EDITORIALE
in memoria di Rolf Julius
Cercare il modo per interrogare il rapporto tra suono e immagine: ecco l’intenzione, ambiziosa e problematica, del terzo numero della nostra rivista. La
sconfinata produzione critica, pullulante di riflessioni particolari e generali,
specifiche e generiche, manifesta un’enorme pluralità di declinazioni e di
orientamenti, e rende ogni approccio sul tema tendenzialmente problematico, ed a rischio di fraintendimenti, di confusione. La problematicità è data
poi dal fatto non secondario che l’accostamento tra dimensione sonora
(onnipresente ma anche ampiamente inconsapevole nell’antropologia culturale della contemporaneità) e dimensione visiva (al contrario, da tempo pervasiva e autoconsapevole al punto da forgiare eponimi ormai acriticamente
accettati quali “la società dell’immagine”) è sovraccarico e anche saturo di
banalità radicate nella ricostruzione mediatica della realtà, nell’edificazione
della forma mentis necessaria alla “società dello spettacolo”. Dove infatti “spettacolo” non è tanto un insieme di immagini quanto un insieme di rapporti
sociali mediati dalle immagini (Debord).1 Come sia possibile che alla dimensione sonora - all’evento del suono - non sia riconosciuto il suo primario statuto di ambiente medio tra gli individui, di mediazione per i viventi con lo spazio e il tempo della loro esistenza, è problematica cognitiva e politica che qui
lasceremo latente, ma che, interrogandoci, induce però ad un ripensamento
del rapporto tra suono e immagine (tra musica e arti plastiche, tra percezione uditiva e percezione visiva).
L’orecchio e l’occhio, dunque. A sottolineare qualcosa di non abbastanza
chiaro: nell’essere-al-mondo dell’essere umano (nello scenario ontologico e
poi in quello storico), l’orecchio agisce prima dell’occhio, ode prima che l’occhio veda. Prima l’orecchio avverte la presenza nell’ambiente, poi l’occhio si
1 Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano, 1997.
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volge nella direzione che l’orecchio suggerisce. L’orecchio è organo di rilevazione della presenza come presenza in movimento, dunque come altro in
relazione al sé, in relazione al corpo in movimento, a noi stessi animati nello
spazio. Com’è evidente anche in rinnovate prospettive di ricerca psicoacustica,2 la comprensione dei processi uditivi ha necessità di questa “coscienza
ecologica”: il suono è traccia del rapporto tra corpo e spazio circostante. Ma
ricorsivamente lo spazio in cui l’ascoltatore agisce è sempre occupato e dunque modulato dal corpo dell’ascoltatore, o degli ascoltatori (questo plurale
non è di maniera: per una volta pensiamo all’audience come ad una “componente sociale” dell’ambiente, una componente dell’ambiente dotata di orecchie, come “timpano dello spazio intorno”).
Il primo gesto che sembra opportuno consiste nel porre la riflessione sotto
l’egida di Rolf Julius, artista che in modo semplice e chiaro - “ultra-minimalista” non per astratta scelta estetica, ma per necessità vitale di togliere, di
ridurre, di rinunciare - ha fornito un contributo originalissimo ed esemplare.
Julius è venuto a mancare il 21 gennaio scorso (avrebbe da lì a poco compiuto 72 anni). Il senso del suo lavoro ci aiuta ad assumere una prospettiva
particolarmente sensibile al rapporto suono-immagine: in qualche modo,
esso si offre come riferimento per una più ampia riflessione critica (in effetti, una critica del rapporto suono-immagine manca del tutto, sebbene proliferino teorie psicologiste e narrative su “musica e cinema”, “suono e colore”,
ecc.). Nello scritto di Volker Straebel, incentrato sui lavori realizzati da Julius
verso la fine degli anni 1990, si parla esplicitamente di “percezione intermodale”, cioè di esperienze di percezione coordinate ed emergenti dal concorso di flussi sensoriali separati, indipendenti ma co-operanti. Con l’aiuto di
qualche suggerimento-chiave di Aristotele (De Anima), Straebel segnala che il
campo va infatti sgombrato da ogni ipotesi di sinestesia, di sincretismo o corrispondenza tra i sensi. Segni di “percezione intermodale” si ritrovano peraltro in esperienze più storicizzate, pur vitali e ricche di indicazioni per l’oggi:
il ragionamento di Makis Solomos sul Diatope di Iannis Xenakis (al termine
di un percorso di analisi che occupa parte importante del suo saggio) indica
che in realtà la “sintesi delle arti” di wagneriana memoria agisce, nel lavoro
2 Tra i molti testi scientifici che si possono citare, si veda per esempio Ecological
Psychoacoustics (a cura di J.G.Neuhoff), Elsevier, Amsterdam, 2004.
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di un musicista (e architetto) come Xenakis, solo come “somma” e anzi addirittura solo come “differenza” delle arti (insomma come scarto percettivo tra
flussi sensoriali diversi): ciò che rimane è la non-coincidenza, la differenza
simultanea appunto, che eccede ogni empirico tentativo di riduzione di una
dimensione all’altra.3
L’esperienza dell’artista calabrese e internazionale Mimmo Rotella - dalla
poesia sonora iniziale al (molto più noto) décollage visivo - è animata secondo
Ivano Morrone da una capacità creativa “bivalente”, ovvero da due (forse
più) modi di esperire il mondo simultanei tra loro, in qualche modo collegati, ma traducibili in dati di realtà empirica solo con mezzi di espressione irriducibili l’uno all’altro, posto che non ci si fermi a generiche analogie qualitative. Discorso simile può valere anche per quella libera sovrapposizione di
scultura e gesto vocale-musicale che Serena Silvi rintraccia in un momento
poco noto ma molto interessante della scena delle avanguardie a Roma negli
anni 1960, ovvero nel Concerto di sculture all’interno del quale alcuni protagonisti della sperimentazione musicale di quegli anni (la cantante e performer
Michiko Hirayama, i compositori Vittorio Gelmetti e Sylvano Bussotti)
erano chiamati a improvvisare suonando una serie di oggetti-sculture appositamente create da Attilio Pierelli. Al di là delle circostanze storiche e linguistiche specifiche, è lo statuto stesso di opera d’arte che appare in discussione nella compresenza o concorrrenza di sensi in azione: “arte plastica” o
“installazione sonora”? “ambiente” o “strumento musicale”? E inoltre: l’o3 Si potrà osservare come, nel descrivere la musica del Diatope, cioè la composizione elettronica La Légende d’Eer, Solomos stesso utilizzi termini che rinviano ripetutamente alla percezione visiva, al fine di denominare o connotare particolari suoni o particolari sonorità. La
metodologia di analisi che egli adotta implicitamente, basata su un approccio strettamente
estetico-descrittivo, non può che rinviare all’evocazione immagini soggettive, il che in definitiva rende totalmente (e certo deliberatamente, liberamente) personale e appunto soggettiva la
sua analisi. Solomos non può che concedere: « È molto difficile [spiegare] a parole l’impressione uditiva ». Anni fa Harry Halbreich, proprio scrivendo di La Légende d’Eer, doveva riconoscere a sua volta:« com’è difficile analizzare la musica elettroacustica! » (in Xenakis, a cura
di E.Restagno, EDT, Torino, 1988, p.268). Non si tratta solo di ammissioni di difficoltà, anzi
la circostanza è significativa: non abbiamo parole adeguate per il suono. Non abbiamo, cioè,
una musicologia (un discorso sulla musica) all’altezza dell’esperienza del suono - e dunque delle
arti del suono. La consapevolezza teorica non è sufficiente, se non altro perché essa rimane alla
radice appunto ϑεωρια - vale a dire visione, attività dello sguardo - non nasce come funzione conoscitiva dell’udito.
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pera consiste negli elementi e nei materiali scultorei o nel modo di agire su
di essi, nel modo di toccarli, di accarezzarli, di soffiarci dentro? Ricordiamo,
in proposito, che Rolf Julius ci aveva invitato, con la sua small music, ad «
abbassarci più spesso a raccogliere i suoni che sono sparsi ovunque »,4 a sentire la musica con le mani, ad accarezzarla.
In queste diverse esperienze, il rapporto suono-immagine è luogo primario
dell’idea e dell’operazione artistica: il loro rapporto scaturisce da una progettualità omogenea che si indirizza all’uno e all’altro nella loro mutua relazione.
In altri casi, l’immagine può essere già data (il che in definitiva è la norma
nell’esperienza mediatizzata odierna, dove la comunicazione visiva sovrasta
la sonora, e questa segue o insegue quella). Peraltro l’immagine può essere
immagine in movimento (il che, di nuovo, è ormai del tutto normale da anni).
Cosa accade quando un medium quale il cinema (arte moderna, tecnologica e
industriale per antonomasia) fornisce materiali culturali che stimolano l’incontro? Quando per esempio un gruppo di compositori si mette in rapporto con una pellicola muta, icona di uno stadio arcaico della cinematografia,
provando a immaginarne il suono con mezzi espressivi e tecnologici odierni? Il lavoro dei membri dello studio Edison si pone in questa prospettiva: la
problematicità dell’esperienza sta nel fatto che, in questo caso, visto che le le
immagini esistono in partenza, in assenza di suono, l’occhio agisce e guarda
prima che l’orecchio abbia qualcosa da ascoltare, e dunque tendenzialmente
pre-determina in qualche misura l’elaborazione della dimensione sonora.
L’intermodalità della percezione è certamente in gioco in molte delle soluzioni adottate di volta in volta per dare suono ai fotogrammi di Inferno (un
kolossal del 1911). Essa articola ed agisce in quel carico o anche sovraccarico
di differenziazione semantica che ovviamente è proprio di un’operazione del
genere: interpretazione sonora (performance di Edison) di un’interpretazione cinematografica (il film) di un’interpretazione iconografica (incisioni di
Doré) delle immagini evocate nel testo di Dante… Siamo dunque in un
gesto tutto interno alla “società dello spettacolo”, laddove cioè le immagini
fungono da mediazione dei rapporti sociali (insieme a tecnologie di ampia
fruizione). Tuttavia proprio una tale situazione apre (modernamente) alla
4 Daniela Cascella, Scultori di suono, Tuttle Edizioni, Camucia, 2008, p.118.
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responsabilità compositiva (nel caso in questione, anche alla perizia del sound
design), come nel tentativo, necessario e sempre incompleto, di gestire la complessità della comunicazione. Tanto più se questa comunicazione opera su
livelli espressivi molteplici e, in definitiva, sulla “differenza del significato” (il
differimento, la différance di Derrida, il rinvio infinito di Charles Sanders
Peirce). Tanto più se ciò prende forma mediante un lavoro collettivo, portato avanti in gruppo, come appunto quello dei membri dello studio Edison.
Certo, tra le varie esperienze che si trovano commentate nelle pagine seguenti esistono significative diversità di approccio, di punti di vista (di udito), talvolta così profonde da risultare inconciliabili. Di fronte ad un tema come
quello del rapporto tra suono e immagine sembra necessario fare attenzione
ad una pluralità di esempi, ad una pluralità di visioni (di ascolti). Lo sforzo
resta d’altra parte circoscritto, visti mezzi e spazio a disposizione di una rivista di studi e approdondimenti critici. Tuttavia, nel complesso la proposta
mira a rivelare potenzialmente fecondi e necessariamenti problematici certi
tratti dell’esperienza creativa odierna troppo spesso appiattiti sul già-noto (e
dunque sull’innocuo) secondo categorie estetologiche superficialmente
applicate.
Siamo convinti che il suono non sia mai facilmente piegato al primato
dell’estetica (lo è certamente l’immagine, invece), e che dunque l’esperimento del sonoro non sia agevolmente comprimibile in categorie di giudizio e
fruizione estetiche disponibili alla circolazione mercificata. In definitiva nel
rapporto tra suono e immagine, tra orecchio e occhio, ne va di una riflessione (che resta da fare) su quali dimensioni del sensorium oggi si prestano bene
a supportare e sviluppare un discorso sulla libertà dell’espressione umana
socialmente condivisa e condizionata.
Agostino Di Scipio
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