Distribuzione interna gratuita
LOSE - LOSE
Marzo 2016
INDEX
2 Editoriale
4 Bloomberg
3 Finance Glossary
6 Economics
Redazione:
8 Carreers&Jobs
Lose-Lose
Decennale di Bancopoli
Direttore
Michele Caraturo
Non Performing Loans
Petrolio: OPEC vs U.S. Shale industry
Tassi di interesse negativi
Giappone: crescita e Abenomics
Intervista Palmisani
Vicedirettore
Alessia Aiello
CapoRedattori
Giovanni Manuel Guida
Art Director
Alessia Aiello, Federico Naso
Responsabile Social e Comunicazione
Camilla Nilo
Responsabile Eventi e Relazioni Esterne
Alessio d’Ambrosio Lettieri
Responsabile Marketing
Filippo Vicinanza
Coordinatore rubrica “Bloomberg”
Jacopo Confaloni
Coordinatore rubrica “Economics”
Andrea Marchesani
Coordinatore rubrica “Finance Glossary”
Luca Bellardini
10 Insiders
L’Italia e le startup: concretezza e lungimiranza
La consulenza finanziaria…questa sconosciuta
Social Media Marketing: una nuova prospettiva italiana
13 Stories
Da studente LUISS a District Manager Abruzzo e Molise di Banca Generali: l’esperienza di Alessandro Di Tunno
Antonio Simeone: da studente LUISS a “algo-trader”
15 Outsiders
La teoria della relatività 100 anni dopo
Coordinatore rubrica “Insiders”
Paolo Bucci
Coordinatore rubrica “Outsiders”
Annachiara Afeltra
Redattori
Ludovica Mancioppi, Ilaria Vergassola, Francesca Sossella, Emanuele Galletta, Amedeo
Scarano, Enrico Forlino, Antonio Ricco, Giulia
Balestra, Fabio Cosmi, Luca Laureti
Contatti:
www.ufl-theinsider.com
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Michele Carraturo +39 334 84 05 579
Alessia Aiello +39 334 82 64 949
EDITORIALE
“Lose - lose”
In gergo finanziario, “a lose lose situation” è definibile come
una situazione in cui qualsiasi strategia è perdente. Ma cosa
si intende per perdente? La quasi totale impossibilità di fare
un guadagno o di poter scegliere un possibile asset che
possa garantire un profitto.
Nella teoria dei giochi, un contesto del genere è caratterizzato da una crescente incertezza tra le parti, le quali non
riescono in alcun modo a definire la strategia migliore da
adottare. Nel gioco dell’economia globale, i nostri attori
“principali” sono le banche centrali, o più precisamente, la
Federal Reserve, Bank of Japan e soprattutto la Banca Centrale Europea.
Mario Draghi con le ultime dichiarazioni ha spiegato come
agirà nei prossimi mesi: le nuove misure adottate oltrepassano qualsiasi limite, arrivando addirittura a prevedere l’acquisto di bond emessi da società non finanziarie.
Nessuno nei primi anni della crisi si sarebbe aspettato un
simile scenario, come nessuno avrebbe previsto un tasso di
interesse sui depositi negativo, o un’inflazione che stenta a
superare la soglia del 2%. Ogni teoria economica sembra
essere ormai stravolta. Si inizia così a parlare di “stagnazione secolare” e di nuovi pericoli legati ad una continua politica espansiva non coordinata a livello mondiale.
Probabilmente è stata imboccata una strada senza uscita: la
difficoltà di trovare una soluzione sta portando ad una sempre maggiore instabilità sociale e politica. Ogni istituzione
oggi viene messa in discussione e ormai anche i mercati
non provano la stessa fiducia nei confronti delle banche
centrali e dei loro governatori. Che il sistema economico
sia vicino al collasso definitivo? No, ma è il momento di
intraprendere una nuova strada. La via di un maggiore coordinamento globale, di una politica economica comune.
Questa via rappresenta un’evoluzione, una nuova visione
del sistema economico ancora ‘’sperimentale’’, forse solo
parzialmente attuata in Europa. Un cambiamento radicale:
perché una lose-lose situation può essere superata solo eliminando definitivamente le incertezze tra le parti e la paura irrazionale che si è annidata in ognuno di noi. Mai più
coerenti sono state le parole di Franklin Delano Roosevelt:
“Lasciatemi dire la mia ferma opinione che la sola cosa di
cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, il terrore cieco,
irrazionale e ingiustificato che paralizza gli sforzi necessari
per trasformare questa vittoria in sconfitta”.
A cura di Michele Carraturo
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FINANCE GLOSSARY
La vigilanza dopo la tempesta: quando Bancopoli cambiò la supervisione creditizia
Dieci anni fa – tra gli inverni del 2005 e del 2006 – le sorti economiche del Paese sembravano legate a doppio filo
al rinnovamento dell’intero sistema bancario. L’attenzione
alla trasparenza e alla legalità doveva tornare in auge quanto prima: ma che cos’era successo?
Sebbene «Bancopoli» sia il nome giornalistico di una serie
di vicende diverse, l’episodio principale riguardò la scalata alla padovana Antonveneta SpA. Si contendevano l’acquisizione il colosso olandese Abn Amro e la Popolare di
Lodi (Bpl, poi divenuta Bpi e oggi parte di Banco Popolare,
dopo essersi fusa per incorporazione con l’omonima capogruppo). Ma lo scontro non si limitò alla società target e ai
due istituti che intendevano controllarla: coinvolse invece
Bankitalia, rivoltando l’assetto della vigilanza e inducendone una profonda riforma. Si pensi alla legge 262/2005, che
– fra le varie cose – limitava a soli sei anni il mandato del
governatore e trasferiva le competenze antitrust in materia
bancaria da palazzo Koch all’Agcm. Tuttavia, proprio questo intervento sulla struttura della Banca d’Italia potrebbe
aver posto «le premesse di una possibile, futura prevalenza
della politica sulla tecnica», rischiando di compromettere
l’autonomia della dell’autorità di vigilanza al punto da «vanificare i benefici perseguiti nell’intento di porre rimedio
alle discrasie del sistema» (CAPRIGLIONE, Crisi di sistema ed
innovazione normativa…, in «Banca Borsa Titoli di Credito»
n. 2/2006).
La riforma si rese necessaria perché via Nazionale – soprattutto nella persona dell’allora numero uno, Antonio Fazio
(cfr, Il Sole 24 Ore del 15 febbraio 2007) – fu accusata di aver
favorito l’istituto lodigiano rispetto a quello olandese, ritardando deliberatamente la concessione a quest’ultimo
dell’autorizzazione necessaria per superare il 20% nel capitale di Antonveneta e – allo stesso tempo – soddisfacendo
in tempi piuttosto rapidi la richiesta della banca lombarda,
dal momento che entrambe avevano lanciato un’offerta
pubblica sulla target. Bpi, tuttavia, aveva celatamente rastrellato azioni e siglato patti parasociali che le garantivano
il controllo (a maggior ragione in un ordinamento bancario – quello italiano – in cui esso si presume, quantomeno
«nella forma dell’influenza dominante», sulla scorta di alcuni dati di fatto). Quando lo scandalo emerse – insieme a
quello che vedeva Unipol e il Banco Bilbao affrontarsi per
il controllo di Bnl, poi assunto dalla francese Bnp Paribas –
l’eco politica fu enorme. Termini quali «aggiotaggio», «insider trading» e «ostacolo alla vigilanza» erano divenuti parte
del vocabolario quotidiano. Permeò la sensibilità comune
il concetto secondo cui i mercati sono fondati sull’informazione, che dunque dovrebbe essere la più corretta, veritiera
e trasparente possibile. Risultò evidente come una buona
vigilanza – non solo tecnicamente preparata, ma soprattutto indipendente da ogni pressione – sia un elemento
imprescindibile per garantire quella «sana e prudente gestione» degli intermediari che per le «autorità creditizie» –
Bankitalia in primis – è l’obiettivo supremo, quello che l’articolo 5 del Tub sancisce prima degli altri. Aumentò anche,
probabilmente, la necessità di un coordinamento europeo
della disciplina che producesse regole certe, spezzando
ogni indebita commistione fra gli attori e i destinatari della supervisione. Dopo la crisi economica, e prima ancora
dell’Unione bancaria, il Sevif – nato per scongiurare danni
permanenti e diffusi a un sistema sempre più interconnesso – riuscirà a soddisfare anche questa esigenza in termini
di “mezzi” della vigilanza, e non soltanto di “risultati” (sull’argomento: PELLEGRINI, L’architettura di vertice dell’ordinamento finanziario europeo, in RTDE n. 2/2012). Esigenza, tuttavia, che il nostro Paese aveva autonomamente avvertito
già alcuni anni prima. Gli scandali del 2005 avevano messo
in luce l’inadeguatezza italiana rispetto «alla nuova realtà
riveniente dal processo di internazionalizzazione economica registrato negli ultimi decenni», sicché il nostro sistema
normativo evidenziava «staticità» e «immobilismo» (Capriglione, op. cit.). Certo, dopo la legge 262/2005 i problemi
non sono comunque mancati: basti pensare alla singolare
sovrapposizione tra il destino di Antonveneta e quello di
Mps – altro istituto che di recente ha attraversato vicende
travagliate – quando nel 2013 Rocca Salimbeni assorbì l’istituto padovano (già parte del gruppo senese). La questione
dei cosiddetti «Monti bond» – obbligazioni societarie del
Montepaschi sottoscritte dal Mef – ha riaperto il dibattito
sul rapporto tra le scelte politiche, l’operatività degli intermediari e il ruolo della vigilanza (v. LEMMA, La vicenda Mps:
l’acquisto di Antonveneta, e SEPE, La sottoscrizione dei “Monti
bond”, in RTDE n. 1/2013). Dieci anni dopo, perciò, il quadro
è profondamente mutato. La Banca d’Italia ha imparato dai
suoi errori, senza contare che l’ascesa all’Eurotower da parte del nostro Mario Draghi – apprezzatissimo successore di
Fazio – ha contribuito ad aumentare il prestigio di via Nazionale. Che la vigilanza dopo la tempesta del 2005 sia una
delle poche best practices tricolori?
A cura di Luca Bellardini
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BLOOMBERG
Non Performing Loans
Il 25 Gennaio Italia e Unione Europea, rappresentati rispettivamente dal Ministro delle finanze Pier Carlo Padoan e
dalla commissaria UE alla concorrenza Margrethe Vestager,
hanno raggiunto un accordo sulla gestione dei non performing loans (NPL).
La cessione dei crediti difficilmente esigibili dalle banche
agli investitori, attraverso il meccanismo della cartolarizzazione, potrà godere da questo momento in poi della GACS
(Garanzia Cartolarizzazione Sofferenze), una garanzia pubblica che garantirà il rimborso delle tranche senior, cioè
quelle più sicure, dei titoli cartolarizzati con sottostanti gli
NPL. Il sostegno statale funzionerà come un CDS (Credit Default Swap) ed essendo prezzato al “costo di mercato” non
costituirà una forma di aiuto statale.
Evitando di ricorrere a complicate spiegazioni sui non performing loans, cartolarizzazioni e CDS, proveremo a comprendere i meccanismi ed i motivi che hanno portato a
questa riforma. Il problema degli NPL: Un prestito viene
classificato con la dicitura “non performing” se il soggetto
verso il quale il credito è stato concesso, è in stato di insolvenza almeno da 90 giorni. Negli ultimi anni in Italia la
quota di questi crediti ha toccato livelli consistenti. Per dare
un’idea si è stimata una cifra pari a 350 miliardi di euro, pari
al 21% del PIL. Di fronte a un debitore insolvente la banca
ha principalmente due soluzioni: avviare la lunga e dispendiosa procedura di recupero del credito o cercare di trasferire lo stesso ad una parte terza. La creazione di una bad
bank alla quale cedere le posizioni deteriorate, proposta
dalla riforma, mira a quest’ultimo obiettivo. Per l’istituto di
credito, un’esposizione in sofferenza si traduce, infatti, non
soltanto in un costo in termini di svalutazione, ma anche in
termini di assorbimento di capitale, date le stringenti regole dettate dal Comitato di Basilea sulla Vigilanza Bancaria;
ad attività più rischiose infatti è associato un maggiore ammontare di capitale da detenere. In breve questo fenomeno
rende le banche meno propense alla concessione di nuovi
prestiti, bloccando il flusso di finanziamenti all’economia
reale. Questo è il motivo per cui si rende ora necessaria
una riforma. I recenti stimoli all’economia provenienti dalla
Banca Centrale Europea passano attraverso il meccanismo
dei prestiti. Lo stesso Quantitative Easing non può essere
completamente efficace se le banche non incrementano la
quantità di prestiti erogati.
Per accelerare la ripresa, gli NPL dovrebbero essere annullati, nel caso di prestiti non più recuperabili, o ristrutturati
per dare ai debitori ancora attivi la possibilità di riprendere
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ad investire.
La riforma ed il rischio di fallimento: In questo contesto la
riforma si prefigge un principale obiettivo: smuovere la domanda di titoli che hanno come sottostante gli NPL. Questo
intervento si aggiunge alle numerose misure approvate in
questi mesi per contribuire al rafforzamento in atto del settore bancario (trasformazione delle maggiori banche popolari in società per azioni, riforma delle fondazioni bancarie,
semplificazione delle procedure di recupero crediti e delle
procedure di insolvenza per ridurre i tempi, riforma delle
banche di credito cooperativo). L’idea di un sistema bancario più forte, la creazione di società ad-hoc che gestiscano
più efficacemente l’enorme ammontare di crediti deteriorati ed una garanzia pubblica che garantisca il rimborso degli
ABS (Asset Backed Securities) potrebbero rappresentare la
chiave di volta nella ripresa economica che il nostro Paese
sta cercando di avviare. Le cartolarizzazioni tuttavia restano
un vecchio conoscente degli investitori, i quali sono tuttora
scettici dopo lo scandalo dei mutui subprime. Una garanzia
statale che protegga solo le tranche più sicure, potrebbe
non essere abbastanza per riottenere la fiducia degli investitori sempre più attenti non soltanto alle alte performance, ma anche alla rischiosità dei loro portafogli.
A cura di Antonio Ricco
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BLOOMBERG
Petrolio: OPEC vs U.S. Shale industry
A più di un anno dalla decisione dell’OPEC (Organization of
the Petroleum Exporting Countries) di mantenere invariato il
livello di produzione, il prezzo del greggio ha registrato un
crollo del 70% rispetto al picco avutosi nel 2014: passando
da circa 100$ al barile fino ai 26.25$ di febbraio 2016 (minimo da 12 anni).
La strategia attuata dai dodici Paesi del cartello dell’oro
nero – ed all’interno di esso in particolare dall’Arabia Saudita - perseguiva l’obiettivo di mettere in crisi i competitors
con elevati costi di produzione, spingendo il prezzo verso
un livello per loro insostenibile attraverso politiche dal lato
dell’offerta.
Bersaglio di tale strategia era specialmente l’industria energetica americana dello shale oil (petrolio non convenzionale prodotto dai frammenti di rocce di scisto bituminoso),
la quale, grazie ad innovative tecniche di estrazione, tra
il 2010 ed il 2014 aveva sperimentato una crescita senza
precedenti che avrebbe portato gli Stati Uniti a diventare i
principali produttori di petrolio insieme ad Arabia Saudita
e Russia.
Ad oggi il piano dell’OPEC sembra aver sortito i primi effetti
giacché lo shale oil, dopo aver retto a lungo il confronto, sta
iniziando a mostrare i primi segni di cedimento: la produzione Usa – seppur ancora elevata, a 9,1 milioni di barili al
giorno – è ai minimi da novembre 2014.
Solo nel 2015, 42 società statunitensi sono fallite ed anche
quelle di maggiori dimensioni, pur restando in attività, hanno dovuto ridurre considerevolmente il livello di produzione, il numero dei dipendenti e gli investimenti. Di conseguenza il numero di impianti di perforazione per il petrolio
è stato più che dimezzato nel corso dell’ultimo anno: attestandosi a 392 rispetto ai 922 registrati nel marzo 2015.
E’ tuttavia importante tenere presente che, con il prezzo
del petrolio crollato al di sotto dei 40$ al barile, ad essere
in difficoltà non è solo l’industria petrolifera americana ma
anche alcuni Paesi membri dell’OPEC più piccoli dell’Arabia
Saudita, le cui economie, fortemente oil-based, si trovano
ora ad affrontare momenti di crisi e recessione. E’ il caso ad
esempio del Venezuela, della Nigeria e dell’Angola.
Discorso in parte analogo può essere fatto per la Russia che
attraversa una situazione economica sfavorevole sia a causa del basso prezzo del greggio, sia per via delle sanzioni
impostegli dalla comunità internazionale in seguito alle vicende della “questione ucraina”.
Per questi motivi, i Paesi sopracitati hanno esercitato crescenti pressioni nei confronti dei Sauditi affinché si comin-
ciasse a considerare seriamente di invertire la rotta rispetto
alle politiche precedentemente adottate.
A tal proposito il 16 febbraio durante un vertice a Doha
l’Arabia Saudita e la Russia, insieme al Qatar e il Venezuela,
hanno raggiunto un accordo preliminare per congelare la
produzione di petrolio nel corso del 2016 ai valori di gennaio.
É inoltre previsto per la seconda metà di aprile un incontro
tra i membri dell’OPEC ed altri Paesi produttori - tra i quali
non vi saranno gli Stati Uniti - in cui si dovrà decidere se
finalizzare quanto discusso a Doha. Affinché l’accordo vada
a buon fine è però necessario che tutti i partecipanti convergano sulla stessa posizione, e ciò, non è affatto scontato.
Infatti l’Iran, determinato a riconquistare le quote di mercato perse a causa delle sanzioni (rimosse solamente a partire
dallo scorso gennaio), non ha la minima intenzione di accettare un eventuale congelamento della produzione.
In ogni caso, qualora si giungesse ad un’intesa soddisfacente tra tutti gli interessi in gioco, sarebbe ancora più evidente
il delinearsi di due schieramenti contrapposti: Paesi partecipanti all’accordo da una parte, Stati Uniti dall’altra. Questi
ultimi, che sognavano di diventare autonomi energicamente entro il 2020 ed aumentare al contempo le esportazioni,
dovranno necessariamente rivedere le loro aspettative.
Fonte: Bloomberg
A cura di Fabio Cosmi e Luca Laureti
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ECONOMICS
Tassi di interesse negativi: stiamo assistendo al ribaltamento
delle regole dell’economia per salvare l’economia?
I tassi negativi sono frutto di una politica economica inconsueta, intrapresa dalla Banca Centrale per correggere le distorsioni del mercato.
L’idea alla base della manovra della BCE è questa: non garantire alle banche commerciali alcun rendimento per i loro
depositi, ma obbligarle per essi al pagamento di un corrispettivo, rappresentato dal tasso di interesse negativo, che
le disincentivi a depositare capitale e le spinga ad investirlo,
aumentando i prestiti.
Quella che era solo una mera ipotesi teorica, che gli accademici proponevano a lezione come caso estremo - ridacchiandoci su - è già divenuta realtà e si sta diffondendo in
sempre più aree geografiche. Siamo entrati nell’era dei tassi
negativi: quel famigerato strumento da utilizzare per “congelare” la deflazione.
Osserviamo le condizioni attuali dell’economia della c.d.
Eurolandia: molti mercati sono saturi, in seguito alla crisi
finanziaria del 2007 le banche sono restie a concedere prestiti e finanziamenti e siamo da qualche anno in deflazione.
Scenari del genere sono solo apparentemente ‘’postivi’’:
nella realtà danneggiano l’economia, perché un consumatore con aspettative deflazionistiche tenderà a rinviare le
spese. Vengono coinvolti tutti i mercati, ed è come se tutto
ciò che ha un valore economico venisse attratto irrimediabilmente in un buco nero con orbita via via sempre minore
e l’aumento della produzione non fa altro che incrementare la forza di gravità di questo buco nero: in economia
viene detta “spirale deflazionistica”. Un modo per arrestare
questa trappola è l’emissione di moneta per generare un
proporzionale aumento dei prezzi e le sigle QE1, QE2 e
QE3 dovrebbero ricordarci che qualche tentativo in quella direzione è stato fatto. In sintesi, io consumatore smetto
di risparmiare perché non mi conviene depositare i miei
risparmi in banca e sopportare il costo del tasso; smetto
di consumare perché conviene aspettare che il prezzo dei
beni scenda e la “previsione” si avveri, deprimendo il sistema economico e innescando la spirale deflazionistica. Di
conseguenza, i produttori registrano il calo di vendite e, per
cercare di rimediare, abbassano ulteriormente il prezzo, inducendo però i consumatori ad aspettare ancora e ancora
e vedendosi, dopo i primi crolli in termini di vendite e fatturato, costretti a licenziare.
Con i tassi di interesse negativi si è cercato perciò di frenare
questa brusca “accelerazione svalutativa”: disincentivare il
risparmio per incrementare il consumo e riavviare l’economia. Purtroppo, secondo quanto stimato dalla JP Morgan:
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“Nell’eurozona ci sono più di €1.5 trilioni di debito che danno
rendimento negativo. Non solo i governi ora chiedono denaro
in prestito ma, pure, che i prestatori si accollino una perdita. E
col trend in atto si prevede che il club dei paesi a tasso negativo si allargherà.”
Ed è sempre per questo motivo che viene previsto un calo
dei tassi fino al -4,5/-4,64% per restare a galla in questa
“guerra valutaria”.
Una cosa è certa, il tasso negativo è una tassa sulle banche,
che le banche tenteranno di spostare sui propri clienti, ed è
quindi un’altra diminuzione di attività finanziarie a disposizione del settore privato.
A questo punto, qualche economista, più simpatico che realista, potrebbe tracciare un’equazione del genere:
r= i+d
(r= tasso di interesse - i= investimento - d= deflazione attesa)
Data quest’equazione, se le previsioni di deflazione fanno
in modo di auto-avverarsi, portando la deflazione a crescere più velocemente del tasso di interesse nominale negativo, si potrebbe addirittura concludere che sia possibile
guadagnare qualcosa in termini di rendimento reale.
I tassi negativi tentano di frenare questa cascata perversa
“accalappiando” tutti i valori in discesa e cercando di far da
freno a questa svalutazione diffusa, ma se le previsioni non
sono corrette potrebbero addirittura fungere da acceleratore deflattivo.
A cura di Emanuele Galletta
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ECONOMICS
Giappone: crescita e Abenomics
Pensando al panorama socio-economico del Giappone
negli ultimi anni è inevitabile far riferimento al fenomeno
dell’Abenomics, strategia utilizzata dal primo ministro Shinzo Abe per ridare slancio all’economia locale.
La domanda che sorge spontanea è: questo meccanismo
funziona? Per rispondere a tale quesito è necessario fare un
passo indietro.
Nella primavera del 2013, allo scopo di sollevare il Giappone dalla ultradecennale depressione economica, il primo
ministro nipponico Shinzo Abe pone in essere una serie di
iniziative macroeconomiche. Il nuovo approccio, dai media
definito “Abenomics”, ha segnato una rottura culturale con
il passato e una vera e propria rivoluzione nel campo della politica economica, rispetto a quella attuata negli ultimi
anni. Il governo, insieme alla banca del Giappone, mira a
risolvere i problemi strutturali del paese: la deflazione e lo
scarso tasso di crescita.
Questo modello ruota essenzialmente intorno a tre punti
cardine: alla base, una politica fiscale espansiva che mira a
stimolare la crescita attraverso l’aumento della spesa pubblica; segue una politica monetaria espansiva con tassi di
interesse tenuti artificialmente bassi (QE: quantitative easing); infine, un programma di riforme strutturali che permetta maggiore concorrenza, innalzamento del tasso di
popolazione attiva e aumento degli investimenti nel settore privato.
La suddetta politica monetaria si basa sulla creazione di
un inflation targeting al 2% per la Banca del Giappone, allo
scopo di combattere la deflazione del paese e prevede
l’immissione di miliardi di dollari aggiuntivi per uscire dalla
trappola di liquidità in cui il Giappone è sprofondato negli
anni ’90. Per quanto riguarda il piano fiscale, il Governo ha
promosso un pacchetto di stimoli di circa 10,3 trilioni di yen
(90 miliardi di euro). Tra gli obiettivi principali di questo incentivo fiscale ci sono: la promozione di ricerca, lo sviluppo
tecnologico, gli investimenti privati, l’espansione del welfare delle famiglie; una parte di queste risorse è utilizzata
per la creazione di nuove infrastrutture in un piano di opere
pubbliche. Inoltre, tale espansione fiscale viene bilanciata
solo in parte dall’aumento sulla tassa dei consumi.
I risultati nel breve periodo sono stati subito evidenti; basti
pensare alla disoccupazione scesa al 4,1%, alla spesa delle famiglie aumentata del 5,2%, alla Borsa di Tokyo che ha
guadagnato persino il 50%. Inoltre, l’espansione monetaria ha comportato una sostanziale svalutazione dello yen
al punto da favorire le esportazioni giapponesi e offrire un
ulteriore incentivo per l’economia reale. Va precisato che
l’Abenomics non è stato esente da critiche.
Ne costituiscono un esempio, da un lato, gli scetticismi
emersi sulle possibilità di implementare le riforme strutturali di lungo periodo e, dall’altro, le critiche tedesche, che si
oppongono alle teorie neokeynesiane riguardanti la stampa di denaro e le politiche fiscali pro crescita, anche a costo di aumentare il debito. La critica più quotata è mossa
sulla base dello scarso impatto sociale e il mancato rilancio
dell’economia reale. Effettivamente, anche con l’Abenomics
non sono mancati i tempi bui. Infatti, quando nel secondo
trimestre del 2014 il Giappone decide di affidare il compito
di sostenere la ripresa alla sola politica monetaria, il Pil si
riduce più del previsto e nel terzo trimestre il Paese si riscopre addirittura in recessione (Pil -0,4%); questo poiché
la sola politica monetaria espansiva, per quanto aggressiva,
non si è dimostrata sufficiente nel gestire la ripresa dell’economia nipponica.
Nonostante tutto, i politici che hanno deciso di applicare in
questa fase di crisi le teorie (reinterpretate in chiave moderna) dell’economista John Maynard Keynes hanno vinto di
nuovo le elezioni (basti pensare a Obama negli Stati Uniti e
ad Abe in Giappone), mentre i fautori europei dell’austerity
non sempre sono riusciti a raggiungere il risultato elettorale sperato. Appare chiaro che i teorici dell’Abenomics sono
stati in grado di mettere in discussione non soltanto il conservatorismo fiscale e monetario ma anche il paradigma di
austerità diffuso in Europa negli ultimi anni. Proponendo
un’alternativa radicale per tornare alla crescita ed allontanare la minaccia del declino di lungo periodo, sono stati
premiati sia dai dati economici che dai propri elettori.
A cura di Ludovica Mancioppi e Ilaria Vergassola
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CARRERS&JOBS
La carriera di Edoardo Palmisani: la mia consulenza a voi studenti
1. Inizierei chiedendole di introdursi brevemente ai nostri lettori. Chi è Edoardo Palmisani?
Edoardo Palmisani è un laureato Luiss cittadino del mondo,
innamorato dell’Italia e di Roma. Mi sono laureato nel 2006
in Luiss con il prof. Monti in Finanza Aziendale e da lì ho
incominciato a girare tantissimo. Ho lavorato a Londra in
Lehman Brothers per due anni e mezzo e successivamente
sono entrato in BCG. All’inizio ero un po’ scettico, perché ero
uno di quei ragazzi molto appassionati di finanza ma per i
2 anni successivi ho lavorato a Milano a progetti interessanti entrando in contatto con senior management nel settore
bancario e assicurativo. Come molte società di consulenza
che offrono la possibilità di un MBA in un’università estera,
decisi di andare a Chicago. Rientro in BCG Italia nel 2012.
Ormai sono passati 4 anni, sono principal e mi occupo principalmente di assicurazioni, banche e Asset Management.
2. Quali sono i ricordi associati al suo percorso di studi in
LUISS? E come confronta il periodo di studio in Italia con
le sue esperienze di studio internazionali?
Ho un bellissimo ricordo della Luiss sia per tutte le esperienze didattiche, sia per i professori che ho incontrato. Ho
partecipato al programma Erasmus durante il mio secondo
anno; in generale posso dire che non è tanto la meta, ma
l’esperienza in sé che conta. Da quello che ho potuto notare, la differenza tra la Luiss e le altre università è che nelle
ultime c’è una maggiore “cultura” da parte degli studenti al
prepararsi al mondo lavorativo. Il laureato Luiss è un po’ da
“ma io studio, poi sarà il mercato del lavoro che mi prende”.
3. Lei è socio fondatore dell’associazione no-profit ActingForward e anche uno dei mentor di Mentors4U. Entrambe hanno come target i giovani: quali consigli utili darebbe agli studenti Luiss?
ActingForward è un associazione fondata insieme ad altri
due ragazzi del mio corso di laurea allo scopo di creare una
rete di giovani e motivati professionisti, scambiare idee ed
esperienze sui principali temi di business e promuovere
giovani talenti nel campo imprenditoriale ed universitario.
Abbiamo iniziato in banche d’affari per poi rientrare in Italia,
anche se con percorsi e timing differenti. Il problema di fondo è che c’è un eccessivo gap tra la fine degli studi e l’inizio
nel mondo lavorativo. Proviamo perciò ad aiutare i ragazzi
8
volenterosi ad entrare nel mondo del lavoro fornendo loro
innanzitutto la possibilità di imparare il suo funzionamento e la preparazione necessaria In Mentors4U, invece, sono
stato coinvolto da due amici che l’hanno fondata, Stefania e
Dimistris, entrambi laureati Harvard; è un’associazione che
affida a ciascun mentor un laureando per poi seguirlo successivamente.
Un consiglio che potrei dare è sicuramente quello di sfruttare anche il “canale” dei professori; ovviamente, poi tocca a
voi essere più pro-attivi!
4. Lei è stato prima analyst e poi associate presso gli uffici di Londra della Lehman Brothers: ci può raccontare che
aria si respirava poco prima del fallimento? Con il senno
di poi, l’avrebbe lasciata fallire?
Lehman era piena di persone in gamba e il motivo per cui
è fallita è ormai di dominio pubblico. Tuttavia, il punto fondamentale è il fatto che sia stata lasciata fallire. Ad esempio,
mi ricordo il giorno in cui Lehman è fallita: andai a fare una
chiacchierata con un senior di Morgan Stanley e lui era certo
che presto sarebbe capitato lo stesso anche altre banche
d’affari per la stessa crisi di liquidità che aveva investito la
Lehman. Sicuramente non è stata una decisione facile e soprattutto non si pensava che quel fallimento potesse mandare un messaggio cosi forte e netto ai mercati. L’impatto,
in ogni caso, è stato sentito soprattutto dal middle-management, poiché era difficile trovare una posizione simile
in un’altra banca. Questo mi ha lasciato un insegnamento
anche per le esperienze future: è importante essere su una
traiettoria solida quando sei nel mezzo tra junior e senior.
Qualsiasi esperienza si faccia nella propria carriera è importante trascorrere il periodo di anni giusto per acquisire la
“valigetta degli attrezzi” e avere la propria value proposition
sul mercato. Tuttavia, se ti fermi nel mezzo sarai sicuramente penalizzato.
5. Differenze tra investment banking e consulenza. Chi ha
lavorato in banca è in qualche modo facilitato nelle società di consulenza?
It works both ways: se sei nella fascia junior ed hai iniziato
a lavorare in una società di consulenza prestigiosa e vuoi
cambiare per una banca è molto facile, come anche il contrario. Questo semplicemente perché il datore di lavoro fu-
CARRERS&JOBS
turo sa che è stato già fatto uno screening e che la risorsa ha
lavorato 6 mesi con un metodo di lavoro molto ferreo e per
questo sei attrattivo per entrambi.
Tuttavia penso che prima andrebbe fatta l’esperienza in
consulenza e poi in banca d’affari perché penso che la consulenza dia una visione d’insieme, mentre invece se si lavora prima in banca, che è molto di nicchia, si rischia che
come processo di istruzione sia difficile espandersi e si rimanga un po’ troppo focalizzati solo su una specifica area
di expertise.
6. BCG è nota soprattutto per la sua matrice sul ciclo di
vita di prodotti e imprese e recentemente si è classificata
#3 nel rank di Fortune per le 100 migliori società in cui lavorare. Cos’ è che effettivamente distingue BCG dalle altre
società di consulenza strategica e che la rende migliore?
BCG è nel novero di poche società che fanno consulenza
strategica. Ciò che la differenzia all’interno di quel subset è
il momentum aziendale. BCG è entrata in Italia dopo le altre
e ha seguito un percorso di forte crescita. Da dipendente,
quando si entra in una società che cresce molto, ci sono
più opportunità di carriera perché la struttura è più leggera
e si lavora in maniera meno gerarchica. Ovviamente, l’asset più importante di BGC sono le persone e i loro talenti.
Questo vuol dire che il business model e processi decisionali
sono fatti per valorizzare e far crescere questo asset. Un’altra cosa importante è la mobility. Ricordo che in Lehman,
ma in qualsiasi banca d’affari, era molto complesso mentre
qui è facilissimo, basta chiederlo. E’ una società fortemente
meritocratica e stiamo molto attenti alla work-life balance
dei nostri dipendenti: devono imparare di più ogni giorno
e sentirsi apprezzati, ma vogliono anche avere una vita che
sia sostenibile.
molto inferiore. Per quanto riguardo il trend di NPL troverete che in Europa c’è un trend esponenziale mentre in America già da tempo il trend sta tornando a livelli di normalità.
Mettendo insieme questi 2 dati si capisce che in Italia fare il
mestiere del banchiere è difficile: da una parte devi gestire
questi crediti deteriorati, dall’altra bisogna finanziare le imprese in maniera sostenibile e profittevole. Ormai abbiamo
raggiunto l’inflection point sulla parte di crediti deteriorati
e questo però rimane il burden dello stock esistente, bloccando sia l’attività bancaria che quella del paese.
Un altro grosso trend è quello della digitalizzazione che
sta levando valore al concetto di prossimità verso il cliente. Prima il punto di forza della rete bancaria erano le filiali
mentre adesso dovranno trovare un modo di razionalizzare la rete dall’interno, in modo da renderla più efficiente e
mettendola di più “a reddito”.
8. M&A: Quali sono i prospetti sull’attività di M&A in Italia
nel 2016?
Ha poco senso parlare di M&A solo in Italia, ormai siamo in
un mercato Europeo. Quello che vediamo sono società in
cui la liquidità non è un problema, ma non viene investita a
causa dell’incertezza in termini di ripresa economica o framework legislativo. Quanto più quest’incertezza si riduce
tanto più gli imprenditori torneranno a fare investimenti. In
generale siamo abbastanza positivi su una ripresa del M&A
legata al miglioramento delle condizioni economiche.
A cura di Giulia Balestra
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7. Lei si occupa di progetti che riguardano le principali realtà assicurative e bancarie, potrebbe darci il suo parere
riguardo il panorama bancario italiano e della sua solidità, anche in luce dei recenti scandali?
Ci sono due cose che vi invito a guardare: la percentuale
di non-performing loans delle banche sui loro total assets in
Europa e USA e quella di finanziamento delle PMI attraverso il canale bancario che in Italia è pari al 70-90%, mentre
in America America e negli altri paese più sviluppati è di
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INSIDERS
L’Italia e le startup: concretezza e lungimiranza
A chi non è mai capitato di avere un’idea e di non sapere
come fare per realizzarla?
In Italia gli acceleratori e gli incubatori sostengono gli sforzi
iniziali e accompagnano nella loro crescita le startup emergenti, fornendo loro gli strumenti utili a sviluppare un business efficace. Tuttavia, quando si tratta di investire nell’avviamento della propria impresa, è fondamentale procurarsi
i finanziamenti adeguati. Proprio di questo si occupa un ex
studente LUISS, che da un paio d’anni lavora per il Fondo
di Garanzia per le piccole e medie imprese italiane, e che
quotidianamente si confronta con le esigenze di startup nascenti che necessitano di finanziamenti.
“È grazie all’esistenza del Fondo se la maggior parte delle
piccole e medie imprese e delle startup riesce ad ottenere
un prestito da parte della banca”, spiega, “Il Fondo di Garanzia è un intervento pubblico di garanzia, gestito dalla Banca del Mezzogiorno Mediocredito Centrale per conto del
Ministero dello Sviluppo Economico. Ormai le banche, per
concedere prestiti, richiedono grosse garanzie, personali e
reali, di cui gli imprenditori spesso non possono disporre.
Perciò le banche stesse si rivolgono al Fondo di Garanzia
che, tramite un sistema del Ministero, permette loro di richiedere la garanzia dell’80% del finanziamento.”
Per piccola media impresa si intende ogni impresa che non
superi la soglia dei cinquanta milioni di euro di fatturato e
che abbia un massimo di duecentocinquanta dipendenti.
Per startup, invece, si intendono le imprese attive da non
più di tre anni.
A differenza di quanto si possa pensare, i tempi di attesa per
l’erogazione da parte della banca sono relativamente brevi:
“Il Fondo valuta dei bilanci previsionali e un business plan
di quattordici punti e, nel giro di due settimane, delibera.
Il giorno successivo la banca può erogare il finanziamento.
Le startup sono quelle che beneficiano maggiormente della garanzia del fondo in quanto nella maggioranza dei casi
non hanno bilanci alle spalle né tantomeno garanzie da poter prestare e pertanto, senza il Fondo, molto difficilmente
accederebbero al credito.”
Inoltre, il Fondo garantisce i finanziamenti delle banche
gratuitamente: “È richiesta una piccola commissione solo
da parte del Ministero, in quanto gestore del Fondo, e dalla
banca. L’unico vincolo posto alle imprese, invece, è del 25%
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di mezzi propri sul finanziamento, cioè il 25% di capitale sociale deve essere costituito da mezzi propri.”
Un’ulteriore facilitazione è concessa alle startup femminili,
per le quali ottenere il finanziamento è ancora più semplice in quanto “non devono recarsi personalmente in banca
coi dati da inviare al Fondo per ottenere la delibera, ma è
sufficiente che contattino Banca Mediocredito Centrale,
comunichino di voler prenotare la garanzia e inviino i bilanci previsionali e il business plan. Dopo aver ottenuto la
garanzia, vengono concesse loro due settimane per recarsi
in banca a comunicare l’avvenuta delibera.” Una volta che la
banca abbia ottenuto la conferma della garanzia da parte
del Fondo l’iter si è concluso.
Prima di richiedere l’erogazione del finanziamento, è essenziale avere le idee chiare sul mercato in cui ci si vuole
inserire, valutare i competitors con cui ci si va a scontrare
e la strategia che si vuole attuare. Per avere successo nel
campo delle startup “non necessariamente si deve avere
un’idea innovativa. Non esiste un settore specifico in cui ci
sia guadagno sicuro, ci sono invece particolari situazioni.
Nel settore del green, ad esempio, i rischi sono altissimi ma
il margine di profitto è enorme. Se l’intenzione è di avere un
guadagno inferiore ma sicuro, in Italia il campo in cui non si
sbaglia quasi mai è quello del food” afferma. E, a chi intende investire nel settore delle app, risponde: “Il settore app è,
a mio avviso, saturo. Sono ormai quattro o cinque anni che
è pieno. A meno che non si riesca a vendere l’app al colosso
di turno, questa non darà guadagni e, infatti, anche le banche credono poco nel loro investimento.”
Si parla poco dei sistemi per ottenere finanziamenti in Italia, ma gli strumenti per realizzare le proprie idee ci sono. Il
consiglio che lascia ai giovani startupper è quello di credere
nelle proprie idee essendo concreti e realisti, di confrontarsi
con la realtà, valutando settore, barriere all’entrata e prezzo: “Si può avviare un’attività già esistente, l’importante è
sapersi differenziare e caratterizzare per qualcosa di particolare e lungimirante.”
A cura di Francesca Sossella
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INSIDERS
La consulenza finanziaria...questa sconosciuta
Svolgo l’attività di promotore finanziario da 25 anni (la legge del 28 dicembre 2015 n. 208 -Legge di stabilità - ha previsto l’istituzione dell’albo unico dei consulenti finanziari
e torneremo a chiamarci “consulenti finanziari”) e compio
50 anni ad aprile (grazie per gli auguri!). Ho passato quindi
metà della vita affiancando i miei clienti nella loro pianificazione finanziaria, previdenziale, successoria. I consulenti/promotori finanziari hanno in gestione circa
il 7% della ricchezza mobiliare degli italiani il che significa
che il 93% è nella banca sotto casa, alla Posta o in polizze
assicurative tramite il canale assicurativo. Il che non è certo
di per se un dato negativo, ciò che non va nel nostro splendido Paese è il livello di consapevolezza con cui vengono
scelti i prodotti finanziari.
“Se pensate che formazione ed istruzione costino troppo
care, provate a vedere quanto può costare l’ignoranza” o
come disse Benjamin Franklin “Investire nel campo della
conoscenza paga i migliori interessi” e quindi complimenti
a Voi che state investendo in Conoscenza.
Ma le statistiche parlano chiaro: il livello di alfabetizzazione
finanziaria degli italiani è di poco superiore a greci e tunisini. E’ molto semplice ciò che andrebbe fatto in Italia (come
in Grecia e Tunisia) inserire nel programma delle scuole secondarie di secondo grado (scuola superiore) delle ore di
formazione in economia e finanza (io reinserirei anche un
po’ di educazione civica). Negli USA ad esempio si comincia a parlare di economia e finanza nelle high school (14-15
anni). La domanda sorge spontanea: è forse meglio avere
un popolo ignorante per potergli “vendere” ciò che vogliamo? E’ questo che fa la differenza tra un suddito ed un cittadino sia in politica che in finanza: l’istruzione. Se non dedico
del tempo a conoscere come posso deliberare consapevolmente?
Tornando quindi al ruolo sociale del promotore/consulente
finanziario, in attesa di modifiche ai programmi scolastici,
c’è anche il compito di aumentare l’alfabetizzazione finanziaria dei propri clienti. So di parlare ad un pubblico culturalmente superiore alla media e mi perdonerete se dirò
ovvietà ma a volte ciò che è ovvio è anche giusto.
Ecco tre regole base per investire bene: diversificare, comprare in basso e vendere in alto. Vi avevo avvertito, vi dirò
ovvietà. Purtroppo spesso i risparmiatori italiani fanno il
contrario. A fine anno scorso, ad esempio, 140.000 risparmiatori hanno perso 430 milioni di euro per non aver diversificato comprando azioni ed obbligazioni subordinate
della “banca sotto casa” (l’obbligazione subordinata non è
il male, semplicemente è l’ultima ad essere rimborsata in
caso di fallimento, se il liquidatore trova i soldi necessari. A
fronte di un maggior rischio ha un rendimento superiore).
Purtroppo in questo caso la “banca sotto casa” aveva un rating talmente basso che gli investitori istituzionali avevano
smesso di comprare questi junk bond (letteralmente obbligazioni spazzatura) e la soluzione è stata venderle allo sportello. Se il risparmiatore avesse comprato presso la stessa
banca un fondo obbligazionario qualsiasi non avrebbe perso il capitale investito (magari con i tassi attuali non avrebbe neanche guadagnato, ma questa è un’altra storia…) Per quanto riguarda l’ovvietà n° 2 e 3, comprare in basso e
vendere in alto, a volte capita che qualcuno compri un titolo azionario sull’onda dell’entusiasmo della salita del prezzo
e, quando il prezzo cala si mette paura e vende realizzando una perdita in conto capitale. Avete fatto caso a come
i mass media annunciano i cali di borsa? “Bruciati migliaia
di miliardi!”, “venerdì nero”, “panico in borsa”. Ricordiamoci
che se io vendo c’è qualcuno che compra: forse a qualcuno
fa comodo che il “parco buoi” si metta paura e corra a vendere? Chi lo sa.
Alberto Foà, fondatore di Anima Sgr, in una riunione di tanti anni fa in cui ero presente (andate su YouTube e cercate
“Foà: con il fondo premiato come migliore il 50% ha perso
soldi”) fece vedere un grafico di uno dei migliori fondi azionari internazionali dell’epoca in rapporto al numero di clienti con guadagni o perdite. Proprio a causa dell’abitudine di
comprare dopo i rialzi e vendere durante i ribassi (quelli
bravi li chiamano drawdown) con un fondo che aveva reso
l’11% all’anno di media negli ultimi 10 anni il 50% dei clienti
aveva perso dei soldi! Forse non è così ovvio comprare in
basso e vendere in alto. Forse serve un bravo professionista
soprattutto quando fuori imperversa la tempesta? Ringraziando per l’attenzione vi saluto e vi do appuntamento alla
prossima puntata.
A cura di Guido Valenza
Cell. 335 66 09 685
Mail [email protected]
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INSIDERS
Social-media Marketing: una nuova prospettiva Italiana
“Cosa vuoi fare da grande?” una domanda che perseguita
chiunque sin da quando si ha la capacità di parlare. C’è chi
risponde il pompiere, chi il poliziotto o magari la maestra;
per poi cambiare idea ogni 6 mesi circa. Gian Luca Comandini, classe ‘90, parte dalla maturità classica, per poi laurearsi in economia e management e infine approdare nel
campo del social-media marketing. Il “magnete” di questo
settore è per lui la psicologia, ciò che infatti lo entusiasma
è entrare nella mente delle persone, comprendere le loro
esigenze e magari soddisfarle. Tutto ha inizio nel 2012 con
la pagina Facebook “I pronostici del Mister”, con circa 250
mila like. I ricavi ottenuti sono stati poi reinvestiti per fondare nel 2013 “You&web”, una delle prime società italiane ad
applicare teorie di psicologia di massa ai social network con
finalità commerciali. Comandini parla infatti di “Narrowmarketing” proprio per distaccarsi dalle vecchie classi dirigenti,
legate all’idea di broadcast. Il protagonista è oggi il target.
Ad esempio se parlassimo di una multinazionale che vende
pizza senza lievito, il percorso in broadcast prevederebbe
che si spenda il budget per inserire il prodotto su tutti i canali: cartelloni, tv e magari sui social. Il Narrowmarketing,
invece, prevede che si utilizzi ogni singola variabile del prodotto per aggredire il mercato. Ad esempio catturando l’attenzione solo di utenti che consumano pomodori, o made
in Italy, o con intolleranze. Per cui il budget non sarà sperperato perché chiunque venga a conoscenza del messaggio pubblicitario sarà un consumatore con atto potenziale
di conversione, ovvero un potenziale acquirente. Comandini è un esperto nel settore del marketing digitale,ad oggi
il meno costoso e il più efficace. Ma non si lascia sfuggire
versioni “analogiche” come il neuro-marketing (che fonde
sinergicamente marketing, neurologia e psicologia, con
l’intento di creare canali di comunicazione diretti ai processi decisionali dell’acquisto) o il Guerrilla-marketing (una
tipologia di promozione pubblicitaria che fa leva sull’immaginario e su meccanismi psicologici, diffusissima in America
e da poco arrivata in Italia grazie a Massimo Nese e l’Università di Cassino). Entrambe le prospettive hanno dunque
obiettivi comuni, come: la persuasione e l’informazione,
nonché, di base, la vendita del prodotto. Ma non sempre
la pubblicità va fatta, “Ci sono stati casi in cui aziende con
un grosso fatturato mi chiedevano di occultare un determi-
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nato messaggio e di vendere un prodotto con componenti
negative. Questo è ingannare. La pubblicità nel complesso non è sempre onesta, ma attenzione, ha dei limiti etici
ben precisi, ovvero eventuali danni al consumatore. Capita
spesso, infatti, di rifiutare clienti importanti.”
Etica ed innovazione sono quindi i valori guida di You&web,
il cui straordinario successo è però, merito soprattutto dei
social. Infatti un sito web può ormai essere sostituito in toto
da un account social. In Russa avviene tramite “Vkontakte”,
e ad oggi l’azienda di Comandini è una delle poche a sviluppare strategie di marketing proprio tramite un social
network russo. In Europa ed America invece, l’invenzione
di Zuckerberg ha avuto ottimi risultati, questo perché “è
stato il primo a capire che il nuovo oro, il nuovo petrolio,
era l’oro nero dei dati”. Infatti Facebook non ha concorrenza
nel settore del social-marketing, tanto che l’India è ormai
l’ultimo baluardo ancora immune al suo potere, sottolinea
Comandini. L’azienda ha infine raggiunto anche il mondo
televisivo, la prima scommessa vinta è stata incrementare
lo share di una trasmissione storica come “Ballando con le
stelle”. Attraverso Facebook, Twitter e 2 webstar, la trasmissione ha abbassato l’età media dei telespettatori, includendo gli under 20. La nuova sfida è “Ciao Darwin” la cui
difficoltà è proprio il pubblico troppo vasto da accontentare. Il programma infatti gioca proprio sugli opposti sociali.
You&web è quindi uno stimolo alla novità, perché l’Italia ha
ancora risorse. Per cui provate ad aprire una pagina, pubblicizzando qualsiasi cosa. Aggredite il mercato con la vostra
immaginazione e le vostre conoscenze.”Utilizzare il social è
solo un mezzo più veloce, la prospettiva del venditore è il
valore aggiunto.”
A cura di Mariangela Ranieri
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STORIES
Da studente LUISS a District Manager Abruzzo e Molise di Banca Generali: l’esperienza di Alessandro Di Tunno
L’articolo del giorno racconta di una persona che ha fatto della sua passione per gli investimenti e il mondo della finanza, una professione. Alessandro Di Tunno è un ex
studente Luiss che dopo esperienze di rilievo sia al NYSE
(New York Stock Exchange), sia in Consob, ha lavorato per
diversi anni a Milano come gestore sull’azionario europeo,
dapprima in Prime Gest e poi nell’SGR di Banca Generali, ottenendo vari riconoscimenti internazionali tra cui le 5 stelle
Morningstar.
Qualche anno fa, ha deciso di tornare nella sua terra d’origine, l’Abruzzo, per svolgere la professione di consulente
finanziario e da un anno, sempre per conto di Banca Generali, ricopre il ruolo di District Manager, coordinando i professionisti e l’attività della banca nel territorio abruzzese e
molisano. Come già accennato, Alessandro ha svolto il suo
percorso accademico in LUISS, laureandosi in Giurisprudenza. Partendo dagli studi, viene spontaneo chiedere se
questa preparazione sia stata sufficiente ad affrontare quelle che sono state le vicende lavorative vissute negli anni
e se consiglierebbe il suo stesso percorso di studi. La sua
risposta non è stata affatto scontata: “sì, i corsi universitari
mi hanno conferito una buona preparazione di base e un metodo di lavoro, ma l’esperienza sul campo e il continuo studio
sono stati e sono tuttora essenziali per affrontare ogni giorno
il mondo del lavoro” . Un aspetto molto interessante della
sua vita, è stato il suo primo approccio con il mondo della
finanza, nel posto ambito da molti giovani studenti universitari: Wall Street. Di quel periodo, trascorso al NYSE come
Assistant Floor Broker racconta: “Ogni volta che ripenso a
quell’esperienza mi viene un brivido: mi ero appena laureato e
sono stato catapultato nel cuore battente della finanza mondiale nel bel mezzo della bolla internet: tutto sembrava possibile e i guadagni potenziali in borsa sembravano non avere
limiti”. Lì a New York, ha cercato in tutti i modi di far tesoro di
quei momenti e degli insegnamenti che gli trasmettevano
tutte le persone con cui si relazionava, sapendo che quell’esperienza sarebbe stata unica ed irripetibile. Dopo il NYSE,
Alessandro è approdato in Consob dove si è occupato di
regolamenti attuativi del TUF in materia di distribuzione dei
fondi pensione in Italia. Successivamente ha iniziato a lavorare a Milano come gestore di fondi e SICAV sull’azionario
europeo. Gli abbiamo chiesto di riassumere i punti salienti
di quegli anni e come sia maturata la decisione di svolgere
l’attività di Consulente Finanziario per Banca Generali. La
sua risposta è stata: ‘’Il mio primo capo, nel descrivere il lavoro
di un gestore azionario, diceva sempre - sarai apprezzato per
la tua curiosità e per come riesci ad intuire le mosse vincenti
delle società-”.
Nel suo lavoro da gestore, incontrava regolarmente amministratori delegati e direttori finanziari per capire le strategie e i numeri delle società quotate; si confrontava con vari
analisti a alla fine, se le società in quel momento erano sottovalutate dal mercato, le inseriva in portafoglio, altrimenti
ne monitorava regolarmente il prezzo in borsa.
Le motivazioni alla base del cambiamento sono state molteplici. In primis c’era la voglia di mettersi ancora in gioco,
con nuove sfide, poi il desiderio di far crescere i propri figli
nella sua regione. Con il suo background, avrebbe potuto
mettere a disposizione della clientela e dei colleghi un’esperienza sul campo unica che li avrebbe aiutati nella gestione dei risparmi e nella pianificazione finanziaria.
Ancora oggi è diffusa la convinzione che il “posto fisso” sia
preferibile all’attività di libero professionista, e in questo
senso in tanti preferiscono puntare sull’impiego in banca
piuttosto che intraprendere l’attività di Consulente Finanziario. Sul punto Alessandro ha dato la sua opinione: “Occorre cominciare a pensare che il posto fisso potrebbe non
esistere più nel settore bancario, considerando che oggi in
Italia ci sono circa 65 sportelli bancari ogni 100.000 abitanti
contro una media europea di 30”. In effetti, è probabile che
tra qualche anno, anche grazie ad internet ed allo sviluppo della tecnologia dei pagamenti, una buona metà degli
sportelli bancari tradizionali potrebbe sparire e che quindi
i “posti fissi” si ridurranno di giorno in giorno. Qual è allora
un consiglio valido per tutti gli studenti che hanno intenzione di lavorare nel mondo della finanza? La sua risposta
è stata: “Non sono solito dare consigli, ma ad un giovane che
si affaccia al mondo del lavoro direi di coltivare sempre la propria curiosità e di non sentirsi mai arrivato, ma soprattutto di
smussare gli entusiasmi dei giorni felici e di non abbattersi
troppo nelle giornate difficili”.
A cura di Andrea Marchesani
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STORIES
Antonio Simeone: da studente LUISS a “algo-trader”
sicuramente ha la capacità di sconvolgere il mondo. Ecco.
Sconvolgere, far aprire gli occhi, vedere ciò che pur vedendo non riusciamo a vedere. Il sistema finanziario attuale sta
dimostrando negli ultimi anni tutta la sua debolezza, non
ha più la capacità di innovare, di creare progresso. Il Fintech sarà la risposta a questa stasi. Il suo compito è quello di
muovere le cose, scuotere le acque, ribaltare le prospettive
conosciute. Come si colloca Euklid in tutto ciò? Beh ancora non posso dirlo. Ma sicuramente Euklid ha la forza per
crescere ed evolversi rapidamente. Il nostro obiettivo è trasformare Euklid in una banca 3.0, una banca del futuro che
sappia sfruttare le potenzialità della blockchain, dell’Intelligenza Artificale, degli Algoritmi di trading e dei Big Data.
Molti lo ricorderanno perché è stato testimonial della LUISS Guido Carli per l’a.a.2012/2013. Antonio Simeone è una
persona spontanea, motivata e geniale. Parlandoci si percepisce la sua genuina passione per la finanza, che è anche la
fonte del suo costante impegno. Di strada ne ha fatta tanta. Due lauree, un libro di grandissimo successo chiamato
“Psicheconomia” e una innumerevole serie di esperienze
lavorative. Ad oggi, collabora con l’osservatorio bitcoin della LUISS, è giornalista de “Il sole 24 ore” e porta avanti un
progetto chiamato “Euklid”, che a detta di molti è “la banca
del futuro”.
Cosa ti ha dato la LUISS?
Alessandro Magno ricordando Aristotele disse: “A mio padre devo la vita, al mio maestro una vita che vale la pena essere vissuta.” La Luiss è stata una compagna di viaggio che
mi ha permesso di incontrare persone eccezionali come Paolo Savona, artefice della rifondazione della Luiss insieme a
Guido Carli, che è diventato in poco tempo il mio Maestro
di vita, insegnandomi a preferire, anche attraverso i suoi
scritti, sempre la strada lunga piuttosto che una scorciatoia
per arrivare ai risultati desiderati e contribuendo in maniera
importante alla mia crescita professionale e umana. Vorrei
inoltre ricordare anche tutte le altre persone brillanti che la
Luiss mi ha consentito di conoscere come Pier Luigi Celli,
il Professore Enrico Maria Cervellati, il Professore Gennaro
Olivieri e il Prof. Paolo Boccardelli, che mi hanno dato la
possibilità di conoscere e imparare.
Ci sarà davvero una rivoluzione dovuta alle startup FinTech?
Il Fintech è un vaso di Pandora. Non voglio dire che aprirlo possa causare tutti i mali e le sciagure del mondo. Non
mi fraintendere. Ma è un’incognita, una rivoluzione che
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Cos’è Euklid? Quali sono i progetti per il futuro?
Euklid. “The bank of tomorrow”. Così l’ha definita Salvo Mizzi,
amministratore delegato di Invitalia Venture ed ex Amministratore delegato di Tim Ventures. E’ una startup fintech
che cerca di coniugare l’innovazione tecnologica con quella finanziaria. Attualmente siamo una sorta di hedge fund su
bitcoin – utilizziamo il concetto di smart contract – e i bitcoin
vengono gestiti attraverso 25 Algoritmi di Trading ottimizzati con Intelligenza Artificiale (Genethic Algorithm – Swarm
Intelligence – Neural Networks) in automatico su 5 mercati
differenti. L’operatività è daily e non vi è nessun controllo
umano. Negli ultimi 4 mesi abbiamo avuto un rendimento
di quasi il 100%. A breve – molto probabilmente entro la
fine dell’anno - potremmo gestire anche fiat currencies e
integrare in Euklid Algoritmi di trading con AI su blue chips
e indici azionari già operativi sul sistema finanziario tradizionale. Il valore aggiunto di Euklid – a parte gli algos - attualmente è la trasparenza, ogni operazione viene scritta
direttamente sulla blockchain. Chiunque può avere accesso
al track record. Il nostro obiettivo di medio termine è diventare una banca quasi completamente decentralizzata, trasparente e sicura. Grazie alla blockchain.
Qual è il consiglio che daresti ad un giovane laureando/laureato?
“Two roads diverged in a wood, and I – I took the one less
traveled by. And that has made all the differences.” Di seguire la strada meno battuta, la propria strada con pazienza e
tenacia.
E voi, avete già capito qual è la strada da seguire?
A cura di Amedeo Scarano
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OUTSIDERS
La teoria della relatività 100 anni dopo: da Einstein al XXI secolo, l’universo comincia a svelarci i suoi segreti
Quando Einstein aveva elaborato la sua celebre teoria correva l’anno 1916. Quest’anno, esattamente 100 anni dopo,
è arrivata la conferma sperimentale di un’ipotesi fino ad
oggi solo teorica, grazie ai ricercatori italiani e francesi del
VIRGO e a un team composto da più di 1000 scienziati.
Il primo dato anomalo era stato registrato alle 10.50 e 45
secondi del 14 settembre 2015 dai due strumenti dell’esperimento Ligo nello Stato di Washington e in Louisiana. Da
quel momento in poi è stato un susseguirsi di analisi, verifiche e monitoraggio dati, fino all’11 febbraio 2016, quando
l’annuncio ufficiale della ‘’scoperta’’ delle onde gravitazionali è stato dato.
Le onde gravitazionali erano già state previste esattamente
un secolo fa, nel novembre 1915, quando Albert Einstein
illustrò la sua Teoria della relatività generale, di cui costituiscono uno dei capisaldi. Nessuno però aveva mai dimostrato tale teoria, fino a questo momento. Senza ombra di dubbio, i libri di fisica verranno riscritti e la data dell’11 febbraio
avrà un capitolo a parte al loro interno.
Il team che sta dietro questa scoperta sensazionale è composto da 1004 ricercatori provenienti da 133 istituti diversi
che hanno collaborato affinché si potesse arrivare ad un
risultato tanto eclatante. Non si tratta più, quindi, soltanto
di un teorema matematico: siamo di fronte ad una vera e
propria scoperta.
Impossibile inoltre si tratti di un errore: le stime parlano
di una probabilità di errore di una su 3 milioni e mezzo, o,
letto in termini scientifici, i risultati hanno una certezza di
5,1 sigma – che è in linea di massima la stessa con cui si
annunciò l’esistenza del bosone di Higgs. Tutto ciò significa
che la probabilità di essere certi della scoperta è superiore
al 99,9%.
Ma cosa ha generato queste onde? E soprattutto, cosa sono
realmente?
Le onde gravitazionali rivelate sono state prodotte nell’ultima frazione di secondo del processo di fusione di due
buchi neri, le cui dimensioni sono stimate rispettivamente
a 29 e 36 masse solari. I due buchi neri, prima di fondersi,
hanno spiraleggiato, per poi scontrarsi a una velocità di circa 150000 km/s, la metà della velocità della luce, accumulando energia cinetica. Dall’impatto, si è generato un unico
buco nero ruotante più massiccio, di circa 62 masse solari.
Delle 65 masse solari iniziali, quindi, tre masse sono disperse nell’universo come energia emessa durante il processo
di fusione dei due buchi neri, energia che si propaga sotto
forma di onde gravitazionali.
La notizia ha rivoluzionato in modo sostanziale la fisica e
la ricerca cosmologica. Da adesso in poi si avrà la possibilità di studiare l’universo (e i misteriosi buchi neri) in modo
completamente differente. Potremo finalmente “sentirlo”
nella sua essenza più fondamentale, lo spazio-tempo: due
elementi che, secondo Einstein, sono una cosa sola. Si potrebbe addirittura capire come e perché l’universo non solo
si sta espandendo, ma sta addirittura accelerando la sua velocità di ampliamento.
“Questo risultato rappresenta un regalo speciale per il centesimo anniversario della relatività generale”, ha concluso
Fernando Ferroni, presidente dell’INFN (Istituto Nazionale
di Fisica Nucleare). “È il sigillo finale sulla meravigliosa teoria
che ci ha lasciato il genio di Einstein ed è anche una scoperta che premia il gruppo di scienziati che ha perseguito questa ricerca per decenni alla quale l’Italia ha dato un grande
contributo”.
L’augurio per adesso è che la scienza possa continuare su
questa linea di condotta e dare luce a una nuova serie di
scoperte e studi che potranno ancora stupirci e meravigliarci come quella delle onde gravitazionali.
A cura di Anna Chiara Afeltra
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