saggi Architettura, città, danza Il ruolo dello spazio nella creazione, ricezione e analisi di performance artistiche di Fabio Poggi 1. Introduzione In questo articolo vengono prese in considerazione la danza contemporanea sitespecific e, nell’insieme eterogeneo di performance artistiche proposte attualmente negli spazi della città, la danza urbana che è definibile in modo volutamente aperto come danza «che si muove nei più disparati luoghi non deputati delle città» (Cervellati 2009, 170). Considerando da una parte una localizzazione urbana, vale a dire spazi pubblici come piazze, strade, marciapiedi, e dall’altra una spazialità specificamente architettonica, fatta di interni, si procederà all’analisi di alcune rilevanti performance artistiche evidenziando come i differenti assetti in cui tali proposte hanno luogo – con frequenti, reciproche contaminazioni fra la scala architettonica e quella urbana – possano essere lette non in quanto sfondo o skyline solo visivo, contenitore neutrale o scenografico, ma al contrario come frame socio-spaziale attivo e propulsivo nella creazione e ricezione della stessa proposta performativa (Poggi 2011a). La riflessione benjaminiana sulla consuetudine a percepire in generale lo spazio urbano e architettonico in termini non di attenzione ma, al contrario, di abitudine o distrazione (Benjamin 1936, 45-46), come se si trattasse di ambienti naturali e non culturali (Crespi 1994, 340), rappresenta un importante punto di avvio che sarà via via ridiscusso e problematizzato. Pur non sviluppando qui il tema, va evidenziato un altro tipo di rapporto in genere non esplicitato e spesso ambivalente, ovvero quello che sussiste fra la nozione dinamica e astratta di spazio e quella geograficamente e politicamente circoscrivibile di luogo, considerando che «lo spazio è un luogo praticato» (De Certeau 1990a, 176)1. 1 Va notato che in italiano i termini spazio e luogo hanno una connotazione semantica meno netta – anzi talvolta reciprocamente sovrapponibile – rispetto ai corrispettivi inglesi space e place. Analoga — 3 — STUDI CULTURALI - ANNO XI, N. 1, aprile 2014 fabio poggi La città contemporanea qui osservata è quella che negli ultimi decenni sta vivendo avvicendamento e sovrapposizione di differenti post culturali: postmoderno, postindustriale, non da ultimo quel postideologico che ha messo in ombra il profilo ipoteticamente omogeneo – con aspettative e spazialità quasi sempre ben tracciabili – dei frequentatori della città stessa, facendo invece emergere attualmente un «pubblico minore» (Bianchetti 2011) dalle scelte più individuali, emotive, spazialmente e analiticamente più sfuggenti, diremmo qui maggiormente performative. In questo senso può essere messa in discussione la distinzione fra chi è osservato e chi osserva: all’interno di uno stesso spettacolo colui che sembra un passante occasionale o in generale un city user (Martinotti 1993) può sia divenire parte di un gruppo che si configura via via come pubblico o platea, sia spiccare come performer vero e proprio al centro della scena. Al limite la città può così diventare «un evento, una performance in cui i ruoli di attore e spettatore sono intercambiabili» (Miles et al. 2000, 3). Lungo lo sviluppo del discorso resterà in primo piano la riflessione seminale di Brook sullo spazio: «Posso scegliere uno spazio vuoto qualsiasi e decidere che è un palcoscenico spoglio. Un uomo lo attraversa e un altro osserva: è sufficiente a dare inizio a un’azione teatrale» (Brook 1968, 21). Sarà centrale anche la distinzione operabile fra uno spazio fisico del teatro, uno sociale e un terzo spazio che è quello sociologico. Quest’ultimo è di chi osserva i primi due spazi nel tentativo di riconoscere ruoli, convenzioni più o meno tacite, pratiche (Tota 2011, 101-106), tenendo presente la linea di confine che distingue uno spazio teatrale tradizionale caratterizzato da abitudini depositate nei secoli – dall’organizzazione delle sedute che ripropone una precisa gerarchia sociale, ad esempio, al tono di voce da tenere – e uno spazio performativo non tradizionale come quello urbano contemporaneo dove tali abitudini sono in continua ridefinizione, dove la quarta parete fra interpreti e pubblico, fra ribalta e platea, è spostata o via via smontata. La relazione fra danza e architettura, fra danza e città, porta poi a un ampliamento qualitativo aprendo allo spazio del sogno, che è spazio immaginato e da immaginare (Bachelard 1957). Rispetto alla struttura dell’articolo, nel paragrafo seguente si dà conto di alcune rilevanti tracce genealogiche nello sviluppo storico delle performance artistiche lette a partire dalla componente spaziale. In seguito (§ 3) si fa riferimento agli approcci sociologici rispetto al corpo in performance – sia esso del performer o dello spettatore, tra produzione e ricezione. In § 4 si pone attenzione su alcune prassi testuali perlopiù desunte dalla semiotica e dai performance studies che osservazione può essere fatta rispetto all’aggettivo architettonico che in inglese e in francese può corrispondere ad architectural in senso teorico, storico, progettuale, oppure ad architectonic (architectonique) con riferimento alle componenti tecnologiche e tecniche dell’architettura. — 4 — Architettura, città, danza si confrontano con i nodi della descrivibilità e interpretabilità dei fenomeni in esame. In questi paragrafi teorici l’obiettivo generale è quello di mettere in luce il ruolo dello spazio nella (ri)costruzione della relazione fra corpo – corporeità fisica, emozionale di chi vive la città –, e testo – nella controversa dinamica urbana fra autorialità e anonimato, testualità letterale e metaforica, extratestualità. In questo spicca il ruolo dell’architettura provocatoriamente definita da Diller e Scofidio come «ciò che esiste tra la pelle di un uomo e quella di un altro uomo» (Franco 2013). In § 5 si traccia una mappatura preliminare di alcuni case studies corrispondenti a esempi significativi di ritematizzazioni, se non risemantizzazioni artistico-spaziali in attinenza con quanto analizzato precedentemente in chiave teorica. Aver partecipato direttamente come performer ad alcune delle proposte descritte riteniamo abbia costituito per chi scrive un utilissimo momento di verifica empirica delle iniziali chiavi teoriche di lettura, come poi ripreso in tale paragrafo. Inoltre lo sguardo adottato in § 5, definito in campo urbanistico come neofenomenologico (Boeri e Multiplicity 2003; Bianchetti 2003), predilige non tanto la creazione e fissazione di categorie interpretative sul contemporaneo, quanto la stesura di cartografie che permettano sia un primo orientamento su un oggetto ancora poco studiato, sia il tracciamento di alcuni percorsi da sviluppare per ricerche a venire, come meglio evidenziato in § 6. 2. Genealogie nello spazio La nascita della performance moderna può essere fatta risalire alle tangenze e discordanze che a partire dagli anni cinquanta, dalla «pittura performativa» di Klein e Manzoni, si sono via via realizzate fra il linguaggio artistico visivo della performance art e quello di matrice teatrale delle performing arts, sulle quali ci si soffermerà maggiormente anzitutto per ragioni di stretta attinenza con le esperienze coreografiche analizzate. L’artista visivo che ha aperto la strada performativa specificamente legata alla spazialità è Kaprow, a partire da 18 Happenings in 6 Parts del 1959 (Carlson 2001, 103-106). La commistione fra differenti forme espressive – lettura di testi, esecuzione di pezzi musicali, esposizione di opere pittoriche – in modo simultaneo, alla presenza di un pubblico radunato intorno a Kaprow presso la Reuben Gallery di New York, rimanda alle modalità ibride di matrice dadaista, alle improvvisazioni fra musica e danza che a partire dal 1952 Cage e Cunningham propongono presso il Black Mountain College. La danza parte qui dai «found movements», oggetti trovati e riproposti secondo una logica aleatoria distante dallo sguardo antropocentrico. La riscoperta del quotidiano, l’esplicita fluidificazione del confine tra arte e vita e fra canoni artistici attraverso l’utilizzo di pratiche e oggetti eterodossi da — 5 — fabio poggi parte del performer rappresentano il tramite concettuale attraverso il quale nei decenni successivi si è continuato ad attuare un’apertura innanzitutto corporea e gestuale nei confronti di spazi differenti, soprattutto se slegati dai contesti tradizionalmente artistici quali i teatri, i musei o le gallerie. Il «Nuovo Teatro» che dal 1947 al 1970 in Europa e negli Stati Uniti ha dato luogo a sperimentazioni eterogenee spesso radicali e di riferimento per il futuro (De Marinis 1987), evidenziando pure l’emergere di una poetica e di una politica del contesto, è qui posto quale riferimento teatrale da cui partire. Le proposte del newyorkese Living Theatre, attivo anche in Italia dal 1961 in teatri ma soprattutto in spazi urbani non convenzionali come cantieri e strade, rappresentano un esempio di significativa commistione fra teatro, danza, arti visive, nel tentativo anti-massmediatico di un recupero del pubblico attraverso la co-presenza e il coinvolgimento anche fisico. È del 1968 la proposta teorica e pratica dello «spazio vuoto» di Brook, che lavora alla costruzione di una relazione piena e nuda tra spazio e performer: relazione che, se vissuta in un totale e reciproco coinvolgimento, non ha bisogno di altri elementi per essere teatrale. Non a caso i riferimenti appena citati, dagli happening al Living a Brook e lo stesso Grotowski, mostrano numerosi punti di contatto con le modalità espressive e di messa in scena spaziale del Tanztheater tedesco, movimento centrale e dirompente (Pontremoli 2004, 116) non solo per il linguaggio coreografico e teatrale ma per la cultura del secondo Novecento. È qui significativo evidenziare come un caffè, attività commerciale ma soprattutto spazio che è di per sé sinonimo di sociabilità urbana (Paquot 2009, 41-44), diventi protagonista di Café Müller, una delle più note e rivoluzionarie opere di Pina Bausch (1978). Qui il caffè diventa letteralmente spazio di esplicitazione di temi che saranno poi della danza e del teatro contemporanei, quali il disagio individuale e sociale, la rivolta contro la rigidità nevrotica di schemi comportamentali e routine tipicamente metropolitani. È stato di nuovo un luogo specifico, il laboratorio della Judson Church a New York, a raccogliere nel 1962 sotto la guida di Robert Dunn, allievo di John Cage, i fautori di un’altra tendenza fondamentale per la danza contemporanea quale la post-modern dance. Uno degli elementi caratterizzanti di tale stagione statunitense è proprio l’esplicito rifiuto di ogni canone spaziale dell’attività teatrale, come emerge dai lavori di Anne Halprin o dal No Manifesto del 1965 di Yvonne Rainer. Dal momento che la proposta artistica non deve, in chiave post-modern, porre limiti né a chi la voglia praticare né a chi ne voglia fruire, anche un marciapiede, un albero o un grattacielo – nello specifico la facciata del Whitney Museum percorsa dagli impavidi performer di Trisha Brown (Walking on the Wall, 1971) – diventano nuovi palcoscenici urbani la cui memoria sarà centrale per le generazioni di performer successivi. — 6 — Architettura, città, danza Aver reso qualsiasi spazio, qualsiasi luogo un palcoscenico potenziale è l’eredità qui più evidente delle esperienze degli anni sessanta e settanta. Tenendo anche conto del linguaggio contact introdotto da Paxton, «la danza dunque diviene il luogo privilegiato della liberazione del corpo» (Pontremoli 2004, 118). La lunga traiettoria di reciproca contaminazione e continuo riadeguamento corporeo-emozionale, embodiment gestuale fra performer e pubblico passa attraverso sia l’esibizione corporea della Body Art come ricerca radicale e anticonsumistica di una autenticità data per persa, sia alcune esperienze di attivismo politico che scuotono le città degli anni ’70 nel novero delle radical street performances (Cohen-Cruz 1998). Avvicinandoci ad anni più recenti il corpo contemporaneo appare meno politico (Birch e Tompkins 2012) ma al tempo stesso più coinvolto in una sfera estetica relazionale (Bourriaud 1998). Le tecnologie informatiche hanno inoltre permesso un ampliamento nell’immaginario spaziale: la coreografia digitale (Quinz 2004, 403-406) utilizza dispositivi di interpretazione e lettura dell’azione innovativi quali la motion capture che ricrea in modo virtuale la scena reale della live performance. In questo caso la spazialità fisicamente esperita dai performer si confronta con la spazialità mentale, immaginata in primis dal coreografo e virtualmente visualizzabile, di «un corpo nello spazio che crea spazio» (Pontremoli 2004, 155). 3. Sociologie del corpo in performance Parlare di corpo in performance, rievocando il «corpo teatro» di Nancy (2010), significa occuparsi di differenti gradi di coinvolgimento corporeo ed emotivo nei confronti di una proposta performativa, riguardanti sia l’autore performer e i soggetti variamente chiamati in causa nel processo di produzione, mediazione e distribuzione, sia il pubblico formato da fruitori che si trovano a contatto con la performance nello spazio in cui è attuata. Il tedesco Raumerlebnis sintetizza bene l’ampio insieme di differenti esperienze che dello spazio possono essere fatte da parte di tutti i soggetti coinvolti in una performance. Una sociologia del teatro potrebbe rispondere a tali domande di ricerca, ma come noto va evidenziato il carattere marginale all’interno dell’area sociologica del teatro come oggetto di studio, eccezion fatta ad esempio per il theatrical frame (Goffman 1974). Per inciso va sottolineata la rilevanza per la sociologia in generale, ma anche per i performance studies richiamati più avanti (States 1996, 18-19), dell’approccio drammaturgico che però si riferisce a spazi teatrali quali ribalta e retroscena in quanto efficaci metafore e modelli di analisi della vita sociale (Goffman 1959). Un primo passaggio consiste perciò nel porre in discussione le categorie e le modalità attraverso cui è possibile riconoscere qualità artisticamente performative — 7 — fabio poggi in un ambito spazialmente connotato: si tratta di un aspetto che ha uno stretto legame con le dinamiche di artification evidenziate dalla sociologia dell’arte (Heinich e Shapiro 2012). Ciò chiama in causa la necessità di denaturalizzare il processo di ricezione allontanandoci da uno sguardo essenzialista, senza per questo aderire a un approccio costruzionista radicale. Non tutto ciò che avviene nello spazio urbano è di per sé interpretabile come una performance artistica. Dentro alla o alle cornici si evidenziano azioni in flagranza come richiama la definizione giuridica: perché – poniamo – una coppia ha iniziato a danzare su una parte del marciapiede o sulla facciata dell’edificio? Qualcosa – gesto, intenzione – è colto più o meno improvvisamente nel suo farsi, come è ricordato in uno dei rari studi italiani sul tema (Codeluppi et al. 2008, 6-8). Anzi, è proprio da uno sguardo spazialista – messo in primo piano da un numero purtroppo ristretto di sociologi urbani attenti alla pertinenza delle dimensioni corporee e emotive di chi vive la città (Mela 2006; Gazzola e Puccetti 1999) – che implicitamente proviene la prima conferma dell’utilità di uno sguardo consapevolmente denaturalizzante sull’urbano contemporaneo. Vedo una persona che sbatte le palpebre ed inquadro tale striscia di esperienza come tic, ma poi, osservando meglio, vedo che la persona sta sbattendo le palpebre in direzione di una seconda persona. […] Finché non mi rendo conto che l’intera sequenza viene ripetuta più volte […] e reincornicio quanto visto una terza volta come prova teatrale di una scena di abbordaggio (Sparti 2002, 268). In questo esempio sospeso tra il quotidiano e il teatrale in quanto «cornice di finzione» (Bizzarri 2008, 35), potenziale fraintendimento interpretativo o misframing, si colgono in nuce gli elementi effettivamente centrali della discussione: indifferenza dello spazio – nel doppio senso attivo, di chi per abitudine non fa più caso alle specificità dei vari ambiti, e passivo, dello spazio stesso che è potenzialmente pronto ad accogliere un ampio numero di azioni eterogenee; valenza connotativa e propulsiva del contesto spaziale; coessenzialità della reazione del fruitore nei confronti di costruzione e tenuta di una performance artistica, considerando che questa può essere da alcuni riconosciuta, da altri fraintesa o del tutto non còlta. Analogamente assistere per ipotesi a uno scambio di tennis nei corridoi di una banca, o scorgere qualcuno che beve un bicchiere d’acqua fermo su un marciapiede in mezzo al flusso pedonale, rappresenterebbero di per sé evidenti distorsioni nella percezione sociale di quei contesti. Si tratta di un’ipotesi che, sulla scia semantica dell’aggettivo controfattuale, potrebbe qui essere definita controspaziale, che è accostabile per significato al disorientantamento del counterframing. Percepire infatti un sovvertimento nelle abitudini spaziali fa sorgere più — 8 — Architettura, città, danza di una domanda, potenzialmente trasformando un distratto cliente della banca, che con Benjamin dà lo spazio architettonico per scontato, in uno spettatore più sorpreso e attento, via via sollecitandone un’eventuale competenza come quella proveniente da una soggiacente «carriera estetica» (Tota 2011), cioè da uno specifico capitale culturale come è il «capitale teatrale» (Tota 1998, 216) composto di tutte le esperienze e memorie fruitive passate del theatergoer (Goffman 1974). ll frame goffmaniano mediato dalla psicologia batesoniana è utile per rendere conto sociologicamente della cornice teatrale. Ogni messaggio metacomunicativo legato a più di un segnale – «questo è uno scherzo», «questo è teatro» – definisce psicologicamente e socialmente la situazione, suggerendo dunque i comportamenti più adatti per pubblico e interpreti. In questo senso può essere tracciata anche una differenza fra performance in spazi urbani aperti e performance in spazi architettonici chiusi che, come tali, ripropongono se non altro una divisione più netta fra un dentro e un fuori, fra pratiche e consuetudini dell’entrare, disporsi nello spazio, uscire. Per inquadrare un’azione in quanto artisticamente performativa possono essere utili anche i pochi o tanti segnali materiali e non che in senso metacomunicativo lo spettatore empirico (De Marinis 1982) come lettore empirico (Eco 1979) riesce a raccogliere: manifesti, comunicazioni sulla stampa, abbigliamento e gestualità adottate dai performer, oltre a un eventuale uso non consueto dello spazio. Come emerge dagli studi antropologici sul tema è possibile registrare un’ampia declinazione degli assetti corporei e spaziali da parte degli interpreti, dal tono quotidiano o al contrario extraquotidiano, eccezionale o marcatamente teatrale (Barba 1981, 72). Peraltro è negli spazi aperti della città molto più che a teatro che lo spettatore modello – ovvero colui che «riconosce tutti i codici del testo spettacolare in questione» (De Marinis 1982, 189) – diventa una figura ideale quasi mai effettivamente raggiungibile, facendo propendere anche qui per un approccio sociologico contestuale (Tota 1994, 182-184; Sparti 2002, 179; Del Sordo 2005). Dopo esserci posti la questione sui caratteri che rendono un’azione e chi la produce artistici, si presentano ora domande più specifiche sulle qualità artistiche rintracciabili nelle varie proposte: a partire, citando un lavoro significativo sul tema, da alcune proposte coreografiche contemporanee in cui ci si chiede come riconoscere all’interno di lavori di co-costruzione tra coreografo e danzatori non tanto il loro essere o meno valutabili come artisti, dato per acquisito, ma il peso e la posizione degli uni rispetto agli altri in termini di autorialità (Proust 2012). A loro volta i processi di artification sono connessi all’aesthetization, processo più ampio e non esclusivamente artistico concernente, come analizzato in ambito filosofico, la pervasività dell’estetico nel quotidiano (Vercellone 1990) che richiama gli studi sull’«estetica tacita» (Kisliuk 1998, 99). Tali processi rimandano per attinenza alla beautification nell’ambito delle politiche urbane postindustriali — 9 — fabio poggi (Moulaert et al. 2004), ai progetti di rivalorizzazione di alcuni luoghi dimenticati, trascurati, sottovalutati, ciò che, come vedremo in § 5, si pone pure in rapporto di causa-effetto con alcune delle proposte performative presentate. Inoltre l’audience delle performance rientra a stento nei profili bourdieusani, come evidenziano le analisi sullo spettatore onnivoro (Peterson e Kern 1996), altalenante tra consumi alti, d’élite, e popolari o di massa. Dal punto di vista del giudizio dello spettatore sull’opera, esso è influenzato da componenti emotive, biografiche, collettive, ambientali oscillanti tra la ricerca di un piacere estetico e il tentato riconoscimento di un valore artistico, fra logiche intenzionaliste autoriali e legate invece alla più sfuggente intentio operis di Eco (Velotti 2012, 156-158). «Presso il pubblico la valutazione sembra muoversi tra la gratificazione emotiva, il senso di appartenenza trasmesso attraverso l’“autenticità”, il piacere “dell’effetto sorpresa” e il riconoscimento delle qualità tecniche» (Lutter e Reisenleitner 2002, 85). È stato anche notato come un piacere estetico sia riconoscibile già durante la costruzione di questo pur impegnativo «lavoro interpretativo» (Velotti 2012, 162-163). In ogni caso il piacere della sorpresa è legato al carattere di eventhood di una performance: reciproca, istantanea scoperta di una relazione imprevista tra performer, osservatore e spazialità, racchiusa nella sintetica espressione del classico «ci dovevi essere!» (Heathfield 2004, 9). Va sottolineato che la ricerca di autenticità è manifestata innanzitutto da numerosi autori / performer che domandano a se stessi una condizione di immediatezza non formale (Allegri 2012, 148) basata sull’ascolto, sul riconoscimento di una urgenza – nel movimento, nella relazione, nello spazio – e un’intenzionalità proprie, originali. Colpisce qui l’effetto straniante del teatro contemporaneo in generale, rispetto al quale il pubblico fruisce del lavoro di interpreti che sono alla ricerca di verità personali talvolta decisamente intime proprio in uno spazio, la ribalta, che è per definizione quello della massima esposizione di sé. I punti fin qui chiamati in causa nella relazione fra produzione e ricezione richiederebbero una approfondita discussione metodologica a illustrare le possibili modalità di studiare le esperienze performative sul campo. Pur non avendo evidentemente eluso qui tali questioni – in parte già affrontate e più avanti riprese in § 5 presentando i vari casi-studio – va tuttavia precisato che le finalità di questo articolo sono maggiormente centrate sui nodi epistemologici che l’oggetto di studio chiama in causa. 4. Semiotica, performance studies: testualità performative Il punto di vista qui adottato è quello ermeneutico, in particolare ricoeuriano, che pare proficuo per osservare da vicino, citando il filosofo francese, le reciprocità tra texte e action in ambito urbano e urbanistico (Ricoeur 1986; Poggi 2006, 95- — 10 — Architettura, città, danza 110; Poggi 2011b). Approcci ermeneutici che la sociologia contemporanea ha autorevolmente posto in relazione e non in opposizione con i metodi esplicativi scientifici (Griswold 1994), fino a posizioni in cui la dimensione ermeneutica viene decisamente potenziata come nel «programma forte» della sociologia culturale di Alexander (Alexander e Smith 2003; Santoro e Sassatelli 2009, 41). È da questa posizione che si affronta la questione del contesto, intenso come «l’insieme dei “testi” culturali, teatrali ed extrateatrali, estetici e non, che possono essere messi in relazione con il testo spettacolare di riferimento, o con una sua componente: testi mimici, coreografici, scenografici, […] urbanistici, architettonici» (De Marinis 1999, 23). L’agire corporeo del performer e/o spettatore apre all’azione interpretativa che una molteplicità di autori e lettori intraprende nella e sulla città con finalità e strumenti eterogenei. Dopo aver letto il corpo «come luogo di incontro fra l’individuale e il collettivo, come sito in cui si possono tracciare la dimensione privata e pubblica della vita quotidiana», avendo osservato che «il corpo è mobilitato dagli artisti per attivare e, in alcuni casi, per cancellare la separazione fra sé e altro, fra corpo e spazio» (Jones 2000, 26), l’accento è dunque posto sul testo come altro concetto-ponte fra performance e città, nello specifico sul testo come prassi. Le pratiche di ricezione ma anche di produzione di un’opera, in particolare i conflitti tra intertestualità implicita e extratestualità empirica, richiamano l’attenzione sulla necessità di affrontare un testo in senso pragmatico, nelle sue localizzazioni spaziali. È vero che, perlomeno in ambito semiotico il dibattito sulla pertinenza della metafora testuale per descrivere le pratiche è aperto, talvolta conflittuale (Contreras Lorenzini 2009). Da una parte spiccano le posizioni, come quella di Violi, secondo cui le pratiche – sensoriali, somatiche, passionali – presentano più di un aspetto sfuggente alla dimensione testuale o testualizzabile (Violi 2005); d’altra parte si segnala la posizione di Marrone secondo cui «ogni esperienza vissuta è già di per sé una totalità significante, un insieme conchiuso di forme espressive e forme semantiche in continuo divenire, dunque un testo» (Marrone 2005, 119). Per inciso i diversi livelli di fisicità e di abitabilità, in senso sia fruitivo generico sia coreografico-performativo di cui si è parlato in § 3, pur costituendo la più evidente differenza fra un’opera artistico-letteraria e un’opera architettonicourbanistica, non impediscono rilevanti scambi metaforici fra le due forme. Tuttavia il detto, il raccontato, lo scritto – anche quello coreografico – che nel tempo si sono depositati sulla città in quanto eterogenee discorsività e testualità sono considerati nel presente articolo come fatti, o agiti dal forte potenziale costruttivo. Ciò che viene detto e scritto sulla o per la città e il momento esperienziale stesso implicito in tale azioni si condensano in uno strato epidermico, apparentemente superficiale, ma in realtà già organico per la città che è stata descritta come «teatro di una guerra di racconti» (De Certeau 1990b, 203; Mondada 2000). Nello — 11 — fabio poggi specifico parliamo qui di testualità particolari come quelle relative alle nozioni introdotte dalla semiotica del teatro a partire dalla fine degli anni settanta di «testo spettacolare» (De Marinis 1982) e soprattutto di «testo performativo» (Barba 1993) che mette bene in luce come qui ci si riferisca non tanto a una scrittura precedente alla messa in scena ma piuttosto a una «scrittura scenica» (Bartolucci 1968) e a una «drammaturgia scenocentrica» (Dalla Palma 2001, 139) che assembla i materiali poi proposti nella performance durante le improvvisazioni e le prove da parte di tutti i soggetti coinvolti (coreografi, registi, performer). E ciò a partire in primo luogo – per quanto concerne la creazione di tutte le azioni site-specific – dalle sollecitazioni e dall’ascolto dello spazio urbano e architettonico fatti di distanze, segni, sonorità, flussi pedonali mutevoli. L’attenzione si focalizza sull’azione non ancora scritta, che è in procinto di esserlo come drammaturgia e coreografia: per questo aspetto un contributo significativo proviene dalle riflessioni nate intorno allo spatial turn (Soja 1989; Iacoli 2008) e al performative turn (Schechner 2006). È un tipo di attenzione più riscontrabile non tanto nei dance studies o nei theatre studies, quanto nei performance studies, nel loro essere concentrati sulla «interconnessione fenomenologica tra corpo e presenza» (Lepecki 2004, 2) più che su linguaggi già danzati o già portati in scena; su corporeità che si fanno spazio, su liminalità (Turner 1982) in gioco tra chi si sente ancora passante e chi si sente già all’interno di una performance. Da un punto di vista disciplinare l’ambiente urbano, così ricco di segni e pratiche, ha comunque attratto lo sguardo semiotico aprendosi negli anni a una più articolata semiotica della città (Castelnovi 1980; Marrone 2001; Volli 2005) al punto, provocatoriamente, da non tanto provare a studiare la città come se fosse un testo […] quanto semmai provare a studiare i testi «propriamente detti» (tali cioè per la nostra cultura) come se fossero – nemmeno tanto metaforicamente – delle forme di città: con edifici e piazze, vie e segnali, ma anche […] passeggiate private e perdizioni di gruppo (Marrone e Pezzini 2008, 11). Descrivere la città e lo spazio architettonico attraverso la metafora testuale che poggi sulla relazione autore / lettore / opera – metafora come figura retorica di cui si sottolinea la vitalità e non la valenza esornativa (Ricoeur 1975) – pur sembrando un’operazione potenzialmente fertile è stata invece poco praticata nello specifico ambito sociologico urbano (Ledrut 1973; Joseph 1984; Sennett 1990; Gazzola e Puccetti 1999; Mela 2006) e in urbanistica (Secchi 1984; Palermo 1996). Sta di fatto che la performance, che nasce dal gesto più che dalla parola, riveste il ruolo di «cugina povera, in senso filosofico, del testo» (Hopkins et al. 2009, 6) la cui posizione privilegiata ha a che vedere con l’origine letteraria dei — 12 — Architettura, città, danza primi studies, ovvero i cultural studies. Le testualità spettacolari e performative sopra introdotte spingono a ripensare la testualità teatrale contemporanea tenendo conto delle contaminazioni non gerarchiche che possono avvenire in scena, tra immagini, musica, gestualità e anche parole, quotidiane e non. I performance studies chiariscono il punto in modo radicale, ponendosi non tanto contro il testo in quanto tale ma contro ciò che viene definito come scriptocentrism o textocentrism (Conquergood 2002): «il registro visivo / verbale tipico dei regimi occidentali del conoscere disorienta i ricercatori su significati che sono esplicitamente espressi attraverso intonazione, silenzio, tensione corporea, sopracciglia inarcate, sguardi vacui […]» (ivi, 146). La pur presente dimensione narratologica della performance artistica (Chernetich 2010) passa quindi attraverso una peculiare mediazione non verbale, corporea e gestuale, che non per questo dà carattere riduttivo all’azione e al suo racconto. Pure in ambito filosofico è stato messo in luce come l’esperienza spaziale del corpo diventi anche occasione di conoscenza grazie a quello «sguardo del corpo» che si pone in alternativa a un più tradizionale sguardo disciplinare, astraente, testualizzato, che per alcuni autori ha storicamente assunto un carattere autoritario (Haraway 1991, 196). Le tre c dei performance studies, «creatività, critica, cittadinanza», sintetizzano un’attività di ricerca che tenta di superare la tradizionale divisione fra arte, pratica artistica e teoria anche all’interno dell’università (Conquergood 2002, 152), come emerge emblematicamente dalla biografia di Schechner che è stato al tempo stesso teorico, docente e direttore artistico in ambito performativo. 5. Casi studio: danza contemporanea e performance site-specific, danza urbana Come introdotto in § 1 si presenta ora la mappatura di una serie di case studies desunti sia da festival di danza urbana, facendo in primo luogo riferimento a performance viste da chi scrive dal 2004 al 2012 nell’ambito del Festival internazionale di danza in paesaggi urbani Corpi Urbani / Urban Bodies (in seguito abbreviato in CU con l’anno di riferimento), che si svolge dal 2003 nel centro di Genova e a Finale Ligure (Sv), accostandovi per attinenza performance urbane contenute all’interno di altri festival in ambito nazionale e internazionale; sia da performance di danza contemporanea site-specific in contesti urbani e/o architettonici che, tuttavia, non si configurano come un insieme circoscritto, ma in oscillazione e spesso contaminazione tra performing arts di matrice teatrale e performance art legata alle arti visive. Come introdotto in § 1 chi scrive ha anche preso parte ad alcuni dei lavori presentati di seguito in § 5.1. Va precisato però che soprattutto questa seconda — 13 — fabio poggi parte dell’articolo non nasce da un percorso effettivamente autoetnografico (Ellis e Bochner 2000), facendo invece riferimento ad una serie di appunti e foto rivelatisi peraltro molto utili, ma raccolti prima e indipendentemente dal presente lavoro. Tuttavia, in un’ottica di autoriflessività, si ritiene che l’essere direttamente coinvolto nel mondo della danza contemporanea come appassionato, osservatore critico e performer possa aver reso più efficace e pertinente lo svolgimento dell’analisi qui in corso. In quanto espressione performativa la danza urbana e in senso più ampio la danza contemporanea ambientata in contesti urbani non hanno una data d’origine riconosciuta né un’unica genealogia artistica, come visto in § 2. Modalità ricorrenti in entrambe, già in parte analizzate, sono sia la predisposizione spazio-temporale di un set in motion, sia il connesso senso di spaesamento percettivo ed emotivo nel momento ricettivo (Mazzaglia 2012). Gli organizzatori di uno dei festival di danza urbana più noti, che si tiene ogni anno a Bologna, assumono la paternità dell’introduzione dell’espressione danza urbana, perlomeno in ambito italiano, facendola risalire al 1997. È anche vero che in ambito internazionale il dibattito è ancora più diversificato: a partire dalla nozione anglosassone di urban dance che rimanda soprattutto all’espressività di breaker e danzatori hip-hop, e non al contenitore e laboratorio culturale che è oggi ad esempio la danza urbana italiana, intesa come progetto che assume di solito la forma di festival ed è organizzato in una rete di contatti e scambi fra città in ambito internazionale come nel caso della piattaforma Ciudades que danzan / Dancing Cities che include il citato festival genovese. Le performance via via presentate si pongono in una relazione causa-effetto multiforme e non univoca o gerarchica con lo spazio. In alcuni casi dello spazio si confermano, anzi si sottolineano o rievocano in una logica rispazializzante tipologia, funzione, carattere; in altri l’esperienza performativa è despazializzante, sulla scorta del verbo delocalizzare: percezioni, emozioni, memorie spostano e a loro volta vengono spostate in un altrove spazio-temporale, tra passato e futuro; in altri casi ancora l’effetto ottenuto è decisamente straniante, se non di rottura in senso controspaziale rispetto a consuetudini percettive e fruitive. Va in ogni caso evidenziato che le tre dinamiche appena introdotte non sono esclusive, ma al contrario aperte e talvolta interrelate. Scegliere di aderire allo spazio tracciando una prima mappatura costituisce una strategia testuale di ricerca che si rifà alla scelta degli studi culturali di partire da alcuni spazi emblematici – dai passages di Benjamin al Baustelle, il cantiere della Berlino di fine ‘900 – per descrivere l’«oggetto nuovo» (Cometa 2004, 40), la trasformazione o innovazione nel suo aver luogo. — 14 — Architettura, città, danza 5.1. All’aperto / al chiuso Il primo raggruppamento proposto nasce dalla suddivisione spaziale più generale tra aperto e chiuso. Se lo spazio pubblico aperto per antonomasia è quello della piazza – non a caso è quello che fra i contesti non specificamente teatrali ospita il maggior numero di performance urbane –, più problematici in quanto ambivalenti appaiono gli spazi di confine tra pubblico, semi-publico, come nel caso dei portici o delle pertinenze esterne di un museo. La stessa facciata di un palazzo rappresenta appieno una superficie di confine tra l’aperto e il chiuso, tra l’architettonico e l’urbano. In una chiave interpretativa più vicina alla connotazione hip-hop e breakdance dell’urban dance in senso anglosassone si muovono i brasiliani Membros (CU 2006) che utilizzano la facciata di una delle architetture più rappresentative di Genova, Palazzo Ducale, come superficie di lavoro, lasciandovi le loro orme temporaneamente impresse. Con Monomental (Festival Danza Urbana, Bologna 2005) anche Winter percorre letteralmente la tessitura verticale di un edificio storico come la torre in piazza di Porta Ravegnana, aderendo letteralmente al bugnato di tale architettura, ovvero a un paramento originariamente difensivo. In entrambe le esperienze l’effetto ottenuto sul pubblico è di straniamento, di despazializzazione. La pratica performativa dell’architettura in tutte le sue dimensioni e superfici, con una nota acrobatica, è attenzione specifica di ciò che viene definito come danza-architettura, e come aerial dance o aerial theatre, sulla scia delle esperienze storiche di Trisha Brown (infra § 2). Nello spazio pubblico aperto, che nasce come luogo di scambio, una performance artistica può esplicitare se non potenziare il carattere interattivo di tale contesto. In The Line, proposto da Collision Dance per Urban Move Manchester (2008) il pubblico è direttamente coinvolto in un evento di community dance per disegnare, muovendosi sulla strada, una linea di persone di volta in volta istruite a compiere semplici sequenze. La strada è il contesto in cui si legge più chiaramente la sovrapposizione dinamica di azioni, artistiche e non, e di flussi, veicolari e pedonali (fig. 1). La proposta di Urban Dialogue (CU 2008), in collaborazione fra UBIdanza di Nari e Frangioni e il coreografo rumeno Manolescu, lavora sull’acquisizione da parte della città fisica di un ruolo di vero e proprio partner per i danzatori. Il percorso all’interno del centro storico genovese, a cui chi scrive ha preso parte come performer, è pensato come insieme di punti di contatto coreografati o improvvisati con i luoghi e con i passanti, che riconoscono le anomalie di questo gruppo compatto e portatore di gestualità e prossemiche non abituali. Il dialogo è qui inteso anche come scambio continuo fra esterno urbano e interno della sala prove, nella quale i materiali urbani sono analizzati e rielaborati, ovvero testualmente riscritti, per essere poi riportati in città. — 15 — fabio poggi Fig. 1. Bedlam Oz, Festival Corpi Urbani, Genova, 2008, foto di Fabio Poggi. All’estremità di questo approccio si può collocare il relativamente nuovo fenomeno del flash mob, proposto la prima volta a New York nel 2003: raduno ancora più configurato come occasionale e spontaneo di persone contattate via mail (Baccarini 2008, 39) che non si conoscono reciprocamente e che fanno un’esperienza eventuale dello spazio urbano. All’interno di spazi chiusi, come quelli museali pubblici, si sono invece attuate rielaborazioni danzate frutto dell’incontro fra le opere visive esposte e l’immaginario dinamico dei performer. È il caso del Solo di Sieni all’interno di una delle sale di Palazzo Bianco (CU 2004), museo che ospita una collezione soprattutto centrata sul periodo barocco. Un quarto d’ora di esplorazione linguistica sulla danza contemporanea, sulle suggestioni visive provenienti da questo peculiare interno, con un chiaro richiamo da parte del noto danzatore e coreografo italiano alla scomposizione gestuale di Cunningham. Nel momento di apertura del laboratorio coreografico di Di Cicco, presso la Galleria d’Arte Moderna (CU 2007), il museo offre l’opportunità di essere vissuto in maniera più consapevole e piena (rispazializzazione) grazie a interventi performativi di per sé despazializzanti. Ogni sala ospita parallelamente l’azione in loop di uno o più performer che per alcuni giorni si sono rapportati specificamente a un’opera d’arte esposta, reinterpretando secondo modalità che ricordano la doppia negatività schechneriana – non-io e non non-io – un’immagine futurista, nell’esempio di Ferraro, o impersonificando con Giardina un’ipotetica ospite ottocentesca come ironica persona performance (Carlson 2004, 163-164), o ancora – come nella proposta di chi scrive – aggiungendo un risvolto surreale alla scena storica dipinta su una tela ottocentesca. — 16 — Architettura, città, danza Una performance in spazi istituzionali come quelli museali ne rende più varcabile la soglia. Il museo in occasioni come queste si apre, con ingresso gratuito, anche a quella parte di pubblico che per difetto di capitale culturale non vi è mai stata o solo raramente: nel giorno dell’evento performativo anche i guardiani cessano di essere le figure simbolicamente minacciose che Zolberg ha evidenziato tra l’ironico e il provocatorio (Zolberg 1992). Anche lo spazio chiuso per eccellenza, quello della casa, può diventare performativo, come mostra il numero crescente di spettacoli organizzati in ambito domestico con modalità più o meno informali e comunicate. In una direzione più radicale è stata pensata Vena Amoris, performance in spazi chiusi per un solo fruitore prodotta dalla compagnia londinese Curious (Hill e Paris 2006, 180-184). Qui l’unico spettatore viene chiamato al cellulare dal performer, apparentemente assente, che lo guida all’interno di un edificio vuoto fino a una quasi completa inversione di ruoli fra osservatore e performer. 5.2. Funzioni / oggetti Due casi indicativi di un utilizzo inconsueto degli spazi commerciali, in un dialogo spaziale altrettanto insolito fra interno ed esterno, sono dati, da una parte, da Au fond de la cour, performance presentata nell’ambito di La Ruée vers l’art (Grenoble, 2008) in cui Ueki, Hubert e Perrin lavorano sullo spazio tra strada e marciapiede per un pubblico raccolto in uno spazio commerciale che si affaccia su quella porzione di via. Dall’altra, da Danza in Vetrina, di T.B.C. / Cantieri Danza (CU 2008): in una situazione opposta alla precedente i performer agiscono all’interno delle vetrine di alcuni negozi in una delle vie centrali di Final Marina (Sv), facendosi osservare, come nel caso di Questorio, mentre si vestono e rivestono a velocità surreali dalle persone che intenzionalmente o occasionalmente passeggiano in quella zona. La proposta sembra qui sfruttare un carattere teatrale, di messa in scena, già inscritto nella spazialità della vetrina commerciale abitata da manichini reali e umani. In generale l’ambito spaziale degli interni viene reinterpretato secondo modalità eterogenee. Alla scala domestica è ciò che succede in Effettoserra alla casetta per le piante in tela plastificata che riesce a contenere in poco più di un metro cubo le azioni surreali dei due protagonisti della compagnia Tecnologia Filosofica (CU 2012). Nella proposta di Pavanello (CU 2007), invece, è il meccanismo ripetitivo di apertura e chiusura dell’ascensore - oggetto fisico qui emblematico per chiarezza funzionale - a suggerire un’originale rilettura coreografica. Gli spazi di accesso ai mezzi di trasporto pubblico, in una condizione alternata di stasi e movimento, diventano spesso occasioni performative. In proposte più teatrali come Juke-box della compagnia Il cantiere (CU 2006) che, agendo nell’atrio della Stazione Principe attraverso sequenze danzate con oggetti (vali- — 17 — fabio poggi gie), raddoppia e perturba l’effettivo frame spaziale arrivo-partenza; in proposte di piena interazione con il pubblico, come in P.P-P 4.2. plastic play-pen 4.2. (CU 2009) di Giovannini, in cui la danzatrice-performer offre ai passeggeri della metropolitana uno dei due auricolari di un iPod incorporato nel proprio abito tecnologico, cavetto audio che diventa così filo di unione con lo spettatore divenuto performer temporaneo – che cammina o balla, a propria scelta, seguendo Giovannini in un walkabout (Carlson 2004, 125-6) sulle scale mobili, o sui vagoni in partenza. Questi spazi originariamente monofunzionali possono così, analogamente ad esempi di scala diversa come una piazza o un salone, assumere un profilo semantico e tematico nuovo dai connotati mutati. Con analogie rispetto alle osservazioni fenomenologiche condotte sui sitemi di rilevanza (Schütz 1970): Se per esempio in una stazione di metropolitana la distinzione fra la sala dove acquistare il biglietto, i corridoi e i marciapiedi dove prendere il treno è legata a differenti funzioni […], dal punto di vista del flâneur che si reca in quella stazione per ascoltare il sassofonista di turno questa distinzione non ha alcuna ragion d’essere: i corridoi diventano per lui grandi tunnel dove si incanala la musica […] (Marrone 2001, 301). Tornano in mente le passeggiate audio proposte dalla canadese Cardiff, viste da ultimo nel 2012 a Kassel per dOCUMENTA (13). In particolare nel 2004, nel newyorkese Central Park, la sua performance Her Long Black Hair assume un carattere narrativo propagando tracce audio ambientali registrate dal vero insieme a tracce fictional, al punto che in virtù di un effetto de- e controspazializzante lo spettatore può dire: «Mentre ascolto cammino, Janet [Cardiff] cammina, Baudelaire cammina, lo schiavo in fuga sta camminando verso il Canada» (Hopkins et al. 2009, 18). In questo ambito si collocano anche le Promenades chorégraphiques, «progetti coreografici partecipati» e condivisi da studenti, coreografi e abitanti di Saint-Denis, promossi dal 2008 dall’associazione Rue de la danse in collaborazione con il Département de danse dell’Université Paris 8 Saint-Denis. Di particolare originalità è l’edizione del 2010 che ha focalizzato l’attenzione sul Canal Saint-Denis: a partire dal mese di aprile i danzatori percorrono gli spazi urbani accompagnati da un architetto, raccogliendo impressioni e osservazioni ed esplorando parallelamente gli spazi del canale attraverso uno specifico lavoro corporeo supervisionato dai coreografi. A una scala dimensionale ancora minore si utilizzano elementi di arredo urbano come le panchine. Per Liverpool Live del 2004 Matthew reinterpreta un oggetto-icona del paesaggio urbano come la cabina telefonica: microspazio che, in contesti più ampi e quotidiani di quelli specificamente artistici si connota come performativo sociale oltre la funzione telefonica (Semprini 1996, 133-5) – diventando riparo in caso di pioggia, oppure barriera architettonica in presenza di — 18 — Architettura, città, danza disabilità –, e che qui, in Blip, è lo spazio minimo ma sufficiente per il performer per cambiare abito impersonificando una serie di personaggi famosi di Liverpool, da John Lennon a Lily Savage (Hill e Paris 2006, 15). In maniera ancora più radicale Priasso della compagnia Beau Geste si mette in relazione con un’escavatrice che lo trascina e sospende in aria, in un duetto uomo-macchina poetico e rischioso (fig. 2). Fig. 2. Compagnie Beau Geste, Transports Exceptionnels, Festival Corpi Urbani, Finale Ligure (Sv), 2012, foto di Marco Pezzati. 5.3. Spazi anonimi / spazi rivalutati Uno degli scopi peculiari della performance urbana è anche quello di riportare luce su spazi insoliti, trascurati o dimenticati della città (Hill e Paris 2006, 11). Nel caso di Opening Piazza del Ferro (CU 2007), all’interno del Progetto Linkinart tra artisti genovesi e berlinesi, la danzatrice – Zaccaria – e l’artista visiva – Tartler – hanno letteralmente riaperto le finestre rimaste per anni in completa ombra della stanza detta la Limonaia di un edificio storico come Palazzo Spinola Doria. La riapertura fisica e danzata sulla piazza è stata sottolineata da una scrittainstallazione permanente – «io mi trovo dietro» – che da allora continua a porre in termini artistici, performativi e letteralmente testuali, la questione di una effettiva rivalutazione (rispazializzazione) di questo spazio rispetto alla percezione sociale del patrimonio architettonico complessivo della città. In questo caso si percepisce con chiarezza la natura site-specific del progetto che non diventa «processo di mera urbanizzazione dell’arte» ma pone «la topologia — 19 — fabio poggi del luogo al centro del proprio processo di creazione»: in questo passaggio si evidenzia peraltro una delle critiche ricorrenti nei confronti di una danza urbana che, allontanandosi dalla site-specificity, risponderebbe maggiormente o solamente all’esigenza degli amministratori di valorizzare il territorio (Righi 2008, 25). Tuttavia in molte occasioni le esigenze di politica urbana incontrano quelle di natura artistica in modo sintonico. È il caso di Cercando Tina, performance realizzata all’interno di uno specifico programma di residenze artistiche in cui, attraverso un omaggio alla fotografa italiana Modotti, Bevilacqua riapre letteralmente gli spazi di un bar storico da qualche anno chiuso della Maddalena, che è oggi una delle zone socialmente più difficili del centro storico genovese (fig. 3). Fig. 3. Marta Bevilacqua, Cercando Tina, Festival Corpi Urbani, Genova, 2011, foto di Marco Pezzati. Il passaggio da una condizione anonima, tendenzialmente monofunzionale come è quella del transito, a una condizione più consapevolmente performativa è ciò che riguarda altri tipi di spazi urbani, secondo cadenze temporali che si sono venute precisando in senso socio-spaziale. Nel caso del fenomeno ormai di moda come il tango sulla Senna, alcuni tratti dei quai parigini diventano periodicamente vere milonga, passando dall’essere un incontro non prestabilito fra danzatori professionisti e dilettanti a un appuntamento settimanale o mensile concordato per quanto in modo informale. In questo modo si configurano alcune esperienze di ciò che Desmond definisce «bilinguismo corporeo», riferendosi al carattere imprevedibilmente passionale assunto da coppie anglosassoni upper-middle class alle prese con serate di samba (Auslander 2003, 344). — 20 — Architettura, città, danza Dal punto di vista della cadenza temporale degli appuntamenti in città, una situazione analoga e molto più nota è quella proposta da breaker, danzatori hip-hop, skater, traceur che trasformano alcuni contesti urbani e metropolitani – con o senza supporto di tavola o bike – in spazi per praticare e confrontare competenze e stili (Borden 2001). 5.4. Architettura d’autore / danza d’autore2 Due esempi significativi di un interessamento diretto da parte della danza contemporanea nei confronti dell’architettura contemporanea sono dati da un lato dai lavori di Flamand e Hadid, rispettivamente coreografo e architetto che in più di un’occasione hanno tentato di trasformare lo spazio stesso in una geometria dinamica e danzante. Dall’altro va segnalata l’esperienza laboratoriale del Taller de Danza y Arquitectura che Mira ha condotto nel 2006 all’interno di uno spazio capolavoro come il Padiglione di Mies van der Rohe a Barcellona: l’assenza del tutto moderna di decorazione e l’organizzazione planimetrica ancora oggi innovativa diventano qui occasione di ulteriori possibilità coreografiche (Pérez Royo 2008, 169-182). La decisione più recente di inaugurare nel 2009 l’apertura di un museo d’arte contemporanea nodale per la scena culturale italiana come il MAXXI di Roma con un evento di danza contemporanea è analizzabile, innanzitutto, come incontro fra due autorialità oggi di spicco, entrambe donne: da una parte nuovamente l’architetto Hadid, dall’altra la coreografa Waltz. L’eccezionalità dell’incontro fra Hadid e Waltz non è data solo dal fatto che le due autrici hanno un ruolo di primo piano, in qualità di vere e proprie star nei rispettivi ambiti disciplinari. Il carattere inedito di tale incontro è effetto in particolare di una lettura di genere che vi può essere applicata, dal momento che in occasione di tali eventi sia Hadid sia Waltz mettono in discussione una fisionomia quasi del tutto maschile soprattutto dell’architetto, e in parte del coreografo, così come si è depositata storicamente in ambito europeo e statunitense. Si tratta di un incontro dal carattere radicale fra gestualità danzata e costruita. Waltz infatti è alla sua seconda inaugurazione di spazi museali d’autore – oltre al MAXXI, anche il Jüdisches Museum di Liebsekind a Berlino nel 1999 – entrambi collocabili nell’ambito dell’architettura decostruttivista, ovvero in quella tendenza che ha ripercorso le radici delle categorie vitruviane, ponendo in primo piano l’elemento dinamicamente perturbante o parassitario – l’unheimlich freudiano –, in quanto 2 Con danza d’autore non si fa qui riferimento all’annuale, importante vetrina italiana di giovani autori indipendenti (www.anticorpi.org), ma ad alcuni nomi di spicco nel panorama coreografico contemporaneo, posti in relazione con altrettanti architetti noti in ambito internazionale. — 21 — fabio poggi elemento spaziale e culturale disgiuntivo (Vidler 1992). È perciò interessante sottolineare l’aderenza fra una proposta architettonica neoavanguardistica come questa, che intenzionalmente sfida le leggi della statica pur dovendone paradossalmente sopportare ancor di più le restrizioni, e una performance di danza come quella di Waltz, Dialoge 09-MAXXI. Deconstruction I, da intendere come prima, sperimentale esplorazione corporea e interpretativa, site- e time-specific, dei nuovi spazi: «gli interpreti non si possono portare a casa come una scultura e dopo l’esibizione lasceranno lo spazio ad altre interpretazioni»3. Più in generale va notato come l’architettura degli ultimi vent’anni si mostri in una dimensione di «strumentalità non “dedicata”» tale per cui essa «non produce più solo forme o costruzioni, ma configurazioni» (Masiero 1999, 215-216). Non è un caso se l’esperienza architettonica del fruitore del secondo museo citato, quello ebraico di Libeskind a Berlino, sia stata descritta in termini di per sé performativi, pur senza fare alcun riferimento all’inaugurazione coreografata da Waltz. Il visitatore infatti entra fisicamente da un livello sotterraneo in un’architettura decostruita con tagli non ortogonali, conflittuali, all’interno dei quali egli è invitato a ripercorrere una «topografia culturale» in modo esperienziale come «performance culturale» – con specifico riferimento alla Shoah come nodo intorno a cui ruota l’intera istituzione. Il visitatore si fa spazio e, contemporaneamente, diventa attore della rielaborazione storica in senso benjaminiano, intendendo metaforicamente la memoria e la storia proprio in senso spaziale come paesaggio di monumenti e rovine nei pressi dei quali passare e sostare (Hopkins et al. 2009, 222-239). Analoga attenzione sull’esperienza della visita del museo è riscontrabile in ambito semiotico in un saggio inerente il Monumento alle vittime dell’Olocausto, opera di Eisenman sempre a Berlino (Pezzini 2011, 81-87). Gli edifici di Gehry, un’altra archistar, costituiscono uno sfondo allettante per il festival di danza urbana Lekuz Lezu a Bilbao e un’attrazione per Lafrance, la performer che decide di danzarvi. Grazie alla frequentazione diretta dell’architetto, alla sperimentazione tecnica della percorribilità e performatività delle coperture curve apparentemente contro-architettoniche del Guggenheim di Bilbao, è stato possibile per Lafrance offrire nel 2008 Rapture. Questa proposta apre alle esperienze di danza-architettura presentate precedentemente. 6. Conclusioni In linea con le riflessioni introduttive non si sono volutamente cercati punti di chiusura per le varie traiettorie tracciate. Soprattutto per quanto concerne la mappatura tematica (§ 5) di alcune esperienze performative l’approccio è stato 3 Versione online del «Corriere della Sera», 13 novembre 2009. — 22 — Architettura, città, danza più attento alla ricognizione spaziale delle varie proposte che al loro raggruppamento per categorie. Del resto tale scelta è nata tenendo conto sia delle finalità di questo articolo, che intende aprire una finestra sulla relazione fra performance e spazio, sia della natura di per sé multiforme e plurale delle spazialità architettoniche e urbane contemporanee che possono essere declinate analiticamente all’interno di differenti coppie tematiche. Alcuni esempi racchiusi nella famiglia aperto / chiuso (§ 5.1.) potrebbero essere stati studiati in quanto spazi anonimi / rivalutati (§ 5.3.) o, eventualmente, come architetture d’autore (§ 5.4.). Dunque è stata piuttosto la preminenza di un elemento caratterizzante sugli altri a orientare l’organizzazione di questa prima mappatura – il fatto che, per esempio, di un edificio sia sembrato più significativo sottolineare un processo di ritematizzazione funzionale, per quanto circoscritta nel tempo, che il suo essere trascurato o dimenticato dal city user. Anche nella parte teorica si è fatto cenno ad approfondimenti da sviluppare in ricerche future rispetto a snodi di natura epistemologica e metodologica. I primi hanno avuto una generale precedenza sui secondi dal momento che la logica sottesa al presente lavoro è stata più che altro ricognitiva rispetto pure alla scelta delle parole-chiave da utilizzare e mettere in relazione. In questo senso lo spazio ha rappresentato un concetto-ponte che ha permesso di toccare in modo trasversale alcuni degli studies più direttamente chiamati in causa con l’oggetto di studio. È presumibile che l’andamento tematico dei performance studies, connesso ai theatre e ai dance studies, verrebbe ulteriormente problematizzato se si tenesse conto dei contributi che oggi affrontano alcune delle svolte culturali maggiormente toccate dalla variabile spaziale come nel caso del performative turn, da una parte, e del più recente topological turn, dall’altra (Fischer-Lichte e Wihstutz 2012; Shields 2013). Per quanto concerne uno sviluppo metodologico dell’argomento si potrebbe approfondire l’utilizzo di approcci etnografici in ambito teatrale (Tota 2011) o sul mondo della danza (Bassetti 2010) dei quali si è comunque tenuto conto per imbastire la mappatura presentata precedentemente. In un passaggio successivo il percorso potrebbe toccare, tra le varie proposte, l’impiego in sociologia di approcci autoetnografici (Ellis e Bochner 2000) o, in direzione più sperimentale, di etnografia performativa (Denzin 2003) all’interno della quale i risultati della ricerca stessa vengono presentati con modalità performative. La città contemporanea che emerge da questo articolo è costituita da ambiti spaziali positivamente sorprendenti e, diremmo quasi con un gioco di parole, socialmente sorpresi. Si tratta di una scelta volutamente perseguita, intrapresa non tanto per evitare nodi conflittuali e criticità che pure sono presenti sul territorio così come si desume dalla letteratura sociologica e urbanistica. In sintesi si è deciso di prendere un’altra direzione rispetto a quest’ultima per mostrare quanto un cambiamento del punto di vista, sebbene circoscritto e limitato nel tempo, — 23 — fabio poggi possa permettere di reinterpretare percettivamente e affettivamente la città che in questo modo viene parzialmente ricostruita fisicamente e/o simbolicamente. È l’operazione compiuta dal coreografo che, per esempio, rilegge l’incrocio fra due strade come un potenziale palcoscenico; dal performer che estraneandosi per un quarto d’ora dal flusso pedonale sperimenta una modalità poetica di passeggiare; o dal passante che, chiudendo il cerchio, ripaga tutti i soggetti professionalmente coinvolti in una performance con il proprio stupore. Rispetto a queste osservazioni si aprirebbero altri percorsi di ricerca centrati questa volta sull’inquadramento degli eventi artistici performativi all’interno sia delle politiche culturali locali e centrali sia dei progetti urbanistici sul territorio. Da ciò emergerebbe senz’altro una conferma della necessità o urgenza di immaginare la città contemporanea nell’ottica di una effettiva creative city. Bibliografia Alexander, J.C. e Smith, P. (2003) Un «programma forte» in sociologia culturale: elementi di ermeneutica strutturale, trad. it. Bologna, Il Mulino, 2009, in Santoro e Sassatelli (2009). Allegri, L. (2012) Prima lezione sul teatro, Roma-Bari, Laterza. Auslander, P. (2003) Performance. Critical Concepts in Literary and Cultural Studies, vol. 2, London-New York, Routledge. Baccarini, L. (2008) Flash mob o la foll(i)a è mobile, in Codeluppi, Dusi e Granelli (2008). Bachelard, G. (1957) La poetica dello spazio, trad. it. Bari, Dedalo, 1975. Barba, E. (1981) La corsa dei contrari. Antropologia teatrale, Milano, Feltrinelli. Barba, E. (1993) La canoa di carta. Trattato di antropologia teatrale, Bologna, Il Mulino. Bartolucci, G. (1968) La scrittura scenica, Roma, Lerici. Bassetti, C. 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