Carlo Dariol FISICA DELLE PARTICELLE ELEMENTARI appunti tratti dalle lezioni del prof. Giovanni Organtini Dipartimento di Fisica – Università “La Sapienza” Descrizione generale Nel corso delle lezioni verrà introdotto il Modello Standard attraverso l’analisi dei dati sperimentali accumulati nel corso degli anni. L’attuale modello della Fisica delle Particelle è costruito a partire da questi attraverso richiami di argomenti dei moduli di Meccanica Quantistica e Relatività. In diverse occasioni i temi sono affrontati in modo formale, anche se poco rigoroso, allo scopo di dare un’idea relativamente precisa di come si costruiscono le moderne teorie della Fisica delle Particelle, senza entrare troppo nei dettagli tecnici. Obiettivo del corso è quello di fornire una panoramica delle attuali conoscenze in questo campo che permetta al lettore di farsi un’idea del processo che ha portato alla formulazione del Modello Standard. Il modulo è composto da 7 lezioni: LEZIONE 1 - INTRODUZIONE ALLA FISICA DELLE PARTICELLE LEZIONE 2 - LO STUDIO SPERIMENTALE DELLE PARTICELLE LEZIONE 3 - I QUARK LEZIONE 4 - LE INTERAZIONI FONDAMENTALI LEZIONE 5 - IL MODELLO STANDARD LEZIONE 6 - IL BOSONE DI HIGGS LEZIONE 7 - I RIVELATORI DI PARTICELLE Sommario Cap. 1 I raggi cosmici p. 3 1. La scoperta dei raggi cosmici; la perdita di energia per ionizzazione; identificare le particelle; decadimenti beta; ipotesi del neutrino. 2. Chi li ha ordinati? Scoperta del positrone, dei pioni e dei muoni. 3. Nuove grandezze fisiche. Conservazione del numero leptonico e barionico. 4. Ma quante sono? Scoperta della K e della Λ. 1 5. Facciamo ordine: classificazione delle particelle. 6. Test ed esercizi Cap. 2 Identificare le particelle (imitare la natura) 1. Produzione artificiale di particelle. 2. Acceleratori 3. Sezione d’urto 4. Vita media. 5. Massa invariante e risonanze. 6. Particelle “strane”. p. 32 Ottetto dei mesoni Ottetto dei barioni a spin ½ Barioni a spin 3/2 7. Test ed esercizi Cap. 3 Modello a quark 1. Composizione dei multipletti 2. I barioni a spin ½ 3. I mesoni 4. I barioni a spin 3/2 5. Teoria del colore. 6. I nuovi quark 7. Test e quesiti p. 52 Cap. 4 Le interazioni fondamentali p. 73 1. Teoria delle interazioni fondamentali. 2. Diagrammi di Feynman. 3. Fotoni virtuali 4. L’equazione di Dirac. 5. I positroni 6. Riassunto 7. Elettrodinamica Quantistica. Effetto Compton. Effetto fotoelettrico. 8. Fabbriche di particelle. Annichilazione. 9. QED e fotoni liberi 10. Approccio informale 11. Test ed esercizi Cap. 5 Il modello standard 1. Le interazioni forti 2. Il modello standard 3. La scoperta del TOP 4. L’interazione debole. I bosoni W e Z 5. Violazione della parità 6. Test ed esercizi 2 p. 108 Cap. 6 Il bosone di Higgs 1. Il campo di Higgs 2. La massa dei bosoni 3. Un po’ meno formale 4. La scoperta del bosone di Higgs 5. Test ed esercizi p. 135 Cap. 7 Rivelatori moderni per la fisica delle particelle 1. Rivelatori in generale 2. Rivelatori interni 3. Rivelatori esterni 4. Test ed esercizi p. 157 In tutto il corso si useranno le seguenti CONVENZIONI c 1 questo comporta che le velocità saranno misurate in frazioni della velocità della luce e che tempi e lunghezze hanno l’unità di misura del reciproco di una energia e che massa e quantità di moto hanno l’unità di misura di una energia 1 T L E M p E 3 Cap. 1 I raggi cosmici 1.1. La scoperta dei raggi cosmici; la perdita di energia per ionizzazione; decadimenti beta; ipotesi del neutrino. La scoperta dei raggi cosmici (1912) segna la nascita della fisica delle particelle. Qual era la situazione prima della scoperta dei raggi cosmici? Si sapeva dell’esistenza di poche particelle: - fotoni; - protoni; - elettroni, dapprima noti come raggi beta e poi identificati come particelle costituenti la materia attorno ai nuclei atomici, all’epoca pensati come costituiti dai soli (i neutroni non erano noti). - particelle alfa, nuclei di elio. Questo era tutto ciò che era noto. Le particelle in questione interagiscono in modi diversi. Erano note le - interazioni gravitazionali (la gravità è la più ovvia e naturale delle forze, e tuttavia, per la fisica moderna, è la più sconosciuta, in quanto la più debole delle interazioni). - interazioni elettromagnetiche (interazioni tra cariche e tra correnti) Non erano ancora note le - interazioni forti, che rendono stabili i nuclei e impediscono ai protoni del nucleo di respingersi e di far esplodere il nucleo; l’interazione forte è interazione più intensa di quelle elettromagnetica, appunto molto più forte. - interazioni deboli, responsabili dei decadimenti radioattivi dei nuclei atomici (o meglio: si conoscevano già anche se la loro interpretazione non era ancora stata acquisita). Una storia esemplare Il 1912 è la data di nascita della fisica delle particelle: in quell’anno si fanno delle scoperte fondamentali; in particolare vengono scoperti i raggi cosmici. La scoperta dei raggi cosmici avviene nel tentativo di spiegare la scarica degli elettroscopi, un fenomeno che non sembrava così rilevante da attrarre l’attenzione dei fisici (un po’ è l’analogo di quello che successe con la meccanica quantistica, nata dallo studio di un argomento considerato non così rilevante o non così interessante quale lo spettro di radiazione del corpo nero) In che cosa consiste il problema dei raggi cosmici? 4 Cerchiamo di capirlo caricando dapprima un elettroscopio: strofiniamo una bacchetta e con la bacchetta elettrizzata tocchiamo lo strumento. Lo strumento dovrebbe rimanere carico finché non tocchiamo di nuovo lo strumento, scaricandolo. Invece, anche senza toccarlo, lo strumento piano piano ritorna a indicare lo zero (posizione di equilibrio). Qual è il problema? Se c’è una carica elettrica sull’elettroscopio, questa carica dev’essere rimossa per poterlo scaricare ed è necessario interagire con una interazione di tipo elettrico che rimuova le cariche elettriche; questa carica può essere rimossa da qualche particella elettricamente carica che passa nelle vicinanze dell’elettroscopio e che produce l’interazione necessaria per poter rimuovere la carica dell’elettroscopio. Capire la natura di queste particelle era per certi fisici oggetto di interesse (anche se non per tutti era una cosa particolarmente interessante da studiare). All’epoca si riteneva che i responsabili della scarica dell’elettroscopio fossero i nuclei radioattivi che si sapevano emettere particelle elettricamente cariche: elettroni, particelle alfa, protoni… Uno degli scienziati che più fornì informazioni rilevanti allo scopo di scoprire la natura di queste particelle fu Domenico Pacini (1878-1934) il quale cominciò a fare delle misure inizialmente a terra per cercare di individuare la natura di questi elementi radioattivi, dopodiché… 5 …dopo alcuni infruttuosi tentativi di individuare la natura di queste particelle cominciò a fare delle misurazioni in mare grazie al fatto che gli fu messo a disposizione dalla Marina Militare il cacciatorpedieniere “Fulmine” (foto nella pagina precedente in basso a destra) sul quale si mise a lavorare al largo di Livorno. Cosa ci si aspettava dalla teoria? Se la scarica degli elettroscopi era effettivamente dovuta alla presenza di nuclei radioattivi che emettono particelle cariche, poiché questi nuclei radioattivi provengono dalla crosta terrestre, vicino alla costa la ionizzazione, ovvero la velocità con cui si scaricano gli elettroscopi, dev’essere abbastanza alta; ma allontanandosi dalla costa questa ionizzazione dovrebbe diminuire. Quando si fece l’esperimento si scoprì qualcosa di sorprendente: vicino alla costa si osservava sì una radiazione abbastanza grande, simile a quella che si osservava nell’entroterra; tuttavia allontanandosi dalla costa non si osservavano significative differenze rispetto a quello che si osservava sulla terraferma: non era possibile dunque che l’agente ionizzante provenisse dalla crosta terrestre… a meno che non provenisse da qualcosa che poteva essere presente (cioè sciolto) anche nel mare. L’idea di Pacini fu di fare delle misure anche sotto il livello del mare per vedere quello che succedeva alle divere profondità; secondo la teoria, alla superficie si sarebbe dovuto osservare una intensità di ionizzazione del tutto simile a quella che si osservava sulla terra; scendendo in profondità e avvicinandosi sempre più alla crosta del fondo del mare, dove gli elementi radioattivi sono presenti in abbondanza, la ionizzazione avrebbe dovuto aumentare; invece quello che si osservò fu il contrario: sulla superficie si osservava la stessa ionizzazione che si osservava sulla terra, mentre scendendo in profondità si osservava una sensibile diminuzione della ionizzazione. L’esperimento fu ripetuto nel lago di Bracciano per evitare eventuali errori sistematici dovuti alla salinità dell’acqua… e fornirono lo stesso risultato. Col che Pacini pubblicò (sempre nel 1912) sulla rivista “il NUOVO CIMENTO” un articolo che descriveva gli esperimenti fatti e i risultati concludendo con la frase sottolineata in rosso: 6 Pacini cioè suppose che la “causa ionizzante” e che produceva la scarica degli elettroscopi non provenisse dal terreno ma fosse presente nell’atmosfera. Purtroppo per lui la radiazione non veniva dall’atmosfera ed egli non poteva accorgersene perché non aveva la tecnologia necessaria per fare le misure. Chi invece disponeva della tecnologia necessaria era l’austriaco Viktor Hess (1883-1964), che aveva la possibilità di fare le misure su un pallone aerostatico. Quale fu la tipologia di misure che fece Hess, probabilmente dopo aver letto l’articolo di Pacini? A terra si doveva osservare una certa rapidità di scarica degli elettroscopi, cioè si doveva osservare una ionizzazione del tutto comparabile con quella descritta dagli studi di Pacini. E salendo? Salendo di quota Hess osservò che l’intensità di ionizzazione cresceva, aumentava sempre di più… e cresceva in maniera esponenziale. Nel diagramma si vede come la scarica degli elettroscopi cresce con l’altitudine in maniera esponenziale; il grafico riporta le misure fatte da Hess e quelle ripetute negli anni successivi da altri scienziati che confermarono quello che si osservava facendo quel genere di misure; la conclusione era inequivocabile: la radiazione che provocava la scarica degli elettroscopi non era (non è) presente nell’atmosfera ma deve venire da fuori dell’atmosfera e man mano che ci si avvicina alla terra questa radiazione viene assorbita dall’atmosfera stessa e diminuisce di intensità; è quindi di natura extraterrestre. Alcuni anni dopo Robert Millikan (22 marzo 1868 – 19 dicembre 1943) la chiamò “raggi cosmici”. 7 I raggi cosmici sono dunque i responsabili della scarica degli elettroscopi e oggi sappiamo che sono costituiti per più del 90% da protoni che arrivano dallo spazio, dalle regioni più profonde del cosmo, e urtano contro gli atomi dell’atmosfera provocando una cascata di reazioni che alla fin fine sono quelle responsabili della scarica degli elettroscopi. Per quanto ne sappiamo oggi i raggi cosmici hanno uno spettro di energia estremamente ampio: andiamo da pochi GeV fino a energie elevatissime 10 11 GeV, ben sette ordini di grandezza più alte di quelle che si riescono a produrre negli acceleratori di particelle. Naturalmente la frequenza con la quale questi raggi cosmici arrivano sulla terra dipende dall’energia: sono più abbondanti quelli a bassa energia: nella parte più bassa dello spettro si osservano alcune decine di protoni per cm2 al secondo; ma possiamo arrivare anche ad energie di 10 11 GeV con una frequenza molto più bassa ma tutto sommato considerevole, circa 5 eventi l’anno per metro quadro. 8 Identificare le particelle Scoperta la natura extraterrestre di questi raggi cosmici, quello che dobbiamo fare e di individuarne la natura: si pensava che fossero costituiti da protoni, elettroni e particelle alfa, le particelle allora conosciute; anche se non venivano dalla Terra e venivano dallo spazio le particelle dovevano esser quelle e si cercò di identificarle, utilizzando strumenti come la camera a nebbia, uno strumento di rivelazione di particelle elementari ideato da Charles Thomson Rees Wilson nel 1899 e successivamente perfezionata nel 1912: nella camera si trova del vapore molto vicino al punto di condensazione: quando una particella carica la attraversa crea una traccia ionizzata la quale attrae per effetto elettrostatico le particelle di vapore che si trovano vicino ad essa; questa concentrazione di particelle provoca attorno alla traccia ionizzata la formazione di una piccola nube che opportunamente illuminata appare come una nuvoletta bianca che si dissipa in pochi secondi. In questo modo è possibile osservare la traccia lasciata dai tracci cosmici, fotografarne le tracce, misurarne la curvatura dovuta alla presenza di un campo magnetico cercando di identificare in questo modo le particelle. Come si fa a identificare le particelle osservandone le tracce? Quello che possiamo misurare è il GRADO DI IONIZZAZIONE che le particelle riescono a produrre nell’attraversare la camera a nebbia; e, come abbiamo anticipato poco sopra, possiamo anche misurare la loro QUANTITÀ DI MOTO sfruttando la misura della curvatura delle tracce che esse lasciano nella camera a nebbia. 9 Perdita di energia Per cercare di capire qual è il grado di ionizzazione che le particelle sono capaci di dare al vapore dobbiamo studiare la perdita di energia della particella carica che attraversa il materiale. Per farlo utilizziamo uno schema come quello della figura sotto. Abbiamo una particella di carica q che si muove con velocità v nella direzione rappresentata dall’asse del cilindro. La superficie del cilindro è quella sulla quale si trova l’elettrone che subisce il campo elettrico prodotto dalla carica che si sta avvicinando Dal momento in cui la carica si avvicina all’elettrone con parametro di impatto b (ovvero la velocità v della carica ha una distanza b dall’elettrone), e poi se ne riallontana passando dall’altra parte del cilindro, producendo un campo elettrico radiale rispetto alla sua posizione, si osserva che la componente del campo elettrico lungo la direzione parallela alla velocità della particella ionizzante cambia semplicemente di segno (confronta le figure di sinistra e di destra), per cui possiamo limitarci a studiare la solo componente del campo che dal punto di vista pratico agisce, ovvero la componente perpendicolare alla velocità. Dovendo studiare qual è l’effetto della componente perpendicolare al campo elettrico sulle particelle del mezzo, possiamo calcolare la variazione della quantità di moto delle particelle (gli elettroni) del mezzo attraversato dalla particella quando subiscono gli effetti del campo elettrico prodotto dalla particella in movimento e E dx v dove si è usata la relazione vdt dx . Quanto vale l’integrale? Applichiamo il teorema di p Fdt e E dt Gauss sulla superficie indicata sopra: 2b E dx q 0 da cui E dx Sostituiamo sopra e ricaviamo: p e eq 1 E dx v 2 0 vb 10 q 0 2b p 2 e2q 2 1 da cui K 2 2 2 2 è la perdita di energia di una particella che ha 2m 8m 0 v b incontrato un elettrone lungo il suo cammino e al quale ha ceduto una certa quantità di moto. Quindi la perdita di energia di una particella che attraversa un materiale con dn elettroni è l’energia cinetica guadagnata dall’elettrone per il numero totale di elettroni dato dalla densità volumetrica di elettroni Ne per il volume dV p 2 e 2 q 2 N e dV dE dn 2m 8m 2 02 v 2b 2 Il dV sarebbe qui zero, ma la particella interagisce con tutte le particelle presenti in un guscio cilindrico infinitesimo con parametro di impatto b. dV 2b db dx e 2 q 2 N e 2b db dx dE 8m 2 02 v 2b 2 Dividendo a destra e sinistra per dx trovo la PERDITA DI ENERGIA SPECIFICA, ovvero la perdita di energia per unità di percorso, ovvero la quantità di energia persa dalla particella che attraversa un materiale di spessore dx con Ne elettroni per unità di volume dE e 2 q 2 N e db dx 4m 02 v 2 b La particella interagirà con tutti gli atomi, con tutti gli elettroni del materiale, per cui dobbiamo integrare sui possibili parametri d’impatto. Se integriamo tra un valore minimo e un valore massimo del parametro d’impatto dE e2q 2 N e dx 4m 02 v 2 bM bm db b l’integrale è facile dE e2q 2 Ne bM log dx 4m02 v 2 bm Perché vi è questa necessità di integrare tra un parametro minimo e un parametro massimo di impatto? In linea di principio la particella q potrebbe interagire con una 11 particella a distanza nulla da sé stessa o a distanza infinita, e quindi dovrei integrare tra 0 e +infinito, ma così otterrei un integrale divergente. Il fatto che esista un minimo e un massimo per il parametro di impatto è giustificato da alcune considerazioni cinematiche; in particolare per quanto riguarda il valore minimo del parametro di impatto questo deriva dal fatto che la massima energia cinetica trasferibile nell’urto tra la particella di carica q e l’elettrone si ha quando la massa della particella incidente è molto più alta di quella dell’elettrone. Se si studia l’urto tra due oggetti, uno di massa me e uno di massa M molto più grande si osserva che la velocità massima che può acquisire l’elettrone urtato da una particella di massa molto più alta che si muove con velocità v è 2v: questo lo si può capire mettendosi nel sistema di riferimento dell’elettrone che vede arrivare la particella di massa molto grande M con velocità v prima dell’urto e la vede dopo l’urto allontanarsi alla stessa velocità. Ricordiamo che la formula che dà la velocità di una particella in funzione delle due masse e delle due velocità prima dell’urto (ricavata applicando conservazione di quantità di moto e la conservazione dell’energia cinetica) è: v1 ' m1 M 2 v1 2M 2 v2 m1 M 2 Applicata al nostro caso (avendo supposto che l’elettrone – particella 1 – fosse inizialmente fermo), essa dà come velocità finale dell’elettrone ve 2M v 2v me M Esistendo un massimo della velocità dopo l’urto esiste anche un massimo dell’energia trasferibile alla particella: p 2 e2q 2 1 1 K m2v 2 2 2 2 2 2m 8m 0 v b 2 il fattore gamma è presente per considerare possibili effetti relativistici quando sono in gioco velocità relativistiche ma nel nostro caso non è molto rilevante Questa disequazione è fatta di costanti e di termini che dipendono dal parametro d’impatto e dalla velocità della particella, è cioè della forma: A Bv 4 che si traduce in una relazione sul parametro d’impatto efficace: 2 b il parametro di impatto per il quale si ha il massimo trasferimento di energia cinetica è quello per cui b A 1 . B v2 Il parametro di impatto deve essere superiore a una certa soglia, ecco perché c’è un minimo tra i valori possibili del parametro d’impatto che dobbiamo considerare per valutare la perdita specifica di energia. Esiste poi un parametro d’impatto massimo semplicemente perché per valori troppo grandi del parametro d’impatto il campo elettrico diventa così piccolo che non 12 produce più alcun effetto significativo. D’altra parte il campo E è schermato dalla presenza di tutte le altre cariche. Ci deve dunque essere un parametro d’impatto massimo che sostanzialmente dipende dal fatto che l’energia di ionizzazione di un elettrone dall’atomo è limitata all’ordine di qualche eV. dE e2q 2 Ne b log M al valore di bm quello della Sostituendo quindi nella 2 2 dx 4m0 v bm formula appena trovata e a bM una costante che dipende dall’energia di ionizzazione dell’atomo la PERDITA SPECIFICA DI ENERGIA diventa dE e2q 2 Ne log Cv 2 2 2 dx 4m0 v La perdita specifica (per unità di percorso) di energia dipende dunque dal quadrato della carica della particella, dalla densità specifica di elettroni, dal reciproco della velocità della particella al quadrato e dal logaritmo del quadrato della velocità della particella. La massima capacità di ionizzazione si ha quindi per velocità “piccole”: una particella che penetra in un materiale perde velocità e la sua capacità di ionizzazione aumenta. La ionizzazione Cerchiamo di studiare con un certo dettaglio l’espressione che abbiamo trovato. In realtà dovremmo studiare un’espressione leggermente diversa da questa, quella che tiene conto degli effetti quantistici e relativistici che bisogna considerare quando l’urto avviene alle scale considerate. Tuttavia anche se si usa la formula (quantistica e relativistica) di Bethe e Bloch, i risultati sono del tutto confrontabili con la formula che abbiamo derivato sopra in maniera puramente classica. E quindi possiamo limitarci ad analizzare quella. Il seguente grafico è ricavato con la formula di Bethe e Bloch, che tiene conto di tali effetti, e dà la perdita specifica di energia in funzione del fattore beta-gamma della particella, che di fatto è la sua velocità. 13 La perdita di energia specifica viene data in questi grafici in MeV g–1cm2 ossia in MeV g cm 2 : 2 Il denominatore g cm è (strano a dirsi) una UNITÀ DI MISURA DI DISTANZA Essa è il risultato del un prodotto di una distanza per una densità: d [ g cm 2 ] d [cm][ g cm 3 ] essa non è altro che la distanza percorsa dalla particella nel materiale moltiplicata per la densità del materiale attraversato. Essendo la densità dell’acqua pari a 1g/cm3, l’unità di misura 1g/cm2 corrisponde sostanzialmente al percorso che farebbe la particella in acqua: d [ g cm 2 ] d [cm ] [ g cm 3 ] è dunque una distanza normalizzata alla distanza che percorrerebbe una particella di quel tipo nell’acqua. Veniamo adesso ad analizzare la formula derivata per via puramente classica: Per velocità molto basse (figura a sinistra) la ionizzazione cresce moltissimo (leggere il grafico da destra a sinistra). Il termine logaritmico non conta tanto. Aumentando la velocità l’energia raggiunge un minimo (per valori di βγ vicini a 3) e poi comincia a salire con la velocità: ciò è dovuto al termine logaritmico che comincia a dominare per velocità grandi (figura a destra): la velocità cresce ma cresce in maniera debole, appunto come un logaritmo. L’altra cosa interessante da notare è che questa espressione dipende dal numero di elettroni, anzi dalla densità di elettroni Ne, ossia il numero di elettroni diviso per il 14 volume; e il volume lo possiamo pensare come la massa divisa per la densità del mezzo. Il numero di elettroni e la massa dipendono dal numero di atomi NA. Semplificando, si osserva che la densità di elettroni dipende dal rapporto Z/A. Il fatto che l’idrogeno abbia una perdita specifica di energia molto più alta rispetto agli altri elementi è dovuto al fatto per l’idrogeno il rapporto Z/A = 1 mentre per tutti gli altri elementi chimici il rapporto Z/A è circa uguale a ½ (giù di lì) in quanto il numero di nucleoni è il doppio o poco più del numero di protoni (o elettroni). Per le diverse specie atomiche segnate nel grafico il rapporto Z/A tende a calare. Per il carbonio è 0.5, per l’alluminio è 0.48, per il ferro è 0.46… Dunque una particella perde, come minimo, 1-2 MeV per cm di acqua attraversato. L’atmosfera terrestre “pesa” 760 mm di Hg, la cui densità è 15 volte quella dell’acqua e questo significa che per attraversare tutta l’atmosfera una particella deve avere l’energia sufficiente qualcosa dell’ordine dei 10-11 metri di acqua. Deve quindi trattarsi di particelle molto ma molto più energetiche di quelle che si riusciva a produrre in laboratorio da nuclei radioattivi utilizzando gli strumenti dell’epoca che erano in grado di attraversare sì e no qualche decina di cm di acqua prima di essere del tutto assorbiti. Quindi si cominciò a cercare nelle foto su eventi nelle camere a nebbia tracce di energie molto alte. Quesito: indica quale delle seguenti frasi descrive meglio quel che succede a un protone di energia molto alta che penetra in un materiale a. La perdita di energia è costante lungo tutto il percorso (a parte le fluttuazioni statistiche) 15 b. Il protone perde gran parte della sua energia nella fase iniziale di penetrazione, dopo di che ne perde sempre meno, fino a quando, giunto a una certa velocità, comincia a perdere un po’ di più, ma comunque meno che all’inizio. c. Il protone rilascia quasi tutta la sua energia cinetica quando sta per fermarsi, a fine corsa. [La risposta corretta è la c. Le curve del grafico vanno lette da destra a sinistra.] Le prime evidenze Appena ci si rese conto che le energie dei raggi cosmici erano molto alte si cominciò a cercare tracce di particelle molto energetiche nelle fotografie fatte su eventi che si svolgevano in camera a nebbia. Una delle prime evidenze sperimentali è visibile nella seguente fotografia: fu fatta dal fisico russo Piotr Kapitsa (1894 – 1984) intorno al 1930. Kapitsa, emigrato in Inghilterra dopo la Rivoluzione russa, divenne vice-direttore della ricerca sul magnetismo al Cavendish Laboratory, nel 1924. Lì effettuò il primo esperimento con una camera a nebbia posta in un campo magnetico, osservando le tracce curve di particelle alfa (e progettò un apparato che raggiunse un campo magnetico di 32 T, insuperato fino al 1956). Nella foto sopra si vedono un certo numero di tracce di forma circolare, dovuta al fatto che la camera a nebbia si trova in un campo magnetico; il raggio di curvatura della traiettoria della carica immersa in B è dato dalla formula scritta sopra. Misurando il raggio di curvatura delle tracce, conoscendo il campo B e supponendo che la carica sia quella di un elettrone o qualche unità di questo, possiamo misurare la quantità di moto. Tra le molte tracce di forma circolare se ne vede una (parallela alla freccia gialla) che appare completamente dritta: il fatto che quella traccia appaia dritta non vuol dire che la traccia non è curva e che la particella non è elettricamente carica perché se la particella non fosse elettricamente carica non potrebbe ionizzare il gas della camera a nebbia e dunque non potrebbe produrre quella traccia: se appare dritta vuol dire che il 16 suo raggio di curvatura è sostanzialmente infinito, sicuramente più grande di quello che si può misurare dati gli errori di misura in questo caso specifico. Quindi deve trattarsi di una particella la cui quantità di moto è estremamente grande, molto più grande di quella che si può ottenere in laboratorio. Ci volle un po’ prima di capire la natura di queste particelle. Prima di affrontare la determinazione della natura di queste particelle illustreremo quello che nel frattempo si andava chiarendo sui decadimenti beta. I decadimenti beta In natura si osserva un certo numero di elementi trasformarsi in elementi dello stesso peso atomico ma con un numero atomico diverso. Questo processo avviene con l’emissione di un elettrone, spesso accompagnato da successive emissioni di altre particelle; perlopiù la cosa veniva interpretata come il fatto che un elemento chimico si trasforma in un altro con l’emissione di una carica elettrica dovuta all’estrazione di un elettrone dal nucleo atomico. Se si misura l’energia degli elettroni provenienti da uno di questi elementi (qui a sinistra è rappresentato lo spettro in energia degli elettroni emessi dal bismuto-210 che si trasforma in polonio-210) si osserva che lo spettro è continuo e presenta energie che vanno da 0 fino a un massimo dell’ordine del MeV. Tutti i decadimenti radioattivi degli elementi naturali hanno energie di questo ordine di grandezza. Il decadimento del bismuto veniva interpretato in questo modo: se il bismuto si trasforma in polonio vuol dire che uno dei suoi neutroni si trasforma in un protone; per fare questo deve emettere un elettrone affinché si conservi la carica elettrica: n p e Ma se questo fosse effettivamente il decadimento che avviene a livello microscopico nel nucleo avremmo un problema di conservazione dell’energia. Facciamo prima il conto relativistico e poi vedremo che la cosa si chiarisce da sé. Scriviamo il quadrimpulso della particella iniziale, il neutrone: per la parte spaziale è 0 perché il neutrone è fermo; per quanto riguarda la sua parte temporale, ovvero la sua 17 energia, dobbiamo tener conto solo della sua energia a riposo, ovvero la massa del neutrone. Il quadrimpulso si conserva: in seguito al decadimento deve pertanto essere uguale alla somma dei quadrimpulsi dell’elettrone e del protone: 0, mn p, Ee p, E p ora se facciamo il quadrato di entrambi i membri [bisogna farlo usando le regole della cinematica relativistica, per cui si moltiplicano fra loro le componenti temporali (le due energie) mentre le componenti spaziali si devono moltiplicare col segno cambiato] otteniamo: mn2 Ee2 pe2 E p2 p 2p 2 pe , Ee p p , E p mn2 me2 m2p 2Ee E p 2 p p dove si è tenuto conto che pe p p Sostituiamo alla quantità di moto al quadrato la differenza tra l’energia totale al quadrato e l’energia a riposo (ossia la massa a risposo) al quadrato (dell’elettrone) mn2 me2 m2p 2Ee E p 2 Ee2 me2 mn2 me2 m2p 2 Ee Ee E p mn2 me2 m2p 2 Ee mn Ee mn2 me2 m 2p 2mn Dunque, riassumendo, quando avviene un decadimento l’energia dell’elettrone è la seguente: Ee n p e mn2 me2 m 2p 2mn , espressione fatta tutta di costanti e dunque l’energia dell’elettrone emesso da un decadimento deve esser costante. Per la precisione, tenendo conto che i neutroni pesano, in unità naturali, 940 MeV, i protoni 938 MeV e un elettrone 511 keV, essa varrebbe 9402 0,5112 9382 Ee MeV 1,998MeV 2MeV 2 940 D’altra parte questa cosa è del tutto ovvia: se nella meccanica relativistica energia e massa sono due forme diverse di energia, la massa del neutrone può essere ceduta integralmente al protone e all’elettrone in gran parte sotto forma di energia cinetica e in parte per produrre la massa di queste due particelle; siccome inizialmente il protone è fermo, classicamente le due quantità di moto dell’elettrone e del protone devono essere l’una opposta all’altra e dunque non c’è possibilità per l’elettrone di assumere un’energia variabile, ossia compresa tra 0 e 1MeV: l’energia dell’elettrone rimane fissata dalla formula scritta sopra; se le particelle figlie fossero uguali la loro massa dovrebbe semplicemente essere la metà di quella del neutrone; il fatto che le particelle figlie non 18 siano uguali fa sì che l’espressione delle loro masse ed energie sia appena un po’ più complicata ma fissata. Inizialmente si ipotizzò che nei processi microscopici l’energia potesse non essere conservata; naturalmente questa è sempre una possibilità, perché la conservazione dell’energia non è un dogma sacro ma è una conseguenza delle osservazioni sperimentali: se osservo che il principio di conservazione dell’energia non è valido dovrò assumere che non è valido. Tuttavia i fisici erano restii ad abbandonare dei principi che sembravano funzionare perfettamente in altri contesti e dunque cercavano una soluzione a questo problema. La soluzione fu l’ipotesi dell’esistenza del neutrino. L’ipotesi del neutrino L’ipotesi dell’esistenza del neutrino è del 1930 e si deve a Wolfgang Pauli (1900 – 1958) … che rifiutava (come molti) l’idea che l’energia non si conservasse e ipotizzò che il decadimento beta non fosse un decadimento a due corpi come si riteneva allora, ma un decadimento a tre corpi, come mostra la figura a destra: il neutrone doveva decadere in tre corpi in modo che la somma delle quantità di moto delle particelle che venivano fuori dal decadimento del neutrone fosse p 1 p2 p3 0 comunque nulla… …ma in modo anche che ciascuna delle tre particelle potesse portarsi via una porzione qualunque della quantità di moto disponibile (compresa tra 0 e la massima disponibile consentita dal principio di conservazione dell’energia). Poiché la terza particella non si vede mai, essa doveva essere una particella neutra. Allora si conoscevano come uniche particelle neutre il neutrone (…e un neutrone non poteva essere!) e il fotone, che però si era in grado di rivelare. Inoltre la particella in questione, neutra, doveva essere molto poco interagente perché non si riusciva a osservarla con nessun tipo di strumento. Era quindi una particella molto penetrante, poco interagente con la materia e neutra. La particella è quella che oggi chiamiamo neutrino. n p e Il decadimento beta si deve pertanto interpretare non come il decadimento di un neutrone in un protone + un elettrone ma in un protone + un elettrone + un neutrino Va detto che il nome di “neutrino” dato alla particella non fu quello inizialmente previsto per la particella. In effetti quando si studiava questo processo il neutrone non era ancora stato scoperto e il neutrino venne inizialmente chiamato “neutrone”. Quando agli inizi del 1932 James Chadwick (1891 – 1974) “scoprì” il neutrone nei nuclei atomici, Enrico Fermi (1901 – 1954) su suggerimento scherzoso di Edoardo Amaldi (1908 – 1989) propose di chiamare “neutrino” la particella neutra del decadimento beta, 19 per distinguerla dal ben più grosso neutrone… e da allora invalse l’uso di chiamarlo così, con questo suffisso all’italiana, che si impose in tutto il mondo. I ragazzi di via Panisperna (Oscar D’Agostino, Emilio Segre, Edoardo Amaldi, Franco Rasetti ed Enrico Fermi.) Quesito: perché il decadimento beta non può essere un decadimento a due corpi? a. Perché in questo caso il protone figlio del decadimento non potrebbe rimanere nel nucleo ospite, ma dovrebbe esserne espulso. b. Perché non esistono decadimenti a due corpi. c. Perché in questo caso gli elettroni emessi dovrebbero essere monocromatici. [La risposta esatta è la c.] 1.2. Chi li ha ordinati? Scoperta del positrone, del pione e del muone. “E questo? Chi lo ha ordinato?” La celebre frase fu pronunciata nel 1936 dal fisico Isidor Isaac Rabi (1898 – 1988) in una conferenza nella quale venivano presentate le nuove particelle che via via venivano scoperte ed egli venne in quell’occasione a conoscenza dell’esistenza del muone. In effetti le nuove particelle cominciavano a proliferare. ; 20 La prima nuova particella che si scoprì fu scoperta dal fisico statunitense di origini svedesi Carl Anderson (1905 – 1991) nel 1932 grazie a una foto scattata in una camera a nebbia: vi si vede una particella che nella parte superiore della foto ha una certa curvatura dovuta al fatto che tutto il sistema è immerso in un campo magnetico; dalla curvatura si può evincere la quantità di moto della particella; la particella passa attraverso una striscia nera che è un assorbitore di 6 mm di piombo e ne esce con una curvatura maggiore, segno che ha perso una certa quantità di energia e quindi una certa quantità di moto; l’energia persa da questa particella è esattamente quella che avrebbe perso un elettrone attraversando i 6 mm di piombo, e perciò fu identificata come un elettrone; peccato però che, per come era orientato il campo B nell’esperimento, l’elettrone avrebbe dovuto assumere una curvatura contraria; doveva essere sì un elettrone… ma di carica positiva! Fu quello che venne chiamato il POSITRONE, ovvero l’antiparticella dell’elettrone, in tutto e per tutto uguale all’elettrone ma con tutti i numeri quantici cambiati, in particolare con la carica elettrica opposta a quella dell’elettrone. La scoperta, abbastanza sorprendente (ma non del tutto sorprendente, perché in fondo l’ipotesi del positrone era prevista dalle equazioni di Dirac di qualche anno prima), fu seguita da altre. Una delle foto che portò alla scoperta di nuove particelle è la seguente, fatta sempre in una camera a nebbia: vi si vede la particella arrivare da destra (o da sinistra a seconda di come si guardi la foto), decadere in un’altra particella che lascia una traccia più lunga, che a sua volta decade in una terza particella che lascia la terza traccia. Foto simili se ne trovano tante: 21 Qui sotto altre due: Come si interpretano queste foto? La lunghezza della traccia centrale è sempre la stessa; la particella che decade producendo la particella che lascia la traccia lunga deve essere dunque una particella che decade sempre in due corpi, per le stesse ragioni per le quali abbiamo fatto l’ipotesi del neutrino; solo se una particella decade in due corpi le due particelle “figlie” hanno sempre la stessa energia (e la lunghezza della traccia più lunga è proporzionale all’energia cinetica della particella). L’altra particella dev’essere neutra, dato che non lascia nessun segnale nel rivelatore; presumibilmente si tratta di un neutrino, come nel caso di un decadimento beta. La traccia lunga a sua volta “decade” lasciando un’altra traccia più corta; questa terza traccia però non ha sempre la stessa lunghezza: questa cambia nelle varie foto: ciò significa che la particella che ha lasciato la traccia lunga decade con un decadimento a tre corpi (in modo che la particella carica, che è l’unica che lascia la traccia, possa assumere un’energia variabile tra zero e il suo valore massimo). Le altre due particelle devono essere due particelle neutre (non lasciano traccia) e non possono essere dei fotoni altrimenti si sarebbe potuto vederli; quindi devono essere due neutrini Le foto sopra si interpretano dunque come la combinazione di due decadimenti: la traccia lunga è quella lasciata da un MUONE (indicato con la lettera μ), che si trova nell’uno o nell’altro dei due stati di carica; esso decade in tre corpi, uno dei quali 22 venne identificato con un elettrone con la stessa carica mentre gli altri due devono essere due neutrini: e La particella “madre” del muone (cioè quella che decadendo ha prodotto il muone) è una particella che venne chiamata PIONE (indicata con la lettera π), che si trova in due stati di carica (in seguito si scoprirà che esiste anche un pione neutro); essa decade in un muone e un neutrino: Per spiegare questi decadimenti è necessario però introdurre nuove grandezze fisiche. Quesito: come si capisce che la particella scoperta da Anderson è un positrone? a. Dal fatto che la sua traccia è curva. b. Dal fatto che la sua curvatura in campo magnetico è quella di una particella di carica positiva, mentre la perdita di energia nel piombo è quella tipica di un elettrone. c. Dal fatto che l’energia persa nell’attraversare il piombo è compatibile con quella di un elettrone. [La risposta esatta è ovviamente la b.] 1.3. Nuove grandezze fisiche. Conservazione del numero leptonico e barionico. Perché fu necessario introdurre nuove grandezze fisiche? Perché alcuni decadimenti non si osservavano mai. Ad esempio, il decadimento e era perfettamente legittimo dal punto di vista cinematico in base alle leggi di conservazione note fino a quel momento: si conserva l’energia e si conserva la carica elettrica; non c’è nessun motivo per pensare che debba essere proibito; tuttavia questo decadimento (un muone che decadere in un elettrone con energia fissa) non si osserva mai. Per spiegare l’assenza di questo decadimento occorre ipotizzare l’esistenza di una nuova “carica” posseduta dal muone e che si dovrebbe conservare dopo il decadimento: il decadimento sarebbe cioè proibito perché non si conserverebbe questa nuova “carica” o numero quantico. Questo numero è chiamato il NUMERO LEPTONICO. Viene attribuirlo in maniera arbitraria: il muone negativo ha numero leptonico L pari a + 1 e il muone positivo ha L pari a – 1: L 1 L 1 Fatta questa ipotesi si può pensare che per un muone negativo il decadimento avvenga in questo modo: 23 L +1 e ... +1 e che il numero leptonico + 1 venga conservato dall’elettrone negativo. Tuttavia questo non spiegherebbe l’assenza del decadimento di cui sopra. L’unica spiegazione è che le altre due particelle “figlie” del decadimento (due dunque!) debbano avere numero leptonici di segno opposto, in modo da non alterare il numero leptonico di partenza: L e +1 +1 +1 – 1 Se però i due neutrini hanno numero leptonico opposto non sono due neutrini identici, ma un neutrino e un “ANTINEUTRINO”; conveniamo allora di soprassegnarlo e di dargli numero leptonico pari a – 1 L e +1 +1 +1 – l L’antineutrino ha tutti i numeri quantici di segno opposto di quelli del neutrino e dunque anche il numero leptonico. Anche l’assegnazione del numero leptonico a muoni, elettroni e neutrini non spiega però la mancata osservazione di un altro decadimento, teoricamente possibile secondo tutte le leggi di conservazione, compresa quella del numero leptonico: quello di un muone in un elettrone e un fotone: e . Dovrebbe essere possibile perché il numero leptonico si conserva. L 1 oppure L 1 … e dopo è lo stesso. E invece Se non accade è perché il numero leptonico che sta a sinistra è diverso dal numero leptonico che sta a destra. Dobbiamo cioè ipotizzare che il numero leptonico del muone non è lo stesso del numero leptonico dell’elettrone. Dobbiamo allora distinguerli e e un NUMERO LEPTONICO ELETTRONICO che vale L e 1 . L 1 introdurre un NUMERO LEPTONICO MUONICO che vale e Assunto che questi numeri quantici non siano gli stessi, il decadimento sarebbe dunque vietato perché non si conserva né il numero leptonico muonico (che da +1 passa a 0) né il numero leptonico elettronico (che da 0 passa a +1): L Le e +1 +1 24 Se tuttavia, riprendendo il decadimento a tre corpi visto in precedenza ( e ), ipotizziamo che il neutrino e l’antineutrino siano anche di specie diversa (uno muonico e l’altro elettronico), e e L +1 +1 +1 Le –1 con queste ipotesi si conservano i numeri leptonici muonico ed elettronico e si spiegherebbe perché si osserva e e non si osserva e . L’introduzione di questi due numeri quantici spiega anche perché il decadimento beta non è un decadimento a due corpi: se fosse semplicemente n p e n pe L +1 Le il numero leptonico elettronico passerebbe da 0 a +1. Viceversa il decadimento a tre corpi n p e e (dove la terza particella è un antineutrino della specie elettronica) permetterebbe la conservazione del numero leptonico elettronico (pari a 0 in questo caso): n p e e L +1 – 1 Le Anticipando scoperte future diciamo che esiste un terzo leptone, il τ (leggi: tau), con il suo neutrino ed entrambi con il loro numero leptonico tauonico. TABELLA DEI NUMERI LEPTONICI e , e e , e , , , , Le 1 –1 0 0 0 0 L 0 0 1 –1 0 0 L 0 0 0 0 1 –1 25 NON SI SONO MAI OSSERVATI DECADIMENTI DEL PROTONE …del resto, se i protoni decadessero non ci sarebbero i nuclei atomici! Come si giustifica l’impossibilità, ad esempio, del decadimento p e e , che pure conserverebbe sia la carica elettronica sia il numero leptonico elettronico? p e e L –1 +1 Le Si può “spiegare” l’assenza di decadimenti del protone introducendo un nuovo numero quantico, IL NUMERO BARIONICO. p e e L Le B –1 +1 +1 Si attribuisce al protone (massa = 938 MeV) il numero barionico B = +1 (varrà +1 anche per il neutrone): in tal modo se non si conserva il numero barionico si “giustifica” la mancata osservazione del decadimento in questione. Viceversa, il decadimento del neutrone (massa = 940 MeV), dove il protone finale ha lo stesso numero barionico del neutrone iniziale, è possibile. n p e e L Le B +1 – 1 +1 +1 Ma quante sono le particelle? Sono solo quelle che abbiamo visto finora? No, sono molte di più. 26 1.4. Ma quante sono? Scoperta della K e della Λ. Si sono continuate a scoprire particelle su particelle, principalmente nei raggi cosmici. Due sono in particolare le particelle che furono scoperte in quegli anni: la K e la Λ.. La K0 Era il 1946 quando Rochester e Butler scoprirono questa caratteristica traccia a “V” in una camera a nebbia. Nella foto qui sopra si vedono le due tracce indicate con a e b (evidenziate in verde a destra) uscire da un punto del detector che non è investito da un’altra particella, segno che si tratta del decadimento di una particella neutra in due particelle di carica opposta. La particella neutra prese il nome di K (kaone) perché disegnava sul piano dello strumento una specie di K (vedi immagine a destra) se si tiene conto del segmento ortogonale alla direzione della particella. Per la precisione il kaone dà origine a due pioni di carica opposta. La Λ0 Un’altra particella del tutto simile – ma diversa perché ha una massa evidentemente diversa, come si può dedurre misurando le quantità di moto delle due particelle “figlie” – fu scoperta nel 1947 durante uno studio delle interazioni dei raggi cosmici ed è quella che si vede nell’immagine a pagina seguente. Vi si vedono ancora due tracce indicate con a e b (evidenziate in verde nell’immagine a destra) che provengono da un punto del rivelatore in cui non ci sono altre particelle, segno evidente che si tratta del decadimento di una particella neutra (che quindi non lascia tracce nel rivelatore), presumibilmente proveniente dall’evento che si riconosce al centro dell’immagine. Le due tracce formano una specie di V rovesciata (vedi foto a destra) che ricorda la lettera greca Λ; e così come le particelle della foto precedente vennero chiamate K per la forma dell’evento cui davano origine queste vennero chiamate Λ. 27 Le due particelle in cui decade la particella Λ vennero poi identificate con un protone e un pione. Nonostante si prevedesse che la particella avesse una vita media dell’ordine di ~10−23 secondi, essa in realtà mostrò una vita media dell’ordine di 10−10 secondi. La proprietà per la quale la particella mostrava una vita media così lunga fu nominata stranezza (strangeness, in inglese) e portò alla scoperta del quark strange. Inoltre queste scoperte portarono alla formulazione del principio di conservazione della stranezza, secondo il quale particelle leggere decadono più lentamente se hanno stranezza (dovuto al fatto che i canali di decadimento non deboli devono preservare la stranezza, che invece può essere violata da decadimenti deboli). Ma di tutto ciò parleremo con maggior dettaglio più avanti. 1.5. Facciamo ordine: classificazione delle particelle. Dato che le particelle aumentavano di numero fu necessario procedere a una classificazione, inizialmente in base alla massa, oggi in base alle loro proprietà. Innanzitutto le particelle si possono classificare in base allo SPIN. Abbiamo quindi la prima grande suddivisione in FERMIONI, che hanno spin semintero, e BOSONI, che hanno spin intero. 28 Inoltre le particelle si possono distinguere sulla base delle INTERAZIONI A CUI DANNO LUOGO e quindi possiamo distinguerle in LEPTONI e ADRONI. Alla classe dei leptoni appartengono l’elettrone, il muone e tutti i neutrini visti fino adesso e naturalmente le loro antiparticelle. Queste particelle non interagiscono per interazione forte. Possono dare luogo a interazioni di tipo elettromagnetico se sono cariche oppure di tipo debole se sono neutre, come i neutrini. Tutte le altre particelle che interagiscono anche per interazione forte vengono chiamate adroni: fra gli adroni ci sono i protoni e i neutroni che evidentemente subiscono l’interazione forte ma ci sono anche le Λ che vengono prodotte per interazioni forti. Anche i pioni carichi e neutri e i K sono adroni: la differenza è che il protone, il neutrone e il Λ hanno spin semintero mentre i pioni e i K hanno spin intero, per cui gli adroni possono essere a loro volta distinti in quelli che si chiamano barioni (adroni di spin semintero) e mesoni (adroni di spin intero). Fra i bosoni possiamo includere anche le particelle che compongono la luce, cioè i fotoni. Abbiamo quindi un quadro più o meno ordinato delle particelle scoperte nei raggi cosmici. 29 1.6. Test ed esercizi I neutroni pesano, in unità naturali, 940 MeV. I protoni 938 MeV. Se il decadimento beta consistesse nella trasformazione di un neutrone in un protone e un elettrone, quale sarebbe la quantità di moto di quest’ultimo nel sistema di riferimento del neutrone? [La massa di un elettrone è pari a 511 keV in unità naturali] a. b. c. d. e. Trascurabile (l’elettrone resta praticamente fermo) 2 MeV 1 GeV 0.5 MeV 1 MeV [Abbiamo visto che l’energia in quel caso sarebbe fissa, pari a Ee mn2 me2 m 2p 2mn ossia pari 1,998 MeV. Ora è p2=E2– m2. La risposta è corretta è la b.] Fino a qualche valore del prodotto βγ domina il termine 1/v2 nella formula che descrive la perdita d’energia per ionizzazione? a. quando βγ è molto grande b. fino circa a 3 c. quando βγ tende a zero d. per βγ circa uguale a 1 e. per valori molto minori di 3 [La risposta corretta è la b.] Una particella carica attraversa un mezzo cedendo energia agli elettroni di questo. Se la particella ha velocità v, qual è la velocità massima che può imprimere a un elettrone per urto? a. b. c. d. e. 2v v infinito 0 4v [La risposta corretta è la a.] Le misure fatte da Hess indicano che a la ionizzazione media a circa 1 km dalla superficie terrestre è di 10 ioni/cm3 s−1. Alla quota di 6 km la ionizzazione aumenta di un fattore 3 circa. Le stesse misure indicano che la ionizzazione cresce esponenzialmente secondo la legge I∝exp(x/λ). Stima il valore di λ. a. b. c. d. e. 7 km 1 km 6 km 600 m 5 km [I=I0 exp(x/λ), da cui I2/I1=exp(x2/λ – x1/λ) da cui 3=exp(5km/ λ ). La risposta corretta è la e.] 30 Quale tra questi decadimenti è l’unico permesso? a. e e b. e e c. e e d. e e e. e e [L’unico in cui si conservano numeri leptonici elettroni e muonici è quello della e.] Quale tra questi decadimenti è permesso? b. e c. d. e e. a. [Il tauone può decadere in un leptone più leggero, creando un neutrino tauonico: da escludere dunque le risposte a. e d. La risposta corretta sembra dunque la b… ma non si conserva il numero elettronico. La lambda non ha mai carica negativa, e dunque nella e. non si conserva la carica. Per esclusione rimane la c.] 31 Capitolo 2 Imitare la natura Vorremmo studiare queste particelle con un certo grado di dettaglio. Per studiarle dettagliatamente abbiamo bisogno di molte di queste particelle e non possiamo aspettare che la natura le produca per caso; dobbiamo produrcele in laboratorio imitando i processi che la natura mette in atto per produrre queste particelle nei raggi cosmici. Qual è la ricetta per produrle? È semplice: E = mc2. Se voglio produrre particelle la cui massa complessiva sia m devo disporre di una quantità di energia almeno pari alla massa della particella che voglio produrre moltiplicata per c2. Devo cioè imitare quello che avviene in natura, dove ciò che avviene è che le particelle dei raggi cosmici primari, per lo più protoni urtano urtare le particelle del gas che sta nell’atmosfera, nell’urto si sviluppa una certa quantità di energia che poi può materializzare in altre particelle. Questi gli argomenti del capitolo: 1. Produzione artificiale di particelle. 2. Acceleratori 3. Sezione d’urto 4. Vita media. 5. Massa invariante e risonanze. 6. Particelle “strane”. 7. Test ed esercizi 2.1. Produzione artificiale di particelle Dal punto di vista della meccanica quantistica possiamo descrivere il processo di produzione di particelle nel seguente modo: abbiamo uno stato iniziale composto da un nucleo, per esempio di azoto, che sta nell’atmosfera, e un protone di una certa energia: N, p Quello che deve succedere in seguito all’urto del protone col nucleo di azoto è che il protone e il nucleo di azoto devono scomparire e al loro posto devono apparire nuove particelle. Abbiamo cioè bisogno di un operatore O che agisce sullo stato iniziale e che sia composto dal prodotto di un operatore di creazione C seguito da un operatore di distruzione D: si deve intendere che prima si applica l’operatore di distruzione e poi si applica l’operatore di creazione (“C composto D”). O N , p CD N , p Quando si applica l’operatore di distruzione allo stato vuoto al quale si applica poi l’operatore di creazione C: CD N , p C 0 32 N, p si ottiene uno stato di il quale operatore produce le particelle dello stato finale. C 0 X , , L’ampiezza di probabilità di produrre questo stato finale con le particelle segnate sopra provenendo dallo stato iniziale N, p si può descrivere nella meccanica quantistica come un elemento di matrice O composizione dell’operatore di distruzione D e di creazione C tra gli stati iniziali e finali del processo che vogliamo produrre X , , O N , p Per poter realizzare eventi di questo tipo in laboratorio abbiamo bisogno di un fascio di protoni accelerati da una differenza di potenziale di 340 milioni di Volt. Dobbiamo quindi costruire degli acceleratori di particelle che permettano di dare alle particelle del fascio l’energia necessaria per produrre le nuove particelle che vogliamo studiare. 2.2. Acceleratori di particelle Come si costruisce un acceleratore di particelle? Si collegano due tubi di rame ai due poli di una pila. Tra i due tubi c’è una differenza di potenziale (ad esempio da 1,5 eV); se una particella passa tra i due tubi di rame essa guadagna una certa energia, in particolare guadagna 1,5 eV se la particella ha carica unitaria. 1,5 eV è un po’ poco, bisogna dare alla particella un’energia più alta: basterà mettere più pile in serie… Con un milione di pile possiamo arrivare a 1MeV di energia per la particella? No, perché con una differenza di potenziale di un milione di Volt sarà facile produrre indesiderate scariche elettriche essendo il potenziale di rottura del materiale circostante molto più basso di questo valore… e quindi questo sistema non funziona. Non possiamo dunque produrre acceleratori di particelle con energia troppo alta mettendo le sezioni del mio acceleratore in serie. Quello che possiamo fare però è usare un trucco molto semplice: mettere le pile in serie ma invertite in modo alternato: 33 a sinistra abbiamo un campo verso destra, nella parte centrale un campo rivolto verso sinistra, a destra un campo di nuovo rivolto verso destra. Una particella che si trovi nel campo a sinistra viene accelerata e si sposta nel secondo tubo di rame. Giunta dentro il secondo tubo di rame non sente alcun campo perché il tubo di rame fa da gabbia di Faraday. In quel momento invertiamo il campo della sezione centrale (in realtà invertiamo tutti i campi) che diventa di nuovo un campo accelerante per la particella. La particella entra quindi nel terzo cilindro di rame: di nuovo non sente alcun campo ma continua a muoversi in quella direzione. Di nuovo invertiamo i campi: 34 e quando esce dalla terza sezione di nuovo la particella si trova in un campo accelerante In questo modo possiamo produrre una serie di campi acceleranti successivi che tuttavia non richiedono differenze di potenziale enormi tra una sezione e l’altra. Se poi riuscissimo a chiudere tutte le sezioni in fila in modo che la particella percorra una traiettoria circolare avremmo realizzato uno strumento relativamente compatto come un CICLOTRONE. Un ciclotrone è un acceleratore di particelle piuttosto piccolo. Com’è fatto? È costituito da due contenitori metallici fatti a forma di D, cavi all’interno, uno di fronte all’altro; sopra e sotto ci sono due bobine di cavi elettrici in cui si fa scorrere una corrente che produce un campo magnetico (blu) che costringe le particelle a percorrere traiettorie circolari all’interno delle due D. Se applichiamo una differenza di potenziale tra la D (rovescia) di sinistra e la D di destra si produce un campo elettrico (rosso) tra le due D; all’interno delle due D non c’è nessun campo elettrico perché le D formano gabbia di Faraday ma tra l’una e l’altra c’è un campo elettrico che può accelerare le particelle; quando una particella (accelerata) attraversa la gap tra le due D finisce dentro una D e percorre a causa del campo B una traiettoria semicircolare; quando la particella è arrivata al limite della gap invertiamo il campo elettrico che accelera di nuovo la particella che percorre di nuovo una traiettoria semicircolare di raggio più ampio (perché ha guadagnato energia e ha una quantità di moto maggiore). La particella percorre dunque una traiettoria spiraleggiante di raggio sempre maggio e quando raggiunge un raggio di curvatura tale da farla uscire dal canale 35 che si vede nello schema in alto a destra spegniamo il campo magnetico e la particella esce in quella direzione avendo acquisito una energia pari alla differenza di potenziale tra le due D moltiplicata per il numero di volte che la particella è passata da una D all’altra. Negli acceleratori più moderni si usa un’altra tecnica: si inietta un’onda elettromagnetica all’interno di una guida tonda, cioè di un tubo. Quest’onda elettromagnetica è fatta di campi elettrici che sono diretti sempre in direzione dell’onda, in senso negativo o positivo. Le particelle si sincronizzano con l’onda elettromagnetica in maniera tale che le particelle che seguono la traiettoria nominale si trovino nella parte discendente dell’onda elettromagnetica; questo accade perché quelle che dovessero trovarsi per qualche motivo in anticipo, cioè dovessero trovarsi più avanti (disegno a sinistra) “vedono” un campo elettrico più basso e quindi vengono accelerate di meno rispetto alle altre e tendono dunque ad addensarsi vicino alle particelle che seguono la traiettoria nominale . Quelle che invece sono in ritardo (disegno a destra) vedono un campo elettrico più forte e quindi sono accelerate e vengono spinte in aventi raggiungendo quelle che seguono la traiettoria nominale. In questo modo le particelle si compattano e oscillano attorno a un punto di equilibrio nel quale ricevono continuamente una spinta (come un surfista che si muove “sull’onda” (sulla parete dell’onda!) e vengono così accelerate. Disponendo di uno strumento di questo genere si può prendere un bersaglio, 36 mettere da una parte del bersaglio un rivelatore che funziona con un contatore, inviare sul bersaglio un fascio di particelle con una quantità nota di particelle e misurare quante di esse riescono ad attraversarlo. Quelle che non attraversano il bersaglio evidentemente hanno interagito col bersaglio, quindi posso misurare la capacità di interazione delle particelle con gli atomi del bersaglio. Si cominciarono così a fare i primi esperimenti in laboratorio nei quali particelle elettricamente cariche, tipicamente protoni che si ottengono ionizzando dell’idrogeno, venivano accelerati e sparati contro bersagli fissi, misurando quello che succedeva a valle del bersaglio. 2.3. Sezione d’urto Che cosa posso misurare con gli esperimenti descritti nel capitolo precedente? Posso misurare diverse quantità; in particolare posso misurare il numero di particelle che hanno interagito. Da questo numero si ricava un parametro importante che è la sezione d’urto: che cosa rappresenta questo valore? Supponiamo di avere un fascio di N particelle che va sul bersaglio; il numero di particelle che interagiscono col bersaglio fa sì che il numero di particelle a valle del bersaglio sia inferiore: ci sarà quindi una variazione negativa nel numero di particelle dN proporzionale al numero di particelle che ho inviato sul bersaglio dN N Il numero di particelle che interagiscono col bersaglio sarà poi proporzionale allo spessore del bersaglio: dN Ndx Il numero di particelle che interagiscono sarà proporzionale anche alla densità del bersaglio (ρ = numero di particelle per unità di volume, si misura in m– 3): dN Ndx La costante di proporzionalità è detta σ: dN Ndx σ è chiamata sezione d’urto perché ha le dimensioni di un’area. 37 La σ rappresenta la capacità di una particella di interagire con altre particelle, e il fatto che abbia le dimensioni di un’area lo si capisce da una semplice analogia: nel gioco delle freccette più è ampio il bersaglio più è facile colpirlo. perciò la sezione d’urto può essere vista come una sorta di area efficace che viene “vista” dalla particella sparata contro il bersaglio. Ripartiamo dunque dalla nostra dN Ndx Per risalire a σ devo dunque calcolare quante erano le particelle N sparate contro il bersaglio, quante sono quelle che lo hanno attraversato (e per differenza risalire a dN), calcolare lo spessore e la densità del bersaglio. Divido tutto per N: dN dx N Faccio l’integrale a sinistra e a destra: dN N dx Il numero di particelle che si vedono a valle del bersaglio di spessore x è uguale a: x N x N 0 exp x N 0 exp σρ ha le dimensioni di m–1 e perciò lo posso chiamare 1/λ. λ (che si misura in m) rappresenta il cammino medio di una particella. Così si può misurare la sezione d’urto semplicemente misurando N(x) e N(0). Il barn Il barn (simbolo b o bn, dal termine inglese “barn”, fienile) è un’unità di misura per l’area, utilizzata in fisica nucleare e subnucleare per misurare sezioni d’urto tra particelle elementari. 38 1 barn = 100 fm2 = 10 –28 m2 = 10 –24 cm2 Tale unità di misura nasce dal fatto che il raggio del nucleo atomico è dell’ordine di 10–12 cm, quindi la sua sezione d’urto geometrica sarà di 10 –24 cm2. Se un nucleo viene disintegrato ogni volta che viene colpito si dice che la sua sezione d’urto è di 1 barn, ovvero che tutta la sua area è efficace. Se per una qualsiasi ragione avviene invece una disintegrazione ogni cento urti subiti diciamo che la sezione d’urto efficace per quel nucleo è di 0,01 barn. Il barn non fa parte del Sistema Internazionale di unità di misura ma è accettato come unità per l’uso corrente. Quesito: Cos’è la sezione d’urto? a. È una grandezza che permette di definire la probabilità d’interazione di una particella con la materia. b. È la sezione delle particelle bersaglio. c. Rappresenta la probabilità d’interazione di una particella con la materia. [La risposta corretta è la a.] 2.4. Vita media Un’altra grandezza fisica che possiamo determinare per le particelle instabili è la vita media. Le particelle instabili non decadono a intervalli prefissati ma decadono in maniera statistica: se ne produce un certo numero e poi queste cominciano a decadere a tempi più o meno casuali, un po’ come fanno le bolle di sapone: quando abbiamo una ciotola piena di bolle di sapone queste esplodono casualmente una dopo l’altra. Questo processo, per quanto statistico e imprevedibile, presenta però delle regolarità interessanti: la prima cosa che si può osservare è che il numero di particelle che decadranno sarà proporzionale al numero di particelle preparate in laboratorio (così come il numero di bolle di sapone che scoppiano sarà tanto più alto quanto più alto è il numero di bolle di sapone presenti nella ciotola: dN N Anche il tempo di attesa è rilevante: più aspetto e più vedrò decadimenti: dN Ndt Il fattore di proporzionalità tra queste due grandezze deve essere un t – 1: chiamo questo fattore 1/τ: dN N dt τ è dunque il tempo di vita medio della particella: Come prima, dividiamo per N: dN dt N dN dt Integriamo: N 39 t N t N 0 exp Sarà dunque sufficiente contare le particelle dopo un tempo t, N(t), e quelle preparate per il mio esperimento, N(0), per conoscere il tempo di vita medio delle mie particelle. Quesito: cos’è la vita media di una particella? a. Il tempo dopo il quale una particella decade b. Il tempo trascorso il quale è sopravvissuto circa 1/3 delle particelle inizialmente presenti in un campione. c. Il tempo dopo il quale resta circa la metà delle particelle inizialmente presenti in un campione. [La risposta esatta è la b.] 2.5. Massa invariante e risonanze “Vedere” le particelle A questo punto vorremmo “vedere” le particelle prodotte. Il problema è che la maggior parte delle particelle prodotte hanno un tempo di vita medio così breve che è praticamente impossibile osservarne la traccia: percorrono distanze troppo brevi per essere osservate. Come si riesce dunque a vedere la produzione di queste particelle? Supponiamo di avere, per esempio, un fascio di pioni negativi (che possiamo produrre accelerando dei protoni e mandandoli a sbattere sul bersaglio): acceleriamo questi pioni e mandiamoli a sbattere su di un secondo bersaglio, producendo, ad esempio in interazione coi protoni del bersaglio, una particella Λ. La Λ decade a sua volta in un protone e in un π– (leggi: pai meno)… ma decade troppo presto per essere osservata. Come facciamo a stabilire che quel protone p e quel π – sono figli di una Λ e non venuti fuori casualmente dal bersaglio per effetto di un altro tipo di processo? Ciò che possiamo fare è la cosa seguente. Supponiamo che le particelle che osserviamo nel rivelatore siano effettivamente figlie di una particella di massa M. La particella M, nel sistema di riferimento in cui essa è ferma 40 ha nulla la parte spaziale del quadrimpulso e la parte temporale (l’energia) uguale alla massa della particella, dato che è ferma. Nel sistema di riferimento del laboratorio le particelle figlie avranno invece quantità di moto p1 e p2 ed energie E1 ed E2. Poiché il modulo-quadro del quadrimpulso è un invariante relativistico, possiamo scrivere la seguente uguaglianza: 0, M 2 p1, E1 p2 , E2 2 Quadrando, a destra si ottiene il quadrato dei due quadrimoduli più il doppio prodotto E12 p12 E22 p22 2( E1 E2 p1 p2 cos12 ) ; si 2 2 2 ottiene quindi M m1 m2 2 E1 E2 2 p1 p2 cos12 dei due quadrimoduli: M 2 Se misuro p1 e p2 delle due particelle nello stato finale e l’angolo che esse formano, e le so identificare da come interagiscono nel rivelatore, cioè dal tipo di energia che perdono, si può calcolare quella che viene detta la MASSA INVARIANTE delle due particelle, che deve essere uguale alla massa della particella madre di cui le due particelle sono figlie. Se non sono figlie di quella particella la loro “massa invariante” sarà un numero a caso tra 0 e il valore massimo reso possibile dall’energia cinetica. A questo punto possiamo fare un grafico nel quale riportiamo la sezione d’urto in ordinata e in ascissa l’energia del centro di massa, cioè la massa invariante che abbiamo ricostruito a partire dalle due particelle osservate nello stato finale. Quello che ci aspettiamo di vedere è una distribuzione sostanzialmente piatta, perché non c’è nessuna ragione per cui la massa invariante debba assumere un valore particolare: ed è infatti quello che si vede sulla destra di questa distribuzione. Ma quello che si vede sulla sinistra è un insieme di picchi, alcuni nello stato π+p, altri nello stato π –p. Cosa significano questi picchi? 41 Per quel preciso valore di energia la probabilità di ottenere una coppia π+p (o una coppia π – p) avente una massa invariante corrispondente al picco è più alta di quella di ottenere una massa invariante di altro tipo. Qual è la conseguenza di tutto ciò? Per comprenderlo facciamo un esempio con un altro processo statistico, diverso ma in fondo simile: il lancio di due dadi. Se si lanciano due dadi, quello che ci aspettiamo di vedere dopo qualche centinaio (a sinistra) o dopo qualche migliaio (a destra) di lanci è qualcosa di questo tipo: Si vede che il valore 7 esce più facilmente dei valori 2 e 12. Se giocassi con due dadi truccati che danno sempre la stessa somma otterrei invece una distribuzione del tipo dell’immagine a sinistra: Se fossi un baro non giocherei sempre con i miei dadi truccati perché gli altri se ne accorgerebbero subito; li userei di tanto in tanto… per vincere. Quello che otterrei in questo secondo caso sarebbe una distribuzione del tipo a destra, ovvero la somma delle due distribuzioni. Il picco significa che il valore uguale alla somma dei due dadi truccati si presenta più frequentemente di quel che ci si aspetta. Come si traduce tutto questo nelle osservazioni sulle particelle? Se le particelle di cui calcolo la massa invariante sono prodotte per caso, la loro distribuzione è una distribuzione piatta; se invece sono figlie di una particella decaduta la loro massa invariante non può che essere quella della particella decaduta. E perciò si 42 osservano dei picchi. Identificando la posizione del picco si determina la massa della particella decaduta. Tutte le volte che si osserva un picco di questo genere – che si chiama RISONANZA – significa che si è osservata una particella la cui massa invariante corrisponde alla posizione del picco dell’energia del centro di massa. Dallo studio di questi picchi si può anche stimare la vita media delle particelle utilizzando il principio di indeterminazione: l’indeterminazione sull’energia, ovvero la larghezza di questi picchi, moltiplicata per il tempo nel quale posso fare le misure, ovvero la vita media delle particelle, dev’essere dell’ordine di ħ. Invertendo la relazione posso trovare il tempo; e si calcola che il tempo di vita medio delle risonanze è dell’ordine di 10 – 23 s. Le risonanze non si possono osservare in un detector come tracce lasciate dalle particelle sui rivelatori ma solo sotto forma di picchi nella sezione d’urto. 2.6. Particelle strane Tra le particelle che si osservano essere prodotte dagli esperimenti si vede un certo numero di particelle cosiddette “strane”. Le particelle “strane” erano già state scoperte nei raggi cosmici: una di queste è la Λ, scoperta nel 1947. Perché la Λ viene definita una particella strana? Perché la Λ viene 43 prodotta negli acceleratori a seguito di un urto tra un pione negativo e un protone. E subito essa decade di nuovo in un pione negativo e un protone: p p Cosa c’è di “strano” in tutto questo? Se si misura la sezione d’urto di produzione delle Λ si trova che essa è dell’ordine di qualche decina di millibarn (1mb = 10 – 27 cm2): essa è una sezione d’urto tipica delle interazioni forti cioè della produzione di quelle risonanze che abbiamo visto nel capitolo precedente. Se si misura il tempo di decadimento della Λ questo non è dell’ordine di grandezza della risonanza, cioè dell’ordine di 10 – 23s, ma molto più lento, dell’ordine di 10 – 10 s, segno che l’interazione che fa decadere la Λ dev’essere di natura diversa di quella che ne consente la produzione. La sezione d’urto è proporzionale al modulo quadro dell’elemento di matrice dell’operatore che fa passare dallo stato iniziale in cui c’è un p e un π – a quello finale in cui c’è una Λ. f Hi 2 p H p 2 Nell’altro caso, quando si misura il tempo di vita medio della Λ, questo dovrebbe essere proporzionale al modulo quadro dell’elemento di matrice dell’operatore che fa passare dallo stato iniziale in cui c’è la Λ allo stato finale in cui c’è un p e un π–. f H' i 2 p H ' p 2 Se i due operatori fossero operatori della stessa interazione, H e H’ dovrebbero essere uguali, cambiano solo gli assi temporali; invece questo non avviene: la sezione d’urto e il tempo di vita medio non sono tra loro compatibili: un operatore è tipico delle interazioni forti, l’altro delle interazioni deboli. Produzione associata Quello che si scopre facendo esperimenti nei laboratori è che le particelle strane – come la Λ – non vengono mai prodotte da sole ma vengono sempre prodotte associate ad altre particelle, come la K0, p K0 Poi la Λ decade in un pione negativo e un protone: 44 p K e anche la K0 decade in due o tre pioni: anche in questo caso con tempi caratteristici delle interazioni deboli. Sia la Λ che la K0 sono prodotte per interazione forte ma decadono per interazione debole. 0 Queste particelle sono strane perché ci deve essere un qualche meccanismo che impedisce all’interazione forte di far decadere la Λ nel canale di decadimento che coincide con quello di produzione. In altre parole se siamo nella situazione di produrre la Λ attraverso l’urto di un p e un π – p p invertendo l’asse temporale si dovrebbe osservare la stessa catena di produzione p p La prima riga dice che possiamo produrre una Λ con un’alta probabilità avendo a che fare con una interazione forte, mentre il decadimento avviene con bassa probabilità perché si tratta di una interazione debole. La seconda riga, ottenuta girando l’asse del tempo, dice che abbiamo prodotto una Λ da una interazione debole, e che questa è poi decaduta per interazione forte: ma questo non si osserva mai. Quindi dobbiamo inventarci un qualche meccanismo che impedisce all’interazione forte di far decadere la Λ. Ci deve essere una qualche forma di conservazione che deve essere violata da un’interazione ma non dall’altra. Come possiamo operare? Che cosa dobbiamo immaginare? Facciamo un esperimento: prendiamo un pendolo e facciamolo oscillare: non si osservano differenze tra l’andata e il ritorno; anche mandando il filmato all’indietro non ci si accorge di alcuna stranezza: le leggi fisiche sono invarianti per inversioni temporali. Per riconoscere un’andata e un ritorno occorre introdurre un qualche meccanismo che impedisca alla gravità di fare il suo lavoro. È necessario dunque pensare a una nuova grandezza fisica che si conservi nelle interazioni forti e non nelle interazioni deboli. Per evidenti motivi, questa grandezza fisica è chiama “stranezza”. È conservata nelle interazioni forti Non è conservata nelle interazioni deboli Viene dunque assegnata alle particelle strane una carica di stranezza che si conserva nelle interazioni forti e non nelle deboli. STRANEZZA La produzione associata viene dunque spiegata in questo modo: prendendo un pione e un protone (che non sono strane) la loro carica di stranezza è 0. Nello stato finale la Λ e la K0 sono sì due particelle strane, ma che devono portare una carica di stranezza opposta perché la stranezza si conservi: ad esempio alla Λ associo stranezza –1 e alla K0 associo stranezza + 1 45 L’interazione forte conserva la stranezza e dunque questo processo può avvenire. Ma quando la Λ prova a decadere per interazione forte… ci sarebbe una variazione di stranezza pari a +1… e questo l’interazione forte non lo può fare perché conserva la stranezza. La stranezza non ha invece alcun significato per l’interazione debole (per fare un esempio analogo: l’interazione gravitazionale non “vede” la carica elettrica). Questo fa sì che per interazione debole ci possa essere quel decadimento. Analogamente la K0, che ha stranezza pari a +1, può decadere per interazione debole in due (o tre) pioni, con stranezza finale dunque pari a 0. A questo punto possiamo mettere in ordine tutte queste particelle costruendo delle tavole periodiche, sia perché le particelle sono cresciute di numero sia perché sono diverse le grandezze fisiche che possiamo associare a una particella. Possiamo classificarle non solo in base allo spin e alle interazioni cui sono soggette ma anche in base alla loro carica elettrica e alla loro carica di stranezza. 46 TAVOLE PERIODICHE L’ottetto dei mesoni Ricordiamo che i mesoni sono particelle a spin = 0 che interagiscono per interazione forte e cioè sono adroni Come si legge? In diagonale la carica. In orizzontale la stranezza. 47 Una tavola analoga si può costruire con i barioni di spin ½ L’ottetto dei barioni di spin ½ Come si legge? Come prima. In diagonale la carica. In orizzontale la stranezza. 48 Altra tabella si può fare per i barioni di spin 3/2 (che si scoprono negli acceleratori): sono le quattro Δ, le tre Σ* (leggi: “sigma star”, simili alle Σ ma più pesanti) e le due Ξ* (leggi “csi star”, simili alla Ξ) Barioni di spin 3/2 Come si legge la tabella? Come al solito. In diagonale la carica. In orizzontale la stranezza. Il fatto che queste particelle si dispongano su queste tavole fa pensare che possano non essere elementari ma a loro volta costituite da altre particelle più piccole in virtù delle quali si producono queste regolarità. 49 2.6. Test e quesiti Perché le Λ e i K sono definite particelle strane? a. Perché sono prodotte per interazione forte e decadono per interazione debole. b. Perché non sembravano avere alcun ruolo nella costituzione della materia. c. Perché sono prodotte per interazione forte a partire da uno stato identico allo stato finale del decadimento che però avviene per interazione debole. [La risposta esatta è la c.] Nei raggi cosmici si osservano molti muoni provenienti dal decadimento π→μ+ν dei pioni, a loro volta prodotti dall’interazione di protoni con i nuclei N dell’atmosfera: p+N→π+X dove X rappresenta un generico stato che conserva i numeri quantici. Quale tra le seguenti rappresenta l’ampiezza di probabilità del processo? a. b. c. d. e. ⟨μν|O|π⟩ ⟨μν|O|π⟩+⟨πX|O′|pN⟩ ⟨μν|O|π⟩⟨πX|O′|pN⟩ ⟨πXμν|O′|pN⟩ |⟨μν|O|π⟩⟨πX|O′|pN⟩|2 [La risposta corretta è la c.] Quanti sono i mesoni strani? a. 8 b. 1 c. 3 d. 5 e. 4 [Due mesoni hanno stranezza +1 e due hanno stranezza – 1. Stranezza pari a 0 non è stranezza. La risposta corretta è la e.] Come cambia la sezione d’urto di un processo con lo spessore del bersaglio? a. b. c. d. e. Non cambia. La sezione d’urto è indipendente dallo spessore del bersaglio Diminuisce come un esponenziale Dipende dal processo: in certi casi cresce e in altri no Va come il logaritmo dello spessore del bersaglio Cresce linearmente con lo spessore del bersaglio [La risposta corretta è la a. Con lo spessore diminuisce esponenzialmente la quantità di particelle che attraversano il bersaglio.] In un esperimento in cui pioni positivi si inviano su un bersaglio si osserva che la sezione d’urto di produzione di una coppia π+ + p presenta un intenso picco quando l’energia del centro di massa raggiunge 1.232 MeV. Come s’interpreta quest’osservazione? a. La distribuzione dei prodotti di decadimento è tale per cui casualmente si producono alcuni picchi qua e là b. Nell’urto si produce una risonanza di carica +1 e di massa pari a 1.232 MeV/c2 c. L’interazione tra i pioni e il bersaglio è più intensa per pioni di energia tale per cui l’energia nel centro di massa vale proprio 1.232 MeV d. Nell’urto si produce una risonanza di carica +2 e di massa pari a 1.232 MeV/c2 e. Ci troviamo di fronte a una nuova interazione [La risposta corretta è la d.] 50 In un piccolo ciclotrone si accelerano protoni usando un campo magnetico B=10G. Il raggio del ciclotrone è di 15 cm. Qual è la velocità massima che i protoni possono avere in uscita da questo strumento? a. 14000 kms−1 b. 14 ms−1 c. 14000 ms−1 d. non si può calcolare: occorre conoscere il materiale di cui è fatto il ciclotrone e. 14×10 8 ms−1 [La formula è r=mv/qB da cui v=rqB/m. 1G=10−4 T. Date le basse velocità in gioco si può trascurare il fattore relativistico. La risposta corretta è la c.] Quale particella si può trovare nel decadimento di una Ξ – ? a. Un protone o un neutrone b. Una Σ di qualunque carica c. Soltanto una Σ – d. Una Ξ* – e. Una qualunque delle particelle dell’ottetto di barioni. (sbagliata) Il barione Ξ – ha massa m = 1321 MeV, q = – 1. Una Σ – ha massa di 1197 MeV, stessa carica, stesso spin e massa inferiore. Se fosse corretta la a. servirebbe poi o una particella di carica – 1 (nel caso una delle due fosse un neutrone) o addirittura ne servirebbero due (nel caso la particella trovata fosse il protone). Una Ξ* – ha spin 3/2 e ha massa m = 1387 MeV, più pesante della Ξ – In generale nel verificare se un decadimento è possibile si devono controllare i principi di conservazione. La conservazione della carica è banale, la conservazione dell’energia impedisce che una particella decada in particelle più pesanti, quella del momento angolare impedisce che una particella con un dato spin decada in particelle con spin tali da non costituire uno stato con momento angolare totale uguale a quello della particella madre; la conservazione del numero leptonico impone che i figli di un leptone portino, complessivamente, lo stesso numero. Infine è necessario tenere in conto che alcune grandezze non sono conservate, ma possono cambiare soltanto di una quantità ben determinata. Ad esempio nei decadimenti deboli il numero quantico di stranezza non è conservato e si può avere ΔS=±1. La particella Ξ – decade in una Λ e un π – ed è prodotta in associazione con i K0. Il decadimento fu osservato nel 1955 in un evento registrato in emulsioni nucleari esposte ai raggi cosmici. Quante tracce a forma di V osservarono nell’emulsione i ricercatori che analizzarono l’evento? N.B. tutte le particelle coinvolte nell’evento hanno vita media sufficientemente breve a decadere nell’emulsione. Si trascuri la possibile conversione di fotoni in coppie elettrone-positrone. a. 1 b. 4 c. 2 d. nessuna e. 3 [Quante sono le K0 prodotte? Sono due (e ciascuna, decadendo, mostrerà una “V”), in quanto la stranezza totale deve valere 0, la Ξ – ha S= –2 e le K0 hanno S=+1; si può escludere che tali particelle siano i prodotti di decadimento di una particella con stranezza diversa da zero perché non ci sono particelle con stranezza la cui massa sia tale da produrre Ξ – in associazione con più K0. Ricordando che la Λ a sua volta decade in una coppia di pioni (un’altra V) le tracce a V dovevano essere in tutto 3.] 51 Cap. 3 Modello a Quark La regolarità con cui le particelle studiate nel capitolo precedente si dispongano su queste tavole fa pensare che possano non essere elementari ma a loro volta costituite da particelle più piccole in virtù delle quali si producono le regolarità. Un modello fu proposto indipendentemente da Gell-Mann e da Zweig nel 1964. Sempre a Gell-Mann si deve il termine “quark” con cui furono chiamate tali costituenti, termine mutuato da una frase non-sense presente in “Finnegan’s wake” di Joyce: “three quarks for Mr Mark”. Il modello che andremo a costruire è detto pertanto “modello a quark”. Vedremo: - la composizione dei multipletti (di barioni e di mesoni) - i quark - la costruzione del decupletto di barioni a spin 3/2 a partire dai quark - la costruzione dell’ottetto di mesoni (introdurremo la possibilità che esistano degli “antiquark” con cariche di tutti i generi opposte a quelle dei quark) - la costruzione dell’ottetto di barioni a spin ½) L’esistenza del decupletto di barioni porterà a ipotizzare l’esistenza di un nuovo tipo di carica (il “colore”), la cui esistenza è resa necessaria dal fatto che i quark sono fermioni e quindi soggetti al principio di Pauli. L’introduzione della carica di “colore” consentirà di spiegare perché possiamo avere particelle che in linea di principio, ammettendo la sola esistenza dei tre quark senza la carica di colore, non potrebbero esistere. L’introduzione (o la “scoperta”) di nuovi quark si rivelerà necessaria per spiegare la scoperta di nuove particelle. I nuovi quark furono scoperti esattamente nella stessa maniera in cui furono scoperti gli altri, osservando nuove particelle negli urti fra adroni. Il numero di particelle, che sembrava essersi ridotto grazie all’introduzione dei quark, ricominciò così a crescere: da tre divennero quattro… e dopo qualche anno furono cinque. 3.1. La composizione dei multipletti Analizziamo la composizione dei multipletti per cercare di capire come si possono interpretare assumendo che le particelle che li compongono siano composte di particelle più piccole. Nei multipletti ci sono degli adroni, che sono dei fermioni che subiscono l’interazione forte. I loro eventuali costituenti devono essere a loro volta degli adroni. E poiché gli adroni a spin più alto sono i barioni a spin 3/2 quello che possiamo pensare è che le particelle che compongono questi multipletti siano particelle a spin 1/2 e di doverne combinare almeno tre per ottenere una particella di spin totale uguale a 3/2. Le particelle costituenti gli adroni devono anche essere elettricamente cariche perché le 52 particelle che andranno a costituire avranno carica elettrica negativa, positiva o nulla e in un caso addirittura positiva con modulo pari a 2. Questi componenti devono avere carica elettrica positiva o negativa per poter dare origine a particelle di carica nulla e, almeno in certi casi, devo anche avere una carica di stranezza perché devono dare origine a particelle composte che complessivamente mostrano una carica di stranezza. Abbiamo dunque bisogno di tre oggetti, tre fermioni, di spin ½ e dotati di carica elettrica; questi tre fermioni li chiamiamo “quark” e devono essere di tre specie diverse (dette anche “sapori” dei quark), Il QUARK UP ha una carica pari a 2/3 di quella del protone e stranezza S = 0. Lo rappresentiamo come una torre quadrata di mattoncini LEGO alta 2 unità di una qualche unità di misura. Ogni unità rappresenterà una carica pari a + 1/3 Un altro sapore di quark di cui possiamo aver bisogno è quello che chiamiamo QUARK DOWN: ha una carica elettrica pari a – 1/3 di quella del protone ed è privo di stranezza. Utilizzando sempre i mattoncini LEGO ci conviene rappresentarlo con un buco quadrato al centro (una carica negativa!) e un’altezza pari a una unità. Infine abbiamo bisogno di un quark che porti una carica di stranezza che dovrà servire per costruire particelle con una qualche carica di stranezza. Il QUARK STRANO avrà una carica pari a – 1/3; con i LEGO avrà un buco quadrato in mezzo, di altezza un’unità, e gli mancherà un lato… per essere “strano”: S = – 1. Quesito: a quale categoria appartengono i quark? a. bosoni b. adroni c. leptoni [La risposta esatta è la b.] 3.2. Barioni a spin 3/2 Con i tre quark che abbiamo appena definito cerchiamo di dare vita a delle combinazioni che corrispondano alle caratteristiche delle particelle osservate sperimentalmente. Cominciamo col cercare le combinazioni che danno luogo ai barioni di spin 3/2. Poiché i quark hanno ciascuno spin 1/2 per costruire una particella di spin 3/2 sarà sufficiente metterne insieme tre con i tre spin allineati. 53 Per capire quali particelle possiamo ottenere, prendiamo tutte le combinazioni di tre quark diversi o meno tra loro e vedere quali caratteristiche complessive hanno le particelle “composte”. Cominciamo a costruire la particella che si ottiene con 3 QUARK DOWN: si ottiene una particella che ha spin = 3/2, carica elettrica q = (–1/3)+(–1/3)+(–1/3)= – 1 e stranezza S=0. La costruzione è evidente col modellino a mattoncini: un buco alto tre unità… con tutti i bordi completi. Questa particelle effettivamente esiste tra quelle scoperte nei raggi cosmici o negli acceleratori: ed è particella Δ– che nel nonetto dei barioni occupa la prima posizione in alto a sinistra. Altra combinazione possibile di tre quark è quella che si ottiene con 2 QUARK DOWN + 1 QUARK UP: la carica totale è (–1/3)+(–1/3)+(+2/3)= 0 (particella neutra, la costruzione con i LEGO è piatta, non presenta né buchi né protuberanze), la stranezza è S=0 (non vi è nessun quark strano) Questa particelle effettivamente esiste tra quelle scoperte nei raggi cosmici o negli acceleratori: ed è particella Δ0 che nel nonetto dei barioni occupa la seconda posizione in alto a sinistra. Terza possibile combinazione: 2 QUARK UP + 1 QUARK DOWN: la carica totale è (+2/3)+(+ 2/3)+(–1/3)= +1 (particella con carica unitaria, la costruzione con i LEGO presenta una protuberanza di altezza tre unità = 1), la stranezza è S=0 (non vi è nessun quark strano) e spin = 3/2 Tale particella esiste ed è la particella Δ+. 54 Con TRE QUARK UP si ottiene la particella di carica q = (+2/3)+(+ 2/3)+(+1/3)= +2 stranezza S = 0 e spin = 3/2. È la particella Δ++. Cominciamo a utilizzare i quark strani. Con UN QUARK STRANO + DUE DOWN si ottiene una particella di carica q = (–1/3)+(–1/3)+(–1/3)= – 1 stranezza S = –1 e spin 3/2. Tali particella esiste nel nonetto di barioni, ed è la Σ*–. Con un quark per sorte, ossia con UN QUARK UP, UN QUARK DOWN e UN QUARK STRANO si ottiene una particella (priva) di carica q = (+2/3)+(–1/3)+(–1/3)= 0 stranezza S = –1 e spin 3/2 (un barione). Tali particella esiste nel nonetto di barioni, ed è la Σ*0. Ultima combinazione con un quark strano: con DUE QUARK UP e UN QUARK STRANO si ottiene una particella con carica q = (+2/3)+(+2/3)+(–1/3)= +1 stranezza S = –1 e spin 3/2 (un barione). Tali particella esiste nel nonetto di barioni, ed è la Σ*+. Costruiamo le combinazioni con due quark strani 55 Con DUE QUARK STRANI + UN QUARK DOWN si ottiene la particella di carica q = (–1/3)+(–1/3)+(–1/3)= – 1 stranezza S = – 2 e spin 3/2 (un barione). Tali particella esiste nel nonetto di barioni, ed è la Ξ*–. Infine, ultima combinazione Con DUE QUARK STRANI + UN QUARK UP si ottiene la particella (priva) di carica q = (–1/3)+(–1/3)+(+2/3)= 0 stranezza S = – 2 e spin 3/2. Tali particella esiste nel nonetto di barioni, ed è la Ξ*0. Di combinazioni con tre quark ce ne sarebbe un’altra: quella che si ottiene con TRE QUARK STRANI. Essa dovrebbe avere stranezza S = – 3 carica q = (–1/3)+(–1/3)+(–1/3) = – 1 Questa particella non esisteva tra quelle conosciute, o meglio, non era ancora stata scoperta quando fu proposto il “modello a quark”… Ma vuoi vedere che questa particella non è ancora stata scoperta perché non si avevano ancora energie sufficienti a produrla? Era possibile in effetti che questa particella avesse una massa più alta di quelle all’epoca raggiungibili. I ricercatori si misero dunque a cercare negli acceleratori più potenti disponibili all’epoca una particella che avesse queste caratteristiche. Quello che si trovò al Brookhaven National Laboratory in un esperimento fatto con camera a bolle1 in quel 1964, ovvero poco dopo che Gell-Mann e Zweig ebbero proposto il loro modello, fu quello che si vede nelle foto a pagina seguente: 1 La CAMERA A BOLLE è uno strumento di rivelazione di particelle elementari ideato e realizzato per la prima volta da Donald Arthur Glaser nel 1952. È simile per concezione alla camera a nebbia (o di Wilson) del 1899. Lo strumento (facente parte dei rivelatori a ionizzazione) usa una quantità di liquido surriscaldato oltre il punto di ebollizione, quindi molto instabile, e tale da provocare nuclei di ionizzazione con anche piccole perturbazioni dovute a particelle cariche. Quando viene irraggiato con un fascio di particelle, quelle cariche lo ionizzano e provocano l’ebollizione del liquido in prossimità della traccia ionizzata: in questo modo facendo una fotografia nel momento in cui si invia un fascio di particelle si vede una fila di bollicine che corrisponde alla traccia delle particelle cariche. 56 La camera a bolle era ovviamente tenuta in un campo magnetico, in modo da far assumere alle particelle cariche una traiettoria curva dalla cui curvatura risalire alla quantità di moto di ciascuna particella. L’evento, riportato sopra a destra “ripulito” e qui sotto ingrandito mostra quanto segue: vi si vede una particella di carica elettrica negativa (dal disegno non si vede bene, ma se ne può misurare la curvatura) che emette una particella neutra (non la si vede ma… la si evince) e un pione negativo (traccia 4 verso destra). La particella neutra che non si vede poco dopo decade in una Λ0 e una π0, particelle entrambe elettricamente neutre ma il π0 dopo un po’ decade in due fotoni (che è il decadimento tipico del π0, e si può dunque identificare il π0 dai fotoni (7) e (8)) e la Λ decade come al solito in un pione (5) e un protone (6). Ricostruendo la catena di decadimenti si osserva che a ogni decadimento c’è una variazione della stranezza di una unità: dalla Ξ0 che ha stranezza S = – 2 e decade in una Λ0 che ha stranezza S = – 1, che a sua volta decade in particelle senza stranezze. La particella che ha dato origine a questa catena dovrebbe avere stranezza S = – 3… proprio quella che mancava dalla tabella di barioni costruita fino a quel momento. A questa particella fu dato il nome di Ω – ed è l’unica con stranezza pari a – 3. Ecco dunque tutte le combinazioni cui possiamo dare origine coni tre quark fissati all’inizio (escludendo le combinazioni con cariche opposte che vengono identificate con le antiparticelle del nonetto, ormai promosso a decupletto. 57 3.3. I mesoni I mesoni – in quanto adroni, cioè particelle che subiscono l’interazione forte – dovrebbero essere costituiti delle stesse particelle di cui sono costituiti i barioni. Se i barioni subiscono l’interazione forte è perché i quark di cui sono composti subiscono l’interazione forte; e quindi i mesoni, essendo adroni, devono essere costituiti da quark pure loro. I mesoni però, al contrario dei barioni, hanno spin intero. In particolare, nell’ottetto dei mesoni, le particelle hanno tutte spin pari a 0. Un modo per costruire particelle di spin 0 è quello di usare due particelle di spin ½ che possano avere SPIN UP e SPIN DOWN in modo da poter avere una particella che abbia momento angolare totale nullo. Il problema è che mettendo assieme due quark – le particelle necessarie per averne una di spin 0 – non si riesce a costruire una particella di carica +1 oppure –1 oppure 0. Le cariche che si costruiscono sono tutte frazionarie, mentre in natura non si osservano mai cariche che siano una frazione della carica elettrica del protone. Quali sono i mesoni? 58 Abbiamo quattro K, tre π e una η. I due K0 si distinguono l’uno dall’altro perché uno ha stranezza +1 e l’altro ha stranezza – 1: quindi devono essere l’uno l’antiparticella dell’altro. Gli altri due K, quelli carichi, uno positivo e l’altro negativo, si possono considerare l’uno l’antiparticella dell’altro. E così i π– rispetto ai π+: sono particelle perfettamente uguali salvo per la carica elettrica; quindi si possono considerare l’uno l’antiparticella dell’altro. Il π0 e l’η non hanno né carica elettrica né carica di stranezza, quindi devono essere considerati ciascuno l’antiparticella di sé stesso. Dobbiamo quindi riuscire a costruire, con i mattoni che abbiamo ipotizzato essere quelli giusti – i tre quark – le particelle dell’ottetto dei mesoni. Se delle particelle esistono le antiparticelle, è possibile/probabile che dei quark esistano gli antiquark. Un ANTIQUARK sarà una particella la cui carica sarà opposta di quella del quark corrispondente. Nel caso del QUARK ANTI-UP la carica elettrica sarà –2/3 anziché +2/3, il QUARK ANTI-DOWN avrà carica +1/3, come pure il QUARK ANTISTRANO. I quark anti-up e anti-down non avranno nessuna carica di stranezza, mentre il quark antistrano avrà stranezza +1. Possiamo rappresentare queste particelle con la stessa tecnica vista per il decupletto dei barioni, ossia con le LEGO, e con le stesse analogie: il quark ANTI-UP avrà un buco al centro profondo 2 unità, mentre il quark ANTIDOWN sarà una piccola torre quadrata alta 1 unità, così come l’ANTI-STRANO cui sarà anche aggiunto un bordo di stranezza. Cerchiamo quindi di comporre quark (di spin ½) con anti-quark (di spin –½) in modo da avere particelle di spin nullo… e costruire l’ottetto di mesoni! Cominciamo con il K0: esso ha q = 0 e S = +1: dobbiamo utilizzare un anti-quark strano; per far sì che la carica totale sia nulla dobbiamo mettergli vicino un quark di carica – 1/3, cioè un anti-down. Quello che otterremo sarà il K0. 59 Se invece mettiamo assieme un ANTI-STRANO + UP si ottiene una particella di carica q = + 1 e stranezza S = +1 Questa è il K+. La particella STRANO + ANTISTRANO corrisponderà a una particella di stranezza S = 0 e carica q = 0. Abbiamo così costruito … una π o una η? Sulla base della composizione degli altri pioni (che vedremo tra un attimo), possiamo dedurne che si tratta di una particella η, particella priva di stranezza ma i cui componenti portano una carica di stranezza. 0 Il π0 si può invece considerare la combinazione di un u u , oppure di un d d . Sarebbe anche possibile che π0 fosse un s s , ma questa è una combinazione molto speciale che non ha partner carichi, come invece li ha il π0, come vedremo tra poco. Delle due combinazioni che danno origine al π0 qual è quella corretta? Se queste due combinazioni sono diverse… esiste una terza particella priva di stranezza e priva di carica elettrica? No, non si trova nessuna particella che abbia q = 0 e S = 0 diversa dal π 0 e diversa dall’η. Sappiamo che in meccanica quantistica uno stato può essere la sovrapposizione di stati diversi: lo stato u u si mescola allo stato d d per dare lo stato π0, che quindi è considerato una sovrapposizione dei due stati: non c’è modo di distinguerli dal punto fisico, i due stati sono indistinguibili fra loro. Nel caso invece dell’ s s qualcosa cambia perché i costituenti hanno una carica di stranezza. Il π0 è una combinazione lineare degli stati u u e d d . Le altre combinazioni possibili di due quark sono la UP+ANTI-DOWN ( u d ) e la sua antiparticella costituita da DOWN+ANTI-UP ( d u ), rappresentate qui sotto. 60 La prima ha carica q = +1, la seconda ha carica q = – 1 ed entrambe hanno carica di stranezza nulla, S = 0, poiché non vi è nessun quark strano in esse. Queste particelle si possono dunque interpretare come il π+ e il π –. Poiché entrambe non contengono quark strani riteniamo che anche il π0 non contenga quark strani. Le ultime due combinazioni possibili di quark e antiquark sono la s d e la s u Esse danne luogo entrambe a particelle con stranezza S = – 1 perché contengono un quark s. La prima ha carica q = 0 mentre la seconda ha carica q = – 1. La prima dunque è l’antiparticella di K0. La seconda è la K – . Ricapitolando dunque: i mesoni sono costituiti da un quark e un antiquark. Devono essere costituita da quark perché i quark sono i costituenti dei barioni a spin 3/2 che sentono l’interazione forte; questo vuol dire che sono i quark a subire l’interazione forte; e poiché i mesoni, particelle di spin ½, subiscono anch’essi l’interazione forte (cioè sono adroni), devono anch’essi essere costituiti da quark. Con tre quark però non si possono fare particelle di spin 0. Si potrebbero fare con due particelle, ma con due non si riescono a fare le particelle di carica +1, 0 o –1; l’unica possibilità è quella di usare particelle e antiparticelle in modo che le cariche dell’una possano annullare le cariche dell’altra. Nell’ottetto di mesoni non facciamo dunque che combinare quark e antiquark, e le possibili combinazioni sono nove ma due di esse danno origine allo stesso mesone in quanto indistinguibili tra loro. Tra le otto combinazioni ci sono quelle che danno luogo ai quattro K, due neutri e due carichi; i due neutri hanno stranezza opposta, uno +1 e l’altro – 1 perché contengono rispettivamente un quark antistrano e un quark strano. Invece le particelle senza stranezza sono le π0, le π+, le π– e le η. Le π+ e le π– sono uno l’antiparticella dell’altro perché sono la combinazione di un quark e un antiquark di specie diversa: questo permette di costruire particelle con carica elettrica diversa da 0. Le tre combinazioni possibili che danno una particella neutra sono u u , d d e s s ; poiché il π+ e il π– non hanno stranezza, sembra ragionevole ipotizzare che il π0 non contenga alcun 61 quark strano, e quindi dovrebbe essere o u u o d d : queste due combinazioni sono però del tutto equivalenti al fine di ogni misura che si possa eseguire, quindi sono di fatto indistinguibili l’una dall’altra sperimentalmente; d’altra parte in meccanica quantistica esiste il principio di sovrapposizione, cioè uno stato può essere la sovrapposizione di più stati: lo stato π0 si può interpretare come la sovrapposizione ovvero come la combinazione lineare di due stati, uno composto da u u e l’altro da d d : a seconda della misura che si esegue si può vedere l’uno o si può vedere l’altro; in effetti noi vediamo sempre una combinazione dei due stati e non possiamo distinguerli tra di loro. Appare altrettanto ragionevole assegnare la combinazione s s alla particella η, della quale non esistono versioni cariche (in generale costituite da quark di specie diversa); d’altra parte la η non ha nemmeno lei alcuna carica di stranezza, ma il motivo in questo è perché è composta di quark di stranezza opposta. Quesito: di cosa sono composti i mesoni? a. di due quark b. di un quark e un antiquark c. di un quark e un antiquark dello stesso sapore [La risposta corretta è la b.] Ricapitolando (in orizzontale la stranezza, in diagonale la carica). questa è la composizione dei mesoni. us K d s K0 u u 0 d d 0 s s d u su K ud S= 0 sd K0 62 S = +1 S = –1 3.4. I barioni a spin ½ Abbiamo visto nel 3.2. che il decupletto di barioni a spin 3/2 si spiega semplicemente con la combinazione di tre quark: UP, DOWN e STRANGE. L’ottetto di mesoni si spiega con le stesse particelle ma combinate in maniera diversa con gli ANTIQUARK. Sperimentalmente si è osservata però anche l’esistenza di un ottetto di barioni a spin ½. Si possono ottenere particelle di spin ½ combinando tre quark di spin ½? Certo, è sufficiente che due dei tre abbiano spin di somma pari a 0 Quindi possiamo spiegare l’ottetto di barioni a spin ½ con la stessa tecnica del modello a quark. Ma a differenza del decupletto di barioni a spin 3/2 qui ne abbiamo solo otto. Come si legge l’ottetto? In diagonale la carica, in orizzontale la stranezza (prima riga S = 0, seconda riga S = – 1, terza riga S = – 2) Poiché lo spin è ½ due quark devono avere spin SU e uno deve avere spin GIÙ. Come nel caso del decupletto dei barioni a spin 3/2, ci aspetteremmo di trovare dei barioni a spin ½ che si distribuiscono su una tavola triangolare simile: ovvero quella del disegno a sinistra: 63 Invece quello che si trova è la tavola a destra, che ha la forma di un esagono. Perché i barioni a spin 3/2 sono dieci e quelli a spin ½ sono solo otto? Per capirlo possiamo sovrapporre le due tavole: notiamo che c’è una certa somiglianza: nel decupletto dei primi ci sono quattro particelle prive di stranezza e con carica che va da –1 a + 2, mentre nell’ottetto dei secondi se ne trovano solo due, con gli stati di carica 0 e +1. Le particelle con stranezza S = – 1 compaiono nella stessa disposizione, se non nello stesso numero. Non ci interessa tanto il numero quanto le combinazioni cui si dà luogo in questo caso. Anche le Ξ della terza riga si corrispondono (nel decupletto abbiamo le “star”). Manca invece la combinazione che nel decupletto era stata attribuita alla Ω–. Osservando attentamente la sovrapposizione dei due diagrammi si nota che nell’ottetto mancano i vertici del triangolo del decupletto. Le combinazioni Δ–, Δ++ e Ω– non sono 64 combinazioni casuali: sono in effetti combinazioni molto speciali: sono le tre combinazioni costituite da tre quark uguali: d d d u u u s s s Quindi nell’ottetto di barioni a spin ½ si hanno esattamente le stesse combinazioni che si avevano nel decupletto dei barioni a spin 3/2 ma mancano quelle di tre quark tutti uguali. Non è così strano che manchino proprio quelle; piuttosto non è normale che esistano nel decupletto: i quark infatti sono particelle a spin ½, sono cioè fermioni, e obbediscono al principio di Pauli: “Non ci possono essere due o più particelle di spin semintero che si trovino nello stesso stato”. Quindi non sono “normali” le combinazioni d d d , u u u , s s s , vietate dal principio di Pauli. Com’è che allora le abbiamo trovate nel decupletto dei barioni a spin 3/2? La soluzione al problema della loro esistenza verrà dall’ipotesi dei cosiddetti “quark colorati”. 3.5. Teoria del colore. Riscriviamo la combinazione u u u nel seguente modo: 65 I tre quark hanno la massa del quark UP e dunque hanno la stessa energia (immaginiamo che i quark siano fermi all’interno della particella), hanno la stessa carica elettrica pari a +2/3, la stessa stranezza S = 0, lo stesso momento angolare pari a ½ e, a differenza dell’ottetto di barioni a spin ½, hanno anche uguale la terza componente del momento angolare. Ma per il principio di esclusione di Pauli due fermioni non possono occupare lo stesso stato: non è possibile; invece è possibile perché le due particelle uguali hanno spin opposto. Quindi non è che manchino delle combinazioni nell’ottetto dei barioni a spin ½, ma ce ne sono di troppe nel decupletto dei barioni a spin 3/2. Ma se vengono osservate significa che deve essere possibile costruirle. Se la combinazione esiste, e se vogliamo salvare il principio di Pauli, dobbiamo assumere che le tre particelle siano tra loro distinguibili per qualche altra caratteristica: se sono distinguibili per una caratteristica che non sia la carica, la stranezza o lo spin ma un “nuovo tipo di carica” allora non si trovano nello stesso stato. Questa “nuova carica” però non è mai stata osservata. Occorre pensare a una “nuova carica” che non sia osservabile attraverso gli esperimenti, e che perciò sia “interna” al quark. E dovendo occupare i tre quark lo stesso stato per quel che riguarda gli altri parametri, abbiamo bisogno di tre stati di questo “nuovo tipo di carica”. Non essendo la fantasia dei fisici così straordinaria, a questo nuovo tipo di carica si attribuì il nome di colore: esistono dunque quark in tre diversi stati di colore: ROSSO, VERDE e BLU. è dunque una combinazione possibile. Questa carica di colore non riusciamo mai a vederla negli esperimenti, non è “esposta” agli esperimenti, non vi è cioè nessuna interazione che sia proporzionale a questa carica di colore. Dobbiamo allora ipotizzare che le uniche combinazioni possibili siano quella la cui somma di colore sia sempre pari a 0. Ad esempio, la particella Σ0, che ha stranezza pari a – 1, e nessuna carica elettrica, dovrà essere immaginata come composta da tre quark di colore diverso, ad esempio 0 d rosso uverde sblu Non sappiamo ancora perché succede questo ma sappiamo che deve essere così perché è l’unico modo di spiegare l’esistenza di queste combinazioni e il fatto che questa carica di colore non si riesce a misurare in nessun modo. È anche abbastanza evidente – o 66 perlomeno c’è il sospetto – che questa carica di colore sia effettivamente la carica che permette l’interazione forte tra particelle: in fondo, tutte le particelle formate da quark sono adroni, che sentono l’interazione forte; e come l’interazione gravitazionale ha come sorgente la massa, e l’interazione elettrica ha come sorgente la carica elettrica, così anche l’interazione forte avrà una sorgente che molto probabilmente è la carica di colore. L’interazione forte tra due protoni deve dipendere dunque dall’interazione forte dei loro quark che interagiscono per la loro carica di colore. Possiamo cioè pensare alla forza attrattiva tra due protoni come a una sorta di forza di Van der Waals non di tipo elettromagnetico ma di tipo forte. La forza forte che lega i protoni è quello che si “vede” all’esterno del singolo protone: sarà un’interazione un po’ più debole di quella che esiste tra quark all’interno di uno stesso protone ma abbastanza grande da tenere insieme i protoni nel nucleo. Perché gli effetti di questa interazione di colore non si sono mai visti? Facendo degli esperimenti dovrei riuscire a vedere delle particelle di carica frazionaria e persino colorate… ma qualunque esperimento si faccia non consente di trovare una particella di questo tipo. Si immagina allora che esista un qualche meccanismo di confinamento che fa sì che i quark delle particelle fisiche che si osservano non possano uscire dalle particelle medesime, per cui non si possono osservare liberi. Questo fatto inizialmente fece pensare che questi quark non fossero delle particelle fisiche realmente esistenti ma fossero solo un artificio matematico. Vedremo però più avanti che i quark esistono in quanto tali e si può spiegare il loro meccanismo di confinamento per cui quello che possiamo vedere nei rivelatori non sono mai quark liberi ma soltanto particelle (combinazioni di questi quark) prive di qualunque carica di colore. Naturalmente questo sarà vero anche per i mesoni, dove le due particelle di cui sono costituiti, un quark e un antiquark, dovranno anch’esse essere colorate con colori a somma nulla (=bianco), ad esempio un quark rosso e l’altro anti-rosso, oppure uno blu e l’altro anti-blu. Quesito: cosa distingue i barioni dell’ottetto da quelli del decupletto? a. La composizione in termini di quark b. Il numero di quark di cui sono composti c. Lo spin delle particelle [La risposta corretta è la c.] 3.6. Nuovi quark Col passar del tempo si fecero nuovi esperimenti che condussero alla scoperta di nuovi quark. Non è così utile andare a vedere come furono scoperti i singoli nuovi quark: il meccanismo è lo stesso che ha condotto alla scoperta dei quark appena conosciuti, cioè attraverso esperimenti nei quali si facevano collidere degli adroni con dei nuclei atomici, producendo nuove particelle che poi decadono. Osservando i prodotti di decadimento e 67 calcolando la loro massa invariante si osservano dei picchi, che corrispondono alla particella di cui sono figlie i prodotti del decadimento. La particella J / Samuel C. C. Ting e il suo gruppo (1974) con il manifesto che mostra il picco di massa invariante osservato nell’acceleratore presso cui si teneva l’esperimento Facendo esperimenti con acceleratori più potenti nel 1974 il gruppo di Samuel Ting vide comparire un nuovo picco a energie più alte di quelle che si erano osservate in precedenza: la nuova particella fu chiamata J / (gei-psai). Non se ne poteva spiegare l’esistenza alla luce del modello a quark messo a punto fino a quel momento, avendo già esaurito tutte le possibili combinazioni; la nuova particella doveva essere costituita di nuovi quark: J / è una particella neutra a spin 0 e non ha carica di stranezza: doveva quindi essere costituita da un quark e un antiquark privi di quella che in gergo è chiamata carica di sapore, cioè i due quark non dovevano essere né un UP, né un DOWN né uno STRANGE; la J / venne pertanto interpretata come combinazione di un quark chiamato CHARM e del suo antiquark, l’ANTICHARM: J / cc La CHARM ha q = + 2/3 S=0 C = 1. Questa particella non fu trovata per caso ma venne cercata perché era stata predetta da tre fisici, di cui uno italiano: Sheldon Lee Glashow John Iliopoulos 68 Luciano Maiani i quali, analizzando i decadimenti delle particelle fino ad allora conosciuti, avevano concluso – per spiegare i rapporti relativi dei tempi di decadimenti di queste particelle – che doveva esistere un quarto quark oltre ai tre conosciuti fino allora; questo quarto quark venne attivamente cercato. La sua scoperta venne in realtà fatta indipendentemente da due gruppi di ricerca, uno allo Stanford Linear Accelerator Center, capeggiato da Burton Richter, e uno al Brookhaven National Laboratory, condotto da Samuel Ting al MIT, un gruppo la chiamò J e l’altro la chiamò Effettivamente notarono di aver scoperto la stessa particella e entrambi i gruppi annunciarono le loro scoperte l’11 novembre 1974. L’importanza di questa scoperta è evidenziata dal fatto che la successiva serie di rapidi cambiamenti nella fisica delle particelle del tempo divenne nota come la “rivoluzione di novembre”. Richter e Ting vennero premiati per la loro scoperta condivisa con il Premio Nobel per la fisica nel 1976. La particella Υ Alcuni anni più tardi si scoprirono altre particelle di massa ancora più pesante. Nel 1977 al Fermi National Accelerator Laboratory, noto anche come Fermilab, un gruppo di ricercatori guidato da Leon Lederman, scoprì – attraverso l’osservazione nei decadimenti di coppie di muoni – uno stato risonante a una massa pari a 9,5 GeV non compatibile con nessun oggetto precedentemente noto (vedi disegno a destra). Di nuovo non si poteva costruire utilizzando i quark scoperti fino a quel momento: non aveva stranezza, aveva carica nulla, era un mesone (che fu chiamato upsilon)… aveva tutta una serie di caratteristiche che già erano appannaggio di altre combinazioni: doveva essere la combinazione di un quark e di un antiquark di nuova generazione che fu chiamata BOTTOM o BEAUTY. Tale quark era stato teorizzato nel 1973 dai fisici Makoto Kobayashi e Toshihide Nello schema si vedono i diversi picchi ascissa la massa invariante e in Maskawa per spiegare la violazione della simmetria (in ordinata la sezione d’urto) della nuova CP. particella che venne chiama ypsilon bb 69 Il BOTTOM ha q = – 1/3 S=0 C=0 B= – 1 Oltre all’UP, al DOWN e al STRANGE, esistono dunque anche il quark CHARM e il quark BOTTOM o BEAUTY. La particella Oltre alle particelle appena citate, che sono adroni perché formate dall’urto di altri adroni, in una serie di esperimenti condotti tra il 1974 e il 1977 da Martin Lewis Perl e dai suoi colleghi allo SLAC fu scoperta la particella TAU. (Lewis Perl ricevette per essi il premio Nobel nel 1995, che condivise con Frederick Reines. Quest’ultimo vinse il premio per la scoperta del neutrino.) A differenza di quelle sopra, il TAU non interagisce per interazione forte ma solo elettromagneticamente o debolmente: è dunque un LEPTONE. Il TAU può trovarsi in soli due stati di carica (come l’elettrone e il muone) e dato che in tutto e per tutto assomiglia all’elettrone e al muone si assume che anche per la TAU esista un neutrino specifico, di sapore “tau”, il quale deve esistere nei due stati di neutrino e di antineutrino ciascuno con numero leptonico opposto all’altro. m 2 m p e e 70 3.7. Test ed esercizi Quante diverse specie di neutrini esistono? a. una sola b. tre c. sei d. otto e. due [La risposta corretta è la b. Non confondere le specie (o sapori) con i possibili stati, due per ciascun neutrino.] Dall’analisi dei decadimenti delle particelle strane Glashow, Iliopoulos e Maiani predissero l’esistenza di una particella. Quale? a. Il positrone b. Il leptone τ c. Il barione Ω− d. Il quark c e. Il quark b [La risposta corretta è la d. Essi previdero l’esistenza della particella J/Ψ che fu pensata composta di c e anti-c] Se rappresentiamo un quark s con mattoncini per le costruzioni dei bambini in modo che assuma la forma di una U con 4 unità di lato, come si rappresenta un quark s¯? a. Con un rettangolo 2×1 b. Con un quadrato di due unità c. Con un rettangolo 3×2 d. Esattamente come il quark s e. Con un quadrato di 4 unità di lato [La risposta corretta è la c.] Quanto valgono i numeri quantici di stranezza, charm e bellezza della particella J/Ψ? a. S=0; C=0; B=-1 b. S=1; C=0; B=-1 c. S=-1; C=0; B=1 d. S=0; C=0; B=0 e. S=0; C=0; B=1 [Il quark bottom ha bottomness = – 1, il quark antibottom ha bottomness = 1. La risposta corretta è la d.] Per quale motivo non esistono adroni a spin 1/2 che occupano i vertici del triangolo nel diagramma qS? a. Per il principio di Pauli b. Non ci sono quark che abbiano i giusti numeri quantici c. Per la conservazione del momento angolare d. Perché non c'è modo di combinare quark in modo da costruire adroni di spin 1/2 che abbiano le caratteristiche richieste e. Perché si tratta di particelle molto instabili [La risposta esatta è la a.] Quale tra questi decadimenti è permesso? 71 a. b s b. b c e e b d e e d. b c e e. b s c c. [Il bottom ha q= – 1/3, come lo strange e il down. Il quark charm ha q= +2/3. Muoni ed elettroni negativi hanno q = – 1. In a. c. d. e. non si conserva la carica.] 72 Cap. 4 Teoria delle interazioni fondamentali Questa è dunque la situazione fino a questo momento (anno 1976) In questo capitolo affronteremo i seguenti argomenti: 1. Teoria delle interazioni fondamentali. 2. Diagrammi di Feynman. 3. Fotoni virtuali 4. L’equazione di Dirac. 5. I positroni 6. Riassunto 7. Elettrodinamica quantistica 8. Fabbrica di particelle 9. La QED dei fotoni liberi 10. Analogie Se vogliamo capire il panorama delle particelle elementari che abbiamo scoperto fino adesso dobbiamo comprendere di più come avvengono le interazioni a livello microscopico, dobbiamo cioè elaborare una teoria delle interazioni fondamentali. Lo scopo di questo corso esula dalla possibilità di spiegare in maniera esaustiva e rigorosa tutta la teoria delle interazioni tra le particelle elementari: occorrerebbe un corso di livello universitario. Ci limiteremo a dare delle informazioni abbastanza precise e circostanziate ma non completamente rigorose che però dovrebbero essere sufficienti a comprendere quello che si trova scritto sui siti web, su wikipedia… a scopo più o meno divulgativo e a fornire qualche spunto per trovare una maniera di veicolare questi contenuti agli studenti. Per introdurre una teoria delle interazioni fondamentali quello che dobbiamo fare è, dal punto di vista quantistico, trovare la descrizione di un processo in cui abbiamo uno stato iniziale che in seguito a una interazione si trasforma in uno stato finale diverso: Ad esempio, nello stato iniziale potremmo avere un pione negativo e un protone e nello stato finale potremmo avere la produzione di una Λ e di una K nella produzione associata. Questa trasformazione da uno stato iniziale a uno stato finale in meccanica quantistica è rappresentabile come l’azione di un operatore S che esegue la trasformazione: f S i 73 Nel caso in cui lo stato finale sia uguale allo stato iniziale, cioè nel caso in cui non ci sia stata alcuna interazione l’operatore è semplicemente l’operatore-identità, cosa non particolarmente interessante. Ciò che interessa invece è riuscire a scrivere S in modo da rappresentare l’operazione che trasforma lo stato iniziale in uno stato finale diverso. Cosa si fa di solito negli esperimenti? Ad esempio si misura la sezione d’urto della produzione di una Λ e di una K dall’urto di un pione e di un protone. Il modulo-quadro del prodotto matriciale (una probabilità) andrà correlato con ciò che si osserva f Si 2 Partiamo da un processo più semplice per capire come è fatta S: la diffusione di due elettroni. Supponiamo di avere due elettroni nello stato iniziale con quantità di moto diverse, indicate rispettivamente con p e con q. i e p eq Supponiamo che questi elettroni stiano andando l’uno contro l’altro: a un certo istante la loro distanza sarà così piccola da rendere abbastanza forti le forse di tipo elettrostatico repulsive per cui questi due elettroni tenderanno a respingersi e cambieranno direzione e dunque anche quantità di moto. La prima cosa da far sparire (dal punto di vista formale) è far sparire i due elettroni iniziali, cioè applicare uno dopo l’altro due operatori-distruzione (indicati con l’apice negativo), p q i 0 uno, quello a destra, che distrugge l’elettrone con quantità di moto q, l’altro, quello a sinistra, che distrugge l’elettrone con quantità di moto p. Rimaniamo con uno stato di “vuoto” rispetto alle particelle dello stato iniziale; queste particelle non possono però sparire: nello stato finale osserviamo ancora due particelle, che però hanno quantità di moto diverse. Per produrre lo stato finale dobbiamo quindi introdurre due nuovi operatori, di creazione (indicati con l’apice +) di elettroni con quantità di moto q’ e p’: p' q' p q i e p 'eq ' Applicando in sequenza i quattro operatori, ritroviamo nello stato finale i due elettroni con quantità di moto q’ e p’. S però non può contenere soltanto operatori di distruzione e creazione di particelle, perché se ci fossero solo le particelle queste non potrebbero interagire: la distruzione e la successiva creazione di particelle non è quello che si osserva nell’universo: le particelle hanno bisogno di un campo per interagire, un campo che cambi la quantità di moto di 74 queste particelle. La presenza del campo è indicata dalla Π che è funzione della posizione delle particelle che interagiscono, x e x’. Π in realtà non è funzione della posizione delle particelle ma della loro distanza relativa: x x'p' q' p q i f quando le particelle sono abbastanza vicine, cioè quando x – x’ è abbastanza piccola, l’interazione diventa abbastanza intensa da produrre il cambiamento della loro quantità di moto. Dunque, l’operatore S che descrive tutto il processo deve essere rappresentato dalla combinazione di due operatori di distruzione di elettroni, seguiti da due di creazione di elettroni e da un operatore che rappresenta l’interazione tra gli elettroni. Cerchiamo di dare una veste grafica a questa sequenza di operazioni, anche per schematizzare e rendere più semplice l’interpretazione del tutto: due linee orientate l’una verso l’altra rappresenteranno lo stato iniziale: indicheranno in qualche modo la quantità di moto dei due elettroni, ovvero la direzione verso cui si stanno muovendo; le linee vanno l’una verso l’altra. Dobbiamo immaginare che il tempo scorra verso destra. Man mano che passa il tempo la distanza tra i due elettroni diventa via via più piccola, dopodiché le due particelle vanno distrutte: quando agiscono gli operatori di distruzione le linee spariscono Quando si applica l’operatore di creazione dei due nuovi elettroni dobbiamo di nuovo disegnare due linee, che devono però avere direzioni diverse, quelle della quantità di moto q’ e p’ risultanti dall’interazione: gli elettroni che prima si stavano avvicinando ora si allontanano: 75 Per rappresentare l’interazione tra i due elettroni possiamo mettere una linea ondulata (indicata con γ) che colleghi le due parti del grafico e che rappresenti l’operatore Π, il quale dipenderà dalla distanza (x – x’) tra le due particelle che stanno interagendo: Come si può interpretare l’operatore Π? Visto che gli operatori che danno luogo alle linee che rappresentano i fermioni che stanno interagendo sono delle linee di fatto rappresentabili dal punto di vista formale come degli operatori di creazione e di distruzione di qualcosa (in questo un elettrone), in questo caso possiamo immaginare di aver creato un oggetto con un opportuno operatore A+ nel punto x (quello in alto) e di averlo poi distrutto con l’operatore A– nel punto x’ (che è quello in basso) Dal punto di vista classico non c’è un punto in cui avviene l’interazione, l’interazione avviene lungo tutta la traiettoria. Ma dal punto di vista quantistico posso immaginare, dato che la posizione, per esempio, è qualcosa che non posso misurare, che l’interazione avvenga nel momento in cui un elettrone si trova in x e l’altro in x’. La linea ondulata potrebbe rappresentare una qualche particella che viene creata da un opportuno operatore nel punto x in alto dove il primo elettrone cambia la sua quantità di moto e viene poi distrutta da un altro opportuno operatore nel punto x’, in basso, dove è l’altro elettrone che cambia la sua quantità di moto. Π deve quindi contenere due operatori, uno di creazione e uno di distruzione, che devono agire tra due stati di vuoto, in quanto la linea ondulata deve essere creata e distrutta prima di poter essere osservata sperimentalmente. L’espressione prodotto di due operatori di creazione e distruzione tra due stati di vuoto A+(x)A–(x) si chiama “PROPAGATORE DEL CAMPO”. Quesito: come si rappresenta un’interazione in fisica delle particelle? a. Come un operatore, o un prodotto di operatori, che agendo sullo stato iniziale lo trasformano nello stato finale b. Con un vettore che rappresenta una forza 76 c. Come la produzione, da parte di ciascuna particella di materia, di un campo che modifica le proprietà dello spazio circostante la particella [La risposta esatta è la a.] 4.2. Diagrammi di Feynman Richard Feynman (1918 – 1988) Un disegno come quello a destra è un “diagramma di Feynman”: è una serie di linee in cui ogni linea dritta rappresenta una particella di materia, ogni linea ondulata rappresenta il campo, il punto in cui il campo si connette alla particella di materia è il punto dove avviene l’interazione. Nella figura sopra è rappresentata l’interazione elettrostatica tra due elettroni: quando sono giunti a una distanza sufficientemente breve interagiscono per mezzo del campo (linea ondulata), quindi si allontanano l’uno dall’altro. Tali diagrammi prendono il nome dal fisico che li ha inventati e la loro importanza è fondamentale nella fisica delle particelle: non sono semplicemente dei disegnini che illustrano in maniera schematica quello che succede a livello di interazione di tipo quantistico tra le particelle ma sono un vero e proprio strumento matematico: a ciascuna linea di un diagramma di Feynman si può associare una operazione matematica che i fisici teorici sanno combinare opportunamente per ricavare informazioni preziose sulla probabilità che un determinato processo avvenga; sono quindi espressioni matematiche il cui modulo quadro fornisce la probabilità che avvenga la transizione dallo stato iniziale (rappresentato alla sinistra del diagramma) allo stato finale (rappresentato nella parte destra). 77 Le linee dritte rappresentano gli elettroni che stanno interagendo; la linea ondulata rappresenta l’interazione. Che tipo di interazione è? Di fatto potremmo immaginare gli operatori di creazione e distruzione che producono quella linea ondulata come un operatore di creazione e distruzione di una qualche particella che rappresenta la propagazione del campo. Che particella deve essere quella che dà luogo all’interazione che stiamo analizzando? L’interazione che stiamo analizzando è una interazione di repulsione elettrostatica tra elettroni. Noi sappiamo, dagli esperimenti fatti con l’elettroscopio, che particelle elettricamente cariche come gli elettroni interagiscono attraverso il campo elettrico; e se si prende una particella carica e la si fa muovere (una corrente) si produce un campo magnetico; particelle cariche in movimento sono sensibili agli effetti di un campo magnetico che si trova in una certa regione di spazio; quindi sappiamo dalla fisica classica che gli elettroni interagiscono tra loro attraverso quello che oggi chiamiamo campo elettromagnetico: la linea ondulata nel diagramma di Feynman deve quindi (in qualche modo) rappresentare il campo elettromagnetico. Sappiamo – dagli esperimenti di diffrazione della luce – che la luce è un’onda; di che tipo? Ce lo dicono le equazioni di Maxwell (1831 – 1879), che teorizzano che campi E e B possono propagarsi attraverso un’onda elettromagnetica E 0 B 0 B E 0 t E B 0 0 t NEL VUOTO B 2 2 c B 0 2 t 2E 2 2 c E 0 2 t 2 La velocità dell’onda elettromagnetica è proprio la velocità della luce, c. È immediato associare a un’onda luminosa un’onda elettromagnetica: quindi il campo magnetico deve essere presente all’interno della luce. D’altra parte, dalla meccanica quantistica, sappiamo che, se prendiamo un elettroscopio carico e lo illuminiamo con una luce di frequenza sufficientemente elevata, esso si scarica (per effetto fotoelettrico). Nel corso di meccanica quantistica abbiamo visto che questo fenomeno portò Einstein a ipotizzare l’esistenza dei quanti di luce, o fotoni. Riassumendo: la luce “contiene” il campo elettromagnetico, il quale è responsabile dell’interazione fra elettroni; la luce è un flusso di fotoni: la conclusione è che l’oggetto scambiato tra i due elettroni interagenti deve essere un fotone. Come si legge allora il diagramma di Feynman: i due elettroni che si stanno avvicinando l’un l’altro si scambiano a un certo punto un fotone: uno dei due elettroni “cede” un 78 fotone e, per la conservazione della quantità di moto la sua quantità di moto cambierà, e cambierà quindi direzione; l’altro elettrone assorbe il fotone “lanciato” dall’altro, assorbe la sua energia e quantità di moto e potrà a sua volta cambiare direzione… per cui da uno stato in cui ci sono due elettroni con quantità di moto p e q giungiamo a uno stato in cui ci sono due elettroni con quantità di moto p’ e q’. L’oggetto A(x) che dobbiamo mettere nel propagatore dei diagrammi di Feynman – pezzo che costituisce parte integrante dell’operatore S che consente di trasformare lo p ' , q ' S p, q stato iniziale nello stato finale secondo la rappresentare il campo elettromagnetico. – deve in qualche modo A(x) = campo (di bosoni) Tutte le particelle che rappresentano un campo devono essere dei bosoni (con spin intero)… perché per i bosoni non vale il principio di Pauli. Se valesse per loro il principio di Pauli non potrebbero stare nello stesso stato; noi sappiamo invece che se ci sono più sorgenti di campo, in un punto preciso dello spazio devono agire i campi prodotti dalle varie sorgenti (principio di sovrapposizione), campi nello stesso stato dal punto di vista classico; dal punto di vista quantistico dobbiamo immaginare che vi siano bosoni prodotti da sorgenti diverse che arrivano nello stesso punto dello spazio con identiche caratteristiche e dunque con lo stesso stato di energia, quantità di moto… I campi dunque che rappresentano delle interazioni devono essere associati a bosoni. Le particelle che interagiscono sono invece dei fermioni. Nella rappresentazione dei diagrammi di Feynman e anche dal punto di vista matematico i fermioni (ogni elemento del diagramma di Feynman può essere tradotto in un preciso operatore matematico che poi permette di calcolare l’ampiezza di probabilità di una transizione) sono rappresentati da operatori del tutto simili (a parte dettagli irrilevanti) a quelli che traducono le linee ondulate del campo. E come le onde possono diventare particelle in meccanica quantistica, così le particelle possono diventare onde secondo la relazione di De Broglie: p mv Dunque le particelle rappresentate nei diagrammi di Feynman come linee dritte sono pensabili in meccanica quantistica come onde che si propagano esattamente come fanno i campi: Ψ(x) = campo (di fermioni) Non vi è dunque nessuna differenza – nel formalismo che andremo ad adottare – tra il campo di un fotone e il campo di un elettrone, cambiano solo i dettagli di come vengono scritti gli operatori corrispondenti. 79 4.3. Fotoni virtuali Ruotiamo leggermente il diagramma di prima per dare maggiormente il senso del tempo che trascorre verso destra Lo scorrere del tempo è in realtà del tutto irrilevante in un diagramma di Feynman che è, per i fisici teorici, soprattutto uno strumento di calcolo che associa a ciascuna linea l’operatore giusto. L’elettrone in alto a sinistra a un certo punto cambia direzione perché emette un fotone, il quale porta via una parte della quantità di moto iniziale dell’elettrone, il quel dunque, per effetto della conservazione della quantità di moto, deve cambiare direzione. Nel frattempo si sta avvicinando a questo elettrone un altro elettrone, proveniente dalla sinistra in basso, che intercetta il fotone emesso dal primo elettrone, lo assorbe e ne assorbe la quantità di moto, deviando così anch’esso la sua velocità Siamo sicuri che l’oggetto che sta lì in mezzo è un fotone identico a quelli che stanno in un’onda elettromagnetica (quelli che abbiamo ritenuto responsabili dell’effetto fotoelettrico)? No… non è identico! I fotoni sono particelle a massa nulla e i fotoni che vengono scambiati tra elettroni nei diagrammi di Feynman non possono avere massa nulla. Vediamo perché. pi , Ei p f , E f p , E è la conservazione del quadrimpulso; se si conserva il quadrimpulso si conserva anche il quadrimodulo: a sinistra esso è pari a E2 – 80 p2 (cioè la massa dell’elettrone) mentre a destra avrò il quadrato del primo quadrimpulso (di nuovo la massa dell’elettrone) più il quadrato del secondo (il quadrimpulso del fotone è nullo se ipotizziamo che la massa di questi fotoni sia nulla) più il doppio prodotto dei due quadrimpulsi calcolato col prodotto scalare della cinematica relativistica. m m 2 E f E 2 p f p 2 2 da cui otteniamo: E f E p f p cos E f E E 2f m 2 E cos eliminiamo il fattore in comune e quadriamo: E 2f E 2f m2 cos2 E 2f 1 cos2 m2 cos2 m 2 cos2 E 1 cos2 2 f Questa espressione è priva di senso perché l’energia finale (al quadrato) dell’elettrone dovrebbe essere negativa… Questo ci dice che il fotone scambiato non è un fotone perfettamente identico a quelli che compongono l’onda elettromagnetica; il fotone scambiato deve essere un FOTONE MASSIVO. Come tale, esso non può esistere per un tempo indefinito: noi non osserviamo mai fotoni dotati di massa. Questi elettroni, una volta emessi, devono necessariamente essere “raccolti” da qualcuno, da qualche elettrone nelle vicinanze; se non vi è nessun elettrone nelle vicinanze deve essere “rimangiato” dallo stesso elettrone che lo ha emesso. Dunque i fotoni che costituisco il campo elettromagnetico e ai quali si imputa l’interazione tra particelle cariche non possono di fatto essere osservati. Vengono quindi definiti FOTONI VIRTUALI. I fotoni virtuali non possono essere osservati come tali, ma si può assumere che esistano e calcolare l’ampiezza di probabilità della transizione dallo stato iniziale a quello finale usando le regole di Feynman e questa ampiezza di probabilità, una volta calcolata, coincide quasi esattamente, entro gli errori sperimentali, con quella che viene misurata sperimentalmente. La teoria quindi è consistente. Quella che ci stiamo facendo è l’idea classica di un processo quantistico: può essere utile a suggerire una qualche rappresentazione mentale ma non deve condizionare la nostra visione: ciò che davvero conta sono le equazioni che scriviamo su un pezzo di carta. Di questi fotoni virtuali osservo gli effetti… e quindi li misuro. Quesito: è possibile che un elettrone emetta un fotone cambiando direzione? 81 a. Sì. Gli elettroni interagiscono per interazione elettromagnetica e quindi emettono fotoni b. Solo in presenza di almeno un’altra particella di materia c. No, mai. Non si conserva il quadrimpulso [La risposta corretta è la b.] 4.4. L’equazione di Dirac Come sono fatti gli operatori che rappresentano le linee dei diagrammi di Feynman? Cerchiamo di intuire come sono costruiti nei vari casi. IL FOTONE LIBERO 1 Ax , t V ik x ik x Ak t e A k t e k vi si riconosce l’espansione in serie di Fourier di un segnale periodico: una somma di termini oscillanti con frequenze diverse preceduta da un fattore di normalizzazione. Il fotone libero si propaga come un’onda nello spazio. L’unica differenza rispetto al fotone classico è che i vettori Ak e A– k non saranno semplicemente degli scalari ma degli oggetti più complicati, opportuni operatori di creazione e di distruzione di fotoni, appunto. Poiché il fotone libero classicamente rappresenta un’onda e le onde sinusoidali che sono le componenti di queste somme sono soluzioni dell’equazione dell’oscillatore armonico è chiaro che la propagazione di un fotone libero sarà rappresentabile in termini di operatori di distruzione e creazione di oggetti soluzioni dell’equazione d’onda dell’oscillatore armonico. L’unica differenza rispetto agli oscillatori visti in meccanica quantistica è che qui bisogna considerare oscillatori relativistici. Il fotone libero dunque non è altro che un oggetto che ha l’aspetto matematico di un’onda che si propaga più o meno liberamente. Se il fotone libero è una sovrapposizione di onde sinusoidali, il fotone virtuale è la sovrapposizione di tutte le possibili onde che conservano il quadrimpulso scambiato nell’interazione. L’ELETTRONE LIBERO L’elettrone soddisfa l’equazione E 2 p 2 m2 che posso riscrivere come p E m 0 In meccanica quantistica quella p, quella E e quella m non sono semplici numeri ma sono degli operatori 2 a p x 2 2 x a y p y a z p z at E bm 0 2 Se questa quantità vale sempre zero significa che l’operatore associato vale sempre zero. 82 In meccanica quantistica la quantità di moto è i moltiplicato per il gradiente (stiamo parlando in unità di ħ, c = 1) e l’energia è la derivata rispetto al tempo: i i i i ax ay az at bm 0 y z t x Devo trovare i valori dei coefficienti ax, ay, az e at (che sono matrici) e di b che rendono vera l’equazione qualunque siano i valori che risultano dall’applicazione dell’operatore a uno stato dell’elettrone. Cosa non facilissima da fare… Tali coefficienti non possono essere le matrici 2x2 di Pauli, ma devono essere almeno matrici 4x4. Dirac le costruì a partire dalle matrici di Pauli e da esse ricavò le combinazioni che fanno sì che sia b= –1. Tali combinazioni sono le famose QUATTRO MATRICI γμ DI DIRAC, con le quali l’equazione sopra acquista la seguente, celebre veste: Equazione di Dirac i m 0 x Si osserva anche che la soluzione di questa equazione non esiste se Ψ non è un oggetto complesso: è un oggetto a quattro componenti chiamato SPINORE che rappresenta la propagazione libera di un elettrone. L’equazione deve valere in realtà per qualunque fermione in propagazione libera. Paul Dirac scrisse la sua equazione (per descrivere come un elettrone si doveva propagare liberamente) nel 1928, cioè ancor prima che venissero analizzare le interazioni tra particelle con i meccanismi sopra. La matrice di Dirac si trova scritta in forme diverse nei vari libri: ad esempio, utilizzando la convenzione di Einstein per cui x i m 0 essa diventa in maniera manifesta covariante relativisticamente perché la sommatoria di prodotti di quantità con indice in alto per oggetti con lo stesso indice in basso in cinematica relativistica equivale a uno scalare e quindi tutta l’equazione è fatta di uno scalare meno un altro scalare (la massa del fermione) moltiplicato per uno spinore e quindi è relativisticamente invariante. 83 Se poi a questa convenzione si aggiunge la convenzione secondo la quale non serve il simbolo di sommatoria sugli indici ripetuti, l’equazione di Dirac diventa i Infine, talvolta il prodotto l’equazione diventa allora: m 0 viene scritto con delta barrato (leggi: de slash); Comunque la si scriva, la descrizione di un fermione libero avviene attraverso uno spinore che rispetta le prescrizioni dell’equazione suddetta. Alla fine, l’elettrone libero apparirà come una funzione del tipo: ip x iEt x u p e p qualcosa che ha quattro componenti e dipende dalla quantità di moto. Questa è una soluzione dell’equazione di Dirac e rappresenta il campo dell’elettrone libero. Questo oggetto assomiglia moltissimo a quello che abbiamo scritto per il campo dei fotoni: in entrambi i casi abbiamo degli oggetti oscillanti che si propagano come onde. L’unica differenza tra un fotone e un elettrone è che il fotone è un oggetto con spin=1 (lo si capirà da un’altra serie di considerazioni che vedremo più avanti) mentre l’elettrone è un oggetto di spin ½ e dunque quella u p davanti è un operatore a quattro componenti, che assomiglia a un quadrivettore relativistico con tre componenti spaziali e una componente temporale, pur essendo una cosa del tutto diversa… che viene moltiplicata per un fattore oscillante. Il positrone La cosa scoperta da Dirac analizzando la propagazione di un elettrone libero è la E 0 …e fin qui non c’è nulla di strano… ma se assegniamo all’energia un valore negativo, E 0 , ugualmente seguente: possiamo avere elettroni con energia positiva troviamo una soluzione per l’equazione di Dirac; la sostituzione di un’energia positiva con un’energia negativa iEt iEt equivale a invertire la direzione del tempo: t t . Che significato ha tutto ciò? Un elettrone di energia negativa si comporta dunque come un elettrone che si muove a ritroso nel tempo. Se si filma un elettrone che si muove in un campo magnetico si osserva che, a causa della forza di Lorentz, percorre una traiettoria circolare con un certo verso; guardando il filmato all’indietro si vede l’elettrone percorrere la medesima traiettoria nel verso opposto, come se avesse una carica opposta. Non si è in grado di stabilire se il filmato va in avanti o all’indietro senza conoscere la carica della particella. 84 Un elettrone che va indietro nel tempo equivale a tutti gli effetti a un elettrone di carica positiva. Dirac dunque anticipò l’esistenza dell’antimateria, in particolare l’esistenza degli elettroni positivi, cioè i positroni. L’equazione di Dirac fu scritta prima della scoperta di Anderson. Si sapeva già perciò che doveva esistere l’antiparticella dell’elettrone… perché la soluzione di positrone è una soluzione possibile per l’equazione di Dirac. Il fatto che la soluzione sia possibile non vuol dire che la particella necessariamente ci deve essere… ma in qualche modo la si attendeva, o meglio, non risultò così sorprendente trovarla. 4.5. I positroni Se il positrone è del tutto equivalente a un elettrone che si muove all’indietro nel tempo… cosa possiamo dire a riguardo? Nel diagramma sotto il tempo scorre da sinistra verso destra: due elettroni viaggiano uno verso l’altro, uno emette un fotone che viene raccolto dall’altro e i due elettroni quindi si allontanano; il diagramma rappresenta dunque la diffusione di un elettrone su un altro elettrone. I diagrammi di Feynman non vanno però interpretati alla lettera: sono degli strumenti matematici che consentono di sostituire a ogni elemento grafico un operatore tale che si possa calcolare alla fine l’ampiezza di probabilità di transizione tra lo stato iniziale e lo stato finale. Possiamo ridisegnare il diagramma ruotato verso destra. Se immaginiamo che il tempo scorra sempre verso destra vediamo un elettrone in basso a sinistra che viene avanti nel tempo e, dopo aver emesso un fotone, torna indietro nel tempo; quello a destra viene indietro nel tempo e dopo aver assorbito l’elettrone torna in avanti nel tempo. Come si deve interpretare? Alla luce della teoria di Dirac si può interpretare in questo modo: la particella che sembra andare indietro nel tempo non è un elettrone ma in realtà un positrone, l’antiparticella dell’elettrone., che si muove verso destra, nella direzione positiva del tempo e si avvicina all’elettrone. Quando positrone ed elettrone vengono in contatto spariscono entrambi (processo di annichilazione): questo non viola alcuna regola o principio di conservazione 85 (a parte quello dell’energia, ma è problema che “risolveremo” a breve): la carica elettrica totale iniziale è nulla (quella dell’elettrone è negativa, quella del positrone è positiva ma in valore assoluto la loro somma è nulla); le due particelle si toccano, svaniscono, e al loro posto compare un fotone… che però deve essere virtuale (abbiamo visto che nel diagramma in cui c’è una linea fermionica con una linea bosonica il diagramma medesimo non può dare risultati fisici sensati). Questo bosone è costretto dal fatto di possedere una massa a “materializzare in una coppia particella-antiparticella (lo si evince dal fatto che le due frecce sono orientate una nella direzione positiva del tempo e l’altra nella direzione negativa del tempo). Abbiamo dunque un diagramma nel quale è previsto un nuovo fenomeno, quello dell’ANNICHILAZIONE: una particella e un’antiparticella (un fermione e un antifermione) annìchilano dando vita a un campo bosonico, ovvero formando un fotone che dopo un po’ produce una nuova coppia fermione-antifermione. Qui non c’è nulla che ci dice che la coppia fermione-antifermione dello stato finale sia identica alla coppia iniziale, potrebbe essere una coppia fermione-antifermione qualunque, e dunque dovremmo poter osservare questo fenomeno. Ritorniamo un attimo a considerare i POSITRONI come ELETTRONI A ENERGIA NEGATIVA Perché in molti testi si dice che gli elettroni a energia negativa (prima che si trovasse la soluzione del positrone) costituivano un problema? In linea di principio il fatto di avere delle energie negative è un problema fino a un certo punto: nella fisica classica si affrontano problemi in cui le energie possono anche assumere valori negativi. Tuttavia il punto è che questi valori negativi delle energie sono sempre limitati: in realtà l’energia di una particella è sempre positiva, non fosse altro che perché è la radice quadrata di p2 + m2; se a volte otteniamo un numero negativo, ad esempio quando scriviamo l’energia gravitazionale tra due corpi, è perché, potendo scegliere in modo arbitrario dove fissare l’energia nulla (le energie sono misurabili a meno di una costante: quello che conta sono le differenze di energia, non il valore dell’energia in assoluto), abbiamo fissato lo zero all’infinito; ma quando troviamo un valore negativo dell’energia possiamo in realtà sempre trovare un valore costante da sommare a questa energia per farla tornare positiva e rendere così felice Einstein che può scrivere che l’energia di un oggetto è uguale alla radice quadrata di p2 + m2; il punto di difficoltà dell’equazione di Dirac (prima che si trovasse la soluzione del positrone) non era dunque tanto nelle energie negative quanto nel fatto che le energie negative permesse non erano limitate dal basso; 86 in altre parole un elettrone libero può avere una energia minima pari alla sua massa e una energia massima che può andare fino a più infinito, mentre se consideriamo tutte le possibili soluzione dell’equazione di Dirac dobbiamo ammettere che ci siano elettroni che hanno una energia massima pari alla massa dell’elettrone e una energia minima che può andare fino a meno infinito: l’energia di questi elettroni non è limitata dal basso… e questo che non va bene perché vorremmo poter avere sempre la facoltà, aggiungendo una costante arbitraria, di riportare i valori dell’energia a valori positivi… … a meno che (appunto) non si assuma che gli elettroni a energia negativa sono delle particelle fermioniche in tutto e per tutto uguali agli elettroni ma con un comportamento tale da far sembrare che rispetto agli elettroni abbiano i segni cambiati delle cariche, dato che tutto va come se il tempo scorresse all’indietro: la soluzione è dunque il positrone. 4.6. Riassunto PER I FERMIONI I fermioni sono particelle di materia, quindi devono obbedire alla legge della cinematica relativistica E 2 p 2 m2 Dal punto di vista quantistico però energia e quantità di moto non sono degli scalari banali ma sono la prima la derivata rispetto al tempo e la seconda il gradiente di una funzione particolare; quindi bisogna scrivere un’equazione che contenga questi operatori applicati alla funzione d’onda di un fermione che si sta muovendo liberamente nello spazio e che abbia la proprietà che elevando al quadrato quella che secondo l’equazione di Schrödinger è considerata l’energia ci faccia ottenere il quadrato dell’operatore quantità di moto più il quadrato della massa. Facendo queste operazioni di giunge all’equazione di Dirac i m 0 87 nella quale ci sono le quattro componenti spazio-temporali del quadrimpulso (le tre derivate spaziali dell’impulso e quella temporale dell’energia) moltiplicate per qualcosa che però, per poter dare una soluzione, non può essere uno scalare ma un insieme di matrici 4x4, le gamma di Dirac. L’operatore che rappresenta un fermione che si propaga nello spazio dev’essere qualcosa che ha quattro componenti sulle quali agiscono questi operatori 4x4 che mescolano le varie componenti della funzione d’onda del fermione man mano che questa si propaga. Per la meccanica quantistica l’elettrone non è qualcosa di localizzato in un punto ma è qualcosa che si propaga in tutto lo spazio come un’onda; quindi ci sarà un termine a moltiplicare questo oggetto di quattro componenti a rappresentare la propagazione di un’onda libera e che quindi avrà la forma di un esponenziale complesso oppure la somma di un seno e un coseno con tutte le possibili frequenze che può assumere un fermione. uk expip x iEt k PER I BOSONI I fotoni sono quelli che nella meccanica quantistica rappresentano le onde elettromagnetiche e in qualche modo devono essi stessi rappresentare il campo elettromagnetico. Dal momento che la luce, che è fatta di fotoni, si propaga sotto forma di onde, questi fotoni devono essere rappresentabili da operatori che hanno la forma di qualcosa di ondulatorio, e quindi come una somma infinita di termini nei quali ci sono tutte le possibili frequenze che i fotoni possono assumere nella regione di spazio in cui si sta considerando la presenza del campo A Ak expip x iEt k Poiché sia fotoni si possono interpretare in termini di onde sia i fermioni si possono interpretare in termini di onde (esattamente come i campi) non c’è sostanziale differenza fra onde di campo e onde di materia. Ora, se vogliamo interpretare l’interazione tra due particelle di materia in una regione di spazio dobbiamo considerare l’interazione come il prodotto degli operatori delle particelle di materia e gli operatori delle particelle di campo: In particolare avremo una somma infinita di termini che rappresentano tutte le possibili onde di particelle di materia che si possono avere in linea di principio nel volume; una somma infinita di termini che sono tutti i possibili fotoni che si possono avere nel 88 volume e una somma infinita di termini che rappresentano tutte le possibili onde di particelle di materia che possono interagire con le prime. f ... ...... A A ...... ... i Quando si prende questo operatore e lo si “racchiude” tra uno stato iniziale e uno stato finale di un certo tipo, tutti gli infiniti prodotti che non agiscono sullo stato iniziale o sullo stato finale danno come risultato zero e dunque gli unici termini che sopravvivono sono gli operatori che distruggono lo stato iniziale, consentono la propagazione del campo da uno dei due fermioni incidenti all’altro dei due fermioni incidenti, e consentono la creazione dello stato finale. Alla fine sopravvivono pochi degli infiniti operatori possibili nella matrice di interazione S. Questa matrice calcolata tra lo stato iniziale e lo stato finale ci dà l’ampiezza di probabilità per la transizione che porta lo stato iniziale ad assumere lo stato finale; il modulo quadro di questa quantità ci dà la probabilità di transizione… e tale probabilità è legata alla sezione d’urto se sto rappresentando un evento in cui ho nello stato iniziale due particelle che collidono e nello stato finale i prodotti della collisione, f Si 2 oppure un tempo di decadimento se nello stato iniziale ho una particella e nello stato finale ho due o più particelle che sono i prodotti del decadimento della particella. Questi elementi che hanno carattere puramente matematico si possono rappresentare graficamente come linee dritte nel caso di fermioni e ondulate nel caso dei bosoni che rappresentano i campi: Questi diagrammi sono utili per riuscire a calcolare “in modo semplice” questi elementi di matrice (nel senso che è più facile farlo usando i diagrammi di Feynman piuttosto che calcolando tutti i possibili prodotti tra operatori che potrebbero essere presenti nella transizione). Di fatto quindi il diagramma di Feynman è uno strumento matematico che mi consente il calcolo della sezione d’urto o dei tempi di decadimento ma dal punto di vista concettuale possiamo interpretare quello che si vede nel diagramma di Feynman come un processo nel quale un fermione emette un bosone di campo che viene raccolto da un altro fermione e quindi l’interazione viene rappresentata come lo scambio di un qualche “mediatore” del campo; in pratica con la meccanica quantistica si torna a una visione delle forze non più come di azioni a distanza ma di forza che agiscono in un punto preciso, laddove le particelle si toccano (quasi). 89 Quesito: quanti tipi di operatori devono esserci nell’elemento di matrice che descrive un’interazione tra particelle? a. Due: i campi fermionici che descrivono le particelle interagenti b. Almeno due campi fermioni e uno bosonico c. Uno: il campo bosonico che rappresenta l'interazione [La risposta esatta è la b.] 4.7. Elettrodinamica quantistica Abbiamo così tutti gli ingredienti per cominciare ad analizzare i processi, ad esempio, di natura elettromagnetica. La teoria che include tutti questi processi prende il nome di elettrodinamica quantistica (QED) e il suo sviluppo si deve a Richard Feynman che introdusse i diagrammi che portano il suo nome. Possiamo studiare tutti i processi che hanno a che fare con l’interazione elettromagnetica tra fermioni elettricamente carichi disegnando tutti i possibili diagrammi che portano da uno stato iniziale designato allo stato finale che ci interessa Cominciamo da un processo piuttosto semplice, in parte già illustrato, sulla base del quale abbiamo costruito questa teoria. Il processo in questione è quello della diffusione elastica tra particelle elettricamente cariche Due elettroni, avvicinandosi l’uno all’altro, si respingono per effetto della repulsione elettrostatica: abbiamo visto che questo processo si può interpretare come la cessione di un fotone da parte di una particella e la raccolta del medesimo da parte dell’altra. Se un elettrone emette un fotone l’elettrone perde una parte della sua quantità di moto che viene raccolta dall’altro elettrone quando assorbe completamente il fotone emesso dal primo: quindi è naturale che due particelle cambino direzione e quantità di moto; lo scambio di fotone lo si può interpretare come lo scambio di un palla da bowling tra due ragazzi che stanno sullo skateboard; quello che ha lanciato la palla, per effetto della terza legge di Newton va indietro, chi raccoglie la palla, per effetto della quantità di moto trasportata dalla palla da bowling va indietro anche lui… 90 Un processo analogo è responsabile dell’attrazione coulombiana: dal punto di vista formale non c’è differenza tra la repulsione e l’attrazione, il diagramma è lo stesso; l’unica cosa che cambia è il segno delle cariche attribuite ai fermioni e quindi ciò che succede è che le particelle invece di allontanarsi si avvicinano. Uno si potrebbe chiedere come sia possibile che due particelle si avvicinino scambiandosi un fotone visto che quello che ci si aspetterebbe è ciò che abbiamo visto prima. Lo si può comprendere guardando una partita di tennis: i giocatori si scambiano la palla tra di loro e finché si scambiano la palla “sono costretti” a rimanere nel campo a giocare. Se uno dei due giocatori vuole andare a bere un goccio d’acqua lo può fare solo nel momento in cui non c’è la palla che va avanti e indietro; nel momento in cui cessa lo scambio del mediatorepalla-da-tennis cessa l’interazione tra i due tennisti, finalmente liberi di andare a fare ciò che vogliono. Possiamo quindi spiegare anche l’attrazione coulombiana attraverso lo scambio di un mediatore: questo scambio costringe le due particelle elettricamente cariche di cariche opposta a stare l’una vicino all’altra perché sono costrette per qualche motivo a scambiarsi questa particella di campo e quindi a rimanere legate una nel campo dell’altra. Effetto Compton Un processo del tutto analogo che si può rappresentare con un diagramma di Feynman è l’effetto Compton, che consiste nella diffusine di un fotone da parte di un elettrone. Abbiamo un fotone nello stato iniziale con una certa quantità di moto e una certa energia che incide su un elettrone che nello stato iniziale si trova in un certo livello energetico all’interno dell’atomo al quale appartiene, ma che per la trattazione dell’effetto Compton si può trattare come libero. Nel momento in cui il fotone interagisce con l’elettrone, il fotone scompare completamente e nel diagramma di Feynman si disegna il propagatore (non di un fotone ma) di un elettrone che ha acquisito tutta l’energia del fotone incidente, quindi ha aumentato la propria energia, si propaga per un po’ di tempo e un po’ di spazio ma in modo inosservabile e subito dopo “si divide” in un elettrone che si trova nello stato finale di un elettrone diffuso dall’urto con il fotone iniziale e in un altro fotone di energia diversa da quella del fotone che lo aveva colpito. Non c’è niente in questo diagramma che imponga che l’energia del fotone dello stato finale sia uguale a quella del fotone dello stato iniziale; l’unica cosa che conta – per il principio di conservazione dell’energia – è che siano uguali le somme delle energie dello stato iniziale e dello stato finale. Nel diagramma si vede che i due stati iniziale e finale sono connessi attraverso il propagatore di un fermione. 91 Che cos’è un “PROPAGATORE DI FERMIONE”? Qualcosa del tutto analogo al “propagatore di un fotone”; è il prodotto di un operatore di creazione di un fermione per l’operatore di distruzione di un fermione preso tra due stati di vuoto; infatti quello che si vede è che nel momento in cui il primo fotone viene assorbito dall’elettrone dello stato iniziale si crea un nuovo elettrone diverso da quello incidente e subito dopo questo elettrone viene distrutto; quindi da uno stato iniziale di vuoto creiamo un elettrone e poi lo distruggiamo subito dopo riproducendo uno stato di vuoto; da questo stato di vuoto può emergere un elettrone e un fotone. Che questo processo rappresenti effettivamente l’effetto Compton ovvero che descriva bene quello che accade a livello microscopico lo si capisce da questo: se associamo a ciascuna di quelle linee, a quelle ondulate, a quelle dritte, al propagatore, tutti gli operatori matematici che le regole di Feynman impongono di utilizzare quando si ha un diagramma di questo genere e si calcola il valor medio di questo operatore tra due stati iniziale e finale che sono quelli che effettivamente osservo e se ne calcolo il modulo quadro, quello che si ottiene dovrebbe essere la probabilità di osservare un fotone in un determinato stato finale avendo un certo fotone in un determinato stato iniziale e di osservare un elettrone in un certo stato finale avendo a disposizione un elettrone in un certo stato iniziale. Ebbene: se si confronta questa probabilità con quello che si misura sperimentalmente si trova una coincidenza perfetta. Quindi dobbiamo desumerne che questo diagramma rappresenta molto bene quello che avviene a livello microscopico. A noi non interessa cosa davvero avvenga a livello microscopico, ma che a livello microscopico si possano descrivere le cose anche se non si vedono in modo tale da riprodurre tutte le misure sperimentali che possiamo fare. Effetto fotoelettrico Un altro effetto che consideriamo è l’effetto fotoelettrico, che consiste nel fatto che un fotone, interagendo con un elettrone all’interno di un materiale, viene completamente assorbito – il fotone non esiste più – e dal materiale viene emesso un elettrone che se ne va via libero dal materiale; è il fenomeno che poi effettivamente ha dato origine alla meccanica quantistica, insieme allo studio dello spettro di corpo nero. Nella QED l’effetto fotoelettrico consiste in questo: nello stato iniziale abbiamo un elettrone che sta in un atomo e un fotone: il fotone viene assorbito, quindi viene distrutto in un punto assieme all’elettrone dello stato iniziale; leghiamo lo stato iniziale attraverso il propagatore elettronico ad uno stato finale nel quale abbiamo l’elettrone dello stato finale, libero e fuori dall’atomo, mentre non si osserva alcun fotone nello stato finale. Ora questa cosa dal punto di vista cinematico non è possibile: non possiamo avere un propagatore che diventa un elettrone senza emettere un’altra particella per 92 conservare il suo quadrimpulso; deve succedere quindi che il fotone superstite deve essere in qualche maniera assorbito dall’intero atomo o dagli altri elettroni o dal nucleo, e quindi non si vede più: a livello microscopico quello che si vede è un elettrone in un atomo che raccoglie un fotone che proviene dall’esterno e nello stato finale troviamo un atomo privo di un elettrone che se ne va libero. Il secondo fotone – che nell’effetto Compton se ne andava via – nell’effetto fotoelettrico viene semplicemente rimangiato dall’intero atomo e quindi non si vede nello stato finale. Tuttavia il diagramma di Feynman è sostanzialmente lo stesso: l’unica cosa che cambia è che nello stato finale non ci sarà la funzione d’onda di un fotone libero ma ci sarà la funzione d’onda dell’atomo, che sarà un oggetto fermo perché troppo pesante per potersi muovere in seguito all’urto col fotone. L’effetto fotoelettrico è anche sfruttato tecnologicamente in molti modi: tutte le fotocamere moderne funzionano con questo principio: un fotone arriva su una fetta di silicio, viene assorbito, la fetta di silicio emette degli elettroni che forniscono una certa quantità di corrente a un dispositivo, questa corrente si misura e l’intensità della corrente è proporzionale all’intensità luminosa che ha colpito il pixel di silicio. In tutti gli smartphone c’è un dispositivo che funziona sulla base di un processo puramente quantistico. Di nuovo si può fare il calcolo della probabilità di transizione tra uno stato iniziale in cui c’è un fotone e un elettrone all’interno di un atomo e uno stato finale in cui c’è un elettrone libero e l’atomo che in qualche modo ha rinculato a seguito dell’urto; calcolando con le regole di Feynman l’ampiezza di transizione e facendo il modulo quadro dell’ampiezza si ottiene la probabilità di osservare questo fenomeno, che coincide perfettamente con quella che si misura sperimentalmente. Ancora una volta le regole di Feynman ci permettono di “descrivere” quello che avviene nei volumi piccolissimi della meccanica quantistica, ovvero questo effetto di scambio, di assorbimento e di emissione, di particelle bosoniche da parte dei fermioni. Quesito: in un diagramma di Feynman che rappresenta la repulsione tra elettroni l’interazione si rappresenta con lo scambio di un fotone virtuale. Come si rappresenta invece l’attrazione tra due particelle di carica opposta? a. esattamente nello stesso modo. Il fotone rappresenta l’interazione e non va inteso come un oggetto puntiforme che è effettivamente scambiato tra le particelle. b. non abbiamo ancora una teoria coerente che consenta di rappresentare questo tipo d'interazioni. c. con un “anti-fotone”: un fotone, cioè che si comporta in modo opposto con le cariche elettriche rispetto a quanto fa il fotone [La risposta esatta è la a.] 93 4.8. Fabbriche di particelle Annichilazione Veniamo ora a quel processo cui abbiamo accennato quando abbiamo detto che nei diagrammi di Feynman l’orientazione dell’asse del tempo non ha particolare importanza. Se disegniamo il diagramma di Feynman come nella figura sotto, se immaginiamo la linea del tempo orientata verso destra quello che si vede è un elettrone in basso a sinistra e un positrone in alto a sinistra (che a tutti gli effetti è un elettrone che si muove indietro nel tempo). Ora se questi due oggetti si incontrano in un punto, il processo che si deve verificare secondo il diagramma di Feynman è quello già citato di “annichilazione” di particelle cioè le due particelle vengono distrutte dall’operatore di distruzione nella matrice S e al loro posto compare un fotone virtuale γ che ha un’energia pari alla somma delle energie degli elettroni incidenti nel centro di massa e una quantità di moto pari alla somma delle loro quantità di moto. Questo fotone si può propagare per un po’ ma non può farlo all’infinito perché è un fotone virtuale, ha una massa diversa da zero, e come tale non può esistere; quindi a un certo punto deve trasformarsi in una coppia fermioneantifermione; perché in una coppia fermione-antifermione? Perché non avendo numeri quantici particolari il fotone deve trasformarsi in una coppia di particelle che stanno in uno stato in cui tutti i numeri quantici sono conservati; se abbiamo un elettrone nello stato finale, la particella che lo accompagna non può che essere un positrone in modo che la carica netta del sistema elettrone-antielettrone sia uguale a quella del fotone, cioè zero, e la carica netta leptonica sia zero (elettrone e positrone hanno carica leptonica opposta) come quella del fotone… In questo diagramma però non c’è nulla che impedisca al fotone di trasformarsi in una qualunque coppia fermione-antifermione. È chiaro che avendo avuto il fotone origine da una coppia elettrone-positrone è possibile che di nuovo si trasformi in una coppia elettrone-positrone… ma potrebbe anche trasformarsi in una coppia μ+ μ– … oppure ancora in un quark e un antiquark. Facendo dunque scontrare elettroni e positroni ci aspettiamo di veder formarsi coppie anche di natura diversa da quella di partenza. Questo esperimento si può fare: si prendono fasci di elettroni e fasci di positroni, si fanno accelerare in un anello di accelerazione e si fanno scontrare l’uno con l’altro; esperimenti di questo tipo sono stati 94 fatti per numerosi anni in diversi laboratori di ricerca e quello che si vede nell’immagine sotto è un evento raccolto all’acceleratore LEP con il rivelatore L3 Al LEP si acceleravano elettroni e positroni fino a far assumere loro esattamente la stessa energia in maniera tale che quando si scontravano al centro di un detector il centro di massa rimanesse fermo; nel centro di massa si produce quindi un fotone virtuale che subito dopo materializza in una coppia fermione-antifermione che a quel punto non ha più memoria della direzione di provenienza dei leptoni iniziali e dunque i due fermioni prodotti possono essere prodotti ad un angolo qualunque: nel disegno sopra si vedono due leptoni che viaggiano secondo l’asse orizzontale e che al centro del detector formano una coppia μ+ μ– (le due linee diagonali rosse); questo è dunque un evento in cui da una coppia di elettroni produco una coppia di muoni, abbiamo cioè cambiato la natura di due particelle secondo un processo che è benissimo descritto da un diagramma di Feynman. Di nuovo facendo il conto della probabilità di produrre una coppia di muoni a partire dallo scontro tra un elettrone e un positrone dalle regole di Feynman si trova esattamente il valore della sezione d’urto (che si può misurare) di questi processi. Abbiamo dunque la confidenza che i diagrammi di Feynman funzioni perfettamente. Questo potrebbe essere anche un ottimo sistema per produrre i famosi quark che abbiamo ipotizzato essere i costituenti delle particelle adroniche. Questi costituenti sono degli adroni che hanno carica frazionaria rispetto al protone (+2/3 oppure – 1/3) Quindi in un processo di annichilazione elettrone-positrone in teoria si potrebbero produrre anche coppie quark-antiquark: quindi dovremmo vedere nel rivelatore tracce di particelle di carica +2/3 e – 2/3 oppure +1/3 e – 1/3 a seconda dei quark prodotti. Ma cercando i quark in questo modo non li si trova mai… Però quello che si trova è qualcosa che assomiglia molto a dei quark. 95 Nel disegno a sinistra e nella rappresentazione a destra si ha una vista di quel che accade quando i due fasci si scontrano: la vista è trasversale rispetto alla direzione di elettroni e positroni, che hanno direzione entrante o uscente rispetto al foglio. Le particelle nate dallo scontro tra elettroni e positroni al centro del detector si diffondono in tutte le direzioni e hanno almeno una componente della quantità di moto trasversale rispetto alla direzione perpendicolare al foglio. Vi si vedono numerose tracce cariche e alcuni eventi neutri che si possono identificare come diversi adroni: la loro carica totale è sempre nulla, tutti i numeri quantici sono nulli, la stranezza totale è nulla… ma non si vedono mai quark e antiquark, per cui se anche il fotone nato dallo scontro elettrone-positrone materializza in una coppia quarkantiquark, per una qualche ragioni questi due si ricompongono immediatamente negli adroni che formano i multipletti studiati in precedenza. Quesito: quali particelle si possono produrre nel processo di annichilazione elettronepositrone? a. L’annichilazione tra elettroni e positroni può dar luogo alla produzione di qualunque coppia fermione-antifermione purché l’energia nel centro di massa sia sufficiente. b. L’annichilazione tra elettroni e positroni può dar luogo solamente alla produzione di un’altra coppia elettrone-positrone c. L’annichilazione tra elettroni e positroni può dar luogo alla produzione di qualunque coppia di particelle purché lo spin totale dello stato finale sia nullo [La risposta esatta è la a.] 96 4.9. La QED dei fotoni liberi Un fenomeno ben descritto dai diagrammi di Feynman è la cosiddetta produzione di coppie Quello che si osserva in certi eventi è il fenomeno seguente: supponiamo di avere un fotone altamente energetico, con una energia almeno pari al doppio della massa dell’elettrone. Quando il fotone gamma interagisce con del materiale quello che si osserva sperimentalmente è che il fotone “converte” in una coppia e+ e – . Nella camera a bolle immersa nel campo magnetico (foto a destra) si vede cioè comparire “dal nulla” una coppia elettrone-positrone in un punto del rivelatore dove “non arrivano” altre particelle (il fotone è neutro e non lascia traccia). Il fatto che le due particelle assumano traiettoria spiraleggiante e che il raggio di curvatura diminuisca sempre di più è dovuto al fatto che elettrone e positrone si muovono nel liquido della camera a bolle, ionizzando il liquido e perdendo così energia. Com’è possibile la produzione di coppie? Abbiamo già visto come il diagramma di Feynman riportato sopra a sinistra non può dare risultati sensati. In effetti, se si calcola l’ampiezza di transizione tra lo stato finale in cui ho un fotone e lo stato finale in cui ho due elettroni, tale ampiezza è zero, in quanto non si conserva il quadrimpulso, che nello stato iniziale per il fotone è zero (la massa del fotone è nulla) mentre nello stato finale dobbiamo avere almeno le masse dei due elettroni. Tale processo non è realizzabile e appare dunque corretto che i diagrammi di Feynman ci diano un’ampiezza di transizione pari a zero. Perché questo processo si verifichi è necessaria la presenza di almeno un altro fermione che rinculi e assorba una parte dell’impulso che viene perso dal fotone. In effetti non si osserva mai un fotone “convertire” nel vuoto. I fotoni “convertono” soltanto quando interagiscono con la materia. Per rappresentare dunque un processo di questo genere abbiamo bisogno di aggiungere una linea fermionica (disegnata in basso nel diagramma sotto, che rappresenta una qualche particella della materia all’interno della quale penetra il fotone che deve convertire, che scambia un fotone con uno dei due fermioni che vengono prodotti dalla conversione del gamma. 97 Vediamo dunque nel diagramma di Feynman che uno dei due fermioni della coppia “convertita” (quello in basso) scambia una parte della sua quantità di moto (attraverso un fotone) con il fermione presente nella materia. Questo consente la produzione di coppie perché in questo caso il quadrimpulso si conserva. E in effetti se si calcola l’ampiezza di probabilità che questo processo avvenga utilizzando le regole di Feynman si trova un numero diverso da zero… e non solo diverso da zero ma il suo modulo quadro è uguale a quello che si misura sperimentalmente. Altro fenomeno ben descritto dai diagrammi di Feynman è quello di Bremsstrahlung (radiazione di frenamento… o Raggi X) Abbiamo un processo che dal punto di vista dei diagrammi di Feynman è molto simile alla produzione di coppie. Nello stato iniziale abbiamo un elettrone libero che si avvicina (quello evidenziato in azzurro), interagisce attraverso lo scambio di un fotone con un elettrone del mezzo (evidenziato in verde) Attraverso l’interazione con la materia quello che accade è che l’elettrone libero dello stato iniziale sparisce completamente, si produce in un propagatore fermionico il quale a un certo punto emette un fotone libero, reale, con massa nulla. Nello stato finale, l’elettrone evidenziale in azzurro che prosegue la sua corsa avendo perso una parte della sua energia che è stata ceduta attraverso il fotone che è stato emesso. Questo è il fenomeno dell’irraggiamento. Quindi, quando un elettrone penetra in un materiale, per il fatto di venire frenato dal materiale fa sì che esso irraggi dei fotoni. Questo non è un processo misterioso: è un processo noto da molto tempo: è il processo, ad esempio, attraverso il quale si producono i raggi X con i quali si fanno le radiografie: si usa una grossa differenza di potenziale per accelerare notevolmente degli elettroni e si mandano a sbattere contro un bersaglio di tungsteno. L’interazione col bersaglio fa sì che questi elettroni, in un processo di Bremsstarhlung, emettano una certa quantità di radiazione, che a seconda dell’energia dell’elettrone incidente e della natura del materiale possono dar luogo nello stato finale a fotoni di energia diversa; nel caso della radiografia questi fotoni emessi sono proprio nella banda X. Questo processo è del tutto simile a quelli che stanno alla base del funzionamento di tutti i dispositivi che funzionano a onde elettromagnetiche: i telefoni cellulari, i wi-fi, la 98 televisione, la radio. In tutti questi casi ci vuole un’antenna (un pezzo di filo metallico) nella quale si fanno muovere gli elettroni in su e in giù con moto accelerato: a causa di questo moto accelerato si produce un campo elettromagnetico che si propaga tutt’attorno sotto forma di onde elettromagnetiche; e non è altro che questo processo qui: l’elettrone interagisce attraverso lo scambio di un fotone con un’altra particella del materiale che sta attraversando, e se interagisce vuol dire che sta subendo una forza da parte di quella particella; questa forza lo accelera (in positivo o in negativo) e quello che accade è che l’elettrone emette dei fotoni che non sono altro che la rappresentazione quantistica delle onde elettromagnetiche. Anche in questo caso, utilizzando le regole di Feynman, è possibile calcolare la probabilità che un elettrone penetrando in un certo materiale emetta un fotone di una certa lunghezza d’onda. Questo numero coincide con la probabilità calcolata sperimentalmente. I vari esempi riportati mostrano che la teoria appare una teoria di grande successo: l’interazione tra due fermioni “avviene” dunque attraverso lo scambio di un bosone. Quesito: come si producono i positroni in laboratorio? a. Si estraggono da antiatomi di idrogeno b. Grazie al processo che consente di produrre coppie dalla materializzazione di fotoni nel vuoto c. Attraverso il processo di produzione di coppie nel quale un fotone materializza in una coppia e+ e – grazie all’interazione con la materia [La risposta esatta è la c.] 4.10. Approccio informale Ecco infine qualche suggerimento su come introdurre in maniera un po’ meno informale gli argomenti delle pagine precedenti che non sono certo semplici. Sfrutteremo alcuni aspetti degli argomenti degli anni precedenti. Dobbiamo rappresentare l’interazione tra particelle. Dobbiamo cioè scrivere l’equazione del moto di una qualche particella all’interno dell’universo. Qual è una possibile equazione del moto? U = cost Questa equazione è facile da scrivere; qualsiasi legge della fisica, portando a sinistra ciò che è a destra diventa del tipo A = 0. Poiché 0 è costante, la legge avrà la forma scritta sopra. Un’equazione del moto di questo tipo non ha però grande interesse. Ci sono dei casi però in cui la medesima equazione riserva degli aspetti interessanti: prendiamo ad esempio un oggetto di massa m nel campo gravitazionale terrestre: la sua energia totale è la somma di energia potenziale e di energia cinetica. 1 U mgh mv 2 2 99 Questa quantità deve rimanere costante in un processo in cui non si hanno perdite di energia. Questa legge equivale a quella sopra, solo che abbiamo esplicitato il valore di quella costante. Questo è ciò che si insegna agli studenti di un liceo… solo che questa espressione non è del tutto corretta: questa somma non è proprio quella di una particella nel campo gravitazionale terrestre, ma è “circa” uguale ad essa: 1 U mgh mv 2 2 Sappiamo infatti che quell’mgh è solo una approssimazione dell’energia potenziale gravitazionale della particella; tuttavia è una approssimazione molto buona in quanto quell’h è molto piccolo del raggio terrestre. Tuttavia, dal punto di vista formale la formula corretta dell’energia è la seguente: U G mM 1 2 mv r0 2 l’energia potenziale gravitazionale corretta è uguale al potenziale gravitazionale calcolato alla distanza r0 dal centro della Terra moltiplicato per la massa m della particella. Per calcolare tale energia a una distanza r r dal centro della terra possiamo espandere il potenziale gravitazione in serie di Taylor e trovare la seguente espressione: mM U G r0 r r 2 1 2 ... r0 r0 la parentesi è una somma infinità che però dà luogo a un valore finito. Quello che noi facciamo quando utilizziamo l’mgh non è altro che considerare che l’1 (primo termine della sommatoria) è una costante, e poiché l’energia potenziale è definita a meno di una costante possiamo sommare all’energia potenziale proprio il termine corrispondente a quell’1. Dunque h non è altro che quel r . L’mgh è dunque il secondo termine dello sviluppo in serie di Taylor dell’energia potenziale gravitazionale. Quindi, nell’esprimere l’energia gravitazionale di un corpo possiamo tener conto solo di questo secondo termine, l’unico che abbia rilevanza. Nel caso dell’interazione tra particelle possiamo fare qualcosa di analogo: la grandezza che “rappresenta” l’interazione deve contenere i due oggetti che rappresentano le particelle che stanno interagendo: U A La psi-barra e la psi rappresentano in qualche maniera le due particelle, esattamente come nell’energia potenziale gravitazionale sono presenti le due masse; poi nel caso dell’energia gravitazionale abbiamo il G che rappresenta l’andamento del campo, mentre nel caso dell’interazione tra particelle abbiamo un α che rappresenta la costante di 100 accoppiamento che esprime quanto è intensa l’interazione tra le particelle; infine il termine A rappresenta semplicemente come varia il campo con la distanza Quindi, anche se non sappiamo esplicitare compiutamente la psi-barra e la psi possiamo comunque assumere che l’energia di interazione tra le due particelle per mezzo del campo creato dalle particelle medesime è qualcosa che, almeno al primo ordine dello sviluppo, si può scrivere come U A , dove sono registrate le caratteriste dell’una e dell’altra particella (caratteristiche riguardanti il fatto che quelle particelle sono sorgenti di un determinato campo) moltiplicate per il campo attraverso il quale le due particelle interagiscono; il tutto moltiplicato per una costante che serve a dare le dimensioni giuste al prodotto e per utilizzare la scala di unità di misura che preferiamo. La U potrà quindi essere molto complicata ma nel primo termine dello sviluppo dovrà contenere i tre termini sopra; anche se non so come sono psi-barra, psi e A, posso però rappresentare l’interazione in questo modo: Sappiamo però che il processo per cui un elettrone si trasforma in un elettrone con energia diversa emettendo un fotone non è possibile perché non conserva il quadrimpulso; questo fenomeno non produce alcun fenomeno fisico osservabile quindi questo fenomeno non può esistere: questo significa che il primo termine dello sviluppo in serie dell’energia di interazione tra le due particelle deve risultare un valore zero per la probabilità che questo processo avvenga. Devo allora scrivere almeno il secondo termine dello sviluppo perturbativo: U 2 A A [al secondo termine avremo infatti l’energia all’ordine più basso moltiplicata per se stessa per la costante di accoppiamento al quadrato che starà fuori] Siccome ciascuna delle due parentesi si possono rappresentare esattamente con il diagramma usati prima, 101 il prodotto delle due parentesi si potrà ottenere unendo i due diagrammi per la linea ondulato ottenendo uno dei diagrammi di Feynman che abbiamo ottenuto in maniera più formale nelle precedenti lezioni Quindi possiamo rappresentare lo scattering tra due elettroni (cioè la repulsione tra di essi) pensando che l’energia di interazione sia il prodotto di due oggetti che a loro volta non sono altro che il prodotto di rappresentazioni matematiche degli oggetti che interagiscono e del campo aggiustati in modo tale che al primo ordine dello sviluppo diano zero e al secondo ordine dello sviluppo perturbativo diano qualcosa di sensato. Un altro processo che possiamo analizzare è il processo di annichilazione: abbiamo la stessa forma dell’energia: una parentesi che rappresenta il primo ordine dello sviluppo, una seconda parentesi che rappresenta sempre il primo ordine dello sviluppo… e quando moltiplichiamo tra loro le due parentesi otteniamo qualcosa che è proporzionale al secondo ordine dello sviluppo perturbativo dell’espressione (complicata a piacere) dell’energia di interazione tra i due “oggetti” che interagiscono: U 2 A A Moltiplicare le due parentesi significa attaccare tra di loro i due oggetti “in qualche maniera”. Quello che si può ottenere è qualcosa del genere: 102 dove i due diagrammi sono attaccati per la linea ondulata ma sono orientati in maniera diversa; abbiamo ottenuto quello che altrove abbiamo descritto più formalmente come “processo di annichilazione”; se invece, partendo dalle stesse formula dell’energia potenziale tra due particelle, ovvero dagli stessi due diagrammi, e uniamo questi ultimi per una linea dritta otteniamo il seguente diagramma che corrisponde all’effetto Compton… e se aggiungiamo un atomo che assorbe il fotone dello stato finale (in alto a destra) possiamo anche rappresentare il processo di effetto fotoelettrico. Dunque, partendo dall’analogia con l’espressione dell’energia gravitazionale, possiamo concludere che non importa quanto complicata sia l’espressione dell’energia di interazione tra le particelle a livello quantistico ma quel che possiamo dire è che all’ordine più basso dello sviluppo in serie l’energia dipenderà dalla funzione d’onda delle due particelle e dalla funzione d’onda del campo e posso rappresentare questo prodotto con una linea dritta che entra, una linea dritta che esce e in mezzo una linea ondulata che rappresenta il campo; siccome questo processo è vietato per la conservazione del quadrimpulso è evidente che il primo termine dello sviluppo perturbativo deve dare zero come probabilità di transizione; bisogna andare almeno al secondo ordine dello sviluppo, cioè prendere i termini del primo ordine e moltiplicarli per se stessi; e possiamo rappresentare graficamente questa moltiplicazione come l’attaccatura di due diagrammi elementari (“del primo ordine”) per una qualunque delle loro linee, con l’avvertenza di attaccare linee dritte con linee dritte e linee ondulate con linee ondulate (non si possono trasformare i bosoni in fermioni, e viceversa), ma tutti i possibili modi in cui si possono combinare i due diagrammi elementari sono leciti e ognuno di essi rappresenta un processo possibile e previsto dalla dinamica quantistica. Quesito: l’energia potenziale gravitazionale di un oggetto di massa m alla quota h si scrive come mgh. Quella di un pianeta di massa m a distanza r dal Sole di massa M si scrive come GmM/r. Dire quale delle seguenti affermazioni è corretta: 103 a. Le due espressioni sono diverse perché l'interazione che fa cadere gli oggetti sulla Terra è diversa da quella che tiene i pianeti in orbita. I pianeti non cadono sul Sole. b. Tra le due espressioni non c’è alcuna differenza perché l’interazione è la stessa: il fatto è che la prima è un’approssimazione della seconda quando h << r. c. Tra le due espressioni non c’è alcuna differenza perché l’interazione è la stessa: il fatto è che la prima è un’approssimazione della seconda quando h è grande. [La risposta corretta è la b.] 4.11. Test ed esercizi Come si rappresenta formalmente un campo di bosoni? a. come un operatore di creazione seguito da uno di distruzione b. dipende dallo spin del campo c. come una serie di oscillatori armonici d. come il prodotto di esponenziali e. come un vettore [La risposta corretta è la c.] Qual è la corretta espressione della sezione d’urto del processo che porta dallo stato |i⟩ allo stato |f⟩ ? a. C⟨f|S|i⟩ dove C è un’opportuna combinazione delle quantità cinematiche delle particelle che ha le dimensioni di una superficie b. C|⟨f|S|i⟩|2 dove C è una costante universale c. C|⟨f|S|i⟩|2 dove C è un’opportuna combinazione delle quantità cinematiche delle particelle che ha le dimensioni di una superficie d. ⟨f|S|i⟩ e. |⟨f|S|i⟩|2 [La risposta corretta è la c.] Quale, tra le seguenti relazioni, può rappresentare un processo di decadimento beta di un neutrone? Nelle alternative gli operatori di creazione di una particella sono rappresentati dal simbolo della particella scritto in maiuscolo con un + come apice, quelli di distruzione con un − come apice e il campo che provoca l’interazione con Π. Per i neutrini gli operatori sono rappresentati come Nν±. a. |peν⟩=ΠNν+E+P+N−|n⟩ b. |peν⟩=ΠNν−E−P−N+|n⟩ c. |peν⟩=Π|n⟩ d. |peν⟩=Nν+E+P+N−|n⟩ e. |peν⟩=(Π+Nν+E+P+N−)|n⟩ [La risposta corretta è la a.] Di quale particella l’equazione di Dirac (iγμ∂μ−m)Ψ=0 rappresenta la propagazione libera? a. Dei positroni b. Dei fotoni c. Dei soli elettroni d. Di tutti i fermioni e. Di tutte le particelle subatomiche [La risposta corretta è la d.] 104 Quale diagramma rappresenta l’effetto Compton? a. b. c. d. e. [La b. è quella corretta] Quando si traduce un diagramma di Feynman nella probabilità di un processo, ogni vertice contribuisce con un fattore 1/137. Qual è il rapporto tra la probabilità del processo rappresentato nel diagramma a destra rispetto al processo all’ordine più basso, rappresentato nel diagramma a sinistra? a. 1/4 b. (1/137)4 ≃ 3×10−9 c. questo processo non esiste d. 1/3 e. (1/137)6 ≃ 15×10−14 [Sei sono i vertici del secondo diagramma, due quelli del primo. 105 (1/137)6 /(1/137)2 = (1/137)4 . La risposta corretta è la b. Dato un operatore O che descrive l’interazione, un tale operatore si può espandere in serie di Taylor e si può scrivere coma la somma di operatori del tipo A+A2+A3+A4+.... Come si è visto nelle lezioni questi operatori hanno un corrispondente “grafico” nel diagramma di Feynman. Quindi un processo qualsiasi si può scrivere troncando la serie all’ordine più basso e disegnando il diagramma di Feynman corrispondente (che è quello con il minimo numero di vertici). Lo stesso processo si può rappresentare con diagrammi a più vertici che rappresentano i contributi allo sviluppo in serie di ordine più alto. Nel caso dell’interazione tra elettroni, questa si può rappresentare all’ordine più basso con un diagramma nel quale è scambiato un fotone, ma anche con un diagramma nel quale se ne scambiano due (o un qualunque altro diagramma con due vertici in più). Se la probabilità del primo processo (con un fotone) è proporzionale ad α, quella con due fotoni ha una probabilità proporzionale ad α2.] Cosa rappresenta questo diagramma? a. b. c. d. e. Niente: si tratta di un diagramma che non può esistere Il decadimento di un π0 Un processo nel quale un quark u emette due fotoni e torna indietro La collisione di due quark con due fotoni La produzione di un campo elettrico da parte di una particella carica [La risposta corretta è la b.] Come si può definire il propagatore di un campo A? a. Come il valor medio del prodotto di un operatore di distruzione e uno di creazione del campo in due punti diversi dello spazio-tempo, calcolato tra due stati di vuoto b. Come l’ampiezza di probabilità di un processo nel quale una particella mediatrice del campo viene creata c. Come la probabilità di osservare una particella virtuale che si sposta tra due punti dello spazio-tempo d. Come il valor medio del prodotto di un operatore di distruzione e uno di creazione del campo in due punti diversi dello spazio-tempo tra gli stati iniziale e finale di una reazione e. Come il valor medio della somma di un operatore di distruzione e uno di creazione del campo in due punti diversi dello spazio-tempo, calcolato tra due stati di vuoto [La risposta corretta è la a.] Con quale probabilità si può verificare il processo e→e+γ? a. Nulla. Il processo è vietato dalla conservazione del quadrimpulso b. P=1: il processo avviene certamente prima o poi e non avendo specificato dopo quanto tempo dobbiamo assumere che t→∞. c. P m 2 cos2 con m pari alla massa dell’elettrone e θ uguale all’angolo formato tra la direzione 1 cos2 dell'elettrone e quella del fotone nello stato finale 106 d. La probabilità vale m 2 Ee E 2 pe p dove m è la massa dell’elettrone, Ei l’energia delle 2 particelle dello stato finale e pi la loro quantità di moto. e. Dipende dall’energia dell’elettrone. Si calcola come il modulo quadro di ⟨eγ|O|e⟩ [La risposta corretta è la a.] Cosa rappresenta un diagramma di Feynman con due vertici? a. Niente, perché un diagramma con due vertici ha probabilità nulla di verificarsi b. La probabilità che avvenga un processo c. La probabilità di un processo all’ordine più basso della teoria perturbativa d. L’ampiezza di probabilità di un processo all’ordine più basso della teoria perturbativa e. L’esatta descrizione di ciò che avviene a livello microscopico quando due elettroni interagiscono [La risposta corretta è la d.] 107 Cap. 5 Il modello standard 5.1. Le interazioni forti Diversamente dal fotone, mediatore della forza elettromagnetica, la cui carica elettrica è nulla e non trasporta carica elettrica (la carica elettrica delle singole particelle viene conservata nell’interazione tra le particelle che vi partecipano), il GLUONE, mediatore dell’interazione forte, non può essere un oggetto privo della carica attraverso la quale viene prodotto. Il gluone (rappresentato da una molla) deve poter assicurare l’interazione tra quark che hanno colori diversi: la sorgente delle interazioni forti è la carica di colore e due quark di qualunque colore interagiscono nello stesso modo; quindi è necessario che il mediatore di questa interazione trasporti la carica di colore perché non è necessario assicurare la conservazione della carica di colore su ciascuna delle particelle partecipanti. Vediamo un esempio concreto. Vediamo l’interazione tra due quark attraverso la mediazione di un gluone. I due quark che provengono dal lato sinistro dell’immagine possono essere di qualunque colore: interagiscono comunque nello stesso modo Supponiamo che quello in basso a sinistra sia un quark rosso. Se il quark che proviene dall’altro lato è un quark blu quello che deve accadere è che il gluone che viene scambiato in questo processo (disegno a destra) deve possedere una carica di colore rosso e una carica di colore blu in modo tale da assicurare la possibilità di trasferire l’interazione tra un quark rosso e un quark blu e viceversa. Non ha importanza se la carica viene trasferita da su a giù o da giù a su… e dal diagramma di Feynman non possiamo dire in quale verso proceda il gluone. In un certo senso il gluone si muove in tutte e due direzioni… …oppure non si muove affatto: il gluone è qualcosa che traduce una sequenza di operatori matematici e quindi noi lo immaginiamo come qualcosa che viene scambiato e 108 si muove solo perché stiamo traducendo in immagini qualcosa che dal punto di vista formale (matematico!) è però qualcosa di completamente diverso. Tuttavia (per visualizzare il processo) possiamo immaginare che ci sia una carica rossa e una carica blu che fluiscono in due direzioni diverse in maniera tale da consentire l’interazione tra i due quark. Non c’è nessuna ragione particolare per cui la carica debba conservarsi nel punto in cui viene emesso o assorbito il gluone. In effetti, quello che potrebbe succedere conservando tutte le cariche di colore complessive è la cosa seguente: il quark rosso che stava in basso, assorbendo la carica blu trasportata dal gluone rosso-blu, diventa un quark blu mentre quello blu che stava in alto, assorbendo il quark blu-rosso che trasporta anche la carica rossa, diventa rosso. Si può cioè dire che la carica rossa è stata trasportata verso l’alto e la carica blu è fluita verso il basso grazie al gluone che ha trasportato entrambi i colori. Con queste posizioni si garantisce che tutte i quark possano interagire tra di loro indipendentemente dalla loro carica di colore ma con un mediatore diverso da quello delle interazioni elettromagnetiche. Dovendo il gluone trasportare le cariche di colore, non ci può essere solo quello rossoblu (in realtà è un anti-blu) ma ci devono essere tutte le combinazioni possibili con due componenti di carica di colore: un colore e un anti-colore. Chiamando r, g, b le componenti rosse, verdi e blu (red, green e blue), i gluoni base possibili sono nove: rr rg rb gr gg gb br bg bb ma solo otto di essi sono indipendenti. Una possibile base è: 2 , rr gg 2bb 6 , rr gg Se esiste il diagramma di Feynman riportato sopra, deve esistere anche il sottodiagramma riportato sotto: Tuttavia, se ammettiamo che il gluone non abbia massa (come non ce l’ha il fotone), il diagramma a sinistra (esattamente come nel caso del fotone) darà ampiezza di transizione nulla ed è dunque privo di interesse in quanto tale: è impossibile che un oggetto privo di massa decada in una coppia di particelle con massa perché questo violerebbe i principi di conservazione della quantità di moto e dell’energia, ovvero del quadrimpulso (come nel caso dell’interazione elettromagnetica). Tuttavia questo diagramma è parte del diagramma più complesso che si può costruire “agganciando” questo diagramma ad altri diagrammi in modo da avere lo scambio di un gluone virtuale, non un gluone reale come in questo caso. Quindi possiamo pensare a processi che avvengono nel seguente modo: rg , rb , gb , gr , br , bg 109 Supponiamo di avere un’interazione e+ e– del tipo di quelle che si sono viste negli acceleratori negli anni passati, e come quelle che abbiamo visto in una delle lezioni precedenti nella quale si parlava della possibilità di produrre coppie di fermioneantifermione a partire dallo scontro elettrone-positrone agli anelli di accumulazione dove si fanno scontrare queste particelle. Se faccio interagire un elettrone con un positrone l’interazione sarà di tipo elettromagnetico e quello che si otterrà è che queste particelle annichilano in un fotone che si propaga e subito produce una coppia fermione-antifermione. Supponiamo che la coppia fermione-antifermione prodotta sia una coppia di quark, in particolare una coppia di quark up, ovviamente un u e un anti-u. Abbiamo già anticipato che negli esperimenti non si osservano mai quark liberi prodotti on queste reazioni ma si osservano sempre e soltanto degli adroni che appartengono ai multipletti scoperti negli anni precedenti. Perché accade ciò? Evidentemente sia il quark u sia il quark anti-u prodotti per effetto dell’interazione elettromagnetica emettono ciascuno un gluone. Il quark u emette un gluone virtuale che deve materializzare in una coppia quark-antiquark: nel disegno sopra si ipotizza che sia una coppia strano-antistrano (s – s barra) e il quark anti-u fa la stessa cosa: emette un gluone virtuale che può sopravvivere solo un tempo molto breve e dopo materializza in una coppia quark-antiquark: nel disegno sopra si mostra una coppia down-antidown (d – d barra). Nello stato finale non ci sono dunque due quark ma sei tra quark e antiquark; questi sei tra quark e antiquark si possono combinare insieme grazie all’interazione forte in maniera tale da costituire delle particelle incolori (cioè prive di carica di colore). A seconda dei modi in cui i sei si riorganizzano a tre a tre (dando vita a ee 0 dei barioni) potremmo avere l’evento la lambda conterrà uno dei quark della coppia u e sarà formata da un d e un s l’antisigma-zero sarà composta dagli altri tre quark. La differenza tra una sigma-zero e un’antisigma-zero sta nel segno della stranezza trasportata dal quark strano. Un’altra possibilità è però la seguente (nel caso che i quark si combinino a due a due, dando origine a tre mesoni): ee K 0 K 110 Come si vede, è rispettata la conservazione della carica elettrica (nulla nello stato iniziale e nulla nello stato finale), è rispettata la conservazione di tutto ciò che si deve conservare e nello stato finale si osservano particelle che “non espongono” la loro carica di colore. I quark liberi non si possono vedere … ma si possono misurare Se i quark non si possono vedere come possiamo affermare che esistono? La fisica è una scienza sperimentale: non posso dire all’universo come funzionare, ma è l’universo che dice a me come funziona e io devo adattare le mie leggi in base a quello che osservo; dunque, se immagino che esista un qualche meccanismo che spiega certi fenomeni che osservo poi devo essere in grado di verificare che questo meccanismo avvenga effettivamente in natura. Quello che posso fare è misurare la sezione d’urto di produzione di un certo tipo di particella in un certo tipo di eventi, fare i conti con i diagrammi di Feynman di quanto dovrebbe essere quella sezione d’urto, confrontare i due numeri e se i numeri “tornano” posso dedurne che la mia interpretazione è corretta. Tuttavia il fatto di utilizzare i diagrammi di Feynman sui quark non garantisce che i quark esistano (potrei utilizzare dei diagrammi di Feynman con degli adroni alla fine): è solo la misura che mi garantisce l’esistenza dei quark. Se non posso vedere un quark libero (cioè una particella di carica frazionaria) posso però misurare gli effetti della sua presenza dentro gli adroni. Come si fa? Posso utilizzare il fatto che le interazioni forti e le interazioni elettromagnetiche dal punto di vista formale sono descritte dallo stesso tipo di diagramma e posso combinare queste informazioni con il fatto nel caso delle interazioni elettromagnetiche attraverso il diagramma di annichilazione, quello nel quale e+ e – possono produrre una coppia fermione-antifermione il risultato dello stato finale può essere sia una coppia di leptoni che nulla hanno a che fare con l’interazione forte, sia una coppia di adroni che io presumo essere il risultato della combinazione di diversi quark. Vediamo come si fa questa misura. La perdita di energia specifica per unità di lunghezza di una particella elettricamente carica che attraversa un certo materiale è data dalla formula di Bethe e Block che in questo corso abbiamo dato nella sua formulazione classica: quello che importa in questo caso è il fatto che la perdita di energia specifica dipende dal quadrato della carica elettrica dell’elettrone e dal quadrato della carica elettrica della particella incidente nel materiale. La carica dell’elettrone c’è perché l’elettrone è una delle particelle che partecipano a questa interazione, la carica della particella incidente c’è perché quella è l’altra particella che interagisce nel materiale. Ora, se avessimo un elettrone che interagisce con un altro elettrone il risultato sarebbe che la perdita di energia specifica sarebbe e2e2, quindi e4. Allora le interazioni che danno luogo alla 111 perdita di energia per ionizzazione (formula di Bethe e Block) sono evidentemente di natura elettromagnetica, e quindi da questa espressione vediamo che le interazioni di tipo e.m. producono una probabilità di transizione che è proporzionale alla potenza 4 della carica elettrica; quindi quello che dobbiamo pensare è che, se calcoliamo la sezione d’urto di un processo e+ e– che produce e+ e– , il risultato che ci si deve aspettare è che la sezione d’urto (proporzionale al modulo quadro del diagramma di Feynman sotto riportato) sia proporzionale a e4. In effetti, pendendo le regole di Feynman e mettendole in un calcolatore e calcolando il modulo quadro dell’elemento di matrice in cui nello stato finale c’è la coppia e+ e– e nello stato finale c’è ancora una coppia e+ e–, il valore che si trova è effettivamente proporzionale a e4. Il fatto che ci sia la quarta potenza è che perché ci sono due elettroni (elettrone e positrone) a sinistra e due elettroni (elettrone e positrone) a destra. E quindi ci aspettiamo che quell’ e4 derivi dal prodotto dell’e2 che riguarda le particelle a sinistra per l’e2 che riguarda le particelle a destra. Usando le stesse regole di Feynman posso calcolare la sezione d’urto nel caso in cui la coppia la coppia elettrone-positrone iniziale conduca non a una coppia dello stesso tipo ma a una coppia di tipo diverso. Per esempio, supponiamo che da e+ e– si produca per annichilazione una coppia quark-antiquark. Allora quello che ci si deve aspettare è che le regole di Feynman conducano a una sezione d’urto che è proporzionale a e2 q2, dove q è la carica delle particelle che si trovano a destra, che in questo caso è una carica frazionaria (stiamo parlando di quark) La sezione d’urto è qualcosa di più complicato della semplice probabilità di transizione dallo stato iniziale allo stato finale che si può ottenere attraverso le regole di Feynman; c’è tutta un’altra serie di fattori che deve tenere conto del flusso delle particelle incidenti, della maniera in cui si distribuiscono le particelle nello stato finale… ci sono varie complicazioni per giungere al calcolo effettivo della sezione d’urto. Se però misuriamo la 112 sezione d’urto per un tipo di evento e la sezione d’urto per un altro tipo di evento, e faccio il rapporto, quello che si vede è qualcosa del genere: supponiamo ad esempio di misurare il rapporto tra la sezione d’urto di elettrone-positrone che va in quark-antiquark e la sezione d’urto di elettrone-positrone che va in muone positivo – muone negativo: La sezione d’urto al numeratore sarà proporzionale al modulo quadro dell’elemento di matrice generato dalla trasformazione in operatori (trascrizione in termini di operatori) del diagramma di Feynman (vedi sopra); e così la sezione d’urto che si trova al denominatore: tutti gli altri fattori (il flusso di particelle incidenti, le modalità con cui si distribuiscono le particelle nello stato finale, eccetera) saranno circa uguali nelle due sezioni d’urto; l’unica cosa che cambia, in effetti, in queste due sezioni d’urto è semplicemente la natura delle particelle dello stato finale; quindi, nel rapporto, tutti questi fattori aggiuntivi che servono per passare da una probabilità di transizione a una sezione d’urto si devono cancellare; il rapporto tra queste sezioni d’urto, che è qualcosa che posso misurare, deve essere uguale al rapporto tra le probabilità di transizione ottenute dai diagrammi di Feynman, e queste due probabilità sono identiche perché identici sono i diagrammi, cambia solo il fattore delle cariche dello stato finale: tale rapporto (vedi sopra) sarà dunque uguale a q2/e2… se è vera la teoria dei quark! Ora però in questo tipo di eventi non si osservano dei quark specifici ma un getto di adroni e devo allora poter sommare su tutti i tipi di adroni che si possono produrre in questo tipo di eventi, cioè devo fare la somma su tutti i possibili sapori di quark che posso produrre al mio acceleratore in base all’energia che ho a disposizione. Se quindi ho una energia sufficientemente alta da permettermi di produrre coppie di tutte le specie di quark di cui abbiamo parlato nel modello a quark ci aspettiamo un risultato come il seguente: 2 1 2 2 2 11 qi R 3 3 3 2 3 3 3 i e - down, strange e botton hanno carica –1/3 - il quark up e il quark charm hanno carica +2/3 - per ognuno di questi cinque quark ci sono tre colori diversi (e dunque ecco il 3 davanti) 113 Ci si aspetta quinti che il rapporto tra la sezione d’urto in adroni di e+ e– e la sezione d’urto di e+ e– in e+ e– sia 11/3. Si può dunque fare questa misura (andando in un acceleratore!) cambiando l’energia degli elettroni, cambiando quindi l’energia nel centro di massa in cui si verifica l’urto e misurando la sezione d’urto in adroni e la sezione d’urto in muoni; facciamo il rapporto; riportiamo in un grafico tale rapporto in funzione dell’energia nel centro di massa; otterremo un grafico come quello che segue: la sua complicatezza nasce dal fatto che vi sono diversi picchi (indicati dalle varie particelle) che corrispondono al fatto che, per certi valori della energia nel centro di massa, la probabilità di produrre una particella la cui massa è proprio uguale a quella dell’energia nel centro di massa è molto più alta del normale. Quindi dobbiamo guardare il rapporto R non dove ci sono questi picchi ma laddove non si forma nessuna particella particolare: tra un picco e l’altro si può osservare quanto vale questo rapporto. Oltre la soglia di produzione del π (lì dove si forma la Y), il rapporto R è proprio 11/3 (è poco sotto 4): la previsione è perfettamente rispettata. Conclusione: una volta che si ha la possibilità di produrre cinque quark il rapporto tra le sezioni d’urto è proprio quello previsto dal modello. Man mano che si scende con l’energia nel centro di massa si osservano degli scalini nel valor medio di questa R: sono dovuti al fatto che al di sotto di una certa soglia di energia non è possibile produrre coppie quark-antiquark con una massa superiore a quella dell’energia nel centro di massa, si produce un quark in meno e quel rapporto diventa più piccolo di 11/3. 114 5.2. Il modello standard Tentiamo un riepilogo generale di quello che è considerato il modello standard della fisica delle particelle elementari che include sia i “campi di materia”, cioè quei campi fermionici che rappresentano quelle che ordinariamente chiamiamo “particelle”, sia i “campi di radiazione” ossia i mediatori delle interazioni. Non abbiamo ancora parlato delle interazioni gravitazioni e delle interazioni deboli, ma è il caso di fare un riassunto, anticipando qualche risultato. Il modello standard si compone di un certo numero di campi di materia e di un certo numero di mediatori: vediamo i cinque QUARK trovati finora (in viola) (sappiamo oggi che esiste un sesto quark chiamato “top” o “true”). Ci sono poi i sei LEPTONI (in verde): elettrone, muone e tauone, ciascuno in due possibili stati di carica, e i rispettivi neutrini, privi di carica elettrica. Di queste 12 particelle, le 9 che sono cariche (esclusi i neutrini, neutri, appunto) partecipano alle INTERAZIONI ELETTROMAGNETICHE. Quelle in viola sono adroni, e dunque sentono anche l’INTERAZIONE FORTE; quelle colorate in verde invece l’interazione forte non la “vedono” e non sono in grado di assorbire/emettere un gluone. 115 QUARK e LEPTONI sentono tutti gli effetti della INTERAZIONE DEBOLE. Dato che possiedono massa (fino a qualche tempo fa si pensava che i neutrini non avessero massa, oggi si ritiene che una massa, seppur piccolissima, ce l’abbiano) quark e leptoni sentono anche l’INTERAZIONE GRAVITAZIONALE, la quale tuttavia oggi non trova posto nel modello standard perché di essa non conosciamo quasi nulla di come agisca a livello quantistico: l’interazione gravitazionale è la più debole di tutte ed è molto difficile fare esperimenti nei quali si possano osservare i fenomeni gravitazionali a livello quantistico. Accanto ai campi di materia ci sono i CAMPI BOSONICI (a destra, in rosso) cioè i campi che fungono da mediatori delle interazioni. Sotto i già noti fotoni e gluoni vi sono la Z0, neutra, e le W+ e W –, con carica rispettivamente uguale a quella del protone e dell’elettrone, che sono i mediatori dell’INTERAZIONE DEBOLE. Oltre a queste particelle vi sono le antiparticelle. Adroni e leptoni (particelle di materia) hanno tutti spin ½ 5.3. La scoperta del TOP Il quark TOP è stato scoperto al TEVATRON2, negli U.S.A., nel 1995, grazie agli esperimenti CDF e DØ, in eventi in cui si facevano collidere protoni e antiprotoni in un acceleratore circolare. In questi eventi quello che può accadere – attraverso i soliti diagrammi di annichilazione di Feynman – è la produzione di un top e di un antitop con un certo numero di altre particelle che servono per conservare tutti i numeri quantici della reazione. Ricordiamo che in questi processi ciò che collide non sono il protone e l’antiprotone in quanto tali ma i quark di cui sono formati: si ha quella che viene chiamata “la frammentazione del protone”: quelli che collidono sono un quark del protone e un antiquark dell’antiprotone che annichilano in un gluone il quale materializza in una coppia top-antitop; il resto dei frammenti del protone continua a muoversi in avanti, “adronizza” per il solito processo per il quale non possono esistere quark liberi nello stato finale, si vengono a produrre altre particelle che poi si legano a produrre adroni privi di carica forte, quindi incolori. Le due particelle della coppia top-antitop, a differenza di tutte le coppie che si potevano produrre agli acceleratori a energia più bassa, come nel caso del charm-anticharm e del strange-antistrange o del bottom-antibottom, che producono i mesoni neutri che poi decadono in altre particelle, hanno la proprietà di decadere troppo rapidamente per 2 Il Tevatron è un acceleratore di particelle (o sincrotrone) del Fermi National Accelerator Laboratory a Batavia (IL), a una trentina di miglia da Chicago, negli USA. Il Tevatron accelera protoni e antiprotoni in un anello di 6,3 km sviluppando un’energia che arriva fino a 1 TeV. 116 consentire la produzione di un mesone neutro: uno si potrebbe aspettare che dalla coppia top-antitop si produca una particella neutra del tutto analoga alla η (eta) o alla Υ (iupsilon) o alla J-Ψ (gei-psai): invece top e antitop non producono una particella stabile e il motivo è che decadono prima di interagire e legarsi a formare un bosone neutro: top e antitop vengono quindi identificati attraverso i loro decadimenti dai quali si ricostruisce la massa invariante e si osserva un picco in questi eventi. In questo caso il top decade in un botton e un W+ (un mediatore della forza debole) che subito decade in una coppia quark-antiquark di specie diversa, naturalmente, per far sì che la coppia quark-antiquark abbia complessivamente carica pari a +1: t bW bqq ' . L’evento si osserva come una serie di jet adronici che provengono dal centro del rivelatore. L’antitop invece decade in un antibottom e un W –, in cui l’antibottom produce poi un jet e invece l’evento viene identificato grazie al fatto che il W – può decadere anche in un muone negativo e il suo neutrino t b W b . Ciò che si può cercare è dunque un evento di questo tipo tra le migliaia, milioni di eventi che vengono prodotti in questi acceleratori: se ne trovano, si vedono delle risonanze e quindi si dice che è stata identificata una nuova particella che in questo caso è il top. Oggi dunque sappiamo che esiste questo sesto quark di carica elettrica +2/3 con il numero quantico di top pari a 1 e gli altri numeri quantici nulli. Nome Symbol Carica Strange Charm ness (e) up u 2/3 0 0 down d – 1/3 0 0 strange s – 1/3 –1 0 charmed c 2/3 0 1 bottom b – 1/3 0 0 top t 2/3 0 0 Bottom ness 0 0 0 0 –1 0 Top ness 0 0 0 0 0 1 Energia a riposo MeV) 360 360 540 1500 5000 170 000 Lo spin è ½ per tutti e il numero barionico è 1/3 per tutti. Per gli antiquark il numero barionico è – 1/3, tutti i valori sopra sono cambiati di segno… mentre lo spin è sempre ½ . 117 I mediatori dell’interazione debole (il Z0, il W+ e il W –) sono tre, uno neutro e due carichi. Questi mediatori sono stati scoperti al collisore Super Proton Synchroton (SPS) del CERN di Ginevra nel 1984 grazie a due esperimenti, l’UA1 e l’UA2 (i cui nomi derivano da Underground Area: data l’enorme estensione dell’acceleratore SPS, la collisione avveniva in un punto di interazione nel sottosuolo collocato al di fuori dei due siti principali del CERN, a Meyrin e a Prevessin). La scoperta di queste particelle valse il premio Nobel a Carlo Rubbia e a Simon Van der Meer. In questi esperimenti si facevano di nuovo collidere protoni e antiprotoni e nella collisione si potevano produrre dei bosoni Z che poi decadevano in una coppia fermione-antifermione, oppure nei bosoni W+ e W – che decadono o in una coppia quark e antiquark di specie diversa oppure in un leptone più un neutrino. I mediatori dell’interazione debole, a differenza degli altri mediatori (fotoni e gluoni), non hanno massa nulla ma anzi sono molto pesanti, pesano circa 90 volte il peso di un protone. Questo comporta che le interazioni deboli siano interazioni a corto range. Se un elettrone, attraverso un qualunque diagramma di Feynman, emette un fotone questo fotone si può propagare a distanze infinite dall’elettrone perché, avendo massa nulla, riesce a mantenere validi tutti i principi di conservazione. La forza di interazione elettromagnetica ha raggio infinito. Nel caso di un mediatore debole questo invece non è possibile. Gli elettroni, che certamente interagiscono per interazione elettromagnetica attraverso lo scambio di un fotone, devono tuttavia avere anche la possibilità di interagire con i mediatori dell’interazione debole dato che possono anche essere parte di uno stato finale mediato dall’interazione debole (pensiamo per esempio al decadimento-beta del cobalto60, nel quale, nello stato finale, si trovano un elettrone e il neutrino). Quindi deve essere possibile anche il diagramma sotto: gli elettroni cioè devono poter emettere un bosone, per esempio lo Z0, che viene raccolto da un altro elettrone. Questo meccanismo dovrebbe competere (anche se, ci si perdoni il gioco di parole, più debolmente, visto che l’interazione debole ha una costante di accoppiamento più bassa rispetto a quella dell’interazione elettromagnetica) con l’interazione elettromagnetica; invece questo genere di competizione non si osserva: a grandi distanze dal nucleo atomico non si osserva nessuna interazione di tipo debole. Lo Z deve avere un corto range (come il W+ e il W –, del resto il decadimento beta avviene entro le dimensioni del nucleo), ovvero deve potersi propagare per distanze 118 molto molto brevi. Se deve propagarsi per distanze molto brevi significa che deve anche avere una vita media corta (e viceversa). E questo è compatibile col fatto che abbia massa, dato che deve sempre valere sempre il principio di indeterminazione Et . Quando un elettrone emette uno Z0, se lo Z0 è una particella massiva l’elettrone deve perdere una parte della sua energia per consentire la sua produzione, ma questa perdita di energia è vietata dal principio di conservazione dell’energia… a meno che questa perdita non possa avvenire all’interno di un tempo talmente breve da non essere misurabile. In altre parole quello che pensano i fisici è che l’elettrone può sì produrre una particella Z dotata di massa, dunque violando il principio di conservazione dell’energia, purché questa violazione avvenga in un tempo talmente breve da non essere misurabile sperimentalmente, in maniera tale cioè che quando lo Z viene assorbito da un altro elettrone il principio nella sua globalità rimane salvo. Quindi dobbiamo assumere che la Z che viene prodotta in questi processi debba essere L . Poiché t se ne deduce che la Z, una volta E v v L prodotta, può percorrere una distanza . Questa spiega dunque perché un E libera per un tempo t bosone massivo deve essere il mediatore di una interazione a corte range. Quesito: quante sono le particelle di materia che compongono il modello standard? a. 3 b. 9 c. 12 [La risposta corretta è la c.] 5.4. L’interazione debole Che cos’è l’interazione debole? Chiamata anche per ragioni storiche “forza debole” o “forza nucleare debole” è una delle quattro interazioni fondamentali della natura. La forza debole è responsabile del decadimento beta dei nuclei atomici, associato alla radioattività, per il quale un neutrone si trasforma in un protone con l’emissione di elettroni (radiazione beta) e neutrini. L’interazione debole può avvenire tra leptoni e quark (interazioni semileptoniche), tra soli leptoni (interazioni leptoniche) o tra soli quark (interazioni non leptoniche), grazie allo scambio di bosoni vettori molto massivi detti W± e Z0. Poiché tutti i leptoni sono interessati dagli effetti dell’interazione debole, essa è la sola forza che negli esperimenti di laboratorio interviene sui neutrini, per i quali la gravità è trascurabile. L'interazione debole è unificata a quella elettromagnetica nella teoria elettrodebole, secondo la quale esse sono due diverse manifestazioni di un’unica interazione, detta appunto elettrodebole, è quella che provoca il decadimento del neutrone. 119 Come dobbiamo immaginarcela? Certamente non come qualcosa che, classicamente, “attrae” o “respinge”. In generale, è più corretto pensare alle interazioni come capaci di provocare una variazione di stato. Anche in fisica classica si possono trovare degli esempi utili: una forza applicata a un gas, per esempio, non ne provoca l’accelerazione, questa grandezza fisica non ha senso per un gas; quello che succede è che cambia lo stato del gas: la sua pressione, il suo volume e/o la sua temperatura. Lo stato è costituito dall’insieme di grandezze fisiche indipendenti che si possono misurare di un sistema e che ne determinano l’evoluzione temporale. Nel caso di un punto materiale lo stato è definito quando sia definita la sua velocità (tradizionalmente lo stato è costituito da posizione e velocità, ma si può sempre trovare un sistema di riferimento in cui la posizione coincide con l’origine del sistema); una forza che provoca un’accelerazione si manifesta, nel caso di oggetti fermi, con una variazione della posizione. Per questa ragione le forze gravitazionali, elettriche e magnetiche, quando agiscono su punti materiali, si manifestano come un’attrazione o una repulsione. Nel caso dei punti materiali la massa non è tipicamente inclusa nello stato perché solitamente è costante. Se però può cambiare, lo stato di un punto materiale è determinato dall’insieme delle grandezze fisiche posizione, velocità e massa. Una forza che agisce su questo sistema ne può modificare lo stato cambiandone la massa. È quel che fa una forza debole. Con questa visione dello stato si capisce molto meglio il significato della meccanica quantistica: un’interazione è qualcosa che determina il cambiamento da uno stato iniziale a uno finale, esattamente come nel caso classico. I bosoni W + e W – Come si spiegano le interazioni deboli con i diagrammi di Feynman e la presenza di questo tipo di mediatori? Ci è sufficiente ricordare che il neutrone e il protone sono particelle composte di quark. Qui a destra è rappresentato un tipico decadimento beta (che potrebbe anche essere il decadimento di un neutrone in volo, che decade in un protone, un elettrone e un antineutrino). Il tempo scorre verso l’alto. All’inizio abbiamo un neutrone (segnato in verde). Trascorso un certo tempo, uno dei due quark d del neutrone emette un bosone W – e nel fare questo perde una carica negativa, e quindi, per la conservazione della carica [– 1/3 – (– 1) = 2/3] deve trasformarsi in un quark u. Nello stato finale abbiamo dunque un protone formato da un quark d e due quark u. 120 Nel frattempo il W – si propaga e giunto al termine della vita consentitagli dal principio di indeterminazione materializza in due particelle di materia, un neutrone e un antineutrino (si osservi che la linea che rappresenta l’antineutrino è diretta in senso contrario rispetto a quella che rappresenta l’elettrone e dunque è come se andasse al contrario nel corso del tempo). Gli altri due quark del neutrone continuano a viaggiare indisturbati vicini a quello che ha subito l’interazione e abbiamo adesso un protone anziché un neutrone. L’esistenza dei bosoni W+ e W – permette dunque di spiegare i decadimenti beta, o il decadimento del neutrone, e i decadimenti beta di tutte le particelle strane che procedono più o meno nello stesso modo: si tratta di prendere un quark, far emettere a questo quark un bosone W+ e W – , il quark si trasforma in un altro quark di specie diversa e il W+ e il W – danno vita a un leptone e a un neutrino oppure, se hanno massa sufficiente, possono dare origine a una coppia di quark. Questo tipo di interazione può avvenire solo tra particelle cariche visto che il W+ e il W – trasportano la carica elettrica e la carica elettrica va conservata. Il bosone Z 0 Ci sono altre particelle però, come per esempio i neutrini, che per poter interagire con altre particelle, per esempio con gli elettroni, hanno bisogno di un mediatore privo di carica elettrica: questo mediatore è lo Z0, che può condurre a diagrammi come quello a sinistra, in cui un neutrino interagisce appunto con un elettrone facendolo deviare: il neutrino coinvolto nell’urto non si vede nel rivelatore perché difficilmente lascia una traccia essendo neutro mentre si dovrebbe vedere l’elettrone che vien fuori da un punto in cui non c’era nulla. 121 Lo Z0 può essere prodotto anche in eventi di tipo annichilazione, per esempio nel caso che segue: un elettrone e un positrone si scontrano e annichilano, e nell’annichilazione, invece di produrre un fotone gamma, producono un bosone Z0. Lo Z0 poi si accoppia alle particelle di materia e può dare nello stato finale di nuovo una coppia e+ e– (come nel disegno a fianco) oppure una coppia μ+ μ– o τ+ τ– oppure adroneantiadrone o quark-antiquark (tutte le combinazioni sono ammesse) Come si fa a osservare questo evento? Possiamo prendere degli elettroni e dei positroni, farli scontrare a energia sufficiente alta da produrre un mediatore Z0 reale e non virtuale (in questo tipo di interazioni il mediatore è sempre virtuale, ha una massa che non è quella nominale della particella: è il caso del fotone che ha una massa nominale pari a zero, ma il propagatore ha una massa diversa da zero, per la conservazione del quadrimpulso). Nel caso dello Z0 la massa nominale non è zero ma circa 90 volte la massa del protone per cui può succedere che se l’energia nel centro di massa è proprio uguale alla massa dello Z0 il propagatore che si viene a produrre non è virtuale ma è una particella Z0 reale che sopravvive per un certo tempo e poi decade in una coppia di fermioni… Ed ecco perché nel grafico in cui avevamo riportato il rapporto tra le sezioni d’urto in adroni diviso quello in muoni compare il picco sulla destra corrispondente alla massa della Z. Andando con l’energia nel centro di massa dei leptoni interagenti proprio alla massa dello Z la probabilità di produrre uno Z è molto alta, molto più alta di produrre un fotone virtuale che si troverebbe ad avere una massa molto lontana da quella nominale. 122 Ora, poiché una Z decade molto più facilmente in una coppia di adroni e meno in una coppia di muoni si vede quel picco in quella posizione: il picco indica la presenza di una particella bosonica che è proprio il mediatore delle forze deboli ed è in quel caso il mediatore reale e non la particella virtuale che viene scambiata solo nel tempo inferiore a quello consentito dal principio di indeterminazione. Potrebbe essere una particella stabile, ma stabile non è perché le interazioni deboli sono a corto range e la particella decade immediatamente in una coppia di fermioni. Quesito: come si deve interpretare, alla luce del Modello Standard, il decadimento beta? a. Come la trasformazione di un quark d in un quark u con emissione di un W che a sua volta produce un elettrone e il suo neutrino. b. Come l’emissione di un fotone virtuale che materializza in una coppia elettrone-positrone con successiva trasformazione del positrone in un quark e un neutrino. c. Come la trasformazione di un neutrone in un protone con emissione di un bosone Z che decade in elettrone e neutrino. [la risposta esatta è la a.] 5.5. La violazione della parità La legge di parità, detta anche di “inversione spaziale” afferma: “Se A è un fenomeno reso possibile dalle leggi della fisica, il fenomeno C che sia l’immagina di A in uno specchio è ugualmente permesso dalle leggi della fisica”. La riflessione operata dallo specchio si chiama operazione P. La scoperta della violazione della parità si ebbe in un esperimento condotto nel 1956 che aveva lo scopo di comprendere perché i K decadessero in modi così distinti l’uno dall’altro Le K0 decadono in due o tre pioni e questo risultava poco spiegabile alla luce della teoria allora vigente: i due pioni avrebbero dovuto essere favoriti rispetto ai tre pioni, perché sembra più facile produrre due pioni che tre; ma non era così. Per cercare di capire tali fenomeni la professoressa Chieng Shiung Wu mise in atto degli esperimenti, piuttosto complicati per la verità, per cercare di capire il comportamento delle interazioni deboli in Chieng Shiung Wu (1912 – 1997) particolari circostanze. Non entreremo nei dettagli dell’apparato sperimentale ma ci concentreremo sui principi su cui si basa tale esperimento. 123 Si prendono degli atomi di cobalto-60 e poiché il loro spin (in unità di ħ) è 5 si fa in modo che questi spin, con l’ausilio di un campo magnetico esterno, risultino allineati tutti nella stessa direzione. Il Cobalto-60 è radiattivo: produce decadimenti beta: si trasforma in nichel emettendo un elettrone e un antineutrino. Il decadimento può essere schematizzato come nella figura sopra: il nichel rimane sostanzialmente fermo e quindi l’elettrone e il neutrino devono avere delle quantità di moto (rappresentate con le frecce lunghe e strette) opposte l’una all’altra. Poiché lo spin del cobalto è 5 e quello del nichel è 4 per la conservazione del momento angolare i due spin dell’elettrone e del neutrino (entrambi pari a ½) devono essere allineati come mostrato in figura, in modo tale da sommarsi con lo spin del nichel e dare lo spin del cobalto. All’epoca si credeva che la parità dovesse conservarsi: ovvero non c’era nessun motivo per pensare che un esperimento fisico dovesse preferire gli assi orientati in un modo piuttosto che in un altro. Ossia: se faccio oscillare le mie chiavi davanti allo specchio e guardo la ripresa cinematografica del me reale e del me riflesso non ho modo di capire quale dei due è quello reale. Quelle che fu fatto nell’esperimento di Madame Wu fu analizzare il comportamento delle quantità di moto e dei momenti angolari in un sistema di riferimento in cui i versi degli assi cartesiani erano stati cambiati, come se fossero visti allo specchio. Immaginiamo di guardare allo specchio una quantità di moto: essa cambia di segno (cambia il verso). Se però immagino di guardare allo specchio qualche cosa che ruota (per cui il momento angolare è rivolto, per la regola della mano destra, ad esempio, verso destra), visto allo specchio il suo momento angolare continua a puntare verso destra. 124 Dunque le quantità di moto cambiano verso per inversione di parità mentre i momenti angolari non cambiano verso. Di conseguenza, se questo è un possibile decadimento del cobalto-60 nel quale l’elettrone viene emesso in direzione opposta rispetto allo spin iniziale del cobalto, dovrebbe essere possibile osservare anche il decadimento visto allo specchio (con le quantità di moto delle due particelle invertite e i due spin rimasti uguali). Invece si scopre che il decadimento visto allo specchio non si osserva mai. Vi è quindi una palese violazione dell’invarianza per parità. Questa osservazione fu inizialmente abbastanza choccante: nessuno credeva che in natura si potesse non conservare la parità, ovvero che ci fosse una differenza tra destra e sinistra. Ma questo è quello che si osserva in natura. Una volta che ci si abitua all’idea conviene cercare di capire perché avviene questo. Lo spin di un elettrone può essere orientato secondo la sua quantità di moto o essere antiparallelo ad essa; ma siccome la quantità di moto di un elettrone dipende dal sistema in cui lo osservo (se lo osservo da un sistema di riferimento che si muove più velocemente dell’elettrone la sua quantità di moto cambia segno), anche lo spin dell’elettrone dipende dal sistema di riferimento. Nel caso del neutrino o dell’antineutrino (particelle di massa praticamente nulla che si muovono quasi alla velocità della luce) lo spin è una grandezza intrinseca del neutrino e una volta prodotto un neutrino con un certo tipo di spin, quello spin non cambia qualunque sia il sistema di riferimento in cui lo si osserva. Se dunque il decadimento di cui sopra non si osserva mai, significa che non esistono antineutrini elettronici in cui lo spin è antiparallelo alla quantità di moto, e 125 dunque non esistono neutrini elettronici per cui lo spin è parallelo alla quantità di moto: è come se un neutrino, visto allo specchio, non riflettesse la propria immagine Tutto questo implica che esistano particelle con particolare ELICITÀ (proiezione del sp vettore di spin nella direzione del suo impulso: e p se misurato in unità di ħ, sp ): lo spin di queste particelle è sempre orientato in un determinato oppure H s p modo e mai nell’altro (o sempre parallelo o sempre antiparallelo al momento. L’elicità di una particella non è in generale un invariante di Lorentz. Infatti mediante una trasformazione di Lorentz che manda p → – p si può cambiare il segno dell’elicità della particella. Questa operazione non è possibile per particelle di massa nulla poiché esse si propagano con la velocità della luce e dunque non è possibile fare una trasformazione di Lorentz che mandi p → – p, segue di conseguenza che per queste particelle l’elicità è una grandezza Lorentz-invariante. Lo spin del neutrino è un buon numero quantico perché non dipende dal sistema di riferimento nel quale lo misuro. La bontà di questa interpretazione fu confermata da un altro esperimento, fatto da Maurice Goldhaber nel 1958 (“l’elicità del neutrino elettronico è negativa”), che confermò che le particelle fanno differenza tra destra e sinistra. Il fatto che esistano particelle destrorse e sinistrorse anche se dello stesso tipo ha implicazioni importanti sulle quali faremo alcune elaborazioni un po’ formali ma poco rigorose, essendo l’argomento molto complesso…. e per fare un po’ di esercizio di meccanica quantistica. La matematica è un’opinione Quello che si può fare in meccanica quantistica è misurare il valore di una grandezza fisica e tale valore, ad esempio quello dell’energia, può essere descritto in due modi diversi: 126 Schrödinger Emis Heisenberg x E x dV Emis E può essere descritto secondo la meccanica ondulatoria di Schrödinger o secondo la meccanica operatoriale di Heisenberg, in ogni caso è il valor medio (o atteso) di un operatore tra due stati di particella, siano essi descritti in termini di funzione d’onda o di bra- e -ket. Il motivo per cui esistono due diverse descrizioni dello stesso fenomeno (due meccaniche quantistiche!) è perché, al contrario di quello che pensa la maggior parte delle persone, la matematica È un’opinione; è la fisica a non esserlo. La fisica pretende che i risultati di una certa teoria aderiscano ai risultati che si possono sperimentare in laboratorio; in matematica no: si parte da degli assiomi e se ne traggono le conseguenze, e gli assiomi sono completamente arbitrari. GALILEO GALILEI: “Egli [l’universo] è scritto in lingua matematica, e i suoi caratteri son triangoli, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola”. Perché la matematica è la lingua con la quale è scritto l’universo? Perché con la matematica possiamo inventare un alfabeto e un dizionario coi quali costruire delle regole sintattiche che ci portano alla descrizione dell’universo che osserviamo. Così come lo stesso concetto si può esprimere in lingue diverse (italiano, inglese, francese…) così lo stesso fenomeno fisico si può descrivere in lingue diverse (con la meccanica ondulatoria di Schrödinger o con la meccanica operatoriale di Heisenberg). Scegliamo dunque una di queste due rappresentazioni. Pensiamo alla misura dell’energia di una particella nella meccanica di Heisenberg: tale energia è il valor medio dell’operatore energia tra due stati di particella: Emis E Prendendo lo stato di questa particella e moltiplicandolo per un fattore di fase qualunque 127 ei quando vado a calcolare il valor medio dell’energia, tale fattore di fase entra nel calcolo come tale a destra e come coniugato a sinistra: i due fattori di fase si cancellano e il risultato dell’operatore di energia è lo stesso: Emis ei Eei Emis Possiamo dunque sempre moltiplicare per qualunque fattore di fase lo stato di particella senza che cambi il risultato della misura, ossia senza che cambi la fisica che gli operatori descrivono in questo contesto. Se stessi misurando non l’energia di una particella che si muove a bassa velocità ma l’energia di una particella relativistica e quantistica, allora non basta usare l’operatore costituito dallo scalare-energia E ma devo usare la rappresentazione dell’energia corretta: per un elettrone la rappresentazione corretta è quella che si deduce dall’equazione di Dirac; dobbiamo cioè sostituire all’operatore E quello che descrive il moto libero di un elettrone e che traduce la relazione relativistica secondo la quale E2 – p2 = m2 . Di nuovo, moltiplicando per un fattore di fase arbitrario gli stati della particella Emis ei i( m)ei i( m) i m non cambia nulla: dunque i fattori di fase sono sostanzialmente inosservabili: non c’è modo di misurarli: ogni volta che cerco di misurali questi si cancellano nei loro valori medi e non posso accedere al loro valore. Pertanto posso scrivere lo stato con un fattore di fase del tutto arbitrario. Non c’è nessun motivo perché questo fattore di fase debba essere lo stesso per tutti i punti dell’universo; un elettrone può essere distribuito con la sua funzione d’onda in una regione più o meno ampia dello spazio e in ciascuno di questi punti dello spazio potrebbe esserci un fattore di fase arbitrario; del resto vale anche la relatività speciale: se io misuro un fattore di fase in un certo punto x, in un punto che misura una certa distanza da questo il fattore di fase può essere diverso perché il segnale non si è potuto propagare abbastanza rapidamente da un punto all’altro per segnalare che nel primo punto è cambiato il fattore di fase. Potremmo anche far dipendere dalle coordinate x il fattore di fase arbitrario che usiamo per alterare lo stato di una particella singola: ei ( x ) Se vado a calcolare il valor medio dell’energia in questo caso specifico, Emis ei ( x )i( m)ei ( x ) , quello che succede è che intanto ho due addendi, uno che contiene l’operatore quantità di moto (che in meccanica quantistica è un operatore di derivazione) e l’altro che contiene l’operatore scalare m: 128 Emis ei ( x )i ei ( x ) i ei ( x ) mei ( x ) Nel secondo addendo i fattori di fase si annullano e continuano ad essere inosservabili (e l’operatore del secondo addendo si riduce all’operatore scalare m). Nel primo addendo invece succede qualcosa di particolare: è presente la derivata del prodotto del fattore di fase per lo stato di cui si sta misurando l’energia: ei ( x ) i ( x)ei ( x ) ei ( x ) Dunque, sostituiti i due termini nell’operatore, otteniamo Emis ei ( x ) ( x)ei ( x ) e i ( x )i ei ( x ) i m In entrambi i primi due addendi i fattori di fase continuano a elidersi e rimane Emis ( x) i i m Rispetto a quello che avevamo all’inizio (il secondo e il terzo termine dell’espressione sopra), l’utilizzo del fattore di fase arbitrario ha fatto comparire il primo termine (x) contenente la derivata della fase (nella parentesi quadra), che però dovrebbe essere arbitraria; questo termine aggiuntivo nuovo rispetto all’inizio dovrebbe permetterci di misurare la fase. E tuttavia il risultato della misura dell’energia non dovrebbe dipendere dalla scelta arbitraria della fase. Cosa significa questo? Significa che nell’operatore che misura l’energia ci deve stare un termine che, oltre a lasciare invariati i termini che avevamo all’inizio, fa sparire il termine aggiuntivo che all’inizio non c’era, la cui media dipende dal fattore di fase. Notiamo che il termine aggiuntivo ha proprio la forma di quello che nei diagrammi di Feynman descrive l’interazione tra particelle: A , termine che è costituito da un coefficiente arbitrario α (che dipende dall’intensità dell’interazione) moltiplicato per uno stato complesso coniugato che moltiplica un operatore che moltiplica un altro stato. Quello che possiamo dire, dunque, è che l’interazione fra due particelle è una conseguenza del fatto che l’energia di interazione tra queste due particelle deve essere invariante per trasformazioni locali di fase dello stato. In altre parole: io ho un operatore che descrive l’energia dei vari elettroni che si trovano in una certa regione di spazio; ebbene questo operatore deve essere fatto in modo tale che il suo valore medio non possa cambiare per una scelta arbitraria della fase utilizzata per descrivere lo stato; se questa energia non può cambiare è necessario che le particelle (gli elettroni) che stanno in questa regione di spazio interagiscano tra loro (l’interazione è cioè una conseguenza dell’invarianza dell’operatore energia per trasformazioni locali della fase dello stato della particella libera). 129 Questo modo di far nascere le interazioni va sotto il nome di TEORIA DI GAUGE (leggi: gheig) secondo la quale le interazioni tra particelle nascono imponendo l’invarianza dell’operatore che restituisce l’energia delle particelle per trasformazioni di qualche tipo (in questo caso per trasformazioni locali di fase). Sapendo che le interazioni sono il risultato di una invarianza per trasformazioni di fase e che le particelle destrorse e sinistrorse non sono uguali dal punto di vista delle interazioni, dovremmo poter cambiare la fase delle particelle sinistrorse in maniera del tutto indipendente da quello che facciamo con le particelle destrorse; ci dovrebbero dunque essere delle interazioni che valgono per le particelle destrorse e delle interazioni che valgono per le particelle sinistrorse. Dovremmo dunque cambiare il modo in cui si scrive l’interazione tra particelle in modo da includere questa differenza tra particelle destrorse e sinistrorse e cambiare la fase delle une indipendentemente da quello che si fa con la fase delle altre. Questo però non si può fare per le particelle dotate di massa perché la massa delle particelle destrorse è uguale alla massa delle particelle sinistrorse; in altre parole se le interazioni si possono assimilare alle mani (la destra è diversa dalla sinistra), le masse sono come gli occhi (il destro è uguale al sinistro). Abbiamo dunque un problema: nell’operatore che descrive l’energia abbiamo termini che descrivono l’interazione tra particelle che dipendono dalla destrorsità o sinistrorsità della particelle e termini che restituiscono la massa della particella che devono essere uguali per particelle destrorse e sinistrorse; cambiando la fase delle particelle la massa delle particelle cambia in maniera diversa a seconda che siano destrorse o sinistrorse: un modo per far sì che la massa non cambi è imporre che questa massa sia zero: allora il termine legato alla massa sparirebbe completamente e non ci sarebbe questo problema. Dal punto di vista sperimentale però sappiamo benissimo che le masse delle particelle non sono nulle; quindi dobbiamo trovare un modo per includere la massa delle particelle nell’operatore che ci restituisce l’energia senza violare l’invarianza di gauge: questo è ciò che motiva il meccanismo di Higgs che darà origine all’ipotesi che esiste una particella (il bosone di Higgs) responsabile della presenza delle masse delle particelle dell’universo. Quesito: quali tra queste particelle non esiste? a. Un antineutrino elettronico con spin parallelo alla propria quantità di moto b. Un antineutrino elettronico con spin opposto alla propria quantità di moto c. Un neutrino elettronico con spin opposto alla propria quantità di moto [La risposta corretta è la b.] 5.6. Test ed esercizi Gli esercizi di questa lezione richiedono sovente di calcolare energia e/o quantità di moto dei prodotti di decadimento. Non vi è una regola pratica universalmente valida per calcolarli, al di là di utilizzare il principio di conservazione del quadrimpulso. Possono esserci eventuali semplificazioni, ma vanno valutate caso per caso. 130 Si può utilizzare la conservazione del quadrimpulso per componenti, ovvero risolvere le due equazioni derivanti dalla conservazione dell’energia (componente temporale) e della quantità di moto (componente spaziale del quadrivettore impulso). Nel sistema della particella madre, di quadrimpulso P=(M,0), significa imporre M=E1+E2…, 0=p1+p2+… Oppure si può richiedere la conservazione del modulo quadro del quadrimpulso: 2 P =(p1+p2+…)2 calcolato con le regole del modulo quadro del quadrimpulso (E2 – p2 = cost), insieme alla conservazione della quantità di moto: p1+p2+…=0 Solitamente questa seconda opzione è più immediata, almeno nel caso di decadimento a due corpi. Una semplificazione si ha quando i prodotti della reazione sono due particelle identiche, come ad esempio il decadimento di un pione neutro in due fotoni. Nel sistema di riferimento del centro di massa, in cui la particella iniziale è a riposo, le energie delle particelle prodotte sono uguali e pari alla metà della massa della particella madre. Una seconda possibilità è che la particella iniziale decada in particelle molto più leggere, come ad esempio nel decadimento τ→e+νe+ντ. In questo caso le particelle finali acquisiscono una quantità di moto elevata, tanto da poterne trascurare la massa e utilizzare l’approssimazione E≈|p| Un pione carico decade in un muone + un neutrino (ricordiamo che, dovendosi conservare la carica elettrica e il numero leptonico deve essere π+→ anti-μ + νμ e π−→ μ + anti-νμ ): determinare il momento finale del muone. Massa del pione = 139,6 MeV Massa del muone = 105,7 Mev Massa del neutrino ≈ nulla Assumendo a riposo il pione, i due quadrimpulsi iniziale e finale sono pi=(mπ,0) e pf=(Eμ+pν, 0) (il neutrino ha massa… nulla, per cui Eν=pν). Uguagliando la norma dei due quadrimpulsi: |p i|2=|pf|2 otteniamo mπ2= Eμ2+pν2+2 Eμpν . Usando il fatto che pμ= – pν, ovvero che pμ= pν, ed esplicitando Eμ2 = pμ2+ mμ2, otteniamo un’equazione nell’unica incognita richiesta dal problema, appunto pμ: m2 p 2 m2 p 2 2 p 2 m2 p eleviamo al quadrato e semplificando: p 29,8MeV E p m 2 m2 2 p 2 2 p 4 m2 p 2 m2 m2 2m che è pure la quantità di moto (e l’energia del neutrino) p2 m2 110MeV In generale, se vogliamo ricavare le energie delle due particelle figlie, possiamo riscrivere la conservazione del quadrimpulso quadrato si ottiene: pM p1 f p2 f come pM p1 f p2 f . pM2 2 pM p1 f p12f p22 f e utilizzando la formula della norma al quadrato del quadrimpulso si ottiene M 2 2EM E1 f pM p1 f m12 m22 131 Elevando al Se supponiamo la particella madre M inizialmente ferma allora diventa pM 0 ed EM M e l’equazione M 2 m12 2ME1 f m22 Da cui si ricava E1 f M 2 m12 m22 2M . Ovviamente E2 f M 2 m22 m12 2M Quindi, con i dati dell’esercizio precedente sarebbe E 110MeV E 30MeV La particella J/Psi ha una massa di poco più di 3 GeV. Quanto deve valere più o meno la massa del quark c? a. 0.511 MeV b. 1.5 GeV c. 170 GeV d. 1 GeV e. 3 GeV [Un quark c e un quark anti-c danno vita alla J/Psi, quindi ciascuno deve avere una massa pari alla metà della J/Psi. La risposta corretta è la b.] La sezione d’urto d’interazione tra due elettroni è proporzionale... a. alla carica elementare b. alla massa dell’elettrone c. al quadrato della carica elementare d. alla quarta potenza della carica elementare e. alla somma delle cariche elementari [La risposta corretta è la d.] Quanti sono i leptoni nel Modello Standard? a. 6 b. 12 c. 16 d. 3 e. 4 [La risposta corretta è la a.] Quanto vale il rapporto R tra la sezione d’urto di elettroni in adroni e quella in muoni per energie nel centro di massa inferiori a quella della soglia di produzione di due quark strani? a. 1/9 b. 5/9 c. 5/3 d. 11/3 e. 1 [Si osservi, nel diagramma relativo, il primo pianerottolo: è un numero vicino a 2. 2 qi Si usi la formula R 3 con i soli quark up e down. La risposta corretta è la c. i e Ricordiamo che nella somma si conteggiano le cariche elettriche dei vati tipi quark al quadrato che si possono produrre a (al di sotto di) una certa energia; il 3 davanti è il numero di colori in cui ciascun quark si può produrre.] 132 Di quanto aumenta il rapporto R tra la sezione d’urto di produzione di adroni e di muoni da parte di elettroni per ciascun quark di tipo down? a. b. c. d. e. di 1/3 di 2/3 di 1/9 di 1 (errata) di 3 [La carica di – 1/3 elevata al quadrato da un contributo pari a 1/9. Ogni tipo di quark esiste in 3 stati di colore, indistinguibili. Nella sezione d'urto totale è quindi necessario considerare sempre questi 3 contributi. La risposta corretta è la a.] Un quark top decade in un quark b, un muone e il suo neutrino. Quale ci aspettiamo che sia l’ordine di grandezza dell’energia del muone nel sistema di riferimento del top? a. 60 GeV b. 170 GeV c. 104 MeV d. Dipende dall’energia del top e. 85 GeV Massa del quark top Massa del bottom Massa del bosone W Massa del muone = 173 GeV = 4,2 GeV = 80 GeV = 0,106 GeV = 106 MeV Assumendo a riposo il quark top, come chiede il testo, possiamo calcolare le energie delle “figlie” con le formule esplicitate a inizio di capitolo M t mb2 mW2 Eb 68GeV 2M t M t mW2 mb2 EW 105GeV 2M t pb Eb2 mb2 67.8GeV pW EW2 mW2 68GeV 2 2 Si osservi che nella formula che dà la quantità di moto, il numeratore equivale (formula di Erone) all’“area” di un triangolo avente per “lati” le tre masse di madre e figlie. 2 p1 f M 2 m12 m22 m12 2M M 2 m12 m22 2M 2 4m12 M 2 m12 m22 2m1M M 2 m12 m22 2m1M m m M m m1 m m2 2M 2M Significa qualcosa? Boh. Noti impulso ed energia della particella W, che a sua volta decade in muone e neutrino, ci apprestiamo a calcolare l’energia del muone. Come? Se il bosone W fosse fermo (nel riferimento del bosone) le energie di muone e neutrino sarebbero M 2 M W m2 2 E 2M W M W m2 2 40GeV E 2M W 40GeV ovvero ognuna delle due “nipoti” si porterebbe via la medesima energia… e quantità di moto. Possiamo ipotizzare che questo accada anche con il bosone in movimento… il muone, avendo massa, si porterà via qualcosa in 133 più del neutrino, qualcosa che deve superare di poco la metà di 105 GeV. In ogni caso il neutrino si porterà via almeno 40GeV per cui al muone non possono restare più di (105 – 40) GeV. La risposta corretta è la a. Esiste un procedimento rigoroso ed è il seguente: riprendendo la formula ricavata dalla conservazione del quadrimpulso: M 2 2EM E1 f pM p1 f m12 m22 La quantità che non è univocamente determinata è l’angolo formato tra il vettore p2 f ) e il vettore p1 f (o il vettore p M , ovvero gli angoli che i vettori formano con la direzione di volo della particella che decade. Energie e quantità di moto finali sono infatti funzione di una variabile angolare. In alternativa) Si possono utilizzare le trasformazioni di Lorentz per cambiare sistema di riferimento e utilizzare il sistema del centro di massa della particella secondaria che decade. A questo punto si può procedere esattamente come nel primo decadimento. Una volta determinati i quadrimpulsi delle particelle finali, con la trasformazione inversa si può esprimere tutto nel sistema di riferimento del centro di massa della particella madre, introducendo in questo passaggio una variabile angolare. 134 Cap. 6 Il bosone di Higgs 6.1. Il campo di Higgs C’è un ulteriore ingrediente nel Modello Standard: il bosone di Higgs. La necessità del bosone di Higgs dipende dal fatto che la teoria fin qui delineata poggia sulla considerazione che le interazioni affrontate richiedono alcuni principi di simmetria… che però in certe occasioni vengono violati. Il fatto che queste principi di simmetria vengano violati impone che nel modello delle interazioni che poi conduce alla possibilità di calcolare i diagrammi di Feynman non si possano considerare le masse delle particelle; questo significa che le masse delle particelle che partecipano alle interazioni in un diagramma di Feynman debbano essere tutte nulle, il che è contrario all’esperienza: sappiamo di avere massa e se siamo fatti di “campi di materia” evidentemente la massa deve venire dalla massa delle particelle di cui siamo formati; del resto la massa la misuriamo nei nostri esperimenti; quindi – di sicuro – c’è qualcosa di sbagliato nella teoria: ci deve essere qualcosa che riesce a dare massa alle particelle senza violare la simmetria che le equazioni che determinano le interazioni devono soddisfare. O c’è qualcosa di sbagliato… o c’è qualcosa che manca al modello fin qui costruito: dobbiamo trovare il modo di introdurre le masse senza violare i principi di simmetria di cui sopra. Per fare questo in maniera coerente dovremmo introdurre la teoria quantistica dei campi, che è qualcosa di complicato; tenteremo allora di dare solamente un’idea di quale sia il meccanismo che fornisce massa alle particelle utilizzando argomenti puramente classici. Noi sappiamo trattare bene l’interazione gravitazionale e sappiamo scrivere l’energia di ~ U m G una particella di massa m in un campo gravitazionale: G ~ G dove è il potenziale gravitazionale. Nel caso che il campo sia generato da una M più grande il potenziale vale: ~ M M G G G 2 rˆ dr r r Tale potenziale dipende dal lavoro fatto dalle forze del campo; esso risulta uno scalare, funzione del campo gravitazionale e delle coordinate. Una cosa del tutto analoga avviene con le interazioni elettriche: l’energia di una particella carica in un campo elettrico è data da 135 U E qV dove, anche qui, il potenziale (la differenza di potenziale) dipende dal lavoro fatto dalle forze del campo: 1 Q Q rˆ dr V 40 r 40 r 2 e quindi è funzione scalare del campo elettrico e delle coordinate. Per quanto riguarda i campi magnetici, quando la sorgente del campo magnetico è una corrente elettrica, possiamo scrivere qualcosa di simile: l’energia di una spira percorsa da ~ U I B una corrente I è pari a , ancora una volta il prodotto tra ciò (in questo caso B la corrente) che determina l’interazione e qualcosa che può essere indicato come sotto ~ B dSzˆ B (tecnicamente è un flusso) ~ B non è quello che classicamente viene indicato come un potenziale ma è pur sempre uno scalare funzione del campo e delle coordinate dell’elemento di superficie dS. Abusando delle notazioni, chiamiamo questo ~ B “potenziale del campo magnetico”. In altre parole, l’energia di una particella (di massa, di carica, di corrente) che si trova immersa in un campo è sempre scritta nella forma di una costante di accoppiamento che determina l’intensità del campo generato da una sorgente dello stesso tipo di quella che “sente” il campo moltiplicata per un potenziale (che non è necessariamente quello che conosciamo dalla fisica classica ma è più genericamente una) funzione scalare delle coordinate e del campo. ~ U G mG U E qV ~ U B IB Ci sono alcuni campi tra loro autointeragenti. Per esempio, il campo B interagisce col campo E a formare le onde elettromagnetiche. Il campo magnetico B interagisce con sé stesso producendo la possibilità di immagazzinare energia magnetica all’interno di un solenoide la cui densità di energia è data da u BB 1 2 B 20 Nel caso dei condensatori, possiamo immagazzinare energia di tipo elettrostatico, e la densità di energia di autointerazione del campo elettrico con sé stesso è pari a u EE 1 0E2 2 136 L’energia di ogni oggetto dell’universo si può dunque scrivere come somma di due “modi”: ~ i U ci Fi Fi Fi Volume 2 Il primo addendo è funzione dei campi e di quantità a loro volta responsabili di generare il campo con il quale l’oggetto sta interagendo: per esempio, ~ ~ F nel caso che i sia Gi (potenziale gravitazionale) il coefficiente ci è la massa che sta all’interno del campo gravitazionale, massa a sua volta sorgente di campo gravitazionale. ~ F che i sia Vi (potenziale nel caso elettrico) il coefficiente ci è la carica che sta all’interno del campo elettrico, carica a sua volta sorgente di campo elettrico. ~ ~ F nel caso che i sia Bi (con abuso di notazione: potenziale magnetico) il coefficiente ci è la corrente che sta all’interno del campo magnetico, corrente a sua volta sorgente di campo magnetico. Il secondo termine della formula dell’energia ci dice che una porzione dell’energia deriva dal fatto che i campi possono interagire con sé stessi. La costante per motivi dimensionali. i sta lì solo 2 Nel caso del campo elettrico Fi Fi E 2 nel caso del campo magnetico Fi Fi B rispettivamente densità di energia del campo elettrico e del campo magnetico, che vanno ovviamente moltiplicate per un volume, se stiamo calcolando l’energia all’interno di un volume. Per capire meglio dove stiamo andando a parare, faremo un esempio specifico dove fisseremo il tipo di interazione che andiamo a considerare. Consideriamo un condensatore a facce piane e parallele (distanti d e di superficie A), all’interno del quale vi è un campo elettrico uniforme. Inseriamo nel condensatore una carica elettrica a una certa distanza da una delle due armature, per cui tra la carica elettrica e l’armatura più in basso ci sarà una differenza di potenziale 137 V . L’energia totale nel volume dentro il condensatore è dunque U qV 0 2 E 2 Ad che rientra nella forma più generale vista prima. Questa è dunque l’energia in quel volume… se ci si limita alla fisica classica! Con Einstein però le cose cambiano: dobbiamo considerare anche l’energia a riposo della particella: U qV 0 2 E 2 Ad mc 2 Ora la forma mc2 non rientra nella forma di energia vista prima; è un termine che non proviene da un effetto di tipo dinamico, cioè non dipende dall’interazione di qualcosa con qualcos’altro (o con se stesso)… Proviamo a trovare una spiegazione assumendo che, anziché l’mc2, ci sia un’altra forza sconosciuta: dovremmo allora scrivere l’energia nella maniera seguente: U qV 0 ~ b E 2 Ad aW W 2 Ad 2 2 Si deve intendere che la particella a è a sua volta in grado di produrre un campo W il cui ~ potenziale è espresso da W , mentre W2 rappresenta l’autointerazione del campo con sé stesso. Nella formula sopra, dunque, il primo e il terzo temine rappresentano l’interazione della particella con il campo, mentre il secondo e il quarto termine rappresentano le energie delle autointerazioni dei campi con sé stessi. ~ Facciamo un’altra ipotesi: che sia il campo W che il relativo potenziale W abbiano ~ ciascuno un valore minimo, che indicheremo con W0 e con W0 , come sotto: W W0 ~ ~ W W0 L’energia si può allo scrivere come: b ~ 2 U U class a W0 W0 Ad 2 138 Espandiamo i prodotti: b 2 b ~ U U class aW0 a W0 Ad 2 Ad bW0Ad 2 2 Cominciamo ad analizzare il terzo di questi cinque “nuovi” termini aggiuntivi: b 2 W0 Ad 2 è un termine fatto tutti di costanti: b è la costante di accoppiamento, W0 è il livello minimo di energia consentito per il potenziale di questo “nuovo” campo, Ad è il volume del condensatore; e poiché l’energia di un sistema è definita a meno di una costante, tale termine può essere eliminato; dal punto di vista dinamico non produce alcun effetto: che ci sia o non ci sia, quando si va a derivare, cioè a calcolare variazioni, sparisce. Rimaniamo con 4 termini: b ~ U U class aW0 a 2 Ad bW0Ad 2 ~ a W Il primo dei quattro termini rimasti, 0 , è anch’esso costante; è una costante che dipende però dalla particella (dal tipo di particella!) che abbiamo messo nel volume: potrebbe essere che per qualche accidente tale termine valga proprio mc2: la formula allora diventa U U class b 2 mc a Ad bW0Ad 2 2 Il motivo per cui (come ci obbliga a fare la relatività) dobbiamo aggiungere il termine mc2 sarebbe dunque perché la particella interagisce con questo campo che nell’universo ha un valore minimo diverso da zero; il termine da aggiungere dipenderebbe da quanto quella particella si accoppia (cioè quanto intensamente interagisce) con questo campo; quell’ a dipende esclusivamente dalla natura della particella e potrebbe quindi spiegare la presenza dell’ mc2, che a questo punto sarebbe determinato dalla dinamica del sistema e non piovuto lì a caso. Il secondo termine, a , è il prodotto della costante di accoppiamento della particella con il campo (sempre a) moltiplicata per il potenziale di questo “nuovo” campo qualora fosse presente con valori maggiori rispetto al valore minimo di tutto l’universo. In altre parole, se in una regione dell’universo questo campo fosse presente a un livello un po’ più alto di quanto lo sia in tutto il resto dell’universo, in questa regione dell’universo si dovrebbero vedere degli effetti di tipo dinamico sulle particelle perché tali particelle si accoppierebbero oltre che col campo al livello minimo anche con quello a livello più alto. 139 Chiamiamo questo campo “CAMPO DI HIGGS”, e al termine diagramma di Feynman come quello che segue . a associamo un dicendo che il termine a (costante di accoppiamento per il potenziale in eccesso) rappresenta l’interazione della particella con il campo di Higgs residuo (quello in eccesso rispetto al valore minimo) Il terzo dei quattro termini rimasti, b 2 Ad , come tutti i termini che dipendono dal 2 campo al quadrato, deve rappresentare l’autointerazione del campo con sé stesso (ovvero l’energia immagazzinata in un volume e dovuta al campo presente in quel volume); ovviamente riguarda il campo “in eccesso” rispetto al valore minimo, e quindi dobbiamo immaginare di stare in una regione di universo dove questo “nuovo” campo di Higgs è un po’ più alto di quello che sta altrove: in questa regione dovrebbe essere possibile vedere il campo che interagisce con sé stesso. Dal punto di vista del diagramma di Feynman di questa interazione dobbiamo poter vedere un campo di Higgs che emette o assorbe un campo di Higgs cambiando direzione, o addirittura un campo di Higgs che si trasforma in due campi (o bosoni) di Higgs. L’ultimo termine, bW0Ad , dipende dal campo “in eccesso” presente nella regione considerata moltiplicato per il suo stesso campo al valore minimo. In una regione in cui il campo di Higgs non è al minimo, il campo interagisce con sé stesso ma interagisce anche col suo minimo… e l’ultimo termine traduce appunto questo fatto. Questo fenomeno è lo stesso che dà origine alla massa delle particelle fermioniche: in quel caso la particella che si trova in una regione dell’universo si trova sempre a 140 interagire col campo di Higgs al suo valore minimo. L’interazione con questo livello minimo produce un termine costante che dipende dalla particella in esame ed è il termine che rappresenta la massa della particella. Analogamente, se in una regione dell’universo c’è un campo di Higgs più grande del valore minimo possibile, l’interazione di questo campo con il campo al valore minimo possibile produrrà un termine aggiuntivo all’energia del tutto simile a quello che la particella ha generato interagendo col campo al livello minimo. Quindi possiamo interpretare quest’ultimo termine bW0Ad dicendo che il campo di Higgs deve mostrare una massa, quest’ultimo termine è la massa del campo di Higgs. Come si fa a fare in modo che un campo possieda un valore minimo diverso da zero? Torniamo al caso classico, dove la densità di energia (del campo elettrico, ad esempio), va secondo il quadrato del campo, quindi il suo grafico è una parabola con vertice nell’origine (nel grafico sotto le due grandezze sono state espresse in unità arbitrarie per semplificare i valori): Se invece il potenziale di un qualche tipo di campo fosse espresso da una legge diversa (come la polinomiale di quarto grado riportata nell’immagine sotto, ad esempio), l’andamento della densità di energia sarebbe espresso da una curva (si veda il disegno sotto) in cui il minimo non è nello zero. 141 (Possiamo pensare tale funzione come il prodotto di una ulteriore autointerazione del campo con sé stesso.) Se il campo di Higgs seguisse una legge di tale tipo allora, qualora in una regione di spazio non fosse presente il campo di Higgs (e il valore del potenziale fosse zero), dal momento che un campo di Higgs farebbe diminuire tale potenziale, il campo di Higgs si genererebbe spontaneamente… dato che, con un campo di Higgs, il sistema confluirebbe verso una situazione più favorevole. In altre parole, possiamo pensare che un Universo completamente vuoto sia estremamente instabile e che tenda ad evolvere spontaneamente verso una condizione nella quale è presente una certa quantità di campo di Higgs. Quando un sistema evolve spontaneamente verso una condizione lo fa perché la nuova condizione è energeticamente favorevole rispetto a quella iniziale: un Universo vuoto (pieno di nulla) ha quindi un’energia maggiore rispetto a quella posseduta da un Universo riempito di campo di Higgs. Il problema consiste nel fatto che, in linea di principio, di questi minimi ce ne potrebbero essere più d’uno. In particolare non si può escludere, nota ormai la massa del bosone, che esista un minimo più favorevole rispetto a quello in cui ci troviamo oggi. Se esistesse quest’altro minimo l’Universo potrebbe transire spontaneamente verso questa condizione, nella quale le leggi fisiche sarebbero del tutto diverse e dunque non potremmo esistere. Per adesso limitiamoci a ipotizzare che tale campo interagisca con sé stesso non solo come ma come (e che quindi il grafico sia quello rappresentato sopra). Aggiungere all’energia di interazione un termine che varia col campo alla quarta è del tutto coerente con l’ipotesi che l’energia di una regione dell’universo contribuiscano tutte le interazioni delle particelle con i campi e tutte le interazioni dei campi con sé stessi… e 2 4 142 questa sarebbe semplicemente una interazione un po’ diversa da quella del campo elettrico o del campo magnetico. Ritorniamo dunque all’espressione dell’energia b ~ U U class aW0 a 2 Ad bW0Ad 2 e consideriamo i primi due termini, entrambi contenenti il fattore a: l’intensità con cui una particella si accoppia al campo di Higgs deve essere proporzionale ad a; il secondo termine ci dice che l’energia dovuta all’interazione della particella col campo di Higgs è proporzionale a questo fattore a che dipende dalla particella. Tale fattore a è dunque quello che determina la massa della particella. Quesito: in cosa il termine di energia a riposo differisce dagli altri nell’espressione dell’energia complessiva in una regione di spazio? a. nel fatto che questo termine non appare come un'interazione tra una particella e un campo o tra campi b. nel fatto che questo termine ha dimensioni fisiche diverse dagli altri termini c. nel fatto che questo termine è costante [La risposta corretta è la a.] 6.2. La massa dei bosoni Il bosone di Higgs, per dare massa alle particelle, deve interagire con esse. E deve agire tanto più intensamente quanto maggiore è la massa delle particelle. Se il bosone di Higgs può interagire con le particelle, il diagramma di Feynman che rappresenta questa interazione potrebbe essere quello riportato sotto: il bosone di Higgs si accoppia, per esempio, ai bosoni W e Z che sono i mediatori della forza debole; questi bosoni, a differenza dei bosoni fotone e gluone che sono privi di massa, sono molto pesanti (circa 90 volte un protone); e dunque si accoppiano volentieri col bosone di Higgs, ovvero l’interazione tra il bosone di Higgs e i bosoni vettori dell’interazione debole dev’essere piuttosto intensa. 143 Anche i fermioni, cioè le particelle dotate di massa, escludendo i neutrini (anche se recentemente si è stabilito che i neutrini hanno massa a causa di fenomeni che vedono un neutrino trasformarsi in un altro… Ma la loro massa è così piccole che si possono considerare privi di massa) devono poter interagire col bosone di Higgs, e quindi per tali particelle immaginiamo un diagramma di Feynman come quello che segue: Questo diagramma rappresenta anche il decadimento di una particella, ovvero il bosone di Higgs, in una coppia fermione-antifermione, e quindi è possibile che un bosone di Higgs, una volta prodotto, decada in una coppia fermione-antifermione (possono essere sia leptoni che quark e antiquark), oppure decadere in una coppia di bosoni vettori, ad esempio W+ e W –. Non è consentito a un bosone di Higgs decadere in due fotoni perché i fotoni non si accoppiano al bosone di Higgs dato che i fotoni sono privi di massa. Non c’è un’interazione diretta tra bosone di Higgs e fotoni ma indiretta ci può essere, nel senso che il decadimento del bosone di Higgs in due fotoni si può osservare attraverso il decadimento mostrato nell’immagine sotto: il bosone di Higgs si accoppia più intensamente con le particelle la cui massa è molto grande; la particella con la quale il bosone di Higgs si accoppia più volentieri è il quark top (che pesa 170 volte un protone); il bosone di Higgs potrebbe pertanto decadere in una coppia top-antitop; il top potrebbe emettere un fotone e quindi annichilare con l’antitop emettendo un secondo fotone: Quindi è consentito dalla teoria il decadimento di un bosone di Higgs in due fotoni purché mediato da un loop (cioè una curva chiusa) di leptoni e in particolare da una coppia top-antitop. 144 Attraverso la teoria si può anche prevedere qual è la probabilità che un bosone di Higgs decada in uno o in un altro canale. Possiamo disegnare un grafico con in ascissa la massa del bosone di Higgs (che possiamo far finta di non conoscere) e calcolare in funzione di essa il Branching Ratio, ovvero il rapporto fra un canale di decadimento e il totale dei decadimenti. Nel grafico sotto si vede, ad esempio, che un bosone di massa intorno ai 120-130 GeV (cioè 120-130 volte la massa del protone) decadrebbe perlopiù in una coppia b-bbarra con probabilità del 70%; non può decadere in una coppia t-tbarra perché non ha abbastanza massa (dovrebbe avere una massa di almeno 170+170 GeV). Giù in fondo alla striscia si vende che c’è anche una probabilità che il bosone decada in una coppia di fotoni, ma essendo la scala logaritmica tale probabilità è circa di 2 x 10 – 3. 145 Le masse dei bosoni vettori I bosoni di Higgs, oltre che delle masse dei fermioni, sono responsabili anche delle masse dei bosoni vettori dell’interazione debole. Abbiamo già detto che mZ mW 90mp e abbiamo detto anche che, per il fatto di avere questi bosoni vettori massa così elevata, il raggio d’azione delle interazione debole deve essere molto breve (altrimenti non si spiegherebbe come mai le particelle prodotte da un decadimento beta vengano tutte fuori sostanzialmente dallo stesso punto; se l’interazione debole potesse essere a lungo range un atomo di cobalto potrebbe influenzare un altro atomo di cobalto distante da lui e far uscire un elettrone da quello o un protone da un altro atomo ancora. E questo non avviene. Se un elettrone interagisse per forza debole con un altro elettrone, dovrebbe emettere un bosone di 90 GeV, più di 10.000 volte se stesso. L’unica possibilità è che l’emissione di questa particella avvenga in tempi così brevi da rendere questa particella del tutto inosservabile. Poiché il principio di indeterminazione dice che Et il tempo di esistenza di questo bosone deve allora essere inferiore t E prima che trascorra questo tempo la particella deve essere riassorbita dal medesimo elettrone o da un altro elettrone. L t v E da cui si deduce il range della forza debole: v L E . Maggiore è la massa (o energia), minore il raggio d’azione. Per rendere possibile l’interazione elettrodebole bisogna violare il principio di indeterminazione per un tempo inferiore a quello previsto per la loro osservabilità. 146 Il bosone di Higgs, oltre a spiegare le masse dei fermioni, spiega perché le masse dei bosoni vettori della forza debole hanno massa grande. E per rendere tutto comprensibile useremo lo stesso procedimento che è servito per spiegare il meccanismo di Higgs, con un procedimento abbastanza formale ma per nulla rigoroso. Nel caso dunque che in una regione di spazio ci sia interazione elettromagnetica sia interazione debole l’energia sarà data da una somma di densità di energia, la prima riconducibile al campo elettrico, la seconda al campo debole. U 0 2 E2 w0 2 Z 2 Ora l’energia è funzione scalare dei campi: possiamo pensare che sia U F F 0 E 0 w0 2 E, Z 2 2 w0 Z 2 Se, giunti a questo punto, aggiungiamo la presenza del campo di Higgs, questo campo si deve accoppiare con F che adesso ha due componenti, quindi anche deve avere due componenti e posso pensarlo come un campo in cui le due componenti abbiano ciascuna un valore minimale i cui si somma un campo residuo i L’interazione tra il campo elettrodebole e il campo di Higgs ci dà dunque la seguente energia: 0 U int 0 0 w0 1 1 F E, Z 0 2 2 2 2 U int 0 2 E 10 1 w0 Z 20 2 2 Ricordiamo che l’energia del campo di Higgs (quando aveva una sola componente) aveva la forma seguente 147 Se ora il campo di Higgs ha due componenti (che possiamo immaginare della stessa forma) possiamo immaginare che la sua rappresentazione tridimensionale sia la seguente: Il valore minimo di questa energia del campo di Higgs sta nella valle del “sombrero”: sono infiniti i punti (un’intera circonferenza) in cui il campo di Higgs sta al suo minimo: uno di quei punti è rappresentativo del nostro universo, 148 Il fatto che il campo elettrico non interagisce col campo di Higgs dipende dal fatto che 0 quel punto sta sull’asse 2 , per cui in quel punto 1 0 , L’energia vale allora U int 0 2 E1 w0 Z 20 2 2 Il campo E allora interagisce solo col “residuo” campo di Higgs, in condizioni normali quel campo vale zero e dunque il campo E non interagisce col campo di Higgs; il campo E, dunque, può interagire con il campo di Higgs ma non ha una massa perché non è moltiplicato per la costante del campo; mentre il bosone Z, quando si accoppia con la seconda componente del campo di Higgs fornisce un termine all’energia che è quello segnato in verde sotto: e che rappresenta la MASSA DEL BOSONE. Il fatto che i fotoni abbiano massa nulla e che i bosoni vettori dell’interazione debole abbiano una massa notevole risulta così ancora conseguenza di un principio di simmetria: l’universo, quando nasce, nasce simmetrico, ha un certo grado di simmetria che gli permette di finire in uno stato che è equivalente a infiniti altri stati (la valle del sombrero) che corrispondono al valore minimo del potenziale di Higgs. Dopo esser nato l’universo è finito in un particolare punto di quella valle, l’orientazione di uno degli assi lungo i quali si hanno le interazioni è risultata fissata… e uno dei bosoni che rappresentano le interazioni e che interagiscono col bosone di Higgs (tocca ai fotoni) non prende massa; gli altri invece sì. Quesito: il decadimento di un bosone di Higgs in due fotoni... a. è vietato perché il bosone di Higgs si accoppia soltanto alle particelle con massa b. è permesso all'ordine superiore dello sviluppo attraverso un loop. 149 c. è favorito perché le particelle dello stato finale non hanno massa e non occorre spendere energia per produrle. [La risposta esatta è la b.] 6.3. Un po’ meno formale Dopo le complicatezze del capitolo precedente, ecco ora un’esposizione meno formale più adatta per gli studenti di scuola superiore. Quello che è difficile da capire è come faccia un’interazione a fornire massa a qualche cosa. La caratteristica principale del bosone di Higgs che gli consente di dare massa alle particelle è il fatto che si tratta di un campo autointeragente. Questa non è una novità nel campo della fisica: anche il campo elettromagnetico interagisce con sé stesso. Una regione di spazio con un campo di Higgs presente è assimilabile a una distribuzione (ordinata) di magnetini; se a un certo punto facciamo entrare una biglia d’acciaio in questa regione di spazio, la biglia risente del campo magnetico prodotto dai magnetini e un certo numero di magneti si attacca alla biglia e ne riduce la capacità di movimento. La biglia d’acciaio rappresenta la particella priva di massa che interagisce col campo di Higgs, che si attacca ad essa e le impedisce di muoversi liberamente alla velocità della luce, quindi la particella acquista una certa massa. Cosa fa di un muone una particella diversa dall’elettrone? La massa… ovvero il muone interagisce col campo di Higgs più fortemente di un elettrone. Cosa significa questo, facendo riferimento all’esempio dei magnetini? La “biglia” muone interagisce più fortemente col campo di Higgs, cioè più magnetini le si attaccano e la sua capacità di movimento viene ostacolata in misura maggiore di quanto non succeda alla “biglia” elettrone. Una distribuzione regolare di magnetini abbastanza larga (poco densa) rappresenta il campo di Higgs al suo valore minimo. Se ci fosse un campo residuo (un campo di Higgs con un valore un po’ più alto del valore minimo, cioè qualche magnetino in più, cioè qualche particella uguale a quella che produce il campo), questo campo residuo potrebbe interagire con sé stesso e avere lui stesso un comportamento del tutto simile a quello di una particella, invece di propagarsi all’infinito viene trattenuto da sé stesso (o da bosoni della stessa natura) e in questo modo acquista massa. Il bosone di Higgs rivelato negli esperimenti al Cern di Ginevra non è altro che il campo di Higgs che interagisce con sé stesso e quindi forma una specie di “grumo” di campo di Higgs che si muove come se fosse una particella: se si fanno delle misure di massa si trova una massa diversa da zero, quindi è come se fosse una particella. Il campo di Higgs diventa quindi una particella dal punto di vista classico, rivelabile attraverso un opportuno esperimento… come appunto è avvenuto nel 2012 al CERN di Ginevra, negli esperimenti ATLAS e CMS condotti con l’acceleratore LHC. 150 6.4. La scoperta del bosone di Higgs La scoperta del bosone di Higgs nel 2012 è stata resa possibili dall’uso di uno strumento molto avanzato, l’LHC (Large Hadron Collider), un acceleratore che produce interazioni tra fasci di protoni a energia molto elevata Attualmente l’LHC sta lavorando con energia nel centro di massa pari a 13-14 TeV; quando è stato scoperto il bosone di Higgs lavorava con energia nel centro di massa pari a 7 TeV. Come è stata possibile la scoperta? Quello che si fa in un laboratorio al CERN in cui c’è questo strumento è far circolare fasci di protoni in un tubo a vuoto, tubo che si trova in un tunnel scavato sotto terra e lungo complessivamente 27 km. In questo tunnel le particelle circolano in due versi opposti e in certi punto prestabiliti dell’anello vengono fatte scontrare tra di loro; nell’urto si producono migliaia di nuove particelle (l’energia del centro di massa è davvero molto alta, milioni di volte l’energia di un protone), particelle anche di massa molto elevata: ad esser precisi, nell’LHC non si scontrano i protoni ma i loro costituenti, i quark, quindi l’energia del centro di massa non è quella dell’urto fra due protoni ma un po’ più bassa perché ciascun quark trasporta un’energia e una quantità di moto inferiore a quelle di un protone; si tratta comunque di energie molto alte che permettono di produrre nuove particelle, in particolare consentono la produzione di un bosone di Higgs. Che cosa può succedere in una collisione tra protoni? Nella collisione tra un quark e un antiquark si può materializzare un bosone di Higgs, il quale però non è visibile nel rivelatore, che vedrà soltanto i prodotti di decadimento di questo bosone. Ci sono due canali particolarmente importanti per la scoperta del bosone di Higgs: il decadimento in due fotoni, per cui nello stato finale si osservano due fotoni di altissima energia a grande angolo rispetto al punto in cui i due fasci si sono scontrati (li vediamo nel disegno a sinistra, a pagina seguente) 151 oppure si può osservare uno stato finale in cui ci sono quattro leptoni: quattro elettroni o quattro muoni o (come nel disegno sopra a destra) due elettroni e due muoni). Il decadimento in due fotoni è sfavorito nel decadimento di un bosone di Higgs; tuttavia il decadimento più favorito, quello in una coppia bb (leggi: b-b barra), in uno scontro protone-protone sarebbe praticamente invisibile perché è molto difficile distinguere i prodotti di decadimento dell’Higgs dai prodotti di frammentazione del protone, mentre il decadimento in due fotoni è un segnale molto chiaro, facilmente identificabile, per cui quello è uno dei canali preferiti. Il canale in quattro leptoni è quello in cui il bosone di Higgs decade in una coppia di bosoni Z, ciascuno dei quali può decadere o in una coppia di elettroni o in una coppia di muoni, e quindi si hanno tutte le combinazioni possibili: 4 elettroni, 4 muoni, 2 e 2. Come si osserva dunque un bosone di Higgs? Si osserva facendo una distribuzione della massa invariante dei due fotoni dello stato finale osservati nel detector. Se questi due fotoni fossero emessi in processi del tutto casuali, ci si aspetterebbe una distribuzione come quella rappresentata dalla linea continua verde, dove si vede che la probabilità di vedere nello stato finale due fotoni che assumono una massa invariante bassa è maggiore di trovare due fotoni che abbiano una massa invariante alta. Questo è ragionevole ed è quello che ci si aspetta di ottenere in uno scontro tra protoni. 152 Ma nella distribuzione sopra si osserva un picco, poco sopra i 120 GeV: la probabilità di osservare due fotoni intorno ai 125 GeV è un po’ più alta di quella che ci si aspetterebbe se le coppie di fotoni provenissero da eventi casuali: quel picco indica che in quella regione di massa invariante ci sono certamente coppie di fotoni provenienti da eventi casuali ma anche da eventi in cui i due fotoni non sono casuali, eventi in cui i due fotoni hanno una massa invariante è esattamente di 125 GeV e sono il frutto del decadimento di una particella di 125 GeV in due fotoni. Osservando una distribuzione di questo genere si può solo dire di aver “osservato” una particella di 125 GeV che decade in due fotoni, non si può dire di avere “scoperto” il bosone di Higgs; per dire di “aver scoperto il bosone di Higgs” dovrei cercare di trovare un altro picco in un altro canale di decadimento previsto dalla teoria per il bosone di Higgs che si trovi sempre a 125 GeV; l’altezza di questo picco dovrà essere tale per cui il rapporto tra il numero di eventi che corrispondono al decadimento in due fotoni e il numero di eventi che corrispondono al decadimento in 4 leptoni sia compatibile con quello previsto dalla teoria per il bosone di Higgs. Posso allora cercare nello scontro protone-protone gli eventi in cui nello stato finale ci sono quattro leptoni. Questi quattro leptoni potranno ancora una volta a) essere il frutto di eventi casuali; b) essere i leptoni di decadimento di due bosoni Z prodotti nella collisione tra due protoni (i due bosoni Z decadono ciascuno in due leptoni per cui nello stato finale si hanno quattro leptoni); c) essere i prodotti di decadimento di un bosone di Higgs. Cerchiamo gli eventi dunque che a partire da una collisione di protone si concludono con quattro leptoni (eventi piuttosto rari, in verità) e quello che si vede è una distribuzione come nell’immagine che segue: 153 In azzurro c’è la distribuzione degli eventi in funzione della massa invariante che mi aspetto per fenomeni del tutto casuali; la presenza dei picchi è semplicemente dovuta al fatto che vi è una probabilità non nulla di produrre due Z, senza che questi due Z siano figli di un bosone di Higgs. Ma tra i due picchi ce n’è uno, evidenziato in rosso, non previsto da una teoria che escludesse il bosone di Higgs, e in corrispondenza di una massa invariante di 125 GeV: la conclusione è che stiamo osservando la stessa particella che ha prodotto il picco nel grafico precedente a questo in cui si rappresentava la massa invariante dei due fotoni; se poi contiamo il numero di eventi trovati nell’uno (due fotoni) e nell’altro canale (quattro leptoni) e facciamo il rapporto tra i due numeri troviamo lo stesso numero previsto dalla teoria per il bosone di Higgs (naturalmente entro gli errori sperimentali). La conclusione è che ho osservato sperimentalmente la produzione di un bosone di Higgs che ha una massa pari a 125 GeV. 6.5. Test ed esercizi Il bosone di Higgs è stato cercato a lungo, senza successo, a LEP: un collisore e+e− che ha operato fino a energie nel centro di massa di quasi 200 GeV. Il canale per la produzione di Higgs più promettente è quello rappresentato dal diagramma di Feynman riportato sotto. 154 Come mai non è stato trovato? a. Perché l’energia nel centro di massa non era sufficiente b. Perché i rivelatori non erano abbastanza efficienti c. Perché il bosone di Higgs è neutro e nel rivelatore non si poteva vedere d. Perché non si era capito che un bosone Z non poteva decadere in sé stesso più un’altra particella e. Perché a quell’energia la sezione d’urto del processo è bassissima [Il bosone Z di energia 200 GeV non può produrre un bosone Z (massa = 90 GeV) più un bosone di Higgs (massa = 125 GeV). La risposta corretta è la a.] Osserva il seguente diagramma di Feynman. Il diagramma rappresenta uno dei possibili modi attraverso il quale si può produrre un bosone di Higgs all’acceleratore LHC, che è un collisore di protoni. Nel diagramma sono presenti quark top, la cui massa è di circa 170 GeV. Poiché il bosone di Higgs si accoppia a tutti i quark, come i gluoni, al posto del quark top potrebbe esserci un quark u, la cui massa è di poco superiore ai 2 MeV. Qual è il rapporto tra l’ampiezza di probabilità del diagramma in figura e quello nel quale sono presenti quark u al posto dei quark t? a. ∞ perché il diagramma con il quark u dà contributo nullo b. 1 c. 85 d. 85000 e. 340 [L'accoppiamento gluone-quark non dipende dal tipo di quark, mentre l’accoppiamento bosone di Higgs-quark è proporzionale alla massa del quark. La differenza tra i due diagrammi in questione è dovuta soltanto al vertice che coinvolge il bosone di Higgs. Poiché la massa del bosone di Higgs è 85000 volte quella del quark up la risposta esatta è la d.] Se il potenziale del campo di Higgs nel suo valore minimo valesse 1 GeV, quale sarebbe, in unità naturali, la costante di accoppiamento tra il campo di Higgs e un elettrone di massa 0.5 MeV? a. 1 b. 2×10 3 155 c. 0.5 d. 0.75×10 8 e. 0.5×10−3 [La costante di accoppiamento per il potenziale di Higgs al suo valore minimo deve dare la massa della particella. La risposta corretta è la e.] Qual è la probabilità di osservare un decadimento di un bosone di Higgs in quattro fermioni carichi? Il decadimento è H→ℓ+ℓ−ℓ+ℓ− con ℓ=μ oppure e. a. <2×10−2 b. circa 0.1 c. quasi 1 d. si tratta di un decadimento non previsto e. dipende dalla natura dei leptoni [la risposta si ricava dai due diagrammi che danno la frequenza degli eventi. La risposta corretta è la a.] Quanto vale la massa del bosone di Higgs? a. 2×10−25 kg b. 1.7×10−27 kg c. 1 μg circa d. 0.2×10−35 kg e. 6.7×10−17 kg [La risposta corretta è la a.] Se, in opportune unità, il campo di Higgs nel vuoto vale 2, quale fra le seguenti espressioni ne rappresenta la densità di energia nel vuoto? a. u 2 2 4 b. u 2 4 c. u 8 2 4 d. u 2 2 2 4 e. u 4 2 4 [Il valor medio del campo di Higgs tra due stati di vuoto è quello per il quale il potenziale di Higgs assume il suo valore minimo. Occorre quindi cercare quale, tra le densità d’energia proposte, ha un minimo dove richiesto. I minimanti delle cinque possibilità sono a. φ=1; b. φ=1/√2; c. φ=2; d. φ=1/√2; e. φ=√2. La risposta corretta è la c.] Quale relazione sussiste tra le costanti di accoppiamento di un elettrone con un campo di Higgs ae e quella di un muone con un campo di Higgs aμ? a. ae = aμ b. ae < aμ c. ae > aμ d. le costanti di accoppiamento non sono ancora state misurate e. ae ≈ aμ 156 [La massa delle particelle dipende da quanto è forte l’accoppiamento col campo di Higgs, cioè dal valore della costante di accoppiamento con questo campo. La massa del muone è 200 volte quella dell'elettrone. La risposta corretta è la b.] 157 Cap. 7 Rivelatori Dall’analisi dei dati sperimentali è stato possibile costruire un modello di funzionamento dell’universo nel quale ci sono un certo numero di leptoni e di quark che interagiscono attraverso lo scambio di mediatori che hanno la caratteristica di essere bosoni (particelle a spin intero) e nel quale le masse delle particelle sono il prodotto dell’interazione delle stesse con il campo di Higgs. Ma come si osservano le particelle? E come abbiamo fatto a scoprire il bosone di Higgs? 7.1. I rivelatori in generale Abbia già visto come funziona un certo numero di rivelatori (camera a nebbia, camera a bolle, ciclotrone); non abbiamo visto come funziona una emulsione nucleare (?) possiamo immaginare che i rivelatori moderni funzionino con frequenze di eventi estremamente elevate: ad esempio, a LHC si hanno 40 milioni di collisioni al secondo e quindi è necessaria una serie di rivelatori che sia in grado di fornire risultati in tempi brevissimi. Non rimane che illustrare i principi di funzionamento di questi rivelatori più moderni che si usano negli acceleratori di particelle. Nella figura sopra si vede l’esplosione (il disegno esploso) di un tipico rivelatore per anelli di collisione dell’ultima generazione. Ha una simmetria cilindrica; l’asse del cilindro coincide con la traiettoria dei fasci; le particelle si scontrano al centro di questo cilindro, che appare uno strumento fatto come una cipolla di strati di rivelatori diversi a seconda della distanza dal punto di interazione chiamato “vertice”. Il cilindro ha lungo tutta la superficie laterale e lungo le basi una serie di rivelatori, ciascuno dedicato a una particolare categoria di particelle. 158 La macchiolina nera che si vede a destra, sulla piattaforma azzurra (così come quella che si vede nella figura in basso al centro) è la sagoma di un uomo disegnato in scala; se ne deduce che si tratta di rivelatori estremamente grandi e la loro grandezza è dovuta al fatto che devono essere in grado sostanzialmente di assorbire l’energia di particelle estremamente veloci, di diverse centinaia di GeV, talvolta anche di TeV. Vediamo un po’ più in dettaglio com’è fatto un rivelatore di questo genere. Vicino al vertice di interazione, vicino cioè alla parte più interna, c’è un tracciatore, un dispositivo che serve per visualizzare le tracce lasciate dalle particelle cariche che emergono dal “vertice”. Questo strumento deve stare molto vicino al vertice perché deve essere in grado di osservare, per quanto possibile, i vertici secondari di decadimento di particelle a vita media sì relativamente lunga che però decadono comunque nei primi centimetri o millimetri dopo essere nate. Attorno a questo strumento se ne trova un altro, un calorimetro elettromagnetico, indicato in azzurro), dedicato alla misura dell’energia di particelle che interagiscono elettromagneticamente (elettroni, positroni, fotoni). Successivamente, un altro strato di rivelatori, detto calorimetro adronico (giallo ocra), ha lo scopo di assorbire tutte le particelle che interagiscono per interazione forte (gli 159 adroni, appunto) e che non vengono tipicamente assorbite dal calorimetro elettromagnetico in quanto troppo pesanti per poter essere assorbite. Qualche volta tutti questi strumenti (come nel caso del detector rappresentato in figura, il rivelatore CMS-Compact Muon Solenoid dell’esperimento a LHC), altre volte solo i tracciatori del vertice, si trovano immersi in un campo magnetico quasi sempre uniforme: tale campo serve a fare in modo che le particelle cariche prodotte nell’evento assumano una curvatura (inversamente proporzionale alla loro quantità di moto in virtù della forza di Lorentz) dalla quale risalire alla carica elettrica e alla quantità di moto delle particelle. Quindi, all’esterno del calorimetro adronico è presente una bobina di filo elettrico (che nel caso specifico del CMS è una bobina superconduttrice (superconductin solenoid, segnato in bianco) perché deve produrre un campo magnetico piuttosto intenso, dell’ordine dei 4 Tesla; e per produrre un campo magnetico così intenso occorre una corrente molto elevata, che farebbe fondere qualunque conduttore convenzionale: per questo si usa un superconduttore, nel quale la resistenza opposta al passaggio della corrente è nulla e l’effetto Joule si riduce praticamente a zero). All’esterno della bobina superconduttrice sono presenti degli strati di rivelatori per muoni (in grigio) intervallati da degli assorbitori in ferro (le strutture rappresentate in rosso nella figura). Gli assorbitori in ferro hanno il duplice scopo di assorbire parzialmente l’energia delle particelle ma soprattutto quello di “chiudere” il campo magnetico su se stesso: il campo magnetico prodotto dalla bobina all’esterno della stessa si chiuderebbe infatti abbastanza lontano e sarebbe piuttosto debole; con il ferro le linee di forza del campo magnetico si concentrano nel ferro, e risulta più intenso (non come all’interno della bobina superconduttrice ma comunque di 2 Testa, sufficiente a far curvare i muoni che giungono al di là della bobina e che dunque possono essere rivelati segnati in chiaro tra le parti rosse e che permettono di ricostruire la traccia del muone arrivato sin lì. Vediamo (a pagina seguente) una sezione traversale del detector (sezione ingrandita dello spicchio segnato nell’angolo della figura). A sinistra c’è il “vertice”, il punto in cui i protoni si scontrano al centro del rivelatore in LHC; dalla collisione mergono diverse particelle. Attorno al punto di collisione ci sono gli strati di rivelatore di silicio (Silicon Tracker) che fungono da tracciatori, servono cioè per misurare la traccia delle particelle cariche che lo hanno attraversato; poiché tutto lo strumento si trova immerso in un campo magnetico generato dalla bobina (l’arco in grigio e nero che si trova dopo il giallo ocra e prima del rosso) le particelle cariche subiscono una curvatura, in un senso se cariche negativamente, nell’altro se cariche positivamente. Dalla misura della curvatura delle particelle si evince la loro quantità di moto. Nel tracciatore lasciano un segnale soltanto le particelle cariche, le uniche in grado di ionizzare il materiale di cui è fatto il tracciatore, nella fattispecie il silicio. Le particelle neutre come gli adroni neutri, i neutroni e i fotoni non lasciano tracce. I fotoni vengono assorbiti dal calorimetro elettromagnetico (l’arco segnato in verde); al di là di esso non giunge più alcun fotone. Lo stesso destino tocca agli elettroni e ai positroni, i quali sono distinguibili dai fotoni per il fatto di avere nel tracciatore di silicio una traccia carica associata… che termina 160 appunto nel calorimetro elettromagnetico dove si osserva un deposito di energia consistente, compatibile con quella che deve provenire da una particella con una quantità di moto tale per cui p2 + m2 è uguale all’energia (al quadrato!) misurata nel rivelatore. Quesito: quale rivelatore s’impiega per misurare l’energia dei fotoni? a. Il calorimetro elettromagnetico b. Il calorimetro adronico c. Il tracciatore in silicio [La risposta corretta è la a.] Al di là del calorimetro elettromagnetico passano tutte le particelle che non sono né fotoni, né elettroni, né positroni. Gli adroni (i protoni, i neutroni e tutte le altre che si possono immaginare, in particolare le K che decadono in tre pioni) vengono assorbiti dal calorimetro adronico (segnato in giallo ocra), che ha il compito di assorbire tutte le particelle che abbiano attraversato il campo elettromagnetico. Le uniche particelle che riescono a sfuggire al calorimetro adronico sono i muoni, perché non sono adroni, non interagiscono per interazione forte, hanno interazioni più deboli, di tipo elettromagnetico e debole, in particolare di tipo elettromagnetico (le interazioni deboli sono molto più deboli di quelle elettromagnetiche); interagiscono quindi con le stesse interazioni con cui interagiscono 161 gli elettroni, ma essendo molto più pesanti (un muone pesa circa duecento volte un elettrone) non vengono assorbiti né dal calorimetro elettromagnetico né dal calorimetro adronico, che riescono ad attraversare completamente; riescono ad attraversare anche la bobina superconduttrice (in grigio e nero) per arrivare all’esterno del rivelatore, dove si trova il ferro del giogo di ritorno del magnete (nel disegno le linee di forza del campo magnetico prodotto dalla bobina sono “entranti” nel foglio nella regione all’interno della bobina e quindi sono “uscenti” all’esterno, e si richiudono per lo più all’interno del ferro del rivelatore); il muone che arriva con una certa curvatura all’esterno del rivelatore, trovando un campo magnetico diretto in direzione opposta cambia curvatura; attraversa dunque questi strati di ferro tra i quali si trovano dei tubi rivelatori riempiti di gas (i rettangolini della figura); il gas viene ionizzato dal muone che vi passa attraverso; all’interno del tubo si misura un segnale elettrico che denuncia il passaggio di una particella carica; vedendo quali sono i tubi che si sono accesi al passaggio della particella si riesce a ricostruire la traiettoria della particella. Vediamo ora come funzionano in dettaglio singoli rivelatori fin qui descritti. 7.2. I rivelatori interni Cominciamo dai TRACCIATORI IN SILICIO, di cui vediamo una foto sotto. 162 I tracciatori in silicio sono quella sorta di mattonelle (piastre in silicio) che si vedono nella foto, disposte a formare dei cilindri concentrici e parzialmente sovrapposte in modo da non lasciare spazi attraverso i quali le particelle potrebbero passare senza essere evidenziate. Le piastre sono incise con le stesse tecniche litografiche che si usano per la produzione di chip presenti nei circuiti elettronici, in modo tale da costituire una rete molto fitta di microscopici condensatori. In pratica si prende un materiale di supporto (sostanzialmente lastre di silicio) sulle cui facce si depositano degli ossidi di metalli che facciano contatto elettrico (il silicio funge cioè da dielettrico); questi condensatori vengono polarizzati in modo che esista una certa differenza di potenziale tra un’armatura e l’altra. In condizioni standard, essendo la differenza di potenziale tra le due armature costante, in questi rivelatori non passa alcuna corrente; se però il rivelatore viene attraversato da una particella carica, questa può ionizzare il silicio, liberando quindi ioni di silicio ed elettroni di silicio che migrano nelle due direzioni opposte che corrispondono alle armature del condensatore producendo una debolissima corrente, che viene amplificata, misurata e registrata. Sapendo dove si trova il singolo condensatore/rivelatore attraversato dalla particella si può quindi ricostruirne la traiettoria. Naturalmente si deve ricostruire la traiettoria di migliaia di particelle che vengono prodotte nel vertice di interazione a distanze molto piccole e quindi serve una densità di condensatori piuttosto elevata: un rivelatore come quello che stiamo descrivendo è fatto con qualcosa dell’ordine dei dieci milioni di singoli condensatori che devono essere “letti” uno per uno per poter ricostruire completamente tutto l’evento. Le particelle neutre invece non lasciano traccia. Le particelle cariche che hanno attraversato il rivelatore di silicio perdono un po’ di energia… ma poca, perché il silicio è assai poco denso, la maggior parte dello spazio è vuoto, e dunque, subìta una certa curvatura per via del campo magnetico (curvatura che viene misurata), finiscono quasi tutte nel CALORIMETRO ELETTROMAGNETICO, strumento che ha la funzione di assorbire tutta l’energia delle particelle incidenti, almeno quelle di tipo elettromagnetico (elettroni, positroni e fotoni). Il nome di 163 “calorimetro” deriva dal fatto che un calorimetro ha la funzione di assorbire tutta l’energia dissipata sotto forma di calore da un oggetto che vi viene posto in mezzo. In questo caso il calorimetro elettromagnetico ha la funzione di contenere tutta l’energia delle particelle che entrano al suo interno. Nel caso del rivelatore al CMS, il calorimetro elettromagnetico è fatto con dei cristalli trasparenti come quello che si vede nella figura a destra, cristalli di un materiale molto pesante (tungstato di piombo, e il nome ci dice che è fatto di tungsteno e piombo) che deve produrre molte interazioni con le particelle che arrivano. Questi cristalli sono “scintillanti”: una volta assorbita l’energia delle particelle, dopo un tempo molto breve (decine di nanosecondi) emettono un debolissimo lampo di luce la cui intensità è proporzionale all’energia delle particelle che si sono fermate al suo interno. Per questo su un lato del cristallo viene incollato un fotorivelatore, un fotodiodo a valanga con il suo collettore che deve essere polarizzato opportunamente con una differenza di potenziale e letto; quindi si legge un impulso di corrente che è proporzionale alla luce vista dal fotorivelatore, la quale è a sua volta proporzionale all’energia rilasciata nel calorimetro. Cosa succede a un elettrone o a un positrone che penetra in un calorimetro elettromagnetico? Si verifica una serie di eventi che produce quello che viene indicata col nome di “SCIAME ELETTROMAGNETICO”: l’elettrone entra nel calorimetro e grazie all’interazione con i nuclei del materiale che lo costituisce (non riportati nello schema sotto) può “fare emissione”, cioè emettere uno o più fotoni: il fotone emesso può essere così energetico da produrre una coppia elettrone-positrone in presenza di un nucleo del materiale; gli e+ e – prodotti possono a loro volta irraggiare fotoni che possono a loro volta produrre coppie e+ e – … 164 Questo processo di moltiplicazione a cascata delle particelle fa sì che man mano che aumenta il numero di particelle presenti nello sciame l’energia delle particelle diminuisce sempre di più, fino a quando l’energia dei costituenti lo sciame è così bassa che i fotoni non riescono più a produrre coppie elettrone-positrone, i positroni annichilano nel materiale e gli elettroni ionizzano il materiale. Questo processo a cascata fa sì che si sviluppi all’interno del cristallo (come si vede nella simulazione rappresentata nel disegno qui sotto) un vero e proprio sciame di particelle, composto alla fine da migliaia di particelle tra le quali ci sono elettroni e positroni che causano la ionizzazione del materiale scintillante In che cosa consiste la ionizzazione del materiale scintillante? Consiste nel fatto che, per interazione elettromagnetica, l’elettrone che passa vicino a un nucleo del materiale emette un fotone (fig. 1) che viene assorbito da un elettrone delle molecole del materiale; questo elettrone, assorbito il fotone, acquista energia e si porta in uno stato di energia più alta (fig. 2) dando luogo a una molecola eccitata, la quale, dopo un tempo più o meno lungo a seconda del materiale impiegato nei rivelatori, si diseccita parzialmente (attraverso meccanismi di vario tipo ma che sostanzialmente non producono radiazione elettromagnetica: si tratta di passaggi attraverso stati rotovibrazionali oppure attraverso stati metastabili, anche attraverso l’emissione di fotoni, però di lunghezza d’onda molto bassa) ed emette un fotone (fig. 3), che ha energia inferiore a quello assorbito. Per cui, se il materiale ha la proprietà di assorbire fotoni di una certa energia ma è trasparente a fotoni di energia più bassa, come ne caso del tungstato di piombo, l’energia che viene immessa nel tungstato di piombo dopo un po’ viene trasformata tutta in luce che si propaga attraverso il cristallo trasparente del cristallo di tungstato di piombo, e può essere misurata dal fotorivelatore incollato su una delle facce. Il calorimetro elettromagnetico è dunque costituito da una serie di cristalli di tungstato di piombo disposti a formare un cilindro di raggio poco più di un metro, sorretto da strutture di alluminio. Al CMS ci sono circa 75000 di questi cristalli, ciascuno col suo fotorivelatore. Ce ne sono sulla superficie laterale del cilindro ma anche sulle basi. 165 All’esterno del calorimetro elettromagnetico arrivano solo particelle che non sono né positroni, né elettroni, né fotoni. Queste particelle devono essere assorbite e se ne deve misurare l’energia nella maniera più completa possibile. Il principio sul quale si basa il funzionamento del CALORIMETRO ADRONICO è sostanzialmente lo stesso sul quale si basa il funzionamento del calorimetro elettromagnetico: è cioè costituito di un materiale sufficientemente pesante da produrre molte interazioni con gli adroni che lo attraversano. Gli adroni, urtando contro i nuclei del materiale del calorimetro adronico, esattamente come fa un fascio di adroni che va a sbattere su un bersaglio, producono altre particelle, la cui energia è necessariamente più bassa di quella degli adroni incidenti; queste nuove particelle urtano altri elettroni e altri nuclei del materiale, producendo a loro volta altre particelle, che avranno energia ancora più bassa, e così via, fino a quando le particelle prodotte hanno energia così bassa che non riescono più a produrre nuove particelle. Le particelle che si sono generate in questi urti possono essere elettricamente cariche e dunque possono produrre ionizzazione del materiale; a questo punto si può misurare almeno la componente elettricamente carica di questo sciame adronico (non quindi neutroni, π0, Λ…) Quesito: quali particelle riescono ad attraversare entrambi i calorimetri? a. Tutte le particelle neutre b. I fotoni c. I muoni [La risposta corretta è la c.] Per fare in modo che i calorimetri siano abbastanza compatti si usano materiali abbastanza pesanti che fungono da assorbitori senza la possibilità di misurare l’energia, la quale è misurata a campione, cioè non si misura tutta l’energia depositata dallo sciame adronico nel calorimetro ma la si misura solo a intervalli predefiniti, e quindi si misura solo una frazione dell’energia persa ma questa è sufficiente per ricostruire l’integrale di tutta l’energia depositata nel calorimetro. Qui sotto a sinistra si vede una foto di un settore del calorimetro adronico che è fatto con degli strati di ottone tra i quali sono inserite delle lastre di un scintillatore in questo caso plastico, cioè non di cristallo ma di una plastica scintillante, che funziona con lo stesso principio del cristallo, ma essendo molto meno densa ha la sola funzione di rivelare la componente ionizzante degli sciami adronici. La componente ionizzante degli sciami adronici produce quindi in definitiva luce in questi fotoscintillatori che viene rivelata da fotorivelatori e trasformata in segnali elettrici che vengono misurati. 166 Ancora una volta, questi settori a forma di trapezio vengono messi uno di fianco all’altro in modo da formare una corona cilindrica le cui basi vengono chiuse da delle strutture che permettono di chiudere tutte l’angolo solido e misurare quindi l’energia delle particelle sparate ad ogni angolo e in tutte le direzioni Sotto si vede il calorimetro adronico completato che sta per essere inserito della bobina superconduttrice. 167 Qui sotto si vede invece la simulazione di uno sciame adronico misurato dalla collaborazione ICARUS che è stata in grado di rivelare le singole particelle prodotte in uno sciame adronico e quindi di visualizzare lo sciame. In questo caso la particella entra da destra, comincia a interagire con il materiale di cui è fatto lo strumento producendo altre particelle che man mano producono altre particelle che quando interagiscono col materiale lasciano un segnale elettrico che può essere memorizzato e utilizzato per ricostruire graficamente l’evento Questi sciami hanno una lunghezza che dipende dall’energia della particella incidente; noi misuriamo l’energia a profondità diverse e in questo modo riusciamo a ricostruire l’energia complessiva che doveva avere la particella prima di entrare nel calorimetro adronico. Calorimetro elettromagnetico e calorimetro adronico sono segmentati su tutta la superficie in maniera da sapere dove è entrata o passata la particella. 7.3. I rivelatori esterni Al di fuori del calorimetro adronico non riesce ad arrivare alcuna particella se non i muoni. Per la verità anche i neutrini attraversano tracciatore, calorimetro elettromagnetico e calorimetro adronico, ma non hanno carica elettrica e interagiscono solo debolmente e quindi è praticamente impossibile rivelarli. Su un evento di questo genere la presenza di neutrini si evince dalla cosiddetta “energia mancante”. Infatti la quantità di moto, inizialmente nulla sul piano trasverso, deve conservarsi. Se su quel piano (il piano della figura ripetuta sotto) non è nulla significa che la componente vettoriale che serve per rendere nulla la quantità di moto su quel piano deve essere stata portata via dal rivelatore attraverso invisibili nel rivelatore, come i neutrini. La componente della quantità di moto è nulla solo sul piano trasverso perché le particelle che si scontrano sono protoni che non sono particelle puntiformi; se si trattasse di elettroni e positroni, particelle puntiformi, la quantità di moto sarebbe nulla in tutte le direzioni longitudinale e trasversale. Nel caso dei protoni ciò che si scontra è una coppia di quark-antiquark o due muoni e quindi non possiamo sapere nulla lungo 168 l’asse dei fasci che si scontrano. Quindi possiamo solo affidarci alla conservazione della quantità di moto sul piano trasverso. I muoni non vengono catturati all’interno della bobina perché interagiscono per interazione elettromagnetica ma sono troppo pesanti per essere assorbiti dagli strumenti del rivelatore interni alla bobina; riescono a sfuggire e si possono osservare grazie alla ionizzazione che lasciano nella parte esterna dello strumento. Lasciano anche delle tracce all’interno, ma dall’interno è difficile dire se si tratti di muoni o elettroni; mentre, se osservo delle tracce anche all’esterno posso dire con ragionevole certezza che si tratta di muoni. I muoni vengono rivelati dai rivelatori disegnati sotto come rettangoli chiari che si trovano tra gli assorbitori di ferro. Questi rettangoli sono dei tubi a sezione rettangolare (di cui qui sotto a destra si vede una foto), riempiti di un gas; dentro vi è un filo elettrico tenuto ad alto potenziale: quando il muone attraversa il tubo ionizza il gas e si ha quindi un passaggio di corrente tra la parete del tubo e il filo all’interno; si amplifica e si misura questa corrente, si determina quale dei tubi è stato attraversato dal muone e in questo modo si riesce a ricostruire completamente la traiettoria del muone. 169 Qui sotto si vede lo strumento quasi completo, manca solo la base del cilindro. Si vede al centro il tracciatore in silicio che sta per essere inserito al centro del rivelatore. Il calorimetro elettromagnetico non si vede, avvolto com’è da quello adronico. Si vede la bobina all’interno di un recipiente, perché per diventare superconduttrice deve essere raffreddata con dell’elio liquido Con questo aggeggio possiamo allora misurare la quantità di moto della particella, la carica e il grado di interazione col materiale. Diremo che - la particella è un fotone se ha lasciato un segnale piuttosto intenso nel calorimetro elettromagnetico che non sia associato a una traccia lasciata nel tracciatore; - la particella è un elettrone o un positrone se ha lasciato un segnale piuttosto intenso nel calorimetro elettromagnetico che sia correlato a una traccia carica (positiva o negativa) lasciata nel tracciatore; - la particella è un adrone se lascia una traccia nel tracciatore di vertice associabile a un segnale piuttosto intenso nel calorimetro adronico; - la particella è un adrone neutro se lascia un segnale intenso nel calorimetro adronico non correlato ad alcuna traccia nel tracciatore di vertice; - le particelle che riescono a raggiungere la parte esterna (i tubi di gas) sono muoni. Le migliaia di tracce di ogni evento vengono acquisite dal computer, che fa una prima rapida analisi dell’evento e misura la quantità di energia depositata in certe parti del detector. Quando i protoni si scontrano accade spesso che i protoni frammentino e i frammenti vanno in avanti o all’indietro rispetto alla direzione dei fasci. 170 Gli eventi interessanti sono invece quelli in cui vengono prodotte particelle a grande angolo rispetto alla direzione dei fasci. Quando ciò accade, il sistema di computing veloce del rivelatore (il trigger) lo rivela e acquisisce tutte le informazioni relative all’evento; queste informazioni vengono poi utilizzate dai fisici per ricostruire, anche sotto forma di immagini, l’evento. 7.4. Quesiti ed esercizi In un calorimetro i processi di sviluppo di uno sciame continuano fino a quando l'energia delle particelle è superiore a un’energia detta energia critica Ec. Un modello molto semplice di sviluppo di uno sciame prodotto da un fotone è il seguente: 1. il fotone, inizialmente di energia E materializza in una coppia elettrone-positrone in cui ciascuno dei figli ha energia pari a E/2 2. ciascuna delle particelle prodotte irraggia un fotone di energia pari alla metà di quella della particella madre, che quindi ne conserva la metà di quella che aveva inizialmente. 3. Ogni fotone materializza nuovamente in una coppia come al punto 1 4. Ogni elettrone o positrone emette un fotone perdendo metà della sua energia Il processo va avanti in modo tale che dopo N passi ci sono 2N particelle tra fotoni, elettroni e positroni. Lo sviluppo dello sciame si arresta quando l’energia delle particelle presenti scende sotto l’energia critica. Quale tra le seguenti formule fornisce un’indicazione del numero di passi complessivi dello sciame? a. N=αE con α costante b. N=exp(−E/Ec) c. N=log(E/Ec)/log2 d. N=E/Ec e. N=(E/Ec)−2 [Il processo continua finché (1/2)N E<Ec. La risposta corretta è la c.] Due bande di energia di uno scintillatore sono separate di 3 eV. Tra di esse si trova uno stato metastabile a 2.70 eV dallo stato di energia più basso. Qual è la lunghezza d’onda tipica dei fotoni di scintillazione? a. 270 nm b. 540 nm c. 460 nm d. 1250 nm e. 320 nm [La risposta corretta è la c.] 171 Osserva l’immagine che rappresenta un evento registrato a LHC Di che tipo di evento si tratta? a. Z→e+e− b. È un muone dei raggi cosmici che ha attraversato il rivelatore c. H→γγ d. Z→μμ e. È una particella che decade in adroni [La risposta corretta sembra la b.] Si tratta di un elemento di un rivelatore. Di che tipo di rivelatore potrebbe trattarsi? a. di un calorimetro b. di una camera a bolle c. di un rivelatore di muoni 172 d. di un tracciatore di silicio e. di un tracciatore a gas [La risposta corretta è la a. Si tratta di un elemento di un calorimetro elettromagnetico] Guarda lo schema di questo rivelatore. A tuo avviso si potrebbe trattare di... a. di un rivelatore per neutrini b. non può essere un rivelatore c. un rivelatore per un esperimento a un collider d. un rivelatore per un esperimento a bersaglio fisso e. di un rivelatore da mandare nello spazio [La risposta corretta sembra la d.] In un rivelatore a un collider si osserva un intenso deposito isolato di energia nel calorimetro adronico. Che tipo di particella può averlo prodotto? a. un muone b. un protone (errata) c. un fotone d. un neutrone e. un elettrone [Tutte le particelle cariche, quindi anche i protoni, descrivono tracce curve nel tracciatore interno e rilasciano energia nel calorimetro elettromagnetico. Se si vede un deposito isolato di energia nel calorimetro adronico deve trattarsi di un adrone che non ha lasciato traccia nel tracciatore; la risposta esatta è quindi la d.] 173 Osserva l’immagine a destra: si tratta di un evento registrato dall’esperimento ALEPH a LEP (un collider e+e− in cui si producono bosoni Z). Di che tipo di evento si tratta? a. Z→μμγ b. Z→e+e− c. Z→γ d. Z→q-antiquark e. Z→ννγ [La parte in rosso rappresenta il calorimetro adronico, la parte in verde il calorimetro elettromagnetico, lo strato blu la bobina che genere il campo magnetico. La risposta esatta è la…?] Osserva l’immagine a destra: si tratta di un evento registrato dall’esperimento OPAL a LEP (un collider e+e− in cui si producono bosoni Z). La torre gialla rappresenta un deposito nel calorimetro elettromagnetico. Di che tipo di evento si tratta? a. Z→qq¯ b. Z→ννγ c. Z→μμγ d. Z→e+e− e. Z→γ [La risposta esatta è la e.] 174 Nell’immagine a destra si osserva una traccia carica che raggiunge i rivelatori più esterni (in rosso) e altre tracce disposte in modo asimmetrico, che appartengono a particelle assorbite dai rivelatori più interni, oltre a pochi depositi isolati nei calorimetri. Come si può interpretare quest’evento? Quale particella potrebbe essere stata prodotta? a. un W decaduto in un muone e un neutrino b. un adrone neutro c. una J/Ψ che decade in due muoni d. una Z che decade in particella e antiparticella e. un bosone di Higgs che decade in due fotoni [La risposta corretta è la a.] Osserva la ricostruzione di un evento a LHC. 175 Nell’immagine le linee rosse connettono segnali rivelati nelle camere esterne al magnete e nel tracciatore centrale. Come si può classificare questo evento? a. b. c. d. e. Z→qq¯ W→eν H→ZZ Z→μ+μ− (errata) H→γγ [La risposta esatta è la c. Ciascuno dei due Z decade in una coppia di muoni, per cui si osservano quattro tracce.] 176 Carlo Dariol particelle : Ebbene sì… è stata una straordinaria rottura di EDIZIONI DEL CUBO Ultima revisione: gennaio 2017 www.elevamentealcubo.it 177