saggi
Architettura, città, danza
Il ruolo dello spazio nella creazione,
ricezione e analisi di performance artistiche
di Fabio Poggi
1. Introduzione
In questo articolo vengono prese in considerazione la danza contemporanea sitespecific e, nell’insieme eterogeneo di performance artistiche proposte attualmente
negli spazi della città, la danza urbana che è definibile in modo volutamente
aperto come danza «che si muove nei più disparati luoghi non deputati delle città»
(Cervellati 2009, 170).
Considerando da una parte una localizzazione urbana, vale a dire spazi
pubblici come piazze, strade, marciapiedi, e dall’altra una spazialità specificamente architettonica, fatta di interni, si procederà all’analisi di alcune rilevanti
performance artistiche evidenziando come i differenti assetti in cui tali proposte
hanno luogo – con frequenti, reciproche contaminazioni fra la scala architettonica
e quella urbana – possano essere lette non in quanto sfondo o skyline solo visivo,
contenitore neutrale o scenografico, ma al contrario come frame socio-spaziale
attivo e propulsivo nella creazione e ricezione della stessa proposta performativa
(Poggi 2011a).
La riflessione benjaminiana sulla consuetudine a percepire in generale lo
spazio urbano e architettonico in termini non di attenzione ma, al contrario, di
abitudine o distrazione (Benjamin 1936, 45-46), come se si trattasse di ambienti
naturali e non culturali (Crespi 1994, 340), rappresenta un importante punto di
avvio che sarà via via ridiscusso e problematizzato. Pur non sviluppando qui il
tema, va evidenziato un altro tipo di rapporto in genere non esplicitato e spesso
ambivalente, ovvero quello che sussiste fra la nozione dinamica e astratta di spazio
e quella geograficamente e politicamente circoscrivibile di luogo, considerando
che «lo spazio è un luogo praticato» (De Certeau 1990a, 176)1.
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Va notato che in italiano i termini spazio e luogo hanno una connotazione semantica meno netta – anzi talvolta reciprocamente sovrapponibile – rispetto ai corrispettivi inglesi space e place. Analoga
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STUDI CULTURALI - ANNO XI, N. 1, aprile 2014
fabio poggi
La città contemporanea qui osservata è quella che negli ultimi decenni sta
vivendo avvicendamento e sovrapposizione di differenti post culturali: postmoderno, postindustriale, non da ultimo quel postideologico che ha messo in ombra
il profilo ipoteticamente omogeneo – con aspettative e spazialità quasi sempre
ben tracciabili – dei frequentatori della città stessa, facendo invece emergere
attualmente un «pubblico minore» (Bianchetti 2011) dalle scelte più individuali,
emotive, spazialmente e analiticamente più sfuggenti, diremmo qui maggiormente
performative. In questo senso può essere messa in discussione la distinzione fra
chi è osservato e chi osserva: all’interno di uno stesso spettacolo colui che sembra un passante occasionale o in generale un city user (Martinotti 1993) può sia
divenire parte di un gruppo che si configura via via come pubblico o platea, sia
spiccare come performer vero e proprio al centro della scena. Al limite la città
può così diventare «un evento, una performance in cui i ruoli di attore e spettatore
sono intercambiabili» (Miles et al. 2000, 3).
Lungo lo sviluppo del discorso resterà in primo piano la riflessione seminale
di Brook sullo spazio: «Posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che
è un palcoscenico spoglio. Un uomo lo attraversa e un altro osserva: è sufficiente
a dare inizio a un’azione teatrale» (Brook 1968, 21).
Sarà centrale anche la distinzione operabile fra uno spazio fisico del teatro,
uno sociale e un terzo spazio che è quello sociologico. Quest’ultimo è di chi osserva i primi due spazi nel tentativo di riconoscere ruoli, convenzioni più o meno
tacite, pratiche (Tota 2011, 101-106), tenendo presente la linea di confine che
distingue uno spazio teatrale tradizionale caratterizzato da abitudini depositate
nei secoli – dall’organizzazione delle sedute che ripropone una precisa gerarchia
sociale, ad esempio, al tono di voce da tenere – e uno spazio performativo non
tradizionale come quello urbano contemporaneo dove tali abitudini sono in
continua ridefinizione, dove la quarta parete fra interpreti e pubblico, fra ribalta
e platea, è spostata o via via smontata.
La relazione fra danza e architettura, fra danza e città, porta poi a un ampliamento qualitativo aprendo allo spazio del sogno, che è spazio immaginato e
da immaginare (Bachelard 1957).
Rispetto alla struttura dell’articolo, nel paragrafo seguente si dà conto di
alcune rilevanti tracce genealogiche nello sviluppo storico delle performance
artistiche lette a partire dalla componente spaziale. In seguito (§ 3) si fa riferimento
agli approcci sociologici rispetto al corpo in performance – sia esso del performer
o dello spettatore, tra produzione e ricezione. In § 4 si pone attenzione su alcune
prassi testuali perlopiù desunte dalla semiotica e dai performance studies che
osservazione può essere fatta rispetto all’aggettivo architettonico che in inglese e in francese può corrispondere ad architectural in senso teorico, storico, progettuale, oppure ad architectonic (architectonique)
con riferimento alle componenti tecnologiche e tecniche dell’architettura.
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Architettura, città, danza
si confrontano con i nodi della descrivibilità e interpretabilità dei fenomeni in
esame. In questi paragrafi teorici l’obiettivo generale è quello di mettere in luce
il ruolo dello spazio nella (ri)costruzione della relazione fra corpo – corporeità
fisica, emozionale di chi vive la città –, e testo – nella controversa dinamica urbana fra autorialità e anonimato, testualità letterale e metaforica, extratestualità.
In questo spicca il ruolo dell’architettura provocatoriamente definita da Diller e
Scofidio come «ciò che esiste tra la pelle di un uomo e quella di un altro uomo»
(Franco 2013).
In § 5 si traccia una mappatura preliminare di alcuni case studies corrispondenti a esempi significativi di ritematizzazioni, se non risemantizzazioni
artistico-spaziali in attinenza con quanto analizzato precedentemente in chiave
teorica. Aver partecipato direttamente come performer ad alcune delle proposte descritte riteniamo abbia costituito per chi scrive un utilissimo momento di
verifica empirica delle iniziali chiavi teoriche di lettura, come poi ripreso in tale
paragrafo. Inoltre lo sguardo adottato in § 5, definito in campo urbanistico come
neofenomenologico (Boeri e Multiplicity 2003; Bianchetti 2003), predilige non
tanto la creazione e fissazione di categorie interpretative sul contemporaneo,
quanto la stesura di cartografie che permettano sia un primo orientamento su un
oggetto ancora poco studiato, sia il tracciamento di alcuni percorsi da sviluppare
per ricerche a venire, come meglio evidenziato in § 6.
2. Genealogie nello spazio
La nascita della performance moderna può essere fatta risalire alle tangenze e
discordanze che a partire dagli anni cinquanta, dalla «pittura performativa» di
Klein e Manzoni, si sono via via realizzate fra il linguaggio artistico visivo della
performance art e quello di matrice teatrale delle performing arts, sulle quali ci
si soffermerà maggiormente anzitutto per ragioni di stretta attinenza con le esperienze coreografiche analizzate. L’artista visivo che ha aperto la strada performativa specificamente legata alla spazialità è Kaprow, a partire da 18 Happenings
in 6 Parts del 1959 (Carlson 2001, 103-106). La commistione fra differenti forme
espressive – lettura di testi, esecuzione di pezzi musicali, esposizione di opere
pittoriche – in modo simultaneo, alla presenza di un pubblico radunato intorno
a Kaprow presso la Reuben Gallery di New York, rimanda alle modalità ibride di
matrice dadaista, alle improvvisazioni fra musica e danza che a partire dal 1952
Cage e Cunningham propongono presso il Black Mountain College. La danza
parte qui dai «found movements», oggetti trovati e riproposti secondo una logica
aleatoria distante dallo sguardo antropocentrico.
La riscoperta del quotidiano, l’esplicita fluidificazione del confine tra arte
e vita e fra canoni artistici attraverso l’utilizzo di pratiche e oggetti eterodossi da
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parte del performer rappresentano il tramite concettuale attraverso il quale nei
decenni successivi si è continuato ad attuare un’apertura innanzitutto corporea
e gestuale nei confronti di spazi differenti, soprattutto se slegati dai contesti tradizionalmente artistici quali i teatri, i musei o le gallerie.
Il «Nuovo Teatro» che dal 1947 al 1970 in Europa e negli Stati Uniti ha dato
luogo a sperimentazioni eterogenee spesso radicali e di riferimento per il futuro
(De Marinis 1987), evidenziando pure l’emergere di una poetica e di una politica
del contesto, è qui posto quale riferimento teatrale da cui partire. Le proposte del
newyorkese Living Theatre, attivo anche in Italia dal 1961 in teatri ma soprattutto in spazi urbani non convenzionali come cantieri e strade, rappresentano un
esempio di significativa commistione fra teatro, danza, arti visive, nel tentativo
anti-massmediatico di un recupero del pubblico attraverso la co-presenza e il
coinvolgimento anche fisico. È del 1968 la proposta teorica e pratica dello «spazio
vuoto» di Brook, che lavora alla costruzione di una relazione piena e nuda tra
spazio e performer: relazione che, se vissuta in un totale e reciproco coinvolgimento, non ha bisogno di altri elementi per essere teatrale.
Non a caso i riferimenti appena citati, dagli happening al Living a Brook
e lo stesso Grotowski, mostrano numerosi punti di contatto con le modalità
espressive e di messa in scena spaziale del Tanztheater tedesco, movimento
centrale e dirompente (Pontremoli 2004, 116) non solo per il linguaggio coreografico e teatrale ma per la cultura del secondo Novecento. È qui significativo
evidenziare come un caffè, attività commerciale ma soprattutto spazio che è di
per sé sinonimo di sociabilità urbana (Paquot 2009, 41-44), diventi protagonista
di Café Müller, una delle più note e rivoluzionarie opere di Pina Bausch (1978).
Qui il caffè diventa letteralmente spazio di esplicitazione di temi che saranno
poi della danza e del teatro contemporanei, quali il disagio individuale e sociale, la rivolta contro la rigidità nevrotica di schemi comportamentali e routine
tipicamente metropolitani.
È stato di nuovo un luogo specifico, il laboratorio della Judson Church a
New York, a raccogliere nel 1962 sotto la guida di Robert Dunn, allievo di John
Cage, i fautori di un’altra tendenza fondamentale per la danza contemporanea
quale la post-modern dance. Uno degli elementi caratterizzanti di tale stagione
statunitense è proprio l’esplicito rifiuto di ogni canone spaziale dell’attività teatrale, come emerge dai lavori di Anne Halprin o dal No Manifesto del 1965 di
Yvonne Rainer.
Dal momento che la proposta artistica non deve, in chiave post-modern,
porre limiti né a chi la voglia praticare né a chi ne voglia fruire, anche un marciapiede, un albero o un grattacielo – nello specifico la facciata del Whitney Museum percorsa dagli impavidi performer di Trisha Brown (Walking on the Wall,
1971) – diventano nuovi palcoscenici urbani la cui memoria sarà centrale per le
generazioni di performer successivi.
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Architettura, città, danza
Aver reso qualsiasi spazio, qualsiasi luogo un palcoscenico potenziale è
l’eredità qui più evidente delle esperienze degli anni sessanta e settanta. Tenendo
anche conto del linguaggio contact introdotto da Paxton, «la danza dunque diviene
il luogo privilegiato della liberazione del corpo» (Pontremoli 2004, 118).
La lunga traiettoria di reciproca contaminazione e continuo riadeguamento
corporeo-emozionale, embodiment gestuale fra performer e pubblico passa attraverso sia l’esibizione corporea della Body Art come ricerca radicale e anticonsumistica di una autenticità data per persa, sia alcune esperienze di attivismo politico
che scuotono le città degli anni ’70 nel novero delle radical street performances
(Cohen-Cruz 1998).
Avvicinandoci ad anni più recenti il corpo contemporaneo appare meno politico (Birch e Tompkins 2012) ma al tempo stesso più coinvolto in una sfera estetica
relazionale (Bourriaud 1998). Le tecnologie informatiche hanno inoltre permesso
un ampliamento nell’immaginario spaziale: la coreografia digitale (Quinz 2004,
403-406) utilizza dispositivi di interpretazione e lettura dell’azione innovativi quali
la motion capture che ricrea in modo virtuale la scena reale della live performance. In questo caso la spazialità fisicamente esperita dai performer si confronta
con la spazialità mentale, immaginata in primis dal coreografo e virtualmente
visualizzabile, di «un corpo nello spazio che crea spazio» (Pontremoli 2004, 155).
3. Sociologie del corpo in performance
Parlare di corpo in performance, rievocando il «corpo teatro» di Nancy (2010),
significa occuparsi di differenti gradi di coinvolgimento corporeo ed emotivo
nei confronti di una proposta performativa, riguardanti sia l’autore performer e
i soggetti variamente chiamati in causa nel processo di produzione, mediazione
e distribuzione, sia il pubblico formato da fruitori che si trovano a contatto con
la performance nello spazio in cui è attuata. Il tedesco Raumerlebnis sintetizza
bene l’ampio insieme di differenti esperienze che dello spazio possono essere
fatte da parte di tutti i soggetti coinvolti in una performance.
Una sociologia del teatro potrebbe rispondere a tali domande di ricerca, ma
come noto va evidenziato il carattere marginale all’interno dell’area sociologica
del teatro come oggetto di studio, eccezion fatta ad esempio per il theatrical
frame (Goffman 1974). Per inciso va sottolineata la rilevanza per la sociologia
in generale, ma anche per i performance studies richiamati più avanti (States
1996, 18-19), dell’approccio drammaturgico che però si riferisce a spazi teatrali
quali ribalta e retroscena in quanto efficaci metafore e modelli di analisi della
vita sociale (Goffman 1959).
Un primo passaggio consiste perciò nel porre in discussione le categorie e le
modalità attraverso cui è possibile riconoscere qualità artisticamente performative
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in un ambito spazialmente connotato: si tratta di un aspetto che ha uno stretto
legame con le dinamiche di artification evidenziate dalla sociologia dell’arte
(Heinich e Shapiro 2012).
Ciò chiama in causa la necessità di denaturalizzare il processo di ricezione
allontanandoci da uno sguardo essenzialista, senza per questo aderire a un approccio costruzionista radicale. Non tutto ciò che avviene nello spazio urbano è
di per sé interpretabile come una performance artistica. Dentro alla o alle cornici
si evidenziano azioni in flagranza come richiama la definizione giuridica: perché – poniamo – una coppia ha iniziato a danzare su una parte del marciapiede
o sulla facciata dell’edificio? Qualcosa – gesto, intenzione – è colto più o meno
improvvisamente nel suo farsi, come è ricordato in uno dei rari studi italiani sul
tema (Codeluppi et al. 2008, 6-8).
Anzi, è proprio da uno sguardo spazialista – messo in primo piano da un
numero purtroppo ristretto di sociologi urbani attenti alla pertinenza delle dimensioni corporee e emotive di chi vive la città (Mela 2006; Gazzola e Puccetti
1999) – che implicitamente proviene la prima conferma dell’utilità di uno sguardo
consapevolmente denaturalizzante sull’urbano contemporaneo.
Vedo una persona che sbatte le palpebre ed inquadro tale striscia di
esperienza come tic, ma poi, osservando meglio, vedo che la persona sta
sbattendo le palpebre in direzione di una seconda persona. […] Finché
non mi rendo conto che l’intera sequenza viene ripetuta più volte […] e
reincornicio quanto visto una terza volta come prova teatrale di una scena
di abbordaggio (Sparti 2002, 268).
In questo esempio sospeso tra il quotidiano e il teatrale in quanto «cornice di
finzione» (Bizzarri 2008, 35), potenziale fraintendimento interpretativo o misframing, si colgono in nuce gli elementi effettivamente centrali della discussione:
indifferenza dello spazio – nel doppio senso attivo, di chi per abitudine non fa
più caso alle specificità dei vari ambiti, e passivo, dello spazio stesso che è potenzialmente pronto ad accogliere un ampio numero di azioni eterogenee; valenza
connotativa e propulsiva del contesto spaziale; coessenzialità della reazione del
fruitore nei confronti di costruzione e tenuta di una performance artistica, considerando che questa può essere da alcuni riconosciuta, da altri fraintesa o del
tutto non còlta.
Analogamente assistere per ipotesi a uno scambio di tennis nei corridoi
di una banca, o scorgere qualcuno che beve un bicchiere d’acqua fermo su un
marciapiede in mezzo al flusso pedonale, rappresenterebbero di per sé evidenti
distorsioni nella percezione sociale di quei contesti. Si tratta di un’ipotesi che,
sulla scia semantica dell’aggettivo controfattuale, potrebbe qui essere definita
controspaziale, che è accostabile per significato al disorientantamento del counterframing. Percepire infatti un sovvertimento nelle abitudini spaziali fa sorgere più
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di una domanda, potenzialmente trasformando un distratto cliente della banca,
che con Benjamin dà lo spazio architettonico per scontato, in uno spettatore più
sorpreso e attento, via via sollecitandone un’eventuale competenza come quella
proveniente da una soggiacente «carriera estetica» (Tota 2011), cioè da uno specifico capitale culturale come è il «capitale teatrale» (Tota 1998, 216) composto di
tutte le esperienze e memorie fruitive passate del theatergoer (Goffman 1974).
ll frame goffmaniano mediato dalla psicologia batesoniana è utile per
rendere conto sociologicamente della cornice teatrale. Ogni messaggio metacomunicativo legato a più di un segnale – «questo è uno scherzo», «questo è
teatro» – definisce psicologicamente e socialmente la situazione, suggerendo
dunque i comportamenti più adatti per pubblico e interpreti. In questo senso
può essere tracciata anche una differenza fra performance in spazi urbani aperti
e performance in spazi architettonici chiusi che, come tali, ripropongono se non
altro una divisione più netta fra un dentro e un fuori, fra pratiche e consuetudini
dell’entrare, disporsi nello spazio, uscire.
Per inquadrare un’azione in quanto artisticamente performativa possono
essere utili anche i pochi o tanti segnali materiali e non che in senso metacomunicativo lo spettatore empirico (De Marinis 1982) come lettore empirico (Eco
1979) riesce a raccogliere: manifesti, comunicazioni sulla stampa, abbigliamento
e gestualità adottate dai performer, oltre a un eventuale uso non consueto dello
spazio. Come emerge dagli studi antropologici sul tema è possibile registrare
un’ampia declinazione degli assetti corporei e spaziali da parte degli interpreti,
dal tono quotidiano o al contrario extraquotidiano, eccezionale o marcatamente
teatrale (Barba 1981, 72). Peraltro è negli spazi aperti della città molto più che
a teatro che lo spettatore modello – ovvero colui che «riconosce tutti i codici del
testo spettacolare in questione» (De Marinis 1982, 189) – diventa una figura ideale quasi mai effettivamente raggiungibile, facendo propendere anche qui per
un approccio sociologico contestuale (Tota 1994, 182-184; Sparti 2002, 179; Del
Sordo 2005).
Dopo esserci posti la questione sui caratteri che rendono un’azione e chi la
produce artistici, si presentano ora domande più specifiche sulle qualità artistiche
rintracciabili nelle varie proposte: a partire, citando un lavoro significativo sul
tema, da alcune proposte coreografiche contemporanee in cui ci si chiede come
riconoscere all’interno di lavori di co-costruzione tra coreografo e danzatori non
tanto il loro essere o meno valutabili come artisti, dato per acquisito, ma il peso
e la posizione degli uni rispetto agli altri in termini di autorialità (Proust 2012).
A loro volta i processi di artification sono connessi all’aesthetization, processo più ampio e non esclusivamente artistico concernente, come analizzato in
ambito filosofico, la pervasività dell’estetico nel quotidiano (Vercellone 1990) che
richiama gli studi sull’«estetica tacita» (Kisliuk 1998, 99). Tali processi rimandano
per attinenza alla beautification nell’ambito delle politiche urbane postindustriali
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(Moulaert et al. 2004), ai progetti di rivalorizzazione di alcuni luoghi dimenticati,
trascurati, sottovalutati, ciò che, come vedremo in § 5, si pone pure in rapporto
di causa-effetto con alcune delle proposte performative presentate.
Inoltre l’audience delle performance rientra a stento nei profili bourdieusani,
come evidenziano le analisi sullo spettatore onnivoro (Peterson e Kern 1996),
altalenante tra consumi alti, d’élite, e popolari o di massa.
Dal punto di vista del giudizio dello spettatore sull’opera, esso è influenzato
da componenti emotive, biografiche, collettive, ambientali oscillanti tra la ricerca
di un piacere estetico e il tentato riconoscimento di un valore artistico, fra logiche
intenzionaliste autoriali e legate invece alla più sfuggente intentio operis di Eco
(Velotti 2012, 156-158). «Presso il pubblico la valutazione sembra muoversi tra la
gratificazione emotiva, il senso di appartenenza trasmesso attraverso l’“autenticità”, il piacere “dell’effetto sorpresa” e il riconoscimento delle qualità tecniche»
(Lutter e Reisenleitner 2002, 85). È stato anche notato come un piacere estetico
sia riconoscibile già durante la costruzione di questo pur impegnativo «lavoro interpretativo» (Velotti 2012, 162-163). In ogni caso il piacere della sorpresa è legato
al carattere di eventhood di una performance: reciproca, istantanea scoperta di
una relazione imprevista tra performer, osservatore e spazialità, racchiusa nella
sintetica espressione del classico «ci dovevi essere!» (Heathfield 2004, 9).
Va sottolineato che la ricerca di autenticità è manifestata innanzitutto da
numerosi autori / performer che domandano a se stessi una condizione di immediatezza non formale (Allegri 2012, 148) basata sull’ascolto, sul riconoscimento di
una urgenza – nel movimento, nella relazione, nello spazio – e un’intenzionalità
proprie, originali. Colpisce qui l’effetto straniante del teatro contemporaneo in
generale, rispetto al quale il pubblico fruisce del lavoro di interpreti che sono alla
ricerca di verità personali talvolta decisamente intime proprio in uno spazio, la
ribalta, che è per definizione quello della massima esposizione di sé.
I punti fin qui chiamati in causa nella relazione fra produzione e ricezione
richiederebbero una approfondita discussione metodologica a illustrare le possibili modalità di studiare le esperienze performative sul campo. Pur non avendo
evidentemente eluso qui tali questioni – in parte già affrontate e più avanti riprese
in § 5 presentando i vari casi-studio – va tuttavia precisato che le finalità di questo
articolo sono maggiormente centrate sui nodi epistemologici che l’oggetto di
studio chiama in causa.
4. Semiotica, performance studies: testualità performative
Il punto di vista qui adottato è quello ermeneutico, in particolare ricoeuriano, che
pare proficuo per osservare da vicino, citando il filosofo francese, le reciprocità
tra texte e action in ambito urbano e urbanistico (Ricoeur 1986; Poggi 2006, 95-
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110; Poggi 2011b). Approcci ermeneutici che la sociologia contemporanea ha
autorevolmente posto in relazione e non in opposizione con i metodi esplicativi
scientifici (Griswold 1994), fino a posizioni in cui la dimensione ermeneutica viene
decisamente potenziata come nel «programma forte» della sociologia culturale di
Alexander (Alexander e Smith 2003; Santoro e Sassatelli 2009, 41).
È da questa posizione che si affronta la questione del contesto, intenso come
«l’insieme dei “testi” culturali, teatrali ed extrateatrali, estetici e non, che possono
essere messi in relazione con il testo spettacolare di riferimento, o con una sua
componente: testi mimici, coreografici, scenografici, […] urbanistici, architettonici»
(De Marinis 1999, 23).
L’agire corporeo del performer e/o spettatore apre all’azione interpretativa
che una molteplicità di autori e lettori intraprende nella e sulla città con finalità
e strumenti eterogenei. Dopo aver letto il corpo «come luogo di incontro fra
l’individuale e il collettivo, come sito in cui si possono tracciare la dimensione
privata e pubblica della vita quotidiana», avendo osservato che «il corpo è mobilitato dagli artisti per attivare e, in alcuni casi, per cancellare la separazione fra
sé e altro, fra corpo e spazio» (Jones 2000, 26), l’accento è dunque posto sul testo
come altro concetto-ponte fra performance e città, nello specifico sul testo come
prassi. Le pratiche di ricezione ma anche di produzione di un’opera, in particolare i conflitti tra intertestualità implicita e extratestualità empirica, richiamano
l’attenzione sulla necessità di affrontare un testo in senso pragmatico, nelle sue
localizzazioni spaziali.
È vero che, perlomeno in ambito semiotico il dibattito sulla pertinenza della
metafora testuale per descrivere le pratiche è aperto, talvolta conflittuale (Contreras Lorenzini 2009). Da una parte spiccano le posizioni, come quella di Violi,
secondo cui le pratiche – sensoriali, somatiche, passionali – presentano più di un
aspetto sfuggente alla dimensione testuale o testualizzabile (Violi 2005); d’altra
parte si segnala la posizione di Marrone secondo cui «ogni esperienza vissuta è
già di per sé una totalità significante, un insieme conchiuso di forme espressive e
forme semantiche in continuo divenire, dunque un testo» (Marrone 2005, 119). Per inciso i diversi livelli di fisicità e di abitabilità, in senso sia fruitivo generico sia coreografico-performativo di cui si è parlato in § 3, pur costituendo la
più evidente differenza fra un’opera artistico-letteraria e un’opera architettonicourbanistica, non impediscono rilevanti scambi metaforici fra le due forme.
Tuttavia il detto, il raccontato, lo scritto – anche quello coreografico – che nel
tempo si sono depositati sulla città in quanto eterogenee discorsività e testualità
sono considerati nel presente articolo come fatti, o agiti dal forte potenziale costruttivo. Ciò che viene detto e scritto sulla o per la città e il momento esperienziale
stesso implicito in tale azioni si condensano in uno strato epidermico, apparentemente superficiale, ma in realtà già organico per la città che è stata descritta come
«teatro di una guerra di racconti» (De Certeau 1990b, 203; Mondada 2000). Nello
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specifico parliamo qui di testualità particolari come quelle relative alle nozioni
introdotte dalla semiotica del teatro a partire dalla fine degli anni settanta di «testo
spettacolare» (De Marinis 1982) e soprattutto di «testo performativo» (Barba 1993)
che mette bene in luce come qui ci si riferisca non tanto a una scrittura precedente
alla messa in scena ma piuttosto a una «scrittura scenica» (Bartolucci 1968) e a una
«drammaturgia scenocentrica» (Dalla Palma 2001, 139) che assembla i materiali
poi proposti nella performance durante le improvvisazioni e le prove da parte
di tutti i soggetti coinvolti (coreografi, registi, performer). E ciò a partire in primo
luogo – per quanto concerne la creazione di tutte le azioni site-specific – dalle
sollecitazioni e dall’ascolto dello spazio urbano e architettonico fatti di distanze,
segni, sonorità, flussi pedonali mutevoli.
L’attenzione si focalizza sull’azione non ancora scritta, che è in procinto
di esserlo come drammaturgia e coreografia: per questo aspetto un contributo
significativo proviene dalle riflessioni nate intorno allo spatial turn (Soja 1989;
Iacoli 2008) e al performative turn (Schechner 2006). È un tipo di attenzione
più riscontrabile non tanto nei dance studies o nei theatre studies, quanto nei
performance studies, nel loro essere concentrati sulla «interconnessione fenomenologica tra corpo e presenza» (Lepecki 2004, 2) più che su linguaggi già danzati
o già portati in scena; su corporeità che si fanno spazio, su liminalità (Turner
1982) in gioco tra chi si sente ancora passante e chi si sente già all’interno di
una performance.
Da un punto di vista disciplinare l’ambiente urbano, così ricco di segni e
pratiche, ha comunque attratto lo sguardo semiotico aprendosi negli anni a una
più articolata semiotica della città (Castelnovi 1980; Marrone 2001; Volli 2005) al
punto, provocatoriamente, da
non tanto provare a studiare la città come se fosse un testo […] quanto
semmai provare a studiare i testi «propriamente detti» (tali cioè per la nostra
cultura) come se fossero – nemmeno tanto metaforicamente – delle forme
di città: con edifici e piazze, vie e segnali, ma anche […] passeggiate private
e perdizioni di gruppo (Marrone e Pezzini 2008, 11).
Descrivere la città e lo spazio architettonico attraverso la metafora testuale
che poggi sulla relazione autore / lettore / opera – metafora come figura retorica
di cui si sottolinea la vitalità e non la valenza esornativa (Ricoeur 1975) – pur
sembrando un’operazione potenzialmente fertile è stata invece poco praticata
nello specifico ambito sociologico urbano (Ledrut 1973; Joseph 1984; Sennett
1990; Gazzola e Puccetti 1999; Mela 2006) e in urbanistica (Secchi 1984; Palermo
1996).
Sta di fatto che la performance, che nasce dal gesto più che dalla parola,
riveste il ruolo di «cugina povera, in senso filosofico, del testo» (Hopkins et al.
2009, 6) la cui posizione privilegiata ha a che vedere con l’origine letteraria dei
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primi studies, ovvero i cultural studies. Le testualità spettacolari e performative
sopra introdotte spingono a ripensare la testualità teatrale contemporanea tenendo
conto delle contaminazioni non gerarchiche che possono avvenire in scena, tra
immagini, musica, gestualità e anche parole, quotidiane e non.
I performance studies chiariscono il punto in modo radicale, ponendosi
non tanto contro il testo in quanto tale ma contro ciò che viene definito come
scriptocentrism o textocentrism (Conquergood 2002): «il registro visivo / verbale
tipico dei regimi occidentali del conoscere disorienta i ricercatori su significati che
sono esplicitamente espressi attraverso intonazione, silenzio, tensione corporea,
sopracciglia inarcate, sguardi vacui […]» (ivi, 146). La pur presente dimensione
narratologica della performance artistica (Chernetich 2010) passa quindi attraverso
una peculiare mediazione non verbale, corporea e gestuale, che non per questo
dà carattere riduttivo all’azione e al suo racconto.
Pure in ambito filosofico è stato messo in luce come l’esperienza spaziale del
corpo diventi anche occasione di conoscenza grazie a quello «sguardo del corpo»
che si pone in alternativa a un più tradizionale sguardo disciplinare, astraente,
testualizzato, che per alcuni autori ha storicamente assunto un carattere autoritario
(Haraway 1991, 196).
Le tre c dei performance studies, «creatività, critica, cittadinanza», sintetizzano
un’attività di ricerca che tenta di superare la tradizionale divisione fra arte, pratica
artistica e teoria anche all’interno dell’università (Conquergood 2002, 152), come
emerge emblematicamente dalla biografia di Schechner che è stato al tempo stesso
teorico, docente e direttore artistico in ambito performativo.
5. Casi studio: danza contemporanea e performance site-specific, danza
urbana
Come introdotto in § 1 si presenta ora la mappatura di una serie di case studies
desunti sia da festival di danza urbana, facendo in primo luogo riferimento a
performance viste da chi scrive dal 2004 al 2012 nell’ambito del Festival internazionale di danza in paesaggi urbani Corpi Urbani / Urban Bodies (in seguito
abbreviato in CU con l’anno di riferimento), che si svolge dal 2003 nel centro di
Genova e a Finale Ligure (Sv), accostandovi per attinenza performance urbane
contenute all’interno di altri festival in ambito nazionale e internazionale; sia da
performance di danza contemporanea site-specific in contesti urbani e/o architettonici che, tuttavia, non si configurano come un insieme circoscritto, ma in
oscillazione e spesso contaminazione tra performing arts di matrice teatrale e
performance art legata alle arti visive.
Come introdotto in § 1 chi scrive ha anche preso parte ad alcuni dei lavori
presentati di seguito in § 5.1. Va precisato però che soprattutto questa seconda
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fabio poggi
parte dell’articolo non nasce da un percorso effettivamente autoetnografico (Ellis
e Bochner 2000), facendo invece riferimento ad una serie di appunti e foto rivelatisi peraltro molto utili, ma raccolti prima e indipendentemente dal presente
lavoro. Tuttavia, in un’ottica di autoriflessività, si ritiene che l’essere direttamente
coinvolto nel mondo della danza contemporanea come appassionato, osservatore critico e performer possa aver reso più efficace e pertinente lo svolgimento
dell’analisi qui in corso.
In quanto espressione performativa la danza urbana e in senso più ampio la
danza contemporanea ambientata in contesti urbani non hanno una data d’origine
riconosciuta né un’unica genealogia artistica, come visto in § 2. Modalità ricorrenti
in entrambe, già in parte analizzate, sono sia la predisposizione spazio-temporale
di un set in motion, sia il connesso senso di spaesamento percettivo ed emotivo
nel momento ricettivo (Mazzaglia 2012). Gli organizzatori di uno dei festival di
danza urbana più noti, che si tiene ogni anno a Bologna, assumono la paternità
dell’introduzione dell’espressione danza urbana, perlomeno in ambito italiano,
facendola risalire al 1997. È anche vero che in ambito internazionale il dibattito
è ancora più diversificato: a partire dalla nozione anglosassone di urban dance
che rimanda soprattutto all’espressività di breaker e danzatori hip-hop, e non al
contenitore e laboratorio culturale che è oggi ad esempio la danza urbana italiana,
intesa come progetto che assume di solito la forma di festival ed è organizzato
in una rete di contatti e scambi fra città in ambito internazionale come nel caso
della piattaforma Ciudades que danzan / Dancing Cities che include il citato
festival genovese.
Le performance via via presentate si pongono in una relazione causa-effetto
multiforme e non univoca o gerarchica con lo spazio. In alcuni casi dello spazio
si confermano, anzi si sottolineano o rievocano in una logica rispazializzante
tipologia, funzione, carattere; in altri l’esperienza performativa è despazializzante,
sulla scorta del verbo delocalizzare: percezioni, emozioni, memorie spostano e a
loro volta vengono spostate in un altrove spazio-temporale, tra passato e futuro;
in altri casi ancora l’effetto ottenuto è decisamente straniante, se non di rottura
in senso controspaziale rispetto a consuetudini percettive e fruitive. Va in ogni
caso evidenziato che le tre dinamiche appena introdotte non sono esclusive, ma
al contrario aperte e talvolta interrelate.
Scegliere di aderire allo spazio tracciando una prima mappatura costituisce
una strategia testuale di ricerca che si rifà alla scelta degli studi culturali di partire
da alcuni spazi emblematici – dai passages di Benjamin al Baustelle, il cantiere
della Berlino di fine ‘900 – per descrivere l’«oggetto nuovo» (Cometa 2004, 40), la
trasformazione o innovazione nel suo aver luogo.
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Architettura, città, danza
5.1. All’aperto / al chiuso
Il primo raggruppamento proposto nasce dalla suddivisione spaziale più generale tra aperto e chiuso. Se lo spazio pubblico aperto per antonomasia è quello
della piazza – non a caso è quello che fra i contesti non specificamente teatrali
ospita il maggior numero di performance urbane –, più problematici in quanto
ambivalenti appaiono gli spazi di confine tra pubblico, semi-publico, come nel
caso dei portici o delle pertinenze esterne di un museo.
La stessa facciata di un palazzo rappresenta appieno una superficie di confine
tra l’aperto e il chiuso, tra l’architettonico e l’urbano. In una chiave interpretativa
più vicina alla connotazione hip-hop e breakdance dell’urban dance in senso
anglosassone si muovono i brasiliani Membros (CU 2006) che utilizzano la facciata
di una delle architetture più rappresentative di Genova, Palazzo Ducale, come
superficie di lavoro, lasciandovi le loro orme temporaneamente impresse. Con
Monomental (Festival Danza Urbana, Bologna 2005) anche Winter percorre
letteralmente la tessitura verticale di un edificio storico come la torre in piazza di
Porta Ravegnana, aderendo letteralmente al bugnato di tale architettura, ovvero
a un paramento originariamente difensivo. In entrambe le esperienze l’effetto
ottenuto sul pubblico è di straniamento, di despazializzazione.
La pratica performativa dell’architettura in tutte le sue dimensioni e superfici,
con una nota acrobatica, è attenzione specifica di ciò che viene definito come
danza-architettura, e come aerial dance o aerial theatre, sulla scia delle esperienze storiche di Trisha Brown (infra § 2).
Nello spazio pubblico aperto, che nasce come luogo di scambio, una performance artistica può esplicitare se non potenziare il carattere interattivo di tale
contesto. In The Line, proposto da Collision Dance per Urban Move Manchester
(2008) il pubblico è direttamente coinvolto in un evento di community dance
per disegnare, muovendosi sulla strada, una linea di persone di volta in volta
istruite a compiere semplici sequenze. La strada è il contesto in cui si legge più
chiaramente la sovrapposizione dinamica di azioni, artistiche e non, e di flussi,
veicolari e pedonali (fig. 1).
La proposta di Urban Dialogue (CU 2008), in collaborazione fra UBIdanza
di Nari e Frangioni e il coreografo rumeno Manolescu, lavora sull’acquisizione
da parte della città fisica di un ruolo di vero e proprio partner per i danzatori. Il
percorso all’interno del centro storico genovese, a cui chi scrive ha preso parte
come performer, è pensato come insieme di punti di contatto coreografati o improvvisati con i luoghi e con i passanti, che riconoscono le anomalie di questo
gruppo compatto e portatore di gestualità e prossemiche non abituali. Il dialogo
è qui inteso anche come scambio continuo fra esterno urbano e interno della
sala prove, nella quale i materiali urbani sono analizzati e rielaborati, ovvero
testualmente riscritti, per essere poi riportati in città.
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fabio poggi
Fig. 1. Bedlam Oz, Festival Corpi Urbani, Genova, 2008, foto di Fabio Poggi.
All’estremità di questo approccio si può collocare il relativamente nuovo
fenomeno del flash mob, proposto la prima volta a New York nel 2003: raduno
ancora più configurato come occasionale e spontaneo di persone contattate via
mail (Baccarini 2008, 39) che non si conoscono reciprocamente e che fanno
un’esperienza eventuale dello spazio urbano.
All’interno di spazi chiusi, come quelli museali pubblici, si sono invece
attuate rielaborazioni danzate frutto dell’incontro fra le opere visive esposte e
l’immaginario dinamico dei performer. È il caso del Solo di Sieni all’interno di una
delle sale di Palazzo Bianco (CU 2004), museo che ospita una collezione soprattutto centrata sul periodo barocco. Un quarto d’ora di esplorazione linguistica sulla
danza contemporanea, sulle suggestioni visive provenienti da questo peculiare
interno, con un chiaro richiamo da parte del noto danzatore e coreografo italiano
alla scomposizione gestuale di Cunningham. Nel momento di apertura del laboratorio coreografico di Di Cicco, presso la Galleria d’Arte Moderna (CU 2007), il
museo offre l’opportunità di essere vissuto in maniera più consapevole e piena
(rispazializzazione) grazie a interventi performativi di per sé despazializzanti. Ogni
sala ospita parallelamente l’azione in loop di uno o più performer che per alcuni
giorni si sono rapportati specificamente a un’opera d’arte esposta, reinterpretando
secondo modalità che ricordano la doppia negatività schechneriana – non-io e
non non-io – un’immagine futurista, nell’esempio di Ferraro, o impersonificando
con Giardina un’ipotetica ospite ottocentesca come ironica persona performance
(Carlson 2004, 163-164), o ancora – come nella proposta di chi scrive – aggiungendo un risvolto surreale alla scena storica dipinta su una tela ottocentesca.
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Architettura, città, danza
Una performance in spazi istituzionali come quelli museali ne rende più
varcabile la soglia. Il museo in occasioni come queste si apre, con ingresso gratuito, anche a quella parte di pubblico che per difetto di capitale culturale non vi è
mai stata o solo raramente: nel giorno dell’evento performativo anche i guardiani
cessano di essere le figure simbolicamente minacciose che Zolberg ha evidenziato
tra l’ironico e il provocatorio (Zolberg 1992).
Anche lo spazio chiuso per eccellenza, quello della casa, può diventare
performativo, come mostra il numero crescente di spettacoli organizzati in ambito
domestico con modalità più o meno informali e comunicate. In una direzione più
radicale è stata pensata Vena Amoris, performance in spazi chiusi per un solo
fruitore prodotta dalla compagnia londinese Curious (Hill e Paris 2006, 180-184).
Qui l’unico spettatore viene chiamato al cellulare dal performer, apparentemente
assente, che lo guida all’interno di un edificio vuoto fino a una quasi completa
inversione di ruoli fra osservatore e performer.
5.2. Funzioni / oggetti
Due casi indicativi di un utilizzo inconsueto degli spazi commerciali, in un dialogo
spaziale altrettanto insolito fra interno ed esterno, sono dati, da una parte, da Au
fond de la cour, performance presentata nell’ambito di La Ruée vers l’art (Grenoble,
2008) in cui Ueki, Hubert e Perrin lavorano sullo spazio tra strada e marciapiede per
un pubblico raccolto in uno spazio commerciale che si affaccia su quella porzione
di via. Dall’altra, da Danza in Vetrina, di T.B.C. / Cantieri Danza (CU 2008): in una
situazione opposta alla precedente i performer agiscono all’interno delle vetrine
di alcuni negozi in una delle vie centrali di Final Marina (Sv), facendosi osservare,
come nel caso di Questorio, mentre si vestono e rivestono a velocità surreali dalle
persone che intenzionalmente o occasionalmente passeggiano in quella zona. La
proposta sembra qui sfruttare un carattere teatrale, di messa in scena, già inscritto
nella spazialità della vetrina commerciale abitata da manichini reali e umani.
In generale l’ambito spaziale degli interni viene reinterpretato secondo modalità eterogenee. Alla scala domestica è ciò che succede in Effettoserra alla casetta
per le piante in tela plastificata che riesce a contenere in poco più di un metro
cubo le azioni surreali dei due protagonisti della compagnia Tecnologia Filosofica (CU 2012). Nella proposta di Pavanello (CU 2007), invece, è il meccanismo
ripetitivo di apertura e chiusura dell’ascensore - oggetto fisico qui emblematico
per chiarezza funzionale - a suggerire un’originale rilettura coreografica.
Gli spazi di accesso ai mezzi di trasporto pubblico, in una condizione alternata di stasi e movimento, diventano spesso occasioni performative. In proposte
più teatrali come Juke-box della compagnia Il cantiere (CU 2006) che, agendo
nell’atrio della Stazione Principe attraverso sequenze danzate con oggetti (vali-
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fabio poggi
gie), raddoppia e perturba l’effettivo frame spaziale arrivo-partenza; in proposte
di piena interazione con il pubblico, come in P.P-P 4.2. plastic play-pen 4.2.
(CU 2009) di Giovannini, in cui la danzatrice-performer offre ai passeggeri della
metropolitana uno dei due auricolari di un iPod incorporato nel proprio abito
tecnologico, cavetto audio che diventa così filo di unione con lo spettatore divenuto performer temporaneo – che cammina o balla, a propria scelta, seguendo
Giovannini in un walkabout (Carlson 2004, 125-6) sulle scale mobili, o sui vagoni
in partenza. Questi spazi originariamente monofunzionali possono così, analogamente ad esempi di scala diversa come una piazza o un salone, assumere un
profilo semantico e tematico nuovo dai connotati mutati. Con analogie rispetto alle
osservazioni fenomenologiche condotte sui sitemi di rilevanza (Schütz 1970):
Se per esempio in una stazione di metropolitana la distinzione fra la sala
dove acquistare il biglietto, i corridoi e i marciapiedi dove prendere il treno
è legata a differenti funzioni […], dal punto di vista del flâneur che si reca
in quella stazione per ascoltare il sassofonista di turno questa distinzione
non ha alcuna ragion d’essere: i corridoi diventano per lui grandi tunnel
dove si incanala la musica […] (Marrone 2001, 301).
Tornano in mente le passeggiate audio proposte dalla canadese Cardiff, viste
da ultimo nel 2012 a Kassel per dOCUMENTA (13). In particolare nel 2004, nel
newyorkese Central Park, la sua performance Her Long Black Hair assume un
carattere narrativo propagando tracce audio ambientali registrate dal vero insieme
a tracce fictional, al punto che in virtù di un effetto de- e controspazializzante
lo spettatore può dire: «Mentre ascolto cammino, Janet [Cardiff] cammina, Baudelaire cammina, lo schiavo in fuga sta camminando verso il Canada» (Hopkins
et al. 2009, 18).
In questo ambito si collocano anche le Promenades chorégraphiques,
«progetti coreografici partecipati» e condivisi da studenti, coreografi e abitanti
di Saint-Denis, promossi dal 2008 dall’associazione Rue de la danse in collaborazione con il Département de danse dell’Université Paris 8 Saint-Denis. Di
particolare originalità è l’edizione del 2010 che ha focalizzato l’attenzione sul
Canal Saint-Denis: a partire dal mese di aprile i danzatori percorrono gli spazi
urbani accompagnati da un architetto, raccogliendo impressioni e osservazioni
ed esplorando parallelamente gli spazi del canale attraverso uno specifico lavoro
corporeo supervisionato dai coreografi.
A una scala dimensionale ancora minore si utilizzano elementi di arredo
urbano come le panchine. Per Liverpool Live del 2004 Matthew reinterpreta un
oggetto-icona del paesaggio urbano come la cabina telefonica: microspazio che,
in contesti più ampi e quotidiani di quelli specificamente artistici si connota come
performativo sociale oltre la funzione telefonica (Semprini 1996, 133-5) – diventando riparo in caso di pioggia, oppure barriera architettonica in presenza di
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Architettura, città, danza
disabilità –, e che qui, in Blip, è lo spazio minimo ma sufficiente per il performer
per cambiare abito impersonificando una serie di personaggi famosi di Liverpool,
da John Lennon a Lily Savage (Hill e Paris 2006, 15).
In maniera ancora più radicale Priasso della compagnia Beau Geste si mette
in relazione con un’escavatrice che lo trascina e sospende in aria, in un duetto
uomo-macchina poetico e rischioso (fig. 2).
Fig. 2. Compagnie Beau Geste, Transports Exceptionnels, Festival Corpi Urbani,
Finale Ligure (Sv), 2012, foto di Marco Pezzati.
5.3. Spazi anonimi / spazi rivalutati
Uno degli scopi peculiari della performance urbana è anche quello di riportare
luce su spazi insoliti, trascurati o dimenticati della città (Hill e Paris 2006, 11).
Nel caso di Opening Piazza del Ferro (CU 2007), all’interno del Progetto Linkinart tra artisti genovesi e berlinesi, la danzatrice – Zaccaria – e l’artista visiva
– Tartler – hanno letteralmente riaperto le finestre rimaste per anni in completa
ombra della stanza detta la Limonaia di un edificio storico come Palazzo Spinola
Doria. La riapertura fisica e danzata sulla piazza è stata sottolineata da una scrittainstallazione permanente – «io mi trovo dietro» – che da allora continua a porre in
termini artistici, performativi e letteralmente testuali, la questione di una effettiva
rivalutazione (rispazializzazione) di questo spazio rispetto alla percezione sociale
del patrimonio architettonico complessivo della città.
In questo caso si percepisce con chiarezza la natura site-specific del progetto
che non diventa «processo di mera urbanizzazione dell’arte» ma pone «la topologia
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fabio poggi
del luogo al centro del proprio processo di creazione»: in questo passaggio si evidenzia peraltro una delle critiche ricorrenti nei confronti di una danza urbana che,
allontanandosi dalla site-specificity, risponderebbe maggiormente o solamente
all’esigenza degli amministratori di valorizzare il territorio (Righi 2008, 25).
Tuttavia in molte occasioni le esigenze di politica urbana incontrano quelle
di natura artistica in modo sintonico. È il caso di Cercando Tina, performance
realizzata all’interno di uno specifico programma di residenze artistiche in cui, attraverso un omaggio alla fotografa italiana Modotti, Bevilacqua riapre letteralmente
gli spazi di un bar storico da qualche anno chiuso della Maddalena, che è oggi
una delle zone socialmente più difficili del centro storico genovese (fig. 3).
Fig. 3. Marta Bevilacqua, Cercando Tina, Festival Corpi Urbani, Genova, 2011,
foto di Marco Pezzati.
Il passaggio da una condizione anonima, tendenzialmente monofunzionale
come è quella del transito, a una condizione più consapevolmente performativa è
ciò che riguarda altri tipi di spazi urbani, secondo cadenze temporali che si sono
venute precisando in senso socio-spaziale. Nel caso del fenomeno ormai di moda
come il tango sulla Senna, alcuni tratti dei quai parigini diventano periodicamente vere milonga, passando dall’essere un incontro non prestabilito fra danzatori
professionisti e dilettanti a un appuntamento settimanale o mensile concordato
per quanto in modo informale.
In questo modo si configurano alcune esperienze di ciò che Desmond
definisce «bilinguismo corporeo», riferendosi al carattere imprevedibilmente passionale assunto da coppie anglosassoni upper-middle class alle prese con serate
di samba (Auslander 2003, 344).
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Architettura, città, danza
Dal punto di vista della cadenza temporale degli appuntamenti in città,
una situazione analoga e molto più nota è quella proposta da breaker, danzatori
hip-hop, skater, traceur che trasformano alcuni contesti urbani e metropolitani
– con o senza supporto di tavola o bike – in spazi per praticare e confrontare
competenze e stili (Borden 2001).
5.4. Architettura d’autore / danza d’autore2
Due esempi significativi di un interessamento diretto da parte della danza contemporanea nei confronti dell’architettura contemporanea sono dati da un lato
dai lavori di Flamand e Hadid, rispettivamente coreografo e architetto che in più
di un’occasione hanno tentato di trasformare lo spazio stesso in una geometria
dinamica e danzante. Dall’altro va segnalata l’esperienza laboratoriale del Taller
de Danza y Arquitectura che Mira ha condotto nel 2006 all’interno di uno spazio capolavoro come il Padiglione di Mies van der Rohe a Barcellona: l’assenza
del tutto moderna di decorazione e l’organizzazione planimetrica ancora oggi
innovativa diventano qui occasione di ulteriori possibilità coreografiche (Pérez
Royo 2008, 169-182).
La decisione più recente di inaugurare nel 2009 l’apertura di un museo d’arte
contemporanea nodale per la scena culturale italiana come il MAXXI di Roma con
un evento di danza contemporanea è analizzabile, innanzitutto, come incontro
fra due autorialità oggi di spicco, entrambe donne: da una parte nuovamente
l’architetto Hadid, dall’altra la coreografa Waltz.
L’eccezionalità dell’incontro fra Hadid e Waltz non è data solo dal fatto che
le due autrici hanno un ruolo di primo piano, in qualità di vere e proprie star nei
rispettivi ambiti disciplinari. Il carattere inedito di tale incontro è effetto in particolare di una lettura di genere che vi può essere applicata, dal momento che in
occasione di tali eventi sia Hadid sia Waltz mettono in discussione una fisionomia
quasi del tutto maschile soprattutto dell’architetto, e in parte del coreografo, così
come si è depositata storicamente in ambito europeo e statunitense. Si tratta di
un incontro dal carattere radicale fra gestualità danzata e costruita. Waltz infatti
è alla sua seconda inaugurazione di spazi museali d’autore – oltre al MAXXI, anche il Jüdisches Museum di Liebsekind a Berlino nel 1999 – entrambi collocabili
nell’ambito dell’architettura decostruttivista, ovvero in quella tendenza che ha
ripercorso le radici delle categorie vitruviane, ponendo in primo piano l’elemento
dinamicamente perturbante o parassitario – l’unheimlich freudiano –, in quanto
2
Con danza d’autore non si fa qui riferimento all’annuale, importante vetrina italiana di giovani
autori indipendenti (www.anticorpi.org), ma ad alcuni nomi di spicco nel panorama coreografico contemporaneo, posti in relazione con altrettanti architetti noti in ambito internazionale.
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fabio poggi
elemento spaziale e culturale disgiuntivo (Vidler 1992). È perciò interessante
sottolineare l’aderenza fra una proposta architettonica neoavanguardistica come
questa, che intenzionalmente sfida le leggi della statica pur dovendone paradossalmente sopportare ancor di più le restrizioni, e una performance di danza
come quella di Waltz, Dialoge 09-MAXXI. Deconstruction I, da intendere come
prima, sperimentale esplorazione corporea e interpretativa, site- e time-specific,
dei nuovi spazi: «gli interpreti non si possono portare a casa come una scultura e
dopo l’esibizione lasceranno lo spazio ad altre interpretazioni»3.
Più in generale va notato come l’architettura degli ultimi vent’anni si mostri
in una dimensione di «strumentalità non “dedicata”» tale per cui essa «non produce
più solo forme o costruzioni, ma configurazioni» (Masiero 1999, 215-216).
Non è un caso se l’esperienza architettonica del fruitore del secondo museo
citato, quello ebraico di Libeskind a Berlino, sia stata descritta in termini di per sé
performativi, pur senza fare alcun riferimento all’inaugurazione coreografata da
Waltz. Il visitatore infatti entra fisicamente da un livello sotterraneo in un’architettura decostruita con tagli non ortogonali, conflittuali, all’interno dei quali egli
è invitato a ripercorrere una «topografia culturale» in modo esperienziale come
«performance culturale» – con specifico riferimento alla Shoah come nodo intorno
a cui ruota l’intera istituzione. Il visitatore si fa spazio e, contemporaneamente,
diventa attore della rielaborazione storica in senso benjaminiano, intendendo
metaforicamente la memoria e la storia proprio in senso spaziale come paesaggio
di monumenti e rovine nei pressi dei quali passare e sostare (Hopkins et al. 2009,
222-239). Analoga attenzione sull’esperienza della visita del museo è riscontrabile
in ambito semiotico in un saggio inerente il Monumento alle vittime dell’Olocausto, opera di Eisenman sempre a Berlino (Pezzini 2011, 81-87).
Gli edifici di Gehry, un’altra archistar, costituiscono uno sfondo allettante
per il festival di danza urbana Lekuz Lezu a Bilbao e un’attrazione per Lafrance, la
performer che decide di danzarvi. Grazie alla frequentazione diretta dell’architetto,
alla sperimentazione tecnica della percorribilità e performatività delle coperture
curve apparentemente contro-architettoniche del Guggenheim di Bilbao, è stato
possibile per Lafrance offrire nel 2008 Rapture. Questa proposta apre alle esperienze di danza-architettura presentate precedentemente.
6. Conclusioni
In linea con le riflessioni introduttive non si sono volutamente cercati punti di
chiusura per le varie traiettorie tracciate. Soprattutto per quanto concerne la
mappatura tematica (§ 5) di alcune esperienze performative l’approccio è stato
3
Versione online del «Corriere della Sera», 13 novembre 2009.
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Architettura, città, danza
più attento alla ricognizione spaziale delle varie proposte che al loro raggruppamento per categorie.
Del resto tale scelta è nata tenendo conto sia delle finalità di questo articolo,
che intende aprire una finestra sulla relazione fra performance e spazio, sia della
natura di per sé multiforme e plurale delle spazialità architettoniche e urbane
contemporanee che possono essere declinate analiticamente all’interno di differenti coppie tematiche. Alcuni esempi racchiusi nella famiglia aperto / chiuso (§
5.1.) potrebbero essere stati studiati in quanto spazi anonimi / rivalutati (§ 5.3.)
o, eventualmente, come architetture d’autore (§ 5.4.). Dunque è stata piuttosto la
preminenza di un elemento caratterizzante sugli altri a orientare l’organizzazione di
questa prima mappatura – il fatto che, per esempio, di un edificio sia sembrato più
significativo sottolineare un processo di ritematizzazione funzionale, per quanto
circoscritta nel tempo, che il suo essere trascurato o dimenticato dal city user.
Anche nella parte teorica si è fatto cenno ad approfondimenti da sviluppare
in ricerche future rispetto a snodi di natura epistemologica e metodologica.
I primi hanno avuto una generale precedenza sui secondi dal momento che
la logica sottesa al presente lavoro è stata più che altro ricognitiva rispetto pure alla
scelta delle parole-chiave da utilizzare e mettere in relazione. In questo senso lo
spazio ha rappresentato un concetto-ponte che ha permesso di toccare in modo
trasversale alcuni degli studies più direttamente chiamati in causa con l’oggetto
di studio. È presumibile che l’andamento tematico dei performance studies,
connesso ai theatre e ai dance studies, verrebbe ulteriormente problematizzato
se si tenesse conto dei contributi che oggi affrontano alcune delle svolte culturali
maggiormente toccate dalla variabile spaziale come nel caso del performative
turn, da una parte, e del più recente topological turn, dall’altra (Fischer-Lichte e
Wihstutz 2012; Shields 2013).
Per quanto concerne uno sviluppo metodologico dell’argomento si potrebbe
approfondire l’utilizzo di approcci etnografici in ambito teatrale (Tota 2011) o
sul mondo della danza (Bassetti 2010) dei quali si è comunque tenuto conto per
imbastire la mappatura presentata precedentemente. In un passaggio successivo il percorso potrebbe toccare, tra le varie proposte, l’impiego in sociologia di
approcci autoetnografici (Ellis e Bochner 2000) o, in direzione più sperimentale,
di etnografia performativa (Denzin 2003) all’interno della quale i risultati della
ricerca stessa vengono presentati con modalità performative.
La città contemporanea che emerge da questo articolo è costituita da ambiti
spaziali positivamente sorprendenti e, diremmo quasi con un gioco di parole,
socialmente sorpresi. Si tratta di una scelta volutamente perseguita, intrapresa non
tanto per evitare nodi conflittuali e criticità che pure sono presenti sul territorio
così come si desume dalla letteratura sociologica e urbanistica. In sintesi si è deciso di prendere un’altra direzione rispetto a quest’ultima per mostrare quanto
un cambiamento del punto di vista, sebbene circoscritto e limitato nel tempo,
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fabio poggi
possa permettere di reinterpretare percettivamente e affettivamente la città che
in questo modo viene parzialmente ricostruita fisicamente e/o simbolicamente. È
l’operazione compiuta dal coreografo che, per esempio, rilegge l’incrocio fra due
strade come un potenziale palcoscenico; dal performer che estraneandosi per un
quarto d’ora dal flusso pedonale sperimenta una modalità poetica di passeggiare;
o dal passante che, chiudendo il cerchio, ripaga tutti i soggetti professionalmente
coinvolti in una performance con il proprio stupore.
Rispetto a queste osservazioni si aprirebbero altri percorsi di ricerca centrati
questa volta sull’inquadramento degli eventi artistici performativi all’interno sia
delle politiche culturali locali e centrali sia dei progetti urbanistici sul territorio. Da
ciò emergerebbe senz’altro una conferma della necessità o urgenza di immaginare
la città contemporanea nell’ottica di una effettiva creative city.
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