Cresti, E. (a cura di) Prospettive nello studio del lessico italiano, Atti SILFI 2006. Firenze, FUP: Vol I, pp. 329-334 Classi di verbi come categorie naturali Roberta Maschi Università di Padova Abstract L’evoluzione della morfologia flessiva romanza evidenzia alcuni gruppi lessicali, connotandoli come classi a sé stanti nel sistema verbale. Ci riferiamo in particolare ai verbi fortemente irregolari, come ‘dare’, ‘stare’, ‘fare’, ‘dire’, ‘andare’, ‘essere’, ‘avere’, generalmente accomunati da fattori fonologici, proprietà semantiche e proprietà sintattiche. Oltre a tali caratteristiche comuni, il cambiamento morfologico che li riguarda ne accentua ulteriormente la solidarietà. Sono in particolare i fenomeni analogici ad evidenziarne il carattere di categoria naturale. Lo studio delle categorie naturali prende avvio da Wittgenstein, e viene successivamente sviluppato sul versante psicolinguistico, ma trae un forte impulso da ricerche linguistiche volte a dimostrare che i principi cognitivi alla base delle categorie naturali sono anche alla base delle categorie linguistiche. In questo lavoro intendiamo mostrare l’applicabilità della nozione di categoria naturale ai nostri gruppi di verbi. Attraverso l’analisi dei processi analogici che li coinvolgono, noteremo come la diffusione di un cambiamento all’interno di un gruppo avvenga secondo le modalità proprie, appunto, di una categoria naturale: un morfema si può estendere a partire dal verbo-prototipo verso gli altri membri, che a loro volta possono fungere da prototipo in altri processi. Emergerà il ruolo fondamentale svolto dalla similarità fonologica nella costituzione di classi naturali di verbi. 1. Introduzione Nel tentativo di individuare una logica del cambiamento analogico, ci siamo resi conto che questo tipo di processo cattura e riunisce, in modo ricorrente, certi gruppi di verbi piuttosto che altri. Alcune teorie sugli schemi associativi attivati dalla mente dei parlanti ci aiutano a capire l’andamento di tale processo; ovviamente non pretendiamo con questo di spiegare il perché dell’analogia, ma almeno di fornire qualche spunto per comprenderne meglio il funzionamento. Approfondiremo quindi i possibili motivi alla base del costituirsi di una classe di verbi, se così si può definire, considerando come un processo cognitivo molto generale (la categorizzazione degli oggetti del reale) possa essere applicato a oggetti specificamente linguistici (la morfologia). 2. Dalla lingua al parlante I processi analogici sono riconducibili a diverse tipologie, a seconda delle loro origini, svolgimento ed effetti. Pur nella loro varietà però, tutti questi fenomeni hanno un denominatore comune: sono innescati da rapporti paradigmatici. Nel senso saussuriano del termine, i rapporti paradigmatici sono rapporti associativi che si instaurano nella mente del parlante in base al SIGNIFICATO (appartenenza dei termini coinvolti ad una stessa sfera semantica), e/o in base alla FORMA. L’analogia, quindi, va considerata, prima che un fenomeno linguistico, un meccanismo mentale. Proveremo perciò a centrare l’analisi sul processo associativo che determina il fenomeno analogico. L’idea di fondo è che i principi cognitivi secondo i quali organizziamo la nostra percezione della realtà si riflettono anche nel nostro comportamento linguistico: quindi, i parlanti di una lingua naturale formano categorizzazioni di oggetti linguistici allo stesso modo in cui formano categorizzazioni di oggetti naturali e culturali (Bybee e Moder, 1983; Lazzeroni, 1995). Lo studio delle categorie naturali prende avvio dal Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, e viene successivamente sviluppato sul versante psicolinguistico (cfr. i lavori di Eleanor Rosch, George Lakoff, John R. Taylor), ma trae un forte impulso proprio da ricerche linguistiche (di Bybee et al.) volte a dimostrare che i principi cognitivi alla base delle categorie naturali sono anche alla base delle categorie linguistiche. Esaminandoli attentamente si vedrà non qualcosa di comune a tutti, bensì una serie di somiglianze e connessioni sussistenti fra essi. [...] si guardino, ad esempio, i giochi sulla scacchiera, con tutte le loro molteplici affinità. E poi si passi a considerare i giochi di carte: vi si troveranno molte corrispondenze con quelli dell’altra classe; ma diversi TRATTI che questi avevano in comune risulteranno mancanti, mentre altri consteranno. Passando quindi ai giochi col pallone, rimangono ancor meno tratti in comune [...]. E così noi possiamo vedere, passando da un gruppo di giochi all’altro [...], come le somiglianze volta per volta emergano e scompaiano. Il risultato di questa analisi si può riassumere così: noi vediamo un complicato RETICOLO DI SIMILITUDINI, che si sovrappongono e si incrociano. [...] non saprei caratterizzare meglio queste somiglianze che con il termine “SOMIGLIANZE DI FAMIGLIA”; infatti, in tal modo irregolare si sovrappongono e si incrociano le diverse somiglianze sussistenti fra i membri di una famiglia: altezza, lineamenti, colore degli occhi, andatura, temperamento, ecc. ecc. Dirò quindi che i giochi formano una famiglia. (Wittgenstein, 1953) L’insieme dei “giochi” costituisce, quindi, una categoria naturale; consideriamo brevemente un altro esempio di come la conoscenza della realtà possa essere organizzata in categorie naturali (da Lazzeroni, 1995): la categoria degli uccelli è identificata in base a certi tratti prototipici scelti arbitrariamente (cioè culturalmente), come “volare”, “avere le piume”, “deporre le uova”, e così via. Ma sotto l’iperonimo uccello riuniamo sia entità che rispondono a tutti questi tratti (il passero, la rondine), sia entità che ne posseggono solo alcuni (pensiamo allo struzzo, al pinguino, al pipistrello...); la categoria del verde comprenderà una miriade di sfumature possibili, e ci saranno dei “verdi prototipici” percepiti da tutti come tali, mentre altre tonalità saranno riconosciute da alcune persone (o culture) come verde, da altri come giallo o come blu... Roberta Maschi Ciò che conta è che noi, per ovvi motivi di economia, raggruppiamo idealmente gli elementi del nostro vissuto, della realtà, in categorie. Quali sono le caratteristiche di queste categorie naturali? Innanzitutto la SCALARITÀ: le categorie che organizzano la conoscenza raramente sono individuate da tratti condivisi in egual misura da tutti i costituenti. Esse sono piuttosto insiemi ordinati intorno ad un PROTOTIPO, cioè il membro più rappresentativo della categoria che riunisce in sé i tratti fondamentali, mentre gli altri membri possono condividere con il prototipo tutti i tratti o solo alcuni. Possiamo immaginare la categoria naturale come un insieme di cerchi concentrici il cui nucleo (il prototipo) catalizza il maggior numero di attributi prototipici; allontanandosi via via dal nucleo tali attributi diminuiscono (e i membri sono sempre meno simili al prototipo), fino ad arrivare ad una periferia sfumata contenente membri con un minimo di tratti categoriali. I membri della periferia, meno fortemente legati dalla somiglianza col prototipo, sono più facilmente esposti ad eventuali forze di attrazione di altre categorie con cui condividono dei tratti, e suscettibili, perciò, di essere ascritti all’una o all’altra categoria. Ad es. il pipistrello, costituente periferico della categoria dei volatili, può entrare nella categoria dei topi, come ci indica il nome stesso in certe lingue: ted. Fledermaus, fr. chauve-souris, port. morcego; il colore che noi denominiamo verdeacqua, a seconda del contesto culturale o della percezione, può rientrare nella categoria del verde, oppure in quella contigua del blu. Notiamo già come questo modo di organizzare la realtà possa avere delle ripercussioni dirette sul lessico; è meno evidente, invece, il parallelismo tra categorie naturali e linguistiche. 3. Dalle unità morfologiche lessicali alle unità Gli esempi tratti dal lessico, come abbiamo visto, sono particolarmente illuminanti perché illustrano in modo macroscopico il funzionamento e la natura di queste categorie (nella trasposizione dal piano della realtà al piano della lingua). Ma come le unità lessicali, così anche certe unità morfologiche possono riflettere la costituzione mentale di categorie naturali: si tratta ancora di rapporti associativi stabiliti sul piano del SIGNIFICATO. Ad esempio, i nomi con l’aggiunta di suffissi valutativi acquisiscono dei tratti semantici prototipici rispetto alla categoria di appartenenza del suffisso stesso (omino [+diminut.], omone [+accresc.]...); ma tali suffissi spesso comportano anche dei tratti periferici rispetto alla categoria che, in determinati contesti o con certe basi lessicali, possono prevalere provocando un cambiamento di categoria del nome suffissato. Ad es., il suffisso -ino conferisce principalmente un tratto [+diminutivo], ma anche un tratto [+affettivo], che fa sì che spesso un nome con suffisso diminutivo sia ascrivibile piuttosto alla categoria dei vezzeggiativi (micino); oppure i suffissi úcolo e -áccio, tipicamente spregiativi (attorucolo, donnaccia), possono acquisire valori periferici e avvicinarsi l’uno alla categoria dei diminutivi (esamucolo), l’altro a quella degli accrescitivi (esamaccio, omaccio(ne)), fino a farne parte. Questi principi sono importanti anche per la linguistica diacronica: le intersezioni tra categorie potrebbero essere i punti di crisi di un sistema da cui hanno origine processi di de- e ristrutturazione. Lazzeroni (1995) sostiene, ad esempio, che il sincretismo tra alcune desinenze casuali dell’indoeuropeo potrebbe essere partito proprio dalla sovrapposizione tra periferie delle categorie rappresentate dai casi (es.: strumentale andare col carro / locativo andare sul carro, in cui strumento e luogo di identificano)1. Ci sembra quindi di poter affermare che come mentalmente, per motivi di economia, riuniamo e organizziamo gli elementi del nostro vissuto in categorie in base a caratteristiche, o tratti, condivisi anche solo in parte dai membri, in maniera del tutto simile talvolta riuniamo ed organizziamo in categorie anche elementi linguistici (lessemi o morfemi) dotati di significato. Ora si tratta di verificare se il modello delle categorie naturali possa essere applicato alle unità morfologiche in quanto SIGNIFICANTI: è plausibile, cioè, supporre che i parlanti riuniscano in classi alcuni elementi linguistici sulla base di tratti anche solo formali? Se così fosse, un’associazione di questo tipo potrebbe costituire uno dei possibili presupposti all’azione analogica: perciò, l’analisi di alcune estensioni analogiche e del meccanismo associativo alla base di queste potrebbe rivelare se l’associazione tra i partecipanti all’analogia viene attuata per motivi semantici e/o formali-fonologici. 4. Dal contenuto alla forma Compiendo un passaggio ulteriore e fondamentale, vogliamo dimostrare che le unità morfologiche possono organizzarsi in categorie naturali non solo in base al loro significato, ma anche in base alla forma e indipendentemente dal significato. Se la somiglianza superficiale tra forme balza all’evidenza, non è altrettanto evidente che forme simili, ma dal significato non collegato, possano costituire categorie naturali nel senso che abbiamo visto. Non possiamo, quindi, limitarci a delle constatazioni (come nel caso dei significati), ma dobbiamo ricorrere allo studio di situazioni dinamiche come l’acquisizione, esperimenti psicolinguistici e cambiamenti diacronici. 5. Costituzione di un nuovo modello di regolarità L’espansione di un’innovazione che, a partire da una o poche forme, arriva ad estendersi, ad esempio, ad un’intera coniugazione (o addirittura a tutti i verbi) è, il più delle volte, difficilmente osservabile nel suo percorso: 1 Questo processo è descritto da Calabrese (2003, ms.) in termini di cambiamento del valore dei tratti: quando in una lingua la condizione di marcatezza che definisce i valori di un caso viene attivata, per cui una certa configurazione di tratti viene esclusa da quel sistema, per poter esprimere lo stesso significato la lingua fa ricorso ad un’operazione di riparazione che consiste, appunto, nel cambiare il valore di un tratto. In pratica, lo stesso concetto sarà espresso con la marca morfologica della categoria (del caso) contigua, con la quale il caso soppresso condivideva, in partenza, almeno un tratto (contiguità tra categorie = condivisione di tratti). Classi di verbi come categorie naturali una sequenza fonologica assunta come morfema regolarizzante presenta, di solito, di una espansione relativamente rapida. Tale rapidità rende difficoltoso osservare, a posteriori, quali tappe ha seguito, o se ci sono state delle tappe paragonabili alle modalità di espansione delle categorie naturali. Il problema maggiore è la documentazione: nei testi spesso le fasi dell’espansione possono risultare compresse. Ciò che possiamo fare, quindi, è stabilire il nucleo originario di un’innovazione, e la “classe naturale” che questo nucleo raccoglie intorno a sé; nel caso si tratti di un verbo ad alta frequenza, l’ipotesi sarà quella che l’innovazione sia accolta innanzitutto dai verbi ad esso più strettamente collegati, prima di passare ad una generalità di casi (l’ipotesi è talvolta corroborata da cambiamenti con fasi dilatate nel tempo, oppure dall’analisi comparata di più varietà, come vedremo). 5.1. I verbi ad alta frequenza d’uso All’interno dei sistemi verbali, un’eventuale associazione tra paradigmi di forma simile può acquistare una forza tale da innescare processi analogici interparadigmatici. Gruppi di verbi si trovano così a rappresentare, nella mente del parlante, una categoria, o classe naturale. Molti mutamenti morfologici prendono avvio da uno o più verbi fortemente irregolari (‘andare’, ‘dare’, ‘stare’, ‘fare’, ‘dire’, ‘essere’ e ‘avere’, ‘sapere’), e spesso il processo estensivo coinvolge proprio i membri di questo insieme, che si vengono così a configurare come una classe. Essi rappresentano un gruppo a sé all’interno dei sistemi verbali un po’ in tutto il dominio romanzo. Sono infatti accomunati da fattori fonologici (alcuni dall’atematicità, e comunque da strutture particolari, con “radicali esili”), e da proprietà di tipo semantico e sintattico (fanno parte del lessico di base e, di conseguenza, sono esposti ad un’alta frequenza d’uso e ad una precoce acquisizione); sul versante sintattico, alcuni sono implicati nella formazione delle perifrasi romanze, oltre che dei nuovi tempi analitici sostituitisi a quelli sintetici del latino (già in latino ricoprivano speciali ruoli sintattici)2. Ciò favorisce una forte solidarietà nel comportamento morfologico di questo gruppo (o di sottoparti di esso), tale talvolta da espandersi oltre i confini del gruppo stesso, secondo meccanismi che ben si prestano ad essere descritti dal modello delle categorie naturali. Tutto questo ci porterebbe a pensare che, nel caso dei verbi fortemente irregolari, non siamo di fronte ad una classe naturale costituita sul solo criterio formale, e da una parte è così: i legami tra questi verbi vanno ben al di là di una semplice similarità fonologica. Però vorremmo far notare anche che all’interno del gruppo si formano sottogruppi di due o tre verbi più strettamente associati. Lo dimostrano evoluzioni morfofonologiche comuni e il fatto che certe innovazioni abbiano un’origine rintracciabile proprio in tali sottogruppi, che sono: ‘stare’-‘dare’-(‘andare’); ‘dire’‘fare’; ‘avere’-‘sapere’. La formazione proprio di questi sottogruppi è giustificabile solo su base fonologica. Ciò emerge con maggior evidenza nelle lingue in cui l’evoluzione fonologica ha reso molto similari certi membri del gruppo; ad es., ‘avere’ e ‘sapere’ in veneto ((g)aver(e), saver(e): cfr. pres. cong. sapia, ‘sappia’ > gapia, ‘abbia’). Inoltre, a livello linguospecifico, a questi verbi se ne vengono ad aggregare altri che non hanno le stesse caratteristiche di frequenza d’uso o di basicità semantica, ma che per evoluzione fonologica hanno acquisito una somiglianza formale con gli irregolari tale da renderli suscettibili anche di un destino morfotattico comune (ad es., ‘trarre’ in area iberica). Fra i numerosi casi di analogia che riguardano questi verbi irregolari in quanto fonte e oggetto del processo, ne scegliamo uno che mostri, nella variazione areale, la progressiva estensione nel lessico di un elemento velare in un tema del verbo. Nella Tab. 1 possiamo osservare la prima persona del pres. ind. (per brevità abbiamo omesso il congiuntivo) del verbo ‘dire’ e la classe naturale che si costituisce intorno a questo verbo, a partire dagli irregolari: ‘dare’, ‘stare’, ‘andare’ sono i primi (e talvolta i soli) a subire il cambiamento (veneto, emiliano, altamurano); seguono ‘avere’ (umbro), ‘sapere’ (lucano), ‘essere’ e ‘stare’ (aragonese), ‘vedere’ (provenzale, tarantino), e addirittura tutti i verbi nel barese (la microvariazione areale delle varietà pugliesi basterebbe già da sola ad esemplificare l’andamento di questo processo)3. La modalità di espansione della categoria naturale secondo la teoria prototipica ci dà lo strumento per avanzare delle previsioni sulle aggregazioni paradigmatiche possibili in una lingua. Ad esempio, se in una varietà incontriamo forme in velare per ‘ho’, ‘so’, o ‘vedo’, dobbiamo aspettarci di ritrovarle almeno in ‘do’, ‘sto’ e ‘vado’. LATINO ARCHETIPI (tema con velare etim.) Ital. dico Ven. digo, (fago) Emil. Dig, fag Umbro (Terni) diko DICO, DICAM (*FACO, *FACAM) DO STO VADO Lucano dig, fag Aragonese (Azanuy) digo, fago Provenzale (Castillon) digu, fagu Altamura dik Taranto diku Bari dik´ VERBI ACQUISITI (tema con velare analogica) / Ven. dago, stago, vago Emil. Dag, stag, vag Umbro (Terni) dako, stako, vako, ako Luc.: zag, ‘so’, stag, dag, vag Aragonese (Azanuy): vaigo, sigo, ‘sono’, estigo Provenzale (Castillon): stagu, vagu, vegu, ‘vedo’ Altamura: stOuk, dOuk, wOuk Taranto: stoku, voku, doku, veku Bari: pass´k´, ‘passo’, perd´k´, ‘perdo’, cad´k´, ‘cado’, dorm´k´, ‘dormo’, fazz´k´, ‘faccio’, vok´,‘vado’ Tabella 1: estensione del tema in velare da DICO 2 Il processo di grammaticalizzazione li sottopone ad un'usura semantica tale da tradursi spesso in usura fonetica e nella creazione di una flessione funzionale parallela alla flessione in cui il verbo si riappropria del significato lessicale pieno. 3 I dati sono ricavati dall’AIS e da studi e grammatiche citati in bibliografia. Roberta Maschi 5.1.1. Participi forti italiani in -stConsideriamo ora un caso che coinvolge verbi apparentemente senza alcuna relazione: i verbi italiani di II coniugazione con participio forte in -sto. Gli archetipi4 sono chiesto < QUAES(I)TUM e posto < POS(I)TUM. Da questi participi fonologicamente regolari la sequenza -st-, reinterpretata come morfema participiale5, si estese al participio di altri verbi, sostituendo o affiancando le forme etimologiche: visto6, nascosto, rimasto, risposto... Nel fiorentino del ’200 possiamo notare l’innovazione nella sua fase iniziale: una ricerca nella base dati dell’Opera del Vocabolario Italiano7 ci rivela che, rispetto a (n)ascoso, si riscontrano ancora poche occorrenze di nascosto, ascosto; visto è in assoluta minoranza (poco più di una decina di occorrenze) rispetto alla forma regolarizzata veduto (più di un centinaio), e per le prime occorrenze di rimasto dobbiamo inoltrarci ben oltre il 1300 (nel ’200 abbiamo solo rimaso); risposto invece è già in netta maggioranza su risposo8. Ma se confrontiamo i verbi che anche attualmente hanno questo participio, vedremo che ciò che li accomuna sono delle somiglianze formali, distribuite nel paradigma: notiamo in particolare la consonante finale del tema del presente, sempre dentale, che in italiano ha spesso un legame ben preciso con la formazione del perfetto forte, quasi sempre sigmatico, e del participio forte. Abbiamo inserito nella Tab. 2 una riga in cui figurano alcune nuove potenziali acquisizioni alla classe dei verbi con participio forte in -st-: si tratta di paradigmi con tema del presente in consonante dentale e tema del perfetto in s; secondo la teoria prototipica, le forme di participio asteriscate sono un’ipotesi del tutto plausibile. Ebbene, se allarghiamo la nostra analisi ai dialetti, scopriamo che alcune di queste forme esistono, o sono esistite! Es.: chiusto a Montale, ant. lomb. cresto, march. misto /mesto, ant. senese risto (‘riso’). Riepilogando quanto è avvenuto, data una sequenza etimologica -st- reinterpretata come morfema participiale, le vie possibili (oltre alla regolarizzazione del participio)9 erano: far rientrare il participio passato in -sto in uno dei due modelli disponibili di participio forte, nella fattispecie il participio in -so (per parallelismo con un altro gruppo di verbi con tema del pres. in 4 Per archetipo intendiamo il prototipo di una categoria diacronicamente definito. 5 Del resto i morfemi participiali forti a disposizione erano -s- e t-, quindi un morfema -st- non poteva che far guadagnare in iconicità, riunendo in sé due esponenti del passato. 6 Per visto c’è chi presuppone un volgare *VIS(I)TU al posto di VISU, forse influenzato dall’iterativo VISITARE. 7 Disponibile in rete al sito www.csovi.fi.cnr.it. 8 Ciò non ci stupisce: a causa della somiglianza di certe celle del ‘rispondere’ viene reinterpretato come paradigma, pseudocomposto di ‘porre’ (perfetto: ris-posi - posi). 9 In realtà nei testi toscani, o di influsso toscano, abbiamo rinvenuto solo sporadiche occorrenze di questi participi regolarizzati: nella base dati OVI si registrano le forme chieduto, risponduto, ascondutto, permanuti, rimanuta. dentale, tema del perf. e participio in -s). Ovviamente possono essere coinvolti in questa “normalizzazione” non solo gli archetipi, ma anche gli altri membri più o meno assidui della classe, ad es.: chieso, poso, creso ‘creduto’ (Jacopone 1300; Anonimo romano, Cronica 1400), viso, miso (fior. sec. XIII)10; rafforzare l’alternanza morfofonologica presente in dentale - perfetto forte sigmatico - part. pass. in – sto estendendola ad altri verbi similari, e formando una microclasse idiosincratica (come in italiano e in alcuni dialetti, in cui la microclasse è più estesa). Un altro esempio: il participio di ‘parere’ e composti (ap-, (s)com-parire...), attualmente di tipo forte ((-)parso), presenta in italiano antico la sola formazione debole: apparito; apparuto; paruto, ecc. La BT pars- è stata successivamente acquisita da questo verbo proprio sulla base di un’associazione formale con altri verbi di II con. con presente in -rr- o -rd- (part. morso, corso, arso...), e trasferita anche ai composti di III con. (ma non tutti: sparito, trasparito) e al perfetto (apparve > apparse; nel fiorentino del sec. XIII si registra solo quello etimologico con tema parv-). PERFETTO FORTE TEMA DEL PARTICIPIO PASSATO PRESENTE ChiedPonVedRimanNascondRispondUccidChiudCredRidMett- Verbi originari Chiesi Chiesto Posi Posto Verbi acquisiti (vidi) Veduto / visto rimasi Rimaso > rimasto nascosi Nascoso > nascosto risposi Risposo > risposto Potenziali acquisizioni? Uccisi Ucciso > *uccisto Chiusi Chiuso > *chiusto (credei) Creduto > *cresto risi Riso > *risto misi Messo > *mesto Tabella 2: verbi italiani con participio forte in -sto 6. Conclusioni Le associazioni tra elementi linguistici possono verificarsi, quindi, non solo sul piano semantico (per appartenenza ad uno stesso campo semantico, similarità, opposizione...), ma anche sul piano fonologico (per condivisione di segmenti nella stessa posizione, per rima prosodica, isosillabismo, condivisione dello schema accentuale...)11. 10 Si tratta di opzioni non solo registrate in testi antichi, ma tuttora vive nelle varietà dialettali. Per alcuni di questi participi abbiamo rinvenuto anche forme in -to: lomb. creto ‘creduto’ (Bonvesin, 1280; frequente anche in testi veneti del ’300), veneto sconto ‘nascosto’. 11 A questo proposito segnaliamo lo studio di Kilani Schoch e Dressler (2002) sulle affinità fonologiche nell’organizzazione della morfologia statica nella flessione verbale francese (per Classi di verbi come categorie naturali Queste associazioni vengono definite nei lavori di Bybee schemi associativi che facilitano l’accesso al lessico. Tali schemi rappresentano per noi una trasposizione sul piano linguistico delle categorie naturali12. La loro coesione interna13 determina la forza degli schemi associativi stessi, che equivale per noi alla probabilità di estendersi innescando un processo di natura analogica. Quindi, a partire da una o da poche unità lessicali prototipiche, possono propagarsi delle innovazioni ad altre unità associate con i prototipi da una similarità anche solo formale. Ciascuna delle unità della categoria inoltre può, a sua volta, fungere da prototipo per altre, contribuendo all’espansione dell’innovazione. Concludiamo citando Lazzeroni: La diffusione lessicale di un mutamento morfologico non è un processo caotico, ma ordinato secondo i ritmi o i modi dell’espandersi delle categorie naturali: segue un percorso cognitivo riconoscibile. (Lazzeroni, 1995) 7. Riferimenti AIS: Jaberg, K. e Jud, J. (1928-1940). Sprach- und Sachatlas Italiens und Südschweiz. Zofingen: Ringier. Bertocci, D. e Maschi, R. 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