato dalla professoressa Milani e ci sono tanti altri
miei colleghi e ci siamo nominati "LABRIEF", come laboratorio di ricerca e intervento in educazione
famigliare, un laboratorio che ha proprio la caratteristica di provare a mettere insieme gli aspetti della
ricerca, della formazione e dell'intervento, di lavorare con il territorio. Anche in questo modo e durante la
presentazione di oggi avremo modo anche di dire qualcosa di un progetto che stiamo seguendo ormai da
tre anni e mezzo, che si chiama PIPPI, come "pippi calzelunghe", ed è l'acronimo che sta per "Programma di
Intervento Per la Prevenzione dell'Istituzionalizzazione", un programma nazionale pianificato dal ministero
e a cui stiamo lavorando con diverse città italiane proprio per sostenere i genitori che si trovano in
situazioni di difficoltà e provare a sostenerli con alcuni percorsi particolari in modo tale che i bambini non
siano poi allontanati da casa. Questo per dire due o tre cose in più di me. Il tema che mi hanno chiesto di
affrontare, di introdurre è quello del lavoro con la genitorialità in Italia. Un titolo molto ampio, in cui
possiamo metterci dentro tante cose. Non ho la pretesa e neanche ci tento di fare un quadro così esaustivo
di quello che è il lavoro con la genitorialità nel nostro paese. Mi piace in questo tempo provare a
condividere con voi alcune delle piste che ci aiutano, che ci possono aiutare nella nostra riflessione, che ci
stanno aiutando come gruppo di ricerca, di formazione e d’intervento a lavorare con gli operatori, in modo
tale che a partire da questo noi possiamo eventualmente utilizzare qualche base comune, andare a vedere
gli enti comuni per passare poi anche alla nostra tavola rotonda. Per cui ho preparato del materiale che
sicuramente non riuscirò a svolgere del tutto, eventualmente se volete si possono poi riprendere alcuni
aspetti nel corso della nostra tavola rotonda. Prima di iniziare vorrei dare il "la" con una piccola storia per
così farvi un invito di come mi piace stare qui in questa giornata oggi e avere così una metafora che ci può
unire anche nel nostro essere insieme. Ve la racconto.
“DUE PASSEROTTI”
Due passerotti se ne stavano beatamente a prendere il fresco sulla stessa pianta, che era un salice. Uno si
era appollaiato sulla cima del salice. L'altro in basso su una biforcazione dei rami. Dopo un po’ il passerotto
che stava in alto, tanto per rompere il ghiaccio, dopo la siesta, disse: "Oh, come sono belle queste foglie
verdi". Il passerotto che stava in basso la prese come una provocazione gli rispose molto seccato: "Ma sei
orbo? Non vedi che sono bianche?" e quello sopra indispettito "Sei orbo tu! Sono verdi" e l'altro in basso con
il becco in su "Ci scommetto le piume della coda che sono bianche, tu non capisci nulla, sei matto". Il
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passerotto della cima si sentì bollire il sangue e senza pensarci due volte si precipitò sul suo avversario per
dargli una lezione. L'altro non si mosse. Quando furono vicini, uno di fronte all'altro con le piume del collo
arruffate per l'ira, prima di cominciare il duello ebbero la lealtà di guardare nella stessa direzione; verso
l'alto. Il passerotto che veniva dall'altro emise un "Oohh" di meraviglia "Guarda un po’ che sono bianche"
disse poi al suo amico "Vola un po’ lassù dove stavo prima". Volarono sul più alto ramo del salice e questa
volta dissero in coro "Mmmhhh guarda un po’ che qui sono verdi".
(Bruno Ferrero, 1970)
Allora mi piace iniziare con questo racconto e con questo immaginario che ciascuno porta il proprio essere
passerotto rispetto alla sua provenienza e al suo ruolo, alle sue competenze e alle sue formazioni, e
ciascuno di noi vede le foglie con la sfumatura che porta la propria esperienza. E provare a stare insieme
attorno ad un tavolo a confrontarci sicuramente ci può mettere in conflitto, in confronto. Non abbiamo la
pretesa di andare d'accordo su tutto, però il provare a mettersi in questo ascolto ci da’ la possibilità non
solo di innalzarci, ma addirittura di andare su un ramo superiore a quello da cui si era partiti. Mi piace
iniziare questo incontro pensando di essere su questo albero e di fare un po' un viaggio sui vostri rami:
Perché sostenere la genitorialità?.
Nel titolo è stato messo le genitorialità, che ci dice che ci sono tante genitorialità, tante forme di
genitorialità, ci sono tante famiglie, tanti tipi di famiglie, non entro su questo perché ci porterebbe via tanto
tempo adesso, però, vi consiglio proprio un manuale di quelli che ci aiutano a fare sintesi concettuali, ma
anche diventa uno strumento di lavoro con i bambini e con le famiglie "Il libro delle famiglie" (Todd, 2012)
in cui dentro c'è veramente un universo delle tipologie famigliari che ci aiuta a metterci in ascolto dei tanti
modi di essere genitori. Ho messo subito questa prospettiva del co-educare e che avrò modo di
approfondire nel corso del mio intervento, la lascio un attimo lì. Ed entro innanzitutto nel concetto del
sostenere la genitorialità, pensando di non lasciare i genitori soli nel loro compito genitoriale. Perché
questo? Lo dico di nuovo, perché educare è difficile, è un compito complesso, sicuramente è un processo, è
una pista da compiere insieme, mettendoci dentro delle azioni, un senso, ma soprattutto anche un
prodotto della nostra cultura. E’ importante fare queste considerazioni sapendo di essere qui, ora, nel
2014, in questo contesto, in questa valle, in questa provincia, in Italia. Perché è difficile? E per chi è
difficile? In particolare per i genitori di questa generazione, per il momento storico che viviamo, perché
vediamo che c'è stata una trasformazione anche una dissoluzione dei modelli educativi, non c'è questo
senso di replicabilità che c'era un tempo, in cui si poteva fare copia e incolla con quello che avevano fatto i
propri genitori che funzionava, e funzionava bene, adesso questa azione non torna più, ci sono stati dei
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grandi cambiamenti rispetto alle strutture e alle morfologie famigliari, pensiamo solo alla cosiddetta
piramide, in cui una volta c'era un nonno con dei figli, che si sposavano e avevano tanti figli, per cui tanti
bambini e sopra un anziano, adesso questa piramide si è capovolta per cui c'è un bambino che ha due
genitori, con i due genitori, come i nonni, e i bisnonni e tutta una serie di persone che come un imbuto,
portano tutta l'energia e l'investimento affettivo della famiglia su di lui. Viviamo sempre più situazioni in cui
accogliamo nelle nostre realtà anche genitori e famiglie che provengono da altri contesti geografici, altri
contesti culturali e ci sono persone in cui neanche mettono al mondo bambini, adottando lontano dalla
propria famiglia d'origine. Se mettiamo anche degli elementi relativi all'età media in cui i genitori, le
persone hanno il primo figlio, il numero di figli per donna, tante conseguenze che questo comporta e poi
non ultimo ci mettiamo il lavoro su i diritti dei bambini. Allora tante questioni, tanti elementi, che ci
possono accendere alcune attenzioni, rispetto a quello che noi vediamo. L'interesse per la genitorialità da
dove nasce. Tante ricerche ci conducono a riflettere su questo, ci danno delle informazioni importanti poi
sul piano della genitorialità. Innanzitutto vediamo che la genitorialità positiva ha un grande impatto sulla
crescita dei bambini e anche tutti gli studi sulla resilienza e sui fattori protettivi ci fanno vedere e ci indicano
come uno dei fattori protettivi maggiori è proprio quello di aver avuto una buona esperienza.
Questo ci spinge da subito a chiederci che cosa possiamo fare per aiutare tutti i bambini ad avere la più
buona esperienza di genitorialità che gli è possibile nella loro vita. Questa è una domanda che possiamo
farci per tutte le situazioni di genitorialità cosiddetta di agio o di normalità e per la genitorialità che si
sviluppa da subito, che parte da subito con una situazione di difficoltà o di sofferenza. Vediamo che
l'impatto della genitorialità carente, che questa genitorialità carente ha sulla povertà, disordini,
comportamenti antisociali è molto forte, quindi, abbiamo l'altra faccia della medaglia, del concetto di
resilienza. L’ essere buoni genitori non è un presupposto da cui si vuole partire come condizione “sine qua
non” o base da cui partire per, ma è una competenza che si può apprendere, che si può continuare a cocostruire, costruire all'interno della propria resilienza. Per cui essere genitori non è una cosa che ti capita, ti
danno un patentino perché hai un bambino, ma è una competenza da mettere in un continuum che si può
accrescere, che si può sviluppare: La matrioska. Allora condividiamo un quadro di riferimento che già ci ha
messo alla luce alcune questioni. I genitori nella relazione con i loro figli, non sono soli, sono dentro un
sistema della propria famiglia allargata, sono dentro ad un luogo dove ci possono essere aiuti più o meno
diversi all'interno del proprio contesto abitativo, nel loro luogo, nel loro stato. Voglio così condividere con
voi il modello bio-ecologico dello sviluppo umano di Urie Bronfenbrenner, forse alcuni lo conoscono già per
cui sono ben così intersecati in questo modello, eventualmente fate un segno e integrate quello che dirò.
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Bronfenbrenner era uno studioso, psicologo americano che per tutta la vita si è occupato di questa
domanda, si è chiesto che cosa è che fa diventare umani gli umani. Cosa è che fa crescere i bambini e cosa è
che fa diventare persone, le persone. Ha messo insieme questo modello, che viene appunto chiamato
modello bio-ecologico dello sviluppo, che è un modello da pensare come la matrioska di prima, dalla più
piccola che è contenuta in una più grande, in una più grande, in una più grande. Allora usando questa
metafora della Matrioska e pensando adesso come esempio tipo di un bambino, proviamo a vedere come
possiamo utilizzare questo modello per pensare alla genitorialità e a come si può sostenere la crescita di un
bambino, la crescita dei suoi genitori. Allora innanzitutto mettiamo il bambino al centro, e quello viene
definito come sotto-sistema, cioè il bambino per le sue caratteristiche individuali, la sua età, il suo
temperamento, la sua identità. E Bronfenbrenner dice: “ i bambini crescono perché sono inseriti in un
sistema di relazioni. I bambini crescono perché ci sono delle relazioni che lo aiutano nei loro passi di sviluppo
e di crescita”.
Il primo sistema con cui i bambini vengono a contatto e che ha un impatto importante sulla crescita del
bambino sicuramente è il sistema famiglia e in primis noi mettiamo i genitori, per cui i bambini crescono
perché ci sono dei genitori che si occupano di loro e che stanno in relazione con loro. E quindi insomma il
micro-sistema comprende tutte quelle relazioni con cui il bambino è presente ed è un altro di questa
relazione. La famiglia, in primis, quando il bambino inizia ad andare per esempio alla scuola dell'infanzia,
quella diventa un altro micro-sistema, perché il bambino ha un costante contatto con la maestra e con i
suoi compagni. La seconda bambola, che contiene questo, è data dal meso-sistema, che definisce i legami e
le relazioni che ci sono tra i diversi elementi del micro-sistema. Cioè le relazioni che ci sono tra tutte le
persone che hanno un contatto costante con i bambini. Bronfenbrenner sostiene che il bambino cresce,
cresce bene perché ha dei buoni genitori, io uso questa categoria, questo aggettivo del buono, dell'essere
buono, perché ha delle buone maestre, perché ha dei buoni compagni di classe. Ma cresce anche perché i
genitori e le maestre si parlano. La relazione che genitori e maestre hanno tra di loro, quando il bambino
non c'è, ha una ripercussione, un influsso su come poi ciascuno di loro starà con il bambino. Il mesosistema, quindi, definisce quelle relazioni in cui le persone che si occupano della crescita del bambino
stanno insieme, quando il bambino non c'è. Un terzo passaggio di sistema è quello dell'eso-sistema e
definisce tutte le relazioni che gli elementi del micro-sistema hanno con altre persone che invece non
hanno un contatto con i bambini. Pensiamo, in primis, ai luoghi di lavoro dei genitori, per esempio, in cui
magari il bambino non ha contatti con i colleghi di lavoro di papà, con i datori di lavoro di mamma. Come il
papà sta al lavoro, come vive la sua esperienza lavorativa, quanto si sente gratificato o meno nel suo lavoro,
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avrà una ripercussione su come questo papà può stare con il suo bambino. Se io faccio un lavoro dove sto
bene, mi sento realizzato, mi sento soddisfatto di quello che faccio, quando andrò a casa, magari sarò
stanco, ma arriverò a casa con una certa energia e potrò stare in un modo con mio figlio. Se sono in un
luogo che non mi valorizza, in cui mi sento frustrato, da cui non vedo l'ora di uscirne, quando tornerò a
casa, avrò un'altra energia per stare con il mio bambino. Questo è un esempio per la famiglia, però
potremmo fare lo stesso esempio per i servizi, per le scuole, per le maestre. Pensiamo ad esempio al
contatto che gli operatori “x”, per cui potremmo metterci dentro educatori, assistenti sociali, insegnanti,
cioè tutte le persone che a titolo professionale si occupano dell'educazione, e la portano in questo piano
con gli altri problemi o con la dirigenza dell'ente per cui lavora. Il fatto che il mio dirigente si occupi del mio
gruppo di lavoro in un certo modo e che crei certi condizioni, che ci dia certi spazi, che ci offra della
formazione, ha un'influenza su come ciascuno di noi sta con i bambini e con le famiglie. E l'ultimo sistema,
l'ultimo contenitore è il macro-sistema, che definisce tutto l'insieme delle attitudini, credenze, pratiche
educative, sistema giuridico, proprio della comunità o anche dello stato di appartenenza. Il fatto di essere
qui oggi a condividere certe cose è perché nel nostro paese c'è un sistema legislativo di un certo tipo,
perché i servizi sono organizzati in un certo modo, c'è stata una legge , la 328 e la 285, che ha attivato tutto
un modo di riflettere sulla famiglia, su come dare supporto alle famiglie. Questo è uno sguardo macro.
Siamo qui anche oggi, perché questo territorio in particolare assieme alla Comunità Murialdo e ad altre
persone del privato sociale hanno deciso di cogliere alcune questioni culturali che ci stanno attraversando
in questo periodo e provare a dare voce a queste situazioni. Siamo qui anche magari perché questa mattina
qualcuno ha potuto prendere un autobus ed arrivare in questo luogo, e quindi abbiamo un sistema attorno
a noi che ci consente di fare dei passi anche dal punto di vista del movimento. Vediamo, quindi, come
ciascuno di questi sistemi, a prescindere da dove sia, può avere un'influenza sulla vita e sulla crescita di un
bambino. Bronfenbrenner sostiene anche che i sistemi non sono da considerarsi molto rigidi, ma sono
sistemi in evoluzione del cromo-sistema, quindi,
nella linea del tempo che ci porta ad interagire con altre entità personali, con la crescita famigliare, ma
anche poi con i cambiamenti sociali che hanno pensato cosa voglia dire per un bambino dell'Emilia andare
alla scuola dell'infanzia prima del terremoto e dopo del terremoto.
E' come un evento esterno che è capitato in quel tempo, ha cambiato completamente tutte l'ecologia di
questo bambino. Vediamo come questa rappresentazione, questa cornice ci permette di riflettere
sull'importanza che ciascun sistema ha. Quindi ci chiediamo: dove sto io? posso mettermi dentro, nella mia
vita privata, nella vita personale e nella mia vita professionale? Quali sono i diversi sistemi a cui
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appartengo? Se mi penso come figlio sono nell'unico sistema della mia famiglia d'origine. Se mi penso come
genitore sono nel micro-sistema rispetto a mio figlio, nella famiglia che ho creato. Se mi metto come
professionista, in che modo incontro le famiglie? Ma soprattutto mi chiedo, posso chiedermi qual è il lavoro
specifico che posso fare all'interno di ciascun sistema e quale lavoro di ponte posso creare per iniziare a
mettere una continuità, fra i diversi sistemi. Ad esempio io come educatore domiciliare, posso fare un
intervento importante, entrando a casa di una famiglia, facendo un percorso con questa mamma, con
questo papà e con Filippo - Filippo è il mio bambino immaginario, il bambino che mi accompagna . Posso
fare questo lavoro con la mamma e il papà e con Filippo, entrando quindi nel micro-sistema, posso avere
uno spazio di lavoro con i genitori e basta, e quindi diventare uno spazio di meso-sistema, in cui io vedo un
po' il bambino, vedo un po' i genitori, però mi prendo uno spazio con i genitori per riflettere con loro su
alcune questioni. Posso essere un elemento di eso-sitema in cui io incontro solo i genitori e aiuto i genitori
a riflettere sulla loro genitorialità, senza vedere mai Filippo. Posso anche essere un educatore che fa sia un
intervento diretto con quella famiglia, ma che si prende anche un po' di tempo per andare a parlare con
l'allenatore di calcio di Filippo e riflettere un po' con questo allenatore su come sta andando l'esperienza di
gruppo di Filippo e magari concordare insieme alcune azioni, alcune attenzioni da avere, dire: guarda
Filippo in questo momento sta vivendo una situazione un po' particolare, per cui ti chiederei di prestare
attenzione a queste cose, di valorizzarlo in questo modo. E allo stesso modo, potrei fare la stessa cosa
parlando agli animatori dell'oratorio. Io come operatore, quindi, indirettamente faccio un'azione che
incontra le persone che poi incontrano direttamente Filippo creando questo tipo di effetto a catena
rispetto a quelle che sono le relazioni che lo sostengono. Allora se tutto il nostro focus è la crescita dei
bambini e il focus su sostenere la genitorialità è quello di sostenere i genitori per la crescita dei bambini,
capiamo come il nostro lavoro e il nostro intervento professionale, personale, a titolo volontario, poi
ciascuno si può collocare in base a quello che è il proprio, la propria identità, vediamo come questo lavoro
possa veramente essere fatto a tanti livelli. Nel momento in cui io inserisco un elemento in un sistema,
questo può creare diversi movimenti. Provare a collocarsi all'interno di una prospettiva ecologica può
portare a fare tanto in un contatto diretto con le famiglie, ma possiamo fare altrettanto tanto nel provare a
mettere insieme il nostro intervento tra di noi, perché questo possa poi rimbalzare in un sostegno alle
famiglie in un modo più efficace. Quali sono alcune questioni che dentro a questa prospettiva possiamo
collocare?. La prospettiva della co-educazione, comprende il fatto che i genitori non educano da soli. Ci
sono tante persone che possono partecipare all'educazione dei bambini. Potremmo scomodare il proverbio
africano: ci vuole intero villaggio per educare i bambini. Forse alcuni possono andare ad esplorare anche
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alcuni aspetti, alcune esperienze della propria infanzia, in cui magari anche il sistema era diverso, c'era più
una prospettiva di comunità. Comunque quello che vediamo è che il benessere dei bambini è la risultante
di un'azione ecologica. Non è tutto sulla responsabilità dei genitori, è responsabilità della comunità. Solo
mettendoci insieme in questo modo possiamo dirci qual è veramente la responsabilità di ciascuno
all'interno di una prospettiva condivisa. In questo vediamo che, proprio perché si co-educa, si educa
insieme, il modello non è quello dell'insegnante che ti dice quello che devi fare o che ti insegna come si fa,
ma quello che fa la differenza è avere uno spazio di condivisione, di riflessione, di provare a condividere il
proprio sapere e di diventare parte di una relazione per la crescita dei bambini. C'è una bellissima vignetta,
che adesso non ho sottomano qua, di un bambino, un ragazzo che vede i genitori che vanno con gli
insegnanti e dice: oddio, si parlano. Allora vediamo se "quell'oddio si parlano" diventa veramente "sono
insieme" e tengono tra di loro, so che poi la posizione sarà molto più forte e più salda. Per cui questo
"oddio si parlano" lo pensiamo con gli occhi del pre-adolescente, che magari vorrebbe sgattaiolare,
sguinzagliare via dai confronti anche della crescita, dice "questi adulti qua se si sono messi insieme, io sono
finito", in questa prospettiva.
Ci possiamo chiedere quali siano le differenze fra le azioni di informare i genitori, di coinvolgerli, di invitarli
invece a partecipare, di farli essere parte attiva del percorso. Dentro a questo modello bio-ecologico
possiamo anche iniziare a riflettere sulle situazioni delle famiglie, ci chiediamo quali sono i loro problemi, le
loro difficoltà, le loro risorse, tanto lavoro e tanto focus è stato messo negli ultimi anni sulle risorse delle
persone, sul senso dell'empowerment, sull'importanza in educazione di lavorare non solo su quello che non
va ma anche sui punti di forza e quindi possiamo vedere dentro questo sistema quali sono i problemi, quali
sono le difficoltà, quali sono le risorse e proviamo, provo a buttare lì questo concetto, questa richiesta, di
provare a trasformare i problemi in bisogni. Allora già questa mattina, nell'introduzione è stato fatto
qualche riferimento alle situazioni del cosiddetto agio, alle situazioni di intervento di offerta alle famiglie in
cui si vuole promuovere il benessere dei bambini e delle famiglie. E sono state nominate invece le situazioni
di disagio. Di solito anche alla luce di quello che è il nostro sistema organizzativo e anche legislativo,
pensiamo ai servizi di protezione e tutela, e i servizi di sostegno alla genitorialità, alle politiche di protezione
e tutela e alle politiche per la famiglia, che di solito sono frammentate, non sono separate. In questo e
quello che vediamo, pensando in termini eco-sistemici, che è dal macro-sistema, dal macro-contesto che
poi si sviluppano due modi di rispondere ai bisogni delle famiglie. Uno sforzo che potremmo fare è
ripensare alle situazioni nella vita di continuo, in cui ogni famiglia che ha dei bambini si trova di fronte ad
alcune questioni relative alla crescita di questi bambini, queste questioni possono essere legate alla crescita
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di quel momento di quella persona, possono essere legate alla storia di quei genitori, possono essere legate
alla storia di quei genitori all'interno della propria famiglia e possono essere legate anche al contesto. Allora
vediamo come provare ad affrontare le questioni da un punto di vista ecologico, ci può aiutare a vedere che
il gioco non è mai fatto solo ed esclusivamente in quel sistema, ma bisogna pensare all'interno di una
cornice più complessa. Allora in questo senso la sfida può essere proprio quella di provare a trasformare
ogni problema in un bisogno. Allora la persona che mi porta questa questione, che mi porta questo
problema, lo porta perché il suo bisogno è che.., perché il bisogno di quel bambino è.., perché il bisogno di
quella mamma è... Allora in questi termini possiamo comprendere come magari il bisogno di questa
mamma che è una mamma cosiddetta normale, è una mamma brava, vuole chiedere uno spazio per sé, per
riflettere sulla propria genitorialità e quindi aumentare in qualche modo la consapevolezza rispetto al suo
essere genitore e abbiamo la mamma del compagno di classe di suo figlio invece che si trova a vivere una
situazione specifica di difficoltà legata alle sue condizioni personali, legata al suo contesto, in cui il suo
bisogno di genitorialità e di sostegno al suo bambino si esprime in un modo diverso. Allora in questa
prospettiva di toglierci dalla visione sul problema, sulla difficoltà, sul deficit, il pensare al bisogno ci aiuta a
stare più concentrati sul qui ed ora, su quello che sta capitando a queste persone ed a provare insieme a
queste persone a creare un progetto di crescita, un progetto di cambiamento. Ed allo stesso modo come
pensiamo ai bisogni delle famiglie, potremmo chiedere diciamo quali sono i bisogni dei servizi, qual è il
nostro bisogno del gruppo operatori per poter fare meglio il nostro lavoro, quali sono le condizioni che ci
possono aiutare a svilupparci al meglio, a crescere meglio, quindi potendo offrire di meglio alle famiglie.
Non entro sulla questione della resilienza, tanto il tema della resilienza ci dice su questo e sulla visione di
deficit, problema o risorse, e nelle storie di resilienza vediamo anche come le difficoltà poi possano
trasformarsi in risorse. Vi voglio presentare solo questa definizione che mi sembra un buon modo di fare
sintesi, perché ci toglie dalla dinamica difficoltà/punto di forza/problema/risorsa, ma mette tutto in una
prospettiva di continuum ecologica. "La resilienza definisce la capacità delle singole persone - potremmo
metterci delle famiglie, delle comunità, dei gruppi - di orientarsi, di navigare verso le risorse psicologiche,
sociali, culturali, fisiche presenti nel proprio territorio, che sostengono in modo diverso la capacità di
negoziare in modo individuale e collettivo affinché queste risorse siano rese disponibili, vissute e condivise in
modo significativo per il proprio contesto culturale di appartenenza".
Questo ci dice sia che è importante che ci siano delle risorse sia che, è importante,che a queste risorse sia
dato un significato positivo. In una situazione di lieve difficoltà, pensiamo alla mamma che proviene da un
altro contesto culturale, non entro nello specifico adesso di un contesto, una mamma da sola che cresce
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questo bambino con difficoltà economiche, che non ha il lavoro, il cui bambino è piccolo, che non sa cosa
fare, che non sa come venirne fuori e io da bravo operatore le dico: guardi signora attraverso il SIL (Servizio
di Integrazione Lavorativa) abbiamo questa possibilità per sostenerla a trovare un lavoro, c'è l'asilo nido,
lasciamo il bambino all'asilo nido, così lei può andare a lavorare. Ci sono due risorse importanti in questo
territorio, tre, cioè una persona come me che si mette a disposizione per sostenerla e poi c'è il nido e c'è il
lavoro. Per questa mamma lasciare il suo bambino, che ha meno di un anno, in un nido ad un estraneo
significa abbandonarlo, in qualche modo, non ha questo vissuto anche a partire dalla sua cultura. Finché
non troveremo il modo di entrare e condividere il mio sapere, la mia proposta, ascoltare il suo sapere, la
sua proposta, la sua idea, la sua cultura, i suoi valori, facendo diventare queste risorse, le risorse
significative, sarà molto difficile che questa mamma possa sfruttare poi bene queste risorse. Allora vediamo
come questa prospettiva da micro a macro ci può aiutare ad orientarci. Ultimo passaggio che voglio fare è
un passaggio dal modello bio-ecologico ad un frame work teorico, che è diventato anche uno strumento, un
modello multidimensionale sui bisogni di crescita e di sviluppo dei bambini, che abbiamo tradotto e
riadattato dal "congruence associationist framework": un modello inglese di tipo triangolare. Pensiamo a
questo come il mondo di ciascun bambino, con il bambino al centro, potremmo immaginare qui, eccolo
qua, di avere una bella faccia, una bella faccia di Filippo e ci chiediamo di cosa Filippo ha bisogno per
crescere, di chi si prende cura di lui, dei luoghi in cui vive, di che cosa ha bisogno per crescere, di chi si
prende cura di me, dai luoghi in cui vivo. Abbiamo da questo lato, quelli che sono riconosciuti come bisogni
di crescita e di sviluppo dei bambini, nelle ricerche a livello internazionale. Di che cosa ha bisogno un
bambino? Di stare bene, di essere in salute e di poter crescere, ha bisogno di essere in contatto con le
proprie emozioni, di imparare a pensare, di comunicare, e di comportarsi, di avere un sistema di
comportamento, ha bisogno di un'identità, di avere un senso di autostima, di valore, di sviluppare
autonomia, di relazioni famigliari e sociali, di un apprendimento, di gioco e tempo libero. Questi sono i
bisogni dei bambini. Dall'altra parte mettiamo le competenze che il genitore che si prende cura del
bambino può mettere in campo per rispondere poi a questi bisogni. Quali sono le competenze di base del
mondo dei genitori? Quello di garantire una cura di base, sicurezza e protezione, calore, affetti, stabilità
emotiva, di avere un sistema normativo, guida e valori, affetti e la struttura di divertimento, stimolo e
incoraggiamento. Il bambino ha bisogno anche che i genitori siano realizzati come adulti, come figure di
adulti. Tutto questo avviene in un ambiente, un ambiente in cui ci mettiamo le reti sociali, la famiglia
allargata, il lavoro, la condizione economica, l'abitazione, la partecipazione alla vita della comunità, e anche
di avere un buon rapporto con la scuola e le altre risorse educative. Allora vi ho presentato questo triangolo
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con le edizioni in qualche modo più professionali, più tecniche in cui possiamo riconoscere anche parte del
nostro lavoro.
Adesso vorrei rileggervi le stesse, lo stesso triangolo utilizzando un linguaggio più alla portata dei bambini e
vediamo se anche questo ci può dare qualche indicazione, ci può suggerire qualcosa. Dobbiamo ancora
immaginare che ci sia Filippo al centro che ci dice:
“Io per crescere ho bisogno di stare bene, di riconoscere come mi sento comunità, di sapere come
comportarmi, di sapere chi sono, quali sono i miei punti di forza e i miei sogni, di imparare a fare da solo, di
volere bene e stare con gli altri, di imparare a scuola e nella vita, ho bisogno di giocare e avere tempo libero.
Dalle persone che si prendono cura di me ho bisogno di sentirmi sicuro e protetto, ben accudito, di sentirmi
amato, stare tranquillo ed essere consolato, di essere aiutato a comprendere il senso delle regole, le
conseguenze delle mie azioni, di giocare insieme e divertirci, di imparare ad essere incoraggiato, e ho
bisogno che questa persona che si occupa di me stia bene e sappia prendersi cura di se stessa.
E nel luogo in cui vivo, nel mio ambiente, ho bisogno di avere dei buoni rapporti, di sentirmi sostenuto dagli
amici e dai parenti, che la mia famiglia lavori e abbia il necessario per vivere, di vivere con la mia famiglia
dei momenti e delle relazioni positive anche fuori casa, di avere una casa comoda e sicura, e ho bisogno che
i miei genitori, i miei insegnanti, gli educatori si parlino e collaborino”.
Allora vediamo come da un modello di Brofenbrenner, modello triangolare che ci da sui tre lati del
triangolo le tre questioni principali: i bisogni del bambino, le competenze dei genitori e l'ambiente in cui il
bambino e la sua famiglia vivono, con poi i diversi risvolti. Vediamo come possiamo pensare al nostro
lavoro, come ad un lavoro che va a raccogliere la storia di una famiglia, il senso del fare la valutazione, di
raccogliere la situazione, capire come è questo mondo di questo bambino e insieme con la famiglia provare
a fare qualche passo per cambiare, potenziare, migliorare. In questo modello possiamo metterci tutte le
famiglie, quelle in difficoltà, che ci porteranno, potremmo dire, delle nuvolette un po' scure perché c'è
tanta sofferenza, c'è tanto bisogno, c'è tanta difficoltà a potenziare quell'area; o delle situazioni in cui le
nuvolette sono già belle chiare, belle sviluppate e le persone arrivano chiedendoci cosa possono fare in più
per capire, per capire al meglio questi aspetti. E vediamo come noi dei servizi, pubblico, privato,
volontariato, in base a quello che è il nostro ruolo, abbiamo un ruolo specifico per entrare dentro a questo
triangolo. Noi facciamo parte della vita dei bambini e il bambino ci chiede lui stesso che noi operatori,
genitori, insegnanti ci parliamo tra di noi e comunichiamo tra di noi, perché questo è un aspetto importante
per la sua crescita. Non a caso poi l'ambiente, adesso come base per gli altri due lati, che stanno in piedi
sopra questa base; per cui, ancora di più il nostro supporto diventa un supporto importante perché crea
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quelle condizioni che a seconda delle necessità, a seconda del bisogno di quel bambino, di quella struttura
famigliare, può rispondere direttamente o indirettamente al bisogno di questo bambino, può rispondere
direttamente o indirettamente alle necessità, ai bisogni dei genitori di incrementare le proprie competenze
genitoriali o di creare delle condizioni di contesto per poter fare qualche passo in più. Allora questo
triangolo può diventare uno schema di riferimento per noi, come modello teorico. E’ un modello teorico
che nella nostra esperienza, penso soprattutto a PIPPI, ci sta aiutando a lavorare in equipe multidisciplinare
e integrare la famiglia all'interno di questa equipe, quindi di provare a mettersi tutti attorno ad un tavolo:
assistente sociale, psicologo, educatore, neuropsichiatra, insegnante, con la mamma, il papà e il bambino, e
insieme provare a comprendere qual è la loro situazione e a partire da questa co-costruire insieme un
progetto di crescita e di cambiamento, in cui si decide di lavorare passo a passo, su un’ area specifica,
facendo delle azioni e andando avanti insieme. Vediamo che questo può diventare un modello teorico,
perché in qualche modo racchiude quelle che sono anche le conoscenze teoriche che abbiamo e che
provengono poi da tanti studi, da tanti approcci in cui poi ciascuno, anche a partire da quella che è la
propria formazione, la propria professionalità, può metterci del proprio, diventa un modello che ci
permette di parlare con le famiglie e di parlare con la voce della verità, con la famiglia, per raccogliere
quella che è la loro situazione e ad incontrarci, permette poi di fare un passo in più verso la progettazione.
E in questo abbiamo provato ad utilizzare anche un triangolo vuoto, per dare voce ai genitori, per dare voce
ai bambini, rispetto a quello che sentono essere i loro bisogni. Allora nel concludere, vorrei dirvi altre cose,
però non c'è tempo. Vi presento due flash rispetto ad uno strumento che è proprio uno strumento, che
s'intitola "sostenere la genitorialià - il kit" (Suzanne Lavigueur, Sylvain Coutu, Diane Dubeau,2011),
ovviamente non lo faccio per fare pubblicità al nostro lavoro, anche perché così, lo dico esplicitamente, non
ho preso niente, non abbiamo guadagnato niente, abbiamo semplicemente tradotto e pubblicato, abbiamo
fatto questo lavoro, così mi sento tranquillo di presentarvelo. E’ uno strumento che è stato creato, che può
diventare uno strumento anche per operatori in Italia. Ve lo presento perché è proprio uno strumento che
si innesta dentro a questo modello bio-ecologico e ha anche il senso di cogliere le famiglie, dove sono con
le loro competenze, con i loro bisogni di crescita, avendo un'occasione di condividere insieme un sapere,
non “io ti insegno quello che devi fare”, ma troviamo un modo per parlare, per discutere, per riflettere e in
cui il tuo sapere si collega con il mio e questo ci può far fare insieme un passo in avanti. E’ un kit che è
pensato per genitori di bambini 0-10 anni, che è pensato per tutti dalle situazioni di normalità, di agio, a
situazioni di grande difficoltà, basato su un approccio che si fonda sulla visione positiva che il genitore ha di
se stesso e ha del proprio bambino. Per cui dentro si trovano le difficoltà, i problemi per ogni situazione. Ma
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è tutto pensato in positivo, in modo tale che anche le persone in difficoltà possono fare un passaggio e
possono confrontarsi su quella che è la situazione che loro vorrebbero, focalizzandoci su questo per cercare
di andare insieme verso quel punto. E’ strutturato per temi: le qualità dei bambini e le competenze dei
genitori, i piaceri condivisi, le attività per ricaricarsi, la rete sociale, preoccupazioni dei genitori, le difficoltà
e l'evoluzione genitoriale nel corso degli anni. E’ formato con delle carte, che presentano un'immagine, un
titolo ed una piccola descrizione. Hanno proprio l'obiettivo di aiutarci a dare parola a queste persone
rispetto alla loro situazione. Allora pensiamo ad un genitore magari in difficoltà o una difficoltà strutturale
proprio della propria vita o una difficoltà momentanea rispetto ad un passaggio anche evolutivo del proprio
bambino. Proponiamo ad esempio di descrivere il proprio figlio, e farci dire una qualità dello stesso,
provando a sollecitargli con frasi del tipo: “qui abbiamo alcune qualità che i bambini possono avere, che ci
possono aiutare a riflettere, anche sul tuo Filippo. Se vedi queste carte, c'è qualche carta che, in cui
riconosci un po' Filippo? Che un po' gli si avvicina. Puoi scartare prima quelle che non sono più vicine, poi
magari vediamo quelle che rimangono e ne scegli due che magari in questo momento sono particolarmente
significative. Allora creativo no, pronto a dare una mano assolutamente no, si intelligente perché è uno che
gli piace con i giochi fare questo e quello, ed è proprio disinvolto perché tipo quando siamo fuori al parco va
tranquillo verso gli altri, va sempre a salutare anche i genitori dei suoi compagni di classe”.
Quindi vediamo come in questo momento sto offrendo a questa mamma o a questo papà una situazione di
meso-sistema, o di eso-sistema, eventualmente se incontro o meno questo bambino, in cui fermarsi e
riflettere sulla sua situazione e vediamo che quello che facciamo insieme può veramente avere un effetto
poi sul suo bambino. Perché dedicare quindici minuti di tempo a pensare solo alle qualità di questo
bambino, a provare a descriverlo: ti chiedo in che modo è disinvolto? In che modo è intelligente? In che
modo è creativo questo bambino? Ci aiuta proprio ad entrare nel concreto ed eventualmente utilizzare poi
queste qualità, come delle risorse anche per fare qualcosa di diverso rispetto magari alle questioni in cui
invece c'è una difficoltà. E quindi in quel momento vediamo che il genitore diventa il massimo esperto del
suo bambino. Io come operatore, a partire da quella che è la mia formazione, la mia competenza, mi metto
proprio a servizio di quel sapere in modo tale da aiutare questo sapere a crescere e ad ampliarsi, a lievitare
e a far diventare quindi il genitore il vero protagonista e il primo partecipante di questo percorso. Allora
questo era un esempio con uno strumento, per vedere veramente non come gli strumenti ci possano
aiutare in modo applicativo, ma come unire gli strumenti all'interno di una visione condivisa ci può
veramente aiutare. Allora, per me educatore, sapere che l'assistente sociale ha incontrato questa famiglia e
ha usato questo strumento magari rispetto alle competenze dei genitori, li ha aiutati a riflettere e a fare
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emergere alcune questioni. E poi io all'interno di un intervento di educativa domiciliare posso utilizzare lo
stesso strumento con la mamma o con il bambino, ci permette veramente di parlare lo stesso linguaggio, di
sentire che ci mettiamo insieme e dare un messaggio anche alle famiglie che teniamo come gruppo di
lavoro che questa famiglia è accolta e questo ci permette di fare un passo in più con la famiglia. Vi faccio un
esempio di un'esperienza che abbiamo raccolto a Genova, all'interno del nostro progetto di PIPPI, che è un
progetto pensato per prevenire il rischio dell'allontanamento, quindi con famiglie cosiddette negligenti, nel
senso etimologico del termine, che hanno difficoltà a tenere il legame genitoriale e quindi a rispondere ai
bisogni di crescita e cura dei bambini con un legame che appunto si occupa di rispondere in modo buono e
positivo a questa crescita. La situazione di una bambina e di una mamma; bambina di 11 anni con un lieve
ritardo mentale. Di solito il kit, per come l'avevano pensato i nostri colleghi, è stato utilizzato e pensato per
il lavoro con i genitori, visto che noi siamo italiani e siamo un po' pazzi, e qua anche PIPPI, come metafora,
ci suggerisce di fare le cose un po' matte con le famiglie. Abbiamo voluto sperimentarlo con i bambini per
vedere che cosa succede di diverso. Questa mamma e questa bambina, che è in difficoltà relazionale, con la
bambina momentaneamente collocata in una struttura residenziale, quindi si stava lavorando per la
riunificazione famigliare. Allora l'assistente sociale ha pensato di dare alla bambina carte sulle competenze
genitoriali, dicendo prova a vedere queste carte, trovane due che descrivono un po' la tua mamma e poi
trovane due che indicano che cosa vorresti che la mamma facesse di diverso. La stessa cosa fatta con la
mamma, queste per descrivere tua figlia e poi due qualità che vorresti che tua figlia incrementasse, su cui si
potenziasse. Guardate cosa è successo:
La bambina ha detto:
“vorrei che la mamma mi comunicasse di più il suo affetto”
E la mamma ha detto:
” vorrei che mia figlia fosse più affettuosa.”
E la bambina ha scelto:
“vorrei che la mia mamma mi valorizzasse di più”.
E la mamma ha detto:
“vorrei che lei avesse più fiducia in se stessa.”
Cioè proprio da manuale, cioè l'autostima si sviluppa grazie alla valorizzazione. Il comunicare l'affetto,
richiede un codice relazionale che queste persone non hanno. Allora per queste persone, per come sono
fatte, per le loro difficoltà anche cognitive, un'altra attività non ci avrebbe portato da nessuna parte, non si
sarebbe riuscito con le parole a dire e a pensare la loro situazione. Un'apparentemente banale gioco di
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carte, mettere queste carte sul tavolo, le ha aiutate proprio a parlarsi a dirsi delle cose per via più simbolica,
attraverso l'immagine, attraverso una parola e a mettere insieme questo nuovo contesto.
E a partire da questo decidere che cosa fare, ad esempio:
” vorrei che quando torno a casa da scuola la mamma mi dicesse anche che sono stata brava, non sempre
quello che non ho fatto, perché è andata male a scuola, o altro di simile”.
Si sono dette queste cose concrete, quindi vediamo come questa attività ha portato una concretezza, ma
ha restituito anche una dimensione di senso a delle persone che hanno difficoltà a cogliere anche più
profondamente una dimensione di senso per loro stesse. Ora quindi per concludere, adesso, poi apriamo le
nostre danze di gruppo, vediamo come abbiamo bisogno di un sistema, un modello teorico che ci aiuta a
mettere insieme le nostre idee, i nostri pensieri, le nostre anche teorie di riferimento, aiutandoci a
condividerle. Un modello teorico che ci aiuta tutti a stare attorno a un tavolo, a trovare un linguaggio
comune per confrontarci, sapendo che questo ci chiede tanta fatica. Un modello teorico come quello di
Brofenbrenner che ci restituisce un senso del perché; è importante fare fatica nel condividere il nostro
lavoro; non frammentare i servizi, non frammentare gli interventi, ma provare a coordinare questi
interventi tra di loro, sia perché è importante per le famiglie, all'interno di questa prospettiva, e pensiamo
anche alle poche risorse che abbiamo e avremo sempre di meno e che quindi ci chiederanno, ci
obbligheranno proprio a sfruttare tutto al massimo e vedere come abbiamo bisogno anche di strumenti che
siano coerenti con questo nostro sistema di riferimento, come con questo nostro modello. Strumenti che
danno la possibilità a noi di dire delle cose da professionisti, di dire quello che è il nostro sapere e di dire
alla famiglia, al genitore, quale è il suo sapere sulla sua genitorialità, sul suo bambino e fare in modo che
questi saperi si possano mettere insieme all'interno di una prospettiva in cui si co-educa, si co-costruisce il
proprio percorso di crescita.
Mi fermo qua e poi se ci sono domande e integrazioni, le possiamo fare anche nel corso della mattinata.
Grazie.
DAVIDE MONTI: Ora io lascio la parola ai relatori. Abbiamo immaginato che il dottor Ius, che ha esperienza
di coordinamento di tavoli interdisciplinari, potesse facilitare il confronto, dando spazio a ciascuno che è
rappresentato rispetto al ruolo e alle competenze in ambito cooperativo. Ecco.
MARCO IUS: OK, allora do’ inizio a questa danza. Siamo in sette sul tavolo, un epta-danza, mi piace pensarla
come un'occasione che si apre qui e poi potrà dare voce anche a voi e alle vostre osservazioni, alle vostre
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domande, ai vostri commenti. Tavola rotonda, parola che richiama lo stare tutti attorno ad un cerchio, non
abbiamo la possibilità di farlo, qui, oggi, però forse questo ci dà alcune informazioni del senso del pensare
di lavorare con le famiglie in un certo modo e di provare a mettersi attorno ad un cerchio. Per questo
momento insieme, io la scorsa settimana ho preparato una piccola lista di sollecitazioni che poi avevo
mandato a tutte le persone che interverranno, con delle cose un po' così, mi sono permesso di fare degli
interventi un po' bizzarri. Mi vien da dire una metafora, un simbolo, un segno per sostenere la genitorialità,
qual è un consiglio che daresti ad un tuo collega, qual è una precauzione che riterresti di tenere rispetto a,
racconta un'esperienza significativa del tuo ente, del tuo servizio che ci dice chi siete e cosa fate con le
famiglie. Allora lo condivido così con voi, così giochiamo a carte scoperte, ritorniamo alle carte. Ma
soprattutto per dire che ci piace in questo tavolo adesso, dare la parola a ciascuno, per raccontare
qualcosa. Iniziamo un po' a muovere alcune carte, e poi eventualmente da quello che emerge, possiamo
sollecitarci a vicenda tra di noi o anche con le domande di voi che ci state ascoltando. Per cui, so che
qualcuno è un po' emozionato, che è un po' in ansia rispetto a quello che deve dire. Non deve dire niente, è
un modo di condividere alcuni aspetti del nostro lavoro. E credo che una cosa importante del nostro lavoro
è anche quello in certi momenti di dire: sono in difficoltà, adesso non so come andare avanti. E proprio il
fatto di stare intorno ad un tavolo, ci dà la possibilità di sostenerci, noi, prima di pensare di sostenere i
genitori. Per trovare un ordine, io seguirei i nomi che ci sono sul volantino. Allora, immagino che dopo anni
di interrogazioni che arrivavano o per primo o per ultimo, adesso è successo così. Quindi iniziamo da
Corrado, a te.
CORRADO BARONE: Bene, grazie. Sono Corrado Barone, sono il neuropsichiatra infantile. Lavoro quindi nel
territorio qui, di questa Comunità di Valle, con la sede a Tione. Quello che posso dire io come partenza,
aldilà dell'ordine alfabetico, insomma forse non so se dovevo essere il primo ad intervenire, nel senso che il
mio è un osservatorio un po' particolare, per il lavoro che faccio. Arrivano al nostro servizio, famiglie che
portano una problematicità. A volte famiglie che portano disagi, altre volte famiglie che portano delle
grosse sofferenze. Innanzitutto dico che proprio per come siamo nati e costruiti come servizio di
Neuropsichiatria Infantile, non facciamo niente se non con la famiglia. Non ci è permesso, ma non vogliamo
nemmeno insomma fare solo con il bambino. Abbiamo bisogno della partecipazione dei genitori per
affrontare le difficoltà, chiamiamole in modo così generico, dei bambini. Una cosa che mi sento da dire è
che ogni anno incontriamo circa, quest'anno abbiamo battuto "un brutto record", un 150/160/170 famiglie
nuove. Do’ un numero per dire che c'è disagio, che c'è sofferenza. Ma la cosa che voglio dire è che avverto,
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che quanto più c'è sofferenza nella famiglia per il disturbo, per la malattia, per la problematicità del figlio o
dei figli, tanto più c'è il rischio di solitudine. Mi aggancio, perché io non sono né sociologo né filosofo né
altro, ripeto faccio delle riflessioni rispetto al lavoro che faccio tutti i giorni, non so se interpreto bene, ma
di sicuro individuo oggi, nella nostra società, nella nostra cultura, che sia meno accolta di un tempo, la
persona o situazione che non produce, la persona che non si omologa, che non può misurarsi sulle
performance. E allora un bambino disabile con difficoltà comportamentali è fuori da questo gioco.
Il rischio che noto è che sia fuori gioco anche la famiglia, che rischi di essere un po' fuori anche il tessuto
sociale, che in parte si vergogni, che in parte s’imbarazzi, che in parte si mette in discussione sulle colpe, le
responsabilità. E credo che lì, come servizio e come servizi potremmo avere, abbiamo e dobbiamo avere un
ruolo importante. E credo anche che si stia facendo qualcosa in quest'ottica, però questo è uno degli
aspetti forti credo che si vive in un servizio come il nostro. E usando e condividendo parole e verbi usati
prima da te, certamente quindi bisogna creare non un'informazione/formazione/insegnamento, ma
partecipazione. Credo che si debba tanto lavorare nella dimensione dell'accoglienza. Poi adesso tra un
attimo mi fermo, ma anche nella dimensione dell'affettività ed emotività. Non sappiamo parlare a volte,
appunto facevi l'esempio “dimmi una qualità” solo che quando sei in sofferenza fai fatica a trovarla, quando
un figlio ti esaspera fai fatica a trovare i lati positivi. E allora con i genitori, per dire una parte anche del
nostro lavoro, è lavorare sulle rappresentazioni, cioè l'immagine che hai di tuo figlio, l'immagine che hai
della tua famiglia, l'immagine che hai del ruolo che tu vivi nella tua società. E immagino che con quel bel
apparente superficiale giochino del trova l'immagine, va molto in linea rispetto allo sforzarsi di trovare degli
aspetti, dei punti di forza che fanno cambiare le rappresentazioni. Io mi fermo qua.
MARCO IUS: Grazie. Mentre ascoltavo, mi è venuto in mente questo. Ho condiviso con voi il triangolo
prima, con l'immagine che possa essere uno strumento che ci aiuta a mettere insieme i punti di vista, a
partire da alcune questioni, rispetto al bambino, alla famiglia e all'ambiente.
Se per voi va bene, lo metterei come sfondo. Chiedo a voi, che ci ascoltate, visto che noi non abbiamo il
triangolo sottomano, di fare questo sforzo di inserire le nostre considerazioni rispetto al lavoro con i
bambini e con le famiglie, dentro a quel contesto. Ora Corrado ci ha fatto l'esempio di un bambino che è in
difficoltà, e questo crea chiusura anche per la famiglia. Abbiamo l'area del comportamento del bambino,
che diventa difficoltà del genitore, che diventa anche chiusura nel contesto sociale. La lascio lì così magari ci
può aiutare anche a dare ordine a quello che ascoltiamo. Per proseguire sia perché è il secondo punto, ma
anche per scusarmi per l'errore fatto, perché in realtà con il cambio di programma, la prima lettera non era
la C, ma era la A. Passo la parola ad Aglaja.
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AGLAJA MASE’: Io porto i saluti del Presidente della Cooperativa l’Ancora che, come già ha anticipato
Davide Monti ha avuto degli imprevisti improrogabili in Federazione, in assessorato. Io sono Aglaja Masè e
sono psicologa-psicoterapeuta, ma sono qua come ruolo di responsabile di progetti che la cooperativa
"L'Ancora" segue nel supporto alle famiglie, precisamente sono coordinatrice del progetto"Familiarmente"
che è un progetto sperimentale di educativa domiciliare a sostegno delle competenze genitoriali.
Il principale obiettivo è accompagnare il genitore a rendersi conto del disagio. Quello che posso dire come
inizio, dopo lo splendido intervento del dottor Barone, è che questa esperienza è nata tramite il processo di
pianificazione partecipata delle politiche sociali, incaricato dal Servizio Sociale, che ha coinvolto numerosi
attori del territorio locale. Non solo, ha visto due enti del privato sociale, la cooperativa L'Ancora e la
Comunità Murialdo, ma ha coinvolto anche il Servizio di Psicologia, di Neuropsichiatria Infantile, con uno
scopo di fare un'analisi delle problematiche delle famiglie emergenti.
Diciamo che è un'esperienza molto legata al territorio, un territorio molto vasto quello delle Giudicarie ed
eterogeneo. Un territorio che per esperienza deve essere per forza flessibile. infatti noi abbiamo preso in
considerazione tutto il contesto e in questa fase sperimentale noi ci siamo focalizzati su una tipologia di
famiglie, sulle problematicità e sui bisogni proprio per l'eterogeneità del territorio. Il precursore di questo
progetto è un progetto nato dalla Comunità Murialdo, il Progetto Domino, che principalmente si occupava
di supportare la genitorialità dopo che i figli erano stati allontanati. Invece, in questo tipo di progetto
diciamo che i bisogni che arrivano sono i più eterogenei. Di conseguenza la flessibilità è alla base del nostro
lavoro, lavoro di operatori che intervengono all'interno delle famiglie e non è possibile in questo momento
dare una risposta specifica, ad altre problematiche specifiche.
MARCO IUS: Ok, grazie ad Aglaja per questo incipit sul loro servizio, che ci sollecita sul chiederci: pensiamo
e progettiamo delle azioni, degli interventi specifici per una tipologia di famiglie, per una tipologia di
situazioni di difficoltà. Pensiamo invece ai servizi che si aprono un po' così a ventaglio che vogliono essere
un'accoglienza per tutti ed eventualmente poi a come fare un passaggio da un contesto di accoglienza
generale ad un contesto più specifico nella situazione, in cui ci troviamo di fronte a persone che hanno dei
bisogni specifici e che chiedono di essere accompagnate in un modo particolare. Grazie per questo e
passiamo la parola a Michela Fioroni, così andiamo anche dall'altra parte del tavolo.
MICHELA FIORONI: Buongiorno. Io sono Michela Fioroni, sono assistente sociale della Comunità delle
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Giudicarie. Da qualche mese mi occupo del coordinamento dell'equipe professionale, delle assistenti
sociali. Io ho fatto i compiti, e quindi inizierei in modo diverso, perché ci ho pensato e mi è venuto in mente
a casa, qual è l'immagine del sostegno alla genitorialità. A casa ho pensato ad un'orchidea, che ha uno stelo
a volte fragile e che necessita di un piccolo supporto, di un bastoncino, in alcuni momenti della sua crescita,
per poter crescere e avere poi dei fiori bellissimi. Mi è venuto in mente anche questo pensando alle
situazioni che a volte abbiamo come Servizio Sociale, perché come diceva il dottor Barone, il Servizio
Sociale si occupa di quelle famiglie, che in quel momento hanno delle problematiche, partono dai bisogni. E
a volte questi bisogni possono essere molto complessi e quindi, sempre pensando alla mia orchidea,
bisogna avere anche a volte la pazienza di aspettare, perché potrebbe, come è successo a me, sembrare
morta, ma comunque, avendo pazienza e avendone cura anche diciamo dell'ambiente, la cura verso questa
pianta, si può scoprire che poi un germoglio può crescere. E quindi anche in qualche modo proprio i tempi a
volte che per noi sono, come Servizio Sociale, rispetto al cambiamento, molto lunghi. Credo questo perché
di fatto noi, come Servizio Sociale, si lavora non tanto sul bambino, con il bambino, ma in qualche modo
sulle relazioni che ci sono all'interno della famiglia. E quindi, non ci sono risposte predefinite che si possono
dare ad una situazione di difficoltà, ad una famiglia che viene e che in quel momento porta il suo bisogno;
bisogna costruirla insieme alla famiglia. Ecco, questo credo che sia una cosa fondamentale. A volte i bisogni
possono essere complessi e l'assistente sociale può non farcela da sola, ma ha bisogno oltre della famiglia,
che deve essere la protagonista e non solo il fruitore perché non può essere questo, ma deve essere la
protagonista effettiva del cambiamento, anche poi di tutte le realtà che ci sono intorno.
Io credo che all'inizio, mi sembra la presidente, dicesse che, o forse Davide, non mi ricordo più, che qui
nella Comunità delle Giudicarie, ci sono delle punte di eccellenza. Ecco io credo che queste punte di
eccellenza non sono tanto delle persone, ma credo che forse la punta di eccellenza che c'è in questa
Comunità, per quella che è la mia esperienza, è proprio il rapporto e il lavoro che si sta creando in questi
anni tra le diverse realtà pubbliche e private del territorio per favorire il benessere di tutte le famiglie.
Questo credo che sia la punta di eccellenza, che di fatto possiamo avere noi.
MARCO IUS: Grazie a Michela, per questa immagine dell'orchidea. Ci rende proprio la sensazione di
qualcosa da custodire. E tenendo questa immagine mi permetto di aggiungere qualcosa: che tipo di vaso
c'è, ha bisogno di vitamine questa orchidea, chi l’annaffia, come, in che modo, in che clima, e messa alla
corrente d'aria, e quindi è messa in un posto troppo caldo, con la giusta umidità, con il giusto sole.
Possiamo usare tutto questo per riprendere questa metafora ed entrare dentro al senso dell'accompagnare
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poi le famiglie nella loro crescita. E rispondo così, reagisco con un'altra immagine, sempre che mi ha offerto
un collega, un caro collega canadese, Karl L. che è una persona di grande riferimento per un lavoro che
stiamo facendo. Lui sostiene che il lavoro sociale in realtà è una cosa tranquilla, facile come versare il caffè
in una tazza. Immagino che tutti quanti noi siamo capaci di versare il caffè in una tazza. La questione
difficile è che certe volte, abbiamo questa tazza in mano, abbiamo la caffettiera, sapendo che questa è
l'azione che ci viene chiesto di fare. Solo che non siamo tranquilli su un tavolo dove possiamo fare questo
movimento con sicurezza, ma ci troviamo in una barca, che un po' dondola, magari questa barca è in un
mare, che è in tempesta e magari siamo anche fuori e c'è anche il vento e cade anche la pioggia di brutto.
Allora quell'azione di versare una goccia di caffè dentro a quella tazza, che è una cosa semplice, perché
questa mamma ha bisogno di imparare a darsi una struttura perché il suo bambino possa andare a scuola
tutti i giorni con la colazione fatta.
Questa mamma o questo papà ha bisogno di imparare qualcosa di più su come spendere del tempo buono
e positivo con il proprio bambino, fare un'esperienza all'interno della propria comunità, che è una cosa
semplice, poi in realtà dentro a questa struttura complessa della famiglia, della società, della
rappresentazione che la famiglia ha di se, della rappresentazione che gli altri rimandano della loro difficoltà.
Tutto questo diventa il mare in tempesta. L'obiettivo sarà sempre quello di versare, avendo altre attenzioni,
per non sciupare questo caffè. E alla fine gustare qualcosa che ci piace, che ci lascia sapore. Dall'orchidea al
caffè, passiamo a Rosanna Lizzari, che ci porta lo sguardo della scuola, del lavoro con gli insegnanti, genitori
e bambini a scuola.
ROSANNA LIZZARI: Va bene. Allora io mi chiamo Rosanna Lizzari. Sono da numerosissimi anni nel mondo
della scuola e in questo momento rappresento le istituzioni della scuola tra cui il tavolo territoriale che è la
ragione per cui principalmente sono qui e gli asili nido che sono sensibilmente aumentati nella nostra zona
negli ultimi anni, per zona intendo tutta l'intera comunità, poi le scuole dell'infanzia suddivise nelle varie
appartenenze, quindi coese, equiparate, provinciali, gli istituti comprensivi di Tione, Ponte Arche, l'Istituto
del Chiese a cui appartengo come lavoro e poi Pinzolo, e soprattutto poi gli Istituti di scuola superiore e i
centri professionali, di formazione professionale. Questa è la situazione del perché trovate questa figura.
L'altra ragione è l’aver creato qualche tipo di lavoro insieme o per la formazione o perché appunto il mondo
della scuola, si è aperto con altri istituti, creando una rete che è stata la prima ragione, secondo me, il vero
supporto, rispetto al sostegno alle famiglie. Queste famiglie che peraltro per compito istituzionale e
normativo dobbiamo e siamo tenuti, dalla nascita della scuola, a dover accompagnare proprio perché se voi
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ci ragionate, tanti istituti del genere portano (controllavo prima i dati) dai 0 ai 17 anni 6999 studenti: 2500
dai 0 ai 17 anni dell'Istituto del Chiese.
Dietro ad ogni studente c'è una famiglia, quindi come scuola noi incontriamo le famiglie. E questo mi
sembra un dato abbastanza interessante. Dopo aver detto e spiegato la ragione perché mi trovo con voi, mi
sembra anche interessante spiegare che una delle opportunità che in questi anni si ha avuto, nel mondo
della scuola rispetto alle famiglie, è stata quella di fermarci un attimo perché come scuola,noi della nostra
zona con una forma anche di legislazione un pochino mirata, perché sapete che siamo in autonomia e
quindi abbiamo dei percorsi privilegiati.
Penso, non so se Marco Ius è a conoscenza, che non solo i rappresentanti di classe al contatto con le
famiglie in quanto genitori, ma la consulta dei genitori, che è un organo più normato e che dà una spinta in
più, ha una possibile partecipazione in più. Ma aldilà di questo discorso, quello che vi volevo dire è che
questa ampia apertura a tanti studenti, lo dico sono figli loro, ma per noi sono studenti, e allora il primo
rapporto che abbiamo grande è in termini di istruzione, di educazione e negli ultimi anni questi termini
sono diventati sempre più ricchi di spessore perché ci hanno portato alla formazione.
La scuola è sempre stata e lo è ancora molto osservata da fuori come scuola trentina, ma soprattutto come
scuola a livello nazionale. Credo che in questo periodo l'aiuto del poterci confrontare da Istituto, Istituto
con Istituto, creando innanzitutto una buona possibilità per i nostri dirigenti che sono in sala e quindi
potranno intervenire e anche tutti quelli del mondo della scuola che vogliono completare il mio discorso,
possono in qualche modo avere una cultura, che chiamo di scambio su tutta la popolazione che per noi è
studente, ma è accompagnato, proprio perché in minore età, dalle famiglie. L'altro percorso interessante
che mi porto e sento di avere, è proprio quello, di avere parecchi tavoli di lavoro nella nostra comunità, che
non solo riguardano questo aspetto territoriale oppure il sociale, ma riguardano anche tavoli proprio di
lavoro tipici di tematiche che si affrontano nel mondo della scuola.
L'area, per esempio, del disagio, è affrontata da un tavolo con varie rappresentanti di tutti gli Istituti, che
noi, invece che definire BES, voi sapete che gli alunni dai bisogni educativi speciali vengono definiti con
questa sigla, abbiamo preferito chiamare BEST, unendo una T finale, quasi come a dirci: ok abbiamo tanti
problemi, però la difficoltà è anche un modo per cui se la sai vivere, se vedi delle possibilità, in modo
particolare nelle famiglie con disagio, hai la speranza. E torno a dire che aldilà di questo tavolo ci sono altri
tavoli come il tavolo per gli stranieri, il tavolo dell'orientamento, che è stato di forte spinta sul tavolo
territoriale per cominciare anche ad ideare nella nostra comunità una possibilità di un centro territoriale di
orientamento, che non riguarda solo la professione, riguarda la formazione dei ragazzi. Uno può dire ” ma
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perché parla dei ragazzi?”;perché questi ragazzi, siccome è importante sostenere la genitorialità ed educare
alla genitorialità, saranno i genitori tra non meno di 5, 6, 7, 8, 9 anni, che ritroveremo nel tempo, proprio
come i genitori della nuova forma di ondata di ragazzi che entreranno nel mondo della scuola. Torno a dire,
una scuola molto osservata, che ultimamente ha bisogno di prendersi in mano dall'interno; capisce e ha
capito nel tempo di non poter rispondere a tutte le esigenze, si è fermata, quindi non autoreferenziale non
onnicomprensiva, fermandosi si sono creati dei bisogni e le varie agenzie esterne hanno saputo rispondere.
C'è quindi una collaborazione tra chi sa di avere anche un limite, ma non è indifferenza, è un limite proprio
di struttura, perché è inutile dirci che la scuola è in crisi e sono parecchie le crisi che segnano la società, e in
primis proprio la scuola. L'idea di fondo, quindi, è quella di una scuola che si ripiega su se stessa e si apre
però, proprio in nome di un incrementare un discorso della speranza che io unirei al discorso che ha citato
Ius, della responsabilità civile, penale, propria, sociale. La speranza non s’insegna, si testimonia. In questo
senso direi che è l'ultimo passo interessante rispetto alle famiglie. Le famiglie che possono vedere non solo
il figlio in crescita come studente, ma come quello che insomma è stato definito anche in una recente
trasmissione dal Ministro, l'Istituzione che garantisce un benessere del cittadino. Sostanzialmente questo è
il mio ingresso. Quindi, crisi della scuola, ripiegamento, desiderio di aprirsi agli altri per necessità e per
creare rete, questo è il tentativo che noi stiamo facendo.
MARCO IUS: Grazie a Rosanna. Provo anche con lei a fissare alcuni punti che poi magari alla fine possiamo
riprendere tutti insieme. La cultura dello scambio, la scuola che non risponde a tutto, ma che si prende il
suo spazio ed è poi in comunicazione con gli altri. Il versare il caffè sulla tazza, se lo facciamo insieme,
possiamo controllare questa barca in modo diverso. Butto lì anche a voi una provocazione da BES (Bisogni
Educativi Speciali) a BEST, bisogna trovare una parola per questa T. Bisogni Educativi Speciali e vediamo se
poi può saltar fuori qualcosa, una parola con la T, che ci restituisce questo senso di importanza e di valore,
di valorizzazione, di riconoscimento dei bisogni alla luce di quello che è il mondo di questi particolari
bambini che hanno dei bisogni speciali, ma che comunque sono i loro bisogni di crescita, sono i bisogni che
emergono nel loro mondo e che quindi sono i loro bisogni normali, nella loro normalità. Quindi il lavoro
insieme con gli altri proprio per aiutare anche questi bambini a fare un passo in là, nella loro crescita. Da
Rosanna passiamo a Luisa Masè.
LUISA MASE': Buongiorno a tutti. Mi chiamo Luisa Masè e sono coordinatore del Distretto Famiglia della Val
Rendena. E' uno dei primi distretti famiglia che sono nati in provincia di Trento con l'idea di potenziare o di
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valorizzare e attivare le reti territoriali e che lavorano sul territorio, facendo da interlocutori di famiglie. I
soggetti che fanno parte del distretto, in realtà, sono soggetti sia pubblici che privati. Nel nostro caso sono
sette Comuni della Val Rendena, ma sono anche soggetti come la cooperativa L'Ancora, che si occupa di
genitori, e soggetti del profit, del mondo dell'economia che vanno dalle società della zona, le scuole di sci,
all'associazione Golf Val Rendena. La base è quella di lavorare non tanto sul disagio, per il quale esistono sul
territorio come avete detto una serie e una rete di enti e associazioni, competenze già strutturate
organizzate, quanto di lavorare sulla dimensione del benessere, cioè del vivere in un territorio. L’idea è che
lavorare sulle famiglie, qualunque esse siano, e qualunque sia la loro configurazione, e morfologia voglia
dire vivere un progetto di futuro per il territorio. L’obiettivo è di lavorare affinché le famiglie, che vivono nel
nostro territorio in questo caso della Val Rendena, si sentano accolte, si sentano bene. La dimensione che
mi piace sottolineare è che da un lato c'è un'anima chiamiamola di marketing, di economia, perché
comunque le famiglie vivono anche questa dimensione che è molto organizzativa, molto economica, molto
concreta. Dall'altra però, quello che stiamo cercando anche di sviluppare e si è sviluppato in particolare
negli ultimi anni, la dimensione della relazionalità, della relazione. Fare in modo che appunto un territorio
sensibile, sia un territorio nel quale le famiglie recuperano una dimensione relazionale. Cito due cose molto
concrete. Negli ultimi due anni, grazie alla partecipazione ad un progetto di un bando provinciale, abbiamo
potuto sviluppare un percorso diciamo sulla genitorialità, accompagnati da Ignazio Pozzi, uno
psicoterapeuta. L'accento di questi incontri, che abbiamo proposto sul territorio, era quello appunto della
relazione. Abbiamo cercato di favorire l'incontro tra le persone e una delle cose, a confermare quello che
dicevano prima, queste famiglie "più normali", questi genitori "più normali”, che ammettono di fronte ad
altri genitori, che in parte conoscono e in parte no, che sappiamo quanto nelle nostre piccole comunità ci
siano pregiudizi. Loro stessi si riconoscono in questo modo: "Bè sono contento perché alla fine mi sono
accorto di non essere solo io sfigato". Ma la "sfiga", passatemi questo termine bruttissimo, dei piccoli e
grandi problemi che ogni genitore ha nella propria gestione quotidiana, è il rapporto con la scuola, che non
è sempre facile, e non è sempre così idilliaco il rapporto genitori-scuola, il rapporto con il territorio, quindi
con tutte le agenzie che esistono e non esistono sul territorio, è un problema anche molto organizzativo,
per cui i due genitori devono lavorare, per poter realizzare una famiglia con dei figli, che tornano a casa, e
se non c'è nessuno a casa che li aspetta, ci sono i nonni, ma i nonni adesso lavorano, la babysitter costa .
Questi sono aspetti molto organizzativi. Ritornano gli stessi genitori a dirmi: “per me è importante sapere
che non sono solo io, che ho problemi”. Gli esiti di questa dimensione relazionale che abbiamo cercato, ed
eventualmente poi se volete approfondiamo, li troviamo nel percorso che abbiamo fatto con alcuni
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genitori. Da donne sappiamo quanto è difficile conciliare lavoro e famiglia. Sappiamo quanto è difficile
conciliare il nostro lavoro quando le riunioni sono magari organizzate la sera, quando anche solo andare ad
udienze vuol dire prendere due ore di permesso, se si vive e si lavora in un paese, che non è il paese in cui i
figli vanno a scuola. Ci sono dinamiche anche molto concrete, molto legate alla quotidianità,
all'organizzazione che secondo me non dobbiamo perdere di vista.
MARCO IUS: Grazie a Luisa, perché soprattutto ha messo su questo tavolo una parole importante, che è
"sfigato". Lo dico con questo tono perché sento che tanto ci dice di alcune situazioni, situazioni di come le
persone si presentano e anche magari di come certe volte consapevolmente o senza comunque
un'intenzionalità di chiudere, noi ci rappresentiamo anche le situazioni di alcune persone, di alcune
famiglie. E in qualche modo siamo noi stessi a costruire una relazione di queste persone che è chiusa ad
una possibilità di cambiamento. Ed i genitori vedono come il condividere la loro fragilità poi diventa una
risorsa per il gruppo, il fatto di non sentirsi soli, il fatto di poter condividere anche le inevitabili cadute,
fragilità della vita quotidiana e portarle alla normalizzazione. Tutti quanti nei loro percorsi hanno poi gli alti
e bassi e fare in modo che questo non diventi qualcosa che ci sovrasta, ma diventi invece un'occasione
anche per il gruppo di crescita e di fare questo all'interno della relazione. Citavo prima alcuni esempi
rispetto ai riferimenti alle nuove composizioni famigliari, alle strutture, all'essere fuori, in casa. Possiamo
immaginare come una mamma, che è una professionista, che magari vive lontano dalla sua città d'origine,
perché magari ha studiato qua e si trova a vivere qua, o ha studiato a Milano, facciamo un esempio, si trova
a vivere a Milano, quando i suoi genitori si trovano a Roma. Ha il suo primo bambino a trentasette anni.
Non ha mai avuto esperienza di altri bambini nella sua famiglia perché è figlia unica, per cui effettivamente
non ha mai preso in mano un neonato. Non sa come si fa sta roba. Si trova sola in un condominio all'ottavo
piano di Milano. Si trova con suo figlio vivo e non sa da che parte prenderlo. E non c'è nessuno che la
sostiene in questo. Ed è una persona tranquilla, serena, brava, che non ha una storia personale difficile, che
le crea difficoltà. Magari questo bambino nasce ed è uno di quelli che piangono. La mamma ad un certo
punto non sa più che cosa fare. Allora proviamo a pensare veramente a quanto può fare la differenza una
vicina di casa che le dice: senti, ti tengo io per mezzora il bambino che piange, e tu ti fai una doccia in santa
pace e ti rilassi un attimo. Allora, quella "sfiga" nera, in cui si trova dentro, diventa una cosa che la chiude,
che la soffoca, può essere qualcosa di condiviso con qualcuno che le dà uno spazio, che condivide anche un
caffè con lei e che solo l’ascoltare e la comprensione su questa difficoltà può aiutare. Dunque, facendo un
esempio anche un po' così estremo e colorato, proprio per entrare dentro a quel sistema ecologico e a
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vedere come si possono fare delle piccole azioni che fanno la differenza: Abbiamo bisogno a livello sociale
di qualcuno che ci aiuti forse a riprendere anche un certo senso di socialità, che non c'è più, per cultura, per
tempi, per ritmi, per lavori, siamo passati a vivere in un certo modo. In alternativa, pensate a quattro
mamme che il pomeriggio per partire dalla stessa via, prendono quattro auto, per portare i quattro loro figli
a calcio, allo stesso campo di calcio; quando magari se si organizzassero un po' potrebbero farlo una volta
alla settimana ciascuno e almeno riescono un po' a respirare in modo diverso. Sono quelle cose quasi
banali, però su cui abbiamo veramente bisogno di riorganizzarci, di rinvestire, e ridare anche senso e
rappresentazioni. Passo la parola a Francesco Raitano così completiamo.
FRANCESCO REITANO1: è fondamentale considerare la “genitorialità” come una complessità positiva; dalla
relazione del dottor Ius si evince la positività del suo approccio e del suo modo di concepirne gli aspetti
caratterizzanti. Il servizio psicologico si confronta continuamente con diversi interlocutori, come il Tribunale
per i Minori, il Servizio Sociale. La metafora che ho scelto per rappresentare la genitorialità è quella di una
ricetta. Una ricetta che parte dal mettere assieme vari ingredienti e che per arrivare al piatto pronto
attraversa diversi passaggi, con solitamente due cuochi diversi a collaborare. Per cucinare si può anche
improvvisar con quello che si ha, ma non per questo si accompagnano gli ingredienti a caso.
MARCO IUS: è facile definire il MALtrattamento; più difficile farlo con il BENtrattamento. In questo risulta
fondamentale l’esperienza del bello.
CORRADO BARONE : l’immagine o metafora che mi viene in mente rispetto alla genitorialità corrisponde
all’abbassamento delle difese. C’è troppa paura (o altrimenti, poca sicurezza percepita). Usiamo tutti
meccanismi di difesa molto alti e questo vale sia per la coppia genitoriale rispetto ai servizi, che tra i servizi
stessi. Il rischio è quello di essere tecnicisti alla ricerca di una soluzione veloce, solitamente invocata ad un
“esperto”. Cosa accadrebbe se tra servizi provassimo ad abbassare le difese per collaborare, evitando di
concentrarsi sulle soluzioni per analizzare il problema. Cosa succederebbe se provassimo ad essere più
umani, usando non solo il linguaggio, ma anche l’affettività e l’emozione?
1
Dall’intervento del Prof. Reitano in poi si riporta il contenuto dell’intervento a grandi linee e non la globalità
dell’impianto dell’intervento. Tale scelta è dovuta a problematiche tecniche indipendenti da chi scrive.
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LUISA MASE’: tra le azioni messe in campo dal Distretto Family, quella che più sembra aver colpito nel segno
è stata l’esperienza delle cene a casa di un gruppo di famiglie con l’invito a partecipare di uno psicologo. La
convivialità ha contribuito ad abbassare le difese. La stessa cosa avviene per i padri che si incontrano al bar.
Purtroppo quello che è emerso è che i genitori non sanno chi invitare, temono il giudizio (anche sulla loro
casa) e ambiscono a fare bella figura. Spesso veniva chiesto ai referenti del distretto famiglia di reperire i
commensali per la cena. Il viaggio più lungo, a volte, è quello che ci porta a conoscere il nostro vicino.
MICHELA FIORONI: spesso sono le richieste irrealistiche che giungono al Servizio Sociale (di controllo,
salvifiche, ricattatorie…) ad alzare le barriere. Il nostro sforzo deve essere comune teso ad abbassare le
difese.
PATRIZIA BALLARDINI: ringrazio la Murialdo e i presenti per la partecipazione. Informo che a breve verrà
sottoscritto da numerosi soggetti che operano nelle Giudicarie il protocollo d’intesa per lo Sportello Family,
che sarà chiamato ad implementare e facilitare lo sviluppo delle politiche familiari sul territorio della Valle.
DAVIDE MONTI: la sintesi della mattinata può essere inscritta allora in un insieme di concetti chiave.
Pensare positivo – abbassare le difese – adeguare le aspettative (come professionisti e come genitori) –
improvvisazione non vuol dire affidarsi al caso. Grazie a tutti!
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CAPITOLO 6
CONCLUSIONI. RISULTATI DEL PERCORSO FORMATIVO
Questo percorso è stato proposto a chi opera in Val Giudicarie per introdurre un pensiero tra i
professionisti su un metodo condiviso che vada nella direzione di uniformare gli operatori del sociale nelle
prese incarico sulla genitorialità. Il fine ultimo è stato quello di legittimare il lavoro di rete tra gli stessi. Per
raggiungere tale obiettivo è stato descritto e presentato il progetto Familiarmente, che come privato nel
territorio delle Val Giudicarie si occupa di genitorialità, definendone in particolare sia l’operare
dell’operatore nella pratica educativa che il setting attraverso una conoscenza pratica su come lavorare in
una cornice multi-professionale rispondendo all’interrogativo su come poter integrare i diversi ruoli nelle
prese in carico familiari.
Il setting è stato il primo strumento presentato a cui è seguita l’ esplorazione di altri quali, il disegno
simbolico, l’osservazione, la scrittura, la resilienza, l’empatia, il pensiero creativo e l’umorismo secondo un
approccio Costruttivista (Kelly, 1991) ed Ecologico (Bronfenbrenner, 1996) che ha permesso di considerare
la costruzione (Kelly, 1991) che l’ operatore ha del genitore non come oggettiva ma aperta a punti di vista
differenti che lasciano spazio anche ad una valorizzazione del vissuto della persona.
Tale percorso è stato inserito in una cornice necessariamente giuridica che aiutasse gli operatori a
legittimare la condivisione e costruzione di un progetto educativo familiare utilizzando relazioni (anche
decreti) tra Servizi Sociali e Servizi Educativi.
Vedere i fenomeni sociali da un altro punto di vista, è stato il filo conduttore del percorso “tessere
genitorialità nella comunità”, come modo per esplorare soluzioni alternative utili sia ad un’équipe
multidisciplinare in un momento di stallo, che all’educatore per comprendere nella maniera piu’ utile la
famiglia offrendole la possibilità di partire anche da sé e dalle sue potenzialità.
Da qui emerge che tutti siamo fragili e non esiste patologia o genitorialità ammalata poiché se cambiamo
modo di guardare la genitorialità fragile vediamo e aiutiamo a vedere ciò che i genitori stessi non
pensavano di essere, persone esperte della loro vita e del loro essere genitori.
Nel lavoro di sostegno alla genitorialità è utile che l’operatore parta dalla ricchezza e dalla bellezza interna
alle famiglie, non vedendo il genitore solo come deficitario, ma iniziando ad aggiungere qualcosa al modo
stereotipato di costruire la persona stessa, pensando che quello che l’educatore costruisce come difetto o
mancanza si può trasformare in una ricchezza così come viene raccontato nella storia di Antonino (Carrier
I.,2009 ).
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Accanto al lavoro dell’educatore nel sostegno alla genitorialità è emersa l’importanza della condivisione di
relazioni anche provenienti dai Tribunali tra i differenti servizi coinvolti nella presa in carico. Tale pratica di
condivisione è legittimata dall’approccio normativo facendo ricorso al concetto anche di co-responsabilità
tra gli operatori in vista, non di una tutela del proprio potere, ma di un fine condiviso quale, il benessere
della famiglia e del minore in primis, secondo una logica non assistenzialistica ma di accompagnamento
all’autonomia. Per rendere la famiglia autonoma è necessario che i servizi condividano anche decreti
provenienti dai Tribunali che esemplificano gli obiettivi micro su cui il genitore o minore necessita di
lavorare.
Da qui ci colleghiamo a quanto emerso nella tavola rotonda sul come integrare le differenti professionalità:
l’idea condivisa è che per una proficua collaborazione è necessario che ciascun rappresentante di servizio
abbassi le difese. In questi termini torna l’importanza di accompagnare il genitore in un progetto di
autonomia partendo dalla consapevolezza dei limiti e valorizzandone le risorse in un’ottica di
raggiungimento di obiettivi raggiungibili e sostenibili dal genitore restituendo dignità alla persona. Un altro
elemento emerso in modo chiaro è che non c’è un solo servizio che può rispondere ai bisogni della famiglia
ma un importante pensiero condiviso è che la risposta al bisogno la famiglia può trovarlo se i servizi
lavorano in modalità sinergica e integrata con trasparenza. Un’altra risorsa che si aggiunge a quella dei
servizi è rappresentata dalle famiglie vicine, dai condomini, da chi vive la stessa esperienza nella direzione
di trattare non il disagio familiare, ma il benessere familiare in un’ottica di comunità. In questo modo si
passa dalla mancanza alla risorsa, dal problema al bisogno. Inoltre, per concludere gli esiti dei questionari di
valutazione da parte dei partecipanti all’evento formativo hanno mostrato molto interesse verso gli aspetti
concreti dell’operare nella genitorialità, che spaziavano dalla conoscenza della metodologia a quella degli
strumenti. Si propone per una prossima edizione una formazione integrata tra le diverse professionalità in
modo che il setting multiprofessionale in cui si lavora quotidianamente possa trovare uno sviluppo e un
apprendimento integrato. Tale approccio può essere utile al lavorare in équipe, poiché esso prevede un
lavorare insieme co-costruendo significati comuni e condivisi a partire da chi porta un nuovo sguardo nelle
aule formative.
È, inoltre, emerso come comune interesse rispetto al come un operatore può sostenere la genitorialità
approfondire le tecniche di comunicazione e di osservazione da utilizzare nel lavoro quotidiano utile al
raggiungimento degli obiettivi condivisi.
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ALLEGATO A
CODICE DEONTOLOGICO DEGLI PSICOLOGI ITALIANI
Capo I - Principi generali
Articolo 1 Le regole del presente Codice Deontologico sono vincolanti per tutti gli iscritti all'Albo degli psicologi. Lo
psicologo è tenuto alla loro conoscenza e l'ignoranza delle medesime non esime dalla responsabilità disciplinare. Le
stesse regole si applicano anche nei casi in cui le prestazioni, o parti di esse, vengano effettuate a distanza, via Internet
o con qualunque altro mezzo elettronico e/o telematico.
Articolo 2 L'inosservanza dei precetti stabiliti nel presente Codice deontologico, ed ogni azione od omissione
comunque contrarie al decoro, alla dignità ed al corretto esercizio della professione, sono punite secondo quanto
previsto dall'art. 26, comma 1°, della Legge 18 febbraio 1989, n. 56, secondo le procedure stabilite dal Regolamento
disciplinare.
Articolo 3 Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano ed utilizzarle per
promuovere il benessere psicologico dell'individuo, del gruppo e della comunità. In ogni ambito professionale opera
per migliorare la capacità delle persone di comprendere se stessi e gli altri e di comportarsi in maniera consapevole,
congrua ed efficace. Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell'esercizio
professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai
fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l'uso non appropriato della sua influenza, e
non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari
della sua prestazione professionale. Lo psicologo è responsabile dei propri atti professionali e delle loro prevedibili
dirette conseguenze.
Articolo 4 Nell'esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza,
all'autodeterminazione ed all'autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e
credenze, astenendosi dall'imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnia,
nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità.Lo
psicologo utilizza metodi e tecniche salvaguardando tali principi, e rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli
stessi. Quando sorgono conflitti di interesse tra l'utente e l'istituzione presso cui lo psicologo opera, quest'ultimo deve
esplicitare alle parti, con chiarezza, i termini delle proprie responsabilità ed i vincoli cui è professionalmente tenuto.In
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tutti i casi in cui il destinatario ed il committente dell'intervento di sostegno o di psicoterapia non coincidano, lo
psicologo tutela prioritariamente il destinatario dell'intervento stesso.
Articolo 5 Lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione e aggiornamento professionale, con
particolare riguardo ai settori nei quali opera. La violazione dell'obbligo di formazione continua, determina un illecito
disciplinare che è sanzionato sulla base di quanto stabilito dall'ordinamento professionale. Riconosce i limiti della
propria competenza e usa, pertanto solo strumenti teorico – pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza e,
ove necessario, formale autorizzazione. Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti e
riferimenti scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente e/o utente, aspettative infondate.
Articolo 6 Lo psicologo accetta unicamente condizioni di lavoro che non compromettano la sua autonomia
professionale ed il rispetto delle norme del presente codice, e, in assenza di tali condizioni, informa il proprio Ordine.
Lo psicologo salvaguarda la propria autonomia nella scelta dei metodi, delle tecniche e degli strumenti psicologici,
nonché della loro utilizzazione; è perciò responsabile della loro applicazione ed uso, dei risultati, delle valutazioni ed
interpretazioni che ne ricava. Nella collaborazione con professionisti di altre discipline esercita la piena autonomia
professionale nel rispetto delle altrui competenze.
Articolo 7 Nelle proprie attività professionali, nelle attività di ricerca e nelle comunicazioni dei risultati delle stesse,
nonché nelle attività didattiche, lo psicologo valuta attentamente, anche in relazione al contesto, il grado di validità e
di attendibilità di informazioni, dati e fonti su cui basa le conclusioni raggiunte; espone, all'occorrenza, le ipotesi
interpretative alternative, ed esplicita i limiti dei risultati. Lo psicologo, su casi specifici, esprime valutazioni e giudizi
professionali solo se fondati sulla conoscenza professionale diretta ovvero su una documentazione adeguata ed
attendibile.
Articolo 8 Lo psicologo contrasta l'esercizio abusivo della professione come definita dagli articoli 1 e 3 della Legge 18
febbraio 1989, n. 56, e segnala al Consiglio dell'Ordine i casi di abusivismo o di usurpazione di titolo di cui viene a
conoscenza. Parimenti, utilizza il proprio titolo professionale esclusivamente per attività ad esso pertinenti, e non
avalla con esso attività ingannevoli od abusive.
Articolo 9 Nella sua attività di ricerca lo psicologo è tenuto ad informare adeguatamente i soggetti in essa coinvolti al
fine di ottenerne il previo consenso informato, anche relativamente al nome, allo status scientifico e professionale del
ricercatore ed alla sua eventuale istituzione di appartenenza. Egli deve altresì garantire a tali soggetti la piena libertà
di concedere, di rifiutare ovvero di ritirare il consenso stesso. Nell'ipotesi in cui la natura della ricerca non consenta di
informare preventivamente e correttamente i soggetti su taluni aspetti della ricerca stessa, lo psicologo ha l'obbligo di
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TRENTO tel: 0461 231320 - fax: 0461 236036E-mail: [email protected] – www.murialdo.taa.itCod.
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fornire comunque, alla fine della prova ovvero della raccolta dei dati, le informazioni dovute e di ottenere
l'autorizzazione all'uso dei dati raccolti. Per quanto concerne i soggetti che, per età o per altri motivi, non sono in
grado di esprimere validamente il loro consenso, questo deve essere dato da chi ne ha la potestà genitoriale o la
tutela, e, altresì, dai soggetti stessi, ove siano in grado di comprendere la natura della collaborazione richiesta. Deve
essere tutelato, in ogni caso, il diritto dei soggetti alla riservatezza, alla non riconoscibilità ed all'anonimato.
Articolo 10 Quando le attività professionali hanno ad oggetto il comportamento degli animali, lo psicologo si impegna
a rispettarne la natura ed a evitare loro sofferenze.
Articolo 11 Lo psicologo è strettamente tenuto al segreto professionale. Pertanto non rivela notizie, fatti o
informazioni apprese in ragione del suo rapporto professionale, né informa circa le prestazioni professionali effettuate
o programmate, a meno che non ricorrano le ipotesi previste dagli articoli seguenti.
Articolo 12 Lo psicologo si astiene dal rendere testimonianza su fatti di cui è venuto a conoscenza in ragione del suo
rapporto professionale. Lo psicologo può derogare all'obbligo di mantenere il segreto professionale, anche in caso di
testimonianza, esclusivamente in presenza di valido e dimostrabile consenso del destinatario della sua prestazione.
Valuta, comunque, l'opportunità di fare uso di tale consenso, considerando preminente la tutela psicologica dello
stesso.
Articolo 13 Nel caso di obbligo di referto o di obbligo di denuncia, lo psicologo limita allo stretto necessario il
riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del
soggetto. Negli altri casi, valuta con attenzione la necessità di derogare totalmente o parzialmente alla propria
doverosa riservatezza, qualora si prospettino gravi pericoli per la vita o per la salute psicofisica del soggetto e/o di
terzi.
Articolo 14 Lo psicologo, nel caso di intervento su o attraverso gruppi, è tenuto ad in informare, nella fase iniziale,
circa le regole che governano tale intervento. È tenuto altresì ad impegnare, quando necessario, i componenti del
gruppo al rispetto del diritto di ciascuno alla riservatezza.
Articolo 15 Nel caso di collaborazione con altri soggetti parimenti tenuti al segreto professionale, lo psicologo può
condividere soltanto le informazioni strettamente necessarie in relazione al tipo di collaborazione.
Articolo 16 Lo psicologo redige le comunicazioni scientifiche, ancorché indirizzate ad un pubblico di professionisti
tenuti al segreto professionale, in modo da salvaguardare in ogni caso l'anonimato del destinatario della prestazione.
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Articolo 17 La segretezza delle comunicazioni deve essere protetta anche attraverso la custodia e il controllo di
appunti, note, scritti o registrazioni di qualsiasi genere e sotto qualsiasi forma, che riguardino il rapporto
professionale. Tale documentazione deve essere conservata per almeno i cinque anni successivi alla conclusione del
rapporto professionale, fatto salvo quanto previsto da norme specifiche. Lo psicologo deve provvedere perché, in caso
di sua morte o di suo impedimento, tale protezione sia affidata ad un collega ovvero all'Ordine professionale. Lo
psicologo che collabora alla costituzione ed all'uso di sistemi di documentazione si adopera per la realizzazione di
garanzie di tutela dei soggetti interessati.
Articolo 18 In ogni contesto professionale lo psicologo deve adoperarsi affinché sia il più possibile rispettata la libertà
di scelta, da parte del cliente e/o del paziente, del professionista cui rivolgersi.
Articolo 19 Lo psicologo che presta la sua opera professionale in contesti di selezione e valutazione è tenuto a
rispettare esclusivamente i criteri della specifica competenza, qualificazione o preparazione, e non avalla decisioni
contrarie a tali principi.
Articolo 20 Nella sua attività di docenza, di didattica e di formazione lo psicologo stimola negli studenti, allievi e
tirocinanti l'interesse per i principi deontologici, anche ispirando ad essi la propria condotta professionale.
Articolo 21 L'insegnamento dell'uso di strumenti e tecniche conoscitive e di intervento riservati alla professione di
psicologo a persone estranee alla professione stessa costituisce violazione deontologica grave. Costituisce aggravante
avallare con la propria opera professionale attività ingannevoli o abusive concorrendo all'attribuzione di qualifiche,
attestati o inducendo a ritenersi autorizzati all'esercizio di attività caratteristiche dello psicologo. Sono specifici della
professione di psicologo tutti gli strumenti e le tecniche conoscitive e di intervento relative a processi psichici
(relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali) basati sull'applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti
psicologici. È fatto salvo l'insegnamento di tali strumenti e tecniche agli studenti dei corsi di studio universitari in
psicologia e ai tirocinanti. È altresì fatto salvo l'insegnamento di conoscenze psicologiche.
Capo II - Rapporti con l'utenza e con la committenza
Articolo 22 Lo psicologo adotta condotte non lesive per le persone di cui si occupa professionalmente, e non utilizza il
proprio ruolo ed i propri strumenti professionali per assicurare a sè o ad altri indebiti vantaggi.
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Articolo 23 Lo psicologo pattuisce nella fase iniziale del rapporto quanto attiene al compenso professionale. In ogni
caso la misura del compenso deve essere adeguata all'importanza dell'opera. In ambito clinico tale compenso non può
essere condizionato all'esito o ai risultati dell'intervento professionale.
Articolo 24 Lo psicologo, nella fase iniziale del rapporto professionale, fornisce all'individuo, al gruppo, all'istituzione o
alla comunità, siano essi utenti o committenti, informazioni adeguate e comprensibili circa le sue prestazioni, le
finalità e le modalità delle stesse, nonché circa il grado e i limiti giuridici della riservatezza. Pertanto, opera in modo
che chi ne ha diritto possa esprimere un consenso informato. Se la prestazione professionale ha carattere di continuità
nel tempo, dovrà esserne indicata, ove possibile, la prevedibile durata.
Articolo 25 Lo psicologo non usa impropriamente gli strumenti di diagnosi e di valutazione di cui dispone. Nel caso di
interventi commissionati da terzi, informa i soggetti circa la natura del suo intervento professionale, e non utilizza, se
non nei limiti del mandato ricevuto, le notizie apprese che possano recare ad essi pregiudizio. Nella comunicazione dei
risultati dei propri interventi diagnostici e valutativi, lo psicologo è tenuto a regolare tale comunicazione anche in
relazione alla tutela psicologica dei soggetti.
Articolo 26 Lo psicologo si astiene dall'intraprendere o dal proseguire qualsiasi attività professionale ove propri
problemi o conflitti personali, interferendo con l'efficacia delle sue prestazioni, le rendano inadeguate o dannose alle
persone cui sono rivolte. Lo psicologo evita, inoltre, di assumere ruoli professionali e di compiere interventi nei
confronti dell'utenza, anche su richiesta dell'Autorità Giudiziaria, qualora la natura di precedenti rapporti possa
comprometterne la credibilità e l'efficacia.
Articolo 27 Lo psicologo valuta ed eventualmente propone l'interruzione del rapporto terapeutico quando constata
che il paziente non trae alcun beneficio dalla cura e non è ragionevolmente prevedibile che ne trarrà dal
proseguimento della cura stessa. Se richiesto, fornisce al paziente le informazioni necessarie a ricercare altri e più
adatti interventi.
Articolo 28 Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l'attività
professionale o comunque arrecare nocumento all'immagine sociale della professione. Costituisce grave violazione
deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha
intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o
sessuale. Parimenti costituisce grave violazione deontologica instaurare le suddette relazioni nel corso del rapporto
professionale. Allo psicologo è vietata qualsiasi attività che, in ragione del rapporto professionale, possa produrre per
lui indebiti vantaggi diretti o indiretti di carattere patrimoniale o non patrimoniale, ad esclusione del compenso
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pattuito. Lo psicologo non sfrutta la posizione professionale che assume nei confronti di colleghi in supervisione e di
tirocinanti, per fini estranei al rapporto professionale.
Articolo 29 Lo psicologo può subordinare il proprio intervento alla condizione che il paziente si serva di determinati
presidi, istituti o luoghi di cura soltanto per fondati motivi di natura scientifico-professionale.
Articolo 30 Nell'esercizio della sua professione allo psicologo è vietata qualsiasi forma di compenso che non
costituisca il corrispettivo di prestazioni professionali.
Articolo 31 Le prestazioni professionali a persone minorenni o interdette sono, generalmente, subordinate al
consenso di chi esercita sulle medesime la potestà genitoriale o la tutela.Lo psicologo che, in assenza del consenso di
cui al precedente comma, giudichi necessario l'intervento professionale nonché l'assoluta riservatezza dello stesso, è
tenuto ad informare l'Autorità Tutoria dell'instaurarsi della relazione professionale. Sono fatti salvi i casi in cui tali
prestazioni avvengano su ordine dell'autorità legalmente competente o in strutture legislativamente preposte.
Articolo 32 Quando lo psicologo acconsente a fornire una prestazione professionale su richiesta di un committente
diverso dal destinatario della prestazione stessa, è tenuto a chiarire con le parti in causa la natura e le finalità
dell'intervento.
Capo III - Rapporti con i colleghi
Articolo 33 I rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza.
Lo psicologo appoggia e sostiene i Colleghi che, nell'ambito della propria attività, quale che sia la natura del loro
rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano compromessa la loro autonomia ed il rispetto delle norme
deontologiche.
Articolo 34 Lo psicologo si impegna a contribuire allo sviluppo delle discipline psicologiche e a comunicare i progressi
delle sue conoscenze e delle sue tecniche alla comunità professionale, anche al fine di favorirne la diffusione per scopi
di benessere umano e sociale.
Articolo 35 Nel presentare i risultati delle proprie ricerche, lo psicologo è tenuto ad indicare la fonte degli altrui
contributi.
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Articolo 36 Lo psicologo si astiene dal dare pubblicamente su colleghi giudizi negativi relativi alla loro formazione, alla
loro competenza ed ai risultati conseguiti a seguito di interventi professionali, o comunque giudizi lesivi del loro
decoro e della loro reputazione professionale. Costituisce aggravante il fatto che tali giudizi negativi siano volti a
sottrarre clientela ai colleghi. Qualora ravvisi casi di scorretta condotta professionale che possano tradursi in danno
per gli utenti o per il decoro della professione, lo psicologo è tenuto a darne tempestiva comunicazione al Consiglio
dell'Ordine competente.
Articolo 37 Lo psicologo accetta il mandato professionale esclusivamente nei limiti delle proprie competenze. Qualora
l'interesse del committente e/o del destinatario della prestazione richieda il ricorso ad altre specifiche competenze, lo
psicologo propone la consulenza ovvero l'invio ad altro collega o ad altro professionista.
Articolo 38 Nell'esercizio della propria attività professionale e nelle circostanze in cui rappresenta pubblicamente la
professione a qualsiasi titolo, lo psicologo è tenuto ad uniformare la propria condotta ai principi del decoro e della
dignità professionale.
Capo IV - Rapporti con la società
Articolo 39 Lo psicologo presenta in modo corretto ed accurato la propria formazione, esperienza e competenza.
Riconosce quale suo dovere quello di aiutare il pubblico e gli utenti a sviluppare in modo libero e consapevole giudizi,
opinioni e scelte.
Articolo 40 Indipendentemente dai limiti posti dalla vigente legislazione in materia di pubblicità, lo psicologo non
assume pubblicamente comportamenti scorretti finalizzati al procacciamento della clientela. In ogni caso, può essere
svolta pubblicità informativa circa i titoli e le specializzazioni professionali, le caratteristiche del servizio offerto,
nonché il prezzo e i costi complessivi delle prestazioni secondo criteri di trasparenza e veridicità del messaggio il cui
rispetto è verificato dai competenti Consigli dell'Ordine. Il messaggio deve essere formulato nel rispetto del decoro
professionale, conformemente ai criteri di serietà scientifica ed alla tutela dell'immagine della professione. La
mancanza di trasparenza e veridicità del messaggio pubblicizzato costituisce violazione deontologica.
Capo V - Norme di attuazione
Articolo 41 È istituito presso la "Commissione Deontologia" dell'Ordine degli psicologi l'"Osservatorio permanente sul
Codice Deontologico", regolamentato con apposito atto del Consiglio Nazionale dell'Ordine, con il compito di
raccogliere la giurisprudenza in materia deontologica dei Consigli regionali e provinciali dell'Ordine e ogni altro
materiale utile a formulare eventuali proposte della Commissione al Consiglio Nazionale dell'Ordine, anche ai fini della
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revisione periodica del Codice Deontologico. Tale revisione si atterrà alle modalità previste dalla Legge 18 febbraio
1989, n. 56.
Articolo 42 Il presente Codice deontologico entra in vigore il trentesimo giorno successivo alla proclamazione dei
risultati del referendum di approvazione, ai sensi dell'art. 28, comma 6, lettera c) della Legge 18 febbraio 1989, n. 56.
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ALLEGATO B
CODICE DEONTOLOGICO DELL’ASSISTENTE SOCIALE
Testo approvato dal Consiglio Nazionale nella seduta
del 17 luglio 2009.
Titolo I
DEFINIZIONE E POTESTÀ DISCIPLINARE
1. Il presente Codice è costituito dai principi e dalle regole che gli assistenti sociali devono osservare e
far osservare nell’esercizio della professione e che orientano le scelte di comportamento nei diversi livelli di
responsabilità in cui operano.
2. Il Codice si applica agli assistenti sociali ed agli assistenti sociali specialisti.
3. Il rispetto del Codice è vincolante per l’esercizio della professione per obbligo deontologico. La non
osservanza comporta l’esercizio della potestà disciplinare.
4. Gli assistenti sociali sono tenuti alla conoscenza, comprensione e diffusione del Codice e si impegnano
per la sua applicazione nelle diverse forme in cui la legge prevede l’esercizio della professione.
Titolo II
PRINCIPI
5.
La professione si fonda sul valore, sulla dignità e sulla unicità di tutte le persone, sul rispetto dei
loro diritti universalmente riconosciuti e delle loro qualità originarie, quali libertà, uguaglianza, socialità,
solidarietà, partecipazione, nonché sulla affermazione dei principi di giustizia ed equità sociali.
6.
La professione è al servizio delle persone, delle famiglie, dei gruppi, delle comunità e delle diverse
aggregazioni sociali per contribuire al loro sviluppo; ne valorizza l’autonomia, la soggettività, la capacità di
assunzione di responsabilità; li sostiene nel processo di cambiamento, nell’uso delle risorse proprie e della
società nel prevenire ed affrontare situazioni di bisogno o di disagio e nel promuovere ogni iniziativa atta a
ridurre i rischi di emarginazione.
7. L’assistente sociale riconosce la centralità della
persona in ogni intervento. Considera e accoglie
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ogni persona portatrice di una domanda, di un bisogno, di un problema come unica e distinta da altre in
analoghe situazioni e la colloca entro il suo contesto di vita, di relazione e di ambiente, inteso sia in senso
antropologico- culturale che fisico.
8.
L’assistente sociale svolge la propria azione professionale senza discriminazione di età, di sesso, di
stato civile, di etnia, di nazionalità, di religione, di condizione sociale, di ideologia politica, di
minorazione psichica o fisica, o di qualsiasi altra differenza che caratterizzi le persone.
9.
Nell’esercizio delle proprie funzioni l’assistente sociale, consapevole delle proprie convinzioni e
appartenenze personali, non esprime giudizi di valore sulle persone in base ai loro comportamenti.
10. L’esercizio della professione si basa su fondamenti etici e scientifici, sull’autonomia tecnico-
professionale, sull’indipendenza di giudizio e sulla scienza e coscienza dell’assistente sociale. L’assistente
sociale ha il dovere di difendere la propria autonomia da pressioni e condizionamenti, qualora la
situazione la mettesse a rischio.
Titolo III
RESPONSABILITÀ DELL’ASSISTENTE SOCIALE NEI CONFRONTI DELLA PERSONA UTENTE E CLIENTE
Capo I
Diritti degli utenti e dei clienti
11. L’assistente sociale deve impegnare la propria competenza professionale per promuovere la
autodeterminazione degli utenti e dei clienti, la loro potenzialità ed autonomia, in quanto soggetti attivi del
progetto di aiuto, favorendo l'instaurarsi del rapporto fiduciario, in un costante processo di valutazione.
12. Nella relazione di aiuto l’assistente sociale ha il dovere di dare, tenendo conto delle caratteristiche
culturali e delle capacità di discernimento degli interessati, la più ampia informazione sui loro diritti, sui
vantaggi, svantaggi, impegni, risorse, programmi e strumenti dell’intervento professionale, per il quale deve
ricevere esplicito consenso, salvo disposizioni legislative e amministrative.
13. L’assistente sociale, nel rispetto della normativa vigente e nell’ambito della propria attività
professionale, deve agevolare gli utenti ed i clienti, o i loro legali rappresentanti, nell’accesso alla
documentazione che li riguarda, avendo cura che vengano protette le informazioni di terzi contenute nella
stessa e quelle che potrebbero essere di danno agli stessi utenti o clienti.
14. L’assistente sociale deve salvaguardare gli interessi ed i diritti degli utenti e dei clienti, in particolare
di coloro che sono legalmente incapaci e deve adoperarsi per contrastare e segnalare all’autorità
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competente situazioni di violenza o di sfruttamento nei confronti di minori, di adulti in situazioni di
impedimento fisico e/o psicologico, anche quando le persone appaiono consenzienti.
15. L’assistente sociale che nell’esercizio delle proprie funzioni incorra in una omissione o in un
errore che possano danneggiare l’utente o il cliente o la sua famiglia deve informarne l’interessato ed
esperire ogni tentativo per rimediare.
16. L’assistente sociale deve avere il consenso degli utenti e dei clienti a che tirocinanti e terzi siano
presenti durante l’intervento, o informati dello stesso, per motivi di studio, formazione, ricerca.
Capo II
Regole generali di comportamento dell’assistente sociale
17. L’assistente sociale deve tenere un comportamento consono al decoro ed alla dignità
della
professione. In nessun caso abuserà della sua posizione professionale.
18. L’assistente sociale deve mettere al servizio degli utenti e dei clienti la propria competenza
e
abilità professionali, costantemente aggiornate, intrattenendo il rapporto professionale solo fino a
quando la situazione problematica lo richieda o la normativa glielo imponga.
19. Qualora la complessità di una situazione lo richieda, l’assistente sociale si consulta con altri
professionisti competenti. Nel caso l'interesse prevalente dell’utente o del cliente lo esiga, o per gravi
motivi
venga meno il rapporto fiduciario, o quando sussista
un grave
rischio per l'incolumità
dell’assistente sociale, egli stesso si attiva per trasferire, con consenso informato e con procedimento
motivato, il caso ad altro collega, fornendo ogni elemento utile alla continuità del processo di aiuto. La
stessa continuità deve essere garantita anche in caso di sostituzione o di supplenza.
20. L’assistente sociale, investito di funzioni di tutela e di controllo dalla magistratura o in adempimento
di norme in vigore, deve informare i soggetti nei confronti dei quali tali funzioni devono
espletate
essere
delle implicazioni derivanti da questa specifica attività.
21. L’assistente sociale investito di funzioni peritali deve esercitarle con imparzialità ed indipendenza di
giudizio.
22. Nel rapporto professionale l’assistente sociale non deve utilizzare la relazione con utenti e clienti per
interessi o vantaggi personali, non accetta oggetti di valore, non instaura relazioni personali affettive e
sessuali.
Capo III
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Riservatezza e segreto professionale
23. La riservatezza ed il segreto professionale costituiscono diritto primario dell’utente e del cliente e
dovere dell’assistente sociale, nei limiti della normativa vigente.
24. La natura fiduciaria della relazione con utenti o clienti obbliga l’assistente sociale a trattare con
riservatezza le informazioni e i dati riguardanti gli stessi, per il cui uso o trasmissione, nel loro esclusivo
interesse, deve ricevere l’esplicito consenso degli interessati, o dei loro legali rappresentanti, ad
eccezione dei casi previsti dalla legge.
25. L’assistente sociale deve adoperarsi perché sia curata la riservatezza della documentazione
relativa agli utenti ed ai clienti, in qualunque forma prodotta, salvaguardandola da ogni indiscrezione,
anche nel caso riguardi ex utenti o clienti, anche se deceduti. Nelle pubblicazioni scientifiche, nei materiali
ad uso didattico, nelle ricerche deve curare che non sia possibile l’identificazione degli utenti o dei clienti
cui si fa riferimento.
26. L’assistente sociale è tenuto a segnalare l’obbligo della riservatezza e del segreto d’ufficio a coloro
con i quali collabora, con cui instaura rapporti di supervisione didattica o che possono avere
accesso alle informazioni o documentazioni riservate.
27. L’assistente sociale ha facoltà di astenersi dal rendere testimonianza e non può essere obbligato a
deporre su quanto gli è stato confidato o ha conosciuto nell’esercizio della professione, salvo i casi previsti
dalla legge.
28. L’assistente sociale ha l’obbligo del segreto professionale su quanto ha conosciuto per ragione della
sua professione esercitata sia in regime di lavoro dipendente, pubblico o privato, sia in regime di lavoro
autonomo libero professionale, e di non rivelarlo, salvo che per gli obblighi di legge e nei seguenti casi:
- rischio di grave danno allo stesso utente o cliente o a terzi, in particolare minori, incapaci o persone
impedite a causa delle condizioni fisiche, psichiche o ambientali;
- richiesta scritta e motivata dei legali rappresentanti del minore o dell’incapace nell’esclusivo
interesse degli stessi;
- autorizzazione dell’interessato o degli interessati o dei loro legali rappresentanti resi edotti
delle conseguenze della rivelazione;
- rischio grave per l’incolumità dell’assistente sociale
La collaborazione dell’assistente sociale alla
costituzione di banche dati deve garantire il diritto degli utenti e dei clienti alla riservatezza, nel rispetto
delle norme di legge.
30. L’assistente sociale nel rapporto con enti, colleghi ed altri professionisti fornisce unicamente dati
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e informazioni strettamente attinenti e indispensabili alla definizione dell’intervento.
31. Nei rapporti con la stampa e con gli altri mezzi di diffusione l’assistente sociale, oltre che ispirarsi
a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare dichiarazioni o interviste, è tenuto al rispetto della
riservatezza e del segreto professionale.
32. La sospensione dall’esercizio della professione non esime l’assistente sociale dagli
obblighi previsti dal Capo III del presente Titolo ai quali è moralmente e giuridicamente vincolato anche in
caso di cancellazione dall’Albo.
Titolo IV
RESPONSABILITÀ DELL’ASSISTENTE SOCIALE NEI CONFRONTI DELLA SOCIETÀ
Capo I
Partecipazione e promozione del benessere sociale
33. L’assistente sociale deve contribuire a promuovere una cultura della solidarietà e della sussidiarietà,
favorendo o promuovendo iniziative di partecipazione volte a costruire un tessuto sociale accogliente e
rispettoso dei diritti di tutti; in particolare riconosce la famiglia nelle sue diverse forme ed espressioni come
luogo privilegiato di relazioni stabili e significative per la persona
e la sostiene quale risorsa primaria.
34. L’assistente sociale deve contribuire a sviluppare negli utenti e nei clienti la conoscenza e
l’esercizio dei propri diritti-doveri nell’ambito della collettività e favorire percorsi di crescita anche
collettivi che sviluppino sinergie e aiutino singoli e gruppi, soprattutto in situazione di svantaggio.
35. Nelle diverse forme dell’esercizio della professione l’assistente sociale non può prescindere da una
precisa conoscenza della realtà socio-territoriale in cui opera e da una adeguata considerazione del
contesto culturale e di valori, identificando le diversità e la molteplicità come una ricchezza da
salvaguardare e da difendere, contrastando ogni tipo di discriminazione.
36. L’assistente sociale deve contribuire alla promozione, allo sviluppo e al sostegno di politiche sociali
integrate favorevoli alla maturazione, emancipazione e responsabilizzazione sociale e civica di comunità e
gruppi marginali e di programmi finalizzati al miglioramento della loro qualità di vita favorendo, ove
necessario, pratiche di mediazione e di integrazione.
37. L’assistente sociale ha il dovere di porre all’attenzione delle istituzioni che ne hanno la
responsabilità e della stessa opinione pubblica situazioni di deprivazione e gravi stati di disagio non
sufficientemente tutelati, o di iniquità e ineguaglianza.
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38. L’assistente sociale deve conoscere i soggetti attivi in campo sociale, sia privati che pubblici, e
ricercarne la collaborazione per obiettivi e azioni comuni che rispondano in maniera articolata e
differenziata a bisogni espressi, superando la logica della risposta assistenzialistica e contribuendo alla
promozione di un sistema di rete integrato.
. c ontribuire ad una corretta e diffusa informazione sui servizi e le prestazioni per favorire l'accesso e
l'uso responsabile delle risorse, a vantaggio di tutte le persone, contribuendo altresì alla promozione delle
pari opportunità.
40. In caso di calamità pubblica o di gravi emergenze sociali, l’assistente sociale si mette a
disposizione dell’amministrazione per cui opera o dell’autorità competente, contribuendo per la propria
competenza a programmi e interventi diretti al superamento dello stato di crisi.
Titolo V
RESPONSABILITÀ DELL’ASSISTENTE SOCIALE NEI CONFRONTI DI COLLEGHI ED ALTRI PROFESSIONISTI
Capo I
Rapporti con i colleghi ed altri professionisti
41. L’assistente sociale intrattiene con i colleghi e con gli altri professionisti con i quali collabora rapporti
improntati a correttezza, lealtà e spirito di collaborazione, sostenendo in particolare i colleghi che si
trovano all’inizio dell’attività professionale. Si adopera per la soluzione di possibili contrasti nell’interesse
dell’utente, del cliente e della comunità professionale.
42. L’assistente sociale che, a qualsiasi titolo, stabilisca un rapporto di lavoro con colleghi ed
organizzazioni pubbliche o private, si adopera affinché vengano rispettate le norme etico-deontologiche
che ispirano la professione; fornisce informazioni sulle specifiche competenze e sulla metodologia applicata
per salvaguardare il proprio ed altrui ambito di competenza e di intervento.
43. L’assistente sociale che venga a conoscenza di fatti, condizioni o comportamenti di colleghi o di altri
professionisti, che possano arrecare grave danno a utenti o clienti, ha l’obbligo di segnalare la situazione
all’Ordine o Collegio professionale competente.
Titolo VI
RESPONSABILITÀ DELL’ASSISTENTE SOCIALE NEI CONFRONTI DELL’ORGANIZZAZIONE DI LAVORO
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Capo I
L’assistente sociale nei confronti dell’organizzazione di lavoro
44. L’assistente sociale deve chiedere il rispetto del suo profilo e della sua autonomia professionale, la
tutela anche giuridica nell’esercizio delle sue funzioni e la garanzia del rispetto del segreto
professionale e del segreto di ufficio.
45. L’assistente sociale deve impegnare la propria competenza professionale per contribuire al
miglioramento della politica e delle procedure dell’organizzazione di lavoro, all’efficacia, all’efficienza,
all’economicità e alla qualità degli interventi e delle prestazioni professionali.
Deve altresì contribuire all'individuazione di standards di qualità e alle azioni di pianificazione e
programmazione, nonché al razionale ed equo utilizzo delle risorse a disposizione
46. L’assistente sociale non deve accettare o mettersi in condizioni di lavoro che comportino azioni
incompatibili con i principi e le norme del Codice o che siano in contrasto con il mandato sociale o che
possano compromettere gravemente la qualità e gli obiettivi degli interventi o non garantire
rispetto e riservatezza agli utenti e ai clienti.
47. L’assistente sociale deve adoperarsi affinché le sue prestazioni professionali si compiano nei termini
di tempo adeguati a realizzare interventi qualificati ed efficaci, in un ambiente idoneo a tutelare la
riservatezza dell’utente e del cliente.
48. L’assistente sociale deve segnalare alla propria organizzazione l'eccessivo carico di lavoro o evitare
nell’esercizio della libera professione cumulo di incarichi e di
prestazioni quando questi tornino di pregiudizio all’utente o al cliente.
49. L’assistente sociale che svolge compiti di direzione o coordinamento è tenuto a rispettare
sostenere l’autonomia tecnica e di giudizio dei colleghi, a promuovere la loro
e
formazione, la
cooperazione e la crescita professionale, favorendo il confronto fra professionisti. Si adopera per
promuovere e valorizzare esperienze e modelli innovativi di intervento, valorizzando altresì l'immagine del
servizio sociale, sia all'interno, che all'esterno dell'organizzazione.
50. Il rapporto gerarchico funzionale tra colleghi risponde a due livelli di responsabilità: verso la
professione e verso l’organizzazione e deve essere improntato al rispetto reciproco e delle specifiche
funzioni. Nel caso in cui non esista un ordine funzionale gerarchico della professione, l’assistente sociale
risponde ai responsabili dell’organizzazione di lavoro per gli aspetti amministrativi, salvaguardando la sua
autonomia tecnica e di giudizio.
51. L’assistente sociale deve richiedere opportunità di aggiornamento e di formazione e adoperarsi
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affinché si sviluppi la supervisione professionale.
Titolo VII
RESPONSABILITÀ DELL’ASSISTENTE SOCIALE NEI CONFRONTI DELLA PROFESSIONE
Capo I
Promozione e tutela della professione
52. L’assistente sociale può esercitare l’attività professionale in rapporto di dipendenza con enti pubblici e
privati o in forma autonoma o libero-professionale. Ha l’obbligo della iscrizione all’Albo secondo quanto
previsto dalla normativa vigente.
53. L’assistente sociale deve adoperarsi nei diversi livelli e nelle diverse forme dell’esercizio
professionale per far conoscere e sostenere i valori e i contenuti scientifici e metodologici
della
professione, nonché i suoi riferimenti etici e deontologici. In relazione alle diverse situazioni, deve
impegnarsi
nella supervisione didattica e professionale, nella ricerca, nella divulgazione della propria
esperienza, anche fornendo elementi per la definizione di evidenze scientifiche.
54. L’assistente sociale è tenuto alla propria formazione continua al fine di garantire prestazioni
qualificate, adeguate al progresso scientifico e culturale, metodologico e tecnologico, tenendo conto
delle indicazioni dell’Ordine professionale.
55. L’assistente sociale deve segnalare per iscritto all’Ordine l’esercizio abusivo della professione di cui sia
a conoscenza
56. L’assistente sociale deve adoperarsi, in ogni sede,
per la promozione, il rispetto e la tutela
dell’immagine della comunità professionale e dei suoi organismi rappresentativi.
Capo II
Onorari
57. Nel rispetto delle leggi che regolano l’esercizio professionale privato, vale il principio generale
dell’intesa sull’onorario fra l’assistente sociale ed il cliente. L’assistente sociale è tenuto a far conoscere
il suo onorario al momento dell’incarico o non appena sia chiara la richiesta e concordato il piano di
intervento. Deve informare il cliente che i compensi non sono subordinati al risultato delle prestazioni.
58. Nella determinazione degli onorari l’assistente sociale deve attenersi alle indicazioni fornite in
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materia dal Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali; può tuttavia prestare la sua opera a
titolo gratuito.
59. L’assistente sociale, nel rispetto delle normative vigenti, è tenuto a dare informazioni veritiere
e corrette sulle sue competenze professionali e può pubblicizzarle con rispetto dei principi di verità, decoro
e del prestigio della professione.
Capo III
Sanzioni
60. L’attività professionale esercitata in mancanza di iscrizione all’Albo si configura come esercizio
abusivo della professione ed è soggetta a denuncia secondo quanto previsto dai codici civile e penale.
E’ sanzionabile anche disciplinarmente lo svolgimento di attività in periodo di sospensione
dell’iscrizione; dell’infrazione risponde disciplinarmente anche l’assistente sociale che abbia reso possibile
direttamente o indirettamente l’attività irregolare.
61. L’inosservanza dei precetti e degli obblighi fissati dal presente Codice deontologico e ogni azione od
omissione comunque non consone al decoro o al corretto esercizio della professione sono punibili con
le procedure disciplinari e le relative sanzioni previste nell’apposito Regolamento emanato dal Consiglio
Nazionale dell’Ordine. Il Regolamento disciplinare è parte integrante del presente Codice.
62. Il procedimento disciplinare è promosso d’ufficio nonché a seguito di denuncia o segnalazioni
provenienti dall’autorità giudiziaria o di denuncia o di segnalazioni sottoscritte provenienti da enti o da
privati.
63. Nel caso di studi associati è responsabile sotto il profilo disciplinare il singolo professionista a cui
si riferiscono i fatti specifici.
Capo IV
Rapporti con il Consiglio dell’Ordine
64. L’assistente sociale ha il dovere di collaborare con il Consiglio dell’Ordine di appartenenza per
l’attuazione delle finalità istituzionali. Deve inoltre fornire i propri dati essenziali aggiornati ed elementi
utili alla costruzione della banca dati dei professionisti. Ogni iscritto è tenuto a riferire al Consiglio fatti di
sua conoscenza relativi all’esercizio professionale che richiedano iniziative o interventi dell’Organo, anche
diretti alla sua personale tutela.
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65. L’assistente sociale chiamato a far parte del Consiglio Nazionale, regionale o interregionale
dell’Ordine
deve
adempiere
l’incarico
con
impegno
costante, correttezza, imparzialità e
nell’interesse della comunità professionale ed essere parte attiva nelle politiche dei servizi.
66. L’assistente sociale impegnato nel Consiglio dell’Ordine nazionale o degli Ordini regionali
o
interregionali deve rendere conto agli iscritti dell’operato del suo mandato.
Capo V
Attività professionale dell’assistente sociale all’estero e attività degli assistenti sociali stranieri in Italia
67. Nel rispetto delle leggi che regolano le attività professionali all’estero, l’assistente sociale è tenuto al
rispetto delle norme deontologiche del paese in cui esercita; ove assenti, è tenuto al rispetto delle norme
del presente Codice. L’assistente sociale straniero che, in possesso dei requisiti di legge, eserciti in Italia, è
tenuto all’obbligo di osservanza del presente Codice.
68. Il Consiglio nazionale si adopera per mantenere rapporti con le Organizzazioni nazionali
e
internazionali di servizio sociale (social work), ponendosi in un confronto costruttivo sui principali
aspetti dell'identità della professione e sulle problematiche etiche e sociali. Si adopera, per favorire
l’interscambio culturale e la mobilità degli assistenti sociali a livello internazionale.
Capo VI
Aggiornamento del Codice
69. Il Consiglio Nazionale, sulla scorta delle questioni problematiche che emergeranno dall’applicazione
del Codice, provvederà alla sua revisione. A tal fine è istituito l’Osservatorio nazionale permanente, il cui
funzionamento è disciplinato da apposito regolamento.
DISPOSIZIONI FINALI
Gli Ordini regionali e interregionali degli assistenti sociali sono tenuti ad inviare ai nuovi
iscritti all’Albo il Codice deontologico ed a promuovere periodicamente occasioni di aggiornamento e
di approfondimento sui contenuti del Codice e sua applicazione.
SANZIONI DISCIPLINARI E PROCEDIMENTO
- art. 17 D.M. 11 ottobre 1994, n. 615
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- art. 9 D.P.R. 8 luglio 2005, n. 169
REGOLAMENTO
Approvato nella seduta del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali del 16 novembre 2007.
Modificato all’art.12, comma 1., con delibera del Consiglio Nazionale
dell’Ordine degli Assistenti Sociali del 28 marzo 2009.
Parte Prima
SANZIONI DISCIPLINARI
Articolo. 1 – Sanzioni
1. All’iscritto all’albo che si rende colpevole di abuso o mancanza nell’esercizio della professione o che
comunque tiene un comportamento non conforme alle norme del Codice Deontologico, al decoro o alla
dignità della professione, il Consiglio dell’Ordine regionale o interregionale infligge, tenuto conto della
gravità del fatto, una delle seguenti sanzioni adeguata e proporzionata alla violazione delle norme
deontologiche:
a)
ammonizione;
censura;
)
c)
sospensione dall’esercizio della professione;
d)
radiazione dall’albo.
2. Il tipo e l’entità di ciascuna sanzione sono determinati in relazione ai seguenti criteri:
a)
intenzionalità del comportamento;
b)
grado di negligenza, imprudenza, imperizia, tenuto conto della prevedibilità dell’evento;
c)
responsabilità connessa alla posizione di lavoro;
d)
grado di danno o di pericolo causato;
e)
presenza di circostanze aggravanti o attenuanti;
f)
concorso fra più professioni e/o operatori in accordo tra loro;
g)
recidiva e/o reiterazione.
Articolo 2 – Ammonizione
1. La sanzione dell’ammonizione consiste in un richiamo scritto comunicato
all’interessato sull’osservanza dei suoi doveri e in un invito a non ripetere quanto commesso. Viene inflitta
nei casi di abusi o mancanze di lieve entità che non hanno comportato riflessi negativi sul decoro e sulla
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dignità della professione.
2.
In caso di abuso o mancanza che possano dar luogo ad ammonizione, commessi nei confronti di
utenti/clienti o di altro iscritto all’albo o di enti, il Presidente del Consiglio dell’Ordine regionale o
interregionale esperisce il preventivo tentativo di conciliazione fra le parti nei modi previsti al successivo art.
12 comma 1.
3. Tre provvedimenti di ammonizione comportano la sanzione della censura.
Articolo 3 – Censura
1. La sanzione della censura consiste in una dichiarazione di biasimo resa pubblica.
E’ inflitta nei casi di abusi o di mancanze, che siano lesivi del decoro e della dignità della professione e nel
caso di morosità nel pagamento del contributo annuo dovuto che perduri oltre 60 giorni dal termine
stabilito dal Consiglio
2. In caso di abuso o mancanza che possano dar luogo alla censura, commessi nei confronti di utenti/clienti
o di altro iscritto all’albo o di enti, il Presidente dell’Ordine regionale o interregionale esperisce il preventivo
tentativo di conciliazione nei modi previsti al successivo art. 12 comma 1.
3. Tre provvedimenti di censura comportano d’ufficio la sospensione dall’esercizio della professione
per un periodo non superiore a giorni 30.
Articolo 4 – Sospensione
1.
La sospensione consiste nell’inibizione all’esercizio della professione e consegue di diritto nel caso
previsto e regolato dagli articoli 19 e 35 del Codice Penale per tutto il tempo stabilito nel provvedimento
del giudice penale che l’ha comminata. Il Consiglio regionale o interregionale, in questo caso, si limita a
prenderne atto.
2. La sanzione della sospensione dall’esercizio della professione è inflitta fino al massimo di due anni:
a)
per violazioni del codice deontologico, che possano arrecare grave nocumento a utenti/clienti o ad
altro iscritto all’albo o enti; oppure generare una più estesa risonanza negativa per il decoro e la dignità
della professione a causa della maggiore pubblicità del fatto;
b)
per morosità superiore ad una annualità nel pagamento dei contributi dovuti, ai sensi del successivo art.
8.
3. Nei casi di maggiore gravità, la sanzione della sospensione può essere motivatamente inflitta in via
cautelare provvisoria al momento dell’apertura del procedimento disciplinare.
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4. Tre provvedimenti di sospensione maturati nell’arco di cinque anni, comportano la radiazione dall’albo.
Articolo 5 – Radiazione
3. La radiazione consiste nella cancellazione dall’albo. Consegue di diritto nel caso di interdizione dalla
professione previsto e regolato dagli artt. 19 comma 1. n. 2, 30 e 31 del Codice Penale per l’intera durata
dell’interdizione stabilita nel provvedimento del giudice penale che l’ha comminata. Il Consiglio
regionale o interregionale si limita a prenderne atto.
4. La sanzione della radiazione dall’albo viene inflitta:
- in caso di tre sospensioni maturate nell’arco di cinque anni;
- nei casi di violazione del codice deontologico e/o di comportamento non conforme al decoro e alla dignità
della professione di gravità tali da rendere incompatibile la permanenza nell’albo;
- nel caso di condanna con sentenza passata in giudicato a pena detentiva non inferiore a tre anni per fatti
commessi nell’esercizio della professione;
- nei casi di morosità previsti all’art. 8 comma 6.
La sanzione della radiazione comporta la contestuale cancellazione dall’albo, fermo restando l’obbligo per
l’iscritto a corrispondere i contributi dovuti per il periodo in cui è stato iscritto all’albo.
6. Il professionista radiato può, non prima di cinque anni dalla data di efficacia del provvedimento di
radiazione, a domanda, essere di nuovo iscritto all’albo qualora siano venute meno le ragioni che hanno
determinato la radiazione. In ogni caso, può essere di nuovo iscritto dopo aver ottenuto la riabilitazione
secondo le norme vigenti, purché in possesso dei requisiti prescritti al momento di presentazione della
domanda di re-iscrizione.
Articolo 6 – Incompatibilità
1.
Le sanzioni disciplinari della censura, della sospensione e della radiazione dall’albo non sono
deontologicamente compatibili con l’assunzione e/o il mantenimento delle cariche di Consigliere dell’Ordine
regionale o interregionale o di Consigliere nazionale o di Revisore dei Conti dell’Ordine regionale o
interregionale o nazionale.
2. L’incompatibilità è riferita alla durata del mandato elettivo o comunque alla durata della sospensione e/o
della radiazione se superiore.
Articolo 7 – Pubblicità
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1. La censura, la sospensione dall’esercizio della professione e la radiazione dall’albo sono rese pubbliche
mediante annotazione nell’albo stesso.
2. Nel caso di iscritto che esercita attività professionale in tutto o in parte in regime di lavoro dipendente o
di altra forma di rapporto di lavoro, senza vincolo di subordinazione, il Consiglio regionale o interregionale
comunica all’Ente di appartenenza o comunque al datore di lavoro, la sospensione dall’esercizio della
professione, con indicazione dei relativi periodi e/o la radiazione dall’albo .
Articolo 8 - Contributo annuo
1. E’ considerato comportamento non conforme al decoro e alla dignità della professione il
mancato versamento dei contributi all’Ordine regionale o interregionale di appartenenza (morosità).
2. Il contributo annuo dovuto dagli iscritti all’albo è determinato dal Consiglio regionale o interregionale
territoriale che ne stabilisce modalità e tempi di versamento con deliberazione approvata dal Ministero
vigilante ed è comunicato dal Presidente e/o dal Tesoriere del Consiglio regionale o interregionale a mezzo
lettera circolare agli iscritti.
3. La Circolare deve indicare:
a)
l’entità del contributo annuo dovuto dagli iscritti all’albo, così come determinato dal Consiglio
regionale o interregionale;
b)
le modalità e i tempi di versamento del contributo annuo;
c)
le maggiorazioni cui l’iscritto va incontro in caso di mancato versamento nei tempi indicati al punto
b);
d)
le sanzioni disciplinari che verranno irrogate decorso il tempo utile al versamento del
contributo annuo;
e)
f)
i modi di irrogazione delle sanzioni disciplinari per morosità;
le modalità di cessazione della morosità e i relativi effetti e che, nel caso di radiazione dall’albo,
ove l’interessato richieda nuova iscrizione, oltre ad avere sanato la morosità per il periodo che ha dato
luogo alla radiazione, de ve anche dimostrare il possesso di tutti i requisiti previsti dalla normativa
vigente ammonimento della richiesta e che la domanda di nuova iscrizione è regolata dall’art. 9 del
DMGG 615/1994.
4. I contributi non versati, le relative penalità e gli eventuali costi aggiuntivi costituiscono
crediti dell’Ordine regionale o interregionale a favore del quale sono maturati, esigibili nelle forme di
legge anche in caso di trasferimento dell’interessato ad altro Ordine regionale o interregionale, di
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sospensione, di radiazione.
5. L’iscritto che non provvede al pagamento del contributo e delle relative previste maggiorazioni nel
termine indicato al comma 2 si considera moroso ed incorre nella sanzione della censura se la morosità va
oltre i 60 giorni e della sospensione dall’esercizio della professione prevista dal comma 2 lett. b)
dell’art. 4 se la morosità è superiore ad un anno.
6. Decorso il secondo anno dalla data della sospensione, perdurando la morosità, l’iscritto viene radiato
dall’albo.
Articolo 9 – Morosità
1. Scaduto il termine di cui all’art. 8 comma 3 lett. b), il Presidente del Consiglio regionale o interregionale,
rilevata la morosità, provvede, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, a diffidare l’iscritto ad
effettuare il versamento del contributo entro e non oltre 60 gg. dal ricevimento della diffida, con le
maggiorazioni di cui al successivo comma 3 e con l’espressa indicazione che si procederà all’apertura nei
suoi confronti del procedimento disciplinare.
2. Scaduto senza esito il termine di 60 gg. il presidente del Consiglio regionale e interregionale attiva
d’ufficio
l’apertura
del
procedimento
disciplinare
ai
sensi dell’art. 12 comma 4, inviandone
comunicazione all’iscritto.
3. I versamenti effettuati dopo la scadenza del termine di cui all’art. 8 comma 3 lett. b). e art. 9 commi 1
e 2 sono soggetti, a titolo di penale, ad una quota aggiuntiva calcolata sulle somme dovute, nella
misura pari a quella del saggio dell’interesse legale in vigore alla data della scadenza del termine e, se
effettuati dopo il 31 dicembre dell’anno di riferimento, ad una ulteriore quota aggiuntiva pari al 10%.
4. A seguito di presentazione degli atti giustificativi della regolarizzazione della morosità, il Consiglio
regionale o interregionale, con atto deliberativo da adottarsi non oltre 45 gg. dalla data di
presentazione, prende atto della intervenuta cessazione della morosità e revoca formalmente la sanzione
disciplinare della sospensione dall’esercizio della professione.
5. Le spese sostenute dal Consiglio regionale o interregionale a causa e correlate al mancato versamento
sono a carico dell’iscritto moroso.
Parte Seconda
PROCEDIMENTO DISCIPLINARE
Articolo 10 – Competenza territoriale
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1. Il procedimento disciplinare è di competenza dell’Ordine regionale o interregionale nel cui albo il
professionista è iscritto. In mancanza di Consiglieri iscritti nella sezione B dell’Albo il procedimento
disciplinare a carico di un professionista iscritto alla sez. B è di competenza del Consiglio regionale o
interregionale più vicino che abbia tra i suoi componenti almeno un consigliere iscritto nella sezione B al
quale il Consiglio di appartenenza del professionista interessato assegna il procedimento. Ove tale criterio
risulti inapplicabile per mancanza di iscritti nella sezione B dell’albo il procedimento resta di competenza
del consiglio regionale o interregionale al quale appartiene il professionista interessato anche se
composto esclusivamente da Consiglieri appartenenti alla sezione A (art. 9 comma 4 DPR 169/05).
2. In caso di trasferimento dell’interessato ad Albo di altro Ordine regionale o interregionale il
procedimento prosegue e si conclude dinanzi all’Ordine regionale o interregionale in cui è iniziato e che ne
comunica l’esito all’Ordine regionale in cui al momento è iscritto l’interessato.
3.
Qualora l’interessato sia un Consigliere dell’Ordine, ovvero il denunciante sia un Consigliere
dell’Ordine e l’interessato sia iscritto al medesimo Ordine, il Consiglio su istanza dell’interessato, del
denunciante o anche d’ufficio, assegna il procedimento all’Ordine regionale o interregionale più vicino.
4.
Le sanzioni sono deliberate dal Consiglio regionale o interregionale al termine del procedimento
disciplinare. Il Consiglio regionale o interregionale può deliberare che i provvedimenti disciplinari siano
adottati con votazione segreta.
Articolo 11 – Commissione deontologica disciplinare.
Responsabile del procedimento
1. Ciascun Consiglio regionale o interregionale all’atto del suo insediamento nomina, al suo interno,
una Commissione deontologica disciplinare composta da tre o cinque membri, appartenenti alla
sezione A e alla sezione B, proporzionalmente alla rappresentanza numerica nello stesso consiglio con il
compito di procedere all’istruttoria dei procedimenti disciplinari. I membri della Commissione, all’atto
dell’insediamento, assumono l’obbligo al segreto circa le notizie comunque conosciute nell’espletamento
dell’ incarico. In mancanza di Consiglieri iscritti nella sez. B si applicano i criteri previsti all’art. 10 comma 1.
2. La Commissione nella prima seduta nomina il Presidente e il Segretario. La responsabilità della
Commissione è collegiale.
3. Il Presidente della Commissione è il responsabile del procedimento istruttorio.
4. La carica di presidente del Consiglio regionale o interregionale è incompatibile con la carica di membro
della commissione disciplina.
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5. Il Segretario della Commissione redige i verbali delle sedute della Commissione. I verbali vengono
sottoscritti da tutti i consiglieri presenti.
Articolo 12 - Apertura del procedimento e tentativo di conciliazione
1. Il Presidente del Consiglio regionale o interregionale, a seguito di denuncia o segnalazioni sottoscritte o
provenienti da enti o da privati, dopo un attento esame dell’attendibilità e fondatezza delle segnalazioni,
può esperire, nei casi previsto all’art. 2 comma 2 e art. 3 comma 2, tentativo di conciliazione tra le parti.
A tal fine convoca entro un termine non superiore a 30 giorni a mezzo raccomandata a/r, fax o e-mail gli
interessati. Della eventuale conciliazione viene dato formalmente atto a verbale che viene trasmesso al
Consiglio per la deliberazione dell’archiviazione del caso.
2. In caso di mancata conciliazione, nei casi in cui non è prevista la conciliazione e comunque nel caso di
segnalazione da parte di autorità giudiziaria, il Presidente trasmette gli atti al Consiglio per l’eventuale
apertura del procedimento disciplinare.
3.
Il Consiglio regionale o interregionale, composto nell’esercizio di tale funzione dai Consiglieri
appartenenti alla sezione dell’albo del professionista assoggettato al procedimento, delibera l’apertura
del procedimento disciplinare e trasmette gli atti alla Commissione di cui all’art. 11 per la necessaria
istruttoria (art. 9 comma 1 DPR 169/05).
4. Nel caso di morosità, il Presidente del Consiglio regionale o interregionale, verificata l’omessa
sanatoria della morosità, attiva d’ufficio il procedimento disciplinare, affidando la responsabilità del
procedimento alla Commissione disciplinare che procede a istruttoria sommaria e propone al Consiglio la
comminazione delle sanzioni previste all’art. 8 commi 4 e 5 con la gradualità in esso previsto.
5.
Con la delibera di apertura del procedimento disciplinare, il Consiglio regionale o interregionale
determina il termine entro il quale il procedimento deve concludersi. Il termine decorre dalla data di inizio
del procedimento.
Articolo 13 - Comunicazioni all’interessato e attività istruttoria
1. Il Presidente della Commissione deontologica disciplinare comunica al professionista interessato, a
mezzo lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, l’apertura del procedimento disciplinare, informandolo
dei fatti che gli vengono addebitati, delle modalità di presa visione degli atti, della composizione della
Commissione e del responsabile del procedimento istruttorio. Contestualmente il Presidente invita
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l’interessato a far pervenire entro 60 giorni le proprie controdeduzioni ed eventuale documentazione,
indicando che può farsi assistere da esperto di sua fiducia. Qualora la comunicazione risulti infruttuosa per
mancata ricezione della lettera di raccomandata da parte dell’interessato si procede a notifica con le
modalità indicate dagli artt.137 e seguenti del c.p.c.
2. La Commissione, dopo una preliminare valutazione della situazione, esperisce, ove possibile, tentativo di
conciliazione tra le parti interessate, salvo in caso di procedimento disciplinare aperto su richiesta
dell’autorità giudiziaria. La positiva conclusione del tentativo di conciliazione comporta la proposta al
Consiglio di archiviazione del procedimento con contestuale comunicazione alle parti.
3. La Commissione deontologica disciplinare convoca il professionista interessato, d’ufficio o su richiesta
dello stesso, per essere sentito, con preavviso non inferiore a 20 giorni, redigendo un verbale dell’incontro
firmato da tutti i componenti e controfirmato
dall’
interessato.
Acquisisce
documentazione
e
testimonianze richieste dalle parti o d’ufficio. L’attività istruttoria deve essere oggetto di apposito verbale
sottoscritto da tutti i membri della commissione.
4.
Al termine dell’istruttoria il responsabile del procedimento istruttorio predispone una relazione
dettagliata dell’attività svolta dalla Commissione che, approvata dalla stessa, viene rimessa al Consiglio
unitamente agli atti assunti per le deliberazioni di competenza
Articolo. 14 – Assistenza tecnica
1. Il denunciato, il denunciante e la Commissione Disciplinare possono avvalersi di consulenze tecniche.
2. La Commissione Disciplinare deve chiederne preventivamente l’autorizzazione al Consiglio.
Articolo 15 – Termine a difesa
1. Se richiesta, la Commissione può concedere all’interessato ulteriore termine non inferiore a 30 giorni
e non superiore a 60 dall’audizione per produrre eventuale documentazione e/o memorie difensive
scritte. In tal caso è prorogato di pari durata il termine di conclusione del procedimento.
Articolo 16 – Relazione e deliberazione finale
1.
Le sanzioni sono deliberate dal Consiglio regionale o interregionale all’esito del procedimento
disciplinare.
2. Il Consiglio regionale o interregionale, con voto espresso, delibera l’archiviazione, se gli addebiti
risulta no
infondati,
o
l’eventuale
sanzione
da
infliggere.
Il provvedimento deve essere
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adeguatamente motivato con indicazione dei presupposti di fatto e delle ragioni di diritto che lo hanno
determinato, in relazione alle risultanze dell’istruttoria. La deliberazione è adottata dal Consiglio composto
ai sensi dell’art 10 comma 1 e dell’art. 9 comma 1 e 3 della L. 169/05.
3. Contro il provvedimento di irrogazione della sanzione l’interessato può proporre ricorso al Consiglio
Nazionale ai sensi dell’art. 18, salva la facoltà di adire l’autorità giudiziaria.
Articolo 17 – Pubblicità e comunicazioni
1. La deliberazione che definisce il procedimento disciplinare viene comunicata al professionista interessato
entro 30 giorni dalla sua adozione dal Presidente del Consiglio regionale o interregionale, a mezzo lettera
raccomandata con ricevuta di ritorno indirizzata al domicilio risultante all’albo o al diverso domicilio a tale
scopo indicato dal professionista. La comunicazione deve contenere l’esplicito avvertimento che
il provvedimento può essere impugnato con ricorso al Consiglio Nazionale entro 60 giorni dal ricevimento
della comunicazione, nei modi indicati al successivo articolo 18, salva la facoltà di adire l’Autorità Giudiziaria
competente. Qualora la comunicazione risulti infruttuosa per mancata ricezione della lettera di
raccomandata da parte dell’interessato si procede a notifica con le modalità indicate dagli artt.137 e
seguenti del c.p.c. La deliberazione, viene affissa per 10 giorni consecutivi nella sede dell’Ordine
competente.
2.Tutti gli atti relativi ai procedimenti disciplinari sono custoditi dal Consiglio regionale o interregionale
secondo le norme previste D.Lgs. 196/2003 e successive modificazioni. Presso la sede di ciascun
Ordine viene istituito un registro in cui vengono iscritti i nominativi di coloro nei confronti dei quali sia stata
applicata una sanzione disciplinare e la sua durata.
3.I membri del Consiglio regionale o interregionale della sezione di appartenenza del professionista
interessato hanno accesso agli atti relativi ai procedimenti disciplinari; chiunque altro soggetto voglia
accedere agli atti relativi ai procedimenti disciplinari ai sensi della L. 241/1990 e del D.Lgs. 196/2003 e
successive modificazioni,
deve
presentare
motivata
richiesta
scritta
al
Presidente
o
al
Responjsabile dell’accesso, se designato, del Consiglio regionale o interregionale territoriale. Il Consiglio
Nazionale disciplina – in conformità con la normativa posta dal D.Lgs. 196/2003 e successive modificazioni –
il procedimento e i legittimati all’accesso ai dati.
Articolo 18 – Ricorso al Consiglio Nazionale
1.
Il Consiglio Nazionale, all’atto del suo insediamento, nomina, al suo interno, una Commissione
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deontologica disciplinare composta da tre o cinque membri, appartenenti
sezione
B,
proporzionalmente
alla
sezione
A
e
alla
alla rappresentanza numerica nello stesso consiglio con il compito di
procedere all’istruttoria dei ricorsi. I membri della Commissione all’atto dell’insediamento assumono
l’obbligo al segreto circa le notizie comunque conosciute nell’espletamento di tale incarico. La Commissione
nella prima seduta nomina il Presidente ed il Segretario. Il Presidente della Commissione è il responsabile
del procedimento istruttorio, il Segretario redige i verbali delle sedute della Commissione che
vengono sottoscritti da tutti i componenti. La responsabilità della Commissione è collegiale.
Articolo 19 – Procedimento innanzi al Consiglio Nazionale
1. Il ricorso al Consiglio Nazionale è presentato dal professionista interessato, direttamente o a mezzo del
servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento, per il tramite del Consiglio dell’Ordine
regionale o interregionale che ha emesso il provvedimento impugnato.
2.
Sotto pena d’inammissibilità il ricorso – sottoscritto direttamente dalla parte, con la possibilità
dell’assistenza di un proprio legale di fiducia – deve contenere:
a)
l’indicazione dell’atto impugnato;
b)
le motivazioni in fatto e in diritto;
c)
i documenti a sostegno del ricorso.
3.
Il Consiglio regionale o interregionale il cui provvedimento sanzionatorio è stato impugnato,
trasmette il ricorso al Consiglio Nazionale entro 15 giorni dall’avvenuta notifica dell’impugnazione,
aggiungendo eventuali deduzioni e allegando copia del provvedimento impugnato, di tutti gli atti e di tutta
la documentazione del procedimento disciplinare.
4. Il ricorso non sospende l’esecutività del provvedimento impugnato. L’interessato può chiedere al
Consiglio Nazionale, per gravi ragioni, sospensiva cautelare che il Consiglio Nazionale può concedere con
provvedimento interlocutorio motivato. Nel caso previsto all’art. 7 comma 2 l’eventuale sospensione
cautelare dell’esecutività del provvedimento impugnato viene comunicata all’Ente di appartenenza o
comunque al datore di lavoro dell’interessato.
5. Il Presidente del Consiglio Nazionale trasmette immediatamente gli atti pervenuti al Presidente della
Commissione deontologica disciplinare dandone comunicazione al ricorrente con indicazione del termine
massimo di chiusura del procedimento secondo quanto indicato al comma 6 dell’ art. 19.
6.
La Commissione deontologica disciplinare competente si esprime entro il termine massimo di 90
giorni dalla data di ricezione del ricorso, termine prorogabile, motivatamente, fino ad un massimo di
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ulteriori 45 giorni.
7.
La Commissione, ricevuti gli atti, avvia il procedimento istruttorio e procede alla audizione
dell’interessato quando lo ritenga motivatamente opportuno o comunque, quando il ricorrente ne faccia
richiesta. Al termine dell’istruttoria la Commissione competente trasmette le risultanze al Consiglio
Nazionale, che, con voto dei Consiglieri iscritti nella sezione di appartenenza del professionista interessato,
si esprime con deliberazione nella prima seduta successiva al ricevimento degli atti.
8.
La decisione del Consiglio Nazionale deve essere adeguatamente motivata in fatto e in diritto. Il
Presidente del Consiglio Nazionale ne dà notizia all’interessato, con raccomandata con ricevuta di ritorno,
immediatamente dopo la sua adozione, al domicilio dichiarato o eletto nel ricorso e al Consiglio regionale o
interregionale che ha adottato il provvedimento disciplinare impugnato. Qualora risulti infruttuosa, la
comunicazione viene rinnovata con le stesse modalità e successivamente con le modalità indicate dagli
artt.137 e successivi c.p.c
9. La decisione del Consiglio Nazionale è immediatamente esecutiva.
10. Dell’irrogazione della sanzione disciplinare viene data notizia, con esposizione all’albo di tutti gli
Ordini regionali e interregionali.
11. I membri del Consiglio Nazionale hanno accesso agli atti relativi ai procedimenti disciplinari.
Qualunque altro soggetto voglia accedere agli atti relativi ai procedimenti disciplinari ai sensi
della L. 241/1990 e del D.Lgs. 196/2003 e successive modificazioni, deve presentare al Presidente del
Consiglio motivata richiesta scritta.
Articolo 20 – Astensione e ricusazione
1.
I componenti del Consiglio regionale o interregionale, e quelli del Consiglio Nazionale
dell’Ordine e i membri delle Commissioni indicate ai precedenti articoli
11 e 19, comma 1. debbono astenersi:
a)
se hanno interesse personale nella vertenza disciplinare;
b)
se sono parenti o affini sino al quarto grado, ovvero conviventi, o colleghi dello stesso
ufficio
del
professionista
interessato
dal
Ente
o
provvedimento disciplinare, del suo difensore ovvero del
denunciante;
c)
se hanno motivi di inimicizia grave o di forte amicizia con il professionista interessato dal procedimento
disciplinare, con il suo difensore ovvero con il denunciante;
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d)
e)
se hanno deposto nella vertenza disciplinare come testimoni;
in ogni altro caso in cui sussistono gravi ragioni di convenienza e di opportunità, adeguatamente
motivate e riconosciute dal Consiglio come tali.
2. Nei casi in cui è fatto obbligo di astensione, il professionista interessato può proporre la
ricusazione con ricorso in forma scritta, indirizzato al Presidente del Consiglio regionale o
interregionale o al Presidente del Consiglio Nazionale. A pena di inammissibilità il ricorso deve essere
sottoscritto dall’interessato o da suo difensore munito di procura e deve indicare i motivi specifici e i mezzi
di prova. Se la ricusazione riguarda il Presidente del Consiglio regionale o interregionale o del Consiglio
Nazionale, il ricorso è indirizzato al Consigliere Vice presidente.
3. Ove l'istanza di ricusazione sia giudicata fondata, il procedimento prosegue in
assenza del Consigliere o dei Consiglieri o dei Commissari ricusati previa sostituzione degli stessi da parte del
Consiglio regionale o interregionale o del Consiglio Nazionale. L'istanza di ricusazione, purché ammissibile,
sospende il giudizio che riprende d'ufficio a decorrere dalla pronuncia del Consiglio sull'istanza stessa. Il
Consiglio si riunisce immediatamente, con esclusione del Consigliere o dei Consiglieri o dei Commissari
ricusati e, sentiti gli stessi, decide sul ricorso. Della decisione è data comunicazione al professionista
interessato. Nel periodo di sospensione non decorrono i termini del giudizio.
4.
Nei casi di astensione o di fondata ricusazione della maggioranza dei Consiglieri o dei Commissari
regionali o interregionali, il caso ed i relativi atti vengono trasmessi al Presidente del Consiglio Nazionale
dell’Ordine. Il Consiglio Nazionale nomina, in tal caso, una Commissione deontologica disciplinare speciale
di cinque membri composta da professionisti assistenti sociali di riconosciuta autorevolezza e da membri di
Commissioni
deontologiche
disciplinari
degli
Ordini
regionali
non implicati nel ricorso, previa
determinazione dei criteri per la loro selezione. La Commissione deontologica disciplinare speciale svolge le
funzioni istruttorie, dibattimentali e decisionali del procedimento a lei affidato. La decisione della
Commissione deve essere trasmessa al Consiglio Nazionale che la fa propria con deliberazione che
comunica all’interessato e al Consiglio regionale o interregionale che ha adottato il provvedimento
impugnato il quale ne prende atto.
5.
In caso di astensione o di fondata ricusazione della maggioranza dei Consiglieri o dei Commissari
nazionali il Presidente del Consiglio Nazionale trasmette gli atti al Ministero vigilante per quanto di propria
competenza.
Articolo 21 – Prescrizione
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1. L’azione disciplinare si prescrive decorsi 5 (cinque) anni dalla data della presunta violazione.
2. Nel caso in cui per il fatto sia stato promosso procedimento penale, il termine suddetto decorre dal
giorno in cui è divenuta irrevocabile la sentenza che definisce il giudizio penale.
Articolo 22 – Norme finali
1. Il presente Regolamento è parte integrante del Codice Deontologico, entra in vigore alla data della
sua approvazione e abroga il Regolamento precedente.
2. I Consigli regionali o interregionali sono tenuti a prenderne atto e a darne conoscenza agli
iscritti all’Albo.
3.
I procedimenti disciplinari iniziati in data antecedente alla data di approvazione del presente
Regolamento sono portati a termine secondo le procedure vigenti alla data
dell’avvio
del
procedimento disciplinare, salvo condizioni, previste dal presente regolamento, più favorevoli al
professionista sottoposto al procedimento disciplinare.
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ALLEGATO C
CODICE DEONTOLOGICO DEL PEDAGOGISTA E DELL’EDUCATORE – ASSOCIAZIONE
P.ED.I.AS
P.ED.I.AS. Pedagogisti ed Educatori Italiani Associati
Sede Legale: Corso Garibaldi, 160 - 62012 Civitanova Marche (Macerata)
PRINCIPI E DOVERI
Articolo 1 La professione di Pedagogista e di Educatore é un'attività intellettuale il cui esercizio richiede
requisiti di cultura specifica, giuridica e di moralità.
Articolo 2 Il Pedagogista e l’Educatore nell'esercizio della sua professione adempie ad una funzione sociale e
di pubblico interesse.
Articolo 3 II Pedagogista e l’Educatore esercitano la professione in conformità alle leggi vigenti ed operano
nel rispetto dell'interesse generale della società, riconoscendolo prioritario.
Articolo 4 Nell'esercizio della professione il Pedagogista e l’Educatore devono
uniformare il proprio
comportamento ai principi deontologici dì tutela della dignità e del decoro della professione e degli iscritti
all'Albo.
Articolo 5 Le presenti norme valgono in qualunque modo sia esercitata la professione, sia pubblica che
dipendente.
Articolo 6 Il Pedagogista e l’Educatore che esercitano all'estero la loro professione sono tenuto a rispettare
le leggi e le altre disposizioni normative vigenti nel Paese che li ospitano e che sono in contrasto con quelle
nazionali.
Articolo 7 Il Pedagogista e l’Educatore devono esercitare tale professione con dignità e probità; il
comportamento
professionale
deve
basarsi
sull'assunzione
di
responsabilità
dei
propri
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atti,
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sull'indipendenza di giudizio, sulla autonomia culturale, sulla preparazione professionale, sull'adempimento
degli impegni assunti.
Articolo 8 Il Pedagogista e l’Educatore svolgono le loro prestazioni professionali solo in assenza di condizioni
di incompatibilità a contrasto tra i lori doveri professionali e il proprio interesse o quello di committenti.
Articolo 9 Il Pedagogista e l’Educatore hanno il dovere di attendere al continuo aggiornamento delle proprie
conoscenze della cultura professionale.
Articolo 10 Il Pedagogista e l’Educatore devono assolvere sempre ai propri doveri professionali con impegno
e scrupolosità.
Articolo 11 II Pedagogista e l’Educatore devono valutare con coscienza l'assunzione di incarichi e
committenze in materia della loro professione nella quale non siano adeguatamente preparati, rapportando
la quantità e la qualità degli incarichi con le loro effettive possibilità e con i mezzi di cui possono disporre.
Articolo 12 II Pedagogista e l’Educatore devono assicurarsi, nello svolgere e sottoscrivere prestazioni
professionali interdisciplinari o collegiali, che siano esplicitate le singole competenze, contributi e
responsabilità.
Articolo 13 Il Pedagogista e l’Educatore che esercitano un mandato politico o ricoprono carica elettiva nel
Consiglio Nazionale non deve avvalersene per fini personali in contrasto con l'etica professionale.
Articolo 14 II Pedagogista e l’Educatore intratterranno con gli iscritti e con i colleghi rapporti professionali
basati sulla lealtà ed improntati al rispetto ed alla cortesia.
Articolo 15 Il Pedagogista e l’Educatore che per qualsiasi ragione vengano in contrasto con un altro collega
iscritto, dopo aver cercato in ogni modo di superare e sanare il contrasto stesso e comunque prima di adire
le vie legali informa il Presidente del Consiglio Nazionale.
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Articolo 16 II Pedagogista e l’Educatore adempiono anche ad obblighi eventuali di solidarietà nell'ambito di
libere associazioni di categoria e gruppi professionali per fini culturali e di difesa da ogni abuso.
Articolo 17 Il Pedagogista e l’Educatore iscritti all'Albo devono osservare con disciplina tutti i provvedimenti
emanati dal Consiglio Nazionale e provvedere alla corresponsione delle quote annuali di iscrizione.
Articolo 18 Il Pedagogista e l’Educatore chiamati ad esercitare un servizio pubblico o di pubblica necessità
sono tenuti a compierlo con impegno e scrupolo.
Articolo 19 Il Pedagogista e l’Educatore chiamati da Pubblica Autorità ad assumere un incarico e svolgere un
compito professionale sono tenuti al rispetto delle regole deontologiche anche avendo presente i fini
istituzionali dell'Autorità committente.
Articolo 20 II Pedagogista e l’Educatore che siano anche dipendenti da Pubblica Amministrazione e che
siano autorizzato, ai sensi della normativa vigente, all'esercizio della libera professione, devono operare in
modo da non arrecare danno all'Amministrazione da cui dipendono e a rispettare le regole deontologiche
prescritte per la libera professione.
Articolo 21 II Pedagogista e l’Educatore evitano ogni attività e ogni forma di esercizio professionale che
possano arrecare pregiudizio alla dignità e al prestigio della categoria.
Articolo 22 II Pedagogista e l’Educatore è leale verso i colleghi, sollecito e solidale.
Articolo 23 Il Pedagogista e l’Educatore non fanno alcuna cosa che torni a danno di un collega e in caso di
contrasto privilegia I'amichevole componimento.
Articolo 24 Il Pedagogista e l’Educatore chiedono una giusta retribuzione per la propria opera, respingono
ogni illiceità per la loro professione.
Articolo 25 II Pedagogista e l’Educatore operano nella sfera di loro competenza e assolvono con lealtà,
scienza e coscienza il mandato affidatogli.
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Articolo 26 II Pedagogista e l’Educatore collaborano con i colleghi in modo attivo e disinteressato per la
difesa e il progresso della categoria.
Articolo 27 Il Pedagogista e l’Educatore è tenuto a contrarre polizza assicurativa a copertura della
responsabilità civile inerente l’esercizio della professione.
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BIBLIOGRAFIA
Ainswort M., Ainsworth S., Blehar M.C., Waters E., Wall S., Pattern of Attachment. A psychological Study of
the Strange Situation, Erlbaum, Hilllsdale, 1974.
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