Autismo Infantile e PetTherapy di Adriana Furci – (fonte: psicopedagogika.it) L’autismo è una grave forma di psicosi infantile. Si tratta di una sindrome comportamentale che si manifesta con incapacità o rifiuto di esprimersi, assenza di rapporti con le altre persone, chiusura in se stessi, dondolamenti e movimenti stereotipati. Secondo il DSM-IV-TR (nuova edizione del 2001), il Disturbo Autistico fa parte dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, e comporta una marcata e persistente compromissione dell'interazione sociale, della comunicazione verbale e non verbale. L’autismo è caratterizzato da modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati, può essere associato ad altri disturbi (ritardo mentale). Le cause che determinano l’insorgere del disturbo sono ancora sconosciute, non si esclude la possibilità di un’origine genetica. Dal momento che il contatto umano è mal tollerato dal bambino affetto da tale patologia, occorre tirarlo fuori dal suo guscio protettivo con mezzi indiretti come la musica, l'arteterapia e perché no con un amico a quattro zampe? Numerosi studi hanno confermato in modo rigoroso l'efficacia del rapporto tra il bambino e l'animale da compagnia in situazioni d'autismo. In una di queste ricerche Campbell e Katcher hanno ottenuto significativi miglioramenti in alcuni bambini con gravi deficit cognitivi che non parlavano, altri usavano solo rudimentali espressioni ripetute. Durante le sessioni di trattamento con un terapeuta e un cane è stato possibile verificare significativi incrementi dell'attenzione e delle interazioni sia verso il terapeuta che verso il cane. Ma il primo intuito geniale di utilizzare la pet therapy nel trattamento di questa sindrome lo dobbiamo allo psicoterapeuta infantile statunitense Boris Levinson che si occupava di piccoli pazienti con disturbi psicoemotivi, affetti da turbe comportamentali ed in particolare soggetti con sindrome autistica. Era sua abitudine avere per compagnia, prima delle sedute terapeutiche, il suo cane Jingles, un cocker dal carattere piuttosto mite. Fu proprio un caso che un giorno, un suo giovane paziente affetto da una grave forma di autismo che lo rendeva impermeabile a qualunque forma di comunicazione, arrivasse alla seduta in anticipo. Jingles non appena vide il bambino gli andò incontro, lo annusò, lo osservò, gli girò intorno e il piccolo, tra lo stupore del medico e dei genitori, si lasciò annusare senza mostrare alcun segno di paura, anzi ne fu affascinato e attratto e rispose all’accoglienza dell’animale carezzandolo. Quel giorno, al termine della seduta, il bambino espresse il desiderio di poter giocare altre volte con il cane. Fu la prima volta che comunicava verbalmente con il terapeuta. Levinson lasciò che il bimbo giocasse con Jingles nelle successive sedute terapeutiche, e gradualmente si inserì nel gioco riuscendo infine a stabilire un contatto con lui. Il cane era diventato un “ponte” tra lui e il bambino, tramite la sua giocosità aveva creato inavvertitamente una sorta di zona franca dove due mondi diversi, quello del medico e quello dal paziente, sembravano finalmente convergere. Negli studi successivi, Levinson utilizzò in maniera più sistematica diversi animali da compagnia: cani, gatti, canarini, ecc. Sviluppò la “pet oriented child psycotherapy”, basata sul presupposto che attraverso il gioco, l’animale e il bambino comunicavano spontaneamente, ciò avveniva in modo naturale, con le coccole e l’offerta dei biscotti da parte del paziente e la risposta affettiva da parte dell’animale. Per mezzo del gioco il bambino scopriva nuovi ruoli, dominava le situazioni quotidiane ed acquistava una progressiva autonomia. Il gioco diventava un momento chiave della relazione bambino-animale ed il canale di comunicazione privilegiato. In effetti, diverse ricerche hanno confermato che nel bambino è frequente una parziale identificazione con l’animale, per esempio pensa che provi i suoi stessi sentimenti. L’animale costituisce un formidabile elemento di proiezione e una sorta di prolungamento del proprio Io, e per il bambino è più facile raccontare i problemi o esprimere i suoi sentimenti, attraverso la “voce” del cane o del gatto. Jingles e gli altri animali non sostituivano il medico, erano diventati semplicemente dei mediatori, che favorivano l’interazione medico-paziente. Il medico aveva capito che gli animali catalizzavano le interazioni umane, constatando che il rapporto tra bambino e cane ne favoriva uno più stretto con il medico – costituiva in altre parole, un oggetto transizionale. Molte ricerche evidenziano le possibilità che la pet therapy ha rispetto al trattamento dell’autismo. Naturalmente, come è stato già più volte precisato, questo genere di intervento deve essere visto per quello che è, vale a dire un ausilio terapeutico: sarebbe un errore considerarlo un rimedio totale. La pet therapy si offre come valido contributo anche per far uscire i bambini autistici dal loro stato di iper eccitamento e stimolo.