la nuova pelle

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asc incontri: nicole t ti
asc incontri: nicole t ti
Nel corso di una recente puntata di Porta a Porta
dedicata al mezzo secolo de La dolce Vita, l’inviata di
costume Laura Laurenzi, spalleggiata da Elsa Martinelli,
ha definito un oscar minore quello assegnato ai costumi
de La Dolce Vita. Sapendo che Piero Gherardi, costumista di quel film, è stato un suo costante punto di riferimento, vorrei chiederle un giudizio su quest’affermazione, a mio avviso sconsiderata.
Dire che Gherardi ha ottenuto un premio minore mi
sembra proprio un grosso errore. Credo che il giudizio
espresso da quella giornalista sia frutto di una non conoscenza del nostro mestiere. Perché il lavoro del costumista,
se fatto seriamente, è un lavoro estremamente vicino al
regista, sia per il cinema che per il teatro in musica e quello
in prosa. Il nostro lavoro consiste essenzialmente nel dare
una seconda pelle al personaggio non dimenticandosi mai
dell’attore che lo impersona e delle indicazioni che provengono dal regista, colui che scolpisce definitivamente
l’interprete. Il nostro non può essere considerato un lavoro
minore. E quel giudizio è un errore.
Un errore che conferma l’ignoranza diffusa dei giornalisti e la loro indifferenza verso le nostre professioni.
Tanto da far sprofondare nell’oblio un genio assoluto
dell’immagine come Gherardi.
Pensi soltanto a quanti confondono scenografia e sceneggiatura. Gherardi era un maestro ed è dunque un peccato che soltanto nel nostro ambiente si conservi ancora
la sua memoria, come accade anche per Danilo Donati e
Piero Tosi. Sono personaggi che hanno segnato la storia
del cinema e dello spettacolo italiano.
Ornella Muti ci accoglie nel mondo di Odette Nicoletti
la nuova pelle
S
e si comincia dal suo
nome, Odette, risulta difficile eludere il
leggiadro richiamo a
mademoiselle de Crécy,
l’ indecifrabile dama
in rosa amata da
Charles Swann. Difficile ma doveroso.
Perché, a differenza della sfuggente
eroina proustiana, Odette Nicoletti
ha lasciato sin dagli esordi un segno
chiaro ed irrefutabile. Un soffio creativo che fonde dedizione e maestria,
filologia e sperimentazione. Qualità
racchiuse in un laboratorio itinerante
che ha saputo costantemente generare
quella seconda pelle che trasforma
attori e cantanti nei personaggi da
interpretare.
In quasi quarant’anni di allestimenti per la lirica, la prosa ed il ci-
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di gianni sorrentino
incontro con odette nicoletti
nema, le creazioni di Odette Nicoletti
sono state fra le poche in grado di scuotere l’empasse critica che relega agli
aggettivi “belli” e “buoni” il giudizio
sui costumi usualmente concesso dai
giornalisti. Un balzo critico indubbiamente favorito dai libri e dalle mostre che da più di vent’anni provano a
catturare il segreto e l’ incanto dei suoi
bozzetti dal tratto freschissimo, brulicante di vita, capace di condensare
secoli di cultura napoletana stratificati
in un naso storto, in un seno che esce
fuori o in una veste che si allunga oltre
la realtà per suggerire altro.
E forse è proprio il legame con la
città natale il pensiero dominante nascosto nel lavoro della costumista che
proveremo a raccontare. A Napoli, in
primo luogo, sono legati molti degli
incontri essenziali della sua carriera:
dagli insegnanti Gennaro Vitiello ed
Anna Caputi ai compagni scenografi e
costumisti con cui fondò il Teatro Esse.
Dai maestri napoletani Roberto De
Simone e Riccardo Muti sino a Mauro
Carosi, compagno professionale e di
vita. Ma a Napoli è legata soprattutto
Odette, seppur da un rapporto viscerale e struggente che sembra rimandare
direttamente ad Ovidio: “nec sine te
nec tecum vivere possum”.
Il nostro omaggio alla sua arte
partirà allora dal suo pensiero e arriverà sino ai ricordi di un suo allievo
speciale.
nostri orizzonti ci rivolgemmo ad un brillante intellettuale,
purtroppo scomparso molti anni fa, quale era Gennario
Vitiello, nostro insegnante dell’accademia, e fummo poi
arricchiti dalla collaborazione con una grossa intellettuale napoletana che si chiamava Anna Caputi, donna di
grande cultura, professoressa di storia dell’arte. L’intento
comune era quello di andare oltre il teatro attraverso la realizzazione di un centro di cultura, come era molto in uso
all’epoca, profondamente legato ad un pensiero politico. È
stato dunque un periodo molto importante in cui lavoro,
cultura, amore, politica erano un tutt’uno e attraverso il
teatro noi potevamo fare anche più facilmente tutte queste
cose insieme.
Un clima irripetibile?
Temo di sì. D’altro canto oggi non potrei più fare il
teatro sperimentale e non perché non ne abbia voglia. Le
devo confessare che mi piacerebbe moltissimo ma è più
giusto che le cose nuove vengano proposte dai giovani. Il
teatro sperimentale, a mio avviso, dovrebbe sempre provenire da un impulso giovanile.
Un dato costante del suo lavoro è l’elaborazione materica. Nel corso degli anni ha sperimentato incessantecostume di Odette Nicoletti per il Faust
(2007) diretto da Glauco Mauri
Hanno avuto influenza nel suo lavoro?
Fino ai venticinque anni, anche trenta, hanno sicuramente avuto una grande influenza su di me. Non si può
non tener conto della loro lezione. Poi è subentrato il corso
della professione ed il vissuto personale che hanno formato a poco a poco la mia identità artistica. Come accade
per tutti.
Non tutti, però, hanno trascorso una parte della loro
vita in Africa. Le chiedo allora se ci siano stati influssi e
reminiscenze del periodo africano nella sua professione.
Ho passato la mia prima adolescenza nell’ex Congo
Belga, ovvero l’Africa più nera. Sono poi rientrata in Italia
a sedici anni. Non so dirle se quell’esperienza abbia avuto
un’influenza sulla mia professione ma riesco a riconoscerla
senza esitazione nella mia vita, dalla formazione caratteriale alla visione del mondo. L’africa è indimenticabile.
Dopo aver terminato l’Accademia fu tra le fondatrici
del Teatro Esse. Può raccontarci la genesi e i significati
di quell’esperienza?
Il Teatro Esse era essenzialmente un teatro di cantina
nato verso la fine degli anni Sessanta, contemporaneamente ai primi movimenti studenteschi. Il gruppo era
formato principalmente da scenografi e costumisti uniti
da un fortissimo desiderio di fare teatro. Per allargare i
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mente una sterminata varietà di
materiali senza però perdere di vista
la giustezza del personaggio e le esigenze dello spettacolo. Questa predilezione è nata al Teatro Esse o è
frutto di una successiva affinazione?
È nata in quel periodo ma mi piace pensare che questa ricerca sia stata
irrorata dall’esperienza africana. La
mia formazione, avvenuta in un paese diverso dall’occidente, determinò
probabilmente quella predilezione,
che ho tuttora per i materiali poveri
ed anche la sfida di farli diventare
nobili.
Questa spinta interiore fu accentuata dalle condizioni economiche
precarie che vigevano nel teatro di
cantina ma devo ringraziarle perché
mi hanno insegnato a dare sfogo a tutte le idee affinché si
potesse andare in scena
con grande fantasia e
dignità, proponendo,
per quanto possibile,
un gusto alternativo.
Si ricorda di
a lcuni lavori in
particolare?
R ic ordo u no
spettacolo tratto
da un testo che allora era abbastanza
a ll ’avanguardia, I
negri di Jean Genet,
d o v e s p e r i m e nt a i
al massimo la materia. Per un altro testo,
tratto da Hugo von
Hofmannsthal, usai
invece della carta velina incollata su tela per
fare un tessuto, con
una serie di interventi
per non farla rompere durante le recite. I
risultati erano molto interessanti e
ne feci tesoro
per i successivi lavori
per il teatro di
pro-
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asc incontri: nicole t ti
sa e quello lirico.
Un passaggio centrale nell’evoluzione della sua produzione artistica è l’incontro con Roberto De
Simone. Può raccontarci la nascita
di questa collaborazione?
De Simone appariva come una
meteora nella nostra cantina. Arrivò
da noi perché eravamo un centro
di cultura che organizzava letture,
spettacoli e mostre con artisti come
Michelangelo Pistoletto o La Nuova
Compagnia di Canto Popolare che
debuttò proprio al Teatro Esse. Lo
scambio culturale e politico si train questa e nella pagina a fronte:
bozzetti di Odette Nicoletti per i
personaggi di Matamoro e Serafina
ne Il viaggio di Capitan Fracassa (1989)
dusse in una grande amicizia e poi
in una collaborazione sempre più
stretta. De Simone cominciò a scrivere delle musiche originali per i
nostri spettacoli portandovi i valori
della sua attenta ricerca popolare.
Noi iniziammo a creare costumi e
scenografie per le sue opere e dopo
poco tempo approdammo a Spoleto.
Dapprima con La canzone di Zeza e
poi con Gatta Cenerentola.
Spettacolo, quest’ultimo, che
ebbe un rilievo critico nazionale anche grazie all’eclettismo e
all’innovazione dei suoi costumi.
Negli anni Settanta De Simone le
dà modo di aprire le sue creazioni
al mondo della lirica. Creazioni
pensate non più soltanto sui testi e
sui corpi degli interpreti ma anche
sulla musica…
Soprattutto sulla musica,
che per me è la prima delle
arti. Nel mondo lirico ci
sono delle convenzioni e
delle esigenze che sono
completamente diverse,
pur presentando notevoli affinità con le
altre forme di teatro
e di spettacolo. Pensi
soltanto all’impostazione della parola
“lirico”: viene subito
in mente il grande,
enorme palcoscenico. Bisogna dunque
saper riempire questi
spazi. Il movimento
del cantante è poi
pieno di convenzioni
che il pubblico accetta
nel momento in cui si
siede su quella poltrona
e si apre quel sipario. Da
quel momento in poi,
il pubblico è pronto a
credere nell’impossibile. Violetta che sta per
morire e canta quello
che canta. Siamo
nella f inzione
estrema.
Una
volta approdati
in questo mondo, bisogna trovare
il modo di comunicare. E non deve
essere molto facile disegnare per la
musica, vestire delle emozioni che
non possono essere espresse compiutamente a parole. Mi chiedo
quindi se la partitura, l’esecuzione
dell’orchestra e la direzione del
Maestro non determinino una diversa mano che disegna i costumi.
La musica smuove nell’animo
l’incredibile, l’inafferrabile, per cui è
difficile dire che cosa si deve tradurre
sulla carta, spiegando a parole, quelle altissime sensazioni. Prendiamo
Mozart. Io lo adoro ed ho disegnato
i costumi per molte sue opere ma
come si fa a spiegare a parole quello
che ti rimanda? È impossibile. Però
le posso dire una cosa. Studio molto approfonditamente la musica,
pur non essendo una musicista,
e credo di poterci ragionare su,
almeno provarci, ma se penso
ai bambini del Flauto magico,
espressi da Mozart con i violini,
mi viene in mente unicamente
il loro essere in aria. Anzi, il
loro essere aria. Non posso
che tentare in qualche
modo di esprimere attraverso il colore e la forma
queste sensazioni. Ma
a parole non ne sarei capace…
Credo che
l’aggettivo
inafferrabile renda
bene l’idea
di quella
sinestesia
irriducibile ed infinita data
da suono
e for m a ,
canto e colore, movimento
esteriore e
subbuglio
interiore.
Molti
musicisti scelgono
di non parlare mai di musica, se
non liberando i propri suoni ed
ascoltando quelli dei loro colleghi.
Perché le frasi musicali sono pressoché intraducibili.
Temo abbiano ragione…
Mi aggrappo allora al genio di
Salisburgo per tornare sulla terra.
Più precisamente a Bologna, dove
portaste nel 1982 un memorabile Don Giovanni interpretato da
Wolfgang Schöne e diretto da De
Simone. I suoi costumi sono ancora
custoditi e spesso esposti dal Teatro
Comunale
ma so che
quell’opera ricorre
spesso
nei suoi pensieri per la peculiarità
dell’allestimento.
È vero. Porta mmo in scena un Don Giovanni metafisico.
Sfuggimmo alla maniera realistica e
rinunciammo a fantasticare sul concreto. I personaggi di Don Giovanni,
Donna Anna e Donna Elvira erano vicini a dei blocchi concettuali.
Anche nella scenografia cercammo
di eliminare ogni orpello, togliendo
tutte le suppellettili per raggiungere l’essenza delle cose. Forse c’era
una certa incoscienza in noi ma era
un’incoscienza più vicina all’intuito
che al ragionamento.
Tre anni dopo realizzate per il
Teatro alla Scala un imponente ed
imprescindibile Nabucco assieme a
Riccardo Muti, giudicato dalla critica internazionale come uno degli
allestimenti più significativi di ogni
epoca. In questo caso so che lei si
ricorda soprattutto la fatica…
Quel Nabucco rappresentava il
debutto di Riccardo Muti alla Scala.
E per tutti fu sorprendente il fatto
che il Maestro scegliesse De Simone,
Carosi e Nicoletti, perché sino ad
allora non avevamo mai lavorato alla Scala. C’era poi un
numero enorme di costumi
da realizzare, più di cinquecento, che forse possono
essere pochi per un film,
dove sono divisi in giornate, se non in settimane,
ma sono veramente tanti
per un’opera dove tutto si
consuma in meno di tre
ore. Quella chiamata ci
lusingò ma ci rese anche
consapevoli della responsabilità che ognuno di noi
portava. Anche perché il debutto di Muti coincideva con
l’apertura stagionale della Scala,
serata in cui regna un clima difficilmente descrivibile.
Lei ha collaborato con maestri come Daniel Oren, Salvatore
A c c a r d o, C l a u d i o A b b a d o,
Riccardo Chailly, Alain Lombard,
Peter Maag e ovviamente Riccardo
Muti. Fra questi direttori d’orchestra ce n’è uno più sensibile degli
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altri al ruolo dei costumi?
Direi proprio Muti perché non è mai indifferente
all’allestimento. È un artista molto esigente. Esigentissimo
è dire poco. Muti vuole assolutamente conoscere il progetto della regia, vuole vedere le scenografie e i costumi per
tempo. Già questo è moltissimo. Poi, nel corso dell’allestimento, ci possono essere delle critiche e delle richieste
anche impervie ma anche questo fa parte di un costrutto
interessante che impedisce la routine e quindi l’indifferenza. Chi assiste ad un suo spettacolo noterà immediatamente che la musica va perfettamente insieme con tutto il resto
dell’allestimento. Può essere molto duro lavorare assieme
a lui ma è uno degli artisti più straordinari con cui abbia
avuto la fortuna di collaborare.
Vorrei parlare ora di cantanti d’opera. Da Pavarotti
alla Bartoli, da Bruson alla Frittoli lei ha lavorato con
i tutti i nostri maggiori divi della
lirica, la cui risonanza è veramente planetaria. Quest’aura
incide sul loro approccio al
costume?
Credo di esser stata abbastanza fortunata perché
ho avuto dei cantanti
che quasi sempre hanno collaborato. Il costumista deve avere
una grande forza
di carattere perché
alcuni cantanti
faticano a calarsi
nel costume, soprattutto quando
vanno sul palcoscenico e cantano
per la prima volta
con il direttore
e l’orchestra. In
quel frangente
anche le luci ed
i movimenti di
regia vengono dimenticati perché
bisogna andare a
tempo e seguire il
direttore d’orchestra.
Preferisco quindi calare progressivamente
il cantante nel costume,
attutendone l’impatto
per favorire l’appropriarsi di questa
nuova pelle.
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Ci sono cantanti che riescono a collaborare molto, a suggerire delle cose per stare meglio, per stare più comodi senza
negare il costume. Poi ci sono quelli che riversano le loro
insicurezze e i loro sbagli sul costume. Alcuni vorrebbero
indossare il costume del Seicento come se fosse un jeans
di tutti i giorni…
E poi il costume va portato…
Gli artisti che sanno portare il costume non sono molti. Ma sono artisti in tutto. Mi viene in mente Barbara
Frittoli perché è un’artista che sa indossare i costumi,
come anche Cecila Bartoli. Fra gli uomini Alessandro
Corbelli è un vero maestro perché riesce a rendere il costume talmente personale e così vivo, vero. Straordinario.
Per fortuna ci sono le registrazioni dei vostri spettacoli. Per capire allora come si porta un costume, cercherò di ritrovare la Cenerentola di Rossini che portaste
in scena nel 1995. C’erano sia Corbelli che la
Bartoli. Vorrei chiederle ora se il canto e la
respirazione necessitino di accorgimenti particolari.
Il corpo umano, per il cantante, è
la cassa armonica. Lo strumento più
delicato che ci sia. Bisogna dunque
tener conto con grande cura
bozzetti di Odette Nicoletti
per Francesca da Rimini (2003)
delle indicazioni dei cantanti. Le soprano, ad esempio,
abitualmente non vogliono essere molto strette perché la
cassa toracica si deve allargare sulle costole. Ma chi ha
lavorato con la Ricciarelli le avrà dovuto confezionare
un busto pazzesco perché diceva che le sosteneva il diaframma. Bisogna dunque saper ascoltare e capire le loro
esigenze.
Prima di abbandonare la lirica, non posso non
chiederle di Pavarotti. Lei ha disegnato i costumi per
un Trovatore e Un ballo in maschera di grande rilievo.
Dubito però che il tenore modenese potesse essere accomodante verso i costumi di scena…
C’era innanzitutto un problema fisico. Portarsi addosso quel peso comportava una grande fatica. Pavarotti
ambiva dunque a dei costumi leg-
gerissimi, cosa possibile solo se indossi il Novecento. Ma
se fai Un ballo in maschera, come quello che abbiamo fatto
assieme, devi capire che un vestito del Seicento non può
essere ultraleggero. Il secondo problema era dato dalla sua
esigenza di apparire al meglio. Lavorare con lui è stato
faticoso, a volte pesante perché abbiamo anche litigato.
Alla fine, però, è rimasto talmente contento che si è preso
i costumi, li ha chiusi in valigia e se li è portati via.
Speriamo che la Mantovani li restituisca ai teatri.
Vorrei entrare ora nel mondo della prosa, partendo dalla
sua collaborazione con Glauco Mauri. Credo che il vostro
primo lavoro, Philoktet, sia andato in scena al Carcano
nel 1983. Da quella lettura di Heiner Mueller ad oggi,
quanto è cambiato il vostro rapporto professionale?
È una collaborazione preziosissima che nel tempo si è
molto evoluta. Glauco cominciava in quegli
anni a fare il regista. Quindi anche lui
era alla ricerca di un suo linguaggio ma non dimenticava mai la
centralità del rapporto umano e la costruzione di un
pensiero aperto, costruttivo, condiviso. Ho sempre
cercato di lavorare assieme ai registi, agli attori
e ai cantanti. Assieme.
Mai contro. Quando
qualcuno s’imbizzarrisce
glielo ricordo subito. Noi
lavoriamo insieme non contro. Con Glauco si lavora magnificamente e tengo moltissimo
al rapporto umano oltre che allo
scambio creativo.
Quali sono gli spettacoli più
significativi nati da questo scambio
creativo?
In quel primo Philoktet c’erano
delle bellissime scene di Cagli. Fra
i tanti spettacoli successivi non è
semplice scegliere. Mi viene in mente il Re Lear, sicuramente. E anche
un Macbeth che Glauco realizzò
dapprima in prosa a Treviso e poi in
una versione lirica che andò anche a
Napoli. Un’edizione bellissima, devo
dire. Glauco ha portato nella lirica,
nel rispetto di Verdi, la tragedia di
Shakespeare in maniera molto forte,
molto leggibile, come forse mai
nessuno aveva fatto prima.
Soventemente, i
registi
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che affrontano le tragedie del Bardo musicate da Verdi si
dimenticano di Shakespeare. Glauco mai.
Il rispetto filologico, l’attenzione nel giocare con le
epoche e la necessità di costruire un afflato poetico e
politico con i collaboratori sono delle caratteristiche che
accomunano Glauco Mauri con Ettore Scola, il regista
che la portò sul grande schermo. Per affrontare questo capitolo della sua vita, le chiedo quindi di tornare
al dicembre 1984, nei
saloni di Castel
asc incontri: nicole t ti
dell’Ovo…
Scola visitò una mostra monografica sui miei lavori
teatrali che si tenne a Napoli proprio mentre lui girava Maccheroni. Io non ero presente e non mi accorsi di
quest’occasione unica finché lui mi chiamò, dopo qualche mese, per propormi Il viaggio di Capitan Fracassa, un
film a cui lui teneva moltissimo. Ero confusa, emozionata,
lusingatissima. Accettai subito, ovviamente, apprezzando
il coraggio, manifestato da un regista che già ammiravo,
di chiamare una persona come me che non aveva alcuna
esperienza di cinema. Non so però dirle perché mi abbia
chiamato.
Provo a dirlo io. Quel film
innestava delle maschere
napoletane sul romanzo
di Théophile Gautier, di
cui catturava gli aspetti
fantastici, seppur proiettati in un passato
indefinito. Serviva una
gra nde elabora zione,
una profonda cultura dei
materiali e la capacità di
sintetizzare le malinconie e gli istinti burleschi
transalpini con il dolore
e l’estro campano. E
poi c’era un precedente importante. Gatta
Cenerentol a fondeva
Basile e Perrault…
La
ringrazio.
R i m a ngo c omu nque
dell’idea che Scola abbia
dimostrato un grande coraggio nel chiamarmi e nel farmi
sperimentare materiali nuovi che
mi servirono ad aiutare la costruzione di quelle atmosfere così particolari.
In quel film, ad esempio, si capiva quanto
poco Scola amasse il colore. Quando gli presentai la mia idea di fare un popolo livido fu contentissimo del colore non colore che ne usciva fuori. Le luci
poi cambiarono tantissimo la percezione dei costumi,
tanto da farli sembrare in bianco e nero. Scola è un regista molto attento e molto esigente.
Come quella volta che, sul set di Concorrenza sleale,
le chiese una trentina di sposi per l’indomani. Erano le
cinque del pomeriggio?
Erano passate le nove. Scola venne da me dicendomi: “Ce l’hai una trentina di sposi?”. Gli dissi che non
era una richiesta insormontabile, anche se avevo purtroppo intuito il seguito, ovvero la richiesta di una
trentina di spose per l’alba del mattino successivo.
Quando puntualmente me lo chiese, desideravo tirarmi i capelli dalla testa ma volli lasciarlo di stucco
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dicendo che non c’era alcun problema. Salvo ritrovarmi
alla disperata ricerca delle trenta spose nella notte romana.
Una richiesta felliniana nel suo essere così
spropositata…
Ricordo che con la mia assistente facemmo aprire
per tutta la notte una ditta specializzata in abiti da sposa.
Arrivammo a mezzanotte e passammo le prime quattro
ore a rovistare vorticosamente fra i modelli. Alle quattro del mattino iniziammo a preparare le acconciature.
All’alba eravamo già di ritorno sul set. Scola poteva girare.
Rimase ovviamente sorpreso. E sin dal primo momento
mi piaceva l’idea di lasciarlo stupefatto.
Come si è trovata con gli attori di cinema?
Ho avuto un rapporto eccellente con Gassman di cui
ho ammirato la grande umiltà. Mi son trovata bene con
la tranquillità e la professionalità di Giannini. Non ho
riscontrato vezzi divistici nella Muti né in altre interpreti
anche perché Scola non li avrebbe mai consentiti. Ed ho
apprezzato l’intuito sanguigno di Gérard Depardieu. Ci
si innamora del suo grande talento.
I costumisti di cinema ricordano spesso come stiano
“perdendo la testa” degli interpreti a causa delle clausole
contrattuali imposte dagli attori. Succede anche in
teatro?
Nel mondo del teatro, sia quello di prosa che
quello lirico, è ancora il costumista che decide ma è giusto ed opportuno costruire un
discorso generale che coinvolga anche il
truccatore ed il parrucchiere. Ci sono
sempre degli attori e dei cantanti
che fanno dei capricci ma si media. Se poi c’è un regista come
Scola, il problema non si pone.
Mi diceva sempre “non cedere”. E apriva un portone
spalancato.
Provo allora anch’io
ad aprire un portone,
quello interiore che si
affaccia sulla sua città.
Per aprirlo, le chiedo di
parlarmi del suo rapporto con Massimo
Troisi.
Massimo Troisi
era una persona meravigliosa che mi
permetteva di riconciliarmi con
Napoli poiché
ne incarnava i valori
più positivi.
Molte volte
parlavamo in dialetto ed era semplicemente irresistibile.
Che tipo di approccio aveva con il costume?
Si lasciava guidare. Aveva una grande stima per Scola
e forse, di conseguenza, anche per me. Ed era una stima
reciproca, naturalmente. Durante il capitan fracassa, mi
capitava di elogiare spesso gli attori francesi per la loro
professionalità. Si lasciavano vestire con la massima tranquillità ed a volte portavano cose molto pesanti. Un giorno, entrando nel suo camerino, trovai Troisi sulla poltrona,
mezzo spogliato e con le braccia aperte. Gli chiesi “Che
fai?”. Mi rispose “Voje fa’ cumme gli attori francesi. Voje
esse’ vestito pur’io…”.
Sagacia e dolcezza…
Troisi era splendido, veramente.
Il suo rapporto con Napoli è decisamente più conflittuale ma non meno affascinante. Nel 2007, in un’intervista su Repubblica, ha dichiarato: “Napoli è il mio
midollo, me la porto dentro e provo una specie di gioia
quando ci torno, anche se a volte mi fa un po’ paura”;
“so per certo che Napoli risorgerà, ma
temo che non sarò io a vedere quel
giorno”; “Ci sono due città, differenti e lontane, una sull’altra,
una dentro l’altra, è un enigma e uno sgomento”. È così?
È così. Scola dice che i
napoletani o sono dei geni o
sono pessimi. Non c’è una via
di mezzo. Forse ha ragione. Io
amo la mia città. Non riesco
a viverci e non riesco a tenerla distante da me. È una città
che ti accoglie, ti abbraccia
e ti respinge al tempo stesso.
Ed è una città dall’abbraccio
tremendo perché vieni rapita
da un unico sentimento in
cui convivono la simpatia,
l’aggressività, la maleducazione e la tenerezza.
Rispetto ad altre città vi
puoi comunque trovare,
ma solo in alcuni ceti napoletani, quelli più veri
e popolareschi, un’apertura alla generosità che
la borghesia ha del tutto
smarrito.
nella pagina precedente:
il costume di Papageno
interpretato da Odette
Nicoletti (Il flauto
magico, Teatro Alla Scala, 1995)
a fianco: Irene Papas in un
costume creato da Odette
Nicoletti (Stabat Mater,
Teatro San Carlo, 1996)
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asc incontri: nicole t ti
asc incontri: nicole t ti
odette ed io
È
diff icile per me
parlare di Odette
Nicoletti come costumista, perché
devo scindere la
mia esperienza personale con l’amica
Odette dalla notissima artista del
costume. Se rifletto poi sul fatto che
la nostra conoscenza oramai
ventennale è sempre stata costante e che sin
dall’inizio essa
è nata e cresciuta
sotto una buona stella, scelgo, per
parlare di lei, di raccontarvi di noi.
Questo per dirvi quanto Odette
Nicoletti abbia significato nella mia
carriera di giovane costumista e di
come la nostra relazione d’amicizia
abbia impreziosito ed arricchito la
mia vita.
Conobbi artisticamente Odette
negli anni Ottanta quando studiavo all’Istituto d’Arte di Napoli. La
scuola d’arte era nella Piazza del
Plebiscito, la stessa del Teatro di San
Carlo dove la Nicoletti era frequente
ospite nei leggendari spettacoli diretti da Roberto De
Simone.
rare aiutando i costumisti ospiti
ad allestire
gli spettacoli. Odette
arrivava in
te at ro c on
due assistenti
e alcune volontarie. Una squadra
affiatatissima che,
dopo aver messo in
riga la sartoria con richieste di una precisione ineccepibile,
sapeva portare gli spettacoli in scena
con una qualità elevatissima. Ricordo ancora
l’emozione procurata da quel primo incontro ed
il suo sguardo intenerito quando le sottoposi i miei disegni. Negli anni ho
incontrato e lavorato con grandi
costumisti, tutti molto bravi
e professionali, ma credo
di mariano tufano
Allora ero poco più che quindicenne e quando tornavo da scuola
mi fermavo sotto le finestre laterali
del quarto piano, quelle della sartoria, che lasciavano intravedere dei
costumi meravigliosi. Mi sembravano irraggiungibili ma mi piaceva
fermarmi a sognare.
L’incontro col mondo di Odette
Nicoletti avvenne nel 1984. Castel
dell’Ovo ospitava una sua mostra
personale che si articolava attraverso
i suoi più importanti lavori teatrali.
R icordo benissimo quel
dicembre di
venticinque
anni fa, la
mia euforia
nel ve de re il suo
lavoro, le
lunghe e
nella pagina precedente:
servi e orchestrina di Don
Giovanni (Il convitato di pietra,
Teatro San Carlo, 1994)
in questa pagina: danzatori di
guerra ed Egisto (Agamennone,
Teatro greco di Siracusa, 1994)
ripetute visite a quella stessa esposizione.
Quell’evento significò per me qualcosa
di straordinario: io che venivo da una
famiglia borghese di commercianti,
avulsa dal teatro, venni a contatto
col mondo del costume e con la professione del costumista di cui non
conoscevo neanche l’esistenza.
Non solo. Non sapevo nemmeno che di quella professione si
potesse fare una così alta forma espressiva. Questo evento
cambiò radicalmente la mia
pianificazione del futuro,
nel senso che da allora non
volli fare altro che impegnarmi con tutte le mie
energie per intraprendere
lo stesso cammino.
L’incontro vero con
Odette avvenne solo
nel 1994, in occasione
di Un ballo in maschera diretto da Alberto
Fassini che inaugurava la stagione del
San Carlo, dove
avevo iniziato
a collabo-
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asc incontri: nicole t ti
asc incontri: nicole t ti
stente è sempre stata entusiasmante
perché ho avuto la sensazione di
avere con lei un rapporto speciale.
Un’affinità elettiva che ci consentiva
di vivere qualsiasi difficoltà come
un momento di sfida e di crescita.
Da sempre Odette è stata un’amica
presente, piacevole, arguta e saggia.
Ha sempre seguito con attenzione e
curiosità le vicende della mia vita e
del mio lavoro, partecipandovi con
affetto. Fu lei la prima che chiamai
quando Crialese mi affidò il disegno
dei costumi di Nuovomondo ed a
lei chiesi di premiarmi quando per
che nel panorama teatrale degli ultimi trentacinque anni nessuno abbia mai fatto delle progettazioni come quelle di Odette
Nicoletti. I suoi bozzetti sono delle opere d’arte in cui la precisione dei dettagli ed il senso della materia e dei volumi sono
chiarissimi. E non vi è solo il dato pittorico che racconta il
gusto e la chiave di lettura interpretativa di un’opera teatrale ma risalta una precisione scientifica della progettazione
che è degna di essere chiamata tale. Ricordo poi una
collaborazione più stretta quando curai la realizzazione
di una parte dei costumi dell’Opera buffa del giovedì
santo diretta da De Simone.
In quell’occasione Odette arrivò per tingere di
persona, e meravigliosamente, parte dei costumi.
Qualche anno dopo accadde una cosa curiosa.
Ero a Londra con Maurizio Millenotti per girare L’ importanza di chiamarsi Ernesto e dovevo recarmi da un armaiolo nella campagna inglese per riparare un elmo che serviva all’attore Rupert Everett.
Il viaggio fu molto lungo ed il posto mi sembrò
in capo al mondo ma entrando nell’officina trovai
sul tavolo dei bozzetti dal tratto familiare. Seppur
a migliaia di chilometri da Roma e dall’Italia, io e
Odette ci eravamo rincontrati perché quei bozzetti
erano suoi.
Per un ulteriore e strano caso del destino, fui chiamato qualche mese dopo proprio per lavorare all’allestimento dell’opera tratta da quei bozzetti: era il Trovatore
di Verdi per l’Opera di Roma. Subito dopo Odette mi
affidò il riallestimento di Un ballo in maschera alla
Fenice di Venezia e in seguito di collaborare
alla realizzazione dei costumi dell’Osteria
di Marechiaro di Paisiello, che andò in
scena al teatro San Carlo di Napoli con
la regia di Roberto De Simone.
La mia esperienza come suo assi-
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quello stesso film ricevetti la Chioma
di Berenice come migliore costumista nel 2007.
Odette rappresenta per me una
personalità unica nel panorama internazionale del costume e credo che
il mondo del teatro rimarrà forte
della sua inconfondibile impronta
per sempre.
Fortunata e talentuosa, Odette si
è affiancata negli anni ai più grandi
registi di teatro e di cinema italiano.
Penso subito alle sue creazioni indimenticabili ed eterne per Il viaggio
di Capitan Fracassa di Ettore Scola e
per la Gatta Cenerentola di Roberto
De Simone.
Esigente, precisissima, creativa e
generosa, sul lavoro Odette è sempre
instancabile ed alla ricerca della soluzione migliore per ottenere il miglior
risultato. Non importa quanta energia necessiti.
In un mondo come il nostro,
dove sembra che tutto debba essere
preparato velocemente, il suo motto
è sempre stato: presto e bene, non
vanno mai d’accordo.
A guardare i suoi costumi,
Odette deve avere proprio ragione.
nella pagina precedente, dall’alto: Daniela Dessì in un costume di Odette Nicoletti
per Suor Angelica (2002). Costume per Carlo Guelfi ne Il tabarro (2002).
in questa pagina: caratterizzazioni per Il viaggio di Capitan Fracassa (1989).
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