asc incontri: nicole t ti asc incontri: nicole t ti Nel corso di una recente puntata di Porta a Porta dedicata al mezzo secolo de La dolce Vita, l’inviata di costume Laura Laurenzi, spalleggiata da Elsa Martinelli, ha definito un oscar minore quello assegnato ai costumi de La Dolce Vita. Sapendo che Piero Gherardi, costumista di quel film, è stato un suo costante punto di riferimento, vorrei chiederle un giudizio su quest’affermazione, a mio avviso sconsiderata. Dire che Gherardi ha ottenuto un premio minore mi sembra proprio un grosso errore. Credo che il giudizio espresso da quella giornalista sia frutto di una non conoscenza del nostro mestiere. Perché il lavoro del costumista, se fatto seriamente, è un lavoro estremamente vicino al regista, sia per il cinema che per il teatro in musica e quello in prosa. Il nostro lavoro consiste essenzialmente nel dare una seconda pelle al personaggio non dimenticandosi mai dell’attore che lo impersona e delle indicazioni che provengono dal regista, colui che scolpisce definitivamente l’interprete. Il nostro non può essere considerato un lavoro minore. E quel giudizio è un errore. Un errore che conferma l’ignoranza diffusa dei giornalisti e la loro indifferenza verso le nostre professioni. Tanto da far sprofondare nell’oblio un genio assoluto dell’immagine come Gherardi. Pensi soltanto a quanti confondono scenografia e sceneggiatura. Gherardi era un maestro ed è dunque un peccato che soltanto nel nostro ambiente si conservi ancora la sua memoria, come accade anche per Danilo Donati e Piero Tosi. Sono personaggi che hanno segnato la storia del cinema e dello spettacolo italiano. Ornella Muti ci accoglie nel mondo di Odette Nicoletti la nuova pelle S e si comincia dal suo nome, Odette, risulta difficile eludere il leggiadro richiamo a mademoiselle de Crécy, l’ indecifrabile dama in rosa amata da Charles Swann. Difficile ma doveroso. Perché, a differenza della sfuggente eroina proustiana, Odette Nicoletti ha lasciato sin dagli esordi un segno chiaro ed irrefutabile. Un soffio creativo che fonde dedizione e maestria, filologia e sperimentazione. Qualità racchiuse in un laboratorio itinerante che ha saputo costantemente generare quella seconda pelle che trasforma attori e cantanti nei personaggi da interpretare. In quasi quarant’anni di allestimenti per la lirica, la prosa ed il ci- 10 di gianni sorrentino incontro con odette nicoletti nema, le creazioni di Odette Nicoletti sono state fra le poche in grado di scuotere l’empasse critica che relega agli aggettivi “belli” e “buoni” il giudizio sui costumi usualmente concesso dai giornalisti. Un balzo critico indubbiamente favorito dai libri e dalle mostre che da più di vent’anni provano a catturare il segreto e l’ incanto dei suoi bozzetti dal tratto freschissimo, brulicante di vita, capace di condensare secoli di cultura napoletana stratificati in un naso storto, in un seno che esce fuori o in una veste che si allunga oltre la realtà per suggerire altro. E forse è proprio il legame con la città natale il pensiero dominante nascosto nel lavoro della costumista che proveremo a raccontare. A Napoli, in primo luogo, sono legati molti degli incontri essenziali della sua carriera: dagli insegnanti Gennaro Vitiello ed Anna Caputi ai compagni scenografi e costumisti con cui fondò il Teatro Esse. Dai maestri napoletani Roberto De Simone e Riccardo Muti sino a Mauro Carosi, compagno professionale e di vita. Ma a Napoli è legata soprattutto Odette, seppur da un rapporto viscerale e struggente che sembra rimandare direttamente ad Ovidio: “nec sine te nec tecum vivere possum”. Il nostro omaggio alla sua arte partirà allora dal suo pensiero e arriverà sino ai ricordi di un suo allievo speciale. nostri orizzonti ci rivolgemmo ad un brillante intellettuale, purtroppo scomparso molti anni fa, quale era Gennario Vitiello, nostro insegnante dell’accademia, e fummo poi arricchiti dalla collaborazione con una grossa intellettuale napoletana che si chiamava Anna Caputi, donna di grande cultura, professoressa di storia dell’arte. L’intento comune era quello di andare oltre il teatro attraverso la realizzazione di un centro di cultura, come era molto in uso all’epoca, profondamente legato ad un pensiero politico. È stato dunque un periodo molto importante in cui lavoro, cultura, amore, politica erano un tutt’uno e attraverso il teatro noi potevamo fare anche più facilmente tutte queste cose insieme. Un clima irripetibile? Temo di sì. D’altro canto oggi non potrei più fare il teatro sperimentale e non perché non ne abbia voglia. Le devo confessare che mi piacerebbe moltissimo ma è più giusto che le cose nuove vengano proposte dai giovani. Il teatro sperimentale, a mio avviso, dovrebbe sempre provenire da un impulso giovanile. Un dato costante del suo lavoro è l’elaborazione materica. Nel corso degli anni ha sperimentato incessantecostume di Odette Nicoletti per il Faust (2007) diretto da Glauco Mauri Hanno avuto influenza nel suo lavoro? Fino ai venticinque anni, anche trenta, hanno sicuramente avuto una grande influenza su di me. Non si può non tener conto della loro lezione. Poi è subentrato il corso della professione ed il vissuto personale che hanno formato a poco a poco la mia identità artistica. Come accade per tutti. Non tutti, però, hanno trascorso una parte della loro vita in Africa. Le chiedo allora se ci siano stati influssi e reminiscenze del periodo africano nella sua professione. Ho passato la mia prima adolescenza nell’ex Congo Belga, ovvero l’Africa più nera. Sono poi rientrata in Italia a sedici anni. Non so dirle se quell’esperienza abbia avuto un’influenza sulla mia professione ma riesco a riconoscerla senza esitazione nella mia vita, dalla formazione caratteriale alla visione del mondo. L’africa è indimenticabile. Dopo aver terminato l’Accademia fu tra le fondatrici del Teatro Esse. Può raccontarci la genesi e i significati di quell’esperienza? Il Teatro Esse era essenzialmente un teatro di cantina nato verso la fine degli anni Sessanta, contemporaneamente ai primi movimenti studenteschi. Il gruppo era formato principalmente da scenografi e costumisti uniti da un fortissimo desiderio di fare teatro. Per allargare i 11 asc incontri: nicole t ti mente una sterminata varietà di materiali senza però perdere di vista la giustezza del personaggio e le esigenze dello spettacolo. Questa predilezione è nata al Teatro Esse o è frutto di una successiva affinazione? È nata in quel periodo ma mi piace pensare che questa ricerca sia stata irrorata dall’esperienza africana. La mia formazione, avvenuta in un paese diverso dall’occidente, determinò probabilmente quella predilezione, che ho tuttora per i materiali poveri ed anche la sfida di farli diventare nobili. Questa spinta interiore fu accentuata dalle condizioni economiche precarie che vigevano nel teatro di cantina ma devo ringraziarle perché mi hanno insegnato a dare sfogo a tutte le idee affinché si potesse andare in scena con grande fantasia e dignità, proponendo, per quanto possibile, un gusto alternativo. Si ricorda di a lcuni lavori in particolare? R ic ordo u no spettacolo tratto da un testo che allora era abbastanza a ll ’avanguardia, I negri di Jean Genet, d o v e s p e r i m e nt a i al massimo la materia. Per un altro testo, tratto da Hugo von Hofmannsthal, usai invece della carta velina incollata su tela per fare un tessuto, con una serie di interventi per non farla rompere durante le recite. I risultati erano molto interessanti e ne feci tesoro per i successivi lavori per il teatro di pro- 12 asc incontri: nicole t ti sa e quello lirico. Un passaggio centrale nell’evoluzione della sua produzione artistica è l’incontro con Roberto De Simone. Può raccontarci la nascita di questa collaborazione? De Simone appariva come una meteora nella nostra cantina. Arrivò da noi perché eravamo un centro di cultura che organizzava letture, spettacoli e mostre con artisti come Michelangelo Pistoletto o La Nuova Compagnia di Canto Popolare che debuttò proprio al Teatro Esse. Lo scambio culturale e politico si train questa e nella pagina a fronte: bozzetti di Odette Nicoletti per i personaggi di Matamoro e Serafina ne Il viaggio di Capitan Fracassa (1989) dusse in una grande amicizia e poi in una collaborazione sempre più stretta. De Simone cominciò a scrivere delle musiche originali per i nostri spettacoli portandovi i valori della sua attenta ricerca popolare. Noi iniziammo a creare costumi e scenografie per le sue opere e dopo poco tempo approdammo a Spoleto. Dapprima con La canzone di Zeza e poi con Gatta Cenerentola. Spettacolo, quest’ultimo, che ebbe un rilievo critico nazionale anche grazie all’eclettismo e all’innovazione dei suoi costumi. Negli anni Settanta De Simone le dà modo di aprire le sue creazioni al mondo della lirica. Creazioni pensate non più soltanto sui testi e sui corpi degli interpreti ma anche sulla musica… Soprattutto sulla musica, che per me è la prima delle arti. Nel mondo lirico ci sono delle convenzioni e delle esigenze che sono completamente diverse, pur presentando notevoli affinità con le altre forme di teatro e di spettacolo. Pensi soltanto all’impostazione della parola “lirico”: viene subito in mente il grande, enorme palcoscenico. Bisogna dunque saper riempire questi spazi. Il movimento del cantante è poi pieno di convenzioni che il pubblico accetta nel momento in cui si siede su quella poltrona e si apre quel sipario. Da quel momento in poi, il pubblico è pronto a credere nell’impossibile. Violetta che sta per morire e canta quello che canta. Siamo nella f inzione estrema. Una volta approdati in questo mondo, bisogna trovare il modo di comunicare. E non deve essere molto facile disegnare per la musica, vestire delle emozioni che non possono essere espresse compiutamente a parole. Mi chiedo quindi se la partitura, l’esecuzione dell’orchestra e la direzione del Maestro non determinino una diversa mano che disegna i costumi. La musica smuove nell’animo l’incredibile, l’inafferrabile, per cui è difficile dire che cosa si deve tradurre sulla carta, spiegando a parole, quelle altissime sensazioni. Prendiamo Mozart. Io lo adoro ed ho disegnato i costumi per molte sue opere ma come si fa a spiegare a parole quello che ti rimanda? È impossibile. Però le posso dire una cosa. Studio molto approfonditamente la musica, pur non essendo una musicista, e credo di poterci ragionare su, almeno provarci, ma se penso ai bambini del Flauto magico, espressi da Mozart con i violini, mi viene in mente unicamente il loro essere in aria. Anzi, il loro essere aria. Non posso che tentare in qualche modo di esprimere attraverso il colore e la forma queste sensazioni. Ma a parole non ne sarei capace… Credo che l’aggettivo inafferrabile renda bene l’idea di quella sinestesia irriducibile ed infinita data da suono e for m a , canto e colore, movimento esteriore e subbuglio interiore. Molti musicisti scelgono di non parlare mai di musica, se non liberando i propri suoni ed ascoltando quelli dei loro colleghi. Perché le frasi musicali sono pressoché intraducibili. Temo abbiano ragione… Mi aggrappo allora al genio di Salisburgo per tornare sulla terra. Più precisamente a Bologna, dove portaste nel 1982 un memorabile Don Giovanni interpretato da Wolfgang Schöne e diretto da De Simone. I suoi costumi sono ancora custoditi e spesso esposti dal Teatro Comunale ma so che quell’opera ricorre spesso nei suoi pensieri per la peculiarità dell’allestimento. È vero. Porta mmo in scena un Don Giovanni metafisico. Sfuggimmo alla maniera realistica e rinunciammo a fantasticare sul concreto. I personaggi di Don Giovanni, Donna Anna e Donna Elvira erano vicini a dei blocchi concettuali. Anche nella scenografia cercammo di eliminare ogni orpello, togliendo tutte le suppellettili per raggiungere l’essenza delle cose. Forse c’era una certa incoscienza in noi ma era un’incoscienza più vicina all’intuito che al ragionamento. Tre anni dopo realizzate per il Teatro alla Scala un imponente ed imprescindibile Nabucco assieme a Riccardo Muti, giudicato dalla critica internazionale come uno degli allestimenti più significativi di ogni epoca. In questo caso so che lei si ricorda soprattutto la fatica… Quel Nabucco rappresentava il debutto di Riccardo Muti alla Scala. E per tutti fu sorprendente il fatto che il Maestro scegliesse De Simone, Carosi e Nicoletti, perché sino ad allora non avevamo mai lavorato alla Scala. C’era poi un numero enorme di costumi da realizzare, più di cinquecento, che forse possono essere pochi per un film, dove sono divisi in giornate, se non in settimane, ma sono veramente tanti per un’opera dove tutto si consuma in meno di tre ore. Quella chiamata ci lusingò ma ci rese anche consapevoli della responsabilità che ognuno di noi portava. Anche perché il debutto di Muti coincideva con l’apertura stagionale della Scala, serata in cui regna un clima difficilmente descrivibile. Lei ha collaborato con maestri come Daniel Oren, Salvatore A c c a r d o, C l a u d i o A b b a d o, Riccardo Chailly, Alain Lombard, Peter Maag e ovviamente Riccardo Muti. Fra questi direttori d’orchestra ce n’è uno più sensibile degli 13 asc incontri: nicole t ti altri al ruolo dei costumi? Direi proprio Muti perché non è mai indifferente all’allestimento. È un artista molto esigente. Esigentissimo è dire poco. Muti vuole assolutamente conoscere il progetto della regia, vuole vedere le scenografie e i costumi per tempo. Già questo è moltissimo. Poi, nel corso dell’allestimento, ci possono essere delle critiche e delle richieste anche impervie ma anche questo fa parte di un costrutto interessante che impedisce la routine e quindi l’indifferenza. Chi assiste ad un suo spettacolo noterà immediatamente che la musica va perfettamente insieme con tutto il resto dell’allestimento. Può essere molto duro lavorare assieme a lui ma è uno degli artisti più straordinari con cui abbia avuto la fortuna di collaborare. Vorrei parlare ora di cantanti d’opera. Da Pavarotti alla Bartoli, da Bruson alla Frittoli lei ha lavorato con i tutti i nostri maggiori divi della lirica, la cui risonanza è veramente planetaria. Quest’aura incide sul loro approccio al costume? Credo di esser stata abbastanza fortunata perché ho avuto dei cantanti che quasi sempre hanno collaborato. Il costumista deve avere una grande forza di carattere perché alcuni cantanti faticano a calarsi nel costume, soprattutto quando vanno sul palcoscenico e cantano per la prima volta con il direttore e l’orchestra. In quel frangente anche le luci ed i movimenti di regia vengono dimenticati perché bisogna andare a tempo e seguire il direttore d’orchestra. Preferisco quindi calare progressivamente il cantante nel costume, attutendone l’impatto per favorire l’appropriarsi di questa nuova pelle. 14 asc incontri: nicole t ti Ci sono cantanti che riescono a collaborare molto, a suggerire delle cose per stare meglio, per stare più comodi senza negare il costume. Poi ci sono quelli che riversano le loro insicurezze e i loro sbagli sul costume. Alcuni vorrebbero indossare il costume del Seicento come se fosse un jeans di tutti i giorni… E poi il costume va portato… Gli artisti che sanno portare il costume non sono molti. Ma sono artisti in tutto. Mi viene in mente Barbara Frittoli perché è un’artista che sa indossare i costumi, come anche Cecila Bartoli. Fra gli uomini Alessandro Corbelli è un vero maestro perché riesce a rendere il costume talmente personale e così vivo, vero. Straordinario. Per fortuna ci sono le registrazioni dei vostri spettacoli. Per capire allora come si porta un costume, cercherò di ritrovare la Cenerentola di Rossini che portaste in scena nel 1995. C’erano sia Corbelli che la Bartoli. Vorrei chiederle ora se il canto e la respirazione necessitino di accorgimenti particolari. Il corpo umano, per il cantante, è la cassa armonica. Lo strumento più delicato che ci sia. Bisogna dunque tener conto con grande cura bozzetti di Odette Nicoletti per Francesca da Rimini (2003) delle indicazioni dei cantanti. Le soprano, ad esempio, abitualmente non vogliono essere molto strette perché la cassa toracica si deve allargare sulle costole. Ma chi ha lavorato con la Ricciarelli le avrà dovuto confezionare un busto pazzesco perché diceva che le sosteneva il diaframma. Bisogna dunque saper ascoltare e capire le loro esigenze. Prima di abbandonare la lirica, non posso non chiederle di Pavarotti. Lei ha disegnato i costumi per un Trovatore e Un ballo in maschera di grande rilievo. Dubito però che il tenore modenese potesse essere accomodante verso i costumi di scena… C’era innanzitutto un problema fisico. Portarsi addosso quel peso comportava una grande fatica. Pavarotti ambiva dunque a dei costumi leg- gerissimi, cosa possibile solo se indossi il Novecento. Ma se fai Un ballo in maschera, come quello che abbiamo fatto assieme, devi capire che un vestito del Seicento non può essere ultraleggero. Il secondo problema era dato dalla sua esigenza di apparire al meglio. Lavorare con lui è stato faticoso, a volte pesante perché abbiamo anche litigato. Alla fine, però, è rimasto talmente contento che si è preso i costumi, li ha chiusi in valigia e se li è portati via. Speriamo che la Mantovani li restituisca ai teatri. Vorrei entrare ora nel mondo della prosa, partendo dalla sua collaborazione con Glauco Mauri. Credo che il vostro primo lavoro, Philoktet, sia andato in scena al Carcano nel 1983. Da quella lettura di Heiner Mueller ad oggi, quanto è cambiato il vostro rapporto professionale? È una collaborazione preziosissima che nel tempo si è molto evoluta. Glauco cominciava in quegli anni a fare il regista. Quindi anche lui era alla ricerca di un suo linguaggio ma non dimenticava mai la centralità del rapporto umano e la costruzione di un pensiero aperto, costruttivo, condiviso. Ho sempre cercato di lavorare assieme ai registi, agli attori e ai cantanti. Assieme. Mai contro. Quando qualcuno s’imbizzarrisce glielo ricordo subito. Noi lavoriamo insieme non contro. Con Glauco si lavora magnificamente e tengo moltissimo al rapporto umano oltre che allo scambio creativo. Quali sono gli spettacoli più significativi nati da questo scambio creativo? In quel primo Philoktet c’erano delle bellissime scene di Cagli. Fra i tanti spettacoli successivi non è semplice scegliere. Mi viene in mente il Re Lear, sicuramente. E anche un Macbeth che Glauco realizzò dapprima in prosa a Treviso e poi in una versione lirica che andò anche a Napoli. Un’edizione bellissima, devo dire. Glauco ha portato nella lirica, nel rispetto di Verdi, la tragedia di Shakespeare in maniera molto forte, molto leggibile, come forse mai nessuno aveva fatto prima. Soventemente, i registi 15 asc incontri: nicole t ti che affrontano le tragedie del Bardo musicate da Verdi si dimenticano di Shakespeare. Glauco mai. Il rispetto filologico, l’attenzione nel giocare con le epoche e la necessità di costruire un afflato poetico e politico con i collaboratori sono delle caratteristiche che accomunano Glauco Mauri con Ettore Scola, il regista che la portò sul grande schermo. Per affrontare questo capitolo della sua vita, le chiedo quindi di tornare al dicembre 1984, nei saloni di Castel asc incontri: nicole t ti dell’Ovo… Scola visitò una mostra monografica sui miei lavori teatrali che si tenne a Napoli proprio mentre lui girava Maccheroni. Io non ero presente e non mi accorsi di quest’occasione unica finché lui mi chiamò, dopo qualche mese, per propormi Il viaggio di Capitan Fracassa, un film a cui lui teneva moltissimo. Ero confusa, emozionata, lusingatissima. Accettai subito, ovviamente, apprezzando il coraggio, manifestato da un regista che già ammiravo, di chiamare una persona come me che non aveva alcuna esperienza di cinema. Non so però dirle perché mi abbia chiamato. Provo a dirlo io. Quel film innestava delle maschere napoletane sul romanzo di Théophile Gautier, di cui catturava gli aspetti fantastici, seppur proiettati in un passato indefinito. Serviva una gra nde elabora zione, una profonda cultura dei materiali e la capacità di sintetizzare le malinconie e gli istinti burleschi transalpini con il dolore e l’estro campano. E poi c’era un precedente importante. Gatta Cenerentol a fondeva Basile e Perrault… La ringrazio. R i m a ngo c omu nque dell’idea che Scola abbia dimostrato un grande coraggio nel chiamarmi e nel farmi sperimentare materiali nuovi che mi servirono ad aiutare la costruzione di quelle atmosfere così particolari. In quel film, ad esempio, si capiva quanto poco Scola amasse il colore. Quando gli presentai la mia idea di fare un popolo livido fu contentissimo del colore non colore che ne usciva fuori. Le luci poi cambiarono tantissimo la percezione dei costumi, tanto da farli sembrare in bianco e nero. Scola è un regista molto attento e molto esigente. Come quella volta che, sul set di Concorrenza sleale, le chiese una trentina di sposi per l’indomani. Erano le cinque del pomeriggio? Erano passate le nove. Scola venne da me dicendomi: “Ce l’hai una trentina di sposi?”. Gli dissi che non era una richiesta insormontabile, anche se avevo purtroppo intuito il seguito, ovvero la richiesta di una trentina di spose per l’alba del mattino successivo. Quando puntualmente me lo chiese, desideravo tirarmi i capelli dalla testa ma volli lasciarlo di stucco 16 dicendo che non c’era alcun problema. Salvo ritrovarmi alla disperata ricerca delle trenta spose nella notte romana. Una richiesta felliniana nel suo essere così spropositata… Ricordo che con la mia assistente facemmo aprire per tutta la notte una ditta specializzata in abiti da sposa. Arrivammo a mezzanotte e passammo le prime quattro ore a rovistare vorticosamente fra i modelli. Alle quattro del mattino iniziammo a preparare le acconciature. All’alba eravamo già di ritorno sul set. Scola poteva girare. Rimase ovviamente sorpreso. E sin dal primo momento mi piaceva l’idea di lasciarlo stupefatto. Come si è trovata con gli attori di cinema? Ho avuto un rapporto eccellente con Gassman di cui ho ammirato la grande umiltà. Mi son trovata bene con la tranquillità e la professionalità di Giannini. Non ho riscontrato vezzi divistici nella Muti né in altre interpreti anche perché Scola non li avrebbe mai consentiti. Ed ho apprezzato l’intuito sanguigno di Gérard Depardieu. Ci si innamora del suo grande talento. I costumisti di cinema ricordano spesso come stiano “perdendo la testa” degli interpreti a causa delle clausole contrattuali imposte dagli attori. Succede anche in teatro? Nel mondo del teatro, sia quello di prosa che quello lirico, è ancora il costumista che decide ma è giusto ed opportuno costruire un discorso generale che coinvolga anche il truccatore ed il parrucchiere. Ci sono sempre degli attori e dei cantanti che fanno dei capricci ma si media. Se poi c’è un regista come Scola, il problema non si pone. Mi diceva sempre “non cedere”. E apriva un portone spalancato. Provo allora anch’io ad aprire un portone, quello interiore che si affaccia sulla sua città. Per aprirlo, le chiedo di parlarmi del suo rapporto con Massimo Troisi. Massimo Troisi era una persona meravigliosa che mi permetteva di riconciliarmi con Napoli poiché ne incarnava i valori più positivi. Molte volte parlavamo in dialetto ed era semplicemente irresistibile. Che tipo di approccio aveva con il costume? Si lasciava guidare. Aveva una grande stima per Scola e forse, di conseguenza, anche per me. Ed era una stima reciproca, naturalmente. Durante il capitan fracassa, mi capitava di elogiare spesso gli attori francesi per la loro professionalità. Si lasciavano vestire con la massima tranquillità ed a volte portavano cose molto pesanti. Un giorno, entrando nel suo camerino, trovai Troisi sulla poltrona, mezzo spogliato e con le braccia aperte. Gli chiesi “Che fai?”. Mi rispose “Voje fa’ cumme gli attori francesi. Voje esse’ vestito pur’io…”. Sagacia e dolcezza… Troisi era splendido, veramente. Il suo rapporto con Napoli è decisamente più conflittuale ma non meno affascinante. Nel 2007, in un’intervista su Repubblica, ha dichiarato: “Napoli è il mio midollo, me la porto dentro e provo una specie di gioia quando ci torno, anche se a volte mi fa un po’ paura”; “so per certo che Napoli risorgerà, ma temo che non sarò io a vedere quel giorno”; “Ci sono due città, differenti e lontane, una sull’altra, una dentro l’altra, è un enigma e uno sgomento”. È così? È così. Scola dice che i napoletani o sono dei geni o sono pessimi. Non c’è una via di mezzo. Forse ha ragione. Io amo la mia città. Non riesco a viverci e non riesco a tenerla distante da me. È una città che ti accoglie, ti abbraccia e ti respinge al tempo stesso. Ed è una città dall’abbraccio tremendo perché vieni rapita da un unico sentimento in cui convivono la simpatia, l’aggressività, la maleducazione e la tenerezza. Rispetto ad altre città vi puoi comunque trovare, ma solo in alcuni ceti napoletani, quelli più veri e popolareschi, un’apertura alla generosità che la borghesia ha del tutto smarrito. nella pagina precedente: il costume di Papageno interpretato da Odette Nicoletti (Il flauto magico, Teatro Alla Scala, 1995) a fianco: Irene Papas in un costume creato da Odette Nicoletti (Stabat Mater, Teatro San Carlo, 1996) 17 asc incontri: nicole t ti asc incontri: nicole t ti odette ed io È diff icile per me parlare di Odette Nicoletti come costumista, perché devo scindere la mia esperienza personale con l’amica Odette dalla notissima artista del costume. Se rifletto poi sul fatto che la nostra conoscenza oramai ventennale è sempre stata costante e che sin dall’inizio essa è nata e cresciuta sotto una buona stella, scelgo, per parlare di lei, di raccontarvi di noi. Questo per dirvi quanto Odette Nicoletti abbia significato nella mia carriera di giovane costumista e di come la nostra relazione d’amicizia abbia impreziosito ed arricchito la mia vita. Conobbi artisticamente Odette negli anni Ottanta quando studiavo all’Istituto d’Arte di Napoli. La scuola d’arte era nella Piazza del Plebiscito, la stessa del Teatro di San Carlo dove la Nicoletti era frequente ospite nei leggendari spettacoli diretti da Roberto De Simone. rare aiutando i costumisti ospiti ad allestire gli spettacoli. Odette arrivava in te at ro c on due assistenti e alcune volontarie. Una squadra affiatatissima che, dopo aver messo in riga la sartoria con richieste di una precisione ineccepibile, sapeva portare gli spettacoli in scena con una qualità elevatissima. Ricordo ancora l’emozione procurata da quel primo incontro ed il suo sguardo intenerito quando le sottoposi i miei disegni. Negli anni ho incontrato e lavorato con grandi costumisti, tutti molto bravi e professionali, ma credo di mariano tufano Allora ero poco più che quindicenne e quando tornavo da scuola mi fermavo sotto le finestre laterali del quarto piano, quelle della sartoria, che lasciavano intravedere dei costumi meravigliosi. Mi sembravano irraggiungibili ma mi piaceva fermarmi a sognare. L’incontro col mondo di Odette Nicoletti avvenne nel 1984. Castel dell’Ovo ospitava una sua mostra personale che si articolava attraverso i suoi più importanti lavori teatrali. R icordo benissimo quel dicembre di venticinque anni fa, la mia euforia nel ve de re il suo lavoro, le lunghe e nella pagina precedente: servi e orchestrina di Don Giovanni (Il convitato di pietra, Teatro San Carlo, 1994) in questa pagina: danzatori di guerra ed Egisto (Agamennone, Teatro greco di Siracusa, 1994) ripetute visite a quella stessa esposizione. Quell’evento significò per me qualcosa di straordinario: io che venivo da una famiglia borghese di commercianti, avulsa dal teatro, venni a contatto col mondo del costume e con la professione del costumista di cui non conoscevo neanche l’esistenza. Non solo. Non sapevo nemmeno che di quella professione si potesse fare una così alta forma espressiva. Questo evento cambiò radicalmente la mia pianificazione del futuro, nel senso che da allora non volli fare altro che impegnarmi con tutte le mie energie per intraprendere lo stesso cammino. L’incontro vero con Odette avvenne solo nel 1994, in occasione di Un ballo in maschera diretto da Alberto Fassini che inaugurava la stagione del San Carlo, dove avevo iniziato a collabo- 18 19 asc incontri: nicole t ti asc incontri: nicole t ti stente è sempre stata entusiasmante perché ho avuto la sensazione di avere con lei un rapporto speciale. Un’affinità elettiva che ci consentiva di vivere qualsiasi difficoltà come un momento di sfida e di crescita. Da sempre Odette è stata un’amica presente, piacevole, arguta e saggia. Ha sempre seguito con attenzione e curiosità le vicende della mia vita e del mio lavoro, partecipandovi con affetto. Fu lei la prima che chiamai quando Crialese mi affidò il disegno dei costumi di Nuovomondo ed a lei chiesi di premiarmi quando per che nel panorama teatrale degli ultimi trentacinque anni nessuno abbia mai fatto delle progettazioni come quelle di Odette Nicoletti. I suoi bozzetti sono delle opere d’arte in cui la precisione dei dettagli ed il senso della materia e dei volumi sono chiarissimi. E non vi è solo il dato pittorico che racconta il gusto e la chiave di lettura interpretativa di un’opera teatrale ma risalta una precisione scientifica della progettazione che è degna di essere chiamata tale. Ricordo poi una collaborazione più stretta quando curai la realizzazione di una parte dei costumi dell’Opera buffa del giovedì santo diretta da De Simone. In quell’occasione Odette arrivò per tingere di persona, e meravigliosamente, parte dei costumi. Qualche anno dopo accadde una cosa curiosa. Ero a Londra con Maurizio Millenotti per girare L’ importanza di chiamarsi Ernesto e dovevo recarmi da un armaiolo nella campagna inglese per riparare un elmo che serviva all’attore Rupert Everett. Il viaggio fu molto lungo ed il posto mi sembrò in capo al mondo ma entrando nell’officina trovai sul tavolo dei bozzetti dal tratto familiare. Seppur a migliaia di chilometri da Roma e dall’Italia, io e Odette ci eravamo rincontrati perché quei bozzetti erano suoi. Per un ulteriore e strano caso del destino, fui chiamato qualche mese dopo proprio per lavorare all’allestimento dell’opera tratta da quei bozzetti: era il Trovatore di Verdi per l’Opera di Roma. Subito dopo Odette mi affidò il riallestimento di Un ballo in maschera alla Fenice di Venezia e in seguito di collaborare alla realizzazione dei costumi dell’Osteria di Marechiaro di Paisiello, che andò in scena al teatro San Carlo di Napoli con la regia di Roberto De Simone. La mia esperienza come suo assi- 20 quello stesso film ricevetti la Chioma di Berenice come migliore costumista nel 2007. Odette rappresenta per me una personalità unica nel panorama internazionale del costume e credo che il mondo del teatro rimarrà forte della sua inconfondibile impronta per sempre. Fortunata e talentuosa, Odette si è affiancata negli anni ai più grandi registi di teatro e di cinema italiano. Penso subito alle sue creazioni indimenticabili ed eterne per Il viaggio di Capitan Fracassa di Ettore Scola e per la Gatta Cenerentola di Roberto De Simone. Esigente, precisissima, creativa e generosa, sul lavoro Odette è sempre instancabile ed alla ricerca della soluzione migliore per ottenere il miglior risultato. Non importa quanta energia necessiti. In un mondo come il nostro, dove sembra che tutto debba essere preparato velocemente, il suo motto è sempre stato: presto e bene, non vanno mai d’accordo. A guardare i suoi costumi, Odette deve avere proprio ragione. nella pagina precedente, dall’alto: Daniela Dessì in un costume di Odette Nicoletti per Suor Angelica (2002). Costume per Carlo Guelfi ne Il tabarro (2002). in questa pagina: caratterizzazioni per Il viaggio di Capitan Fracassa (1989). 21