le incantatrici - Centro Arti Visive

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LE INCANTATRICI
a cura di Francesca Pagani
luglio 2013
CAV - Centro Arti Visive
Università degli Studi di Bergamo
KATIA PARoNITTI
Lyda Borelli, divina incantatrice
Negli anni che precedono lo scoppio del primo conflitto mondiale
il cinema si fa interprete del pensiero dei gruppi sociali dominanti
attraverso il genere del melodramma salottiero di clima d’annunziano e del dramma realista. I lungometraggi sono ambientati nelle
dimore signorili dell’alta borghesia e dell’aristocrazia, un mondo innaturale nel contempo di abitudini e contegni ineccepibili e di relazioni immorali, che si discosta profondamente dalla quotidianità
della gente comune. Il genere appare interessante e seducente
per il pubblico piccolo-borghese perché gli permette di proiettare
le proprie ambizioni di avanzamento sociale in una realtà rappresentata sullo schermo che si mostra fantastica, luminosa, frequentata da donne languide e incantevoli e da distinti uomini virtuosi,
inclini spesso all’ozio e all’arte, ma principalmente a fatali passioni,
a piaceri proibiti.
Aldo Bernardini, analizzando l’utilizzo dei generi nel processo di
rinnovamento e rilancio della produzione cinematografica italiana
degli anni Dieci del Novecento, osserva:
Risultò a questo punto particolarmente adatto alla valorizzazione
dell’interprete l’altro importante genere cinematografico che, accanto a quello “storico”, procurò in quegli anni i maggiori successi al cinema italiano: si trattava del cosiddetto “cinema in frac”, il melodramma ambientato nei salotti e nelle ville lussuose di ricchi alto-borghesi,
popolati di belle donne dissolute e fatali, di principi sfaccendati e di
artisti innamorati dell’arte e delle loro modelle. Questo tipo di film
[…] si prestava molto bene a interpretare e a diffondere il gusto, l’i-
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deologia e i valori delle classi dominanti, affascinate allora dalle estenuate ed estetizzanti mode dannunziane. Per lo spettatore della piccola e media borghesia, questo tipo di film costituiva un ideale strumento di evasione dalla mediocrità della vita quotidiana: i nuovi personaggi, in costume o in frac, risultavano tanto più suggestivi quanto
più erano evanescenti, artificiosi, improbabili. (Bernardini 1991: 3233)
Il fascino maggiore di questo tipo di cinema deriva dall’aspetto
onirico, dall’inconsistenza realistica dei personaggi, dall’alterità del
mondo in cui si dipanano le loro vicende, all’insegna dell’erotismo
e della morte, contrapposti alla monotonia della quotidianità. Ed è
proprio questo distacco a rendere la realtà rappresentata sullo
schermo gloriosa, eccelsa, e a chiarire perché è essenzialmente
questo genere di produzione a consacrare fortune divistiche di attori e di attrici che, per la prima volta nella storia del cinema, acquisiscono una potente funzione simbolica, sempre identificabile al
di là della molteplicità dei ruoli interpretati.
Storicamente in Italia il divismo non è l’esito di una progettazione
di mercato, di una operazione commerciale, quanto piuttosto una
manifestazione che compare improvvisamente e inaspettatamente
nello scenario dell’industria cinematografica, la cui internazionalità,
nondimeno, comprova il prestigio del cinema e la sua capacità di
influenzare e subordinare i comportamenti e l’immaginario. “[…]
Un fenomeno imprevisto, quasi inavvertibile che si diffonde con
grandissima rapidità e diventa decisivo nel conferire al cinema il
ruolo di spettacolo guida, di modificatore di comportamenti, immaginazione e mentalità collettiva” scrive Gian Piero Brunetta
(1998: 27).
Il divismo non nasce col cinema. Fenomeni divistici esistevano già dall’antichità e, fin dall’ottocento, l’appellativo “diva” veniva usato per
esaltare le attrici di teatro e le cantanti dell’opera lirica. Nel corso del
secolo, poi, le usanze divistiche si diffusero sempre più, culminando,
tra otto e Novecento, negli atteggiamenti delle due grandi protago-
K. Paronitti - Lyda Borelli, divina incantatrice
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niste del teatro europeo di quegli anni: Sarah Bernhardt ed Eleonora
Duse. […] Nonostante questi illustri precedenti si dovettero però
aspettare circa quindici anni, dopo la nascita del cinema, per vedere i
primi divi dello schermo. Nascosti dal trucco pesante, ripresi da lontano e presenti in film troppo brevi perché il pubblico si potesse affezionare, gli attori del cinema erano di solito anonimi. I primi a diventare popolari furono così non gli attori, ma i personaggi che essi
interpretavano […]”. (Renzi 2000: 167)
L’evoluzione tecnica della macchina da presa, l’utilizzo di obiettivi e
pellicole capaci di assicurare migliori risultati e di consentire l’introduzione dei piani ravvicinati, l’impiego del lungometraggio che
assicura all’artista un interesse nuovo da parte del pubblico in
virtù del periodo di tempo di permanenza sullo schermo, conducono alla valorizzazione della figura dell’attore che, di film in film,
potenzia le proprie performance plasmando una propria identità
con elementi distintivi replicabili, divenendo perciò sempre più riconoscibile, sino a farsi il più importante nucleo di interesse del
racconto cinematografico al punto che il pubblico si reca nelle sale
per vederne l’immagine.
Il ciclo divistico va dal 1914 al 1920 e mostra un’espansione parabolica contraddistinta da una veloce affermazione e da un egualmente rapido declino; l’acme del fenomeno corrisponde storicamente da un lato con la fase critica del fenomeno migratorio, dall’altro con gli esiti della guerra di Libia del 1911 che, pur rappresentando un momento di svolta nella storia dell’Italia unita contribuendo alla ridefinizione dell’identità politica in senso nazionalista
e imperialista, ha compensato solo in parte le aspirazioni espansionistiche dell’Italia giolittiana. Inoltre le dive italiane raggiungono il
loro maggior successo negli anni della guerra, facendosi interpreti
di un cosmo e di una cultura che sembrano non voler saldare alcun nesso visibile con la tragedia storica che l’Italia e il mondo
stanno vivendo. Così l’immagine cinematografica, se per un verso
pare non avere legami con la realtà del paese di cui costituisce,
tuttavia, una sorta di traslazione e di riproduzione simbolica, dal-
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l’altro concorre a rendere percepibili e riconoscibili gli spazi bui
dell’inconscio, gli impulsi naturali, l’irrazionalità.
È arduo, se non impossibile, identificare la data d’esordio del fenomeno divistico in Italia, così come individuare un’opera rilevante al
punto di fare di un’interprete una diva; tuttavia se si dovessero
scegliere un film e un’attrice indicativi da questo punto di vista, si
dovrebbe senz’altro citare Ma l’amor mio non muore (1913) di Mario Caserini, prodotto dalla Gloria di Torino e interpretato da Lyda
Borelli e da Mario Bonnard.
Lyda Borelli è una meteora abbagliante e fugace che segna il firmamento del cinema muto italiano degli anni Dieci del Novecento, una creatura angelica che racchiude in sé nel contempo il bene
e il male e che apre la strada all’osservazione, all’esplorazione degli abissi dell’anima, magistrale interprete della cultura liberty e
simbolista, del demi-monde e del mondo decadentista, “la donna
dalla fatalità magnetica e impenetrabile” come la definisce Debenedetti (1983: 152).
Lida Borelli (in arte Lyda) nasce a La Spezia il 22 marzo 1887. Entrambi i genitori sono attori, di conseguenza Lyda assiste, fin da
giovanissima, ora dietro le quinte, ora impegnata in piccole parti,
alle interpretazioni delle più grandi primedonne del teatro drammatico di fine ottocento. “Recita da bambina in una piccola parte
della commedia del Mariani: Il passaggio di Venere” e successivamente ne I due derelitti “in cui ebbe a compagne Paolina Pezzaglia,
poi Mercedes Brignone” (Cervi 1919: 3); dopo aver completato
l’istruzione in collegio a Firenze, nel 1902 riappare sul palcoscenico con la compagnia di Francesco Pasta e Virginia Reiter recitando
in La veine, commedia di Alfred Capus. Nel 1903 è scritturata dalla
leggendaria compagnia Talli-Gramatica-Calabresi e nel 1904 recita
nella parte di Favetta, una delle tre sorelle di Aligi, nella prima rappresentazione de La figlia di Iorio di Gabriele D’Annunzio [Fig. 1],
parte che le permette di mettersi in evidenza in uno dei più importanti eventi teatrali novecenteschi e di essere promossa rapidamente a prima attrice giovane. Nel 1905 è Fernanda nell’omonimo dramma di Victorien Sardou accanto a Eleonora Duse, Virgi-
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Fig. 1, a destra:
Lyda Borelli (Favetta),
Giannina Chiantoni
(ornella), Giulia Cassini (Splendore), La figlia di Iorio, 2 marzo
1904, Teatro Lirico di
Milano, foto Varischi
Artico & C.
Fig. 2, in basso:
Lyda Borelli in costume da Salomé (19051910), ritratto di Mario Nunes Vais (18561932), gelatina bromuro d’argento/carta.
lio Talli, Ruggero Ruggeri. Nel 1909 diventa capocomica; accanto a
Ruggero Ruggeri, trionfa, ottenendo grande popolarità in un vasto
repertorio che comprende tra gli altri l’allestimento della Salomé
di oscar Wilde [Fig. 2]. L’attività della compagnia è frenetica. Nel
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1909 la Borelli s’imbarca per una tournée in Sudamerica. Nel febbraio 1912, dopo l’ultima stagione milanese, la Ruggeri-Borelli si
scioglie e l’attrice forma compagnia con Ugo Piperno e Antonio
Gandusio, sotto la direzione di Flavio Andò; il repertorio è quasi
esclusivamente comico e la Borelli interpreta soprattutto ruoli
brillanti. Nel 1915 appare nella compagnia Fert diretta da Ermete
Novelli, in un repertorio eterogeneo, che comprende tragedie
estetizzate, drammi salottieri, commedie e pochades. Dal 1916, fino al ritiro dalle scene, nel 1918, riprende la collaborazione con
Ugo Piperno fondando la compagnia Borelli-Piperno. All’apice del
successo teatrale, venerata dal pubblico e stimata dai critici, Lyda
Borelli fa il suo trionfale esordio al cinema: Ma l’amor mio non
muore, come detto, è letteralmente il primo diva film del cinema
italiano. La carriera cinematografica e quella teatrale si muovono
simmetricamente fino al 1918 e molteplici sono i testi drammatici
del repertorio teatrale della Borelli trasposti sullo schermo, tra i
quali La donna nuda (Gallone, 1914), La marcia nuziale (Gallone,
1915), Madame Tallien (Guazzoni, 1916).
A proposito dell’inizio della carriera cinematografica di Lyda Borelli, scrive Lucio D’Ambra:
Dal teatro intanto giungeva, carica di monili e di fascini, bionda e fatale, e, come Sarah Bernhardt reine de l’Attitude et princesse du Geste, – bellissima, – Lyda Borelli. La nuova dea oscurava, col suo prestigio estetico, tutte le altre; la gioventù femminile d’Italia si modellava
su quella statua alta e sottile che armoniosamente si contorceva come una musica in uno spasimo. (D’Ambra 1937: 48-49)
Lyda Borelli si presenta al pubblico cinematografico con un film,
diretto da uno dei pionieri del cinema muto italiano, la cui la vicenda è ideata, appositamente per l’attrice, da due giovani soggettisti torinesi, Emiliano Bonetti e Giovanni Monleone.
L’avventuriero Moise Stahr finge di corteggiare la bellissima Elsa Holbein, figlia del colonnello Julius, per sottrarre al padre i piani di fortifi-
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Fig. 3:
Locandina del film Ma l’amor
mio non muore del Cinema
Borsa di Torino.
cazione del Granducato di Wallenstein, riuscendovi ed eclissandosi in
seguito. Il colonnello, accusato di tradimento, si uccide ed Elsa, sotto il
falso nome di Diana Candouleur, è costretta a sopravvivere sfruttando le doti di pianista e cantante. Notata dal principe Massimiliano, figlio del Granduca, che viaggia sotto falso nome, se ne innamora. Sul
battello che conduce i giovani verso l’amore appare Stahr che dichiara la propria passione per la giovane. Respinto, si vendica ottenendo
che al colonnello Theubner sia affidato il compito di ricondurre in
patria il giovane principe. Elsa è distrutta e fugge tornando al proprio
teatro dove la ritrova Massimiliano che non può fare a meno di lei
pur conoscendo la verità. Mentre tiene l’ultimo concerto Elsa cade a
terra: soccorsa da Massimiliano muore tra le sue braccia per effetto
del veleno ingerito, mormorando: “Ma l’amor mio non muore!”
(Deana 2001: 27)
La prima visione torinese ha luogo il 16 ottobre 1913 [Fig. 3]. Il
quotidiano La Stampa, nel dare notizia della première del film al
Cinema Borsa di Torino, scrive:
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Lyda Borelli è la meravigliosa interprete di un grande lavoro drammatico edito da “La Film Artistica Gloria” dal titolo “Ma l’amor mio
non muore”. L’arte somma della grande attrice del nostro teatro di
prosa è troppo nota ai pubblici d’Italia per tesserne l’elogio. Nell’arte
del silenzio, per Lei affatto nuova, si rivela insuperabile artista come
nell’arte della parola. Le drammatiche situazioni del suggestivo, passionale lavoro degli autori Bonetti e Monleoni sono da Lei affrontate
con potenza drammatica, verità e grande sincerità. Il Cinema Borsa
ha quindi l’onore di presentare oggi al suo pubblico per la prima volta sullo schermo cinematografico l’affascinante Attrice in un lavoro
dalla lussuosa messa in scena (diretta da Mario Caserini) che segue
l’aspirazione della nuova Casa Torinese verso sempre più alti ideali di
perfezione artistica. In ambiente straniero, fedelmente riprodotto, si
svolge il soggetto nel quale, colla Borelli, cooperano i migliori artisti
della Casa. (La Stampa 1913: 5)
Circa l’interpretazione della Borelli in Ma l’amor mio non muore
Berton scrive:
Lyda Borelli non poteva scegliere migliore soggetto per dare una prima e magnifica prova del suo valore anche in cinematografia, e la
«Gloria» non poteva crearle d’attorno un ambiente più completo,
più decoroso, più adatto per darle tutte le illusioni delle grandi scene
con quel di più di quadri al vero che le scene non possono offrire.
Nel mentre, non so per quali ragioni, altre grandissime artiste e grandissimi artisti sulla scena, propriamente tali non si mostrarono sullo
schermo che anzi parvero diminuiti, la Borelli vi si presenta con tutta
la sua virtuosità; nulla perde né di valore, né di efficacia. Pare che davanti a tanta giovanile beltà l’obiettivo si sia piegato riverente al volere della diva; ed ogni atto, ogni motto, ogni contrazione, ogni sensazione pur sfuggevole, per impercettibile che fosse, abbia fermata e riprodotta sullo schermo. Abbiamo visto la gioia e il dolore svolgersi in
tutte le loro fasi, con quella efficacia e semplicità di mezzi propri soltanto ai migliori artisti. Abbiamo visto fremere l’angoscia, e tutte le
torture, le ambascie di un’anima riprodotte colla più impressionante
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verità. Abbiamo assistito allo strazio, alla disperazione cupa od esplodente, d’una creatura colpita negli affetti più intimi e più santi. In una
parola abbiamo visto vivere e non recitare la parte. (Berton 1913:
13-16)
Il film, scrive Martinelli,
È un’opera esemplare sotto vari aspetti: il primo a creare il mito divistico sia dell’attrice che del suo partner, Mario Bonnard, il primo a
strutturare spazio e tempo in una dimensione tipicamente cinematografica – si veda la lunghissima sequenza iniziale, un vero e proprio
piano-sequenza, al cui interno le situazioni e le azioni dei personaggi
vengono espresse secondo un emblematico gioco a incastro, con
una raffinata composizione di piani e angolazioni. E questa creatura
languida, fremente e accesa, fasciata in abiti che la costringono a
muoversi a piccoli passi, Lyda Borelli, è parte integrante di quell’atmosfera rarefatta e a un tempo rovente che emana da questo film,
giustamente definito da Francesco Savio “manifesto del vivere inimitabile e dell’inimitabile morire”. (Martinelli 1998: 350)
Fin dal primo film Lyda Borelli mette in scena una serie di posture, di gesti e di espressioni del volto che diventeranno motivo ricorrente, attributo distinguibile, prerogativa della sua recitazione;
tali pose, sulle quali la macchina da presa indugia a lungo, spesso
avvalendosi di piani ravvicinati miranti ad accentuare la centralità
del personaggio nel processo di rappresentazione filmica potenziando la sua capacità seduttiva, conducono lo spettatore a una
contiguità psicologica e spirituale e a una sorta di intimità con la
protagonista, attivando meccanismi di identificazione e proiezione [Fig. 4].
I sentimenti più intimi dell’animo, il dolore, la disperazione, la tristezza, lo strazio, la passione amorosa, si palesano attraverso evoluzioni che Donatello D’orazio rileva somiglianti alla danza di Isadora Duncan. Il corpo diventa strumento capace di comunicare le
emozioni, ma anche esteriorizzazione dell’energia vitale, manifesta-
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Fig. 4:
Ma l’amor mio non
muore (1913).
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Figg. 5, 6, 7:
La donna nuda (1914).
zione visibile dell’anima, dello spirito, della forza e del calore dell’interiorità. osserva Angela Dalle Vacche:
Sullo schermo, l’immagine in movimento è fatta di tempo interno ed
esterno, spettacolo ed interiorità, proprio come fosse una specie di
velo, e in Ma l’amor mio non muore la recitazione della Borelli vuole
mostrare proprio l’apprensività, l’ansia che le genera la sua situazione, così incastrata com’è fra le regole del padre e degli approcci del
galante visitatore, fra eleganza e bellezza da una parte, pensiero ed
emozione dall’altra. Non c’è da stupirsi che la visualizzazione di una
soggettività così complessa dovesse richiedere una quantità di movimenti e gesti grandi e piccoli, ma tutti molto precisi, e soprattutto tali
da trasformare ed alternare la pausa con la ripresa del movimento, la
contemplazione con l’introspezione, e lo spettacolo. (Dalle Vacche
2005: 145-146)
Il convulso succedersi di pose plastiche e di spasmi e contorcimenti che accompagnano determinati momenti di Ma l’amor mio
non muore, manifestando l’apice della disperazione e disegnando il
crescendo della tensione, sono ripresi nei film successivi andando
progressivamente a delineare quel “tipo psicologico” (Grilli 1993:
58) che, secondo Fassini, direttore della Cines, è unicamente della
Borelli e che, seppur con variazioni, non sarà in alcun modo ab-
bandonato: la diva Borelli esprime col gesto e con le espressioni
del volto tutta l’inquietudine, la pena, la trepidazione che invadono
l’animo di Lolette in La donna nuda (1914) [Fig. 5, Fig. 6, Fig. 7], lo
spirito e la sensibilità di Alba D’oltrevita in Rapsodia satanica
(1914) [Fig. 8, Fig. 9, Fig. 10], la pena di Lyda in Fior di male (1915)
[Fig. 11, Fig. 12], l’apprensione di Teresia in Madame Tallien (1916)
[Fig. 13], il dolore e la follia di Marina in Malombra (1917) [Fig. 14,
Fig. 15, Fig. 16].
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K. Paronitti - Lyda Borelli, divina incantatrice
Figg. 8, 9, 10, nella pagina precedente: Rapsodia satanica (1914).
Figg. 11, 12, in alto: Fior di male (1915).
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Fig. 13, in alto: Madame Tallien (1916).
Figg. 14, 15, 16, nella pagina successiva: Malombra (1917).
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Secondo Fausto Montesanti
la “Elsa Holebein” di Ma l’amor mio non muore!, che rinuncia alla felicità avvelenandosi, o la “Alba d’oltrevita” di Rapsodia Satanica che rinuncia all’amore per ottenere dal Diavolo la giovinezza, sono personaggi torturati da complessi problemi di coscienza, animati da una viva spiritualità, in cui si possono persino intravedere certi sviluppi che
saranno tipici, ad esempio, nella Garbo americana costruita appunto
sulla formula della “rinuncia alla felicità” e degli “amori impossibili”.
(Montesanti 1952: 64)
Avvicinandosi alle contemporanee creazioni performative delle
avanguardie, del futurismo, del teatro espressionista, della danza di
famose ballerine come la già citata Duncan, ma anche la Fuller, la
De Saint-Point, la Rubinstein, accostandosi ai coevi movimenti filosofici e alle discipline scientifiche, entrando in contatto con i movimenti di emancipazione femminile, le dive mettono a punto un
modello recitativo che è frutto di una cosciente scelta strategica.
La Borelli cinematografica plasma la propria immagine divistica
certamente a partire dal repertorio teatrale che porta in scena
nel contempo, ma con una precisa cognizione e volontarietà, servendosi della rappresentazione spettacolare di sé stessa per creare la propria immagine pubblica, capovolgendo il rapporto fra l’attore-persona e il personaggio. La carriera cinematografica di Lyda
Borelli muove palesemente dalla robusta esperienza maturata in
teatro, ma è indubbio che l’attrice armonizzi elementi e prestiti
teatrali con la prorompente identità del nuovo media, saggiando
nuove possibilità della recitazione.
La Borelli incarna per prima l’idea di diva, di oggetto laico di devozione, di vestale di una nuova sacralità. Il cinema la rappresenta simultaneamente nella sua eccezionalità e distanza e nella sua
contiguità fisica, percepibile, con lo spettatore. Ma l’amor mio non
muore racconta “la diva al pubblico, attraverso l’esibizione, la
spettacolarizzazione di un’esistenza straordinaria” (Jandelli 2006:
19).
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Questo film mette in moto, all’indomani della sua uscita, fenomeni
di culto laico del tutto inediti, fissa gli archetipi visivi, la morfologia
gestuale, il lessico e una sintassi dei sentimenti destinati a divenire
modello e punto di riferimento per molte future sovrane della scena italiana e internazionale. L’influenza del sistema gestuale della
Borelli nella recitazione cinematografica successiva è paragonabile a
quella esercitata verso la metà dell’ottocento dal Prontuario delle
pose sceniche di Alamanno Morelli. Con, in più, il valore aggiunto
d’aver attizzato nel fuoco dello schermo, per la prima volta, disponendoli quasi con azione concentrica, i raggi dell’immaginazione romantica, melodrammatica, decadente e simbolista. In pratica Lyda
Borelli si pone al centro della scena, invoca e convoca gli sguardi
degli spettatori e delle spettatrici, con un solo gesto accende la
scintilla del desiderio collettivo e parla alle loro anime: ed è subito
Diva. (Brunetta 1998: 28)
S’innesca fin da subito un meccanismo di identificazione che
conduce il fruitore a riprodurre il gesto della diva nella vita quotidiana, copiandone gli abiti, l’acconciatura, i movimenti. Nel Dizionario Moderno del 1925 Alfredo Panzini riporta il neologismo
“borelleggiare” per indicare “lo sdilinquire delle femmine prendendo a modello le pose estetiche e leziose dell’attrice bellissima Lyda Borelli. Questa, a sua volta, derivò dalla Duse. Grazie
femminee scomparse con la mascolinizzazione delle donne”
(Brunetta 2003: 105). Quella della Borelli è una presenza magnetica, incantatrice: a lungo si è parlato di borellismo, sia tra le numerose imitatrici influenzate dal suo caratteristico stile interpretativo, sia tra le molte donne dell’epoca contagiate dal suo fascino. Lyda Borelli, osserva Lisetta Renzi, “con la sua figura alta, abbastanza sottile per l’epoca, serpentina, diffuse a tal punto la moda delle diete, dei capelli ossigenati e dei contorcimenti sinuosi
che, per descrivere il fenomeno, si coniò il termine «borellismo»” (Renzi 2000: 168).
Il vero richiamo del film è dunque la diva. Scrive Eugenio Ferdinando Palmieri:
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K. Paronitti - Lyda Borelli, divina incantatrice
Il cinema, che si rivolge alla folla, definisce il successo dell’attrice.
Splende, sulla Italia di Giovanni Giolitti, la suprema, divina Borelli. Le
ragazze si fanno tingere i capelli in giallo-rosso e fotografare con le
mani allacciate sotto il mento. Le dame si avvolgono in vesti fluenti.
Le piccole borghesi si atteggiano a sdegnose o a stanche. Languori
del Poema paradisiaco: Non è vero che di mano/ vi caddero le rose,
tanto stanca/ eravate? (Palmieri 1994: 101-102)
Lyda Borelli è una donna dinamica, una figura femminile straordinariamente moderna che, respingendo l’approvazione delle regole
sociali e proiettando il desiderio di un futuro differente, valica l’iconografia della donna fatale, maliziosa, spigliata, conquistatrice,
sensuale, diventando modello per molte donne italiane. L’immagine che la Borelli vuole accreditare di sé è quella di una artista e
donna moderna, attratta dai nuovi mezzi di trasporto e dalla libertà espressiva del corpo. La sua figura di donna emancipata si
esprime attraverso l’uso di abiti disinvolti,1 con la passione per il
volo,2 per mezzo di legami stretti in ambito intellettuale.3
Il potenziamento della notorietà della Borelli avviene anche attraverso una massiccia diffusione di fotografie in cartolina che spesso
riportano la firma autografa dell’attrice e che costituiscono un veicolo di diffusione della sua immagine [Fig. 17, Fig. 18, Fig. 19, Fig.
20].
La diva è anche la proiezione del desiderio e della fantasia maschile, la creatura ideale capace di nobili sacrifici, ora dominatrice, ora
1
La Lyda di La memoria dell’altro (1913), apprestandosi al volo, indossa una tuta di
linea maschile che ricorda la gonna-pantalone oggetto di critiche negative e disapprovazione generale al suo apparire in Italia nel 1911. Lyda Borelli è una delle prime donne ad
indossare la jupe-culotte.
2 L’attrice partecipa alla “Grande Riunione Aviatoria” organizzata dalla Società per i
divertimenti e dalla Società Anonima Bagni e svoltasi all’ippodromo Flaminio nell’estate
1911 e vola a bordo dell’aeroplano condotto da Romolo Manissero.
3 Venerdì 5 maggio 1911 nel salotto della rivista La Donna Lyda Borelli legge alcuni
versi di Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano; “l’avvenimento […] ha assunto tale importanza da costituire una delle riunioni più notevoli della […] brillantissima stagione
mondana di Torino”.
Figg. 17, 18, 19, 20: Lyda Borelli, fotografia in cartolina.
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soggiogata, donna capace di sovvertire le consuetudini sociali, che
si burla delle leggi morali, femme fatale che, seppur di umana natura, emana dinamismo, energia, passione inesauribili. È ammaliatrice
secondo i dettami dannunziani, ma anche donna angelo, donnanatura che ama cingersi di fiori, piante, animali, cerea fanciulla perseguitata o sofferente, nelle cui sembianze e nelle cui pose si rinnovano i modelli femminili retaggio della letteratura, delle arti figurative, della mitologia.
Antonio Gramsci, che pure nega le qualità artistiche della Borelli,
riconosce la straordinaria forza di suggestione della sua sensualità
e il valore erotico del linguaggio del suo corpo definendola “un
pezzo di umanità preistorica, primordiale”, sebbene a suo avviso
l’attrice non sia in grado di “interpretare nessuna creatura diversa
da se stessa”.
Si deve riconoscere alla divina Borelli il merito di aver saputo interpretare la molteplicità degli influssi culturali che allora si esercitavano su un cinema che ambiva a diventare opera d’arte totale.
Dagli influssi della pittura preraffaellita e della cultura liberty e simbolista la Borelli deriva caratteri e suggestioni legandoli ad un tipo
di recitazione moderna che non teme di spingersi con piena coscienza in direzione della rappresentazione dell’oltre, delle ferite
dell’anima, delle passioni travolgenti, dell’irrazionale, della follia, della dissociazione della personalità.
Scrive Gian Piero Brunetta:
Poco più di una quindicina d’anni dopo i figli degli stessi spettatori che avevano disperatamente pianto vedendo Ma l’amor
mio non muore! di fronte alla recitazione della Borelli in una
sciagurata versione sonorizzata e accelerata “si tengono la pancia dal gran ridere”, “e dove più c’era da piangere più il pubblico rideva”, come spietatamente ci racconta Antonio Baldini.
Questi spettatori forse in gran parte vestiti in orbace sembrano ben felici di vivere in tempi che sembrano lontanissimi e
privi di alcun rapporto con quel mondo. Forse è questa reazione iconoclastica diffusa, questa dissacrazione nata semplice-
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mente dalla cesura storica e dall’incapacità di capire le diversità
dei modelli culturali, che ha fatto desiderare al cinema muto
l’uscita dalla memoria e ha spinto le Dive a un lungo, dignitoso
e orgoglioso silenzio. o meglio a una vera e propria seconda
morte apparente, da cui però si spera che i pubblici odierni e
quelli delle successive generazioni vogliano continuare a strapparle, per ammirarle ancora nelle loro luci e nei colori ritrovati
e più di tutto nella loro aura e nel loro fascino misterioso, ormai lontano e tuttavia così familiare. (Brunetta 1998: 43)
Nel 1918 la parabola artistica della Borelli si conclude: il matrimonio con l’industriale, e successivamente conte, Vittorio Cini, celebrato il 19 giugno 1918, la allontana per sempre dalle scene. Scrive Enrico Prampolini in un articolo dal titolo “Ritornerà. (Lyda Borelli nei ricordi di un futurista)” pubblicato dalla rivista L’Arte Cinegrafica:
Donna dei nostri giorni – il ciclo storico del vostro nome favoloso è
compiuto? No, non credo. Quando vi conobbi, o Lyda, in una notte
di dicembre, mentre il mio spirito e i miei sensi erano protesi verso
un essere aureolato di divinità e d’inaccessibilità, eravate sotto l’enorme volta del retroscena di un teatro come una figura simbolica creata per dominare quei cieli e quei popoli in estatica contemplazione.
Quelle mie sensazioni esplose in un attimo di vergine sensibilità erano realtà della vostra vita vissuta, del vostro spirito, della vostra fatalità teatrale. Eravate quella notte reduce da uno dei trionfi delle «Marionette» e nell’attimo che vi strinsi la mano con un fremito d’orgoglio mi parve di essere anch’io una marionetta di legno, anima e corpo, solo voi mi sembrava eravate la divina maestra del tempo dell’artificio, con l’eterno sole chiomato che vi dominava. Tutto il resto di
carta pesta anche i mummificati ammiratori, le estatiche ammiratrici.
Donna dei nostri giorni – la vostra stretta cordiale è un poema lirico
di rivelazioni – e le vostre braccia lunghe e limpide che si protendevano, erano il simbolo della vibrabilità flessuosa dell’intera figura dinamizzata da un ritmo unico di sintesi, in cui ogni atteggiamento s’iden-
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tificava con l’altro – la vostra voce calda e cordialissima era la voce
dei sensi che trasmutava degli stati d’animo tragici e drammatici, ironici o comici. Donna dei nostri giorni – vi ricordate? Vi conobbi per
far rivivere le virtù plastiche delle vostre membra. Vivemmo delle ore
intense di febbrile lavoro, negli ardenti pomeriggi di questa primavera
per eternare la purezza estetica delle vostre forme in una sintesi plastica. E vidi voi, o Lyda, nella serena intimità, superiore come tutti i
grandi spiriti al mondo esteriore che apologeticamente vi avevano
creato. Infantile o semplice come una nuda ragazza di campagna conservavate e vi trastullavate con i cuscini come con me, con i vostri
braccialetti, ed io col tormento della mia arte modellavo le vostre insenature, le vostre esuberanze… Donna dei nostri giorni – perché
avete voluto sottrarvi al vostro mondo e dal nostro? Siete stata fallibile inesorabilmente anche voi per un rito fatale? No, non credo. Voi
donna appartenente ancora al patrimonio pubblico, migliaia di occhi,
hanno ancora diritto di ammirarvi, milioni di mani di applaudirvi. Dopo questo sogno d’inaudita felicità, che vi auguriamo intenso e propizio d’ogni bene, tornerete ad essere voi tale, quale il mondo vi battezzò. Dei ritorni spirituali, delle nostalgiche sensazioni vi sfioreranno
per perdersi; le riacciufferete, per riallacciarvi il vostro essere teatrale.
Vi ricordate la vostra gentile e infantile menzogna che mi negava il
vostro prossimo matrimonio? Mentre io vi misuravo le membra, chi
sa che non misurassi anche l’intensità del vostro amore ignoto? Vi
sentivate quasi un’estranea affermare la sincerità di un legame forse
troppo rituale?... Voi che fra l’altro sul palcoscenico insegnavate l’opposto? Ma Lyda Cini-Borelli ritornerà ad essere ammirata artista italiana, l’eletta donna dei nostri giorni. Roma, giugno 1918. Enrico
Prampolini. Scultore futurista. (Prampolini 1918: 5)
K. Paronitti - Lyda Borelli, divina incantatrice
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