Tsunami
a) Introduzione
Tradotto letteralmente il termine Tsunami significa “onda nel porto”, mentre in
italiano viene anche comunemente translitterato come Maremoto. L’utilizzo di
quest’ultimo termine non può essere considerato apertamente improprio, tuttavia in
ambito scientifico è di norma accettato il termine originale e pertanto noi questo
utilizzeremo.
A coniare questa definizione furono, in tempi remoti, proprio i pescatori Giapponesi, i
quali distinguevano questa fenomenologia ondosa da quella ordinaria in virtù della
sua insidiosa natura, ovvero dell’essere silente in mare aperto ed invece manifestarsi
in modo violento e repentino in prossimità delle coste.
Dunque i pescatori salpavano per la loro giornata di lavoro, non notavano nulla di
strano poiché in alto mare e al rientro in porto trovavano la devastazione.
In un moto ondoso comune, se il mare (o oceano) è agitato in prossimità della costa,
anche al largo la situazione non cambia granché.
Ma allora qual’è la caratterizzazione delle due differenti tipologie di onde ? Prima di
entrare nello specifico, cogliamo l’occasione per cercare di capire le caratteristiche e
la natura della descrizione ondosa dei fenomeni fisici, anche se questo comporta una
non breve parentesi
b) Un primo sguardo sulle caratteristiche delle onde
Descrivere il moto ondoso non è per niente facile, ed inoltre le discussioni, specifiche,
caratterizzazioni delle equazioni che descrivono il fenomeno, richiederebbero
prerequisiti che qui tralasceremo.
Ciò nonostante cercheremo di farvi entrare nella questione, proponendo di seguito
alcuni spunti di riflessione, partendo dalla più intuitiva fenomenologia meccanica.
Quando un sistema di forze perturba per un tempo limitato lo stato di quiete di una
regione della struttura reticolare (o molecolare) di un mezzo, questa tende
temporaneamente a spostarsi dalla sua posizione originaria, per poi tornarvi. Il
movimento fa si che le strutture immediatamente adiacenti alla zona perturbata
vengano a loro volta coinvolte nel processo e dunque si può intuire come il fenomeno
tenda poi a propagarsi di regione in regione nel mezzo in questione.
Se consideriamo un mezzo omogeneo ed elastico, possiamo dire che (b1) un’onda è
una perturbazione che si propaga nello stesso, la quale può essere descritta in ogni
punto da una forma identica, ma con un ritardo determinato dalla distanza rispetto al
suo punto d’origine.
Se il mezzo è completamente elastico (o considerabile come tale), la perturbazione
propagherà inalterata nel tempo la sua energia complessiva.
Nel caso il mezzo sia parzialmente elastico (o più in generale definito mezzo
dissipativo), l’energia dell’onda subirà un progressivo smorzamento, ovvero le forze
dissipative del mezzo ridurranno via via l’energia complessiva della perturbazione
col passare del tempo (dunque durante la propagazione) sino ad annullare la
perturbazione stessa. Il grado di dissipatività del mezzo determinerà il contributo di
smorzamento dell’energia complessiva della perturbazione.
Sino ad ora abbiamo posto l’accento sull’energia complessiva dell’onda, poiché ciò ci
permette di introdurre il concetto di intensita dell’onda, ovvero la potenza trasmessa
dalla perturbazione per unità di superficie (ortogonale alla direzione di propagazione)
ad un dato istante di tempo (si misura in W/m2). Ricordiamo che, in ultima analisi,
una potenza rappresenta una variazione di energia nel tempo.
Per non entrare troppo nell’astratto facciamo un esempio considerando un’onda che si
propaghi in modo sferico (onda sferica1) in un mezzo elastico (dunque non
dissipativo). Pertanto la potenza (P) iniziale si conserverà nel tempo e possiamo dire
che in ogni istante essa sarà : P = 4πr2 I.
Poiché, come detto, l’onda si propaga, allora r varierà in funzione del tempo e della
velocità di trasmissione della perturbazione nel mezzo. Si può ben vedere che
l’intensità cala con il quadrato della distanza dal punto di origine della perturbazione.
Se il mezzo non è completamente elastico, l’intensità calerà ulteriormente secondo un
coefficiente legato alle caratteristiche del mezzo in questione.
Di seguito descriviamo brevemente altri parametri caratteristici delle onde.
-
-
-
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Ampiezza dell’onda: è il massimo spostamento che il mezzo compie in un
dato punto rispetto alla posizione di riposo.
Fase dell’onda: rappresenta lo stato delle caratteristiche del moto della
perturbazione in diversi punti dello spazio. Ricordando quanto detto sopra
riguardo la perturbazione ondosa (vedi b1), due punti si dicono in fase se in
essi la perturbazione assume nel medesimo istante le stesse caratteristiche di
moto.
Fronte d’onda: è l’insieme dei punti dello spazio che in un certo istante
hanno medesima fase.
Lunghezza d’onda (λ): E’ la distanza spaziale che, ad un certo istante di
tempo, intercorre tra due punti susseguenti in concordanza di fase, nella
regione interessata dalla perturbazione ondosa. Pertanto si può anche dire che
è la distanza tra due fronti d’onda.
Periodo (T): E’ il minimo intervallo di tempo necessario ad un punto spaziale
per acquisire due volte le medesime caratteristiche di moto determinate dalla
perturbazione ondosa. In altri termini è il tempo minimo necessario per far
assumere ad un punto spaziale due volte la stessa fase.
Frequenza (ν): E’ l’inverso del periodo, ovvero rappresenta quanti periodi
compongono l’unità di tempo.
Non proporremo qui la definizione dell’equazione delle onde, tuttavia una delle
relazioni fondamentali è (b2): v = λν, dove v è la velocità di propagazione dell’onda
nel mezzo (detta velocità di fase dell’onda).
Come ultima cosa è bene sottolineare che gran parte dei concetti sin qui espressi, sono
anche validi in ambiti in cui la trattazione ondulatoria è applicabile alla descrizione di
fenomeni non strettamente attinenti all’ambito meccanico.
1
L’onda sferica è rappresentata da un’equazione del tipo: A( r , t ) =
l’ampiezza, v è la velocità di fase dell’onda e λ la lunghezza d’onda.
A

 2π
Sin  (r − vt ) dove A è
r

λ
c) Onda su Onda
Date differenti sorgenti di perturbazioni ondose, una caratteristica delle onde è la loro
capacità di interagire nel mezzo in cui si propagano e dare vita a fenomeni di
interferenza, ovvero di sommare o sottrarre le rispettive ampiezze (a seconda della
fase con cui interferiscono) in vari punti dello spazio.
Quando l’intensità di un’onda si somma all’altra si dice che si ha un’interferenza
costruttiva, mentre quando si sottrae si chiama interferenza distruttiva.
L’interferenza è un fenomeno fisico osservabile (misurabile) in modo estremamente
semplice, basta, ad esempio, una bacinella d’acqua e due sorgenti che ne perturbino lo
stato di quiete della superficie. Il fenomeno dell’interferenza costruttiva delle onde nel
mare in tempesta è temuto dai marinai, in quanto onde siffatte possono acquisire forza
straordinaria e se dovessero incrociare la rotta di una nave, questa potrebbe subire
gravi danni. A tal proposito esistono documenti filmati che mostrano accadimenti
simili. Di esempi se ne potrebbero fare molti, ma la cosa su cui porre l’attenzione è la
natura del fenomeno.
Daniel Bernoulli ipotizzò che una qualsiasi forma d’onda potesse essere descritta
dalla composizione (più precisamente si dovrebbe dire convoluzione) di una serie di
onde più elementari (armoniche). L’idea di Bernoulli raggiunse la maturità
matematica grazie all’opera Théorie analytique de la chaleur che Joseph Fourier
terminò nel 1822 e i successivi approfondimenti da parte di L. Dirichlet nel 1828.
Per quanto sia istintivo pensare ad una sorta di fenomeno interferenziale, è bene non
dare un rigoroso senso fisico alla convoluzione delle singole armoniche (che peraltro
in varie situazioni assume, poiché le armoniche divengono fattivamente osservabili),
ma piuttosto al risultato complessivo del suddetto metodo analitico, impiegato per
descrivere il problema delle varie tipologie di manifestazioni ondose osservabili in
natura.
Tutto ciò può sembrare astruso, ma diviene ben apprezzabile quanto si entra in domini
poco intuitivi della ragione, ad esempio studiando la meccanica quantistica, nella
quale solo attraverso lo strumento matematico si riesce a sondare l’intima essenza dei
fenomeni naturali.
Per cercare di far capire meglio quanto sin qui esposto, facciamo un piccolo esempio.
Quando si parla di onde, la prima immagine che salta alla mente è la forma della
sinusoide unidimensionale2. Dunque un’onda periodica che si perpetua in tutto lo
spazio.
Tuttavia in natura le informazioni vengono propagate attraverso onde che
caratteristicamente non hanno periodicità spaziale come sopra detto o addirittura non
sono affatto periodiche. Non sono neppure fisicamente caratterizzabili da singole
onde con frequenza definita, ma sempre hanno una, seppur minima, dispersione in
frequenza3.
Tra gli esempi più semplici che si possono utilizzare per chiarire questo concetto, si
può far riferimento alla forma d’onda gaussiana, ovvero la classica figura con profilo
2
L’espressione di una siffatta onda è:
 2π

y ( x, t ) = A Sin  (x − vt ) + ϕ  dove A è l’ampiezza , ϕ è
λ

l’ampiezza all’istante t = 0 e x= 0, v è la velocità di fase dell’onda e λ la lunghezza d’onda.
Anche il fascio laser più coerente che si possa idealizzare avrà una dispersione in frequenza per il
principio d’ indeterminazione di Heisemberg
3
d’altezza a campana4, che può ben rappresentare una perturbazione a carattere
impulsivo. La convoluzione delle armoniche della gaussiana ne definisce dunque la
struttura e l’informazione è trasportata e caratterizzata dalla perturbazione medesima.
Schroedinger definì il risultato di una generica convoluzione come pacchetto
d’onde, ovvero la caratterizzazione del trasporto dell’informazione, ed è questa la
notazione che a tutt’oggi è utilizzata nel trattare fenomeni descrivibili attraverso
perturbazioni ondose.
La velocità di trasferimento del pacchetto d’onda è chiamata velocità di gruppo e tra
breve vedremo di accennare ad alcune sue importanti caratteristiche.
d) C’è velocità e velocità
Sin qui abbiamo genericamente detto che una perturbazione ondosa rappresenta il
propagarsi dell’informazione in un dato ambiente fisico (o più sinteticamente
chiamato mezzo). Tuttavia non abbiamo posto nessuna questione riguardo
l’interazione tra l’ambiente e la perturbazione stessa.
La questione è molto complessa (e dunque ne tralasceremo i dettagli), ma con gli
elementi sin qui raccolti possiamo cercare di inquadrare il problema.
Ripartiamo dalla formula b2 (la quale rappresenta il legame tra frequenza, lunghezza
d’onda e velocità di fase) e teniamo presente il concetto di pacchetto d’onda e
velocità di gruppo appena esposto. Infine introduciamo il seguente nuovo concetto: un
mezzo si dice dispersivo se la velocità di fase dell’onda è in funzione della frequenza.
Pertanto in ambienti non dispersivi la velocità di fase è indipendente dalla frequenza,
ossia qualsiasi perturbazione ondosa avrà medesima velocità di fase.
Il concetto di dispersione è intimamente legato proprio all’interazione tra la
perturbazione ondosa e il mezzo in cui essa si propaga. Ad esempio nel vuoto la luce5
si propaga (indipendentemente dalla frequenza) alla ben nota omonima velocità
(indicata con C) e dunque la velocità di fase è indipendente dalla frequenza (nella b2
v = C), mentre nei materiali tale velocità apparentemente varia rispetto a C.
Ripensiamo brevemente a quanto detto a proposito della convoluzione, ovvero come
ad una operazione tra varie armoniche. Sinché il mezzo non diviene dispersivo, queste
non hanno differenze di moto tra di loro, proprio perché la velocità di fase non
cambia. Vice versa queste acquisiranno un moto relativo e dunque il pacchetto si
deformerà nel tempo. Tale deformazione viene indicata come dispersione del
pacchetto d’onde6, ed anche la velocità di gruppo acquisirà un valore calcolato
sull’intero spettro delle frequenze di fase delle armoniche elementari7.
Riprendiamo per un momento quanto detto poc’anzi sulla luce; ma non ci hanno
sempre insegnato che i fotoni (quanti di energia) sono dannati a muoversi alla
velocità C ? Di seguito proveremo a “far luce” sulla questione e probabilmente ciò
servirà a dar forza alle cose sin qui presentate
4
La funzione di Gauss, nella sua forma unidimensionale più semplice, è rappresentata dall’espressione:
y ( x) = e − x
5
2
La luce è la piccola porzione dello spettro elettromagnetico, che si estende dalle radioonde ai raggi
gamma, percepita dal nostro occhio.
6
In meccanica quantistica questo fenomeno determina il moderno concetto di orbitale atomico, che
supera la concezione strettamente corpuscolare (elettrone che ruota) di Bohr
7
Per quanto sin qui detto, in mezzi non dispersivi la velocità di gruppo coincide con quella di fase.
e) Fiat Lux !
La radiazione elettromagnetica si propaga sottoforma di quanti di energia chiamati
fotoni. L’energia ad essi associata è proporzionale alla loro frequenza, ma la loro
massa è nulla (zero).
Una delle relazioni tra le più conosciute della relatività lega proprio la massa e
l’energia. Nella sua forma completa la si può scrivere come segue:
E=
m0 C 2
v
1−  
C 
2
dove m0 è la massa della particella quando si trova a riposo rispetto al sistema di
riferimento usato, v la velocità della particella, E l’energia e C la velocità della luce.
Un fotone, come detto, ha sempre massa zero, ma è portatore d’energia. Dunque
com’è possibile che il risultato della frazione sia diverso da zero se il numeratore è
sempre zero ?
In matematica esistono le cosiddette forme indeterminate, ovvero quelle forme che
hanno bisogno di altri tipi di valutazioni per essere risolte e posso infine assumere
anche valori definiti. Tra queste c’è anche il rapporto tra un numeratore e un
denominatore uguali a zero. Riguardando la formula di sopra, ben si intuisce che la
forma indeterminata citata la si ha solo se v diviene uguale a C.
Questa non è di certo la dimostrazione del fatto che i fotoni debbano viaggiare alla
velocità della luce, ma ne è però un’espressione.
Da quanto detto al punto d) e di ciò che abbiamo appena affermato, cosa significa dire
che la velocità della radiazione elettromagnetica può essere inferiore a C in mezzi
dispersivi ?
In modo estremamente semplificato, significa che nel complicato processo
d’interazione della radiazione con la materia, questa opera una sorta di
“trattenimento”8 dei quanti d’energia con efficienza dipendente dalla frequenza e per
questo l’energia (cioè la quantità osservabile) si trasferisce in tempi differenti rispetto
al vuoto. Dunque ecco l’interpretazione che da un senso fisico alla velocità di gruppo,
mentre per quanto riguarda la velocità di fase è bene spendere due parole in più.
Come accennato, anche il fascio di radiazione più coerente che si possa pensare avrà
una dispersione in frequenza e dunque può essere visto come un pacchetto d’onde.
Pertanto sarà descrivibile da una convoluzione di armoniche secondo la serie di
Fourier. Non è allora difficile imbattersi in mezzi dispersivi in cui le armoniche
assumano velocità di fase superluminari dunque sensa un reale senso fisico.
Da quanto sin qui detto, considerando la luce bianca come un insieme di pacchetti
d’onda ben coerenti in frequenza, si può intuire il meccanismo della dispersione
8
Il processo si fonda sulla possibilità di avere interzioni “fuori banda” tra radiazioni e strutture
atomiche. Mentre le interazioni in banda possono essere considerati stati stazionari (durata di circa 10-8
s), quelli fuori banda sono decisamente improbabili e non stazionari (decadimento in 10-15s). La
probabilità di scattering si dimostra essere intimamente legato al tempo di decadimento e dunque gli
stati non stazionari “mantengono memoria” della direzione di propagazione. Sul tema si legga
l’interessante articolo scritto da H. F. Herzfeld dal titolo “Tentativo di interpretazione quantistica della
dispersione” reperibile su Zeitschr f. Phys. 23, 341 (1924).
cromatica della luce, osservata per la prima volta da Newton grazie all’utilizzo del
celeberrimo prisma.
f) Il numero di Mach
Sino ad ora abbiamo trattato casi in cui non sono state fatte ipotesi sulla sorgente della
perturbazione. Ora brevemente discuteremo l’eventualità in cui essa abbia un moto
proprio rispetto al sistema di riferimento considerato. Per rendere più semplice la
comprensione al lettore della fenomenologia, ci avvarremo come base d’esempio del
moto della sorgente in fluidi comprimibili come l’aria.
Nell’ipotesi ora citata, la propagazione della perturbazione si combina con il moto
della sorgente e produce il caratteristico effetto doppler, per cui gli osservatori verso
i quali la sorgente si dirige riceveranno un segnale a più altra frequenza, mentre per
quelli da cui si allontana a più bassa frequenza. L’esempio più caratteristico è quello
dell’ambulanza che ci passa vicino. Dunque nel propagarsi i fronti d’onda tendono ad
avvicinarsi nel primo caso ed allontanarsi nel secondo.
Ma cosa succede quando la velocità della sorgente della perturbazione supera la
velocità di propagazione caratteristica dell’onda nel mezzo ?
Si può dimostrare che i fronti d’onda interferiscono tra loro e formano una nuova
forma di perturbazione che, nel caso dei fluidi compribili, viene chiamata onda
d’urto. Il bang di un’aereo supersonico ne è il classico esempio e, in quel caso, la
perturbazione non trasferisce solo energia, ma produce un vero e proprio shock
pressorio e spostamento di materia. Se consideriamo il moto di un aereo, si può
individuare che l’onda d’urto si propaga sottoforma di cono, che si apre con un angolo
dipendente dalla velocità dell’aereo, anche identificato come diedro di Mach. Fu
proprio tale scienziato che definì come il suo nome il rapporto tra la velocità della
sorgente e quella del suono. Pertanto a Mach 1 stiamo viaggiando alla velocità del
suono.
Situazioni simili si formano anche in fluidi non comprimibili (si pensi alla scia di un
motoscafo sull’acqua), oppure con particelle cariche molto veloci che si muovano
attraverso un mezzo (es. radiazione cosmica), generando così la radiazione di
Cerenkov.
g) Onde di acqua alta
Parlando di onde nei liquidi (che ricordiamo essere incomprimibili), si dice che in un
bacino si ha una perturbazione ondosa di acqua alta (o di Airy o trocoidale), se la
lunghezza d’onda associata alla stessa è molto più corta rispetto alla profondità del
bacino.
E’ il caso tipico delle normali onde del mare (anche comunemente chiamate onde
oceaniche), le quali assumono lunghezze d’onda compresa tra i 100 e 200 metri e
periodi tra i 5 e 20 secondi.
La genesi di questo tipo di perturbazioni è (in estrema sintesi poiché si tratta di un
fenomeno molto complesso) strettamente legata alla dinamica atmosferica ed in
particolare a variazioni di pressione (dell’ordine di qualche hPa), dovute alle
turbolenze atmosferiche indotte dal vento su ampie superfici contigue di mare9.
9
La teoria esposta è dello studioso americano Owen Phillips ed è quella ad oggi più accreditata, pur
non chiarendo completamente tutti i dettagli della dinamica alla base della genesi delle onde.
Dunque la superficie marina si abbassa ove la pressione è più alta e si innalza ove è
più bassa, inducendo così le particelle di fluido ad un oscillazione circolare rispetto al
punto di quiete. L’effetto visivo è quello del moto ondoso che si propaga nella
direzione del vento, ma è bene ricordare che è la perturbazione che si progana (ovvero
le particelle di fluido muovendosi dalla loro posizione di equilibrio trasmettono il
moto a quelle immediatamente a loro adiacenti) e non vi è alcun movimento di fluido
che non sia, per l’appunto, l’oscillazione.
Nell’area di genesi delle onde, si sviluppa una ricca varietà di lunghezza d’onda delle
perturbazioni. In un gioco molto complesso, l’interazione tra l’interferenza delle
perturbazioni ondose e le variazioni di pressione (determinate anche dalla velocità
caratterizzante il flusso del vento) producono un meccanismo selettivo, che infine
restituisce un profilo d’onda dominante.
Le onde oceaniche trasmettono la turbolenza anche nel profondo del mare, ma questa
si smorza rapidamente e non supera tipicamente mai la profondità di mezza lunghezza
d’onda. Dunque anche nelle tempeste più violente (cicloni tropicali), al turbolenza
della superficie tipicamente non si rileva più al di sotto dei 50 metri dalla superficie
considerata in quiete.
Nel suo moto in mare, sotto la spinta del vento, l’onda acquisisce una ripidità
crescente (la cresta dell’onda si alza e piega verso il ventre) a causa della differente
pressione esercitata proprio dal vento tra la cresta ed il ventre della stessa. Tanto è più
teso è il vento, tanto più quest’effetto diviene marcato.
Quando l’onda si avvicina alla costa ed il livello batimetrico diviene comparabile con
la lunghezza d’onda. Per conservare la propria energia l’onda inizierà ad innalzarsi
vistosamente sul livello di quiete del liquido (detto anche effetto secca.) e superato un
certo rapporto altezza-lunghezza diverrà instabile e frangerà. Sotto condizioni di
vento sufficientemente teso, l’onda può frangere anche in mare aperto, proprio a causa
dell’aumentare di ripidità di cui abbiamo detto prima.
h) Onde di acqua bassa
Vengono così classificate le perturbazioni ondose nei fluidi, caratterizzate da una
lunghezza d’onda superiore alla profondità del bacino interessato dal fenomeno (dette
anche onde di Gerstner).
Gli Tsunami sono il tipico esempio di questa classi di fenomeni e la loro genesi è
associata ad un brusca perturbazione dell’intera colonna di fluido inizialmente in
quiete in un bacino.
Passando in rassegna le possibili cause naturali, troviamo i terremoti, le eruzioni
vulcaniche, gli impatti meteorici e le grosse frane. Negli anni ’50 gli americani
studiarono il modo di produrre Tsunami in modo artificiale (utilizzando testate
nucleari) ma con scarsi successi.
Nel caso di terremoti gli Tsunami hanno origine se vi è uno spostamento verticale
significativo del fondo marino e in tal senso il profilo tipo10 di un terremoto che può
10
Si noti come nel caso del terremoto del 26/12/2004, con epicentro al largo della costa nordoccidentale di Sumatra (Magnitudo 9.3 Richter), questo diede origine ad un disastroso tsunami (run-up
– altezza massima dell’onda - tra i 6 e 10 m sulle coste di Sumatra) su gran parte delle coste affacciate
sull’oceano indiano. Vice versa il terremoto del 28 Marzo 2005 (Magnitudo 8.7 Richter), con
epicentro prossimo alla scossa del 26 Dicembre 2004, diede origine ad uno flebile tsunami, che sulle
coste di Sumatra ha raggiunse il runap di 20-30 Cm e solo in una fascia ristretta di costa prospiciente
l’epicentro tra 1 e 2 m. La differenza tra i due episodi fu proprio nella diversa dislocazione verticale nel
fondo marino e mette in rilievo come non vi sia correlazione stretta tra tsunami e forti terremoti.
dar vita ad un episodio siffatto, può sintetizzarsi come caratterizzato da una ridotta
profondità dell’ipocentro, magnitudo 7 Richter o superiore ed epicentro in mare o
nell’immediato entroterra.
Nel caso di episodi vulcanici gli tsunami più violenti sono sempre associati a crolli in
mare di caldere a seguito di eruzioni a carattere esplosivo (es. Krakatua e Santorini).
Si intende che la complessità fenomenologia di un’eruzione vulcanica permette la
genesi di tsunami in vari altri modi.
Tsunami da impatti meteorici non ne sono mai stati osservati direttamente (almeno
come registrazione storica da parte dell’uomo), ma le prove geologiche mettono in
rilievo come episodi simili si siano verificati nel corso della storia della Terra (es.
Chicxulub Crater nello Yucatán).
A differenza delle onde oceaniche (viste in precedenza), le onde di acqua bassa negli
oceani possono raggiungere lunghezze d’onda di centinaia di Km e la loro velocità di
trasferimento può essere definita attraverso la formula:
 2π h 
 gλ 
v= 

 tan h
 2π 
 λ 
=> v ≈ gh
Dove g è l’accelerazione di gravità, λ è la lunghezza d’onda e h la profondità del
bacino. Dunque in aperto oceano l’onda può propagarsi a velocità comparabili a
quelle di un aereo a reazione di linea.
Infine la dissipazione d’energia di queste onde è proporzionale all’inverso della
lunghezza d’onda (che come detto è enorme) e per questo si possono trasferire con
energia pressoché inalterata attraverso gli oceani.
L’effetto secca in prossimità della costa fa si che l’onda riduca la sua velocità e
conseguentemente, mantenendo inalterato il periodo, riduca anche la sua lunghezza
d’onda, ma per la conservazione dell’energia ciò porta ad un grande aumento
dell’altezza dell’onda (run-up).
Anche quest’ultimo dipende profondamente dalla struttura del profilo del fondale
antistante la costa e dunque non è possibile stimarne l’entità in modo semplice.
Nel caso dello tsunami, per via della drastica variazione di profilo batimentrico in
funzione della lunghezza d’onda, l’effetto secca è fortissimo e non infrequentemente i
massimi run-up registrati si avvicinano ad un valore pari a dieci volte il valore iniziale
della perturbazione (dunque se in origine si ha una dislocazione di un metro,
sottocosta si potrebbe avere un run-up di dieci metri).
A parte il livello di run-up raggiunto, bisogna tener presente che in prossimità della
costa queste onde anomale, pur riducendola drasticamente, mantengono
un’importante lunghezza d’onda ed una velocità superiore alle comuni onde
oceaniche.
Dunque ciò che si abbatte sulle coste, in caso di forti tsunami11, è una vera e propria
montagna d’acqua e ciò da ragione delle devastazioni e della penetrazione
nell’entroterra di queste onde. Seppur fortemente dipendente dalla struttura della
costa, nel 1977 Hill e Mader proposero la seguente formula per ricavare la
penetrazione dell’onda nell’ entroterra sulla base del run-up raggiunto:
X = 65R
11
4
3
Gli tsunami possono essere classificati secondo la scala Ambrasesys-Sieberg
dove X è la penetrazione in metri dell’onda sulla costa e R il massimo run-up in metri.
Chiudiamo questo paragrafo ricordando che in caso di run-up di oltre 50 m, l’evento
viene anche impropriamente definito mega-tsunami. Di tsunami con queste
caratteristiche vi sono prove geologiche, ma si tratta di eventi di certo molto rari.
i) Alcuni storici tsunami.
Non ci dilungheremo più di tanto sull’episodio catastrofico del 26 Dicembre 2004,
peraltro in parte sinteticamente descritto nella nota 10, poiché i mezzi d’informazione
(seppur con notizie non infrequentemente discutibili) ci hanno ubriacato sul tema.
Ricordiamo solo lo spaventoso bilancio di verosimilmente oltre 300.000 vittime, che
deve far riflettere su che cosa significhi ignorare le caratteristiche strutturali di un
territorio e la sua storia.
Santorini12 1650 a.c. – Probabilmente la più potente esplosione freatomagmatica da
almeno 10000 anni a questa parte. Stimata essere 4 volte più energetica dell’altra
grande esplosione del Karakatua, probabilmente vennero eiettati circa 30 Km3 di lava
dacitica in atmosfera e, in seguito al crollo della caldera in mare, lo tsunami che ne
derivò si ipotizza possa essere alla base della fine della civiltà Minoica (non tutti gli
storici sono in accordo su questa tesi). Di certo l’isola più colpita fu quella di Creta,
sulla quale si stima che si siano abbattute una serie di onde con run-up di 30 m.
Krakatua 1883 – Eccoci di nuovo tra Giava e Sumatra (stretto della Sonda) dove il
Krakatua esplose con una delle più grandi freatomagmatiche (nonché crollo della
caldera) che l’uomo abbia mai registrato sino ad oggi. Dalla fenomenologia associata
all’eruzione ne derivarono tre importanti tsunami, il più terribile dei quali provocò
onde con run-up di 30 - 40 m sulle coste delle succitate isole. Il bilancio di vittime si
stima essere stato di circa 36000 unità.
Terremoto a Messina – Reggio Calabria del 1908 – Si tratta del più violento
terremoto ad oggi strumentalmente registrato in Italia (magnitudo richter 7.1) e lo
tsunami che ne seguì raggiunse run-up di 13 metri sulle coste siciliane. Le vittime
furono 80000 a Messina e 15000 a Reggio Calabria.
Terremoto dell’isola di Uniamak (Aleutine) del 1946 – Si trattò di un terremoto di
magnitudo 7.3, che produsse uno tsunami con run-up di 30 metri sulle coste
dell’Alaska. Il faro della località Scotch Gap (Alaska), una struttura in cemento
armato sito su di una scogliera a 14 m sul livello del mare, fu spazzato via dalla
terribile onda. Lo tsunami colpì anche le coste delle Hawaii ed in particolare l’isola di
Hilo con onde di run-up pari a 18 m.
Frana della baia di Lituya (Alaska) del 1958 – La grossa frana ebbe origine da un
evento sismico di magnitudo 8 Ricther e precipitò nella baia producendo uno tsunami
che la percorse con un’onda di 40 m di run-up medio, ma in testa alla baia raggiunse i
60 m.
Sulla costa opposta al punto di frana, lo schiaffo d’acqua risalì la montagna sino alla
quota di 500 metri.
12
A questa eruzione è probabilmente legata la nascita del mito di Atlantide, che Platone riportò in
modo formale per la prima volta nel V secolo a.C. Vi è un buon grado di certezza della derivazione
della storia dalla tradizione dell’antico Egitto, poiché allora testimoni dell’evento.
Terremoto del Cile del 1960 – Ad oggi è il terremoto più violento registrato
strumentalmente (magnitudo 9.5 Ricther), che produsse dopo poco uno Tsunami con
run-up massimo di 4-5 m sulle coste Cilene. Attraversando il Pacifico colpì prima le
Hawaii e, per quanto atteso, fece 61 vittime, nonché il Giappone con 180 vittime.
Frana della “Sciarra del Fuoco” (Stromboli) del 2002 – Fortunatamente si trattò di
una frana di modesta entità, che tuttavia produsse uno tsunami di 2 – 3 metri sull’Isola
di Panarea. Stromboli è tuttavia un vulcano attivo e la “Sciarra del Fuoco” è di certo
un punto delicato da monitorare attentamente, poiché crolli importanti potrebbero dar
vita a pericolosi tsunami sulle coste del Tirreno.
l) Pericoli noti
Gli tsunami (come tutte le altre manifestazioni violente della natura) sono da sempre
compagni di viaggio dell’uomo e pertanto anche in futuro non mancheranno di
interferire con la vita della nostra specie. Le coste sono tipicamente zone molto
antropizzate e dunque la forza distruttiva di questi fenomeni può incidere in modo
decisivo sulla vita di un numero esorbitante di persone.
Come abbiamo visto gli tsunami si possono realizzare in qualunque specchio d’acqua
di dimensioni ragguardevoli e dunque nessun bacino ne è potenzialmente immune.
Il mediterraneo ha vissuto importanti tsunami e gli elementi di rischio non mancano di
certo. L’Italia è una nazione a rischio in tal senso, sia per ciò che riguarda tsunami da
terremoti, sia per quelli riguardanti l’attività vulcanica.
Un’esempio l’abbiamo visto parlando della “Sciarra del Fuoco”, ma non si tratta di
certo dell’unico punto critico. Ad esempio a Nord delle isole Eolie si trova il vulcano
sottomarino Marsili (65 km di lunghezza, 40 di larghezza e 3260 m di elevazione dal
fondo marino, ovvero la cima si trova a 500 m di profondità), un vasto complesso
attivo e ricco di bocche eruttive, sui cui fianchi sono anche ben visibili i segni di
enormi e antiche frane. Infine possiamo pensare al Vesuvio, che essendo un vulcano
attivo con eruzioni di ripresa a carattere esplosivo, è di certo da monitorare
attentamente.
Potremmo citare molti altri punti critici sparsi per il mondo, ma il caso dell’area del
Cumbre Vieija nell'isola di La Palma (Canarie) rappresenta l’emblema di questa
fenomenologia. Secondo eminenti centri di ricerca mondiali, un intero fianco della
catena di crateri vulcanici di quell’area è del tutto instabile. Si è verificato che molte
infiltrazioni d’acqua stanno riempiendo ex camere magmatiche del Cumbre Vieija e si
teme che alla prossima eruzione (essendo un vulcano attivo), vaporizzando generi una
pressione fortissima sul fianco molle della struttura e dunque questa si stacchi tutta
d’un botto. Se ciò dovesse avvenire, dopo 9 ore dall’evento sulle coste degli USA si
abbatterebbe uno tsunami con run-up variabile (considerando il tratto Miami Washington) tra i 10 e i 50 m e penetrazioni dell’acqua sino a punte di 20 Km
dell’entroterra. Pensate che sia realizzabile un’evacuazione massiccia in 9 ore di
quelle zone ? Inoltre sarebbero coinvolte pesantemente le coste esposte dell’Europa e
dell’Africa. Molto probabilmente sarebbe la catastrofe; e non è fantascienza.
m) Difendersi dagli Tsunami
Difendersi dagli tsunami è possibile, tuttavia è necessaria una coscienza civile del
problema e legislazioni che vincolino l’edificazione sul territorio in base al rischio a
cui esso è sottoposto (basandosi anche sul passato). Infine è indispensabile una rete di
monitoraggio in grado di prevedere l’onda in transito in alto mare, dimodoché si possa
avere il tempo per l’evacquazione.
All’avanguardia su questo tema sono le isole Hawaii, le quali, trovandosi grossomodo
nel bel mezzo del Pacifico, sono bersaglio prediletto dagli tsunami.
Le Hawaii nel passato hanno patito gravi perdite a causa di questa manifestazione
della natura, tuttavia oggi la coscienza del fenomeno, la legislazione che non permette
di costruire ad una quota inferiore ai 15 m dal livello del mare, nonché la protezione
offerta dalla rete di sensori installati nel pacifico negli anni ‘50, pur essendo le più
vulnerabili, oggi risultano essere anche tra i posti più al riparo dai devastanti effetti
degli tsunami.
In verità l’elemento più importante per evitare vittime, è proprio l’avviso precoce e
dunque avere il tempo di allontanarsi dalla costa.
Se le Hawaii sono favorite poiché lontane dalle zone tsunamigeniche (cintura del
fuoco), nel mediterraneo un sistema di allerta sarebbe comunque pressoché inutile,
poiché si tratta di un bacino stretto.
I sensori di cui abbiamo detto si compongono di un sistema di boe, le prime in
superficie (o comunque a piccole profondità) e le seconde sul fondo marino.
Poiché l’onda di tsunami, come detto, coinvolge tutto il corpo della massa fluida, la
boia di profondità rivelerà un salto di pressione, che comunicherà alla boa in
superficie, la quale trasmetterà poi l’avviso ad un satellite.
Se più boe rivelano il salto pressorio, allora non siamo in presenza di un falso positivo
e dunque l’allarme può essere lanciato.
Andrea Zamboni 26/05/2005
Bibliografia
Onde
C.A. Coulson
Cremonese – Roma
Dalla brezza all’Uragano
Francesco Fantauzzo
ETS/PISA
I Maremoti – Stefano Tinti
Quaderno 59 - Il Rischio Sismico
Le scienze
E se cadesse nel Mare Nostrum ?
Claudio Elidoro
L’Astronomia n. 210 – Giugno 2000
Meteorology for mariners
HMSO Edinburg
Meccanica quantistica
Joseph Chahoud
Pitagora – Bologna
Ottica
Bruno Rossi
Masson
Fisica (Vol. 1)
Halliday – Resnick
Terza Editore
Tentativo di interpretazione quantistica della
dispersione
H. F. Herzfeld
Zeitschr f. Phys. 23, 341 (1924)
Grandi misteri della storia
Massimo Polidoro
Piemme
Schede dell’ Istituto nazionale di geofisica e
vulcanologia
http://www.ingv.it
Dispensa del prof. Roberto Santacroce,
Ordinario di Vulcanologia presso la
Facolta' di Scienze MFN dell'Universita'
di Pisa