Università di Siena Università di Cagliari Università di Perugia Seminario di Pontignano DOTTORATO IN METODOLOGIE DELLA RICERCA ETNOANTROPOLOGICA 19/20 DICEMBRE 2005 CAMPO, SPAZIO, TERRITORIO RIFLESSIONI PRELIMINARI DEI DOTTORANDI SUL TEMA GUIDA DELL’ANNO A.A. 2005/2006 1 Indice Il campo multisituato - Cristina bezzi Il territorio in movimento e il senso di possibilità”. Due note per la discussione su campo, spazio, territorio – Alex Koensler Pag. 3 Pag. 7 Riflessioni – Danila Cinellu Pag. 11 Territorio, spazio e campo – Michela Badii Pag. 14 Riflessione sui concetti di “spazio”, “territorio e “campo” - Signe Stroem Pag. 18 Un viaggio multivocale attraverso la polifonia dello spazio e del territorio nell'antropologia contemporanea Pag. 21 Sul “campo”, lo “spazio”, il “territorio”... - Andrea Ravenda Pag. 26 Campo, spazio, territorio – Daniele Cestellini Pag. 31 – Daniela Valentina Fiegna Spazio, Territorio, Campo. L'antropologo di fronte allo spazio turistico e alla percezione territoriale degli Hosts – Francesca Mariotti Della perduta tenda. Famiglie di concetti: Spazio, campo, territorio. - Sergio Contu La politica del territorio: spazio di dominio, spazio di identità. Pag. 38 Pag. 40 Note per la discussione sulle categorie di territorio, spazio, campo. - Umberto Pellecchia Pag. 46 Campo – Alberto Acerbi Pag. 48 Riflessioni – Teodora Mocan Pag. 50 Pratiche spaziali e relazioni di potere. Corpi e macchine Pag. 54 Note su campo e territorio - Francesca Polidori Pag. 57 Riflessioni - Claudia Avitabile Pag. 60 E’ l’antropologo a scegliere il proprio “campo”, o il “campo” il suo antropologo? - Giulia Pedone Pag. 63 Spazio sovrapposto: lo studio delle reti di relazione parentale in Toscana - Sara Testi Pag. 65 – Roberta Pompili 2 Il campo multisituato Cristina bezzi Partirò in questa esposizione da alcuni dubbi espressi dall’antropologa Joanne Passaro(1997) nel suo articolo: You can’t take the subway to the field!: village epistemologies in the global village, nel quale problematizza la sua esperienza di ricerca etnografica tra gli homeless di New York city. Prendo spunto da questo articolo non soltanto perché ritrovo delle similarità con la mia esperienza di ricerca etnografica sulle strade di Bucarest, ma anche perché mi sembra un modo utile partire da questioni che nascono direttamente dall’esperienza sul campo per attraversare quelle più teoriche che ci siamo propositi di affrontare in questo seminario. Passaro evidenzia il suo disagio di fronte alla reazione stupita di molti antropologi accademici quando alla domanda se lei durante la sua etnografia avesse mai dormito sulla strada, lei rispondeva con un “no mai”, oppure quando un altro antropologo le aveva fatto notare: “You can’t take the subway to the field. What kind of fieldwork can you do in such an uncontrolled environment?” (Passaro, 151). L’antropologa evidenzia quindi due aspetti che mi sembrano fondamentali che ruotano intorno a due concetti, tra essi collegati, il lavoro sul campo ed il campo, problematizzandoli e mettendo criticamente in evidenza come i loro significati siano spesso ancora impregnati da un visione del mondo colonialista (148). IL fatto di dormire sulla strada, di esporsi al pericolo poteva forse essere visto come un rito di passaggio indispensabile del fieldwork, legato ad una idea romantica del sancire il passaggio all’interno di quel gruppo sociale? In secondo luogo il fatto di avere deciso di non focalizzare la sua osservazione su uno specifico gruppo di homeless, per esempio all’interno di uno shelter di donne senza tetto, ma invece di rompere i confini e seguire a più ampio raggio quelle reti e punti di incontro a cui gli homeless partecipavano in diverse parti della città sembrava scatenare un altro elemento di conflitto con l’idea di campo che gli antropologi con cui si era confrontata avevano. Passaro quindi evidenzia come la nozione di campo, che continua a rimanere il simbolo principale della disciplina, sebbene abbia assunto nuovi significati e incluso nuovi luoghi allontanandosi da quegli assunti coloniali dell’esotico e del primitivo, continua a portare in se quegli assunti coloniali da cui è partito, l’antropologia infatti sembra avere la necessità di delimitare aree e siti e campi/laboratorio” in cui poter studiare “ coherent people and necessay others” ( 148). […] the process of taking anthropology out of the field- the geographical distant and exotic lands of others - is far easier than taking “the field”, i.e., colonial thinking, out of anthropology. (ibid, 1997: 148). Sicuramente non voglio attribuire a Passaro il merito di avere portato alla luce la problematicità della nozione di campo e di pratica etnografica, ma ho voluto partire con il suo articolo per evidenziare alcuni nodi davanti a cui mi sono trovata io stessa nell’affrontare la mia ricerca e quindi la mia intenzione è di tentare di passare da un piano di significati teorici senza perdere di vista la dimensione della pratica etnografica. Nel panorama delle rivisitazioni critiche della disciplina antropologica che hanno fatto nascere anche l’esigenza di riaffermare alcuni capisaldi metodologici all’interno di essa, sicuramente la nozione di campo considerato nella sua duplice accezione di “ideale metodologico” e di luogo di 3 concreta attività “professionale” (Clifford,1999) rappresenta uno degli elementi centrali di tale dibattito. Se da un lato il campo rimane un elemento distintivo potremo dire marcatore di “autenticità” della disciplina antropologica, dall’altra la sua classica accezione Malinowskiana del risiedere e lavorare in modo intensivo in una comunità lontano da casa, in uno spazio anche se solo apparentemente neutro e apolitico (nota.Come nota Clifford (1999) “non è che le cose d’un tratto abbiano assunto una coloritura politica, mentre in passato la ricerca sarebbe stata in un certo senso neutrale […] ciò che voglio dire è semplicemente che la sicurezza del campo come un luogo di residenza e di lavoro, come sito in cui ci si adoperava a produrre una scienza sociale neutrale, apolitica era essa stessa una creazione storica e politica ), è stata rivisitata dai lavori di numerosi antropologi (alcuni Gupta and Ferguson, 1997, Marcus, 1995, Clifford 1999, Appaduray, 1999). Sicuramente queste rivisitazioni nascono anche dalla necessità di un rinnovarsi della tradizione per riadattarsi e ricontestualizzarsi all’interno di un nuovo ordine sociale in cui i confini tra “locale” e “globale” sono stati ridefiniti dai processi dell’economia capitalista e da flussi sempre più fitti di oggetti, informazioni e persone che collegano anche le realtà, i “territori” più sperduti degli angoli del pianeta. Gupta e Ferguson (1997) asseriscono criticamente che l’antropologia necessariamente deve riconsiderare la nozione di un “campo delimitato” e pensare piuttosto a delle “localizzazioni mutevoli”, allentandosi quindi dall’ideale classico del campo chiuso, neutrale ed esotico in cui il ricercatore maschio/bianco svolge la sua osservazione partecipante. Sebbene sia riconosciuto che l’”esoticizazione” del campo sia un prodotto storico legato al colonialismo gli autori continuano criticando il fatto che molti di quei presupposti coloniali continuano ad essere perpetrati all’interno della disciplina. Infatti essi mettono in luce che l’idea che ciò che è considerata una “real anthropology” sia ancora legata per molti versi a quegli ideali classici e ad un idea di fieldwork per molti versi compreso ancora come rito di passaggio (che deve in qualche modo includere elementi di pericolo e di eroismo), e questo è riscontrabile nel fatto che nella pratica poi esistano delle gerarchie dei differenti “field sites”. Per esempio quei campi legati alle questioni più politiche o i lavori della antropologia applicata sono tuttora meno apprezzati nell’ambito della antropologia accademica. Lontani dal volere decostruire il lavoro sul campo e il campo come elementi fondanti della disciplina essi ne propongono una rivisitazione critica ed un adeguamento al nuovo contesto storico/politico. Il “campo” dunque non come un luogo specifico ma piuttosto come un modo di studio come il “site of anthropological knowledge”. E questa conoscenza dal loro punto di vista non può più avere come fine una ricerca astratta della verità ma deve piuttosto avere come obiettivo il raggiungimento di fini politici. Ritornando al articolo di Passaro intendo ora ricollegarmi alla mia esperienza di ricerca a Bucarest. Il pericolo messo da lei in evidenza di rischiare di riprodurre in nuovi contesti, “campi” quelle nozioni oramai ampiamente criticate del primitivo e dell’esotico è sicuramente uno di quelli in cui sono incorsa quando per la prima volta sono arrivata a Bucarest con l’intenzione di condurre la mia osservazione partecipante all’interno di un gruppo di “bambini di strada”. Pur non essendo partita con l’idea di svolgere la mia osservazione partecipante in uno spazio chiuso, anche per il fatto stesso che il luogo fisico in cui mi muovevo era la strada, ma volendo intendere il “campo”, (inteso sia come luogo che come pratica), come un qualcosa di aperto, relazionale e processuale, devo ammettere che inizialmente tentavo ostinatamente di creare dei 4 confini se non altro mentali attorno a quel tappeto d’erba all’uscita del metrò dove il gruppo viveva. In un certo senso stavo cercando di ricreare all’interno della città di Bucarest, degli spazi delimitati entro cui focalizzare la mia osservazione partecipante anche per non disperdere il “campo”, nella vastità di quella città, dappertutto e da nessuna parte, ma in quel modo mi resi ben presto conto stavo cercando di costringere quel gruppo di persone estremamente in movimento entro i confini di una sorta di “subcultura” marginale. Le mie visite quotidiane all’interno di questo gruppo, incominciarono ben presto a destare l’attenzione di vicini e passanti, che a volte reagendo anche in modo violento, mi sembravano frapporsi tra me e il mio campo interferendo con quel piccolo spazio di osservazione che mi ero creata. Soprattutto nei primi tempi, dopo che l’educatore di strada che mi aveva introdotto al gruppo se ne era andato in vacanza, mi ero proposta di passare con loro il maggior tempo possibile affinché i bambini riconoscessero la mia presenza come famigliare e attraverso qualche sorta di “rito di passaggio” mi rendessero partecipe almeno in parte delle dinamiche del loro gruppo. Fui costretta dopo poco ad abbandonare il gruppo, in seguito all’intervento di un uomo ubriaco che indispettito dalla presenza di una ragazza, evidentemente non romena, che se ne stava seduta a chiacchierare e disegnare con quei “delinquenti”, “aurolaci” (nota: da aurolach, la colla che molti “bambini di strada” inalano da sacchetti di plastica, da qui il termine stigmatizzante con cui molti li definiscono), incominciò a picchiare i bambini con un bastone. Nei miei tentativi di placare l’ira di quell’uomo, compresi che lui, almeno così diceva, lavorava alla televisione ed era stufo che nel mondo si parlasse della Romania solo come del paese dei bambini di strada. Nell’impossibilità di continuare l’osservazione con quel gruppo, incominciai a rivolgermi ad altre ONG che avevano alcuni progetti di educativa di strada per evitare di tornare sulla strada da sola e sperando di trovare con il tempo un valido intermediario. Per l’ennesima volta fui aggredita verbalmente da un capo progetto romeno che mi disse: “ Voi occidentali volete venire qui nel nostro paese a vedere la miseria in cui vivono questi bambini perché è più esotico. Perchè voi antropologi volete venire qui in Romania per studiare questi bambini come se fossero dei selvaggi delle tribu africane?” Nel frattempo continuavo a prendere nota di tutto quello che succedeva, dei vari incontri e scontri che quotidianamente dovevo affrontare, a sbobinare le interviste che avevo incominciato a rilevare con gli operatori di diverse ONG, ma avevo come l’impressione che quella non fosse una vera etnografia, una “real anthropology”. Dove era finito il mio campo? Quello che avevo pensato prima di arrivare a Bucarest ispirandomi anche alle etnografie di altri antropologi che avevano lavorato in contesti simili? Dopo il primo mese di etnografia, muovendomi da un posto all’altro della città, frequentando diverse ONG, centri diurni per bambini che vivevano sulla strada, progetti del ministero per la protezione dell’infanzia, raccogliendo articoli di giornale, ritornando occasionalmente sulla strada accompagnata da qualche operatore mi sentivo completamente persa. Quando poi incontrandomi con una studentessa romena, che stava svolgendo la sua etnografia all’interno di un accampamento di rom nelle vicinanze di Bucarest, mi disse molto convinta: “ma come puoi fare una etnografia su questi bambini se non puoi partecipare alla loro vita di gruppo a tempo pieno?” , mi sembrava di avere ricevuto una conferma quasi accademica del fatto che non stavo facendo una etnografia reale. Non mi soffermerò ora sugli ulteriori risvolti della mia ricerca che ridefinirei ora che sono fuori dal “campo” come una etnografia processuale (Moore, 1997) e multisituata (vd. Marcus, 1995), ma vorrei brevemente soffermarmi sulle 5 modalità con cui ho dovuto modificare i presupposti da cui ero partita per ritornare poi alla nozione di “campo” come “habitus”. Ricapitolando, il progetto di ricerca che mi ero proposta di portare a termine presupponeva forse un’ idea classica di lavoro sul campo come rito di passaggio, la mia illusione di poter svolgere la mia osservazione cercando di delineare uno spazio situato era profondamente ingenua e impossibile da praticare. L’intervento del giornalista è stato forse solo il più evidente che mi ha necessariamente portato a reimpostare e comprendere quell’etnografia come un processo di negoziazione continua, come un campo conflittuale, processuale in cui la mia presenza ben lontano dall’essere neutrale era investita da significati politici e simbolici con cui non soltanto mi dovevo confrontare ma che diventavano parte dello stesso “campo” oggetto della mia indagine. Quel conflitto esplicito che la mia presenza faceva scaturire sottendeva infatti delle dinamiche politiche molto più grandi di me, del giornalista o dell’operatore romeno che mi aveva aggredita. Prima del mio arrivo a Bucarest nel 1999, quel campo che io stavo cercando di decifrare era già stato attraversato da frotte di giornalisti e altri attori sociali che avevano diffuso ampiamente le “miserabili” condizioni dei bambini di strada (conosciuti in tutto il mondo come i bambini delle fognature) e inoltre la questione dell’infanzia in Romania è stata per anni una questione centrale nelle trattative di accesso del paese all’Unione Europea. Tutte queste dinamiche internazionali, transnazionali, delocalizzate erano profondamente inscritte in quello spazio di relazioni sociali in cui ero andata ad inserirmi, ed inevitabilmente sono diventate esse stesse oggetto di indagine. Per concludere vorrei ritornare brevemente, dopo avere attraversato parte del mio percorso di ricerca, a riflettere sulla nozione di campo, riprendendo il suggerimento di Clifford il quale pur sostenendo la necessità di confrontarsi con campi che non sono più localizzati e situati ribadisce anche che questa apertura pone dei problemi di autodefinizione della disciplina. E’ necessario quindi di rivalutare le tecniche classiche in un nuovo contesto in cui la localizzazione è continuamente in movimento. Egli suggerisce quindi di considerare il “campo”, piuttosto che come un luogo situato, come un habitus cioè come un gruppo di disposizioni d’animo e di pratiche disciplinari fatte proprie, incarnate. Concludo esprimendo il mio interesse ad approfondire teoricamente durante questi gruppi di lavoro questo concetto di “habitus”, problematizzando la “pratica” di una etnografia multisituata e processuale. Bibliografia − Clifford, 1999, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino. − Gupta A. and Ferguson J., 1997, Discipline and Practice: “The Field as Site, Method and Location in Anthropology, in Gupta A. and Ferguson J. (1997), Anthropological Locations. Boundaries and Grounds of a Field Science, University of California Press, London . − Marcus, G.E., 1995, Ethnography in /of the World System: The Emergence of a Multisited Ethnography, in Annual Reviuw of Anthropology, 1995, 24: 95-117. 6 − Moore, S. F., 1997, Explaining the Present: Theoretical Dilemmas in Processual Ethnography. American Ethnologist 14 (4): 727-736. − Passaro J., 1997, “You Can’t Take the Subway to the Field!”: “Village” Epistemologies in the Global Village, in Gupta A. and Ferguson J. (1997), Anthropological Locations. Boundaries and Grounds of a Field Science, University of California Press, London Il territorio in movimento e il “senso di possibilità” Due note per la discussione su campo, spazio, territorio Alex Koensler 1. “Tutto potrebbe essere anche diversamente” “All fixed, fast-frozen relations are all swept away, all new formed ones become antiquared before they can ossify. All that is solid melts into air, all that is holy becomes profaned.” K. Marx, F. Engels (citati in: Lash, Urry 1987:312) Non soltanto queste righe di Marx e Engels, al tempo scritte pure senza “l’esperienza di villaggio” (M. Squillaciotti) -vale a dire ricerca sul campo-, sembrano penetrate dalla profonda consapevolezza della fluidità e dei mutamenti delle espressioni culturali, ma anche una buona parte delle nostre riflessioni iniziate su “campo, territorio e sazio”. Se, attraverso una prospettiva temporale, lo spazio può diventare “un fattore creativo della realtà sociale” -come scrive Valentina- allora questa verità antropologica implica le infinite forme in cui le realtà sociali possono essere costruite dagli attori. Michael Carrithers definisce in “Anthropology as a Moral Science of Possibilities” (2005) “senso di possibilità” anche una delle caratteristiche centrali dell’impresa antropologica, richiamando la storia dell’”Uomo senza qualità” di Robert Musil. Il personaggio di questo libro, l’”uomo senza qualità” trascorre il tempo fantasticando su in che modo diverso potrebbe anche essere la realtà. Il “senso di possibilità”, questo sapere scivoloso, è caratterizzato dall’abilità di vedere le abitudini, i valori e le esperienze come attraverso una “quarta dimensione” (ibid: 433) in cui svaniscono le certezze e le pretese. Esso si definisce in contrapposizione ad un netto “senso di realtà”. Qui si mostra la vulnerabilità di tutte le regole dell’impero del hic et nunc e quindi anche, per esempio, dei suoi confini territoriali. Per Carrithers, la sensibilità derivata dal “senso di possibilità” comporta anche una responsabilità morale: la necessità di interrogare le strategie persuasive attraverso cui si determina la realtà sociale. In altre parole, “relativismo culturale” sì, ma “relativismo morale” no (ibid: 434). Ora, vedere lo spazio -in cui si inserisce sia il “territorio” percepito sia il “campo” etnografico costruito- attraverso questa “quarta dimensione” può offrire una prospettiva analitica di particolare rilievo per l’antropologia del mondo postmoderno. Mi sento estremamente attratto dalle prospettive svelate dal “senso di possibilità” e di seguito cercherò di spiegare il suo valore analitico. Lo spazio postmoderno, in cui si cristallizza oggi il campo etnografico, viene attraversato dai processi di “deterritorializzazione” e “riterritorializzazione”, cioè dai processi di dislocazione economica e culturale, da un lato, e le politiche di differenza, località e identità dall’altro. In 7 altre parole, lo spazio nell’era virtuale e postmoderna non sembra diventato inconsistente, esso invece si presta come oggetto per politiche di territorio e identità in modi che “non corrispondono all’esperienza dello spazio nella modernità”. (Gupta e Ferguson 1992: 8-12). Uno spazio che subisce, quindi, al livello economico, una “compressione delle relazioni spaziotempo” prodotto dalla “specializzazione ed accumulazione flessibile” (Harvey 1989) delle forme di lavoro postfordistiche e, al livello socio-culturale, attraversato da una “diffidenza verso le grandi narrazioni” ideologiche (Lyotard). Analizzando le forme frammentate e flessibili di produzione economica in relazione ai flussi culturali, emerge uno scenario socio-politico che sembra caratterizzato, in modo particolare, dalla trasgressione dei confini: tra rappresentazione e realtà, tra dentro e fuori, tra “est” e “ovest”, tra “noi” e “gli altri”. Che significato assumono i legami con il territorio in cui la iperrealtà invade la realtà, India invade Londra e Hollywood invade Calcutta e in cui il grano per la pasta “italiana” viene prodotto per il 60% nell’Ucraina1? Quali nuovi sincretismi diasporici e nuovi movimenti sociali nascono dietro gli sradicamenti e le alienazioni, spesso in modo trasversale rispetto alle categorie moderne? E’ questo il quadro, in cui concetti profondamente prospettici come “etnorami”, “mediorami” o “tecnorami” (Appadurai 2001) assumono un senso cruciale per la comprensione dei flussi culturali globali, cercando di liberare i “nativi” dall’”incarceramento spaziale” (ibid). In questa sorta di spazio trasversale diventa forse più facile immaginare che “tutto potrebbe essere anche diversamente”. Di fronte a questa situazione, il “senso di possibilità” dell”uomo senza qualità” sembra trovare in approcci antropologici contemporanei un’applicazione in almeno due modi diversi. In primo luogo, il movimento della “critica culturale” (Marcus e Fischer 1986) cerca di basare una critica implicita alla “nostra” società attraverso il confronto con un’”altra” società: attraverso un dialogo tra due società si può mettere in discussione i propri schemi mentali. Altri definiscono l’impegno dell’antropologia come mirato a “costruire un ponte concettuale con l’Altro”. Questa prospettiva genera la sua forza dalla differenza tra “noi” e gli “altri”. Ma fino a che punto lo spazio postmoderno deterritorializzato ha anche destabilizzato i punti fissi tra “noi” e “gli altri”? Come si può problematizzare il rapporto tra territorio e differenza culturale? Quali confini circonda l’indeterminatezza spaziale? Un altro modo di intendere il “senso di possibilità”, euristicamente diversa, potrebbe essere ritrovato nei tentativi di “denaturalizzare” categorie a noi familiari. Per quanto riguarda la categoria dello spazio, Akhil Gupta e James Ferguson (1992) propongono di superare l’assunzione di un sostanziale legame tra luogo e persone, sfidando “l’isomorfismo tra spazio e differenza culturale” (ibid: 43). In questa ottica, ripensare le differenze culturali diventa necessario perché “(t)he presumption that spaces are autonomous has enabled the power of topography to conceal the topography of power. (…) For if one begins with the premise that spaces have always been hierarchically interconnected, instead of naturally disconnected, then cultural and social change becomes not a matter of cultural contact, but one rethinking difference through interconnections.” (ibid: 67) 1 Internazionale 615/13, 4-10 novembre2005 8 L’enfasi in questo approccio insiste sulle pratiche e retoriche di divisione e mette a fuoco il campo di forze delle relazioni di potere che mantiene e genera le stesse differenze culturali. Cercando di superare una visione di “mosaico” delle comunità, esso presenta lo spazio non più nei come un mappamondo tradizionale, ma come una zona continua, ma gerarchicamente interconnessa. In questa visione, il “senso di possibilità” offre la possibilità di politicizzare il sapere antropologico sulle differenze culturali, mettendo in questione i presupposti che legano una cultura ad un determinato territorio. Interrogare i meccanismi del sistema di dominio e di divisione spaziale diventa un compito politico continuo: “Chi dispone del potere di trasformare lo spazio in territorio? Chi lo contesta?” (ibid: 68) Un orientamento teorico, che riprende questo approccio alle differenze culturali, nasce soprattutto negli ambienti accademici europei a volte da una prospettiva costruttivista, a volte dagli scritti di Foucault su potere e discorso, o dalla “teoria dei sistemi” di Luhman. In questa ottica, differenze etnico-culturali assumono soltanto un valore nella descrizione multiculturalista della realtà, ma non nelle esperienze quotidiane di migranti o classi sociali. La differenza culturale viene rafforzato attraverso discorsi e pratiche dall’esterno, da istituzioni e apparati burocratici che formano l’identità dei gruppi sociali (Wimmer 2004). Spesso esattamente in questo modo si rafforzano i fenomeni di emarginazione. Michel Foucault (1989: 238-240), disegnando una “nuova economia del potere”, propone di mettere in luce le forme di resistenza dei soggetti alle differente forme di potere, di rintracciare gli antagonismi, i rifiuti delle “pratiche di divisione” e le “lotte trasversali”. Mettere in questione le relazioni di potere, in questo senso, non costituisce soltanto un compito “inerente ad ogni esistenza sociale” (ibid 250) ma anche la possibilità di immaginare un’alternativa. In altre parole, Foucault sembra difendere il “senso di possibilità” di Musil. Ma le pratiche trasformative ed i rifiuti dell’esistente possono assumere una vasta gamma di forme molto diverse tra loro. Come anche le tecnologie del controllo possono assumere forme molto diverse, dalla coercizione diretta alla persuasione indiretta, così anche le forme di resistenza possono esprimersi attraverso gesti impliciti e attraverso silenzi, ricordano Jean e John Comaroff (2004). Il linguaggio della resistenza può essere condizionato dai meccanismi egemonici in cui si inserisce. Ma le modalità di resistenza, protesta e rifiuto mirano a una vasta gamma di obiettivi, che va dal sconvolgimento politico fino alla riproduzione e all’imitazione delle strategie di dominio. Come diventa possibile cogliere gli obiettivi delle forme di rifiuto e di resistenza? 2. “Pratiche culturali non appartengono a persone specifiche” L’abilità dei soggetti, dei movimenti e delle istituzioni di sfidare le divisioni spaziali egemoniche emerge con particolare urgenza nelle “zone di frontiera” (Rabinowitz 1997), in particolare i confini economici tra “nord” e “sud” che vengono sfidati dai movimenti postcoloniali. Ma essa si esprime anche ai confini dell’Europa -per esempio nella fortezza assalita di Mellilla- e nelle strategie con cui i migranti attraversano la recinzione tra gli Stati Uniti e Messico. Una situazione di notevole carico simbolico si trova anche nella zona di frontiera tra Israele e mondo arabo-palestinese. L’obiettivo del progetto su cui sto lavorando è indirizzato a comprendere meglio i limiti e le possibilità delle pratiche trasformative sia delle reti di attivismo transculturali sia delle pratiche quotidiane che cercano di mettere in 9 discussione i confini. In Israele e Palestina, i progetti di attivismo transculturale sono molto diffusi e comprendono approcci e strategie molto diverse tra loro. Inoltre, dietro le barriere egemoniche si genera uno “spazio postmoderno” in cui esiste una vivace realtà di soggetti e gruppi che non corrispondono agli schemi e rappresentazioni ufficiali. Loro di solito non appaiono nelle immagini che i media proiettano verso l’esterno. I cittadini beduini nel Negev, una minoranza di arabo-palestinesi sul territorio ufficialmente israeliano, fanno parte di questi gruppi. Alcuni di loro sono impegnati in forme di attivismo transculturale, come ho potuto rendermi conto durante la ricerca sul campo per la tesi di laurea (2004). Spesso le loro enclave non sono riconosciute né dalle autorità israeliane né dalle autorità palestinesi, di conseguenza questi gruppi si trovano a volte sul “limbo”, ovvero nello “spazio vuoto” tra i due mondi “ufficiali” ed egemonici. Una ricerca al fine di individuare un “sapere di frontiera” potrebbe partire da una serie di domande specifiche. Come possono rifiutare i “micro-progetti” di solidarietà transculturale le “pratiche di divisione”? Quali nuovi significati sociali, cioè altre “possibilità, si generano in opposizione al “senso comune” dei confini mentali, economici e geopolitici? Come penetrano le culture marginali e ibridi nei centri del potere? E, sopratutto, fino a che grado si riflettano le pretese e le certezze egemoniche nei saperi alternativi? Per rispondere a questi interrogativi tali dinamiche dovranno essere considerate inserite in un contesto in cui devono misurarsi con i riflessi sul territorio delle relazioni di potere, ovvero con i processi di “territorializzazione”. Da un lato, al livello etnografico, bisognerebbe individuare questi sperimentali sincretismi dell’attivismo che sembrano offrire una nuova alternativa, per esempio all’interno delle, a volte vivaci, attività dei “Forum interculturali”, etc. Bisognerebbe considerare le fratture di classe e genere all’interno dei gruppi come indicatori d’analisi. Bisognerebbe comprendere i fattori materiali e simbolici che contribuiscono a costruire il senso di appartenenza dei gruppi transculturali. Dall’altro, al livello teorico, bisognerebbe mettere a fuoco i dibattiti che mettono in discussione i confini politici e mentali rigidi, tra cui per esempio i cosiddetti “dibattiti postsionisti”, spesso poco conosciuti o sottovalutati all’esterno, che mettono in discussione la storia ufficiale e l’identità nazionale in Israele (Silbersetin 1991). Forse coltivare una sensibilità per le “possibilità” -nel senso di Musil- potrebbe diventare cruciale per rintracciare le realtà trasversali nascoste dietro il mondo “ufficiale”. Forse i nuovi “luoghi della cultura” (Bhabha 2001) confondono anche le linee tra “noi” e “gli altri”. In modo particolare in Israele e Palestina, gli spazi fluidi in cui si generano le nuove identità sperimentali ed “meticce” in incessante trasformazione, potranno forse dare un apporto alla ridefinizione sociale, ovvero contribuire a “destrutturare la modernità occidentale”. In altre parole, il “senso di possibilità” apre la prospettiva di partire dalla premessa che le pratiche culturali e sociali non appartengono né a persone particolari né a territori specifici. In che modo si può discutere su questa premessa? Bibliografia − Appadurai, A., 2001, La modernità in polvere. Roma, Meltemi − Bhabha, H., 2001, I luoghi della cultura. (tr. it.) Roma, Meltemi − Carrithers M., 2005, Anthropology as a Moral Science of Possibilities, in: Current Anthropology 46/3: 433-456 10 − Comaroff J. & Comaroff J., 2004, “Criminal justice, cultural justice. The Limits of Liberalism and the Pragmatics of Difference in the New South Africa”, in: American Ethnologist, Vol. 31,2: 188-204 − Foucault M., 1982, "Il soggetto e il potere", in: Dreyfus, Hubert, Rabinow, Paul "La ricerca di Michel Foucault", Ponte delle Grazie, Firenze − Gupta A., Ferguson, 1992, “Beyond ‘Culture’: Sapce, Ientity and Politics of Difference”, in: Cultural Anthropologist 7/1, − Harvey, J., 1989, The Condition of Postmodernity: An Inquiry into the Origins of Cultural Change. Blackwall, Oxford, − Lash S. & Urry J., 1987, “The End of Organized Capitalism” University of Wisconson Press, Madison − Rabinowitz D., 1997, “Overlooking Nazareth. The Ethnography of Exclusion in Galilee”. Cambridge, Cambridge University Press − Silberstein L. J., 1991, “The Postzionism Debates: Knowledge and Power in Israeli Culture”, New York-London, Routledge Riflessioni Danila Cinellu In procinto di continuare a dar forma alle idee, mi dovrei forse scusare se il modo in cui sperimento l’ “incastonamento” del mio progetto all’interno del dibattito che verte sui temi “campo”, “spazio” e “territorio” non ha ancora raggiunto una fase di fluidità. E spero che questa mancanza di fluidità possa essere superata confrontando con altri il mio “campo”. Quel “campo” cioè (che, a differenza del “vezzo disciplinare”, ingloba semanticamente anche la prospettiva del mio lavoro) inteso come “spazio ordinato secondo proprie procedure teorico-metodologiche”, come ha scritto Antonio. In realtà, non intendo soffermarmi su questa accezione del termine “campo” (che mi pare calzare ai più svariati campi disciplinari), né tentare di fornirne altre dal momento in cui ritengo sia assolutamente opportuna (e condivisibile da parte mia) la scelta di molti di demarcare – laddove il “campo” è l’oggetto di discussione- una sfera semantica protetta attorno alla pratica etnografica e le problematiche che essa comporta. Pur lasciando a voi il “campo”, sento tuttavia la necessità di trattare a mio modo di una delle tematiche da voi individuate: il potere. Penso sia un buon punto da cui partire per tentare di approfondire la riflessione dello scorso intervento ed, allo stesso tempo, chiarire in quali termini intenderei rapportarmi al tema della “regalità sacra” in una prospettiva transculturale; prospettiva che, ai fini del nostro lavoro, adotto per esplicitare con quali spunti mi accosto ad un certo materiale indianista (affinché io riesca a trovare punti di incontro con Valentina e Serena, le quali ringrazio) e ad un certo materiale africanista. Per quanto riguarda quest’ultimo, esplicito il mio interesse nei confronti del lavoro di Umberto Pellecchia, anche perché devo, in una certa misura, alla lettura del suo intervento una motivazione ulteriore per affrontare il problema del potere come motivo, per così dire, collante fra il concetto di spazio e quello di territorio…o meglio, di “spazio sacro” e territorio. 11 Sempre cosciente di quanto più che i campi etnografici siano le impostazioni teoricometodologiche a distanziarci, mi avvio ad una “contestualizzazione”. Utilizzando il metodo comparativo per far luce su quelli che potrebbero essere definiti come tratti distintivi di un peculiare fenomeno quale quello che va sotto la categoria “regalità sacra”, parlo di “contesto” parafrasando la definizione datane da uno fra i più importanti esponenti della rivisitazione frazer-hocartiana. Seguendo l’indianista Jean-Claude Galey, tratto dunque il “contesto” come una particolare associazione fra fatti ed interpretazioni correlate dalla cui combinazione si possa stabilire un “modello unificante” capace di accomodare dati simili di provenienza eterogenea, ognuno con la potenzialità di “shed some light on their respective blind spots” (Galey, 1990: 128). Ora, ancorandomi ai presupposti “religiosi” del mio lavoro, chiarisco brevemente che la nozione di potere che preferisco valorizzare nella discussione che verte sui temi “spazio” e “territorio” è da intendersi come sinonimo di quella che Galey chiama lordship come contrapposta al concetto di chiefdom. Non entrando nel merito delle modalità con cui le due realtà si escludono, ma allo stesso tempo si articolano a vicenda nelle operazioni di legittimazione delle relazioni di potere, nella manipolazione ideologica e nella definizione identitaria del “territorio” del Garhwal studiato da Galey, è comunque di grande rilevanza, per me, che l’utilizzo del termine lordship sia volto a mettere in luce la dipendenza dei network politici dall’identificazione religiosa, dall’unità cultuale dunque (cfr. Galey, 1990: 163). Quello che più mi interessa, in altre parole, è che la stessa definizione di lordship, come aspetto ontologico della figura del re, sembra rinviare fortemente all’assunzione hocartiana secondo cui “The temple and the palace are indistinguishable” (Quigley, 1993: 119). In questo frangente, lo “spazio sacro” è quindi il palazzo reale-tempio. Parlando della valenza simbolica di questo “spazio sacro” trova anche qui ragion d’essere l’idea di Cristina Bezzi di pensare lo spazio “come rappresentazione microscopica del più ampio territorio”. Ai fini di un “modello unificante”, il rapporto, per così dire, speculare fra “spazio sacro” e “territorio” potrebbe essere sintetizzato omologando, a titolo illustrativo, la simbologia che caratterizza la regalità nepalese alla dimensione semiotica messa in opera in peculiari momenti rituali come lo Yam Festival di cui ci informa Umberto. In effetti, mentre leggevo un passo dell’articolo The Transgressive Nature of Kingship in Caste Organization: Monstrous Royal Doubles in Nepal dove la Lecomte-Tilouine ricorda che non soltanto dhungo (“pietra”) è la rappresentazione minimale della regalità Shah, ma che lo stesso termine veniva utilizzato per designare l’intero regno, non ho potuto far a meno di ripensare a quel seggio regale rappresentativo della comunità sefwi. Per farla breve, il discorso retorico che mi si prospetta davanti è che il rapporto metonimico fra seggio e re, o fra dhungo e re, (come entità rappresentative dello “spazio sacro”) coincide con quella che è la portata sineddochica dello stesso “spazio sacro” in relazione all’intero “territorio”. Mi preme precisare che l’interpretazione che adopero trattando di tale apparato retorico vuole anche essere un preambolo rispetto alla linea di indagine che vorrei fare mia nel momento in cui mi troverò ad argomentare in maniera più accurata e approfondita sulla nozione di potere applicabile a quelle cosiddette “monarchie sacre” i cui tratti distintivi si stanno spiegando oggi – per l’appunto, con un forte rinvio alle teorie frazeriane- in termini di “fenomeno di capro espiatorio”. Si tratta di una linea di indagine che, in linea di massima, sacrifica l’attenzione che potrebbe essere data al potere come forza strutturante ‘dall’alto’ e le relative sfaccettate strategie, per concentrarsi piuttosto su quella regalità che, come scrive Declan Quigley, 12 “provides an indispensable mechanism for transcending political division” e che è “a shared symbol of a sacred authority above politics or personal power” (Quigley, 2005: 1). Detto questo, cercherò ora nel possibile di mettere in rilievo il filo di continuità che lega la breve riflessione dello scorso intervento con l’attuale; di riflettere cioè su come la simbologia denotante l’indivisibilità o, anche, l’uguaglianza fra “spazio sacro” come palazzo reale e “territorio” regnato, assuma un carattere pragmatico nella pratica rituale, dal momento in cui le dramatis personae in essa coinvolte rinviano, almeno a livello ideale, ad un preciso “territorio”. Un caso emblematico a riguardo mi pare si possa riscontrare nella cerimonia di intronizzazione del sovrano nepalese. La compartecipazione dei quattro varna nel quadro di questo “rito di rinnovamento”, di creazione di questa figura extra-personale che è il re Shah, può forse essere interpretata come una agengy sociale di tipo metetico. Questa in sé metterebbe in rilievo che uno dei motivi-cardine dell’ideologia della “regalità sacra” è l’identificazione del “territorio” e gli attori sociali da cui è vissuto con lo “spazio sacro”, dal momento in cui saranno gli stessi attori (almeno per il tramite dei loro rappresentanti) ad essere i protagonisti di una renovatio il cui interesse è evidentemente pubblico. Mi rendo conto che con questa staticità di approccio, mi trovo nella situazione di proporre che “a theory of interaction ritual is the key to microsociology, and microsociology is the key to much that is larger” (Collins, 2004: 3). Eppure, riprendendo una riflessione scritta la scorsa volta, il “dramma plastico” che si compie in uno “spazio” ben definito potrebbe -nel suo “conservatism of stasis” (ibidem)- comunque essere uno still point a cui ricorrere per mettere in luce da una parte i mutamenti già avvenuti e dall’altra i mutamenti che si sovrappongono a quelli già trascorsi. In questo senso, oltre che apprezzare l’attenzione riservata da Oestigaard (che si rifà a Hocart) alla morfologia dei ghats nel tentativo di ricreare una morfologia territoriale assente perché mutata, cerco di accostarmi a mio modo alla linea che (se non ho capito male) si sta privilegiando. Col presupposto che il nostro possa essere un lavoro fra “sensibilità comunicanti” (come ha scritto il Prof. Solinas nella “Presentazione” degli interventi dello scorso anno), mi viene da pensare che, in effetti, il rilevamento del change-in-the-making sul “campo” e l’ancoraggio a tratti conservativi (che si accompagna alla ricerca disperata di missing links) siano forse le due facce della stessa medaglia. La diagnosi dei sincretismi, e delle de-territorializzazioni che vi stanno alla base, penso ci accomuni. Così come penso che personalmente trarrò giovamento dall’ascoltare, in modo particolare, gli indianisti che lavorano in luoghi di cui pian piano sto venendo a conoscenza…per confrontarci e per correggermi laddove farò cattivo uso delle fonti bibliografiche a cui anche loro sono affezionati. Dato che a causa della mia deformazione mi sento ancora in una fase di “lallazione” per quello che riguarda il lessico propriamente antropologico, vi lascio con l’auspicio di poter ricavare dai vostri interventi un modo “comodo” (e se a riguardo avete suggerimenti da darmi di persona, ve ne sarò grata) per parlare, per esempio, di qualche contributo che un “diffusionismo” alla Hocart può averci lasciato. Una disamina delle rivendicazioni del metodo archeologicoculturale potrebbe essere un modo per riflettere, anche se in maniera retrospettiva, sulle potenzialità dell’analisi antropologica. Anche se a riguardo ancora non saprei ancora da dove partire, mi sembra l’unico modo efficace per mettermi al passo con la prospettiva che si sta tentando di mettere in opera e per non incorrere in ulteriori contorsionismi. 13 Bibliografia − Collins, R., 2004, Interaction Ritual Chains, Princeton and Oxford, Princeton University Press. − Galey, J.C., 1990, Reconsidering Kingship in India: An Ethnological Perspective in J.C. Galey (ed.) Kingship and the Kings, Harwood Academic Publishers: 123-187. − Lecomte-Tilouine, M., 2005, The Transgressive Nature of Kingship in Caste Organization: Monstrous Royal Doubles in Nepal in Declan Quigley (ed.), The Character of Kingship, Oxford, Berg: 101-121. − Quigley, D., 2005, Introduction: The Character of Kingship in Deglan Quigley (ed.) The Character of Kingship: 1-23. − Quigley, D., 1993, The Intrpretation of Caste, Oxford, Clarendon Press. − Pellecchia, U., I “discorsi del passato”. Rito, potere e memoria tra i Sefwi del Ghana Territorio, spazio e campo Michela Badii Territorio, spazio e campo sono categorie che da punti di vista diversi implicano il rapporto che intercorre tra soggetti sociali, ricercatore e contesto d’indagine, quest’ultimo inteso come contesto socio-economico, geografico e storico - culturale. Alla luce del dibattito sulle trasformazioni dell’etnografia e, in particolar modo, quelle relative all’”essere là” del ricercatore, è molto difficile, oggi, tratteggiare i confini delle nozioni di spazio, campo, territorio, senza considerare la molteplicità dei punti di vista, tra loro opposti, che la critica antropologica ha prodotto e tuttora produce, in merito alle ridefinizioni delle categorie “classiche” delle discipline etnoantropologiche. Potrebbe essere questa una fase di assimilazione, nei termini di un “nuovo” rapporto tra l’etnografo e l’oggetto di indagine. Infatti, leggendo i contributi di antropologi contemporanei tra i quali - per citarne soltanto alcuni - Geertz, Appadurai, Hannerz, Augé o Palumbo, si assiste alla formulazione o alla ridefinizione di certe categorie come: “soggettività”, “interpretazione”, “etnorami”, “locale”, “globale”, “nonluoghi”, “iperluoghi”, “rituali contemporanei”, che conferiscono nuove sfumature ai “tradizionali” concetti di cui si sono avvalse fino a poco tempo fa le scienze sociali. Questo “nuovo” lessico antropologico, si origina da un ripensamento del sistema teoricometodologio antecedente, a fronte di nuovi scapes, molto più fluidi e complessi, rispetto al passato, che si manifestano anche in panorami analitici particolaristici, siano essi terreni europei o “altri”. In questa “declinazione” del linguaggio antropologico, le posizioni assunte hanno raggiunto il loro culmine nella messa in discussione della figura stessa dell’antropologo, quasi fino a decretarne una crisi identitaria; non è possibile restituire oggettivamente un’esperienza etnografica, per cui l’aspetto empirico dell’osservazione potrebbe non essere sufficiente a garantire la comprensione dell’“oggetto”, giungendo persino a dubitare dell’autorevolezza scientifica del dato etnografico. Questo dibattito ha costretto l’antropologo a “guardarsi allo specchio”, ingenerando discussioni molto produttive e interessanti tra gli addetti ai lavori. Allo stesso tempo, tuttavia, ha rischiato di trascinarlo in speculazioni epistemologiche sterili, 14 favorendo la nascita di un nuovo filone della letteratura antropologica che si potrebbe definire “antropologo-centrica”: dove l’antropologo mette in dubbio la propria soggettività, in rapporto all’interazione con l’oggetto e di conseguenza i propri strumenti d’analisi. Fortunatamente leggendo i contributi etnografici ci si accorge che, nonostante la comparsa di nuovi orizzonti metodologici, vecchie e nuove categorie coesistono: ad esempio, alla frammentazione di significanti e significati, denunciata dalla corrente postmodernista, esistono delle scelte teoricometodologiche grazie alle quali è ancora possibile tracciare dei percorsi etnografici concreti. I tre concetti spazio, campo, territorio allora, potrebbero risiedere nell’interstizio tra le macrocategorie del globale e del locale, assumendo specifiche implicazioni in base all’oggetto di ricerca. La globalizzazione è un concetto universalmente riconosciuto, poiché i suoi processi dinamici e le reti di relazioni che ne fondano il concetto interessano ogni angolo del mondo, contaminandosi in loco con le molteplici realtà; ed assumendo forme, tempi e spazi, in modalità diverse, in base alle culture locali; la cultura intesa come storia, economia, ecologia, tecnologia di un gruppo in un determinato territorio. Il territorio, dunque, comprende sia un aspetto geografico sia uno simbolico; esso è uno spazio soggettivo e soggettivizzato che rimanda a più livelli di significazione, che a loro volta ha connessioni con la società: la concezione dello spazio, lo sfruttamento delle risorse, l’etnoscienza. Il territorio, nella sua gestione e organizzazione, è l’espressione emica del rapporto tra soggetti sociali, risorse e sviluppo tecnico-economico. Nel territorio l’antropologo opera delle scelte di selezione in base all’oggetto di indagine; scelte che permettono di individuare il fenomeno o il gruppo sociale, nonché i luoghi in cui si manifestano produzioni di “senso” significative e pertinenti al proprio tema. Contemporaneamente, lo sguardo al territorio nella sua interezza permette di comprendere i flussi culturali, le relazioni intersoggettive, gli scambi, le produzioni culturali che distinguono un gruppo. Lo spazio è il luogo per eccellenza dove si producono o ri-producono i tratti distintivi di una società, come afferma Leroi-Gourhan: “Lo spazio è l’immagine umanizzata del territorio”. L’addomesticazione dello spazio (e del tempo) ha fatto sì che nascesse uno spazio umanizzato, in altre parole la creazione di un habitat (e di un habitus). Lo spazio diviene dunque spazio sociale: rituale, privato, pubblico, che unitamente al tempo costituisce e fonda i ritmi di un gruppo. Considerando i livelli sopra esposti, può essere utile comprendere come la distribuzione e l’organizzazione degli spazi sociali contribuiscano alla comprensione dell’identità stessa del gruppo: il concetto di persona, le rappresentazioni simboliche (identità, potere, conflitti, divisioni di genere, luoghi della memoria, spazi abitativi, luoghi di socializzazione). Lo spazio dunque è reale, nel suo aspetto geografico, tanto quanto è simbolico al momento della sua “umanizzazione”. Mi sembra, invece, che la categoria di campo rappresenti più uno spazio concettuale: un nonluogo, un “metaspazio”, in cui si sviluppano dinamiche di relazione dialogica tra i soggetti-attori - e portatori - di una cultura, e il ricercatore che, a sua volta, oltre a porsi in relazione con la comunità, può essere anch’esso parte della cultura che sta indagando. Con l’espressione campo si sancisce l’inizio della fase di osservazione dell’oggetto, e del rapporto tra etnografo e oggetto; in questo senso dunque non esistono spazi “neutrali”, a meno che non si consideri come spazio “simbolico” quello del diario di campo, che rimane una zona franca, senza implicazioni intersoggettive, che si presta a contenitore di reazioni emotive e impressioni personali. Soprattutto vi si riportano, ricordo i diari di Malinowski, situazioni di conflitto che restano irrisolte dentro di noi o nel rapporto con “l’altro”. Ma chi non ha provato nel suo percorso, 15 breve o lungo, di antropologo o aspirante tale, un senso di rifiuto, paura, ingestibilità dei sentimenti davanti “all’altro”. L’inserimento all’interno di un gruppo è già, per i soggetti che vi partecipano, una prova del coinvolgimento dell’antropologo. L’esplicitazione della “presenza” è, in alcuni casi, una fase molto difficile della ricerca etnografica, poiché costituisce il momento della messa in scena del sé, dell’io del ricercatore, portatore di conoscenza e rappresentazioni; ma anche un momento in cui si negoziano identità e saperi tra le due parti. Da parte dei soggetti sociali “osservati” c’è spesso una tendenza a salvaguardarsi da eventuali rischi o effetti indesiderati causati dall’estraneo, nel caso in cui l’antropologo assuma posizioni incontrollabili da parte dei centri di autorità e potere. L’etnografo che si confronta con dei terreni più “familiari” o vicini affronta in ogni caso delle problematiche trasversali a tutta l’etnografia”. Forse può apparire un vantaggio la conoscenza della lingua, la delimitazione del territorio e dei suoi spazi, la conoscenza dei tratti culturali (regole prossemiche, codice dell’ironia, interdizioni, tabu, parentela, forme di vita, organizzazione politica), la comprensione del senso comune; tuttavia questi vantaggi possono produrre anche delle controindicazioni, fino a condizionare inconsciamente gli approcci analitici e interpretativi del ricercatore. Infatti, per quanto riguarda la mia indagine sul campo, non è stato molto semplice gestire rapporti con le autorità e con i soggetti sociali, senza incorrere nel “rischio” di essere a mia volta “oggetto di interesse”. Nel corso dell’esperienza etnografica ho constatato una certa difficoltà nel percepire e comprendere la figura dell’”antropologo”. La mia indagine - “Spazi e tempi tradizionali del cibo nella contemporaneità. Processi di patrimonializzazione nel Valdarno aretino” – si sta concentrando particolarmente sulle dinamiche che si instaurano tra pratiche del cibo, attori sociali, istituzioni, saperi e reti di relazioni, attraverso cui si riproduce e si ripropone il passato nella dimensione locale. Sono le retoriche sul cibo, in particolare, che mettono in luce le politiche e le strategie identitarie. Soprattutto l’autorità tende ad escludere l’interesse critico del ricercatore davanti al fenomeno che dichiara di osservare. In perfetto passo con i tempi, si crede che il presunto oggetto di interesse dell’antropologo risponda in qualche modo ad una passione, ad un desiderio di promozione e “tutela” del fenomeno del “tradizionale”, che spesso coincide con il “pluriconnotato” e abusato termine di “prodotto tipico”. A questo livello subentra una richiesta implicita di aiuto reciproco, in cui le due parti si scambiano informazioni vicendevolmente; con la differenza che le figure sociali appartenenti ad enti pubblici, nella figura di autorità o semplici funzionari, tendono a carpire informazioni utili per acquisire una maggiore competenza sul loro operato e sulle scelte future, e si trovano contemporaneamente spiazzati dalla banalità, talvolta, delle domande che si pongono loro: ad esempio legami familiari, rapporti di scambio, composizione delle famiglie, o delle aziende, articolazione dei pasti, preferenze, gusti etc.. Lo stupore, forse, è dettato dall’idea che il sapere scientifico si occupi di problemi più elevati rispetto alle questioni private familiari o, come nel caso specifico, dei soggetti implicati nella catena di produzione o promozione delle filiere dei prodotti. Nozioni come antropologia, sociologia sembrano approcci analitici poco fruibili rispetto alla storia, che sembra l’unica prospettiva scientifica conosciuta ed accettata. Non a caso, i soggetti più “colti” ritengono la conoscenza della storia locale l’unico vantaggio possibile nella costruzione dell’identità del territorio. Ma, allo stesso tempo, percepiscono il mio interesse come una forma di sapere su cui investire, in un processo di negoziazione continuo, conferendomi l’accesso a riunioni o ad associazioni, in cambio di una mia partecipazione “attiva”. Come ha detto un’ autorità pubblica: “Adesso dobbiamo valorizzarti, sei un patrimonio anche tu…” 16 In questo senso le nozioni di spazio, campo, territorio, per quanto riguarda questa indagine, mi hanno condotto a fronteggiare attivamente non solo il campo inteso come spazio di rapporti intersoggettivi e dialogici tra ricercatore e comunità, ma anche le relazioni spazio-temporali in senso diacronico, i processi di trasformazione, il rapporto natura-cultura, la microstoria l’economia (tempi e luoghi di scambio, trasmissione del sapere), la tecnologia, la memoria e il senso comune. Mi sono chiesta se le scelte di selezionare e privilegiare determinati spazi all’interno del territorio fossero dettate dalla vivacità di certe politiche: sedimentazioni di potere e fenomeni particolarmente significativi per l’oggetto indagato, che si riproducono in determinati luoghi piuttosto che in altri. Sicuramente non è molto semplice, oggi, rintracciare gli spazi “tradizionali” di quella che forse impropriamente si definisce ancora “cultura popolare”. Infatti, dalla timida subalternità delle mezzadre che ho intervistato per la tesi di laurea, mi sono imbattuta in una nuova generazione di “contadini” che tra una semina e una raccolta trovano il tempo per fare un salto a Londra, ad una fiera enogastronomia internazionale per promuovere il proprio prodotto, alcuni parlano inglese; altri partecipano a trasmissioni per la promozione dei prodotti del territorio, tengono corsi presso le scuole e poi balzano di comune in comune e di provincia in regione partecipando a riunioni con le autorità locali; spesso è la moglie che gestisce attivamente l’azienda agricola, mentre al caldo di un caminetto ristrutturato si tessono relazioni sociali con chissà quale personaggio dello spettacolo eletto ad icona del “loro” territorio. Davanti a tutto ciò è chiaro che l’oggetto si complica, ma, soprattutto, l’oggetto richiede la considerazione di più categorie analitiche. Per questo, nel caso specifico, ho optato per un’analisi delle trasformazioni e del mutamento degli spazi e dei tempi del cibo tradizionale nella contemporaneità mantenendo come termine di raffronto – ma anche di continuità aggiungerei - le pratiche alimentari mezzadrili dagli anni Trenta fino al loro declino negli Settanta. Analizzare gli spazi e i tempi del cibo tradizionale nella contemporaneità potrebbero far credere possibile un legame di continuità con i mezzadri, che sono il passato prossimo di queste nuove figure e forme di “vita contadina” che oggi mi trovo ad osservare. Ma rispetto ad un tema come la mezzadria - un oggetto frequentato da tutte le scienze umane, da vari punti di vista teorico-metodologici - mi trovo adesso a impiegare categorie metodologiche completamente diverse e ulteriormente complesse, rispetto agli strumenti “classici” di approccio al folklore. Nonostante si tratti di una o due generazioni successive a quella dei mezzadri - figli e nipoti - l’oggetto chiama comunque in causa molteplici livelli apparentemente lontani, che risiedono nell’interstizio teorico, oramai quasi universalmente accettato, del locale e globale. Quello che suscita maggior curiosità e motivo di riflessione è vedere come certe categorie, che hanno goduto di stabilità nel tempo hanno subito o stanno subendo profondi mutamenti (in questo caso particolare penso a quella di folklore) Da qui forse nasce l’interesse ai “processi”, dove è il sostantivo, piuttosto che gli aggettivi che lo seguono, a sottolineare una tendenza “generale”, che va oltre i territori singoli di indagine. Dunque, “flusso”, “rete”, “relazioni” sono i comuni denominatori dei nostri “campi”…? Forse si. Se penso alle politiche messe in atto da Slow Food, nel creare una rete globale con il nome di “Comunità del cibo”, in cui ricomprendere tutti i particolarismi delle produzioni “difese” dall’associazione: un modo di creare connessioni tra gli agricoltori e i contadini di tutto il mondo, mantenendo i tratti distintivi delle varie produzioni; penso anche alla diffusione sovranazionale dei prodotti, attraverso la soluzione politico-retorica dei Presidi, oppure i cosiddetti “gemellaggi” tra prodotti di diverse culture. 17 Reti, processi, relazioni potrebbero dunque essere questi i comuni denominatori delle nostre esperienze etnografiche; con la consapevolezza, tuttavia, della diversità delle risposte che, nel tempo e negli spazi eterogenei, si hanno rispetto a certi fenomeni e all’importanza che questi ultimi assumono all’interno di ciascun contesto. Bibliografia − Augè, M., 1992, Non luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 1993 − Augè, M., 1994, Storie del presente. Per un’antropologia dei mondi contemporanei, Milano, Il Saggiatore, 1997 − Bourdieu, P., 1979, La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1983 − Bourdieu, P., 1972, Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Milano, Raffaello Cortina, 2003 − De Certeau, M., 1994, L’invention du quotidien, Paris, Gallimard − Fabre, D. (a cura di), 1996, L’Europe entre cultures et nations, Paris, Editions MSH − Hannerz, U., 2001, La diversità culturale, Il Mulino, Bologna − Kilani, M., 1994, L’invenzione dell’altro. Saggi sul discorso antropologico, Bari, Dedalo, 1997 − Leroi- Gourhan, L., 1965, Il gesto e la parola, 2 voll., Torino, Einaudi, 1977 − Palumbo, B., 2003, L’Unesco e il campanile. Antropologia politica e beni culturali in Sicilia orientale, Roma, Meltemi − Segalen, M., 1998, Riti e rituali contemporanei, Bologna, Il Mulino, 2002 − Geertz, C., 1973, Interpretazione di culture, Bologna, Il Mulino, 1988 Riflessione sui concetti di “spazio”, “territorio” e “campo” Signe Stroem Appadurai descrive nel suo libro Modernity at Large (1996) i molteplici flussi globali, descritti con i termini di “etnorami”, “mediorami”, “tecnorami”, “ideorami”, che ormai hanno messo in crisi l’immagine del mondo come diviso in singole culture, come unità chiuse, ancorate in territori circoscritti. Nel contesto della mia ricerca questi flussi sono molto visibili e mettono in evidenza l’importanza di non considerare più la ricerca etnografica come situata in una singola località, ma studiare anche le connessioni tra molti luoghi e fenomeni attraverso i flussi di persone, metafore ed altri processi transnazionali come suggerito da Marcus (1995). Pur riconoscendo il rischio di entrare troppo nei dettagli della mia ricerca (“turismo e condizione femminile in Talek Community, Maasailand”) e della mia esperienza sul campo, vorrei in queste pagine discutere la deterritorializzazione, riterritorializzazione e i flussi globali partendo da un contesto concreto. In particolare vorrei illustrare come il territorio è costruito, come osservato tra altri da Gupta e Ferguson, (1997), storicamente, politicamente e in base a rapporti di potere; e come la concezione di questo, e i valori con cui viene rivestito, cambiano 18 con l’andamento dei movimenti ideologici a livello internazionale. Quindi vorrei sottolineare l’importanza di un approccio interdisciplinare nella ricerca antropologica, che prende in considerazione studi compiuti negli ambiti della storia, dell’ecologia e di altri settori. In particolare ritengo opportuno considerare il campo dei media studies, in quanto l’idea che molte persone hanno del mondo “is shaped by books, postcards (…) evening news”, come ha detto Appadurai (1986). Il nome inglese del territorio dove si svolge la mia ricerca, Maasailand, riflette l’idea dell’isomorfismo tra cultura e territorio (Gupta e Ferguson, 1992), ormai superata in antropologia, ma che esiste ancora come luogo comune. I confini del Maasailand sono un risultato di eventi storici e dinamiche politiche più che un dato naturale: con la colonizzazione europea, la territorializzazione della “cultura masai” fu rafforzata e inoltre la popolazione fu divisa dalla frontiera degli stati che attualmente si chiamano Kenya e Tanzania. In Kenya, le aree in cui vivevano i pastori masai erano considerate importanti per l’agricoltura e vaste porzioni di terreno furono trasformate in aziende agricole. In aggiunta a ciò, la popolazione fu controllata e portata a vivere in riserve chiuse in base all’ ”origine etnica” e i loro spostamenti e contatti con gli altri gruppi della popolazione furono controllati; al contrario i masai, che percepivano, diversamente dai colonizzatori, la loro identità come fluida, avevano sempre avuto rapporti e scambi di beni di consumo e matrimoniali con altri gruppi e godevano di una grande mobilità geografica. Attualmente i rapporti tra i pastori e gli altri gruppi della popolazione sono conflittuali in primo luogo per la scarsità di terra, che rappresenta un problema molto sentito in Kenya. I Masai sono conosciuti come poco disposti a cambiare e tradizionalisti; ad esempio non emigrano nelle città nella stessa proporzione di altri kenioti, che si spostano ed immigrano anche nelle aree di popolazione masai. Percio’ si è creato un clima di tensione in cui i pastori ritengono che il loro territorio, adibito a pascolo, si sia ridotto con l’arrivo degli agricoltori. Inoltre, i Masai rivendicano il diritto di un vasto territorio ora a disposizione di proprietari di grandi aziende agricole, che fu “affittato” per 99 anni agli Inglesi, tramite un contratto con un leader locale. Allo scadere del contratto nell’ agosto 2004, il governo ha dichiarato che i grandi proprietari non devono lasciare la loro terra; il contratto durerà ancora 900 anni! Dagli anni ‘70 il turismo ha avuto un’importanza crescente per il paese e si è deciso, a livello politico, di seguire l’ideologia ambientalista, importante per i buoni rapporti con l’Europa e con gli USA: perciò, si è deciso di trasformare territori prima destinati al pascolo in riserve naturali e così impedire l’accesso a risorse naturali importanti per i locali. Una delle motivazioni per questa esclusione è stata probabilmente che i turisti non vorrebbero vedere mucche sulla savana. Questa politica viene giustificata come finalizzata alla protezione della biodiversità utilizzando concetti tramandati dal periodo coloniale come “over-stocking”, “over-grazing” e si considerano i modi di usufrutto locali come irrazionali, in quanto la combinazione fra proprietà privata del bestiame e accesso comune a risorse come pascoli e acqua porterebbe necessariamente ad uno sfruttamento ecologicamente insostenibile di queste risorse. Al contrario degli ambientalisti, che ritengono che i Masai abbiano troppi capi di bestiame e che le loro pratiche pastorali danneggino l’ambiente, molti autori sostengono che attualmente la pastorizia tradizionale sia la forma di sfruttamento delle risorse naturali migliore per le zone aride e semi-aride del Maasailand (Kimani e Pickard, 1998). 19 Questi concetti riguardanti l’irrazionalità del sistema di pastorizia locale vengono utilizzati anche come argomento per sostenere la politica governativa della privatizzazione della proprietà terriera attualmente in atto nel Maasailand keniota, che mette ancora più in crisi la sussistenza della popolazione. In questo contesto il turismo sta assumendo sempre più importanza da un punto di vista economico per gli abitanti delle aree masai, in particolare per le comunità adiacenti ai parchi naturali. Come osservato da Appadurai (1997:5) i flussi globali hanno fortemente condizionato l’immaginario che ora non e’ piu’ un fenomeno circoscritto all’arte, alla mitologia e alla ritualita’, ma e’ diventato “a part of the quotidian mental work of ordinary people in many countries” importante per la maggior parte della popolazione mondiale; le persone viaggiano come anche le immagini, e in questo contesto specifico i turisti, prevalentemente europei ed americani, vengono a vedere gli animali e conoscere “la cultura masai”, famosa in tutto il mondo attraverso i media. Nelle rappresentazioni che vengono proposte dai mezzi di comunicazione, il legame tra i Masai e il loro territorio viene descritto come naturale, e questo è, secondo Appadurai (1988:37) una caratteristica delle raffigurazioni delle popolazioni indigene, intese come quelle residenti in aree del mondo non ancora industrializzate. Infatti, l’autore osserva come i nativi vengono visti come “incarcerated”, “confined” nei luoghi, ossia come immobilizzati dalla loro appartenenza al territorio, che allo stesso tempo limita le loro possibilità di azione e intervento su questo. Gupta e Ferguson (1997:7) osservano come, in antropologia, si tende a creare una dicotomia tra “the local” caratterizzato come autentico, naturale e originario e “the global” che viene descritto in termini opposti. Secondo me questa dicotomia è presente in grande misura nelle società europee in generale e, anche se viene estrinsecata soltanto di rado esplicitamente, fa però parte dell’immaginario e la “nostalgia del rurale” (ibid) spinge molti turisti ad andare in posti come il Maasailand. Risulta palese da questi accenni la mia ricerca riguarda anche processi politici, storici, ideologici e relazioni di potere che si realizzano a livello nazionale e globale. Come suggerito da Gupta e Ferguson (1997:35) viviamo in un “interconnected world” e parlando del “campo” della ricerca antropologica si può mettere in dubbio se l’antropologo esce mai da questo; il campo inteso come “the where” (ibid:2) dell’indagine etnografica risulta molto più complicato e differenziato di quanto spesso si crede. I vari luoghi del mondo sono ovviamente connessi in vari modi e in vari gradi: i flussi globali investono Talek Community ad una scala molto piu’ ridotta rispetto ai paesini dell´Italia, però l’interconnessione c´è, e questa influisce sulla mia ricerca. Si può dire che una parte consistente del “mio campo” sono le relazioni interpersonali stabilite a Talek, cioè i “travel encounters” come suggerito da Clifford (1997:1998), che continuano a svilupparsi, tramite le reti di comunicazione (internet, telefono, posta) nonostante i miei spostamenti geografici. Inoltre, i flussi di immagini e di informazioni dei mass-media creano una continuità del campo anche attraverso i confini nazionali: guardando ed analizzando trasmissioni televisive come la Talpa, Geo-geo, leggendo giornali e riviste che parlano dei Masai e dei loro conflitti per il diritto al territorio etc, mi sento ancora “sul campo”, che risulta così, più che una località geografica, un insieme di scambi interpersonali e mediatici. 20 Bibliografia − Appadurai, A., 1988, Place and Voice in Anthropological Theory, in Cultural Anthropology Vol. 3, No. 1, 36-49 − Appadurai, A., 1997, Modernity at Large. Minneapolis: University of Minnesota Press − Clifford, J., 1997, Spatial Practices: Fieldwork, travel, and the Disciplining of Anthropology, in Gupta, A. & Ferguson, J. eds. Anthropological Locations: boundaries and grounds of a field science. London: University of California Press − Gupta, A. & Ferguson, J., 1992, Beyond “Culture”: Space, Identity, and the Politics of Difference, in Cultural Anthropology, Vol. 7, No. 1, 6-23 − Gupta, A. & Ferguson, J., 1997, Discipline and Practice: “The Field” as Site, Method, and Location in Anthropology, in Gupta, A. & Ferguson, J. eds. Anthropological Locations: boundaries and grounds of a field science. London: University of California Press − Kimani, K. & Pickard, J., 1998, Recent trends and implications of group ranch subdivision and fragmentation in Kajiado District, Kenya. The Geographical Journal 164 (2), July: 202-213. − Marcus, E. G., 1995, Ethnography in/of the World System: The Emergence of MultiSited Ethnography, Annual Review of Anthropology, Vol.24, 95-117 Un viaggio multivocale attraverso la polifonia dello spazio e del territorio nell’antropologia contemporanea Daniela Valentina Fiegna La dimensione spaziale delle pratiche e delle credenze culturali ha occupato, da sempre, un posto centrale negli interessi degli antropologi: dalle più classiche descrizioni del paesaggio naturale e delle condizioni di vita all’interno di determinati luoghi, alla più recente presa di coscienza del fatto che lo spazio è un componente essenziale e fluido di ogni rappresentazione socioculturale. I territori non sono contenitori inerti e immobili, pure ambientazioni per le azioni, scene in cui accadono le cose: sono paesaggi mutevoli, carichi di significati politici, storici, economici, sociali, religiosi. All’interno del dibattito più recente Appadurai (1988) definisce il problema del territorio come «the problem of the culturally defined locations to whitch ethnographies refer ». Critica il fatto che alcuni luoghi siano diventati metonimie per certe idee e immagini antropologiche -ad esempio l’India per il concetto di gerarchia - suggerendo che la polifonia che è stata riconosciuta all’atto comunicativo andrebbe applicata anche allo spazio: i luoghi come concetto antropologico sono una voce complessa, locale e multipla. I territori e le voci non sono una semplice creazione accademica. Le realtà fisiche, emozionali, di esperienze che si incontrano in paesaggi lontani andrebbero comprese e vissute non come semplice scenario per una ricerca etnografica. Come suggerisce Margaret Rodman (1992), «while anthropologist indeed create places in ethnography, they hold no patent on placemaking». 21 In questo breve contributo vorrei affiancarmi agli autori che hanno trattato la tematica dello spazio e del territorio in maniera critica, non potendo prescindere dal considerare anche alcune dimensioni ad essa connesse, come la corporeità, la temporalità e le relazioni di potere. Come può dunque, uno studio antropologico sul territorio, relazionarsi in maniera non unilaterale, statica e scontata con le esperienze di vita che si creano, svaniscono e s’intrecciano in quel luogo particolare? Mi appoggio a Nancy Munn (1990) nel suggerire una possibile risposta: esplorando l’idea di una multilocalità «as one way of constructing regional worlds in experience». I luoghi non sono dati, ma vissuti in forme discrete e in continuo movimento, quindi creati, nella pratica della vita di tutti i giorni. Lo spazio occupato dal corpo - e la percezione e l’esperienza di questo spazio - si contrae e si espande in stretta relazione con le emozioni, lo stato della mente, la coscienza di sé, le relazioni sociali e le predisposizioni culturali. I movimenti e le attività fisiche creano e sono create dallo spazio del loro concretizzarsi, in questo modo il corpo è continuamente investito da significati culturali spaziali e lo spazio da significati corporei. Già Marcel Mauss (1950) ragionava sul fatto che le abitudini acquisite dal proprio contesto sociale e le caratteristiche somatiche, che lui chiamava «tecniche del corpo», includono tutte le “arti culturali”, atte a usare il corpo ed essere nel corpo e nel mondo. Pierre Bourdieu usa il termine habitus per esprimere il modo in cui, attraverso i corpi, gli esseri umani interiorizzano tratti culturali e appartenenza a strutture sociali, riproducendoli per adattamenti successivi all’ambiente circostante. L’habitus si costituisce attraverso le pratiche della vita di tutti i giorni ed è sempre esposto alla possibilità di ricevere sanzioni negative, quando l’ambiente in cui si confronta realmente è troppo distante da quello per cui sarebbe adatto. La pratica è il prodotto della relazione dialettica tra una situazione e un habitus, «funziona in ogni momento come matrice delle percezioni, delle valutazioni e delle azioni e rende possibile il compimento di compiti indifferentemente differenziati, grazie al trasferimento analogico di schemi che permettono di risolvere i problemi aventi la stessa forma e grazie alle correzioni incessanti dei risultati ottenuti […]» (Bourdieu, 2003: 211). Anche per Nancy Munn questo adattamento si costruisce attraverso l’esperienza pratica che si ha di quello che ci accade, collegandolo con le possibilità passate e quelle future. Le relazioni che si creano tra spazi vissuti avvengono attraverso l’esserci del corpo in un territorio e la facoltà di evocazione, attraverso la memoria corporea, di altri avvenimenti e di altri luoghi, rendendo possibili attraverso i ricordi, le valutazioni per il futuro. Rabinow (1988: 356) elabora l’idea di horizons per spiegare il linguaggio di relazioni attraverso cui le persone creano il mondo così come lo conoscono, affermando che ogni mondo possibile appare solo esaminando le frontiere del presente, che funzionano come limite a quello che sappiamo, speriamo, facciamo. Questi mondi costituiscono i confini della nostra esperienza. Per questa ragione i luoghi dove gli esseri umani imparano a conoscere la loro cultura sono la «scuola del mondo», in cui l’universale e il particolare, il passato e il futuro, sono congiunti in un’unica relazione che si manifesta nel presente. Come fare per dare voce a tutte queste “scuole del mondo”, senza farle diventare dominio dell’occidente attraverso le nostre parole? Secondo Edward Said l’unico modo che abbiamo di comprendere il mondo attraverso il filtro della nostra cultura è quello di riconoscere il contesto imperialista che gli ha dato forma e che continua a formarla. In questo modo di vedere, per esempio, i caratteri dell’India che per noi sono più rilevanti - come le come le caste, la spiritualità, la trasmigrazione, il karma - sono frutto di una retorica occidentale che si guarda allo specchio e usa catalogare e classificare il 22 diverso per riaffermare la propria identità e il proprio dominio. George Marcus (1989: 25) propone una strada per andare oltre questo problema suggerendo che ogni attività o identità culturale è costruita da una moltitudine di agenti, in vari contesti o luoghi. L’etnografia che ne consegue dovrebbe essere concepita strategicamente, per rappresentare questa molteplicità, dando valore sia ai risultati desiderati corrispondenti alle nostre aspettative sia a quelli inaspettati: «an ethnography that while it encompasses local conditions, is aimed at representing system or pieces of system». Tuttavia Marcus non ci fornisce una spiegazione per quello che intende come sistema… Giddens (1979 e 1990), attraverso il concetto di “locale” ci fornisce un possibile aiuto per trovare un legame tra l’individuo e quello Marcus potrebbe voler intendere: «the physical setting of social activity as situated geographically» (Giddens 1990: 18). Giddens va oltre, suggerendo che lo svuotamento del concetto di tempo, caratteristico dei nostri giorni, ci porta a un contemporanea astrazione nel considerare lo spazio, separandolo dal territorio. Nelle società “tradizionali” le attività umane caratteristiche di un territorio davano forma allo spazio. Con l’allentarsi e il distanziarsi dei legami umani, nel mondo di oggi, assistiamo a una rivoluzione che crea nuove aree spaziali e confini temporali (basti solo pensare alle cosiddette realtà virtuali). Quello che bisogna esplorare, attraverso analisi decentrate, diviene la multilocalità degli spazi, che per Giddens sono luoghi fantasmagorici in cui l’esperienza dell’esserci si confronta continuamente con il cambiamento e la processualità del reale, dando vita a una complessa successione di immagini. Seguendo le orme di Giddens e Marcus, Margaret Rodman ci invita a pensare sul fatto che il concetto multilocalità è esso stesso multiplo e quindi a esplorarlo seguendo varie direzioni: attraverso analisi decentrate che ci diano modo di dar voce sia alle rappresentazioni occidentali che a quelle non occidentali; combinando analisi comparative e etnologie contemporanee; cercando un rapporto riflessivo con i luoghi e valutando le distorsioni che possono nascere dal confronto tra il familiare e il non familiare; e infine considerando che ogni territorio esprime significati polisemici per ogni differente attore che vi si trova. Come suggerisce Fabian (1990), per raggiungere un’etnografia efficace bisognerebbe pensarla come una pratica per farci sentire “gli altri” come presenti, invece di creare rappresentazioni che ci fanno percepire, degli altri, solo l’assenza. La multilocalità ci aiuta così a guardare il mondo attraverso il confronto di esperienze e racconti di vita che accadono in territori diversi e più o meno distanti, per poi riconoscere, in fin dei conti, che facciamo tutti parte dello stesso pianeta. Note per un territorio ai confini dell’India: spazi esclusi nella valle di Malana. Malana è un villaggio sperduto sull’ Himalaya indiano, a nord-ovest della valle di Kullu, nello stato dell’Himachal Pradesh. E’ un luogo solitario, isolato dal resto dell’India e del mondo. La gestione della vita sociale all’interno del paese è democratica (Sharma P., Chauhan N. S., Lal B., 2004) e c’è chi dice che gli abitanti siano di origine greca, disertori dell’esercito di Alessandro il Macedone che si sono sposati con donne locali. I malani sono intoccabili, non nel senso classico, che li rappresenta come ultimo gradino della scala sociale. Non possono essere toccati perché il loro potente dio Jamlu, che guarda tutto dall’alto come un enorme occhio invisibile, non lo permette. Non possono mangiare alcun cibo se non quello cucinato all’interno delle loro abitazioni, trovandosi spesso nella condizione di offrire senza poter ricevere da nessuno. Anche le loro case non possono essere toccate dagli stranieri, compresi gli indiani di altri paesi e chi vi trasgredisce deve essere giudicato al cospetto della defta, il consiglio degli anziani, attraverso cui 23 parla Jamlu stesso. Quando si va a fare la spesa nei piccoli negozi del villaggio, la mercanzia acquistata non viene mai passata di mano in mano, ma posta per terra, per poi essere raccolta dall’acquirente. In fondo, i veri intoccabili sono i forestieri… I Malani parlano una propria lingua, completamente diversa dall’Hindi e dagli altri dialetti locali. Raccontano che nella notte dei tempi, quando Jamlu era ancora un rishi2, decise, dopo aver patteggiato con suo fratello, di occupare la parte alta della vallata dove oggi è il paese. Questa landa era occupata da un rakshasa3 che sbranava tutte le persone che provavano ad avvicinarsi al suo territorio. Quando Jamlu arrivò al suo cospetto, gli disse che avrebbe sbranato anche lui… Il demone iniziò a tagliare tutti gli alberi della valle per fare un grande fuoco, poi prese una pentola enorme e iniziò a cuocere Jamlu. Passarono mille anni: il fuoco continuava a bruciare e il rakshasa continuava a tagliare alberi e ogni tanto alzava il coperchio per vedere se Jamlu era pronto… Poi ne passarono altri mille e quando il demone vide che Jamlu era ancora vivo si arrese, dicendogli che era troppo potente per lui e che non poteva mangiarlo, poiché non riusciva a cuocerlo. Gli propose di provare lui a bruciarlo e, nel caso ci fosse riuscito, gli promise di andarsene. Allora Jamlu fece un fuoco piccolissimo con pochi bastoncini di legno e alcune pagliuzze e disse al demone di metterci sopra soltanto il mignolo del suo piede. Immediatamente il rakshasa si bruciò e accettò di andarsene a dormire in cima alla montagna, dall’altra parte del fiume Parvati che scorre a fondo valle, a patto che tutti i discendenti di Jamlu avessero parlato la sua lingua. Il modo in cui gli abitanti di Malana considerano il territorio nella vita di tutti i giorni è strettamente connesso con il potere di Jamlu e con questa divisione ancestrale, creando delle interdizioni a muoversi in alcune aree, in alcuni momenti, in parte uguali per tutti, in parte differenziate. Oltre alle proibizioni che derivano dal credere che lo spazio circostante, corrispondente alla zona in cui dorme il demone, abbia un valore negativo e di pericolo, ve ne sono altre in qualche modo più fluide: Jamlu non ha volto e non può essere rappresentato ma la sua presenza è particolarmente evidente in alcuni luoghi, come la pietra nera al centro della piazza del paese, tutte le case degli anziani, la fontana principale e alcuni alberi che sono all’entrata e all’uscita del villaggio. Particolari e mutevoli forme spaziali sono il risultato: i territori in cui si può muovere una persona variano a seconda del sesso, dell’età raggiunta, di particolari momenti della vita e dell’anno e soprattutto dall’essere o non essere un abitante originario. Per capire il rapporto che i Malani hanno con la loro terra la nozione antropologica di tabù e il concetto di luogo sacro, ci possono venire in aiuto, ma solo se le dissolviamo in più generali confini spazio-temporali di durata relativa e consideriamo lo spazio-tempo come un nesso simbolico di relazioni create dall’interrelazione di attori fisici e spazi terrestri. Le proibizioni spaziali divengono dei limiti alla presenza di una persona in particolari luoghi. Per comprendere queste pratiche bisogna considerare il problema del territorio sotto un duplice aspetto: quello di “essere un luogo” e quello di “esserci delle persone” nel luogo. Questa ambivalenza è alla base di ogni spazio sociale, pensato sia come “base per le azioni” che come “campo per le azioni”, «places whence energies derives and whiter energies are directed ». (Lefevre 1991: 191 e Munn 1992). Nella formulazione di uno spazio-tempo esclusivo si crea una dinamica di interrelazioni tra due modalità di spazio contemporaneamente operative: il “campo per le azioni” è lo spazio mobile creato dagli abitanti in rapporto con determinati luoghi, cose o 2 3 Saggi che secondo la tradizione videro misticamente rivelati gli inni vedici Demone 24 persone; la “base per le azioni” sono i territori materiali che si prestano, in ogni momento, alla possibilità di movimento delle persone. Il territorio può essere definito facendo riferimento ad un attore sociale, che ne diviene il centro organizzato di percezione, manipolazione, riproduzione, e può essere compreso come spazio corporeo creato dall’agente in rapporto a distanze esterne e al valore simbolico attribuito a determinati luoghi, dando vita a particolari azioni o posture, in un luogo dato, o come movimento attraverso i luoghi. Questi campi di azione sono tracciati lungo traiettorie ipotetiche, che hanno i loro centri nei corpi, con i loro movimenti, le loro capacità tattili e percettive, e la possibilità di andare oltre il proprio essere, con lo sguardo, l’udito, la voce. In questo modo il corpo diviene impregnato di significati spaziali e il campo spaziale di significati corporei. Quando i malani devono percorrere un territorio con valore negativo, come la zona in cui dorme il demone, o vogliono sostare all’interno delle case in cui vivono stranieri, stanno sempre attenti allo sguardo vigile di Jamlu cercando di interpretare quale sia il comportamento giusto per il dio, valutando quale sia la pericolosità reale dell’azione da compiere, i vantaggi e gli svantaggi che ne potrebbero derivare, per poi escogitare strategie nel comportamento. Spesso per accontentare Jamlu è sufficiente lavarsi con cura dopo essere stati in luoghi pericolosi e sacrificare una o più pecore alla defta per “lavare” dei luoghi in cui vi hanno abitato i “non malani”. Per i forestieri la regola è il generale divieto a toccare qualsiasi luogo o persona all’interno del villaggio, con particolare pericolosità per alcuni punti. La pena è di offrire dei soldi o un sacrificio alla defta proporzionati alla sacralità della parte di territorio o della parte del corpo che si è toccata. In caso di rifiuto si viene legati e spinti a calci e sassate giù dalla vallata con il divieto assoluto della defta di farvi ritorno. Questa è la legge che vige sul territorio di Malana. A fondo valle tutto svanisce e dove l’occhio di Jamlu non arriva anche i malani vivono senza restrizioni. Anche l’aspetto ecologico del territorio di Malana è molto complesso e singolare, poiché negli ultimi anni la vallata è divenuta uno dei luoghi di massima produzione di charas: le piantagioni locali di patate e miglio sono state sostituite, quasi interamente, da campi di marijuana, provocando una serie di modifiche al paesaggio e alla vita all’interno del villaggio. Gli abitanti si sono notevolmente arricchiti e sono diventati abili nel commercio, sempre più stranieri vi arrivano per acquistare droga, molti nepalesi vi si sono trasferiti per lavorare nei campi di cannabis e il governo indiano ha incominciato a interessarsi a quest’area, dimenticata per secoli, per arrestare la produzione e il commercio di stupefacenti. Le irruzioni dei poliziotti e la distruzione di ettari di piantagioni sono diventati sempre più frequenti. Recentemente è stata costruita una strada asfaltata che permettere di raggiungere Malana in sole due ore di cammino a piedi, invece delle sette di solo qualche anno fa. Sono anche stati messi cartelli in cui si avvisano i visitatori stranieri delle proibizioni e delle restrizioni a percorrere e toccare determinati luoghi all’interno del villaggio. Cosa ancora più preoccupante i discendenti di jamlu hanno imparato a parlare in hindi e qualche parola di Inglese e quindi il demone dovrebbe essersi svegliato. I malani non avrebbero voluto tutto questo, consideravano la produzione di charas in armonia con il paesaggio e l’isolamento del loro villaggio. Dal loro punto di vista avrebbero, un po’ più ricchi, continuato a seguire le loro regole e le loro interdizioni senza l’intromissione della legge indiana, da cui si vogliono separare e che non credono possa rappresentarli. 25 Bibliografia − Appadurai, A., 1988. Introduction: Place and Voice in Anthropological Theory. Cultural Anthropology 3(1): 16-20. − Bourdieu, P., 2003. Per una Teoria della Pratica. Milano: Raffaello Cortina Editore. − Giddens, A., 1979. Central Problems in Social Theory: Action, Structure and Contradictions in Social Analysis. Berkley: University of California Press. − Giddens A., 1990. The Consequences of Modernity. Stanford, CA: Stanford University Press. − Lefebvre H., 1991. The Production of Space. Oxford: Blackwell. − Marcus, 1989. Imagining the Whole: Ethnography’s Contemporary Efforts to Situate Itself. Critique of Anthropology 9(3): 7-30. − Mauss., M., 1950. Le Techniques du corps. Sociologies et Anthropologie. Paris : Presses Universitaire de France. − Munn, N., 1990. Constructing Regional Worlds in Experience: Kula Exchange, Witchcraft and Gawan Local Events. Man 25: 1-17. − Munn, N., 1996. Excluded Spaces: The Figure in the Australian Aboriginal Landscape. Critical Inquiry 22: 446-445. − Rabinow P., 1988. Beyond Ethnography: Anthropology as Nominalism. Cultural Anthropology 3: 255-364. − Rodman M., 1992. Empowering Place: Multilocality and Multivocality. American Anthropologist, 94(3), 640-656. − Said E., 1989. Representing the Colonized: Anthropology’s Interlocutors. Critical Inquiry 15: 205-225. − Said E. 2001., Orientalismo. L’ Immagine Europea dell’Oriente. Milano: Feltrinelli. − Sharma, P., Chauhan N. S., Lal B. 2004. Malana : An Abode of Unique Democracy in High Mountains of Western Himalaya. Man in India vol.84, n. 34: 341 351. Sul “campo”, lo “spazio”, il “territorio”… Andrea Ravenda Come detto nel mio precedente intervento, in antropologia, discutere sulle nozioni di campo, spazio e territorio significherebbe ripercorrere la storia della disciplina, ponendo questi temi di dibattito, come problemi di natura teorica, epistemologica e anche politica, dove per “politica”, facendo riferimento a Foucault, intendo il quadro dei rapporti di forza nell’ambito, in questo caso, delle produzioni scientifiche. Non vi è etnografia, infatti, che non si produca attraverso una ricerca sul campo: stabilendo una distanza da percorrere verso il soggetto (o il fenomeno) di interesse in uno spazio fisico e culturale; radicandosi e radicando l’oggetto di studio nel territorio inteso nelle proprie molteplici componenti di natura geopolitica, storica e culturale. Al tempo stesso, il “campo”, lo “spazio”, il “territorio” (come affermato nell’abstract, concreti o simbolici che siano), nel modo in cui sono definiti, prodotti ed immaginati all’interno del dibattito disciplinare e nella pratica etnografica, tanto quanto nelle scelte 26 istituzionali delle varie scuole ed accademie, possono essere resi problematici divenendo essi stessi oggetti di indagine ed analisi. Ritengo che l’occasione offerta dal dibattito in corso e dall’incontro di Pontignano in particolare, possa essere utile più che al fine di una definizione dei concetti citati – tentativo che potrebbe essere considerato come velleitario – come discussione sulla pratica etnografica stessa, su come il trattamento di queste nozioni influenzi il lavoro che nei vari campi di ricerca siamo soliti affrontare. Ovviamente non è mia intenzione sciogliere i problemi posti in questo intervento, il mio intento è quello di sottolineare la complessità delle possibili relazioni tra le tre nozioni, e di come queste possano essere affrontate e discusse, ma soprattutto rese dinamiche all’interno di una pratica etnografica, divenendo al contempo limite e possibilità del nostro agire. Sarei risoluto, dunque, a porre la mia riflessione proponendo alcune osservazioni sulla costruzione del campo etnografico. Il fieldwork, si presenta nel proprio prodursi storico come cardine indissolubile dalla pratica etnografica e della formazione di ogni studioso della relativa disciplina, come vero e proprio rito di passaggio (Clifford 1997), basti pensare ad esempio, alla presenza continua ed al riferimento al modello Malinowskiano, appunto di ricerca sul campo, come “mito immaginario antropologico” (Stocking 1992): “piantare la propria tenda al centro del villaggio” in una relazione biunivoca tra lo studioso e l’oggetto di indagine, amplificata dalla dimensione della distanza geografica e culturale. Caratteristiche oramai condivise di questo archetipo (Gupta, Ferguson 1997) potrebbero essere considerate in maniera schematica: il viaggio (nella contrapposizione field\home), la permanenza prolungata in un dato luogo ben definito e l’osservazione partecipante, caratteristiche queste poste nell’ambito della definizione della scienza antropologica, come peculiari differenze tra i propri metodi di ricerca e quelli delle altre scienze umane; se da un lato è quindi l’antropologia a definire i metodi e le tecniche del fieldwork, dall’altro è questo che stabilisce la specificità della disciplina. Questo approccio, che trova nei contesti della sua contemporaneità le proprie ragioni, ha spesso prodotto, anche attraverso processi di reificazione postumi, una antropologia in cui il campo è stato considerato come uno spazio chiuso dove incontrare ed analizzare culture confinate; identificazione questa tra il luogo scelto, una “cultura” particolare e lo sguardo del ricercatore. Nelle contemporanee etnografie, però, la tendenza maggiore è stata sempre più quella a ripensare il citato approccio (Appadurai 1991, 1996, Clifford 1997, Clifford e Marcus 1986, Gupta e Fergusson 1992, 1997, Marcus 1986, 1998 solo per citarne alcuni), aprendo un intenso dibattito finalizzato ad una vera e propria esplosione del concetto di campo. Le ragioni di questa scelta atta a problematizzare, sono rintracciabili su diversi percorsi seguiti da più studiosi; questioni riguardanti la costruzione del campo tanto in contesti postcoloniali o di globalizzazione, quanto in relazione allo studio di fenomeni processuali che di per se risultano frammentati su più contesti transnazionali, come ad esempio la migrazione (tanto per citare il mio campo di ricerca) o come nel caso del movimento Nko mandingo (Amselle 2001) o situate in veri e propri non luoghi (Augè 1992) come ad esempio le sale d’attesa di un aeroporto, fino ad ipotizzare eventuali campi di ricerca che potrebbero situarsi su internet (in Clifford 1997). Ma in maniera più semplice, senza addentrarmi in analisi che meriterebbero una sede certamente più adatta rispetto a questo rapido intervento, vorrei riportare un passaggio di un articolo dell’antropologo statunitense Robert M. Hayden (Hayden 2005 ): <<Quando un antropologo americano di origine indiana, facendo ricerca nell’India meridionale, scopre che il sacerdote del tempio che vuole incontrare si trova nel Texas 27 (Appadurai 1991, p. 201), non occorre forzare troppo il concetto di lavoro sul campo per suggerirgli di andare in Texas ad intervistare il sacerdote>> Non da meno, la considerazione di un campo frammentato o inteso in localizzazioni mutevoli, va riletta a mio avviso, anche in un ottica transdisciplinare, questo soprattutto in riferimento a contesti nei quali – l’etnografo di certo non è solo – possono operare storici, giuristi, politici, esperti locali, membri di associazioni non governative e così via, tutti soggetti attivi ed “in campo” che producono discorsi ed analisi con i quali il ricercatore, onde rischiare un approccio solipsistico, è tenuto a confrontarsi, esplorando ed inserendosi in reti di analisi e di posizioni anche politiche. Mi riferisco ad una antropologia in cui il campo è considerato come uno “spazio relazionale”, dialogico e conflittuale (Marcus 86, 98, Palumbo 91). L’etnografo, quindi, presente come corpo e con il proprio habitus di studioso (Clifford 1997), negozia il proprio posizionamento all’interno, si confronta con altri soggetti, contribuisce egli stesso alle produzioni discorsive e simboliche; si stabiliscono in questa complessa rete di relazioni i “confini del campo etnografico”. In questo contesto, inoltre, il ricercatore affina e corregge le proprie tecniche metodologiche e le proprie teorie rendendo il campo un vero e proprio laboratorio di antropologia. Al contempo questo “spazio relazionale” è radicato in un territorio, che è multisituato, tra “luoghi” geografici ed immaginari, tra produzioni culturali e posizioni politiche. A tale proposito, come già citato, vorrei richiamare alcune nozioni di antropologia relative alla questione della corporeità, in particolare quella di “incorporazione” e quella di habitus (Mauss 1965, Bourdieu 1972), ovvero quella capacità dei corpi di apprendere, di elaborare tecniche attraverso una esposizione all’ambiente sociale (Pizza 2005). Nozione di habitus che nella rielaborazione di Pierre Bourdieu non è considerata soltanto nell’ottica di un assorbire strutturato, ma come pratica, come continuo interscambio tra il corpo ed il mondo fatto di percezioni, ma anche di valutazioni ed azioni. Siamo corpi ed è il corpo storico, nel suo essere <<schema di riferimento adottato per produrre modelli d’ordinamento e di classificazione>> (Pizza 2005, corsivo mio), a vivere il mondo a conoscere gli spazi. Farò riferimento al mio caso di ricerca, in altre parole ad un’etnografia di un Centro di permanenza temporanea per migranti. Il CPT è un’istituzione totale alla quale è molto difficile accedere e che in quanto tale fa della limitazione e della definizione dello spazio e degli spazi, una sua caratteristica peculiare (Goffman1961). Ad esempio la caratterizzazione relativa allo spazio abitabile per i trattenuti (migranti privi di permesso di soggiorno e con decreto di espulsione), potrebbe essere definita attraverso la relazione tra l’esterno e l’interno dell’istituzione stessa, relazione posta come differenza da tutta una serie di barriere simboliche e concrete (sorveglianza armata, alte mura di recinzione, filo spinato, ma anche legge sulla privacy dei trattenuti). Se dell’interno sono caratteristiche le pratiche e i conflitti relativi alle relazioni tra i trattenuti, lo staff dell’ente gestore e le forze dell’ordine atte alla sorveglianza, proprio dell’esterno è il radicarsi dell’istituzione nel territorio, ovvero, in un determinato contesto storico e geopolitico identificabile in una “località” ma anche nell’insieme dei discorsi (spesso concepiti in polemica ideologica) e delle pratiche relative al tema della emigrazioneimmigrazione prodotte da molteplici soggetti, sia a livello nazionale che internazionale. Il centro nel quale ho avuto modo di fare ricerca, si caratterizzava al 2004 per alcune caratteristiche particolari, il direttore, infatti con alcuni suoi collaboratori ed alcuni agenti di 28 sorveglianza, era indagato in diversi processi con accuse (tra le altre) di falso ideologico, abuso nelle pratiche correttive, crudeltà nell’agire, relativamente ad azioni finalizzate a sedare un tentativo di fuga di alcuni trattenuti. Bene, se da un lato come detto, in questi centri è molto difficile entrare ed ottenere notizie, quello in questione svolgeva una intensa attività di uscite pubbliche finalizzate ad una apologia dalle accuse che venivano rivolte ai membri dello staff dell’ente gestore. Frequenti erano incontri con giornalisti locali, visite al centro da parte di scolaresche, pubblicazioni di libri da parte del direttore, ed addirittura il montaggio, autoprodotto, di un film documentario sul centro appunto. Sono risuscito ad entrare nel CPT attraverso una lunga negoziazione con il direttore; se da un lato ho dovuto costruire il mio habitus di ricercatore, in funzione ad una “assoluta scientificità” della disciplina alla quale mi riferivo, distanziandomi dalle posizioni che nel dibattito pubblico si erano poste contrarie rispetto ai CPT ed in particolare a quello in questione, dall’altra sapevo che la mia figura sarebbe rientrata in quella sopraccitata attività di apologia svolta dal centro su più livelli. Vi è una totale identificazione tra le uscite pubbliche del direttore e le interviste che mi ha rilasciato. Non solo, questo mio ingresso negoziato con l’istituzione ha portato la mia figura ad essere considerata da parte dei trattenuti come facente parte dell’ente gestore, stimolando diffidenze e continue richieste di aiuto e comprensione al fine di una possibilità di uscita dal centro. Allo stesso modo, l’essermi avvicinato alla figura del direttore dell’istituzione, unico mio tramite per accedere al centro, e quindi al campo da me scelto, mi ha allontanato da tutte quelle associazioni radicate nel territorio e contrarie all’istituzione, con le quali inizialmente avevo lavorato a stretto contatto. Ora, senza voler relazionare sulla mia esperienza etnografica, ciò che vorrei mettere in evidenza è come le scelte che spesso siamo costretti a prendere nella performance della ricerca possono influenzare e modificare le dimensioni e le caratterizzazioni del campo, non da meno le nostre posizioni all’interno del territorio in cui operiamo, intesi, sia il campo che il territorio come spazi di relazione tra molteplici soggetti. Se non avessi negoziato con l’istituzione, non sarei mai potuto entrare nel centro ed avere informazioni dirette su di esso, non avrei avuto la possibilità di osservare, questa mia scelta però ha inevitabilmente condizionato un cambiamento nella posizione nel campo che per me avevo immaginato e inizialmente tentato di costruire. Esiste, però un problema che volontariamente ho omesso fino a questo punto, ovvero come ricondurre, un fieldwork finora descritto come multisituato, frammentato, e prodotto su un livello performativo – sia dall’etnografo che dagli altri soggetti in campo – ad un lavoro scritto, ad una etnografia, una monografia o un saggio, che sia considerato antropologico? Che rientri ovvero in parametri accettabili per una scienza in così continua mutazione come l’antropologia, che possa essere accettato da istituzioni accademiche. E da un altro punto di vista come presentare un campo così considerato all’interno di progetti di ricerca finalizzati alla richiesta di finanziamenti? Pongo questi problemi non in polemica con l’istituzione, ma perché a mio avviso è anche in queste relazioni, per ritornare al nostro punto di partenza, che si possono costruire e definire le nozioni di “campo”, “spazio” e “territorio”. 29 Bibliografia − Appadurai, A., 2001, Edizione italiana Modernità in polvere, Meltemi, Roma, edizione originale (1996) Modernity at Large : Cultural dimension of Globalization, University of Minnesota Press, Minneapolis-London − Augè, M., 2002, Non-Luoghi, Elèuthera Milano, edizione originale (1992) Non-lieux Seuil Parigi − Bourdieu, P., 2003, Edizione italiana Per una teoria della pratica, Raffaello Cortina Milano, edizione originale (1972) Esquisse d’une Théorie de la Pratique, Edition du Seuil, Paris − Clifford, J., 1999, Edizione italiana Strade, Viaggio e traduzione alla fine del secolo xx Bollati e Boringhieri Torino Edizione originale (1997) Routes Travel and Translation in the Late Twenty century Harvard University Press, Cambridge- London − Gupta, A. & Ferguson, J., 1997, Discipline and practice <<The Field>> as site, Method, and Location in Anthropological Location: Boundaries and Grounds of a Field Science, University of California − Foucault, M.,1977, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi Torino (ed. orig. 1971) − Haiden, R.M., 2005, Comunità immaginate e vittime reali: autodeterminazione pulizia etnica in Jugoslavia in a cura di Fabio Dei, Antropologia della violenza Meltemi Roma − Marcus, G. E. & Fisher, M., 1998, Antropologia come critica culturale Roma Meltemi. (ed. orig.1986) Anthropology as a Cultural Critique. Experimental Moment in the Human Sciences, Chicago, Chicago University press − Marcus G. E., 1998, Ethnography Through Thick & Thin, Princeton University Press − Mauss, M., 1965, Le tecniche del corpo, in M. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, Einaudi, Torino − Palumbo, B., 1991, “You are going really deep”: conflitti, pratica e teoria in etnografia. Alcune riflessioni a partire dal caso Nzema, <<L’Uomo >> , IV, Nuova s, 2 pp. 235-270 − Palumbo, B., 2003, L’Unesco e il campanile. Antropologia, politica e beni culturali in Sicilia orientale, Meltemi Roma − Pizza, G., 1998, a cura di, Figure della corporeità in Europa, “Etnosistemi. Processi e dinamiche culturali”, anno V, n. 5 ,CISU Roma − Pizza, G., 2005, Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci Roma − Stocking, G., 1992, The Etnographer’s Magic and Order Essays in the History of Antropology, University of Wisconsin Press, Madison 30 Campo, Spazio, Territorio Daniele Cestellini Mi sembra che si tratti innanzitutto di argomenti molto interessanti: sono concetti complessi, articolati e non liberi da una componente di astrazione. Così come sono spesso termini e sostegni significanti della retorica e delle argomentazioni antropologiche. In questo caso, immagino una direzione di argomentazione fondata su un’analisi linguistica e terminologica, volta a decomprimere la parola e a rilevarne i significati negli usi a fronte di diverse competenze, si potrebbe dire votata alla de-astrazione lessicale e semantica, una sorta di analisi riflessiva che partecipa del pensare criticamente la disciplina antropologica, le sue categorie interpretative, e il sapere che questa produce anche utilizzando (in nuove accezioni) i termini del linguaggio comune. Molto probabilmente, la percezione dei temi in questione – almeno per quanto mi sembra di intendere in questo momento di scrittura che riordina formalmente, e quindi irrigidisce e non necessariamente chiarifica la riflessione – è filtrata da specifici ambiti di ricerca, frequentazioni bibliografiche, esperienze relazionali, umane ed etnografiche. Può forse apparire scontato, come l’esito di un ragionamento ovvio o addirittura superficiale, ma credo che un atteggiamento importante in un momento di raffronto, come quello che si prospetta, è filtrare il ragionamento su temi complessi come quelli in questione, attraverso una sorta di “interiorità antropologica”, che permetta di problematizzare i termini e gli ambiti concettuali a cui rimandano, agendo proprio nella singola esperienza intellettuale, legata chiaramente al quadro etnografico personale e partecipe allo stesso tempo di una organizzazione collettiva del sapere specialistico. Proverei allora a scrivere di queste problematiche in quanto – prossimo alla stesura della tesi (ad una schematizzazione calligrafica di un piccolo sapere) – mi sto interrogando sull’uso dei termini e sto esperendo l’esercizio singolare di una ricerca etnografica e di una riflessione, che ha un certo grado di continuità, su un “campo” specifico. Sto cioè praticando un fieldwork (in cui si opera fisicamente, attraverso l’azione corporea dell’“esserci”, insinuandovi cioè una personale “presenza storica”): un “campo” che la retorica antropologica tende a delineare come una o più superfici reali fisicamente arginate, e che si configura come soprattutto un ambito relazionale complesso, continuamente pervaso da pratiche culturali multiple e da dinamiche di negoziazione, anche politiche, che coinvolgono vari soggetti, compreso me ovviamente. E allo stesso tempo pratico un “campo” di studi, quello dell’antropologia (senza aggettivi aggiunti, per il momento), cui si aderisce (e qui il termine “campo” perde già la sua fisicità a vantaggio di un’immagine che ne delinea le caratteristiche di sfera, di ambiente arginato sì, ma non materialmente) per vocazione intellettuale, per attitudini o passione, per affinità ideologica con alcune scelte di interpretazione avallate dalla teoria antropologica. In questo caso allora, come studioso di antropologia devo interrogarmi sui significati che l’antropologia stessa ha prodotto, e credo che in qualche modo sia ciò che ci si propone di fare se ad animare i dibattiti e i confronti sono questioni quali “campo”. La mia riflessione è spinta verso l’analisi di ciò che realmente faccio, per questo credo che i concetti debbano filtrarsi attraverso la soggettività e l’esperienza personale: perché approvo lo statuto etico-scientifico di questa disciplina che permette ad ognuno di costruire una antropologia agita nel tessuto di pratiche relazionali, culturali, politico-economiche, sociali, di potere, che noi rappresentiamo 31 come “campo” attraverso le nostre performance narrative e l’affidamento dei nostri dialoghi al linguaggio corrente; perché in qualche modo ciò che esperisco come ricercatore (l’etnografia) mi permette di costruire una rete di connessioni a riflessioni e rimandi anche non specifici di quell’esperienza; perché concordo pienamente con quanto afferma Giovanni Pizza in un suo saggio di qualche anno fa, ovvero che l’etnografia può essere considerata come la costruzione della teoria. Questo per sottolineare la proposta di riflessione sui termini in questione: dal mio punto di vista, si rende necessario l’intento di interrogare il proprio modo di fare e gestire l’esperienza di ricerca, nel senso che è attraverso i nessi che si tracciano nelle fasi etnografiche e di riflessione su di esse che si delineano questioni e problematiche importanti, le quali animano poi da un lato la teoria del lavoro e, dall’altro, agiscono nelle pratiche di relazione con i nostri interessi di studio, ri-funzionalizzando la lettura dei contesti di “campo” ad esempio in termini di “spazi” relazionali in cui sono agite pratiche “territorialmente” circoscritte. Nella pratica, poi, si affrontano sempre una pluralità di aspetti legati al “campo” di ricerca, che non è guardato (e agito) in una prospettiva di chiusura, è anzi analizzato in una prospettiva storica con costante riferimento alle dinamiche di trasformazione, alle “dinamiche esterne” con cui quell’ambito socio-culturale, quelle pratiche di rappresentazione e comunicazione (performative, nel caso specifico della mia ricerca, verso la descrizione della quale mi avvicino gradualmente, per aiutare il ragionamento), si confronta. Si polverizza in questo modo, insieme all’assetto territoriale “tradizionale”, la grammatica stessa delle pratiche generate in un preciso ambito culturale “spazialmente” delimitato, in quanto molti procedimenti vengono abbandonati, e si affronta la modernità (il flusso delle informazioni trans-locali) anche attraverso le capacità e le conoscenze individuali: si genera cioè agli occhi del ricercatore un “campo” multiforme e geograficamente articolato, una struttura dei saperi e delle azioni che si definisce proprio attraverso la “processualità delle relazioni sociali”, l’agilità della comunicazione, il reale sforzo “locale” di codifica del “globale” (e viceversa). La ricerca che sto effettuando pone in essere delle problematiche che si esplicano in uno “spazio” relazionale per certi aspetti geograficamente circoscritto, in cui le pratiche che sto analizzando sono strettamente connesse ad un “territorio” specifico – la periferia industriale dell’area vesuviana – che ha generato, in un determinato momento storico, dei particolari bisogni sociali. In questo caso, la definizione di un “territorio” andrebbe forse elaborata, allora, in relazione alla definizione di un processo storicamente individuabile che ha determinato delle aspettative, degli atteggiamenti di critica in qualche modo “ritualizzati”, o, in altre parole, rappresentati attraverso la performance teatrale e musicale. Allo stesso tempo, contestualmente ad una prospettiva analitica che connetta tali pratiche ad un contesto più ampio, ad una macro-scena delle relazioni, l’indagine incontra la necessità metodologica di un punto di vista trans-locale (extra-territoriale, che fenda alcuni argini del field-work), in quanto il fenomeno in questione si configura anche attraverso una relazione (non importa se positiva o oppositiva) con dinamiche di interazione internazionale. Inoltre, il mio “campo” di studi è la musica, che, è forse superfluo ricordarlo, si definisce proprio in base ad una comunicazione che non conosce confini prestabiliti, anche laddove si voglia pensarla (e rappresentarla) come espressione stretta su una realtà socio-culturale riconoscibile e in qualche modo delimitabile; in questi termini le nozioni di “spazio” o “territorio” mi appaiono costantemente mutabili, necessitano periodiche riletture proprio in 32 base alle direzioni analitiche che lo stesso “oggetto di studio” costringe a seguire, causa la sua complessità e permeabilità. Ciò che le indagini etnomusicologiche hanno pubblicato, o reso accessibili, come “fonti etnomusicali”, d'altronde può essere considerato – inevitabilmente, a mio avviso, scivolando in un’ azione di critica al purismo filologico – come lo stadio “ultimo” (che ne precede in quello stesso momento, e attraverso la stessa azione della registrazione, un successivo) di un processo reale di trasmissione di determinati comportamenti effettivamente leggibili come “permanenze di eredità tradizionali” (come sottolinea Leydi), vale a dire forme artistiche di una creatività rispecchiante una realtà complessa e problematica che va analizzata nei suoi costanti rapporti con espressioni estranee alla cultura di tradizione orale di oggi ma anche di ieri. Se leggiamo ciò che appare attraverso la ricerca come il risultato di successivi processi storici e come attestazione di uno specifico momento della storia e della creatività, allora possiamo studiare le registrazioni di un determinato periodo storico come il risultato di evoluzioni e modificazioni: non soltanto interne alla specificità della cultura di tradizione orale, ma anche esterne ad essa, indicatori interessantissimi cioè della componente dinamica e mutante di tali musiche, subordinate all’intersezione di molteplici fattori. Se si accetta questo paradigma, atteggiamento indagante e analitico, e lo si considera come plausibilmente alternativo ad una (a mio avviso) fuorviante e restrittiva indagine volta allo studio chiuso (che delimita anche la distribuzione spaziale) della forma “autentica” non “corrotta” e non “mistificata”, si potrà allora tenere in alta considerazione l’osservazione e lo studio di un fenomeno che comprende anche manifestazioni attualizzate nelle forme e nei canali della moderna comunicazione musicale. Oppure, in una prospettiva storico-antropologica, si porrà attenzione a fattori esterni alla “creatività popolare” che, articolati su vari livelli di intervento, hanno agito sulle espressioni musicali tradizionali sfruttandone la loro caratteristica di impatto e ampia diffusione, trasformandole per così dire in supporti e canali dell’interiorizzazione della retorica politicocommerciale e folcloristica, oppure, nel caso opposto, della retorica di militanza politica attiva e di critica alle modalità di gestione e mantenimento dei poteri. Come detto, il mio è un progetto sulla musica. Il tema della ricerca è la “world music”, un termine che, tradotto in Italia (come in Francia), rivela subito l’ambiguità lessicale, ma anche semantica, che lo pervade, in quanto la “musica del mondo” (o “dal mondo”) frena subito la volontà di definizione, e immediatamente apre lo scontro con una disorientante terminologia che rimanda anche alla arbitrarietà di altri vocaboli e concetti, necessariamente da ripensare, visto che i loro significati di riferimento decadono inesorabilmente. Allora il “campo” è molto vasto, come sempre d’altronde: è sì quello etnografico, che si sceglie di frequentare fisicamente e praticare, ma flette continuamente verso uno “spazio” di riferimento che, inevitabilmente, considera appunto la “mondialità” cui si allude nella definizione di quelle musiche; le pratiche che un antropologo indaga si determinano come circoscrivibili in un “territorio” geograficamente riconoscibile, ma contemporaneamente si generano (e assumono una rilevanza antropologica, ovvero attraggono la mia personale attenzione) anche perché sono riconducibili ad una circolazione internazionale di idee e di stili che forgia, in modi diversi, la stessa creatività artistica. La “world music” è una categoria musicale che, come tutte le categorie, tende ad irrigidire e semplificare ciò che è stata chiamata a descrivere: in questo caso, a mio avviso, un sistema molto complesso che riflette diversi interessi e varie competenze, un processo di interazione internazionale, una modalità – riprendendo alcune intuizioni di Diego Carpitella, il padre dell’etnomusicologia italiana – inter-culturale di produzione musicale. 33 “World music” è una etichetta di mercato, una categoria commerciale e di marketing «dominata dai processi di fusione di un pop “globale” e, in particolare, da musiche che enfatizzano mescolanze interculturali, diasporiche, migranti, urbane e cosmopolite» (Feld 2003: 50). «Anche se è ormai un luogo comune, è comunque innegabile che gli stili e le identità musicali siano oggi più visibilmente transitori, in stato di costante fissione e fusione sul piano sonoro, di quanto non sia mai accaduto nella storia dell’umanità. Molti studiosi collegano questa condizione alla cosiddetta “globalizzazione”. I segni onnipresenti del fenomeno noto con questo nome si possono fondamentalmente rintracciare in un capitalismo di portata mondiale, in reti vastissime che collegano quelli che un tempo erano chiamati “centri” e “periferie”, e in una straordinaria mobilità di popoli e cose attraverso le frontiere. Ma l’aspetto di questo processo che più ha a che fare con la musica è il flusso transnazionale di tecnologie, media e culture popular» (Idem: 49). Le condizioni di una ricerca su un argomento così cangiante e “inglobante” risentono sicuramente della necessità di interrogarsi sulle definizioni di termini come “territorio”, “spazio”, “campo”: si delineano, credo, delle reti “globali” in cui le musiche si osservano, registrano, commercializzano, decostruiscono, attraverso dei processi complessi che riconsiderano il carattere stesso dei confini e, di conseguenza, di coloro che li attraversano. Il “dove” necessita di un riesame critico, perché siamo tutti attraversati (le nostre immaginazioni e le idee) da una dimensione spaziale assoluta, non condizionata dalla superficie reale (come dire, geografica). Ecco quindi che si incrina la propensione della ricerca a pensare fenomeni su scala ridotta, privi di contatti, a presumere la possibilità di vedere luoghi, persone, relazioni statiche e isolate. E credo che questa dinamicità ribalti anche la possibilità di pensare ad ambiti relazionali avulsi dal flusso storico e da dinamiche di economia politica trans-locale; così come, per gli stessi motivi, impone alla moderna etnomusicologia, e all’antropologia della musica, di occuparsi più a fondo dei processi di produzione musicale, che coinvolgono i ricercatori stessi, nel momento in cui si anima il dibattito su questioni centrali: come ad esempio, le politiche della proprietà della musica di tradizione orale, della musica non occidentale, e il rapporto tra la produzione e diffusione contemporanee di musica di tradizione e il mercato discografico internazionale (multinazionale). È a questo punto che esplode il “campo”, sia come riferimento geografico, sia come richiamo teorico, divenendo una specie di prototipo ancora da modellare infinite volte; non è più “localizzabile” uno “spazio” culturale “concreto” (la cui concretezza e tangibilità sono sempre state un miraggio retoricamente costruito); non è immaginabile un “territorio” se non come espanso e soprattutto umanizzato, in cui la musica, ad esempio, va letta come un “oggetto culturale complesso” (non come un’astrazione con una vita propria e indipendente), non valutabile nelle sue molteplici articolazioni se non attraverso un atteggiamento analitico che lo connetta alle realtà (multiple) che lo producono, ovvero attraverso un approccio non solo musicologico (specialistico anche con il prefisso “etno”, tendente a rilevare principalmente caratteristiche interne, coerenze, incoerenze, ecc.), ma soprattutto di antropologia della musica, più articolato (come l’oggetto che vuole studiare) che consideri cioè gli aspetti di tipo sociale, culturale, politico-economici che (“trans-localmente”) lo pervadono. Nel caso specifico della mia area di indagine, si assiste ad una costruzione retorica del mio “campo” di studi, in quanto uno degli aspetti che alimenta la mia analisi è lo studio di dinamiche di ri-configurazione di alcuni tratti culturali, quelli inerenti la musica, che vengono spinti in un flusso comunicativo al fine di internazionalizzarne i contenuti, ovvero, di renderli accessibili, 34 far si che essi comunichino messaggi comprensibili a dei ricettori collocati in uno “spazio” molto dilatato. «In questo scenario, la figura del “buono” e/o “cattivo” è rappresentata dall’industria discografica, che sembra trionfare in eguale misura nella diffusione di una cultura popular globale e nel sogno capitalista di realizzare un’espansione illimitata del mercato e un’integrazione tra prodotti e tecnologie. Questa vicenda è vista da alcuni come la storia meravigliosa del successo del capitale, della “transculturazione”; per altri invece è una storia più oscura, fatta di corporativismo e di imperialismo culturale. La conseguenza è che la globalizzazione musicale è vissuta e narrata tanto con esaltazione, quanto con inquietudine; e questo perché tutti possono avvertire i segnali di un incremento, e allo stesso tempo di una diminuzione, delle diversità musicali. Questo fatto ci impone una riflessione critica sul concetto stesso di world music» (Feld 2003: 49). In che modo viene prodotta musica, e con quali risultati, nel momento in cui questa, strettamente legata ad un ambito culturale circoscritto (“locale”) – uno “spazio”in cui cioè le conoscenze e le pratiche erano veicolate attraverso una comunicazione orale – viene inserita in un circuito di trasmissione “trans-locale”? quali sono gli elementi che rimangono, quelli che scompaiono o vengono enfatizzati? Quali sono le strutture che funzionano nella “contaminazione”? Il focus del mio progetto di ricerca è un gruppo musicale e teatrale, il Gruppo Operaio ‘E Zezi di Pomigliano D’Arco, il quale produce musica dalla prima metà degli anni ’70 del Novecento, ed è stato protagonista, nell’estate del 2000, di una scissione interna, seguita a disaccordi di tipo politico-economico, e artistico-culturale, legati alla proposta di produzione da parte di una multinazionale discografica inglese. Il gruppo opera nell’interland napoletano (l’area che è divenuta il mio field-work), ed è composto, in parte, da operai. L’area in questione è stata infatti interessata, sin dagli inizi del ‘900, da una forte industrializzazione che ha gradualmente sostituito l’assetto produttivo “territoriale”, annettendo le forze lavoro locali dentro i sistemi di produzione industriale, che, negli anni, hanno quasi completamente sostituito quelli legati alle attività agricole (questo è un caso in cui il “territorio” cambia, più o meno radicalmente, si trasformano gli “spazi” che lo costituiscono, in termini di relazioni, di produzione e di rappresentazione di conoscenze, di rivalutazione di alcune pratiche: si verifica un processo evolutivo che determina nuove percezioni del “territorio” in cui si vive, si agisce, si producono significati, cultura). In questo ambito sociale industriale, sotto molti aspetti in evoluzione, si generano nuovi bisogni e disagi, ci si confronta con una sistemazione del lavoro differente: si sviluppa, negli anni ’60 e ‘70 in particolare, una nuova coscienza politica, che, all’interno di uno dei numerosi stabilimenti industriali dell’area, confluisce in un progetto interessante e innovativo sotto molti punti di vista, un ensamble musicale e teatrale appunto, costituito da operai, i quali iniziano fin da subito a sperimentare, e a rappresentare, la complessità e le multiple articolazioni del “loro” “territorio”. Anzi, incarnano fin da subito questa complessità, proprio con la scelta del nome del gruppo, nel quale convivono il rimando al mondo contadino – ‘e zezi erano teatranti di strada che rappresentavano, fino all’inizio degli anni ’50, la storia della Zeza, moglie di Pulcinella – e a quello industriale, che si risolve appunto nella rivendicazione di una appartenenza di status, politica e di classe, collettiva – quella al “gruppo” degli operai. Loro stessi impersonano le contraddizioni del “territorio”, di due fasi socio-culturali che si attraversano costantemente, essendo parte di quella generazione che per prima, in quell’area, ha sperimentato il cambio nella produzione e nella gestione dell’economia locale. 35 La connessione tra questo focus sugli Zezi e i quesiti sollevati dai processi in atto di critica e problematizzazione della “world music”, si evidenzia in due direzioni. Innanzitutto si risolve attraverso la questione della scissione del Gruppo Operaio. Questa è scaturita – almeno così è apparsa nella sua componente pubblica – da una fallita transizione che ha generato un conflitto causato dall’incontro tra le dinamiche di produzione, diffusione e regolamentazione del mercato discografico internazionale, da un lato, e gli ambiti di produzione musicale “locale”, dall’altro. Tale conflitto ha aperto uno scambio dialettico – che ha coinvolto musicisti, giornalisti, fans, antropologi – che ha reso visibili alcune questioni strettamente legate al dibattito sulle “musiche dal mondo”, quali ad esempio: la proprietà intellettuale dei brani di tradizione orale e problemi di copyright, evidenziando alcune lacune del diritto internazionale in merito alle opere folkloriche, e quindi di riflesso ponendo l’attenzione sulla necessità di una definizione delle stesse in termini giuridici. In secondo luogo, il focus sugli Zezi si lega all’impianto teorico generale, in virtù del fatto che il gruppo in questione ha sempre lavorato su dei moduli musicali “interculturali” (per i motivi cui si accennava poco sopra), avendo utilizzato il patrimonio musicale di tradizione orale all’interno di un progetto più ampio di militanza politica, di “critica rappresentata”, di emancipazione – come loro stessi amano definirlo – della stessa classe operaia. Da trent’anni, e ancora oggi, il Gruppo Operaio agisce concretamente in quel complesso “territorio”, è presente come militante politico e produttore musicale, opera costantemente un conflitto con chi regola la gestione culturale locale e l’accesso alle risorse da investire negli ambiti della socialità. Allo stesso tempo, però, se sono fortemente definiti dalla loro concreta presenza in quel “territorio”, sono essi stessi a ri-definire costantemente quest’ultimo, attraverso le canzoni e le opere teatrali, tramite la loro arte, in virtù, potremmo dire, del loro talento: incorporano e sostengono un’azione artistica e politica plurima, che incrina le concettualizzazioni di un’identità rigida e intimamente radicale (escludente e differenzialista), sottolineando come il sentimento di appartenenza (identitaria, culturale) sia alimentato da scelte, anche politiche, storicamente determinate, e strategie ideologicamente costruite. Così si esprime uno dei fondatori del gruppo: « Allora, si potrebbe dire così: noi si aveva in qualche modo un progetto tracciato indipendentemente dalla miseria e dalle difficoltà che poteva essere, considerata la guerra che in Italia è stata fatta sia ad esperienze in queste direzioni…cioè in una nazione dove una malavita e una criminalità ha piegato il popolo in una maniera spaventosa e poi le istituzioni gli hanno tolto, agli stessi ceti popolari e proletari, tutte le strutture aggregative, particolarmente al sud. Non parliamo di Toscana, Umbria o Bologna, parliamo del sud, dove la malavita organizzata e istituzionale ha menato pesante, togliendo anche quelle piccole occasioni che erano lo scambio, all’interno di una cultura popolare che viene da tanto lontano, della gente di incontrarsi e di ripassarsi ancora queste esperienze di comunicazione e di espressione, non diciamo solo esperienze musicali. E allora fin dal primo momento sapevamo in quali ambiti ci si andava a muovere, […] diciamo che a determinare una morbosa necessità di trovare delle forme di espressione è stato proprio il vivere in un posto dove si veniva ad impiantare una grande fabbrica con tutti i presupposti di andare, di fare un intervento… per cui noi ci siamo accorti che tutto ci sfuggiva dagli occhi, tutti si andava là dentro per lavorare, tutti si toglievano i vecchi lavori, tutto si toglieva per far posto ad una fantomatica altra idea che era l’industrializzazione. Industrializzazione in forme moderne, perché poi Pomigliano non è che era la Cenerentola, Pomigliano aveva già una serie di fabbriche… l’Alfaromeo e gli altri stabilimenti, del resto è la cintura di Napoli quindi è più una necessità della città, anche gli insediamenti presi sede a Poligliano erano sempre in funzione della grossa urbanizzazione della città che doveva avere degli sbocchi poi organizzati di produzione. Quindi noi ci siamo mossi subito per 36 contrastare questo ulteriore violentissimo attacco alla gente, che gli sottraeva tutto compreso le capacità espressive dei codici di comunicazione interpersonali e sociali della zona, di per sé già immiseriti da anni e anni di delinquenza, di camorra ecc…quindi diciamo che il nostro approccio a prendere la tradizione e i moduli comunicativi era necessario e opportuno, ma tentare anche subito di intervenire per mettere in mezzo le grosse altre questioni che venivano poste, allora abbiamo campicchiato e vissuto parallelamente a tutti i movimenti di emancipazione, popolari, operai, studenteschi ecc…». Bibliografia − Carpitella, Diego, 1992, Conversazioni sulla musica. Lezioni, conferenze, trasmissioni radiofoniche 1955-1990, Ponte alle Grazie, Firenze − Feld, Steven, 2003, Chitarre nella foresta. La nascita di una nuova musica in Nuova Guinea, in EM, Rivista degli Archivi di Etnomusicologia, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, n. 1, Squilibri Editore, Roma − Franchi, Ivo – Guaitamacchi, Ezio (a cura di), 2002, 100 dischi ideali per capire la World Music, Editori Riuniti, Roma − Leydi, Roberto, 2001, Guida alla musica popolare in Italia, Libreria Musicale Italiana, Lucca − Pizza, Giovanni, 2001, Retoriche del tarantismo e politiche culturali, in Ragnatele, Adnkronos Libri, Roma − Zemp, Hugo, 1996, The/An ethnomusicologist and the record business, in Yearbook for Traditional Music 1996, Los Angeles 37 Spazio, Territorio, Campo L’antropologo di fronte allo spazio turistico e alla percezione territoriale degli Hosts Francesca Mariotti “Vorrei che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti: Il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti… Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo. Non è mai mio, mai mi viene dato, devo conquistarlo.” (Georges Perec, Specie di spazi, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 110) Nell’affrontare il tema dell’interrelazione tra i concetti di spazio, territorio e campo vorrei utilizzare l’idea dello spazio così come descritto da Georges Perec, ossia come un’entità continuamente soggetta a trasformazioni e negoziazioni all’interno della quale gli individui percepiscono se stessi in una prospettiva che potremmo definire sia relazionale sia storica. All’interno dello spazio, l’individuo non ha certezze di appartenenza date una volta per tutte, da qui l’esigenza di costruire sempre nuovi punti di riferimento di cui appropriarsi per sentirsi parte di una comunità e per condividere con essa una storia che dia forza alle proprie origini. Strettamente collegata all’idea di spazio sarà, quindi, l’idea di tempo; la storia fornisce infatti una memoria sociale, necessaria a rafforzare il senso di appartenenza. Partendo da questa prospettiva, vorrei proporre l’immagine del territorio come di una parte dello spazio più concreta, delimitata da punti di riferimento simbolici, politici, sociali ed economici in cui gli individui riconoscono se stessi come comunità. Se consideriamo questa appartenenza come un sentimento necessario all’essere umano ma allo stesso tempo fortemente instabile, risulta evidente la necessità di analizzare i meccanismi che ne condizionano la concretizzazione. Tra le varie cause che determinano l’insorgere di questi meccanismi vorrei prendere in esame lo sviluppo turistico, fenomeno da me analizzato durante la ricerca relativa alle trasformazioni socio-culturali apportate dalla nascita dell’agriturismo in una zona della Maremma grossetana. Il turismo deve essere visto come parte integrante del più generale processo di globalizzazione. Le strutture turistiche fanno parte di quelli che Marc Augé definisce i non luoghi, ossia spazi che non possono essere definiti né identitari, né relazionali, né storici4. Così come il processo di globalizzazione porta su vasta scala la rivendicazione delle particolari identità nazionali5, allo 4 5 Augé M., 1993, p. 73. Cfr. tra gli altri: Anderson B., 1996; Featherstone M., 1996; Geertz C., 1999; Gellner E., 1997. 38 stesso modo la trasformazione di un territorio secondo gli standard turistici avrà come conseguenza lo smantellamento del vecchio legame tra la comunità e il territorio e la rivendicazione di una nuova identità territoriale. Come agente del processo di globalizzazione, anche il turismo genera la reazione contraria alla sua intenzione primaria: di fronte ad una realtà sempre più omologata e senza barriere, prendono forza movimenti tesi a mettere in evidenza la differenza, processi attraverso cui un gruppo si autoattribuisce una omogeneità interna e – contemporaneamente – una diversità nei confronti degli altri6. Nel caso del turismo, il paradosso del processo di globalizzazione è reso ancora più forte dal duplice piano su cui si muove. Da un lato, ritroviamo le rivendicazioni identitarie territoriali di coloro che vivono nei territori turistici; dall’altro, è presente un paradosso interno allo stesso mercato turistico: condizione indispensabile per il suo sviluppo è, infatti, l’abbattimento di tutte le barriere che rendono difficili gli spostamenti e il passaggio di informazioni, ma accanto a questo presupposto troviamo la necessità di mettere in evidenza il particolarismo locale dal quale dipende il potere attrattivo di un territorio. La negoziazione territoriale derivante dal turismo avverrà, quindi, su due differenti livelli e ad opera di soggetti diversi: da un lato, avremo la costruzione dell’immagine che gli operatori turistici proiettano sul territorio e che, in alcuni casi, i residenti faranno propria; dall’altro avremo la rivendicazione territoriale dei locali che non si riconoscono nell’immagine turistica e che reagiranno a questa proiezione attraverso un rafforzamento dei significati simbolici, politici e sociali che “da sempre” 7 legano la comunità al territorio in cui vive. Come sostiene Burns8, il turismo non è solamente un insieme di affari commerciali, un processo, o un insieme di pressioni, bensì un complesso insieme di sistemi che include l’ambiente costruito e naturale, il possesso di modelli, le relazioni tra i paesi da cui proviene e in cui arriva il turista, la relazione tra la località turistica e la più ampia società. L’introduzione di un territorio all’interno del mercato turistico comporta, quindi, inevitabilmente un processo di trasformazione territoriale che include sia l’ambiente costruito che naturale sia l’ambiente antropico, rendendo necessaria una nuova definizione del proprio territorio all’interno dello spazio. Nel momento in cui l’antropologo si accinge alla ricerca sul campo di un’area turistica, si troverà quindi di fronte ad una realtà in cui convivono – in modo più o meno pacifico – diverse immagini territoriali appartenenti ai diversi soggetti, legati al territorio da interessi di differente natura. Il campo dell’antropologo verrà, quindi, a configurarsi come un luogo di incontro/scontro tra costruzioni territoriali diverse. In un tale contesto, sarà quindi inevitabile per l’antropologo essere inserito all’interno delle dinamiche territoriali di potere. Come già sottolineavo nel primo contributo sul tema spazio-territorio-campo, i rapporti di potere costituiscono un elemento essenziale nella ricerca antropologica, sia come “oggetto di conoscenza” sia come “strumento di conoscenza”. Tali rapporti hanno, infatti, un ruolo fondamentale nel delineare l’aspetto politico, sociale, economico e culturale di un territorio, così come svolgono una funzione di legittimazione del lavoro svolto dall’antropologo, delimitandone e caratterizzandone il campo di indagine. L’antropologo sarà quindi condizionato da coloro che, rendendo possibile la sua permanenza sul campo, chiederanno in cambio 6 Fabietti U., 1998 (ed. or. 1995), p. 21. Non è questo l’ambito in cui inserire il tema dell’autenticità della tradizione. Per approfondimenti in proposito rimando a Hobsbawm J., Ranger T., 2002 (ed. or. 1983). 8 Burns P. M., 1999, p.1. 7 39 dell’autorizzazione data alla ricerca la legittimazione della propria funzione politica, economica, sociale o culturale svolta in seno alla comunità. Per l’antropologo sarà dunque tutt’altro che facile procedere alla decostruzione delle immagini territoriali prodotte dai vari soggetti, collocandosi al di sopra delle parti e mantenendo il contenuto della propria ricerca il più neutrale possibile. Mi rendo conto di aver messo molta “carne al fuoco” e di avere dato solo brevi accenni ad ogni elemento chiamato in causa. Il tema spazio-territorio-campo è chiaramente un tema vastissimo e, se anche viene ristretto il campo di applicazione, rimanda comunque ad una miriade di temi ad esso collegati. Spero comunque di aver fornito uno spunto di riflessione per nuovi produttivi dibattiti. Della perduta tenda Famiglie di concetti: spazio, campo, territorio. Sergio Contu Dopo tutto, il terreno dell’antropologia è limitato solo dall’uomo. Non dipende dal tempo – va indietro nella geologia fino alle prime tracce di esistenza dell’uomo. Non limitata dal territorio, riguarda il mondo intero. L’antropologia si è specializzata sui primitivi perché nessun altra scienza si voleva seriamente occupare di loro, ma non ha mai rinunciato all’intenzione di studiare anche le altre civilizzazioni. L’antropologia è interessata a ciò che è più esotico dell’umanità, ma anche a noi, qui, ora, a casa. Kroeber – Anthropology today Tracciare un quadro prospettico che abbia come punti di fuga - da una parte, il dispositivo umano – e dall’altra dei luoghi, vuol dire confrontarsi con una linea d’orizzonte che razionalmente va molto oltre i punti di fuga indicati. Per tanto inserire entità descrittive all’interno del supposto quadro risulta essere un operazione alquanto complessa, dove la rappresentazione oggettiva dei fenomeni sociali e culturali è costantemente in bilico fra illusione e distorsione. Per ciò occorre triangolare il punto di vista dell’osservatore con i punti di fuga, limitando una zona del quadro in cui lo spazio è inteso come prodotto sociale. Uno sguardo paleo-antropologico – da etnologia del profondo – come quello di Leroi-Gourhan fa emergere in questa limitazione d’orizzonte una dimensione quasi ontologica, perché la dove lo spazio si umanizza, si va oltre la semplice facilitazione tecnica, ma come per il linguaggio si ha l’espressione simbolica di un comportamento completamente umano. Comportamento che al di la delle configurazioni etniche, risponderebbe ad una triplice necessità: creare un ambiente efficiente dal punto di vista tecnico, fornire un inquadramento al sistema sociale, mettere ordine a partire da un punto dato nell’universo circostante (Leroi-Gourhan, 1977: 374). Ciò che pone in rilievo l’autore di Il gesto e la parola, ha come matrice ideale il concetto di morfologia sociale. 40 Concetto comune a molte discipline di studi umani, ha come centro d’interesse la distribuzione territoriale dei fenomeni sociali, a partire dalle forme di insediamento della popolazione, e in genere della configurazione e localizzazione spaziale di collettività, gruppi, attività economiche politiche e culturali, processi sociali, istituzioni, associazioni, di una determinata società o area culturale [Gallino, 1983: 499]. La nozione fu elaborata dalla scuola sociologica francese, e da Durkeim a Mauss passò e si diffuse all’interno del dibattito internazionale grazie alle autorevoli voci che ruotavano attorno alla rivista “Annales”. Il complesso rapporto fra spazio e gruppo umano non fù più letto in termini essenzialmente geografici, ma in termini relazionali, sommando alle coordinate disposizionali l’insieme delle relazioni economiche, sociali e culturali caratteristiche del gruppo considerato. Seguendo questa lettura l’organizzazione spaziale di un gruppo umano diventava elemento strutturante nel momento in cui era assimilato al fatto sociale totale maussiano. Sul finire degli anni ’50 furono alcuni antropologi americani a rinnovare l’interesse per i rapporti ambiente spaziale –cultura. Julian Steward fu uno dei primi sostenitori dell’impostazione d’indagine nota come ecologia culturale. Incentrata sull’analisi delle relazioni cultura e ambiente, secondo Steward, alcuni aspetti della variabilità culturale potevano essere spiegati attraverso il rilevamento dei processi di adattamento del dispositivo umano al suo ambiente spaziale specifico. Le proposte di Steward furono seguite da una personale verifica empirica, i cui resoconti non mancarono di destare un certo interesse, tanto che nel corso degli anni ’60 diversi studiosi si mossero nella direzione da lui aperta. Andrew Vayda e Roy Rappaport, decisi a convogliare i principi dell’ecologia biologica nelle impostazioni dell’ecologia culturale. Rappaport con il suo Maiali per gli antenati, monografia etnografica dedicata agli orticoltori melanesiani Tsembaga, contribuii alla diffusione della nozione di ecosistema come unità d’analisi, che più della concezioni legate alla morfologia sociale era in grado di spiegare le relazioni tra assetto demografico, istituzioni e ambiente. Altri studiosi che si erano formati con Steward alla Columbia University trovarono la sua proposta di ecologia culturale poco attenta alla storia e agli equilibri internazionali. Alcune di queste figure divennero i rappresentanti dell’approccio economico- politico in antropologia spostarono la loro attenzione dal rapporto fra spazio naturale e spazio sociale a l’impatto sociale e politico che su di esso proiettavano, attraverso il colonialismo, le potenti società statuali. Seguendo queste impostazioni divennero celebri i lavori di Eric Wolf e Sidney Mintz su una comunità presa in esame a Puerto Rico o di Eleonor Leacock sugli indiani naskapi del Labrador, o a livello di messa in discussione di problemi più generali, i lavori di André Frank e Immanuel Wallerstein. La prospettiva dell’economia –politica e del sistema mondo ha reso evidente il peso storico dei processi politici ed economici, sconfessando il mito che raccontava le società extraeuropee come entità isolate, immobili e prive di storia. Steward, Wolf e Wallerstein hanno dimostrato che il mitico villaggio isolato è stato raggiunto da tempo e che la sua storia e anche quella delle strade che lì ci hanno condotto, perché come scrive Lenclud (citato da Lai,2000: 26): L’analisi etnologica dello spazio non inizia veramente se non quando colui che la conduce si sforza di accedere al punto di vista indigeno e si interroga sulle determinazioni in funzione delle quali gli uomini studiati costituiscono il loro spazio, delimitandolo, designandolo, pensandolo in tutte le forme e in tutti i suoi aspetti, imprimendovi insomma il marchio rivelatore della loro identità. 41 Ed è cosi che quelle stesse strade si sono aperte su un altro spazio, che abbiamo imparato a chiamare campo. Da unità significante del lessico antropologico tradizionale, sottoposta ad una molteplicità di pratiche che ne volevano modificare il significato, l’espressione campo, ha assunto significati polivalenti, finendo per indicare tanto uno spazio geografico, il luogo in cui si conduce la ricerca, quanto l’oggetto stesso della ricerca. Dietro quella che può sembrare un banale scivolamento metonimico possiamo scorgere le tracce di un movimento di portata più ampia che, dalla rivoluzione etnografica malinowskiana e alla conseguente fondazione della retorica di campo, ha portato verso un idea di campo come sola costruzione retorica. Nella ormai celebre introduzione di Argonauti del Pacifico occidentale l’antropologo polacco scriveva: Nessuno si sognerebbe mai di dare un contributo sperimentale alla fisica o alla chimica senza fornire un resoconto dettagliato di tutti i preparativi degli esperimenti e una descrizione esatta degli strumenti adoperati, del modo in cui le osservazioni sono state condotte, del loro numero […] in altre scienze […] questo non si può fare con lo stesso rigore, ma ogni studioso farà del suo meglio per rendere comprensibile al lettore tutte le condizioni in cui l’esperimento o le osservazioni sono state compiute. In etnografia, dove è forse anche più necessaria, un esposizione senza pregiudizi di tali dati non è mai stata fornita in passato con sufficiente generosità e molti autori non illuminano con piena sincerità metodologica i fatti in mezzo ai quali si muovono, ma ce li presentano piuttosto come se li tirassero fuori dal capello del prestigiatore (1978: 38) Alla netta presa i posizione nei confronti degli armachair anthropologists, il nostro fa seguire l’enunciazione delle tre pietre angolari del lavoro sul campo ovvero, avere un oggetto e un metodo, vivere in mezzo agli indigeni ed applicare un certo numero di metodi per raccogliere informazioni. La necessita di un contatto diretto con la vita locale corrisponde a quella che Malinowschi chiama la pietra angolare più elementare che, con il suo piantare la tenda al centro del villaggio fonda il paradigma in cui l’esperienza di campo è l’espressione stessa dell’autorità etnografica. Abbandonato il progetto ottocentesco di perseguire una scienza generale dell’uomo, l’etnografo oriento i suoi sforzi verso un nuovo genere di olismo, non più teso alla formulazione di giudizi universalmente validi, ma orientato alla rappresentazione di un particolare modo di vivere nella sua forma più completa, contestualizandone e sistematizandone gli elementi socio-culturali. Ciò fu possibile solo stabilendo una connessione profonda fra lavoro sul campo e scrittura etnografica. Scrittura che incorporando i dettami del paradigma malinowschiano comincia sul campo. È qui che ciò che viene fissato – dialogo, commento, descrizione – diverrà metafora e modello. Il campo è lo spazio in cui si dispone la scrittura. La definizione professionale, la competenza e la pratica dell’antropologia si concretizza in un dispositivo narrativo in cui il corpo di una cultura prende forma nella testimonianza competente del professionista. In ciò il campo risulta essere una versione della realtà sociale dalla rappresentazione testuale che la produzione e la diffusione del sapere antropologico richiede alla monografia di campo. 42 La monografia standard, indipendentemente dal campo in cui è maturata, si propone come un lavoro di sintesi e analisi, che dalle condizioni di lavoro sul campo apre un piano di osservazioni descrittive, limitato nello spazio e nel tempo, su cui passa l’immagine di una società o di una cultura che, veicolata dalle convenzioni narrative è del tutto indipendente dalle metodologie di rilevazione. Tramite la retorica dello sguardo (“Ero là, mi accadde là tal cosa”), anch’essa emanazione di una teoria della conoscenza che esalta l’importanza del vedere, la monografia crea l’illusione dell’immediatezza del rapporto con l’oggetto, facendo così dimenticare la distanza storica e la distanza della scrittura. In altri termini, è la scrittura con le sue procedure di schematizzazione, l’elemento indispensabile per organizzare l’esperienza dell’antropologo sul campo e per trasformarla in un prodotto intellettuale (Kilani, 1997: 41) La scrittura del testo monografico classico trasforma le forme sociali e culturali in entità descrittive che, sottratte al tempo e alla dimensione locale si configura, nella retorica del presente etnografico, ad una rappresentazione concreta che annulla ogni eterogeneità fisica e temporale fra tempo del lavoro sul campo e tempo della scrittura. Su questo genere di riflessione si è costituito il retroterra culturale nel quale si è venuta ad impiantare, da prima l’antropologia interpretativa geertziana, poi quella parte della teoria postmoderna che vedeva nella critica culturale e nella sperimentazione testuale gli strumenti più adatti a decostruire i presupposti e le categorie alla base dell’analisi e della scrittura antropologia occidentale. Ma la realtà contemporanea, anzi la surmodernità come la ha definita Augé, non è strutturata su opposti chiaramente contrapposti e definibili, ma produce “immagini in movimento che incrociano spettatori deterritorializzati” (Appadurai) fruitori di contenuti altrettanto deterritorializzati, ma immessi in flussi distributivi in cui l’immaginazione, la finzione costruttiva – poietica – (Remotti) ancora gli spazi d’azione. Malgrado sia difficile negare l’avanzato stadio di deterritorializzazione della cultura, esso sfugge quando si è posti di fronte alla dicotomia occidente – non-occidente in quello che Scott definisce “la localizzazione del soggetto e oggetto antropologico”, e nonostante i territori non possano essere gli unici contenitori delle culture si continua a pensare ad una stretta analogia fra cultura, popolo e territorio Nel 1936 in Introduzione al pensiero matematico Friedrich Waismann propone una metafora che chiama famiglia di concetti: […]i vari concetti di numero (numero cardinale, numero intero, ecc.) formano una famiglia, i cui membri hanno gli uni con gli altri una certa somiglianza famigliare. In che cosa consiste la somiglianza reciproca dei membri di una famiglia? Alcuni hanno lo stesso naso, altri le stesse sopracciglia, altri lo stesso modo di camminare ecc.; e, di queste somiglianze, una non esclude l’altra. Non possiamo affermare affatto che tali componenti abbiano tutti in comune una certa proprietà; e se anche esistesse questa proprietà comune, nulla ci assicura che essa sola esaurirebbe in sé tutta la somiglianza famigliare. Proprio in questo significato, noi diremo che il termine “numero” non denota un concetto (nel senso della logica classica), ma una “famiglia di concetti”. Con ciò vogliamo affermare che i diversi tipi di concetti sono legati l’uno all’altro in modi diversi, non essendo affatto necessario che essi posseggano tutti una stessa proprietà né uno stesso carattere. La medesima cosa può ripetersi per i termini “aritmetica”, “geometria”, “calcolo”, “operazione”, “dimostrazione”, “problema” ecc. Essi denotano “famiglie di concetti”, e non ha 43 alcun interesse il discutere sulla loro precisa delimitazione. Se – poniamo – si vuol spiegare il concetto di aritmetica, ci si riferirà a qualche esempio concreto, e si estenderà poi al concetto in questione fin dove si estende la somiglianza con gli esempi considerati. Il carattere di indeterminatezza proprio di questi concetti ha, del resto, esso pure il suo lato vantaggioso; dobbiamo infatti a tale carattere se la nostra lingua riesce ad inserire nuove scoperte in schemi già noti (1944: 315-316). Leggendo il passo di Waismann ci rendiamo conto che le considerazioni epistemologiche poste in evidenza hanno una valore euristico che può essere esteso anche al pensiero antropologico. Semplicemente sostituendo al lessico matematico quello etno-antroplogico è resa evidente la somiglianza familiare che può essere rintracciata anche nella nostra triade concettuale. Nelle sue analisi anche l’antropologia come le scienze matematiche si serve di processi deduttivi, processi che a loro volta sono basati su processi di comparazione che, assegnando corrispondenze fra domini può creare similarità concettuali. La comparazione –corrispondenza ha origine da un primo elemento che stabilisce il primo dominio dal quale un giudizio categoriale diretto ad un secondo dominio stabilisce una corrispondenza unidirezionale, il qui grado di somiglianza è tale da essere considerati parte di una stessa categoria (concetto). Questa generale assimilazione cognitiva assume una certa valenza nei procedimenti di comparazione etno-antropologici quando i domini su cui si opera sono assimilabili alle polarità emico, etico. Nei casi etnografici l’assimilazione a priori decade e si fa contesto-dipendente ed il tipo di similarità cambia a seconda dell’oggetto, della sua entità e a seconda dell’osservatore-autore, che può disporre alternativamente similarità globali o similarità parziali, geertzianamente partite in similarità superficiali (attribuzioni) e similarità profonde (relazioni). Nel nostro caso sembra che gli elementi percettivi e gli elementi concettuali che, in comparazione e singolarmente, concorrano a definire la nostra triade concettuale facendo riferimento ad un'unica immagine-schema che un passo di Remoti sintetizza verbalmente: Ogni società è fatta di luoghi e di corpi, ovvero di corpi che vivono, operano, interagiscono, abitano certi luoghi. […] Come non possiamo pensare a una società se non in quanto costituita da individui che coincidono visibilmente con i loro corpi, così non possiamo considerare una società se non occupante un certo spazio, e più precisamente luoghi dello spazio (Remoti, 1993: 31) Tutto ciò può essere ipotizzato perché nella realtà empirica le categorie non si formano in base al possesso di un certo numero di tratti sufficienti e necessari, ma a partire da prototipi (Piasere). Il prototipo è l’elemento che meglio rappresenta il proprio dominio di appartenenza, da cu in posizione privilegiata primeggia nelle elaborazione dei giudizi categoriali; assunto che vale anche nel caso della nostra triade: Una molteplicità di pratiche rende sfuocato il significato di “lavoro sul campo”e ne esclude una definizione netta […] Le definizioni basate sul concetto assumono un prototipo, spesso un immagine visiva, per stabilire un nucleo centrale su cui vengono poi giudicate le varianti. La famosa foto della tenda di Malinowski piantata nel mezzo di un villaggio delle Trobriand è stata considerata a lungo come una forte immagine mentale del lavoro sul campo in antropologia […]. Ci sono state altre immagini: rappresentazioni di interazione personale: per esempio le foto di Margaret Mead che si piega affettuosamente verso una madre balinese e il suo bambino. 44 […] la stessa parola “campo”evoca immagini mentali di uno spazio sgombero, di coltivazione, di lavoro, di terreno. Quando parliamo di lavoro nel campo, o di andare nel campo, attingiamo a immagini mentali di un luogo distinto con un interno e un esterno, che raggiungiamo con pratiche di movimento fisico. Queste immagini mentali focalizzano e costringono le definizioni. Esse, per esempio, ci fanno considerare improprio affermare che un antropologo, uomo o donna, che assume informazioni per telefono dal suo studio stia svolgendo lavoro sul campo, anche se quello che sta compiendo in effetti è la raccolta disciplinata, interattiva, di dati etnografici. Le immagini materializzano i concetti,producendo un campo semantico che appare ben chiaro al “centro” e più incerto sui “margini”. La stessa cosa si verifica con concetti più astratti. Un ventaglio di fenomeni sono raccolti intorno a prototipi; per deferenza verso Kuhn […], parlerò di esemplari. Allo stesso modo in cui un pettirosso viene considerato più tipico come uccello rispetto a un pinguino e aiuta a definire il concetto di “uccello” , così alcuni esemplari di lavoro sul campo consentono di tenere insieme esperienze eterogenee. Il lavoro sul campo di tipo “esotico”, condotto per un periodo continuativo di almeno un anno, ha costituito per qualche tempo la norma su cui altre pratiche vengono giudicate. Misurate su questo esemplare, diverse pratiche di ricerca interculturale appaiono come un lavoro sul campo meno “reale”. […] Nel tentativo di cogliere le tracce del mutamento delle relazioni dell’antropologia con il viaggio, può tornarci utile pensare al “campo” come un habitus piuttosto che a un luogo, come cioè un gruppo di disposizioni d’animo e pratiche fatte proprie, incarnate (Clifford, 1999: 73-74; 93) Per un lessico antropologico del XXI secolo sembra utile sostituire i prototipi con nuovi attrattori semantici capaci di andare al di la degli habitus, per uno spazio d’azione condiviso dove l’indeterminatezza, per dirla con Waismann, riesca ad inserire nuove scoperte in schemi già noti. Bibliografia − Aime, M., 2004, Eccessi di culture, Torino, Einaudi − Clifford, J., 1999, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, trad. it. Torino, Bollati Boringhieri − Ember, C. R. & Ember, M., 2000, Antropologia culturale,trad. it. Bologna, il Mulino − Kilani, M., 1997, L’invenzione dell’altro, trad. it.,Bari, Dedalo − Lai F., 2000, Antropologia del paesaggio, Roma, Carocci − Marcus G. E. & Fischer M.M. J., 1998, Antropologia come critica culturale, trad. it. Roma, Meltemi − Mauss, M., 2002, Saggio sul dono, Torino, Einaudi − Piasere, L., 2002, L’etnografo imperfetto, Bari, Laterza − Remotti, F., 1993, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Torino, Bollati Boringhieri 45 La “politica” del territorio: spazio di dominio, spazio di identità. Note per la discussione sulle categorie di territorio, spazio, campo. Umberto Pellecchia. Le brevi note che seguono prendono avvio dallo stimolo maturato nel corso del Dottorato di Ricerca in Metodologie della Ricerca etno-antropologica e si basano su una serie di riflessioni che il mio campo di ricerca mi ha offerto e tutt’ora continua ad offrirmi su un tema classico ma non inattuale dell’antropologia africanista, il concetto di territorio. All’interno delle innumerevoli connessioni che mi vengono in mente riguardo un concetto estremamente ampio come questo, ho cercato di ritagliare una serie di spunti etnografici e bibliografici che cercano di individuare il territorio come concetto politico, ovvero come spazio di pratiche e discorsi che stabilisce le fondamenta ideo-logiche delle relazioni sociali e che ne determina il senso. Dando uno sguardo alla storia della mia area di ricerca – quello che potremo chiamare il mio campo – ovvero l’area Sefwi del Ghana sud-occidentale appartenente al ceppo etnico Akan - ci si rende conto che il territorio quale è concepito attualmente è frutto di una serie di percorsi storici iniziati con la volontà di conquista da parte di alcuni gruppi che si autoidentificavano secondo un unico criterio parentale, ovvero una comune appartenenza matrilinea. Questi gruppi, che chiamerò di conquista, hanno condotto la loro espansione territoriale grazie a due modalità: in primo luogo – naturalmente – la guerra; in secondo luogo attraverso una serie di alleanze matrimoniali sia con i residenti autoctoni sia con immigrati provenienti da fuori. Questo gruppo – chiamato asankera – è, secondo l’ideologia locale tutt’ora diffusa dal Potere, il gruppo fondatore e quindi quello da cui discende l’attuale famiglia matrilinea dei detentori di autorità9. La logica era sinteticamente questa: un Capo appartenente al gruppo asankera sposava una donna del gruppo autoctono o immigrato costituendo un sistema di alleanze basato sulla parentela. La parentela è servita quindi come mezzo di umanizzazione di un luogo, come criterio di imposizione di una identità e, in definitiva, come logica di dominio. Sulla base di queste logiche si sono venuti a costituire i primi regni e si è iniziata a fondare quella che a mio parere può essere intesa come la struttura portante della logica del potere locale, ovvero la territorializzazione, che permetteva non solo uno sfruttamento particolare delle risorse (agricoltura, commercio) ma anche un criterio di identità, basato su “chi è membro” e “chi non lo è”, una sorta di prima forma di etnicizzazione (Mbembe, 2004). Sulla base di questa, con la colonizzazione britannica, si è avviato un secondo e più ampio processo di etnicizzazione del territorio, basato sullo stabilire in maniera precisa confini, cariche e identità. L’autorità coloniale ha congelato consuetudini e pratiche locali attraverso una regola fondata sull’ordinamento di norme e cariche, che permettevano - nella logica coloniale – l’amministrazione del territorio. L’indirect rule, come tradizionalmente viene definita questa forma amministrativa con una accezione che credo sia troppo sintentica, non ha creato qualcosa dal niente: ha avviato quello che molti Autori, credo giustamente, hanno definito un processo di costruzione (Viti, Adas, cit. in Boni, 1999). Ad oggi, nella coesistenza di due regimi politici – quello “tradizionale” e quello governativo – il concetto di territorio e il conseguente criterio legato all’autorità, ciò che ho chiamato 9 L’autorità di cui parlo, tanto per intenderci, è quella definibile “tradizionale”, costituita su un ordinamento simile al regno, con un Re e dei sotto-capi per ogni villaggio. A fianco di questa sussiste oggi il sistema governativo, altrimenti definibile “moderno”. 46 territorializzazione, mantiene ancora una valenza “politica” che determina conflitti e dissensi. L’Autorità esercita, infatti, un dominio sul territorio, che non è solo economico – e con ciò intendo territorio come terra, suolo, risorsa economica - ma anche identitario, in un ultimo senso, politico. Oggi viene a mancare indubbiamente il momento della conquista, per cui lo spazio diventa apparentemente solo spazio di identità: in realtà, a ben vedere, se si analizza l’etnografia, il territorio rimane ancora uno spazio conteso e quindi uno spazio di dominio. Due esempi per tutto, presi un po’ dal “tradizionale” un po’ dal “moderno”10: da un lato abbiamo numerosissime dispute tra Capi-villaggio su questioni fondiarie. Dall’altro abbiamo il territorio come oggetto elettorale, per i partiti di ispirazione (e solo di ispirazione!) democratica, con una accesa contesa su chi manovra meglio l’elettorato. Ancora, quindi, i poteri si contendono il territorio, preso vicendevolmente come spazio di dominio e la creazione di identità - mobili e porose al loro interno ma rappresentate come fisse, etniche, ancora oggi – non è ancora cessata. In quanto oggetto etnografico, il territorio è un campo di indagine. Con il concetto di campo non mi riferisco tanto ad un contesto geograficamente posizionato, quanto a un ambito teorico, ad una dimensione etnologica dove il ricercatore, come dice Piasere, “curva il suo spazio-tempo per andare a co-costruire esperienze con persone che non fanno parte della sua giornata abituale” (Piasere, 2002: 45). Questo forse intende quel tipo di antropologia legata allo strumento teorico della rete, quando parla di multiposizionalità, che, a mio parere, è tanto dell’attore quanto del ricercatore, il quale si situa su un punto di osservazione che gli consente di vedere più dinamicità che staticità. Da ciò discende non solo un ripensamento delle categorie metodologiche ed etnografiche ma anche una riconcettualizzazione costante delle categorie di analisi, siano esse potere, parentela, identità. L’osservazione etnografica del territorio ritengo si basi, innanzitutto, nel concepirlo nella sua dimensione storica e quindi in connessione alla categoria di tempo. Il territorio è fonte simbolica, dimensione storicizzata dalla società che vi vive. Il territorio in quanto storia funge da memoria sociale, è lo spazio di contesa ideologica al cui interno le varie memorie giocano a contendersi dimensioni politiche e sociali: le genealogie - frutto costante di ripensamenti ideologici, di costruzioni politiche e di retoriche – sono lo strumento privilegiato di dominio nella mia area di ricerca: la ricaduta sta nella differenza che si viene a creare tra chi si vuole discendente dei fondatori – e quindi in “vantaggio storico” – e chi di immigrati o schiavi. Questa differenza crea dipendenza, laddove la dipendenza si basa sul ricordo, politicamente esercitato, di un passato strumentale all’accesso delle risorse. La nozione di spazio è stata utilizzata in questo breve scritto nel senso di concetto teorico, strumento per territorio e campo. In effetti mi sembra la nozione più teorica e ampia, che spazia (appunto) dall’antropologia politica a quella cognitiva. Lo spazio è creato nonostante l’assenza di supporto fisico, che mi sembra invece centrale nel territorio: la lettura di genealogie e la narrazione di tradizioni orali creano uno spazio che ha il vizio della non-più-esistenza perché relegato nel passato, ma la cui valenza è assolutamente presente in quanto crea autorità. 10 Quando parlo di “tradizionale e moderno”, beninteso, seguo semplicemente l’ideologia locale, prendendola come dato etnografico. 47 In conclusione, ciò che qui ho inteso come politica del territorio è un oggetto etnografico in grado di individuare, attraverso vari mezzi di indagine, lo spazio della conquista e del dominio che consente al Potere di esercitare la sua autorità e che, allo stesso tempo, determina nella pratica sociale quotidiana la scelta degli attori, la loro strategia, il senso sociale delle loro azioni: in definitiva, il loro spazio di identità. Bibliografia − Augè, M., 2004, Poteri di vita, poteri di morte, Raffaello Cortina, Milano, (ed. or. 1973); − Boni, S., 1999, La struttura tradizionale sefwi tra invenzione e ordinamento, in Africa (Roma); − Boyardin, J. (ed.), 1994, Remapping memory. The politics of time-space, University of Minnesota Press, Minnesota; − Izard, M., 1985, Gens du pouvoir, gens de la terre. Institutions politiques de l’ancien royaume du Yatenga (Bassin de la Volta Blanche), Cambridge University Press-Editions de la Maison des Sciences de l’Homme, Cambridge-Paris ; − Izard, M., 1994, Del trattamento politico dello spazio, in Etnosistemi 1, 1: 6-12; − Mbembe, A., 2005, Postcolonialismo, Meltemi, Roma, (ed. or. 2000); − Piasere, L., 2002, L’etnografo imperfetto, Laterza, Roma-Bari; − Vincenti, J.F., Dory, D. & Verdier, R., (eds.), 1995, La construction religieuse du territoire, L’Harmattan, Paris ; − Viti, F., (1998), Il potere debole. Antropologia politica dell’Aitu Nvle, Franco Angeli, Milano; Campo Alberto Acerbi L'immagine popolare dell'antropologo è quella di un uomo (nel senso di "maschio"), che rimane da solo, per mesi - o anni in casi rari - tra estranei ("Altri"), con un taccuino in mano, un giubbotto fornito di numerose tasche e un cappello per ripararsi dal sole. Quanto è distante questa immagine dalla realtà? Gli antropologi non sono certo esclusivamente uomini (al contrario, potrebbe esserci un'inversione di tendenza, almeno rispetto all'immagine popolare: nel nostro dottorato, per esempio, negli ultimi tre cicli, le donne rappresentano circa il 60% degli iscritti), i taccuini sono sempre più spesso sostituiti da computer portatili e i giubbotti con le tasche sembrano passati di moda. Quello che rimane (oltre al cappello) è il fatto che agli antropologi sembra venire in effetti richiesto di fornire descrizioni dettagliate di fenomeni estremamente complessi attraverso ricerche condotte per lo più in solitudine. Nel mondo della ricerca, oggi, "interdisciplinarità" è una parola magica: in un progetto della commissione europea, con scadenza febbraio 2006, per finanziare ricerche su "Cultural dynamics: from transmission and change to innovation" (tema quindi congeniale agli antropologi) si legge, nel paragrafo 4 ("WHAT KIND OF RESEARCH *WILL NOT* BE 48 PURSUED?") che non verrà nemmeno presa in considerazione una ricerca "which is monodisciplinary, or where there is no substantial interdisciplinary dialogue across conceptual boundaries"! Ma, quali sono i vantaggi dell'interdisciplinarità? Due motivi mi spingono a pensare che l' interdisciplinarità non sia qualcosa di buono *per sé*. Innanzitutto, come afferma il filosofo della mente Jerry Fodor, non è necessario conoscere la botanica per studiare astronomia (e viceversa), ossia non è detto che una disciplina abbia per forza qualcosa da dire ad un'altra; in secondo luogo, sebbene sia plausibilmente vera l'affermazione "la realtà non è disciplinare, la scienza sì" (altra frase magica, questa di Domenico Parisi), coloro che la studiano - la realtà - non possono sapere tutto di tutto e potrebbe convenire, in molti casi, dividersi il lavoro. Tuttavia, sembra che l'antropologia, proprio per il suo oggetto di studio (faccio finta di avere le idee chiare su quale sia) è, almeno intuitivamente, una delle discipline che avrebbe più da guadagnare adottando un'ottica interdisciplinare. Allo stesso modo, almeno da parte delle cosiddette "scienze umane", è sempre più chiara la povertà di uno studio degli esseri umani che ne mutili le componenti socio-culturali. L'unico esempio recente di interdisciplinarità "forte", almeno a mia conoscenza, che gli antropologi abbiano messo in atto è quello con gli studi letterari. Di questo io non parlerò. Altri esempi, che ritengo molto più produttivi, riguardano, per esempio, collaborazioni tra antropologi, scienziati cognitivi e psicologi evoluzionistici, finalizzati a una migliore comprensione dei meccanismi e degli effetti della trasmissione e dell'evoluzione culturale o, ultimamente, tra antropologi ed economisti (soprattutto esperti di game theory) che hanno prodotto notevoli risultati (vedi per esempio "Foundations of Human Sociality: Economic Experiments and Ethnographic Evidence from Fifteen Small-Scale Societies", Oxford University Press, 2004). Non è possibile qui entrare nel dettaglio e motivare perchè in questi casi mi sembra che le ricerche interdisciplinari stiano funzionando (lo ho fatto altrove più in dettaglio per il primo dei due, che è quello che conosco meglio). Ciò nondimeno, questi rimangono casi abbastanza isolati, almeno nel nostro panorama: per quali motivi? Potrebbe essere (come afferma l'etnobiologo e antropologo cognitivo Scott Atran, al quale ho rubato anche la comparazione tra immagine popolare e reale dell'antropologo) che le ricerche interdisciplinari richiedono uno sforzo organizzativo - e, soprattutto, economico molto maggiore delle ricerche tradizionali. Oppure, potrebbero esserci ragioni più sostanziali, o teoriche, sulle quali si potrebbe riflettere. O, semplicemente, non ci sono ragioni particolari e, in questo caso, quali potrebbero essere le collaborazioni più interessanti, e in che casi specifici? 49 Riflessioni Teodora Mocan I temi di cui ci stiamo occupando quest'anno sono, come per tanti altri dottorandi, al centro della mia ricerca su cui ultimamente sto riflettendo in una maniera più approfondita. Premetto che stiamo parlando di temi molto interessanti e complessi, perciò altrettanto ambigui e difficili da delimitare in una maniera netta e chiara. Cercherò in seguito di dare un contributo al nostro incontro di Pontignano e, nello stesso tempo, di "svelare" alcuni tratti del mio campo di ricerca. Per quanto riguarda il campo (inteso come luogo della propria ricerca), il mio lavoro di ricerca si svolge nell' area di Codru dove sto esaminando le forme e i processi con cui alcuni personaggi, ribellatisi al potere costituito del loro tempo e definiti haiduci,1 viteji, curajosi, fantastici, puternici, ecc. e il modo in cui sono entrati successivamente a far parte della memoria collettiva delle comunità locali e di una più ampia comunità nazionale che, anche attraverso la patrimonializzazione di queste “figure del ricordo” (ASSMAN J. 1997) hanno costruito e continuano a costruire la loro appartenenza identitaria. Più in particolare il mio lavoro è stato incentrato sulle figure di Pintea e Blidaru, entrambi vissuti nell’ area montana di Codru2, in Transilvania. Gli haiduci romeni, i briganti italiani, i cangaçeiros brasiliani, i bandoleros andalusi o i rasboiniki e i cosacchi russi - e si potrebbe naturalmente continuare - hanno esercitato e continuano ad esercitare un prolungato fascino fondato anche sulla loro ambigua appartenenza e alterna fortuna. Si tratta di soggetti che, spesso provenienti dalle classi popolari, attraverso mezzi violenti, combattimenti, aggressioni, rapine, si pongono in conflitto con il potere costituito, ma per alcuni gruppi sociali e per diverse ragioni essi assumono un valore positivo o vengono in epoche successive riabilitati. Sono considerati ribelli contro il potere costituito, ma anche difensori dei deboli; sono combattuti e sconfitti ma anche talora riabilitati e considerati eroi; sono personaggi pittoreschi ma vengono anche assimilati a figure fantastiche; sono attori di eventi “meravigliosi”. Anche la loro vita si trova al confine di mondi diversi: i briganti vivono una vita di difficoltà e disagi che li accomuna ai ceti più umili, ma ottengono talora anche improvvise ricchezze. Sono crudeli e violenti e, allo stesso tempo anche combattenti coraggiosi in difesa della patria e dei deboli e attori di vicende eccezionali che diventano meritevoli di essere narrate. Non stupisce dunque che essi in molti casi si siano venuti a costituire come “figure del ricordo” elaborate e costruite attraverso varie modalità comunicative, dalle narrazioni e racconti popolari ai fogli volanti, dai testi letterari, ballate e canzoni alle stampe e 1 haiduc (pl. haiduci) potrebbe essere tradotto in italiano con brigante, ribelle e il DEX (Dizionario Esplicativo della Lingua Romena) del 1998 ne da questa definizione: 1.“ uomo che, mettendosi contro un regime, lascia la sua casa e va a nascondersi nelle foreste, da solo o in gruppo, rubando dai ricchi per aiutare i poveri”; 2. soldato mercenario; (dalla parola bulgara “hajduk”). Secondo Hobsbawm, sono singoli o gruppi di uomini liberi, “armati e agguerriti; si formarono in seno a coloro che erano stati cacciati dalle loro terre o che si erano sottratti alla servitù, in un primo tempo spontaneamente, più tardi in forme organizzate” (HOBSBAWM E. J. 1959: 65) 2 Sulle “comunità di memoria” si veda IRWIN - ZARECKA Iwona - Frames of remembrance: the dynamics of collective memory (1994) si Eviatar ZERUBAVEL - Social mindscapes: an invitation to cognitive sociology (1997) 50 dipinti, fino alle produzioni teatrali e cinematografiche di cui essi sono protagonisti. Sono figure che assumono rilievo nella memoria collettiva di intere comunità in quanto vengono condivise, non solo nei contenuti ma anche nelle forme, dagli individui che ne fanno parte che si costituiscono come “comunità di memoria”. In Romania, tutti i ribelli sono stati denominati haiduci, indifferentemente dal periodo storico in cui hanno vissuto o dai caratteri del potere costituito al quale si sono opposti. La categoria di haiduc ha un carattere costruito e ambiguo come le altre categorie di “brigante" che nel resto d’ Europa hanno accomunato personaggi che si ribellavano all’ ordine costituito per finalità sia di interesse personale, per sfuggire alla povertà o per vendicarsi di un torto subito, sia per impegnarsi in lotte politiche e in difesa di particolari categorie di cittadini per lo più deboli e oppressi. Ricostruire le vicissitudini di questa rappresentazione, ovvero l’invenzione e il successo del termine haiduc è un’ impresa difficile, da delimitare e da articolare per la corposa letteratura di saggistica storica che è stata prodotta, a cui si aggiungono narrazioni e ballate popolari e per la necessaria interpretazione del discorso politico, che ne costituisce lo sfondo, e che, via via, sancisce la fortuna o l’ occultamento delle gesta dei singoli personaggi. Il fatto che essi siano entrati a far parte della memoria di un gruppo e quindi del riconoscimento di un suo passato collettivo e di una sua identità è l’esito di un processo non automatico, ma frutto di scelte selettive e di altrettante “dimenticanze”.3 Anche oggi siamo di fronte ad iniziative locali di patrimonializzazione, da parte di comunità locali che si riappropriano della storia di briganti che in quelle comunità sono nati o vissuti, per trasformarla in risorsa culturale, rivendicandone l’appartenenza comune e l’ancoraggio in una realtà locale. Tracce della memoria, narrazioni e documenti si trasformano in “beni culturali” da valorizzare per le nuove generazioni, segno distintivo di identità locale rispetto ad altri territori, perciò segno di un territorio particolare. Uno dei primi studiosi che analizza il fenomeno del brigantaggio e del banditismo comparandolo in paesi diversi e che analizza in questo contesto anche l’ haiducia è Eric J. Hobsbawm che nel 1959, pubblica I banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna. Partendo dalla convinzione che il banditismo sociale (con cui identifica quasi tutte le forme storiche del brigantaggio), sia “una forma piuttosto primitiva di protesta sociale”, che si riscontra universalmente “in tutte le società fondate sull’agricoltura” Hobsbawm considera il ribelle strettamente legato alle condizioni delle masse contadine e, per questa ragione, il banditismo e il brigantaggio gli appaiono come “uno dei fenomeni sociali più universali della storia, caratterizzato da una straordinaria uniformità”. Questa uniformità, è il riflesso di situazioni simili che si possono verificare “all’interno di varie società contadine”.(HOBSBAWM 1959, p.12) Per questa ragione cerca di individuare, in una prospettiva comparativa, i tratti comuni del fenomeno presente in differenti aree del mondo, dall’Europa - Grecia, Italia, Spagna, Bulgaria, Russia, Turchia - all’India e Tunisia o ai paesi dell’America Latina ai Balcani. Per quanto riguarda l’etimologia della parola haiduc, Traian IONESCU – NISCOV (1958), folclorista e letterato romeno vissuto nella prima metà del secolo scorso, suggerisce alcuni spunti che ritrova in ambito pastorale e cerca di analizzare il carattere ambiguo e polisemico del termine. Le sue ricerche si indirizzano verso un’etimologia ungherese della parola, che sarebbe 3 Il rapporto tra memoria e identità collettiva è stato per la prima volta messo in luce da Maurice HALBWACS (Les cadres sociaux de la mémoire, Paris, 1925; Conscience individuelle et esprit collectif, Paris, 1939; La mémoire collective, Paris, 1950) 51 penetrata in Romania nel XVI secolo attraverso le spedizioni militari compiute sul territorio della Transilvania. Nel XV secolo un grande numero di pastori serbi, croati fuggivano dall’invasione turca verso le pianure ungheresi, dove le parole slave dell’ambito pastorale, hayto, heido, haido, trovarono una sintesi nella parola ungherese haydu, che aveva con esse una radice comune. Si venne così formando una specifica categoria di persone, che si occupava della vendita degli animali nel mercato europeo, da Venezia alla Moravia, dall’Ungheria alla Germania. Questi mercanti di bestiame erano chiamati heyducks ed erano reclutati non solo tra i pastori e i capi di bestiame delle pianure ungheresi, ma anche tra gli abitanti dei villaggi liberi. Alcuni di loro, per difendersi dai ladri, che spesso li attaccavano durante i loro viaggi si armavano e si organizzavano in gruppi. All’inizio del XVI secolo, a seguito di numerose restrizioni, cominciò a declinare il mercato del bestiame e i pastori, rimasti senza il loro lavoro, cominciarono a compiere razzie nelle campagne. Il mio sguardo si è rivolto, in questi anni di ricerca sul campo, verso la figura di Blidaru, brigante di una personalità ambigua, considerato oggi, a 50 anni della sua morte eroe anticomunista e spia nello stesso tempo. Nel trentennio successivo tra la sua morte, avvenuta nel 1958 e la caduta del regime, sulla sua figura era calato il silenzio da parte delle istituzioni e delle fonti ufficiali, mentre a livello locale l’ identificazione con alcuni brigati vissuti precedentemente consentiva di mantenerne la memoria. La caduta del regime ha segnato una nuova fase relativa alla costruzione della sua memoria e che è rivolta alla sua “patrimonializzazione”, una fase che è ben lontana dall’ essere conclusa e a cui partecipano in vario modo diversi soggetti. A livello più generale essa si inserisce nel quadro di un progetto di revisione della storia recente e più precisamente della storia del periodo comunista ad opera degli istituti internazionali e nazionali di storia recente, come per altro in tutto il resto dell’ Europa dell’Est. In Romania vedono la luce negli ultimi anni numerosi studi sulla letteratura carceraria, sulla resistenza armata nelle montagne, sulle biografie di haiduci più o meno noti. Si tende a valorizzare il conflitto, la ribellione, la resistenza contro il vecchio regime e le sue testimonianze che entrano a far parte del patrimonio locale e nazionale: dalla documentazione d’ archivio, alle fonti orali, alle biografie. Nello stesso tempo anche nella zona di Codru la memoria di Blidaru non viene conservata solo attraverso i racconti popolari di cui si è detto, trasmessi in ambito familiare e locale, ma anche attraverso iniziative pubbliche e la costituzione di pubblici "luoghi di memoria” luoghi che catalizzano e vivificano le memorie. Tali possono essere considerati le lapidi che nel suo paese natale sono state collocate ad opera dei figli sia in luoghi pubblici (come, per esempio, la croce imponente in marmo che lo ricorda, collocata nel perimetro della chiesa locale), sia in luoghi privati (come la stele collocata di fronte alla casa del figlio o come il monumento funerario nel cimitero del paese a sua moglie morta nel 1997). Ma anche a livello urbano nella città più vicine, molti ricordano di avere incontrato Blidaru nel periodo in cui era in clandestinità e ne traggono motivo di vanto. Naturalmente la memoria di questo personaggio viene nutrita in modi differenti da diversi gruppi sociali che utilizzano anche differenti modalità di trasmissione. Essa vive sia nell’ interazione quotidiana sociale e linguistica di singoli individui sai nella diffusione di forme scritte, visive o nella costruzione di manufatti. Si tratta di forme diverse di produzione e uso della memoria, a partire da oggetti, luoghi, eventi, personaggi, a cui la figura dell’ haiduc offre un ricordo fondante (ASSMANN 1992), confermando l’ attualità di una riflessione su questo fenomeno. 52 Bibliografia − Assman, J., 1992, Das kulturelle Gedachtnis. Schrift, Erinnerung und Politische Identitat in fruhen Hochkulturen, Munchen, .Ch. Beck’ sche Werlagsbuchhanblung − Blok Anton (1974) The mafia of a sicilian village 1860-1960, New York Harper & Row Publisher − Boyardin, J. (ed.), 1994, Remapping memory. The politics of time-space, University of Minnesota Press, Minnesota; − Burawoy, Michael, & Verdery, Katherine, 1999, Uncertain transitions. Ethnographies of change in the postsocialist world, Rowman&Littlefield, Lanhan − Cheater, Angela, 1999, The Anthropology of Power. Empowerment and disempowerment in changing structures, Routledge, New York − Ferguson, James & Gupta, Ankhil, 1992, Space, identity and the politics of difference, in Cultural Anthropology 7 (1) − Hobsbawm, Eric J., 1966, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi ed. originale (1959) Primitive Rebels, Manchester, Manchester Universiy Press − Hobsbawm, Eric J., 1971, I banditi. Il banditismo sociale nell’ età moderna, Torino, Einaudi ed. originala (1969) Bandits, London, Weidenfeld and Nicolson − Halbwachs, Maurice, 1950, La mémoire collective, Presses Universitaires de France, Paris − Irwin & Zarrecka, I., 1994, Frames of remembrance: the dynamics of collective memory, New Brunswick, N. J. Transaction − Ionescu & Niscov, Traian, 1958, Haiducia si cantecele haiducesti, in “Revista de Folclor", anul III, n. 2, p. 113 - 126 − Lefebvre, Henri, 1991, The production of space, Cambridge − Stocking, George W. Jr., 1998, Bones, Bodies, Behaviour. Essays on Biological Anthropology, University of Wisconsin Press, London − Verdery,Katherine, 1999, The political lives of dead bodies. Reburial and Postsocialist Change, Columbia University Press, New York − Verdery,Katherine, 1996, What was socialism and what come next?, Princeton University Press, Princeton − Zerubavel, E., 1997, Social mindscapes: an invitation to cognitive sociology, Cambridge, Mass., Harvard University Press 53 Pratiche11 spaziali e relazioni di potere. Corpi12 e macchine13. Brevi note su campo, spazio e territorio Roberta Pompili Lo spazio è fondamentale in ogni forma di vita comunitaria; lo spazio è fondamentale in ogni esercizio di potere….Ricordo che nel 1966 un gruppo di architetti mi invitò a fare uno studio dello spazio, di un qualcosa che all’epoca chiamavano “eterotopie”, quegli spazi singolari che si trovano in certi spazi sociali e le cui funzioni sono diverse se non adirittura opposte ad altre. Gli architetti lavoravano a questo e alla fine dello studio un tale- uno psicologo sartriano- mi assalì dicendo che lo spazio è reazionario e capitalistico mentre la storia e il divenire sono rivoluzionari. (Foucault 1984 citato in Harvey 2002). Le pratiche spaziali e temporali non sono mai neutrali per quanto riguarda gli aspetti sociali. Esse esprimon sempre un certo contenuto di classe o un contenuto sociale di altra natur, e sono spesso al centro di una intensa lotta sociale. (Harvey 2002) Vorrei partecipare a questa discussione partendo da un punto di vista particolare e situato. Osservo alcune delle fotografie che anni fa ho realizzato insieme ad un amico e che riguardano alcune strade dove le donne lavoravano e in parte ancora lavorano durante la notte. Seleziono delle immagini che mi aiutano a tornare in luoghi in cui è avvenuta una parte significativa del mio lavoro, del mio campo. Sebbene il materiale14 sia diacronico, sfocato, in una certa misura storicizzato e fittizio (si tratta di foto scattate di giorno e volutamente senza la presenza delle sex workers) esso evoca alcune riflessioni a mio avviso pertinenti ai nostri temi di lavoro di Pontignano. Dove lavorano, o meglio -visto che la mobilità non è solo un tratto distitintivo della nostra epoca ma riguarda concretamente anche i corpi flessibili di chi vende le proprie prestazioni in strada- dove lavoravano le sex workers fino al 2000 nella citta di Perugia? Perché quei luoghi e non altri? Quali sono state le mie frequentazioni, i miei viaggi, le mie andate e ritorno per incontrarle? Quali attori costituivano concretamente la scena del mio oserei dire “campo di battaglia”? Cercherò di fare solo alcune brevi osservazioni partendo con l’intento di indicare alcuni ipotesi di lavoro. Decido di scegliere di partire dalle foto, come ho detto, e di dare un ordine alla narrazione. Esso non è casuale, ma riguarda sempre una scelta, una scelta legata ad alcune assenze ed alcune presenze degli scatti. Una scelta che è soggettiva e insieme politica. E che mi aiuta a ripensare il 11 Mettere in evidenza le pratiche è un modo di studiare (de Certau1980, Bourdieu 1995) un fare senza partire dal suo prodotto. Il concetto di pratica per de Certau si giustifica attraverso il concetto di tattica, intesa come arte della resistenza, della differenza e del detournement. La pratica implica i concetti strategici dello scarto, dell’infrazione, e della destrutturazione. La pratica altera un luogo ma non ne fonda nessuno. De Certau 1980 12 Utilizzo il termine corpi riferendomi alla biopolitica di Foucault, come tratterò in seguito , il riferimento è ai corpi in quanto soggetti localizzati (Appadurai 2001), ossia che imparano ad appartenere ad un insieme di reti e relazioni situate attraverso un processo di incorporazione. 13 Questo titolo provvisorio sulle mie osservazioni non vuole focalizzare la mia ricerca in una semplice contrapposizione dicotomica della realtà. 14 Correrò per qualcuno il rischio di mettere in scena un artificio retorico che nasconde una “mia” verità. D’altra parte se concordo con un’ottica processuale e dinamica della realtà che renda conto delle pratiche come orizzonti di attività, sono tesa a demistificare una certa apologia del postmodernismo e del postcolonialismo che copre il reale ordine del presente costituito dal dominio dell’astrazione capitalistica (Zizek 2003) 54 “campo” come un sito in grado di produrre significati molteplici e di cui mi soffermo ad cercare di afferrare almeno qualcuno di questi piani. Ore 15.30 un pomeriggio di inverno (anno 2000) Zona Trasimeno Ovest una via nella zona industriale che da Perugia va verso i capannoni industriali delle Officine Piccini, cancello chiuso qualche abete i lampioni che illuminano la strada, le strisce pedonali davanti alla fabbrica e un segnale di attraversamento pedoni. Nessuno attraversa la strada. Nessuno in strada. Non ci sono marciapiedi. Solo macchine. Macchine. Davanti al cancello della fabbrica uno slargo dove ho incontrato più volte delle donne. Più avanti Il Cache Cache negozio di abbigliamento con piccolo parcheggio. Adesso come di notte è chiuso ma il suo parcheggio e luogo di incontro e di via vai tra corpi e macchine. Ripercorro la strada all’indietro nel mio ricordo e prendo la foto della stessa strada nello svincolo che conduce da una parte alla superstrada e dall’altra al quartiere Ferro di cavallo. Macchine. Su di un lato cammina su un piccolo marciapiede solo un uomo. Sotto i semafori un migrante vende fazzoletti di carta e accendini. Un po’ più avanti una piazzola di sosta dove si sno verificati molti incontri tra operatori e donne. Operatori in camper e donne a piedi. Una zone un po’ periferica, piano dove il precedente sviluppo industriale aveva cercato di decollare (più avanti ancora c’è la fabbrica simbolo della città la Perugina) e che ora si sta convertendo in luogo del consumo massificato soprattutto diurno, (spaccio delle fabbriche che vendo al minuto, alcuni grandi negozi, nella stessa zona c’è la Warner Village) Quelle stesse strade che collegano le nuove cattedrali del consumo e i vecchi luoghi della produzione sono percorso attualmente solo da macchine e spesso dalla “nuda vita” dei migranti (Agamben 1995). Migranti che tornano a piedi a casa con le buste, uomini che lavano i vetri o vendono accendini. Di notte quel luogo diventa/va il luogo di vissuti, di esperienze e di vita di molte donne provenienti da diversi Paesi (in particolare la Trasimeno Ovest è frequentata da donne che potremmo definire15 genericamente proveniente dai Paesi dell’Est come Ucraina, Moldavia, Romania, Polonia…) Corpi-merci esotici esposti nella vetrina urbana del consumo sessuale. Un altro salto indietro nella memoria e ritorno al camper degli operatori attorno al quale si avvicinano alcune donne per prendere preservati. Qualcuna dice Oggi ci sono poche macchine. Oppure ho fatto tot macchine, riferito al numero dei clienti. Lo sguardo delle donne reifica il corpo del cliente nella metafora della macchina. Per attirare l’attenzione dei clienti, quando non ci sono macchine, alzano le gambe e ne ostacolano il passaggio in strada, urlano, chiamano Gianfranco!!! le macchine. Si affiacciano nei finestrini delle macchine invadendo lo spazio dell’altro. Negoziano lo spazio e il territorio in una perenne scena di conflitto latente. Quando arriva una macchina della polizia cercano di nascondersi e fuggono superando il gard rail dirigendosi verso la campagna, lontano dalla strada, lontano dallo spazio urbano. 15 Gli stati-nazionali non sono mai stati realtà omogenee ed unitarie, ma costruzioni imposte ad un certo punto dallo sviluppo delle forze produttive. Attualmente i cambiamenti sociale economici hanno portato alla decompressione dello spazio tempo ( tra gli altri Harvey 2002. Appadurai 2001) e la conseguente crisi dello stato-nazione. Le migrazioni sono una forma di attraversamento dei confini territoriali e culturali che si avvicina un’idea di movimento e nomadismo resistente all’imposizione di un controllo egemonico (Deleuze e Guattari 1987) D’altra parte il dibattitto su colonialismo e postcolonialismo (Young 2001) ricorda come le logiche di dominio tipicamente coloniali siano tracimate al di fuori degli spaziin cui hanno avuto origine, fino ad investire la metropoli. Si tratta più o meno delle modalità di messa a valore della forza-lavoro migrante, così come ancora nella organizzazione delle funzioni di controllo delle cittadinanze autoctone in occidente (Mezzadra 2001) 55 Nel 2000 nasce un Comitato cittadino che si pone il problema di arginare la presenza delle donne in strada, perché quando la miseria “circola nuda”16 è scandalosa. Con un'altra operatrice conduciamo delle interviste ad alcuni abitanti di un’altra zona in cui lavorano le prostitute. …Hanno fatto anche una raccolta di firme, a Colleumberto, Pantano, sulla zona lì, perché una cosa così, ci sono i ragazzini, è…uno spettacolo che non è bello. Poi ci sono stati anche gli incidenti, nel senso che arrivano i clienti, vedono quella che è più appariscente di un’altra e bum si fermano. Oppure addirittura argirano sulla strada lì, quella è una strada parecchio transitata. Diciamo che fa il raccordo tra l’E7 e la Superstrada che va a Bettolle, quindi tagliano di là e ci sono parecchi camion parecchio traffico, è pericoloso, ci è successo anche un incidente mortale ultimamente, poi lo saprete.Anche perché quella zona lì, che c’erano i contadini, era una zona di campagna, tutta tranquilla, è diventata tutto il contrario. Ventitrè anni che fo quella linea lì e conoscevamo tutta la gente…invece un cambiamento repentino, co tutte ste donne, con tutto sto via vai di macchine… Una donna racconta di essere andata in strada a fare delle foto alle ragazze che poi sarebbero state pubblicate sul giornale, e conclude il suo racconto dicendo: ci siamo presi tante di quelle sassate che praticamente ho dovuto svuotare la macchina dalle sassate che ci avevano lanciato. De Certau (1980) mette in evidenza come la pratica spaziale possa essere definita un modo d’uso della città che mira ad appropriarsene. Si potrebbe mettere a confronto le politiche urbane che offrono simulacri di comportamento e le pratiche di attori sociali che si pongono in conflitto con essi. Il conflitto si definisce in un confronto in cui oltre agli attori sociali umani anche gli oggetti, le stesse macchine oggetto di interesse e di manipolazione acquisiscono molteplici significati. Osservare le foto per rievocare la memoria del “campo”, ripercorrere i diari delle osservazioni e dei dialoghi delle mie frequentazioni di campo, rileggere i dialoghi con altri attori sociali. La pratica etnografica non è necessariamente legata ad un luogo preciso. Il campo ha molteplici collocazioni. Gupta e Ferguson (1997) insistono su un’antropologia centrata su localizzazioni più che campi delimitati. Se il confine della ricerca è instabile e continuamente rinegoziato …può tornarci utile pensare al campo come a un habitus piuttosto che a un luogo, cioè un gruppo di disposizioni d’animo profondamente incarnate (Clifford 1996). Il corpo dell’etnografo rispecchia esso stesso i limiti di “essere” situato in un contesto sociale e attraversato da differenze (di sesso, di razza,…) Bibliografia − Appadurai, A., 2001, Modernità in polvere, Meltemi, Roma − Bourdieu, P., 2003, Per una teoria della pratica. Con tre studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina − De Certau, M., 2001, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 16 Evidentemente le donne spesso per attirare lo sguardo dei clienti vanno in strada “poco” vestite. 56 − Clifford, J., 1996,Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, Bollati Boringhieri, Torino − Foucault, M., 1984, The Foucault reader (a cura di Rabinow), Harmondsworth − Gupta, A. & Ferguson, J, 1997, Discipline and Practice: “ The field as Site, Method and Location in Anthropology, in Anthropological Locations. Boundaries and Grounds of a Field Science, University of California Press, London − Harvey, D., 2002, La crisi della modernità. Riflessioni sull’origine del presente, Ed NET, Milano − Mezzadra, S., 2001, Diritto di fuga. Migrazioni,cittadinanza, globalizzazione, Ombre Corte, Verona − Young, R. J. C., 2001, Postcolonialism. An Historical Introduction, Ma Blachwell Oxford, Malden − Zizek, S., 2003, 13 volte Lenin. Per sovvertire il fallimento del presente, Feltrinelli, Milano Note su campo e territorio Francesca Polidori Il mio lavoro di ricerca in Rwanda mi ha posto molte volte di fronte a degli interrogativi riguardo ai concetti di spazio, campo e territorio. L'oggetto della mi ricerca sono i rimpatriati Tutsi che hanno lasciato il paese agli inizi degli anni Sessanta a seguito dei primi massacri dei quali sono stati vittime e che, dopo più di trent'anni di esilio, alla fine di una guerra da loro stessi scatenata e vinta, sono tornati a vivere in Rwanda. E' facile quindi capire come il problema del territorio sia centrale alla mia indagine. Si tratta di una popolazione che in parte ha subito ed in parte è stata protagonista attiva di un processo di deterritorializzazione e riterritorializzazione, di una comunità multisituata sia nel tempo -esilio e ritorno in Rwanda- che nello spazio- diversi i paesi di esilio sia in Africa che in Europa, diversi i luoghi di residenza, campo o città, prima e dopo il ritorno- che negli anni si è costruita su di un senso di appartenenza ad un luogo mitico, il Rwanda, “paese del latte e del miele”, ma che è riuscita a riconquistare la patria tanto agognata grazie ad una mobilitazione avvenuta attraverso reti transnazionali (parentali, etniche, religiose, politiche). La diaspora all’estero ha fondato la sua identità sulla sua esclusione dal territorio di origine e sull’idealizzazione di una patria perduta ma, una volta rientrata, ha dovuto cominciare un processo di reintegrazione economica, sociale, culturale e simbolica, riappropriandosi di un luogo ormai sconosciuto e certo molto diverso dall’immagine idealizzata che era stata trasmessa di generazione in generazione. Molti studi sui rifugiati abbracciano quella corrente dell’antropologia post moderna che si occupa di identità diasporiche, ibride e di frontiera che sfidano l' "ordine nazionale delle culture" (Malkki, 1995) e “l'isoformismo tra spazio e cultura” (Gupta e Ferguson, 1992) considerato come naturale. I rifugiati sono spesso considerati come non persone in quanto prive di luogo, costituisco una sorta di “umanità in esubero” (Rahola, 2003) nel sistema internazionale delle nazioni e per questo gli antropologi, e non solo, si sono interessati alle loro strategie identitarie, strategie fondate su reti di relazione che spesso valicano le frontiere e che “trascendono i limiti imposti, i confini del campo e della nazione ospitante, in un panorama […] che effettivamente ridefinisce un senso di località e di comunità” (Van Aken, 2005). Nonostante questa consapevolezza esistono due argomenti che sono stati trascurati dai “refugees studies”, studi che raccolgono al suo interno molteplici discipline (economia, geografia, storia, 57 antropologia, psicologia…) ed entrambi gli argomenti riguardano da vicino la mia attuale ricerca: i rimpatriati e i self settled refugees, cioè coloro che non vivono nei campi. Questo scarso interesse può forse trovare due tipi di spiegazioni, la prima di natura epistemologica, l’altra metodologica. Innanzitutto perché i rimpatriati, una volta tornati nel loro paese di origine rientrerebbero nell’ordine internazionale delle nazioni, nella casella che spetta loro nell’organizzazione mondiale secondo la quale ad ogni cultura deve corrispondere un dato territorio: se i rifugiati sono vittime in quanto persone “fuori territorio”, il ritorno a casa rovescia il loro status di vittima, e con esso non cessa soltanto il dispositivo umanitario che li aveva assistiti fino a quel momento ma anche l’interesse di molti studiosi nei loro confronti. Secondariamente, e questo riguarda molto da vicino la nostra discussione, i rimpatriati e i self settled refugees sono difficili da trovare e da studiare poiché abitano in città oppure sparsi in zone rurali. Paradossalmente il campo dei rifugiati corrisponde in tutto e per tutto all’ideale del campo malinowskiano, in quanto luogo apparentemente isolato dal mondo circostante e governato da logiche proprie: è per questo che la maggioranza degli antropologi ha preferito compiere ricerche all’interno di campi, per ritrovare, nonostante l’intenzione di studiare un fenomeno transnazionale, un ambiente facilmente circoscrivibile perché già delimitato dalle pratiche e dai discorsi dell’azione umanitaria (ed è proprio l’analisi di tali pratiche e discorsi, delle forme di resistenza e appropriazione messe in atto dai rifugiati ed del loro progressivo divenire da oggetti a soggetti che sono il centro di questi studi) Siamo quindi arrivati al secondo concetto guida della nostra riflessione, cioè quello di campo: come abbiamo già ampiamente sottolineato, fenomeni quali la globalizzazione, l’urbanizzazione , le migrazioni, forzate o no, hanno portato ad un ripensamento critico di quella esperienza (la pratica etnografica) che può essere considerata come il fondamento stesso della nostra disciplina Per quanto mi riguarda, non solo il mio campo è cambiato nel corso degli anni in quanto si è trasformato l’oggetto dei miei studi e la sua collocazione nello spazio ma anche il territorio nel quale mi sono trovata a fare ricerca ha subito delle trasformazioni oggettive, direi quasi strutturali, che hanno profondamente mutato il paesaggio, lo stile abitativo e conseguentemente la percezione e l’utilizzo dello spazio da parte degli attori sociali. La mia prima esperienza etnografica in Rwanda, nel 2002 per la tesi di laurea, si è svolta in un ambiente rurale e relativamente isolato, anche se vicino ad una cittadina, Butare. Con l’inizio della ricerca di dottorato ho deciso, inseguendo i miei nuovi interessi, cioè i rimpatriati ai quali ho accennato sopra, di spostare il mio “campo” dalla campagna alla città e alle zone ad essa limitrofe. Infatti gran parte di coloro che sono tornati dopo l’esilio si sono trasferiti in città oppure in dei villaggi raggruppati (umudugudu/pl. imidugugu) costruiti dall’UNHCR dopo la fine della guerra. In Rwanda tradizionalmente, e così è stato fino al 1994, i villaggi non esistono e l’abitato è sparso sulle colline: la nuova politica aveva come scopo non solo quello di fornire una casa a coloro che l’avevano persa durante la guerra e il genocidio o che erano tornati dall’esilio, ma anche di rendere più “razionale” l’utilizzo dello spazio. Gli imidugudu avrebbero permesso una più facile distribuzione di acqua e energia elettrica e attraverso la netta separazione tra terre abitabili e coltivabili avrebbero risolto l’annoso problema della carenza di terra e di pascoli (ovviamente niente di tutto ciò è avvenuto). Il mio “campo” era quindi multisituato in quanto i rimpatriati abitano in zone diverse della città e in imidugudu distanti tra di loro e questo inizialmente mi procurava, oltre che problemi di natura logistica, anche un certo fastidio: ho passato i primi mesi della mia ricerca tormentata dal problema di non trovare un luogo adatto a diventare il “mio campo”, dove compiere perlomeno un tentativo di osservazione partecipante. Andando 58 avanti nel lavoro mi sono resa conto di come ogni tentativo di delimitazione fittizia di un territorio in quanto spazio circoscritto per compiere una ricerca sia vano e ho spostato sempre di più la mia attenzione su quelle reti di relazioni che attraversano il territorio rendendolo significativo. Il fatto di aver abitato in diversi luoghi nella stessa zona (città, campagna, imidugudu) mi ha aiutato a vedere come questi luoghi fossero fittamente collegati tra di loro da connessioni di diverso tipo come reti familiari, migrazioni lavorative anche transnazionali, flussi di commercio etc.: in altre parole le colline rwandesi, viste dalla città, non sono poi così isolate come mi erano parse quando avevo compiuto la scelta masochistica di soggiornarvi per la mia prima ricerca sul campo. Tutto questo mi ha portato a riflettere su come il nostro sguardo, che si presume essere scientifico, sia sempre orientato dagli scopi che ci prefiggiamo, sulla difficoltà ad avere uno approccio olistico al nostro oggetto di studio (come ci suggeriva l’ideale malinowkiano) e su come il campo non sia altro che un insieme di relazioni coltivate (con fatica) dall’antropologo al fine di produrre conoscenza in "una dialettica tra esperienza e interpretazione” (Clifford, 1988). E attraverso il rapporto spesso problematico ma non per questo privo di frutti tra questo due poli (e così anche campo e scrittura, etnografia e teoria…) che si costruisce la nostra disciplina. La prima volta che sono arrivata in Rwanda, un vecchio professore mi ha accolto dicendo che la mia ricerca era destinata sicuramente a fallire dal momento in cui non avrei mai potuto “leggere dentro il cuore dei rwandesi” perché straniera, bianca, donna e giovane: il fallimento pareva essere già scritto nelle mie caratteristiche innate. Durante il mio ultimo soggiorno un vicino di casa che mi stava dando un passaggio in macchina, scoprendo che ero antropologa mi ha chiesto se attraverso le mie ricerche ero già riuscita a “cogliere il mistero del genocidio rwandese” a trovare delle spiegazioni per un fatto che a lui stesso, pur avendolo sperimentato, pareva folle e privo di senso: “il problema è che noi rwandesi siamo incapaci di comprendere perché siamo troppo all’interno della logica che lo ha generato...quando qualcuno corre veloce con la macchina non si rende conto della velocità e rischia di fare un incidente, la velocità è percepita più facilmente da chi resta sulla strada, ma non troppo lontano, giusto sul bordo…”. Mi è piaciuta questa immagine dell’antropologo come qualcuno che entra nella macchina, che prova a cogliere il punto di vista emico ma che al momento giusto, prima di fare un incidente, torna sulla strada cercando di recuperare la giusta distanza tra sé ed il proprio oggetto di studio e che in seguito, attraverso la scrittura, cerca di rendere comprensibili i fenomeni osservati dandone un’interpretazione che vada oltre il senso comune. In conclusione vorrei proporre altri due temi di discussione, che in parte siano già stati sollevati, il primo relativo al concetto di campo, il secondo a quello di territorio. Quando si parla di campo sarebbe interessante anche mettere l’accento sull’ultima fase del nostro lavoro cioè il passaggio necessario e non privo di difficoltà da esperienza di campo a descrizione etnografica e teoria antropologica che si compie con l’elaborazione di un prodotto scritto possibilmente compiuto ed unitario. Per quanto riguarda spazio e territorio mi piacerebbe invece affrontare il tema della mobilità, lo studio delle popolazioni “fuori territorio”, partecipi di processi di deterritotializzazione e riterritorializzazione in spazi di frontiera, tema che tra l’altro mi pare accomunare molte delle nostre ricerche. 59 Bibliografia − AAVV, 2005, Rifugiati, in Antropologia, anno 5, n.5 − Gupta A. & Ferguson J, 1992, Beyond "Culture": Space, Identity and the Politics of Difference, in Cultural Anthropology, vol.7, n.1, pp.6-23 − Malkki L, 1995, Purity and Exile. Violence, Memory and National Cosmology among Hutu Refugees in Tanzania, University Chicago Press, Chicago − Rahola, F, 2003, Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell'umanità in eccesso, Ombre Corte, Verona Riflessioni Claudia Avitabile La comunità nella quale ho svolto la ricerca di dottorato, nello Yucatán, ad Oxkutzcab, è composta di circa 24.000 abitanti, è ad economia prevalentemente agricola, ma questa riesce ad essere scarsamente competitiva per la mancanza di tecnologie che incrementino la produzione e ne assicurino la costanza. Un fattore sociale ed economico forte nella comunità, di conseguenza, è l’emigrazione in Messico, che inizia già negli anni Quaranta come migrazione interna, dalle zone rurali alle città, causata dalle laceranti condizioni di povertà nelle campagne legate alla frammentazione accentuata della proprietà terriera, alla caduta progressiva dei prezzi dei prodotto agropecuari, al sovrasfruttamento delle risorse, ed infine al deterioramento dell’economia contadina basata sulla monocoltura. Città del Messico, che più di tutte le altre città messicane ha assorbito emigranti dalle varie zone rurali del Paese, attorno agli anni Ottanta del XX secolo ha saturato le possibilità ricettive. La successiva destinazione è stata quindi la migrazione extra-nazionale, verso i vicini Stati Uniti. L’emigrazione degli uomini verso gli Stati Uniti, che si è incrementata nelle ultime due decadi fino ad ampiezze straordinarie, è ormai un fenomeno massivo. Per quanto l’emigrazione sia praticamente sempre illegale e sia difficile, quindi, quantificarla, approssimativamente il numero di uomini emigrati da Oxcutzcab verso gli Stati Uniti (quasi sempre in particolare verso San Francisco, California) è stato stimato sulle duemila persone. Si tratta di una emigrazione che individua destinazioni ben precise, nelle quali quindi gli uomini ricostruiscono in dimensioni ridotte il gruppo d’origine, compreso quello familiare, anche perché, per lo più, è una emigrazione temporanea, anche di decenni, ma finalizzata al rientro nel luogo di origine. Il ricongiungimento delle famiglie è quindi sempre in Messico e non negli Stati Uniti. Tutto ciò ha creato sul piano sociale una femminilizzazione dell’agricoltura di sussistenza ed un aumento senza precedenti per il Messico dell’incorporazione delle donne al lavoro salariato. Fino a questo periodo, il lavoro della donna si era svolto quasi esclusivamente tra le mura domestiche, differenziandosi tra la cura dei figli, l’igiene della casa e della famiglia, la preparazione degli alimenti. Accanto a questi tre cardini, la donna occasionalmente aiutava nel campo, vendeva i prodotti della terra, allevava animali domestici, raccoglieva e trasportava legna, produceva artigianato, lavava per terzi, o preparava tortillas e altri cibi per la vendita, assisteva con le cure la propria famiglia o per il vicinato. Se era necessario integrare l’economia 60 familiare con un lavoro remunerato, la donna poteva essere panettiera, partera, commessa, specialista in preghiere, fabbricante di amache, addetta al mulino per il mais, cuoca in cerimonie, modista, curandera, infermiera, maestra. Con la crisi dell’agricolutra e l’inizio dell’emigrazione, la donna ha iniziato ad esplorare nuove opportunità economiche che aiutassero la famiglia a far fronte alle necessità. Ma l’impatto non è stato meramente economico. Di pari passo, è nata, infatti, una tipologia di relazione matrimoniale definibile come “coniugalità a distanza”, un modello di vita, forse transitorio, che influenza anche le dimensioni di tempo e spazio. Si assiste oggi all’appropriazione femminile di spazi fino a poco tempo fa monopolizzati degli uomini, la femminilizzazione di compiti e occupazioni, lo spostamento delle frontiere concettuali dei generi e la riorganizzazione del sistema uomo-donna anche nella quotidianeità, a volte con elevati costi sociali. Nell’arena familiare e domestica si giocano le relazioni di genere e generazionali e la coniugalità senza corresidenza sostenuta nel tempo comporta la continua negozazione tra marito, moglie e suocera dei processi decisionali relativi all’ambito domestico, alla cura dei figli, degli anziani, dei beni materiali e simbolici del marito, tra cui il prestigio, l’onore, il buon nome e l’immagine dell’assente. A carico dell’uomo, invece, la nuova coniugalità comporta il mantenimento e la riproduzione del vincolo mediante l’impegno prolungato di fornire il sostegno economico, dimensione primordiale della mascolinità in questo contesto, intimamente legata al riconoscimento dell’autorità nella stessa figura. In sintesi, l’emigrazione maschile produce una messa in discussione ed un riassesto delle frontiere, dei limiti e dei divieti – materiali e simbolici – che connotano spazi significativi per la distinzione di maschile e femminile. Le differenze tra privato e pubblico entrano in crisi e l’omologazione tra spazio extradomestico, spazio esterno e spazio pubblico deve essere ridefinita. Privato/pubblico, esterno/interno, aperto/chiuso, fuori/dentro cadono come distinzioni tassative e predefinite e vengono ricontestualizzati. La dimensione del tempo partecipa di questo processo. La nascita del lavoro salariato femminile ed anche la femminilizzazione dell’agricoltura rendono visibile il lavoro invisibile svolto fino a questo momento dalle donne. Questa invisibilità ne garantiva una disponibilità illimitata, sempre a disposizione degli obblighi e delle responsabilità familiari. Il “tempo proprio”, fino ad ora, era stato assente dalla vita di molte donne. Rispetto alla tematica dell’essere sul campo devo riconoscere che la mia presenza lì è stata agevolata dal calore e dalla disponibilità di tutte le persone che ho incontrato e con cui ho parlato ad Oxkutzcab, che si sono messe in discussione nel corso delle interviste, mi hanno dato fiducia e stima. L’inserimento è avvenuto in un contesto nel quale c’è una facile riconoscibilità, date le dimensioni della comunità e il relativo isolamento della stessa da flussi turistici o commerciali. Questo fattore genera spesso delle aspettative inattese alle quali non si può rispondere, in quanto ricercatori, ma alle quali a volte si può dare una spiegazione, si possono in qualche misura controllare. Per molte titolari, il mio ruolo di donna adulta, “bianca”, proveniente da una località esterna al contesto, istruita e che ha potuto pianificare la sua vita prescindendo dai ruoli di moglie e madre, mi assimilava alle dottoresse o agli addetti del censimento socio-economico. In generale, mi attribuivano un potere decisionale o un peso consultivo nell’ospedale, per quanto da me sentissero sottilineare che conducevo uno studio autonomo dal governo messicano. 61 Nella fase iniziale di molte interviste è stato necessario e doveroso spiegare, più o meno a lungo, il senso ed il fine del colloquio. A volte la mia presentazione è stata fatta da terze persone, dell’ospedale, che hanno dato una propria interpretazione della posizione dell’antropologo nel contesto specifico, in base anche alla novità di una figura di questo tipo sul posto. Spesso si è creata anche la difficoltà nel definire la provenienza geografica, in quanto lo stato estero del quale si ha esperienza sono gli Stati Uniti. Ho cercato di spiegare la localizzione dell’Italia, ma a volte mi sono adeguata alla collocazione in una lontananza imprecisa e sicuramente non raggiungibile per le donne che me la proponevano, senza irriggidirmi su specificità poco influenti. Ho sottolineato spesso, invece, che non ero una laureata in medicina, perché questa specificità influiva nelle aspettative create su di me e sul mio operato. Spesso, nella difficoltà di relazionarsi con il termine “antropologo” che non aveva spessore nel vocabolario di molte intervistate, sono stata assimilata ai docenti delle scuole per l’uso di penne e quaderni. In questo caso ho accettato l’avvicinamento ad una figura professionale in cui c’è una forte prevalenza della parte teorica. Alcuni infermieri si sono sentiti giudicati o esaminati dalla mia presenza alle lezioni ed è stato necessario chiarire che la mia era una ricerca conoscitiva, non valutativa del loro operato. Ma, nel corso delle interviste, a volte si è rovesciata la relazione ed è emerso l’interesse di alcune infermiere a dialogare del proprio lavoro perchè sono poche o inesistenti le occasioni per fare una valutazione del genere, una riflessione critica sui ruoli e le finalità dell’operare. In molte interviste con medici e paramedici mi è stata rivolta una richiesta di interazione e di raffronto con la situazione italiana, medica, sociale, assistenziale. In conclusione, il mio posizionamento nel corso dell’incontro con le parteras, avvenuto in ospedale, in occasione di una riunione mensile tra le levatrici formate dall’ospedale e l’assistente sociale, è stato peculiare. Per quanto sia stata formalmente presentata dall’assistente sociale, la vera “accettazione” è avvenuta nel momento in cui una anziana partera che avevo incontrato l’anno precedente grazie ad una amica, che era sua paziente, si è ricordata di me e ha socializzato questa conoscenza. Questa seconda “presentazione” ha generato la caduta della diffidenza o del disagio che si era creato e ha innescato una accettazione da parte di tutto il gruppo, concretizzatasi in baci, abbracci e “benedizioni”, auguri e la disponibilità a contattarle telefonicamente. In alcune interviste, specialmente con le titolari e con la partera, ho valutato importante partire dal vissuto e condividere esperienze simili o opposte, rendendo l’intervista una relazione dialogica, un confronto fra persone che si modificano reciprocamente. Bibliografia ALLUÉ XAVIER, Cultural competence in Medicine, in “AM. Rivista della società italiana di Antropologia medica”, n. 11-12, pp. 243-254, Argo, ottobre 2001, Lecce. ARANA MARCOS, Las fórmulas para la alimentación infantil, in La antropología médica en México, a cura di CAMPOS NAVARRO ROBERTO, collana Antologías Universitarias, vol. II, Instituto MoraUniversidad Autónoma Metropolitana, 1992, México. BARRERA BASSOLS DALIA-OEHMICHEN BAZÁN CRISTINA (a cura di), Migración y relaciones de género en México, GIMTRAP-UNAM, 2000, México. 62 BARTOLI PAOLO, Antropologi, amas de casa e curanderos: appunti da una ricerca in corso in una comunità nahua dello stato di Guerrero, Messico, «Quaderni di Thule», Atti del XXIII Convegno Internazionale di Americanistica, Perugia, 4-5-6 maggio 2001, Centro Studi Americanistici “Circolo Amerindiano”, Argo, 2002, Lecce. CAMPOS NAVARRO ROBERTO, La calidad de vida en hospitales con atención a pueblos indígenas. Actividades recientes en el programa Imss-Solidaridad, in Calidad de vida, salud y ambiente, 2000, México. MENÉNDEZ EDUARDO L., Poder, estratificación y salud. Análisis de las condiciones sociales y económicas de la enfermeded en Yucatán, CIESAS, Ediciones de la Casa Chata, 1981, México. PIZZA GIANNI, Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Carocci, 2005, Roma. RAMÍREZ CARRILLO LUIS ALFONSO, Mujeres de Yucatán y Mérida, Análisis Cuantitativo, Universidad Autónoma de Yucatán. Ayuntamiento de Mérida, 2001, Mérida. WARMAN ARTURO, Los indios mexicanos en el umbral del milenio, Fondo de Cultura Economica, 2003, México. E’ l’antropologo a scegliere il proprio “campo”, o il “campo” il suo antropologo? Giulia Pedone Nel precedente contributo avevo suggerito di guardare al “campo” come ad uno spazio di interazione dinamico, costruito attraverso un processo di relazioni sociali e negoziazioni tra gli attori sociali che convergono su un territorio. La proposta era dunque quella di “recuperare l’etnografo come vero attore sociale, immerso in una ragnatela costituita da relazioni e sensi, in cui il campo di ciò che è osservato dipende dalle scelte intraprese a livelli multipli di fronte alle aspettative ed alle costrizioni di tutti gli attori sociali presenti in quella data situazione etnografica”. (Pacheco de Oliveira, 2005:317). Considerando la situazione etnografica come un sistema di relazioni sociali, e di potere, vorrei riflettere su quei fattori che contribuiscono alla costruzione, da parte dell’antropologo, del proprio “campo”. Le scelte iniziali, concepite a partire dagli obiettivi personali ed animate dalle aspirazioni maturate ancor prima di arrivare sul campo (inteso in questo caso come territorio fisico, estraneo e spesso geograficamente distante), vengono a scontrarsi inevitabilmente con le aspettative ed il ruolo attribuito all’antropologo dagli altri attori sociali che convergono sul quel territorio. Comincia quindi una lunga, e mai conclusa, attività di interazione e negoziazione tra “noi” e “gli altri” il cui obiettivo è quello di cercare un compromesso tra le nostre intenzioni e la nostra volontà di azione in un determinato “luogo” (sociale e fisico) e la volontà altrui di inserirci nel contesto locale, a partire dai propri interessi e dalle proprie interpretazioni. “La territorialità comporta una discriminazione sociale tra “sé” e “gli altri” e al tempo stesso un modo di contatto. Il territorio è frutto di una combinazione tra una componente spaziale e una componente sociale. Esistono confini territoriali, ma anche confini sociali. I primi definiscono lo spazio, i secondi chi lo abita. Si tratta di vedere infatti chi sono i soggetti della territorialità e i detentori dell’esclusività a essa collegata”. (Moruzzi, 1983:17) Destreggiarsi in questo “giuoco delle parti” non è sempre semplice; il significato che gli altri attori sociali attribuiscono al lavoro dell’antropologo o alla sua stessa figura di ricercatore, e la “parte” che vorrebbero quindi assegnargli, difficilmente corrisponde a quanto ci si era 63 prefigurati all’arrivo sul campo. In questo senso, come sostiene Renato Rosaldo, l’analisi sociale “deve rendersi conto che i suoi oggetti di analisi sono anche soggetti che analizzano e interrogano criticamente gli etnografi – i loro scritti, la loro etica e la loro politica.” (Rosaldo, 2001:61), e che “quello che era un semplice oggetto di ricerca diventa un soggetto che interpreta non solo se stesso o la propria cultura, ma anche l’antropologo.” (2001:11) Ciò è vero soprattutto nel caso del Brasile, in cui gli etnologi che si interessano alle comunità indigene (in questo caso vige l’antica separazione tra antropologia e etnologia, che fa di me e dei miei colleghi degli “etnologi”) sono generalmente identificati come coloro che lottano a fianco degli indios per il riconoscimento dei loro diritti a livello nazionale ed internazionale. Difficile sfuggire da questo ruolo “precostituito” affibbiato ad ogni antropologo, brasiliano o straniero, voglia interessarsi alle comunità indigene. Quest’ultime, ormai scomparsa l’immagine della società isolata, “scoperta” e descritta dall’antropologo, sono divenute bersaglio di ONG, associazioni religiose, organizzazioni internazionali che si contendono “il campo” per mettere in pratica progetti di sviluppo e programmi umanitari, dagli obiettivi non sempre trasparenti. L’antropologo che si rechi presso le comunità indigene per svolgere un qualsiasi tipo di ricerca, dovrà dunque prima confrontarsi con una lunga serie di entità ed attori sociali che da tempo hanno consolidato la propria posizione di potere e di autorità (alle volte esclusiva) in relazione alle comunità e all’accesso ad esse, ed essere abbastanza esperto nelle sue negoziazioni per non venire escluso da quello che ormai sembra essere diventato un “patrimonio protetto”. Nel mio caso, intendendo analizzare gli effetti che i progetti di cambiamento sociale ed economico pianificato, messi in atto dalle ONG locali, stanno generando nelle comunità indigene amazzoniche dell’Acre, questo tipo di negoziazione è abbastanza complessa, specialmente quando si tratta di interagire con gli antropologi che lavorano nelle organizzazioni non governative e che hanno fatto di quelle comunità le “loro” comunità indigene. Una volta raggiunte le comunità, si dovrà poi definire nuovamente il proprio ruolo, cercando di distinguersi agli occhi degli indigeni da “quegli” antropologi delle ONG ai quali si viene irrimediabilmente associati. L’abilità dell’antropologo/a si misurerà quindi nel muoversi all’interno di questa griglia di significati a lui/lei attribuiti, nell’inserirsi in una rete di relazioni già segnate da rapporti di potere e di autorità, in breve, nella costruzione del suo “campo”. Tornando alla domanda di apertura, quindi, è “il campo” in un certo senso, a scegliere il suo antropologo. Bibliografia − Moruzzi, L., 1983, La terra “padre”, ecologia e simbolismo nelle società di cacciaraccolta, Loescher Editore, Torino − João Pacheco de Oliveira , 2005, Storia, Politica e Religione tra i Ticuna, Bulzoni Editore, Roma − Rosaldo, R., 2001, Cultura e Verità, Meltemi, Roma 64 Spazio sovrapposto: lo studio delle reti di relazione parentale in Toscana Sara Testi Durante il mio percorso di studio a dire il vero non mi è capitato così di frequente di assistere a vere e proprie lezioni metodologiche approfondite e mirate alla spiegazione sul come si costruisce il proprio campo di ricerca. Mi domando se questo accada anche in altri contesti accademici. Ripercorrendo molto sommariamente l’iter universitario che in genere compie l’aspirante antropologo si può riassumere dicendo che si inizia con la lenta acquisizione delle capacità e degli strumenti per avviare i primi passi in direzione dell’osservazione partecipante e più in generale della ricerca sul campo: tendenzialmente per farlo si procede riesaminando le varie tappe che i “padri” della disciplina hanno percorso, focalizzandosi sulle migliorie che sono riusciti ad apportare alla pratica antropologica; oppure si analizzano i diversi orientamenti delle singole scuole che si sono succedute nel tempo o che convivono sincronicamente all’interno di ambiti accademici diversi, e così via. Con il tempo le letture aumentano, lo sguardo si fa più ampio e allo stesso tempo più mirato verso il campo d’interesse a cui tende ciascuno di noi e si fa strada un proprio metodo di studio e di lavoro. E’ anche vero però che molti traguardi raggiunti sono il frutto di una buona dose di autodidattica (quando non di veri e propri colpi di fortuna: cerchi un articolo sull’arte africana e trovi proprio il saggio che fa per te sulla parentela mezzadrile… proprio quello che avresti dovuto leggere per la tua tesi di laurea, ovviamente già discussa). Probabilmente si potrebbero semplificare le cose se non si tentasse così raramente di operare un’autoanalisi (e soprattutto un’autocritica) sul proprio operato, con il risultato che l’impianto metodologico della nostra disciplina viene percepito a fatica e soprattutto viene acquisito con delle tempistiche piuttosto lunghe. Questo accade forse anche perché ognuno ha il proprio modo di rapportarsi con il suo oggetto di studio e raramente si può generalizzare stilando un elenco di cosa un antropologo deve o non deve fare. Eppure molti di noi sentono il bisogno di condividere e confrontare le proprie esperienze di ricerca che inevitabilmente sono tanto esperienze di lavoro quanto di vita vissuta sulla propria pelle. Usciti dalla più o meno recente discussione della tesi di laurea (la prima e forse unica esperienza di ricerca) sentiamo l’impellenza del dialogo e, almeno per quanto mi riguarda, di scavare a fondo le più intime criticità intellettuali per affrontarle e finalmente andare oltre. Vorrei poter descrivere cosa mi ha spinto a intraprendere una via etnografica così intima come lo è inevitabilmente ogni ricerca in un campo ed in un territorio che coincide con il luogo in cui l’antropologo è nato e vissuto e che appartiene dunque allo “studiante” tanto quanto è parte integrante dello “studiato”. Nessuna pretesa di elaborare enunciazioni teorico-metodologiche esaustive, piuttosto vorrei proporvi due ordini di problematiche che emergono ogni volta che dobbiamo rapportarci da un lato con l’antropologia, se vogliamo poco esotica e molto introspettiva, “del noi” e dall’altro con i nuovi approcci agli studi sulla parentela. Dunque procedo mettendomi in gioco “personalmente”, intimamente direi, un orientamento che può essere giudicato estremamente semplicistico ma dal quale nessuno di noi può prescindere: siamo umani tra umani e proprio per questo il nostro mestiere, che ci porta ad esaminare proprio le infinite variazioni di questa relazione, si rivela essere una “questione personale” qualsiasi sia il suo specifico oggetto di studio. Inizio dal primo aspetto, vale a dire il significato che acquista la dicotomia “noi/loro” quando lo spazio (fisico e culturale) in cui agiscono questi due termini del rapporto etnografico corrisponde così intimamente. 65 Ho iniziato ad appassionarmi di genealogie, dinamiche di relazione familiare, generazioni e più in generale al campo dell’antropologia della parentela all’ultimo anno di Università: la preparazione dell’esame di etnografia mi mostrò un lato della “mia” porzione di mondo che semplicemente non avevo mai focalizzato con occhio antropologico analitico e dunque con l’abissale differenza che separa l’”osservare” dal semplice “vedere”. All’epoca stilai un ampio, a tratti disorganico, grafico genealogico sul mio gruppo parentale: l’analisi oggettiva di quel metro e mezzo di tondi e triangoli è stata la prova più difficile che avessi mai affrontato (e con la quale tuttora mi trovo a dover fare i conti). Ebbene, questa sfida tra il mio “io-etnografo” ed il mio “ioin borghese” mi ha portato a fare dei luoghi nei quali sono nata e vissuta lo spazio preferenziale in cui praticare la ricerca sul campo sia per la stesura della tesi di laurea che poi di dottorato. La difficoltà sta proprio in quel concetto di spazio intorno al quale ruotano le nostre riflessioni, inteso in questo caso sia come porzione di territorio sia come una rete di azioni e di relazioni che costituiscono il cuore del mio campo di ricerca (le relazioni parentali appunto). Quando si è immersi nella propria cultura si crede di conoscerla talmente bene da dare molto per scontato e l’analisi oggettiva diviene ad un tratto un ostacolo pressoché insormontabile. Le dicotomie che di solito vengono usate per identificare i due soggetti in relazione nelle dinamiche della ricerca sul campo (ego/alter, interno/esterno, dentro/fuori, tanto per citarne alcune) rispecchiano una suddivisione anche spaziale che viene inevitabilmente ad affievolirsi quando si fa antropologia “a casa propria”. La sovrapposizione di spazi implica uno sforzo ulteriore in quello sdoppiamento di ego a cui è necessariamente sottoposto l’antropologo quando osserva il suo oggetto di indagine: le sfere concettuali e territoriali nelle quali sono immersi oggetti e soggetti di studio si situano una sull’altra in molte delle loro parti, facendo cadere alcuni dei punti fermi sui quali di solito ci aggrappiamo per la costruzione dei nostri campi di ricerca. Prima di tutto il mancato spostamento da un luogo – casa - ad un altro – campo – provoca la perdita di quel senso di distacco dalla propria condizione culturale che permette di avere una predisposizione di maggiore apertura verso tutto ciò che di nuovo si presenterà al nostro cospetto. Quasi fosse un rito di passaggio, il trasferimento aiuta ad indebolire i nostri preconcetti: la “non partenza” diviene dunque una scelta estremamente complessa. Alcune vie che possono essere intraprese per superare questo empasse possono prevedere una presa di distanza temporale come può essere ad esempio lo studio di generazioni diverse dalla propria, la ricostruzione di network parentali non contemporanei; oppure la selezione di interlocutori privilegiati (fanno parte di questa categoria gli studi di genere, tanto per fare un esempio) e così via. In sostanza si tende anche in questi casi a frapporre una distanza, magari non più spaziale ma operata su livelli diversi, tra l’antropologo e gli “altri”. Possibile che sia così raro che invece si proceda con il fare della propria condizione culturale il punto di forza sul quale puntare per una maggiore comprensione dell’oggetto di analisi? La sovrapposizione spaziale non cade mai nella coincidenza totale, a meno che io antropologa non decida di studiare me stessa (in questo caso emergono problematiche di altra natura che esulano troppo da questa mia riflessione) e quindi mi ripeto continuamente che, senza distrarci troppo problematizzando eccessivamente e ossessivamente la difficoltà all’oggettivazione, dovremmo piuttosto concentrarci su ciò che già possediamo ed impostare il lavoro a partire da noi stessi, dal nostro bagaglio culturale dal quale, comunque, con possiamo prescindere. Per questo cerco sempre di risalire alle cause dei fatti: un approccio che in qualche occasione si è rivelato faticoso e forse un po’ troppo storicista ma che mi ha consentito più volte di comprendere meglio alcune delle tendenze contemporanee di quegli attori sociali che di volta in 66 volta sono divenuti il mio oggetto di studio. Da qui il mio interesse per il periodo mezzadrile, l’accanimento con cui mi piace immergermi negli archivi anagrafici, catastali, diocesani e simili; e soprattutto è sempre da qui che è nata la volontà di rimanere a fare ricerca sul campo in Toscana, quasi che fosse per me indispensabile conoscere meglio prima il mio mondo e poi quello degli altri: lo considero uno stadio imprescindibile per il proseguimento del mio percorso professionale, ne sento semplicemente la necessità. Non che non comprenda le motivazioni che spingono molti colleghi a scegliere oggetti di studio più lontani (se non dal punto di vista prettamente spaziale almeno da quello concettuale). Anzi, devo dire che mi sono ritrovata spesso a chiedermi se non avessi dovuto ampliare un po’ di più i miei orizzonti senza focalizzare solo o troppo su un singolo ambito di studi. Credo molto nell’approccio processuale ed interdisciplinare di cui parlano studiosi come Moore (processual ethnography; 1987) e Marcus (multi-sited ethnography; 1995): sto facendo i conti proprio in questo periodo con l’urgenza di fare riferimento a lavori di studiosi di altre discipline come i sociologi che hanno scritto sulla situazione delle politiche sociali in Italia o i demografi e gli statistici che si occupano delle dinamiche che sottendono ai flussi di popolazione, o anche al lavoro di storici, politici e così via… Sempre da quell’esigenza di “basilarità” di cui ho parlato sopra credo che sia da ritrovare anche la mia scelta di studiare la famiglia in contesto toscano: ecco che vengo dunque al secondo aspetto che vorrei discutere. Proprio per il suo continuo movimento sia a livello di comportamenti individuali o di gruppo che di interazione con le istituzioni, la famiglia rimane al centro di diverse questioni sociali contribuendo, con la sua dinamicità, a definire i modi e i sensi del mutamento sociale stesso (Saraceno, Naldini 2001). Ordine biologico e ordine sociale, le due polarità intrinseche alla nozione stessa di parentela, hanno avuto fortune alterne nel corso della storia degli studi e stanno subendo oggi una ridefinizione reciproca: attualmente sembrano trovare un loro equilibrio nel concetto di relatedness (Carsten 2000), con il quale si indica l’universo allargato di tutti quei “relati” legati da nessi ancora definibili parentali ma non più necessariamente biologici. Il quadro generale che ne emerge è dunque un universo sociale che per essere studiato ha bisogno di un approccio ampio, che tenga conto sia dei caratteri di mutamento già conclusi che dei processi ancora in itinere e che sia in grado quindi di guardare avanti e di far fronte all’analisi della contemporaneità senza temere di violare i canoni fissati dall’antropologia classica, accettando così sfide interpretative mai percorse fino ad oggi. Gli studi di network analysis (Schweitzer, White 1998) si rivelano un ottimo strumento per far fronte alla necessità di dinamicità e complessità che lo studio delle attuali rappresentazioni parentali comporta. Ho delimitato il mio campo di ricerca ad un’area fortemente caratterizzata dal passato mezzadrile in modo da poter verificare fino a che punto la transizione demografica ha investito queste zone e quali cambiamenti ha determinato nello strutturarsi delle famiglie contemporanee, con particolare riferimento al conseguente mutamento dei rapporti generazionali in termini di frequentazione, vicinanza abitativa, autodefinizione del proprio ruolo all’interno della rete parentale e rapporti di dipendenza e solidarietà reciproca. Per questo mi interessano molto gli studi che si occupano di processualità del sociale, in sostanza alla tematica del mutamento che sia esso inteso come ri-costruzione o metamorfosi del soggetto, del divenire della persona, oppure come spostamento da uno spazio all’altro. L’analisi si può concentrare su singole famiglie, oppure su un reticolo di interrelazioni o, infine, su la vita di singoli che attraversano più famiglie ed aggregati domestici. Nonostante in una prima fase abbia tentato di definire i confini territoriali del mio campo ho dovuto ripensarli subito dopo: pur 67 lasciando come luogo di partenza l’area circoscritta che avevo scelto mi ritrovo adesso a seguire le singole linee relazionali che dal centro si dipanano verso l’esterno. Lavorare sulle reti di relazione parentale implica uno sguardo ampio sul territorio e soprattutto l’acquisizione della consapevolezza di dover sempre mettere in discussione la staticità che talvolta viene attribuita alle singole aree territoriali (vedi ad esempio gli studi sulle aree di alleanza matrimoniale condotti in Toscana meridionale da Grilli e Solinas, 2002). Al contrario, il concetto stesso di territorio è da intendersi come luogo all’interno del quale sono attive più forze che contrattano il loro ruolo reciproco. Ho già spiegato come la stessa ricerca sul campo sia composta da una diade dove da un lato sta il ricercatore, impegnato in un processo di delimitazione e di attribuzione di significato a spazi, dall’altro sta uno spazio che si fa territorio in quanto investito di significati da parte dei soggetti stessi che ne negoziano confini e contenuti. Anche in questa diade la trasformazione è reciproca. Bibliografia − Carsten, J., (a cura di), 2000, Cultures of relatedness. New Approaches to the Study of Kinship, Cambridge, Cambridge University Press. − Grilli, S. e Solinas, P.G., 2002, Spazi di alleanza. Aree di matrimonialità nella Toscana meridionale, Roma, CISU. − Marcus, G.E., 1995, Ethnography in/of the world system : the emergence of multisited ethnography, in Annual Review of Anthropology, 24: 95-177 − Moore, Sally Falk, 1987, Explaining the Present: Theoretical Dilemmas in Processual Ethnography, in American Ethnologist, 14 (4): 727-736 − Naldini, M., Saraceno C., 2001, Sociologia della famiglia, Bologna, Il Mulino. − Schweizer, T., White D.R., 1998, Kinship networks and exchange, Cambridge, Cambridge University Press. − Strathern, M.,1992, After nature. English kinship in the late twentieth century, Cambridge, Cambridge University Press. 68