Gruppo Medaglie
d’Oro al Valor
Militare d’Italia
Prefettura
di
Viterbo
ANNO III, NUMERO
31-32-33-34-35
OTT-NOV-DIC-GENNFEB. 2011/2012
SUPPL. MENS.
DE “LA CITTÀ” N. 7
Centro Studi
culturali e di
Storia Patria
Museo Storico
Arma dei
Carabinieri
Consolato Generale
Repubblica
di San Marino in
San Paolo del Brasile
Museo Nazionale
Garibaldino
di Mentana
STORIA,
ARTE,
CULTURA…
DEL
14 MARZO 2012
ISCR. TRIBUNALE
DI VITERBO
DEL 19.02.1992 N. 381
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STORIA, ARTE, CULTURA...
LA QUESTIONE DEL TRENTINO (I)
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STORIA, ARTE, CULTURA...
I
Che la terra, la quale diede alle scienze e alle
lettere italiane Giovarmi Battista Borsieri, Girolamo Tartarotti, Carlantonio Pilati, Gregorìo
Fontana. Antonio Rosmini, e alle arti italiane
Alessandro Vittoria e Francesco Guardi, per tacere d'altri assai, morti e viventi, uomini di fama
chiara e meritata, che tale terra sia terra italiana,
non vorrà, spe-riamo, rivocarlo in dubbio nessun Italiano che conosca ed apprezzi le glorie
della sua patria; come in sostanza non lo negano
neppure quelli stranieri, ai quali metterebbe conio che cosi non fosse.
Scorrete le valli del Trentino, salitene le montagne, visitate tutta in lungo e in largo la provincia, che sopra una superficie di 6300 chilometri
quadrati conta oggi una po-polazione di circa
350,000 anime, e non vi si affaccerà che una
sola lingua, la lingua italiana ; modificata in un
ver-nacolo, che tiene più del veneto a’ confini
veneti e del lom-bardo a' lombardi, senza maggiore mistura d'elementi stranieri di quanta se ne
incontri universalmente ne’ dialetti dell'alta Italia. Italiano, ed anzi italianissimo il tipo, o, diremo meglio, le linee fisionomiche degli abitatori:
italiani i costumi, le arti, le usanze, le tradizioni
le aspirazioni, i canti, le leg-gende, gli affetti. I
fiumi che si svolgono dai monti del Trentino, o
ne percorrono le valli, l'Adige, il Brenta, il Sarca (poi Mincìo), il Chiese ed altri, fiumi italiani : italiana la coltura del suolo e la vegetazione
sino agli ulivi ed agli agrumi che ne rallegrano
le estremità meridionali ; italiane per ultimo le
pratiche religiose, le consuetudini o gli ordini
comunali, le relazioni e le corrispondenze amichevoli, scien-tifiche, commerciali, e quanto
costituisce l'impronto o il carattere nazionale
d'una provincia.
Aprite la carta geografica annessa a questo opuscolo, e poi dite, se quel brano di paese che
prende il nome da Trento, e che tra il Veneto e il
Lombardo si stende in for-ma di cono fin quasi
nel centro dell’alta Italia, per la sua posizione
topografica, e, se volete anche, per i nomi che vi
portano le città, i villaggi, le valli, i monti, le
acque, sia o possa essere altra cosa che una parte d'Italia. E non di-menticate di osservare, che
la lombarda Valtellina da una parte, e la veneta
Carnia dall'altra, spingono a settentrione le loro
montagne e le loro valli, indubitatamente italiawww.storiaartecultura.it
ne, a un grado di latitudine più avanzalo incontro a Germania che non il Trentino.
Che se all'evidenza de' fatti potesse crescere forza la te-stimonianza degli nomini, non ci sarebbe difficile citare a centinaia i geografi, gli statisti, gli storici dalia più remota antichità ai giorni
nostri, che sempre, unanimamente, considerarono e trattarono il Trentino come paese
italiano; anzi non ci sarebbe neppure difficile
documentare, come in passato, nel giudizio dei
più, il confine d'Italia si facesse cadere molto al
di là delle montagne che chiudono le valli italiane di Trento, e fino alla gran catena del Brennero.
Italiana la nazionalità, che diremo etnologica
del Trentino, e italiana pure la politica ed istorica.
Onde procedessero e quali fossero i primi abitatori delle alpi trentine, è domanda dalle indagini
scientifiche non an-cora soddisfatta. Certo è che
le viscere della terra vi met-tono frequentemente
in luce avanzi di antichissima civiltà etrusca; se
etrusca può dirsi quella civiltà, che avanti l'èra
romana sembra essere stata comune a tutte le
popolazioni della penisola.
La storia di Trento e del suo territorio comincia
dal se-colo d'Augusto, allorché i figliastri di lui
Druso e Tiberio
lo conquistarono all'impero, o, come ancora dicevasi, alla repubblica di Roma. Venne aggregato alla decima regione italica, e ascritto alla tribù Papiria o alla Papia: innalzata la città all'importanza di Colonia romana.
In appresso il Trentino formò parte del regno de'
Goti (a, 476-557) (1), poi di quello de' Longobardi (a, 569-773), dorante il quale ultimo reggimento la nostra città fu sede di ano dei trentasei duchi, fra cui venne diviso il territorio del
reame, e non certo del meno potente tra loro (2).
Rovesciato dalla spada di Carlo Magno il trono
de’ Lon-gobardi (a. 774), sotto il domìnio de're
ed imperatori fran-chi, italiani e germani, Trento
formò costantemente parti del regno d'Italia come ducato, marchesato, o contea di confine governata da duchi, marchesi o conti, ai quali sembra che i re la accordassero a titolo di beneficio,
ossia feudo rivocabile ad arbitrio del concedente.
Nei 1027 Corrado II, il Salico, in virtù di diploma, actum feliciter Brixia pridie kalendas jupagina 4 - n. 31-32-33-34-35 2011/12
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nia», lo raffermò in Udalrico vescovo e suoi
successori in perpetuo, i quali lo ten-nero con
titolo, prima di duchi o marchesi, poi dì principi.
Tale origine ebbe il principato ecclesiastico di
Trento,
il quale da Udalrico, primo concessionario, fino
a Pietro Vigilìo dei Thun o Tono, ultimo principe vescovo (a. 1802) durò quasi otto secoli ; se
non sempre di fatto, sempre al-meno dì diritto,
autonomo ed indipendente.
(1)In una lettera di Cassiodoro, ministro di re Teodorico,
si parla dì fortificazioni da costruirsi nella città o nel contado di Trento,
(2)
Vedi Paolo Diacono» Lib. IV, cap. 1 e 2 e Denina, Riv d'Italia, Lib. VII, cap. 4.
II
Da questi rapidissimi cenni i lettori hanno raccolto, come il Trentino, provincia italiana, abbia
anche storicamente e politicamente diviso in
addietro e fino al principio di que-sto secolo le
sorti d'Italia.
Né si adduca in contrario il vincolo di vassallaggio che legava i Signori di Trento all'Impero;
avvegnaché nel suo vero concetto l'Impero, mirabile congegno di forza barbara e di astuzia
sacerdotale, non fosse autorità o dominio straniero all'Italia, sì italiano, che da Italia, o vuoi
da Roma, ebbe vita, nome e consacrazione.
L’Impero non subordi-nava l'Italia a Francia o a
Germania, né viceversa: ma coor-dinava le nazioni a lei soggette sotto una corona, portata il
più spesso dal re franco o tedesco, passata qualche volta sul capo di principi italiani, e in ogni
caso largita, e bene-detta dal solo Pontefice di
Roma.
Se la qualità di feudo imperiale avesse potuto
ferire o alterare la nazionalità storica e politica
del Trentino, avrebbe ferita ed alterata quella di
tutta Italia, che tutta, ove più ove meno direttamente, quando più quando meno fedel-mente,
riconobbe ed ossequiò per più secoli la sovrana
au-torità dell'imperatore. E come no, se era imperatore Romano?
Ed anche negli ultimi tempi, abbenchè l'Impero
romano non fosse più per l'Italia che un fantasma di potere, pa-recchi principi italiani non si
peritarono di far cresimare i loro titoli da quella
vana ombra dell'antica sovranità, chia-mandosi
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Vicari imperiali, o Principi del sacro ramano
Impero, senza neppur sospettare, che tale atto
potesse influire a scapito della nazionalità politica dei loro Stati.
Del resto i principi-vescovi di Trento si eleggevano dal Capitolo e confermavano dal Pontefice: e i regolamenti municipali, tanto per quello
che riguarda gli statuti o le leggi» quanto per ciò
che spetta alle magistrature, ritraevano
in sé compiutamente gli ordini de’ liberi comuni
lombardi; ed anzi sopravvissero in Trento alla
caduta delle italiane
libertà.
Prima che un diploma di Federico Barbarossa
dell'anno 1182 rialzasse in Trento il potere de'
vescovi suoi fedeli, convien ritenere, che la città
godesse di tutte quasi le prerogativa e franchigie
di libero comune italiano.
E se non pare verosimile .che, posta, com'è,
a'confini di Germania, e rattenuta allora da vescovi di fede ghibel-lina, abbia potuto associarsi
alla Lega lombarda, come qualche suo storico
opinò, è per lo manco indubitato , che il suo nome non si legge tra quelli delle città aderenti al
Barbarossa, e che allora, e sempre poi, il comune trentino si mostrò alieno dalle parti imperiali.
Non basta; fra le città italiane Trento fu prima
ad insorgere contro la tirannide di Ezzelino da
Romano, che, come Vicario dell'imperatore, s'era intruso nel possesso del principato ; prima a
scuotere il giogo di quella abborrita signoria.
Frequenti poi le leghe offensive e difensive del
comune di Trento con altri comuni dell'alta Italia; con Verona, Pa-dova, Vicenza, Treviso,
Mantova, Ferrara, ecc, (I); bat-tuta la moneta
trentina (anno 1150-1350) colle norme del sistema italiano, ed accettata nelle altre piazze d'Italia (2); per ultimo chiamati d'Italia i vicarj o podestà, che d'anno in anno sedevano giudici civili
e criminali nella Pretura di Trento; dei quali un
lungo catalogo pubblicò il conte Pom-peo Litta
dall'anno 1159 al 1803 (3).
(I) Vedi T. Gar, Episodio Medio evo trentino. Trento,
1856.
(2) Brunaccio), De re nummarìa patavina, cap. 7. f. 59,
— Statuto dì Brescìa del 1257.
(3)
Ci è grato ricordare fra gli ultimi podestà di Trento
Gian Domenico Romagnosi, che vi sedette l’anno
1791, Uscito di carica, fece la no-stra città suo
soggiorno di elezione, e vi passò parecchi anni. In
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Trento scoperse e pubblicò colle stampe i fenomeni fondamentali dell' elettro- magnetismo.
Tra le altre città dei territorio trentino, Rovereto
dal 1417 al 1507 appartenne alta repubblica venata; Riva dal 1349 al 1385 fu degli Scaligeri;
dal 1388 al 1401, poi dal 1421 al 1425 soggiacque al dominio dei Visconti; final-mente dal
1442 al 1508 fu veneta.
III
Per discendere dalle antiche alle ultime vicende
del Trentino, è mestieri avvertire, che già nel
secolo decimoterzo i Conti del Tirolo, signori
dell'altipiano delle alpi sovrastante al territorio
dì Trento, fedeli alte tradizioni ed agli istinti
germanici, fecero ogni possa per allargarsi a
mezzogiorno, invadendo ripetutamente le nostre
valli ; senonchè l'intro-missione degli imperatori
e dei papi, e l'ostacolo gravissimo della diversa
nazionalità, mandarono a vuoto i loro tentativi;
ond’eglino dovettero accontentarsi del modesto
titolo di Avvocati della chiesa di Trento; relazione politica non infre-quente a que' tempi, e
che importava, non dominio, ma tutela del più
forte a sicurezza del più debole, e special-mente
poi dei principi ecclesiastici.
A questa qualità andavano naturalmente connessi doveri e diritti: è però facile indovinare, che,
da chi ha in mano la forza, i doveri fossero il più
delle volte o sconosciuti o dimenticati, e propugnati in vece ed ampliati i diritti. E in fatti allorché la contea del Tirolo passò per eredità a Casa
d'Austria (a. 1370), e quando negli arciduchi di
Casa d'Austria si raffermò l'impero romanogermanico, il potere sovrano de’ principivescovi trentini, e nello interno dello Stato, e
molto più nelle esterne relazioni, ne fu assai
scosso o menomato.
Nel 1796, allo avvicinarsi delle armi francesi,
l'ultimo principe-vescovo Pietro Vigilio abbandonò la sua sede, ri-traendosi a Passavia; e
Francesco II imperatore e conte del Tirolo, come avvocato della chiesa di Trento, approfittò di
quella foga per far occupare dalle sue armi la
provincia, ed instituirvì una reggenza provisoria
col tìtolo di Consiglio amministrativo » che prese a governare in nome di Sua Maestà. Morto
nel marzo del 1801 il vescovo Pietro Vigilio,
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sottentrò per poco alla reggenza imperiale
l’amministrazione capitolare, finché la convenzione di Parigi 26 dicembre 1802 (1) tra Francia, Austria e Russia, stipulata in seguito alla
pace di Luneville, definì, che il principato di
Trento e quello di Bressanone fossero secolarizzati e devoluti allo Impero austriaco in compenso delta Brisgovia e dell'Ortenau, terre della
Svevia, cedute in quell'occasione dall'Austria al
duca di Modena.
Così ebbe compimento un antico roto della casa
d'Asburgo; cosi il Trentino di picciolo stato indipendente di-venne suo suddito; né si tardò
punto a coronare l'opera apparecchiata da tanti
secoli, stringendolo ed unificandolo amministrativamente sotto un solo Governo colla contea
principesca del Tirolo.
Tuttavia gli atti politici ed internazionali d'allora
non sogliono comprendere in una sola denominazione le due provincie, ma hanno cura dì distinguerle coi rispettivi loro nomi : mentre da
quel punto il monarca austriaco aggiunse agli
altri suoi titoli quello dì Principe di Trento.
Il Trentino, cosi annesso al Tirolo, passò nel
1806 a formar parte del regno di Baviera: poi in
virtù della pace di Schónbrun (14 ottobre 1809)
Napoleone I, staccatolo da Baviera, lo restituì
ad Italia, come Dipartimento dell'alto Adige (2).
(1) Neumann Leopold, Rcueil des Traités, ecc* Tom. II,
pag. 25, N. 130.
- Martens, Recueil des principaux traitès, ecc. Supp.
Tom. III, pag. 219, N. 556.
(2) Vedi il trattato speciale tra le due potenze, sottoscritto
il 28
febbrajo 1810. Martens, Supp, Tom. V. Nou. Rec. Tom. I,
pag. 251.
Windfcoff, Tom. XV, Fas. 44, pag 317. – Neumann,
Tom. II, pag, 322, N. 196.
Sventuratamente, quattro anni dopo, la gloriosa
stella del primo Bonaparte volgeva al tramonto;
e il territorio tren-tino, rioccupato in sullo scorcio del 1813 da impeto di armi austriache, fu
coll'assenso di posteriori trattati ripreso dall'Austria e dannato nuovamente al consorzio di provincia straniera.
(Segue nel prossimo numero)
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Trento: Inaugurazione del monumento a Dante Alighieri di C. Zocchi , 11 ottobre 1896
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Trento: il monumento a Dante Alighieri di C. Zocchi
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TRATTO DA “IL RUMORE DEL SILENZIO” DEL COMITATO
TUTTA UN’ALTRA STORIA.
Movimento per l’Identità Nazionale.
Foibe, campi di sterminio, fosse comuni, tombe
senza nomi e senza fiori dove regna il silenzio
dei vivi ed il silenzio dei morti.
Migliaia di scomparsi… dalla storia che attendono giustizia e verità. Scomparvero dalle loro
case, dall’affetto dei loro cari, dalla loro terra,
dalla Patria che tutti amavano al di là delle loro
ideologie politiche.
Insieme vittime di un disegno criminale basato
sull’odio etnico degli slavi e sull’ideologia marxista-leninista che saldarono il IX Corpus e le
armate titine in un’unica fratellanza con i collaborazionisti italiani, rei di essersi macchiati del
sangue dei fratelli, sacrificati sull’altare di un
sogno utopistico di internazionalismo emancipatore dei popoli.
MOMENTI DI UNA TRAGEDIA
La storia non è solo lo studio di date, di fenomeni, di battaglie, di interpretazioni, ma la visione di quell’eterno mosaico composto da milioni di tasselli che parlano di uomini e di donne
con i loro dolori, le loro tragedie, i loro sogni, i
loro affetti.
E’ per questo che i flash che accendiamo nel
buio della galleria scura dell’ipocrisia e del silenzio creata in più di cinquant’anni di falsa storia vi sembreranno scarni, crudi, duri, ma vogliono ricondurre l’interpretazione della stessa
lettura della vita, dei drammi e delle tragedie di
migliaia di Italiani.
Italiani.
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NORMA COSSETTO
… Norma Cossetto era una splendida ragazza
di 24 anni di S. Domenico di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l’Università di
Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i
comuni dell’Istria per preparare il materiale per
la tesi di laurea che aveva per titolo “L’Istria
rossa” (terra rossa per la bauxite).
Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i
letti per spaventare le persone.
Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne
condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri
di Visignano dove i Capibanda si divertirono a
tormentarla, promettendole libertà e mansioni
direttive, se avesse accettato di collaborare e di
aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la
rinchiusero nella ex caserma della Guardia di
Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici tra i quali Eugenio Cossetto,
Antonio Posar, Antonio Ferrarin, Ada Riosa vedova Mechis in Sciortino, Maria Valenti, Umberto Zotter ed altri, tutti di S. Domenico, Castellier, Ghedda, Villanova e Parenzo. Dopo una
sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti
durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo
vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune
corde, venne violentata da diciassette aguzzini,
ubriachi ed esaltati, quindi gettata nuda nella
Foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli Istriani. Una signora di Antignana
che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera appena buio,osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide
la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere per
pietà…
…Il 13 ottobre 1943 a S. Domenico ritornarono
i tedeschi i quali su richiesta di Licia, sorella di
Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i Vigili del Fuoco di
Pola, al comando del maresciallo Harzarich, recuperarono la salma: era caduta supina, nuda,
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con le braccia legate
con il filo di ferro, sul
cumulo di altri cadaveri aggrovigliati; aveva
ambedue i seni pugnalati ed altre parti del
corpo sfregiate. Emanuele Cossetto che identificò la nipote Norma, riconobbe sul suo
corpo varie ferite
d’arma da taglio; altrettanto riscontrò sui
cadaveri degli altri.
Norma aveva le mani
legate in avanti, mentre
le altre vittime erano
state legate dietro. Da
prigionieri partigiani
presi in seguito da militari italiani istriani, si
seppe che Norma, durante la prigionia venne violentata da molti.
Un’altra deposizione
aggiunge i seguenti particolari “Cossetto Norma, rinchiusa da partigiani nella ex caserma dei
Carabinieri d’Antignana, fu fissata ad un tavolo
con legature alle mani e ai piedi e violentata per
tutta la notte da diciassette aguzzini, Venne poi
gettata nella Foiba.
… La salma di Norma fu composta nella piccola
cappella mortuaria del cimitero di Castellerier.
Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l’ultima notte della
loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore
acre della decomposizione di quel corpo che
essi avevano seviziato sessantasette giorni prima, nell’attesa angosciosa della morte certa. Soli, con la loro vittima, con il peso enorme dei
loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero
con gli altri, fucilati a colpi di mitra…”.
agenti ed una trentina
di civili ivi rinchiusi, e
quindi, trasportati assieme ad altri venticinque civili nell’isola di
Ugliano. Dopo che i
partigiani accompagnatori hanno consumato il
pasto e bevuto abbastanza, invitano i primi
venticinque a lasciare i
loro abiti e rimanere
solo con le scarpe, pantaloni e camicia. Dopo
tale operazione sono
avviati lungo un sentiero terminante in un precipizio a picco sul mare
e qui massacrati come
cani. I cadaveri finiscono nel burrone lì vicino.
Liquidati i primi, i partigiani tornano indietro
per eseguire la stessa
operazione con gli altri.
Difatti anche questi vengono invitati a togliersi i
vestiti e a rimanere solo con gli stessi indumenti
dei primi; inoltre, raccolti tutti i documenti ed
ogni carta tenuta dagli agenti, si procede alla
loro distruzione con il fuoco…” (doc. 12 Ministero Esteri)
FIUME
“…avvennero arresti di antifascisti e fascisti,
purché italiani. Per non fare lunghi elenchi di
nomi voglio notare alcuni tra quelli completamente fuori da ogni movimento fascista.
L’architetto Pagan, il quale, pur essendo dissenziente al movimento fascista, fu arrestato il giorno 3 di maggio. Fu arrestata pure la moglie di
un ufficiale della Marina Italiana, combattente a
fianco degli Alleati, nata Sennis. In seguito venne arrestata anche sua madre, la direttrice didattica Sennis. Altra persona arrestata fu Riccardo
Bellandi, amatissimo per il suo buon cuore da
tutti i fiumani…”.
ZARA
“…Nelle giornate del 7 e 8 novembre 1944
( Zara cadde in mano ai partigiani titini il 30 SPALATO
ottobre 1944) furono fatti uscire dai sotterranei “… Le nefaste giornate vissute dagli italiani di
della caserma "Vittorio Veneto" una ventina di Spalato durante la temporanea occupazione delwww.storiaartecultura.it
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fetto Lugher, che da Zara si recava a Spalato,
sono stati anch’essi barbaramente assassinati.
Numerosi sono gli italiani i quali prima di essere uccisi hanno dovuto sottostare a crudeltà inaudite. A taluni sono stati strappati con delle
tenaglie roventi gli orecchi, altri racchiusi in
gabbie di ferro, sono stati esposti al ludibrio della plebaglia. A stroncare tale scempio sono sopraggiunte le truppe tedesche, che sono state
costrette a combattere aspramente prima di aver
ragione degli slavi che si erano asserragliati a
Salona, la quale -data la violenza della lotta- è
stata completamente distrutta…”
le bande Serbo-comuniste resteranno dolorosamente scolpite nella mente di quanti hanno avuto la triste sorte di esserne testimoni oculari. Integerrime figure di patrioti italiani vennero barbaramente seviziate ed uccise.
Oltre quattrocentocinquanta furono le vittime
cadute nell’eccidio compiuto dai banditi contro
cittadini che altra colpa non avevano se quella
di essere italiani. Le doloranti notizie che giungono dalla terra di Dalmazia sono quanto mai
angosciose.. oltre all’eccidio dei maestri delle
scuole di Spalato e di altri paesi dell’interno della Dalmazia, risultano uccisi il conte Silvio de
Micheli Pitturi e l’avvocato Matteo Mirossevich, commissari comunali alla Castella, nonché
il fiduciario del fascio di Castel San Giorgio
Mario Valich, gli squadristi Vincenzo Bilinich,
Ben Radovnicovich, Antonio Bluk, Simeone Signanovich, Antonio Bonacci, Stefano Zocchich, tale Craglich, i fratelli Vittorio e Michele
Fiorentino e tanti altri. Pure sotto il piombo della furia omicida degli slavi, sono caduti vari
commissari di Pubblica Sicurezza, assieme ad
un ottantina di agenti.
Tra gli scomparsi figura anche il dottor Popov,
il dottor Maiano, il dottor Castellini e il dottor
Sorge. A Lissa è stato ucciso lo squadrista Petrossich, Giuseppe Trizch e la figlia del viceprewww.storiaartecultura.it
LA FOIBA DOVEVA ESSERE LA SUA
TOMBA
Riuscì a sopravvivere Giovanni Radeticchio di
Sisano
Ecco il suo racconto:
“…addì 2 maggio 1945, Giulio Premate accompagnato da altri quattro armati venne a prelevarmi a casa mia con un camioncino sul quale erano già i tre fratelli Alessandro, Francesco e Giuseppe Frezza nonché Giuseppe Benci. Giungemmo stanchi ed affamati a Pozzo littorio dove
ci aspettava una mostruosa accoglienza; piegati
e con la testa all’ingiù fecero correre contro il
muro Borsi, Cossi e Ferrarin.
Caduti a terra dallo stordimento vennero presi a
calci in tutte le parti del corpo finché rinvennero
e poi ripetevano il macabro spettacolo, Chiamati
dalla prigionia al comando, venivano picchiati
da ragazzi armati di pezzi di legno. Alla sera,
prima di proseguire per Fianona, dopo trenta ore
di digiuno, ci diedero un piatto di minestra con
pasta nera non condita. Anche questo tratto di
strada a piedi e per giunta legati con del filo di
ferro ai polsi a due a due, così stretti da farci
gonfiare le mani ed urlare dai dolori. Non ci picchiavano perché era buio. Ad un certo momento
della notte vennero a prelevarci uno ad uno per
portarci nella camera delle torture. Ero l’ultimo
ad essere martoriato: udivo i colpi che davano ai
miei compagni di sventura e le urla di strazio di
questi ultimi.
Venne il mio turno: mi spogliarono, rinforzarono la legatura ai polsi, e poi, giù botte da orbi.
Cinque manigoldi contro di me, inerme e legato,
fra questi una femmina. Uno mi dava pedate, un
secondo mi picchiava col filo di ferro attorcipagina 11 - n. 31-32-33-34-35 2011/12
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gliato, un terzo con un pezzo di legno, un quarto
con pugni, la femmina mi picchiava con una
cinghia di cuoio. Prima dell’alba mi legarono
con le mani dietro la schiena ed in fila indiana,
assieme a Carlo Radolovich di Marzana, Natale
Mazzucca da Pinesi (Marzana), felice Cossi da
Sisano, Graziano Udovisi da Pola, Giuseppe
Sabatti da Visinada, mi condussero fino
all’imboccatura della Foiba. Per strada ci picchiavano col calcio e con la canna del moschetto. Arrivati al posto del supplizio ci levarono
quanto loro sembrava ancora utile. A me levarono le calze (le scarpe me le avevano già prese
un paio di giorni prima) il fazzoletto e la cinghia
dei pantaloni. Mi appesero un grosso sasso, del
peso di circa dieci chilogrammi, per mezzo di
filo di ferro ai polsi già legati con altro filo di
ferro e mi costrinsero ad andare da solo dietro
Udovisi, già sceso nella foiba. Dopo qualche
istante mi spararono qualche colpo di moschetto. Dio volle che colpissero il filo di ferro che
fece cadere il sasso. Così caddi illeso nell’acqua
della foiba. Nuotando, con le mani legate dietro
la schiena, ho potuto arenarmi. Intanto continuavano a cadere gli altri miei compagni e dietro ad
ognuno sparavano colpi di mitra.
Dopo l’ultima vittima, gettarono una bomba a
mano per finirci tutti. Costernato dal dolore non
reggevo più. Sono riuscito a rompere il filo di
ferro che mi serrava i polsi, straziando contemporaneamente le mie carni, poiché i polsi cedettero prima del filo di ferro. Rimasi così nella
Foiba per un paio d’ore. Poi, col favore della
notte, uscii da quella che doveva essere la mia
tomba.
infoibati, recuperati nel dopoguerra R. Nicolini
e U. Villasanta, sotto l’egida dell’Istituto legale
e delle Assicurazioni dell’Università di Pisa.
Direttore F. Domenici)
“… La causa mortis può essere stata:
1.
Proiettili d’arma da fuoco, di solito
sparati al cranio;
2. Precipitazione dall’alto con gli effetti
che ne derivano: fratture multiple,
commozione, shock traumatico grave,
embolia, ecc.
3.
Trauma da corpo contundente
(bastone, calcio di fucile, bottiglie, eec.) o acuminato con conseguente fratture;
4.
Questi diversi momenti variamente
combinati, sia come cause sovrapposte, sia come concorrenti.
L’effetto, cioè la morte, non deve essere stato
necessariamente immediato: è ammissibile anche che, nonostante ferite e traumi, la morte sia
avvenuta a distanza di tempo o per sete o per
fame…”.
CAUSA DI MORTE NELLE FOIBE
(Studio medico-legale eseguito su centoventuno
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LENDINARA (RO): 150 ANNI D’UNITÀ D’ITALIA
I
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DALLA RIVISTA MARITTIMA - GENNAIO 2012
Nell’anno 2012 cadrà il settimo centenario della
scoperta delle Isole Canarie da parte del navigatore italiano Lanzarotto Malocello.
Storici e cattedratici di tutto il mondo concordemente ritengono che l’impresa del Malocello sia
di valore equivalente al viaggio di Marco Polo
in Asia, di Vasco de Gama in India e di Cristoforo Colombo in America. Chi fu Lanzarotto
Malocello? Non tutti in Italia (anzi, a dire il vero, solo pochissimi studiosi o addetti ai lavori)
conoscono questo storico personaggio, navigatore vissuto a cavallo dei secoli XIII e XIV nella
cornice dell’antica Genova marinara, padrona
dei mari. In quel periodo i navigatori genovesi
erano senza dubbio i migliori marinai del mondo, che non solo conoscevano ogni punto del
Mediterraneo, ma si spingevano nell’Atlantico,
verso il Portogallo, i Paesi bassi, l’Inghilterra e
possedevano cognizioni nautiche, astronomiche
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Alfonso Licata
e matematiche molto avanzate. Credevano fermamente nella esistenza della comunicazione tra
i due oceani che bagnavano le coste opposte del
continente africano ed erano convinti, che fosse
possibile la circumnavigazione dell’Africa. Gli
eventuali ostacoli erano ritenuti secondari a
fronte del bisogno che li spingeva verso tale tentativo. Si trattava, infatti, di salvare la repubblica
di Genova dalla rovina perché le vie commerciali fino a quel momento seguite si stavano chiudendo. Furono per primi i fratelli genovesi Vadino e Ugolino Vivaldi a tentare l’impresa: partiti
nella primavera del 1291, a bordo di due galee,
salparono dal porto di Genova alla volta delle
Indie. A un certo punto, però, non si ebbero più
notizie e nulla mai più si seppe di loro. Alcuni
anni dopo, nel 1312, un altro intrepido capitano
e armatore ligure, Lanzarotto Malocello, partì da
Genova alla ricerca e in soccorso dei coraggiosi
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fratelli Vivaldi.
Fu il primo europeo ad
approdare nell’Isola di
Lanzarote (Isole Canarie), dandole il suo nome.
Stese la bandiera di Genova sul suolo in segno
di scoperta e visse
sull’isola per oltre venti
anni. eppure non è certo
di poco conto il fatto che
proprio con Lanzarotto
Malocello abbia inizio la
storia moderna delle Isole
Canarie. Il suo nome compare per la prima volta
nella gran Carta catalana di Angelino Dulcert,
datata 1339, nella quale si vede l’arcipelago delle Isole Canarie e attribuisce alla più settentrionale di esse il nome di Lanzarote, destinato a
non essere più mutato (Insula de Lanzarotus
Marocellus).
Per celebrare questo avvenimento e il suo protagonista, ancora purtroppo poco conosciuti, si
sono costituiti, sia in Italia che in Spagna
(Lanzarote, Isole Canarie) a iniziativa
dell’Associazione degli Italiani Amici di Lanzarote (presente e operativa in entrambi i Paesi)
due distinti Comitati, con lo scopo di organizzare una serie di manifestazioni culturali celebrative dell’evento (conferenze, incontri congressi,
inaugurazione di pubbliche vie e piazze in ricordo del navigatore, pubblicazioni editoriali, manifestazioni sportive dedicate, gemellaggi tra
Comuni italiani e spagnoli, viaggi di studio,
ecc.) che vedranno coinvolte le Istituzioni pubbliche italiane e spagnole, locali e nazionali. In
Italia il Comitato Promotore per le celebrazioni
del settimo centenario della scoperta dell’Isola
di Lanzarote e delle Isole Canarie da parte del
navigatore italiano Lanzarotto Malocello (13122012), ha già ottenuto il patrocinio da parte della Presidenza del Consiglio dei Ministri d’Italia,
di alcuni Ministeri Italiani (Ministero degli Affari esteri, Ministero dei beni e Attività Culturali, Ministero dell’Istruzione, Università e ricerca, Ministero della difesa e Ministero del turismo), oltre che della regione Liguria,della regione Lazio, della Provincia di Roma, di Roma Capitale, della Provincia di Genova, del Comune
di Genova, dell’Università di Roma «La Sapienwww.storiaartecultura.it
za», dell’Università degli Studi di Genova,
della Società Geografica Italiana, della Lega
Navale Italiana, della
Società dante Alighieri
e dei Lions International così
come è stata avanzata
richiesta di concessione
dell’Alto Patronato della Presidenza
della Repubblica Italiana.
Il Comitato Promotore italiano (sito internet:
www.comitatomalocello.it) si propone gli stessi
obiettivi del Comitato spagnolo e, pertanto, lavorerà con questo in stretta collaborazione e sintonia, realizzando gran parte delle iniziative celebrative di concerto con il Comitato spagnolo.
A conferma del carattere internazionale
dell’iniziativa, è stato istituito un Comitato
d’onore al quale hanno aderito eminenti personalità delle Istituzioni di entrambe le Nazioni,
nonchè un logo ufficiale internazionale che sarà
utilizzato per contrassegnare le varie manifestazioni celebrative istituzionali. Inoltre, hanno
comunicato ufficialmente la propria adesione
all’iniziativa le rappresentanze diplomatiche e
Consolari di oltre venticinque Paesi stranieri
presenti sul territorio
ligure. Al suo interno, il Comitato Promotore si
avvale di un Comitato Scientifico di tutto rispetto, composto da cattedratici e studiosi di chiara
fama, presieduto dal professor Franco Cardini
dell’Università di Firenze. Inoltre tra i suoi
membri figurano alcuni enti pubblici quali la
Società Geografica Italiana, La Lega Navale
Italiana e il Comune di Varazze (che ha dato i
natali all’insigne navigatore), che hanno aderito
con entusiasmo al progetto. Non a caso la regia
Marina Militare Italiana diede il nome di Lanzerotto Malocello a uno dei dodici esploratori leggeri della classe «Navigatori», costruito nei
Cantieri Ansaldo di Sestri, che successivamente
divenne cacciatorpediniere.
Il Malocello, pur essendo stato impostato in
cantiere per primo, fu la quarta unità della classe a entrare in servizio a gennaio 1930 come
esploratore leggero. dopo pochi mesi di attività
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addestrativa rientrò in cantiere per essere sottoposto al primo ciclo di modifiche per il miglioramento della stabilità (alleggerimento e abbassamento delle sovrastrutture), nonché la sostituzione di timone e tubi lanciasiluri. rientrato in
servizio il 18 ottobre 1930 e assegnato al II
Gruppo divisione Leggera, ricevette la bandiera
di Combattimento (fornita proprio dal Comune
di Varazze) a Genova l’8 dicembre 1931. Il suo
motto era «A tutti i costi». All’ingresso
dell’Italia nel secondo conflitto mondiale faceva
parte della 14^ Squadriglia Cacciatorpediniere,
insieme ai gemelli Vivaldi, da Noli e Pancaldo.
Fu impiegato principalmente in missioni di posa
mine e soprattutto di scorta convogli. Partecipò
allo scontro di Punta Stilo. Nel giugno 1942 il
Malocello partecipò allo scontro di Pantelleria,
durante il quale scortò il Vivaldi, colpito, fino in
porto. Per questa azione il suo stendardo fu decorato di Medaglia d’Argento al Valore
Militare. Nella sera del 23 marzo 1943, al comando del capitano di fregata Carlo Rossi, partì
da Pozzuoli insieme ai cacciatorpediniere Pancaldo e Camicia Nera per trasportare truppe tedesche a Tunisi; nella mattinata del 24 si aggiunse un quarto cacciatorpediniere, l’Ascari,
che divenne capo formazione. Alle 7.28 del 24
marzo, mentre navigava a 27 nodi con rotta a
zig zag poco distante da Capo bon, il Malocello
urtò una mina (posata alcuni giorni prima dal
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posamine britannico Abdiel) e s’immobilizzò
con gravi danni, sbandando. Gran parte del personale di macchina fu ucciso dallo scoppio o dal
vapore surriscaldato fuoriuscito dalle tubature
rotte. Alcuni uomini caddero o si gettarono in
acqua, il resto dell’equipaggio e delletruppe rimasero allineati sul ponte in attesa dei soccorsi.
Mentre Pancaldo e Camicia Nera venivano fatti
proseguire, l’Ascari si affiancò al Malocello per
trasbordarne equipaggio e truppe, ma l’arrivo di
un siluro obbligò l’Ascari a defilarsi allontanandosi dal Malocello. Alle 8.35 fu dato l’ordine di
abbandonare la nave e dieci minuti dopo, a
un’ora e un quarto dall’urto contro la mina, alle
8.45, il Malocello si rovesciò, si spezzò in due e
s’inabissò 28 miglia a settentrione di Capo Bon.
Venne ufficialmente radiato dai ruoli del Naviglio militare il 18 ottobre 1946. In occasione
delle celebrazioni del settimo centenario della
scoperta delle Isole Canarie da parte del Malocello, il Comitato Promotore proporrà alla Marina Militare di intitolare all’insigne navigatore
una unità navale, quale atto simbolico della nostra epoca, in memoria del grande protagonista
del mare e del «Suo» dello scomparso cacciatorpediniere.
Il Malocello nel 1931, durante la missione di supporto
alla crociera aerea Italia-Brasile di Italo Balbo
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PRESENTAZIONE LIBRO: 24 FEBBRAIO 2011
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“NIZZA E CORSICA SONO FRANCESI COME
IO SONO TARTARO!”
Queste le parole del furibondo anatema scagliato da Giuseppe Garibaldi contro l’accordo tra
Cavour e Napoleone III che l’aveva “reso straniero in patria”, contenute in una lettera che
l’Eroe dei due Mondi inviò al giornale La Riforma il 17 maggio 1881, un anno prima della sua
morte nello sdegnoso isolamento di Caprera.
Nel libro che analizziamo la tematica
dell’italianità di Nizza è affrontata con argomentazioni sobrie e incisive, del tutto avulse da
qualsiasi forma di revanchisme riconducibile a
nostalgie del Ventennio. Una breve panoramica
storica è indispensabile. Acquisita dai Savoia
nel 1388, per volontà della dinastia feudale dei
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G.Garibaldi
Grimaldi di Boglio, che in tal modo si sottrasse
all’oppressione degli Angioini, la contea di Nizza rappresentò il primo sbocco sul mare per la
Casa sabauda. Riconosciuta solennemente dai
nizzardi la sovranità di Amedeo VIII, la cessione ai Savoia ottenne la ratifica del Sacro Romano Impero nel 1419. Il giorno di ferragosto del
1543 Nizza visse il suo momento più nero,
quando fu assalita e saccheggiata dai corsari
turchi alleati dei francesi: solo il castello rimase
inespugnato, e la pasionaria dei nizzardi,
l’intrepida Catarina Segurana, che aveva combattuto con più coraggio di un uomo, fu impiccata dagli invasori alla Porta Paroliera, divenpagina 22 - n. 31-32-33-34-35 2011/12
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tando un’icona leggendaria. Il 9 settembre un
esercito sabaudo di soccorso ruppe l’assedio.
Professore di Diritto internazionale presso
l’Università degli Studi di Genova, Giulio Vignoli si è sempre interessato alle minoranze etniche e linguistiche. Ha pubblicato
L’irredentismo italiano in Corsica durante la
Seconda guerra mondiale. La sentenza di condanna a morte degli irredentisti corsi (Ipotesi,
1981), I territori italofoni non appartenenti alla
Repubblica italiana agraristica (Giuffrè, 1995),
Gli Italiani dimenticati. Minoranze italiane in
Europa (Giuffrè, 2000), Donne di casa Savoia.
Da Adelaide di Susa a Maria Josè (Ecig, 2001),
La vicenda italo-montenegrina. L’inesistente
indipendenza del Montenegro nel 1941 (Ecig,
2002), Il sovrano sconosciuto. Tomislavo II re
di Croazia (Mursia, 2006), L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli Italiani di Crimea
(Settimo Sigillo, 2009, scritto a quattro mani
con Giulia Giacchetti Boico).
Un plebiscito farsa e i sanguinosi
Vespri nizzardi
Il Risorgimento, purtroppo, coincide per i nizzardi con la rescissione traumatica dei loro legami con l’Italia. Il plebiscito del 1860 fu
un’ignobile farsa: solo metà della popolazione si
recò alle urne e le autorità francesi comunicarono che l’annessione era stata votata da oltre
24.000 nizzardi, contro solo 160 suffragi contrari. Dieci anni dopo, quando il processo di
“francesizzazione” forzata era già a buon punto,
il crollo del Secondo Impero a Sedan ridiede
slancio ai nizzardi che aspiravano al ricongiungimento con l’Italia. Il 6 novembre 1870 riprese
a circolare un quotidiano in lingua italiana, Il
Diritto di Nizza, fu costituita su iniziativa del
popolo una Guardia nazionale e le autorità francesi risposero con la proclamazione dello stato
d’assedio. Le elezioni per l’Assemblea nazionale francese, indette dal governo provvisorio della Terza Repubblica con sede a Bordeaux, sancirono a Nizza un trionfo per il partito filoitaliano: furono eletti deputati Costantino Bergondi,
Giuseppe Garibaldi e Luigi Piccon. La reazione
del prefetto Dufraisse non si fece attendere: il 9
febbraio 1871 la polizia irruppe nella sede del
Diritto di Nizza e soppresse brutalmente il giornale. Scoppiarono tumulti di piazza, la gente
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sventolava bandiere su cui figurava l’acronimo
“Inri”: I Nizzardi Ritorneranno Italiani. I gendarmi a cavallo caricarono la folla e, con
l’intervento di alcuni battaglioni di soldati della
Marina, la rivolta nizzarda fu schiacciata nel
sangue in un paio di giorni. Il numero delle vittime non fu mai reso noto. Il pavido governo
italiano dell’epoca, presieduto dall’esponente
della Destra storica Giovanni Lanza, non mosse
un dito in favore degli insorti, e così Nizza rimase saldamente in pugno all’ancora traballante
governo repubblicano francese. L’8 marzo a
Bordeaux venne chiesto l’annullamento
dell’elezione di Garibaldi, in quanto di nazionalità italiana: prese la parola il grande scrittore
Victor Hugo, che rammentò all’Assemblea che
il Nizzardo era comunque l’unico generale vittorioso nella guerra contro la Prussia, rassegnando subito dopo, polemicamente, le dimissioni da deputato.
Un pluralismo culturale soffocato per decreto
«Nizza per secoli è stata una città internazionale, crocevia di culture, intreccio di costumi, centro di arricchimenti reciproci, che convivevano
in pace e costruttivamente», scrive Vignoli. «A
Nizza si parlava e si scriveva nizzardo, italiano
e francese […]. La Francia distruggerà con una
metodica, sistematica azione questo centro pluriculturale, di apporti diversi. Farà strame
dell’identità, dell’essenza stessa di Nizza, verrà
fatta violenza alla Città e alla Contea. Un vero,
au t e nt i c o “ ge no c i di o cu l t u r al e ” ».
Un analogo procedimento fu seguito per Briga e
Tenda, occupate militarmente dai francesi fra il
26 e il 27 aprile 1945, all’indomani della Liberazione. Il 29 aprile fu organizzato uno pseudoplebiscito annessionista: il voto non era segreto,
chi non si recava alle urne non riceveva la tessera annonaria e, fatto veramente inaudito, sulla
scheda non era indicata un’eventuale opzione
per l’Italia. La Repubblica italiana ratificò la
cessione il 27 giugno 1946, confermandola
l’anno dopo al momento della firma del trattato
di pace. Circa 250 famiglie che intendevano rimanere italiane furono costrette all’esilio e abbandonarono in fretta e furia le loro case, in un
esodo forzato.
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