Aristotele e la felicità Mappa dell`Unità Il principio è questo: tra colui

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Aristotele e la felicità
Mappa dell'Unità
Il principio è questo: tra colui che tende alla felicità (soggetto) e la felicità (oggetto), si stende un segmento che
congiunge i due estremi rendendoli tra loro compatibili. Se il soggetto è un animale, la felicità sarà quella a cui
naturalmente può tendere un animale; se il soggetto è un uomo, la felicità non può essere che quella a cui naturalmente
un uomo deve tendere. A questa prima classificazione se ne aggiunge subito una seconda, più impegnativa: non tutti gli
uomini sono uguali; il tipo di felicità a cui ciascuno tende è quindi correlato all’esistenza che egli conduce. Alla
particolarità del soggetto corrisponde quindi la particolarità dell’oggetto: una felicità di tipo materiale è diversa da una
felicità di tipo “spirituale” (parola del tutto inadeguata nel contesto del pensiero aristotelico, ma tant’è … meglio capirsi!),
e la felicità che può provare un atleta a Olimpia non è la stessa che commuove l’animo di un poeta. Dunque è chiaro
che non esiste una definizione universale della felicità, ovvero: esiste, ma talmente universale da non dire quasi più
nulla. Così come la definizione dell’Uomo come animale politico che Aristotele ci ha lasciato è tanto significativa quanto,
nella sua genericità, inapplicabile in concreto.
Allora, in cosa consiste la felicità? Parlando di soggetto e oggetto, abbiamo dimenticato il segmento intermedio: tra A e
B si estende il binomio “ab” che correla i due termini tra loro. Questo binomio è la vita. Il bios. Se Caio desidera vivere
bene, deve condurre un’esistenza che gli permetta di realizzare questo bene che egli desidera. La felicità è questo
particolare modo di vivere, e non il risultato di un modo di vivere. Caio deve cioè organizzare la propria esistenza in
modo adeguato al fine che intende raggiungere, ma il fine si realizza nell’esercizio stesso delle attività che gli danno
forma. La felicità quindi non è un’idea a cui l’Uomo tende, ma è l’azione con cui egli dà forma alla propria vita. La vita
sportiva per l’atleta, la vita ascetica per il monaco, l’esercizio delle armi per il militare. E quindi, come si diceva, non
basta conoscere il bene, ovvero sapere che cos’è che “mi renderebbe felice”; per raggiungere il bene occorre praticarlo,
e in questa pratica sta il vero bene, la mia particolare felicità. Quindi l’azione morale, in quanto attività, ha il suo fine in
se stessa.
Piccolo popolo - Morale? Cosa c’entra la morale con tutto questo discorso?
-Effettivamente, non mi sembra che sia molto “morale” questa specie di edonismo.
Ermetis - Questi sono gli effetti del linguaggio. Guai a non dominarli! Ho usato la parola morale perché stiamo parlando
di etica; e come si traduce il greco ethos (costume, nel senso di modo di vivere) in latino? Con mos – moris, plurale
mores, costume, abitudini, modo di vivere. Da cui l’italiano Morale, che è l’esatto corrispondente del termine Etica; la
differenza è nella loro radice: etica da ethos, morale da mos. Differenza superficiale, non di sostanza. Ragion per cui
quando noi, figli del XX secolo, parliamo di morale, usiamo una parola che ha un’origine assai diversa dal senso che poi
gli è stato attribuito. Perché la moralità, con il cristianesimo, è diventata qualcosa che ha a che vedere con l’interiorità;
mentre l’etica greco-latina era qualcosa che riguardava esclusivamente l’agire, lo stare in mezzo agli altri.
Piccolo popolo - E quindi essere morali per un greco o per un romano voleva dire essere ben educati? Un po’ poco non
ti pare?
Ermetis - Beh … non esattamente. Questa è la teoria, chiamiamola così, della felicità generale. C’è poi anche una teoria
della “felicità perfetta”, quella che corrisponde alla più alta delle umane virtù.
Piccolo popolo - Che cos’è la virtù per Aristotele?
Ermetis - Troviamo la definizione proprio nell’Etica a Nicomaco, la più importante delle sue tre opere dedicate all’etica.
Egli dice: «Ogni virtù (in greco: areté) ha l’effetto di portare alla buona realizzazione ciò di cui è virtù, e di far sì che egli
eserciti bene la sua opera (greco: ergon)». La virtù del cavallo consiste nel correre bene, quella dell’occhio nel vedere
bene.
Piccolo popolo - E quella dell’Uomo?
Ermetis - L’Uomo ne ha diverse, e ci sarebbe da stupirsi se non fosse così.
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Testo: Storia delle idee
Autore: Maurizio Châtel
Curatore: Maurizio Châtel
Metaredazione: Erica Pellizzoni
Editore: BBN
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