UTILIZZO DI PIANTE SELVATICHE IN CUCINA

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PADOVA
INTERFACOLTA’ DI AGRARIA, ECONOMIA, LETTERE E FILOSOFIA
TESI DI LAUREA IN
SCIENZE E CULTURA DELLA GASTRONOMIA E DELLA RISTORAZIONE
UTILIZZO DI PIANTE SELVATICHE IN CUCINA
Relatore:
Prof. Margherita Lucchin
Correlatore:
Prof. Giuseppe Zanin
Laureando:
Enrico Perin
Matricola n. 538232
ANNO ACCADEMICO 2007- 2008
INDICE
Riassunto........................................................................................................3
Abstract .......................................................................................................... 5
1. Introduzione ............................................................................................ 7
2. Le piante selvatiche nella storia .............................................................. 9
3. Il Brenta .................................................................................................... 15
3.1. Cenni storici................................................................................ 15
3.2. Il sistema idrologico del Brenta .................................................. 16
3.3. La vegetazione del medio Brenta ............................................... 16
3.3.1. Il greto del fiume ............................................................... 17
3.3.2. Le rive ................................................................................ 17
3.3.3. Le risorgive ........................................................................ 18
3.3.4. I prati.................................................................................. 18
3.4. Le risorgive e le zone umide del Cittadellese ............................. 19
4. Le erbe nella tradizione culinaria veneta .............................................. 21
5. Le piante alimurgiche della Sinistra Medio Brenta.............................. 25
Acetosa............................................................................................... 26
Acetosella........................................................................................... 29
Asparago Selvatico ............................................................................ 31
Cicoria ............................................................................................... 34
Crescione d’acqua ............................................................................. 37
Dente di Leone ................................................................................... 40
Equiseto ............................................................................................. 42
Farinaccio selvatico .......................................................................... 44
Luppolo .............................................................................................. 47
Malva................................................................................................. 50
Menta acquatica ................................................................................ 53
Ortica ................................................................................................. 56
Piantaggine........................................................................................ 59
Porcellana.......................................................................................... 61
Rosa selvatica .................................................................................... 63
1
Rovo................................................................................................... 66
Ruchetta selvatica.............................................................................. 69
Salvia dei prati................................................................................... 72
Strigoli ............................................................................................... 74
Tarassaco........................................................................................... 77
6. Conclusioni ............................................................................................... 81
Appendice 1: Area di ritrovamento delle piante selvatiche
nel territorio della Sinistra Medio Brenta ...................................................... 83
Bibliografia .................................................................................................... 85
2
RIASSUNTO
L’alimurgia, un termine coniato da Giovanni Targioni- Tozzetti nel 1767, è lo studio
delle soluzioni da ricercare in caso di “urgenza alimentare”. In passato le frequenti
carestie e le guerre costringevano l’uomo a ricercare soluzioni alimentari diverse dalle
tradizionali e l’utilizzo delle piante spontanee era spesso l’unica soluzione disponibile.
Già l’uomo preistorico, raccoglitore e cacciatore, basava la sua sopravvivenza in ciò che
gli offriva l’ambiente circostante. La conoscenza di quali erbe, radici e frutti da
raccogliere era il risultato di esperienze, maturate da tentativi, che potevano costare la
vita.
Tramite l’agricoltura, l’uomo iniziò a favorire quelle specie spontanee che riteneva
di facile coltivazione e che garantivano una resa adeguata, tralasciando specie, che ora
riteniamo infestanti.
Nei secoli, quelle piante non addomesticate, oltre a rappresentare una fonte di
alimentazione, divennero rimedi contro i malanni quotidiani. Le loro proprietà
medicamentose vennero tramandate dalla tradizione popolare, ricoprendole di un velo di
mistero e misticismo. In alcuni casi, le credenze popolari sulle azioni curative delle
piante spontanee trovano conferma nella scienza moderna.
Fortunatamente la no stra società odierna non è più colpita da carestie e fame, ma
l’impiego delle piante spontanee in cucina è da sempre radicato nel nostro paese,
specialmente nelle zone rurali. Negli ultimi anni, il crescente interesse verso questo
argomento è indirizzato a salvaguardare e valorizzare le tradizioni locali e il sapere
popolare. Un esempio ne è la ristampa anastatica della Phytoalimurgia Pedemontana,
opera di Oreste Mattirolo (1918), che consigliava al popolo l’utilizzo di piante
spontanee in modo da poter sopravvivere alla difficile situazione di carestia provocata
dalla Grande Guerra. L’opera, inoltre, è arricchita da un testo di Bruno Gallino (2001),
che fornisce nozioni etnobotaniche legate alla coltura popolare dell’Italia intera.
Il seguente lavoro ha lo scopo di individuare, nell’ambito della flora spontanea
regionale, alcune specie erbacee ed arbustive d’interesse alimentare legate alla
tradizione rurale del Veneto. Le specie spontanee considerate nell’elaborato sono
comuni nella Pianura Padana. L’indagine, nello specifico, è stata eseguita nel territorio
del “Sinistra Medio Brenta”, tra i comuni di Cittadella e di Piazzola sul Brenta. Le
3
schede elaborate, descrivono brevemente la botanica di ogni pianta, valutando, inoltre, il
loro valore alimentare e l’interesse culinario. Ogni singola scheda, infatti, è
accompagnata da alcune ricette della tradizione, adattate e rivisitate. L’individuazione,
la catalogazione e la descrizione delle piante sono avvenute in base alle conoscenze
personali, sia della flora che degli usi alimentari, nonché su nozioni reperite da testi
specifici.
4
ABSTRACT
During past centuries, famine and wars were very usual, so that man was forced to
change the way he fed himself. Often, the use of wild plants was the unique available
solution. The choice and gathering of herbs, roots and fruit was determined by previous
dangerous experiences which could led to serious risks for human life. At beginning of
agriculture, men began to cultivate wilds plants able to ensure an adequate yield or,
perhaps, were the tastiest plants.
Several authors underline that the use of wild plants in kitchen has never been gave
up. This use in fact has represented the only way of survival during periods of lack of
food. The continuous famines brought a botanist, Giovanni Targioni-Tozzetti, to work
on this problem: in 1767, he minted the term alimurgia to indicate the branch of science
that studies the solutions for the urgent food needs. In 1918, an Italian naturalist, Oreste
Mattirolo, suggested this term again, adding the prefix phyto-. In his work,
Phytoalimurgia Pedemontana he advised people to use of wild plants in order to survive
to hard situation of famine caused by the Ist World War.
Fortunately, modern society is not affected by epidemics and starvation, but the use
of herbs in the kitchen has always have a strong tradition, especially in rural areas.
The present thesis aims to identify some species of plants of nutrition interest, as
part of regional flora, connected to the rural tradition of Vene to. The considered wild
plants are common in the Po Valley and, in the specific, in the North-North Western of
Padova. The 20 forms here included briefly describe the botanic traits of each plant,
considering also its nutritional value and the common food use. Each form is
accompanied by some traditional recipes, that have been adapted and adjusted. The 20
plant species are proposed for different culinary preparations; from the classic erbe cote
- consisting of a mixture of several species - boiled and seasoned with oil and salt to
soups or potages made of leaves too tough to be eaten in salad. The purpose of this
thesis is to point out the link between the use of wild plants in kitchen and the
preservation and exploitation of local traditions and popular knowledge.
5
6
1. INTRODUZIONE
Nel corso dei secoli, le frequenti carestie e le guerre hanno costretto l’uomo a
modificare la sua tradizionale alimentazione e, spesso, l’utilizzo delle piante spontanee
era l’unica soluzione disponibile. La scelta di erbe, radici e frutti da raccogliere era il
risultato di esperienze, maturate da tentativi azzardati e a volte rischiosi, che potevano
addirittura mettere a repentaglio la vita dell’uomo. Con l’agricoltura, si iniziò a coltivare
piante spontanee che garantiva no una resa adeguata o, magari, più gustose al palato,
escludendo quelle specie che oggi riteniamo infestanti. Le piante non addomesticate,
non rientrando come fonte di alimentazione principale, divennero rimedi contro i
malanni quotidiani. Nel papiro di Ebers, che rivela i fondamenti su cui si basava la
medicina egiziana, sono elencate circa 800 specie, tra erbe e droghe, non identificabili
con le piante coltivate al giorno d’oggi (Lanzani, 1989).
Nonostante le molteplici evoluzioni storiche, l’utilizzo di piante spontanee in
cucina non è mai stato abbandonato del tutto, come testimoniano anche numerosi
episodi leggendari. Fu, ad esempio, un cardo, indicato da un raggio di sole, che salvò
dalla disfatta l’esercito di Carlo Magno nel 800; per questo motivo il cardo è conosciuto
anche con il nome di Carlina (Carlina acaulis). Altro fatto storico è la decisione del
sovrano della Navarra, Enrico IV, di aprire i cancelli del parco reale, ricco di erbe
selvatiche, per sfamare la popolazione. Quest’ultima, per riconoscenza, chiamò una
specie simile allo spinacio, Buon Enrico (Chenopodium bonus-henricus).
Le continue carestie indussero un botanico Giovanni Targioni-Tozzetti, ad
occuparsi del ricorso all’uso delle erbe spontanee: nel 1767, egli coniò il termine
alimurgia per indicare quel ramo di scienza che studia le soluzioni alle urgenti necessità
alimentari.
Fortunatamente la nostra società odierna non è più colpita da epidemie e fame ma,
l’impiego delle piante spontanee in cucina è da sempre radicato nel nostro paese,
specialmente nelle zone rurali. Un esempio è la tradizionale erba spontanea più ricercata
e maggiormente apprezzata: il pissacan (Taraxacum officinale), utilizzato dalla sapienza
popolare in ogni sua parte, le foglie lessate, le radici tostate per il caffè ed il nettare dei
fiori per il miele.
7
Negli ultimi anni, il crescente interesse verso questo argomento è indirizzato a
salvaguardare e valorizzare le tradizioni locali e il sapere popolare. Un esempio è la
ristampa anastatica della Phytoalimurgia Pedemontana, opera di Oreste Mattirolo
(1918), che consigliava al popolo l’utilizzo di piante spontanee in modo da poter
sopravvivere alla difficile situazione di carestia provocata dalla Grande Guerra. L’opera,
inoltre, è arricchita da un testo di Bruno Gallino (2001), che fornisce nozioni
etnobotaniche legate alla coltura popolare dell’Italia intera.
Il seguente lavoro di tesi ha lo scopo di individuare, nell’ambito della flora spontanea
regionale, alcune specie erbacee ed arbustive d’interesse alimentare, legate alla
tradizione rurale del Veneto. Le specie spontanee considerate nell’elaborato sono
comuni nella Pianura Padana; l’indagine, nello specifico, è stata eseguita nel territorio
“Sinistra Medio Brenta”, tra i comuni di Cittadella e di Piazzola sul Brenta. Le schede
elaborate descrivono brevemente le caratteristiche botaniche di ogni pianta,
valutandone, inoltre, il valore alimentare e l’interesse culinario. Ogni singola scheda è
accompagnata da alcune ricette della tradizione, adattate e rivisitate. Le specie
individuate, circa una ventina, sono utilizzabili per ottenere diverse preparazioni
culinarie; dalle classiche erbe cote - composte da diverse specie - lessate e condite con
olio extravergine e sale, alle zuppe o minestre a base di foglie troppo coriacee per
essere consumate crude in insalata.
L’individuazione, la catalogazione e la descrizione delle piante sono avvenute in base
alle conoscenze personali, sia della flora che degli usi alimentari, nonché su nozioni
reperite da testi specifici.
8
2. LE PIANTE SELVATICHE NELLA STORIA
L’uomo preistorico traeva il suo sostentamento da ciò che riusciva a procurarsi
dalla caccia e dalla raccolta. Numerosi ritrovamenti di gusci e di semi di frutti raccolti,
come il corniolo (Cornus mas), le nocciole (Corylus avellana), la mela selvatica (Malus
sp.), la mora (Rubus fruticosus) e il sambuco (Sambucus nigra), sono stati rinvenuti nei
pressi dei villaggi mesolitici del Nord Italia, suggerendo una attiva raccolta di prodotti
alimentari dalla natura (Castelletti, 2001). L’introduzione dell’attività agricola, avvenuta
nella Pianura Padana nel VIII-VII millennio a.C., non fece abbandonare del tutto la
raccolta di cibo, come dimostra la presenza abbondante di ritrovamenti di vegetali
spontanei in siti del Mesolitico e del Neolitico antico. In base a questi reperti è possibile
ipotizzare una continuità del sistema caccia-raccolta per l’approvvigionamento del cibo
ed il ruolo ancora fondamentale per la sopravvivenza dell’uomo di frutti ed erbe
spontanei. Con l’agricoltura, l’uomo iniziò a prediligere specie di piante che
garantivano una resa adeguata e di facile coltivazione, escludendo specie che oggi sono
definite spontanee e infestanti; com’è noto, l’uomo da nomade divenne stanziale, dato
che l’attività agricola gli forniva migliori garanzie di sopravvivenza (Montanari, 2004).
In questo modo, l’uomo si garantì una maggiore quantità e continuità di
approvvigionamento degli alimenti, assicurando sostentamento ad una comunità che
finalmente poteva crescere. Non sempre, però, il prodotto agricolo era sufficiente a
soddisfare i bisogni alimentari e, in casi di carestie o raccolti rovinati da intemperie,
l’uomo ritornava ad essere raccoglitore, rivolgendo le sue speranze di vita a ciò che gli
offriva la natura.
Va quind i sottolineato che l’agricoltura permise lo sviluppo e l’evoluzione di specie
vegetali, da spontanee a domestiche, individuate dall’uomo come redditizie e di facile
coltivazione. Si ipotizza che la diffusione dell’agricoltura nel Nord Italia sia dovuta
all’arrivo di popolazioni migrate dall’oriente, che portarono con sé nuove specie per le
zone padane, come l’orzo, il farro, il monococco, o sfruttando specie autoctone, ma mai
sottoposte prima a coltura (pisello, lenticchia, ervo) o addomesticando specie ritenute
infestanti come spelta, avena, miglio, panico (Castelletti, 2001). L’azione di selezione
effettuata dall’uomo, che continuerà anche nei millenni successivi, ha consentito lo
9
sviluppo di specie orticole come il cavolo (Brassica rapa L.) e la carota (Daucus carota
L.).
Nel VI – V secolo a.C., diventa più consistente la raccolta di frutta come corniole,
more, fragole, susine, mele, uva e fichi. Si ritiene che in questo periodo sia avvenuta
anche la diffusione della coltivazione della Vitis vinifera sylvestris nell’Italia del Nord,
che oltre al suo uso come alimento fresco, a seguito di primordiali modi di
conservazione, si sia scoperta una bevanda fermentata progenitrice del vino.
Allargando gli orizzonti, verso antiche culture e paesi, si nota che le erbe spontanee
entrano a far parte della religione. Un esempio è la cultura ebraica, in cui le erbe, quelle
amare, costituiscono un elemento fondante della ritualità del giorno di Pasqua. Nel libro
dell’Esodo (12-8), il Signore descrive al profeta Mosè come dovrà essere la cena prima
della partenza dall’Egitto:
“In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con
azzimi e con erbe amare”.
Decisamente una cena frugale, che non deve richiedere tempi lunghi di
preparazione. L’agnello che deve essere arrostito, né bollito, né crudo, il pane che non
deve essere lievitato, e le erbe, perciò, raccolte nelle vicinanze, bollite e mangiate senza
nessun condimento, tutto ciò per essere pronti alla fuga.
Per l’Antica Roma, pane ed erbe dell’orto - come pure il vino e l’olio - erano segno
di civiltà. Tutto ciò che proveniva dall’incolto o non identificato come “civile”, era da
scartare dalla tavola del cittadino romano. Gli agronomi romani prendevano in
considerazione le piante selvatiche in tre distinte categorie: quelle che crescono al di là
dell’area coltivata, quelle che si coltivavano nel terreno a pascolo, quelle che crescono
sul maggese (Marcone, 1997). L’uso di erbe spontanee raccolte era limitato a chi
viveva ai confini delle città e all’uso in farmacopea, grazie alle loro proprietà curative.
A quel tempo, però, molti scrittori romani, come Catone nel caso del cavolo, elogiavano
i prodotti dell’orto, evitando di nominare tutto ciò che proveniva dal selvatico. Il
processo di domesticazione di erbe e frutti non era ancora concluso: la coltivazione
dell’asparago risale infatti all’epoca romana. Questo alimento risulta essenziale per i
contadini:
10
“La natura aveva creato gli asparagi selvatici, in modo che chiunque potesse
raccoglierli qua e là dove spuntavano: ecco che compaiono gli asparagi coltivati e
Ravenna ne produce di tali che raggiungono il peso di una libbra” (Plinio, XIX, 54).
Presso le popolazioni del Nord Europa l’alimentazione era improntata
prevalentemente su prodotti animali. L’uso di erbe per l’alimentazione era considerato
declassante per gli aristocratici, perciò limitata ai poveri, ma erbe e piante ricoprivano
un significato forte nelle ritualità. Un esempio è l’Uomo di Tollund, del 300 d.C.,
ritrovato in una torbiera in Danimarca, sacrificato, secondo studi, in un rito per la
fertilità. Grazie alla composizione anaerobica del terreno i suoi tessuti molli si sono
mantenuti integri. Ben conservato era anche il contenuto del suo stomaco che ha rilevato
l’ultimo pasto, parte integrante del rito: orzo, semi di lino, frumento, farinaccio
(Chenopodium Album), persicaria (Polygonum Persicaria) e renaiola (Spergula arvensis
sp. Sativa), oltre poi ad altri 40 tipi di sementi (Lanzani, 1989).
Nei secoli le piante selvatiche oltre a ricoprire ruoli fondamentali per
l’alimentazione, costituirono elementi sempre più importanti per la medicina; infatti,
molte sono le testimonianze di uso di erbe miracolose, raccolte nel “selvaggio”, e le
proprietà riconosciute grazie ad esperienze sono state tramandate per secoli. La teoria
dei segni è un esempio: ogni pianta, o parte di essa, con la sua forma richiamava
l’organo umano che riusciva a curare.
Con l’evolversi dell’agricoltura, tramite nuovi metodi di coltivazione e
l’introduzione di nuove specie o nuovi tipi coltivati, l’utilizzo di erbe selvatiche è da
considerare un’eccezione limitata a periodi di carestia o penuria - o semplicemente
perché “non costava nulla” -, senza contare che per chi viveva immerso nella natura, era
di quotidiana abitudine imbattersi in foglie tenere, germogli succulenti, radici saporite.
Se non altro è da considerare che le erbe entrarono in cucina prima per soddisfare un
bisogno alimentare, la fame; successivamente, dopo averne apprezzato il sapore,
diventarono ingredienti preziosi che arricchivano una dieta povera di sapori e varietà.
Ne sono un esempio le diverse colture agricole venete, sviluppatesi in seguito a
secoli di selezione. Uno degli alfieri della produzione agricola veneta è il radicchio, o
meglio, i radicchi. Molteplici sono le varietà: Variegato di Maserà, Bianco di Lusia,
Rosso di Chioggia, precoce e tardivo di Treviso, Fiore di Castelfranco, Rosso di
Verona, Variegato di Bassano. Tutti appartenenti alla specie Cichorium intybus e, nel
11
caso dei tipi variegati, derivati dall’incrocio tra C. endivia e C. intybus. Anche
l’asparago, è uno dei vessilli più interessanti dell’agricoltura veneta. L’Asparagus
officinalis è ormai coltivato in tutte le province del Nord Est; i romani furono i primi a
selezionarne le varietà orticole dalle specie spontanee, A. tenuifolius e A. acutifolius. Da
non dimenticare poi tutte le varietà di Valerianella, Lactuca e Crepis coltivate presenti
nel mercato orticolo.
La bio-diversità vegetale, presente nel territorio veneto, ha garantito lo sviluppo di
un’agricoltura che la cultura rurale veneta seppe sfruttare al meglio, trovando non solo
risorse medicamentose per i quotidiani malanni, ma anche una vera e propria fonte di
alimentazione, che andava ad integrare in parte - o sostituire del tutto - quella ottenuta
dal duro lavoro dei campi. Dietro a tutto ciò si fondava una cultura radicata nel
territorio, in pieno contatto con la natura che, grazie a millenni di sperimentazioni ed
osservazioni portarono a scoprire le virtù alimentari e curative di ogni “erba bona”. Per i
nostri avi è stato sempre un gesto istintivo, quotidiano, quello di ricercare una
soddisfazione della fame in ciò che offriva madre natura.
La preoccupazione della fame, però, nonostante le continue evoluzioni e progressi,
non ha mai abbandonato l’uomo: i metodi di conservazione, la diversificazione delle
colture o dei metodi di coltura non allontanarono lo spettro di carestie, guerre, epidemie
che continuarono a minacciare la sua sopravvivenza. Sopraffatto dalla carenza
alimentare l’uomo cercava i più svariati rimedi, come suggeriva il “De Alimenti
Urgentia” di Giovanni Targioni- Tozzeti, del 1767. L’opera consigliava al popolo in
preda alla fame, dovuta a guerre e carestie, di placarla rivolgendosi a ciò che si poteva
raccogliere dalla natura spontanea. In questo libro, l’autore definì il termine Alimurgia,
coniato appositamente per indicare lo studio delle soluzioni da ricercare in caso di
necessità alimentare (alimenta urgentia).
Il termine venne riproposto più tardi da Oreste Mattirolo, nel suo libro
“Phytoalimurgia Pedemontana” (1918), che aggiunse il prefisso fito-, precisando la
derivazione vegetale degli alimenti usati in alimentazione in caso di necessità. L’autore
infatti riferisce:
“Anche le condizioni del dopoguerra (considerate dal punto di vista
dell’alimentazione) ci appaiono preoccupanti. Le già magre raccolte di cereali
12
tendono sempre a diminuire per mancanza di manodopera, di concimi, mentre il
consumo è sempre pressa a poco uguale”.
In qualche modo bisognava non solo evitare sprechi, ma reperire nuovi fonti
alimentari, allo scopo di liberare la popolazione dal primario bisogno: la fame. Per
questo motivo, il botanico Mattirolo, nella stesura del testo, non adotta un linguaggio
scientifico della materia, con “classificazioni chimiche, dietetiche o botaniche, perché
troppo differenti erano gli usi che si potevano fare di una stessa specie vegetale”,
rendendo il suo elaborato pratico e facilmente consultabile. Nel suo Phytoalimurgia
Pedemontana, ossia “Censimento delle specie vegetali alimentari della Flora spontanea
del Piemonte”, Oreste Mattirolo elenca più di 230 specie di piante commestibili presenti
nel territorio piemontese, suddividendole in dodici capitoli:
I.
I cauli metamorfizzati in magazzini di materiali nutritizi (A. Rizomi – B.
Tuberi, Bulbo-tuberi e Rizomi tuberosi – C. Bulbi).
II.
Le radici metamorfizzate in magazzini di materiali nutritizi.
III.
I giovani getti culinari teneri, succosi, che si possono mangiare.
IV.
Le piante di cui si usano le foglie o le innovazioni primaverili nelle insalate.
V.
Le piante delle quali si adoperano specialmente le innovazioni primaverili
per confezionare minestre.
VI.
Le piante che si adoperano nelle frittate e nelle torte.
VII.
I fiori che si usano come alimenti.
VIII. I frutti e i semi alimentari.
IX.
Le piante dalle quali si può estrarre olio.
X.
Le piante, o le parti di esse, usate come succedanee del caffè e del thè.
XI.
I funghi. Le alghe. I licheni.
XII.
La bibliografia alimurgica.
(Mattirolo, 1918)
Egli ha ispirato il suo lavoro al Trattato degli alimenti di Galeno (II secolo d.C.),
attenendosi alla classificazione che aveva proposto l’autore romano circa due millenni
fa, “la quale, dal punto di vista popolare, è esemplarmente pratica” (Mattirolo, 1918).
Bisogna però pensare che l’alimentazione dei nostri nonni all’inizio del XX secolo,
basata su polenta ed erbe spontanee, non può essere specchio di millenni di storia
umana. Le erbe ricoprirono - e ricoprono tuttora - una parte ridotta dell’alimentazione,
limitata ai ceti sociali più poveri, che soffrivano la fame.
13
L’alimurgia oggi non sembra più essere necessaria - almeno per la nostra società
moderna -, eppure studiosi e appassionati vogliono ridare un ruolo nuovo alle erbe
spontanee. Riconosciute le proprietà alimentari che apportano, soprattutto sali minerali e
vitamine, si cerca di affidargli una veste di memoria storica e culturale del nostro
passato rurale.
L’indagine è stata condotta nel territorio della “Sinistra Medio Brenta”, nei comuni
di Cittadella, Fontaniva, San Giorgio in Bosco e Piazzola sul Brenta, oltre ai comuni di
Tombolo, in particolare Onara, e di Villa del Conte, località Abbazia Pisani, dove si
possono trovare erbe e piante che sono tuttora d’interesse culinario. Questa area è
caratterizzata da una forte urbanizzazione, ma zone di natura sono ancora presenti lungo
i fiumi Brenta e Tergola. Questo elaborato si propone di raccogliere gli usi alimentari
delle piante spontanee, di analizzare e descrivere il loro valore alimentare e le
caratteristiche culinarie.
14
3. IL BRENTA
3.1 Cenni storici
Il Brenta era conosciuto nell’antichità con il nome di Medoacus (Signori, 1990), ed
era di eccezionale importanza per la città di Padova, che aveva costruito un porto tra i
suoi meandri. Secondo alcuni autori l’etimologia del termine Medoacus deriva da
Mathamaucus, l’odierna Malamocco, che significa in mezzo al lago. Il fiume, infatti,
dalla sorgente alla foce, si trova collegato con laghi o lagune (Abrami, 1984).
“La situazione idrografica padovana descrittaci da Livio, col fiume navigabile
da porto a porto sino alla laguna e al mare, sta all’origine della prosperità
economica di Padova in epoca romana e medioevale, dovuta soprattutto
all’industria e al commercio delle lane”. (Signori, 1990)
Questa situazione durerà immutata sino all’epoca di un’alluvione (VI secolo d.C.),
documentata da Paolo Diacono in Historia Langobardorum. In seguito a questa
calamità, il Brenta mutò il suo corso per assumere il tracciato attuale, e Padova vide il
suo antico meandro urbano invaso dalle acque del Bacciglione.
Nuovo corso, nuovo nome: si fa risalire a questa epoca il nome Brenta, dovuto a
popoli germanici che si insediarono tra la valle dove scorreva il fiume. L’etimo è di
origine tedesca, da Brint o Brintl, che vuol dire fontana (F. Signori, 1990); un’altra
ipotesi fa invece risalire il nome dai termini tedeschi Brunnen - scorrer d’acqua - e Runz
- sorgente - (Abrami, 1984).
Nei secoli, il territorio circostante al fiume fu interessato da molteplici interventi
umani di disboscamento e di bonifica nella ricerca di legname, pascoli e terre da
coltivare. Questo determinò uno squilibrio idrologico, da cui derivò l’aggravarsi del
fenomeno delle piene, con il conseguente aumento del trasporto di solidi e
dell’interramento della Laguna veneta (Abrami, 1984). Per limitare i danni provocati
dall’irrequietudine di questo fiume risalente al periodo Terziario, l’uomo intervenne con
arginature, canalizzazioni e deviazioni, lungo tutto il suo corso.
15
3.2 Il sistema idrologico del Brenta
Dai laghi trentini di Levico e di Caldonazzo fino alla foce vicino a Chioggia, il
Brenta percorre 174 chilometri, di cui 70 tra le pendici dei monti fino a Bassano del
Grappa, e 104 chilometri da Bassano del Grappa alla foce. Nella sua lunghezza è
possibile individuare tre diverse situazioni morfologiche: bacino montano, zona a canali
intrecciati e zona a meandri. Giuseppe Luigi Scuro (1990) descrive nel seguente modo
le tre aree:
“Nel tratto montano si riscontra la pendenza maggiore (4,9 per mille con punte
fino al 10 tra Borgo e Ospedaletto): il fiume scorre incassato in una valle modellata
dalla tettonica. In molti punti la Valsugana segue infatti linee di faglia. Entrando
nell’alta pianura il Brenta assume una morfologia a canali intrecciati, con il letto
formato da ciottoli, ghiaie e sabbie. A sud di Fontaniva, in prossimità della media
pianura, i materiali si fanno più fini e l’alveo forma i primi meandri che diventano
tipici subito dopo Piazzola”.
Inizialmente il fiume ha un apporto idrico modesto, alimentato dai due laghi, ma
alla confluenza del Cismon, la situazione cambia. Il bacino del Cismon e le abbondati
sorgenti carsiche disposte lungo la valle forniscono al Brenta un apporto idrico extra
rispetto al proprio bacino alimentatore (Scuro, 1990). La portata diminuisce quando il
Brenta entra nell’alta pianura; la causa è dovuta alla maggiore permeabilità dei terreni e
nella derivazione di rogge e canali per uso irriguo. All’altezza di Piazzola, il torrente
Muson, che scende dal Massiccio del Grappa, e i vari corsi d’acqua originati dalle
risorgive di pianura apportano nuovi contributi idrici al fiume.
3.3 La vegetazione del medio Brenta
Lungo tutto il corso del fiume Brenta si creano dunque le condizioni per l’insediarsi
di un’ampia gamma di popolamenti vegetali, grandi o piccoli, effimeri o
temporaneamente stabili (Busnardo, 1990). Si è deciso di descrivere brevemente i
principali elementi del paesaggio vegetale del medio Brenta, identificabile con la zona
16
compresa a Nord dai comuni di Cittadella e Fontaniva, e a Sud, dal comune di Piazzola
sul Brenta.
3.3.1. Il greto del fiume
Il letto fluviale, composto da materiali di vario tipo e dimensioni, depositati dalle
correnti e percorso in porzioni variabili dalle acque, data la portata non costante del
Brenta. Il livello di copertura del greto, perciò, è in continua variazione; i depositi sono
sommersi per brevi o lunghi periodi, alternando condizioni di umidità a periodi di
siccità. Specie tipica di questa zona disturbata è la Diplotaxis tenuifolia,
tradizionalmente utilizzata in cucina, conosciuta con il nome di ruchetta selvatica.
3.3.2. Le rive
Le rive sono da ritenere come un importante ambiente di transizione, dove
periodicamente le piante devono sopportare la violenza delle correnti e l’asportazione o
il deposito di materiali. Le due specie che riescono a resistere in queste condizioni sono
il salice bianco (Salix alba) e il pioppo nero (Populus nigra). La composizione
floristica del piano arbustivo erbaceo è dominata da specie indicatrici di elevato
contenuto di sostanza organica, fra cui la fitolacca (Phytolacca decandra), il sambuco
(Sambucus nigra) e la clematis (Clematis vitalba) (Francescato, 2002). I frutti del
sambuco sono utilizzati per confezionare marmellate, mentre i teneri germogli della
clematis si consumano lessati e conditi.
A causa di interventi umani non controllati, in molti luoghi la robinia (Robinia
pseudacacia) si è sostituita alle entità originarie, dando modo a rovi (Rubus caesius) e
ortiche (Urtica dioica) di proliferare nel sottobosco (Busnardo, 1990). Tra le spine dei
rovi, si possono trovare abbondanti more, con cui si possono preparare succhi o
confetture. Alcuni tratti sono privi della copertura di grandi alberi, così ai limiti del
bosco e a contatto con il fiume è possibile trovare spezzoni di bordura erbacea, con
specie d’interesse alimentare come equiseto (Equisetum arvense), lamio (Lamium
album) e asparago (Asparagus tenuifolius).
17
3.3.3. Le risorgive
Situate per lo più ai margini dell’alveo, riforniscono, con la loro portata costante, il
bacino del Brenta. L’acqua che defluisce attraverso un complicato sistema di fossi,
ruscelli e rogge, crea le condizioni perché si sviluppino numerose entità specifiche; in
particolare, il crescione d’acqua (Nasturtium officinale) e la menta acquatica (Mentha
acquatica). Entrambe le piante sono conosciute per le loro proprietà aromatizzanti.
3.3.4. I prati
Riguardano i terreni ghiaiosi interessati eccezionalmente dalle “brentane”
(straripamento del fiume) e i prati spontanei presenti su depositi sabbiosi,
periodicamente inondati. I primi sono caratterizzati da bassi livelli di fertilità e minor
disponibilità d’acqua; oltre alle tipiche vegetazioni erbacee xerofile, che abbondano in
queste zone, è possibile incontrare il timo (Tymus serpyllum). I secondi, invece, hanno
un alto livello di fertilità e maggiore disponibilità d’acqua. La copertura erbacea è
caratterizzata da: avena altissima (Arrenatherum elatius), erba mazzolina (Dactylis
glomerata), fienarola dei prati (Poa pratensis), festuca falascona (Festuca
arundinacea) e gramigna (Agropyron repens) (Francescato, 2002). Oltre a queste
specie tipiche, in modo variabile, è possibile imbattersi nelle erbe d’interesse per
l’indagine, quali l’acetosa (Rumex acetosa), la cicoria (Cichorium intybus), il tarassaco
(Taraxacum officinale), le diverse varietà di piantaggine (Plantago lanceolata, P.
maior) e la salvia dei prati (Salvia pratensis). Lungo i sentieri o i margini delle strade,
che attraversano questi prati, caratterizzati dalla presenza di arbusti, come salici o
pioppi, trovano l’ambiente ideale per proliferare le piante della tradizione culinaria
come: il luppolo (Humulus lupulus), la dulcamara (Solanum dulcamara), la cespugliosa
rosa canina (Rosa canina), le diverse varietà di silene (Silene vulgaris, S. latifolia), e tra
l’erba alta l’acetosella (Oxalis acetosa).
18
3.4 Le risorgive e le zone umide del Cittadellese
Raggiunta la pianura, l’alveo del Brenta è scavato in terreni permeabili, formati dalle
antiche alluvioni ghiaiose-sabbiose. In questo modo si viene a formare un “materasso”
d’acque sotterranee che imbeve gli strati permeabili della pianura e che andrà ad
alimentare più a valle il sistema della risorgive (Abrami, 1984). Nel “materasso”
alluvionale, formato per la maggior parte da ghiaie che poggiano su strati impermeabili,
si crea una falda freatica ad una profondità di alcune decine di metri. Il sottosuolo
composto da ghiaie – e man mano che ci si allontana dalle Prealpi – da sabbie e infine
da strati argillosi, permette che, verso la media pianura, venga meno l’uniformità della
falda. In questo punto, le acque ritornano in superficie, creando la cosiddetta “fascia
delle risorgive”. Dalle risorgive hanno origine corsi d’acqua, che vanno a raccogliere,
non soltanto l’acqua sgorgante da altri fontanili situati più a valle, ma anche quella
superficiale, derivata dalle precipitazioni atmosferiche.
La zona a sud-est di Cittadella, sulla sinistra del Brenta, è particolarmente ricca di
questi fenomeni. Più a sud, ad Onara, esiste un’ampia depressione, dove si è
convogliato il fiume Tergola e altri corsi minori, chiamata Palude di Onara.
Le acque del fiume Tergola hanno accentuato l’erosione della coltre superficiale
della palude, mettendo in luce numerosi punti della falda freatica che alimenta le
risorgive. Per questo è comprensibile il fatto che i diversi tentativi di bonifica della zona
siano falliti.
La palude anticamente era circondata da una ampia foresta dominata dalla farnia
(Quercus robur) assieme a carpino bianco (Carpinus betulus), olmo (Ulmus minor),
frassini (Fraxinus excelsior e F. angustifolia), pioppi (Populus alba e P. nigra) e ai
margini dei canali e specchi d’acqua soprattutto ontano nero (Alnus glutinosa). Oltre a
queste entità spontanee, ormai ridotte ad un numero ridotto di esemplari, la vegetazione
arborea è oggi prevalentemente artificiale ed è composta soprattutto da pioppi ibridi e
acacie (Robinia pseudoacacia). Nel sottobosco è possibile trovare molte specie erbacee,
d’utilizzo alimentare, tipiche delle zone degradate come: il rovo (Rubus caesius),
l’ortica (Urtica dioica), la rosa canina (Rosa canina) e l’equiseto (Equisetum arvense)
(Abrami, 1984).
19
20
4. LE ERBE NELA TRADIZIONE CULINARIA VENETA
Il Sinistra Medio Brenta è un territorio tra fiumi e risorgive, ricco di una
vegetazione spontanea caratteristica della maggior parte della Pianura Padana: le
popolazioni rurali della zona, seppero sfruttare nel migliore dei modi ciò che offriva
loro la natura. Un esempio è la fitolacca (Phytolacca decandra), utilizzata per il colore
dei suoi frutti nella tintura dei tessuti. Alcuni coraggiosi si cibavano dei teneri germogli,
ma la pianta è da considerare velenosa per le sostanze tossiche che possiede (Mazzetti,
1987). Come la fitolacca, anche il topinambur (Helianthus tuberosus) è di importazione
americana. Di questa pianta si utilizza il tubero, come sostituto della patata, ricco di
inulina, ma in Italia il suo consumo non è molto radicato, anche se i territori marginali e
degradati della zona d’indagine sono ricchi di questa specie. Il sambuco (Sambucus
nigra), conosciuto con il nome sanbugàro, è un altro esempio di come la sapienza
popolare sfruttasse ogni virtù della natura. Questa pianta, diffusa in tutto il territorio, dai
margini di strada ai limiti del bosco, aveva molteplici usi: i fiori come ingrediente per le
frittelle, i frutti per confezionare marmellate e dolcetti, ma anche usati per via del loro
colore, nella tintura della lana ed altri tessuti. Con il legno del fusto o dei rami, invece,
poiché cavi all’interno, i ragazzini fabbricavano delle cerbottane con cui giocare
(Zampiva, 1999).
Il gastronomo Giuseppe Maffioli (1983) descrive il legame esistente tra i cibi
naturali e il trascorrere delle stagioni secondo il costume gastronomico veneto. Le
leggendarie minestre con le erbine di primavera, tipiche del periodo quaresimale, erano
condite con olio nei giorni di magro; in tutti gli altri giorni della settimana, invece, si
usava il brodo del bollito per le minestre (Maffioli, 1983). Le minestre, più frequenti del
risotto nelle tavole contadine, dato anche il ruolo meno depurativo per il periodo
quaresimale di questo ultimo, erano composte da un soffritto con olio, cipolla tritata
assieme all’aglio, oppure con pancetta, e anche prosciutto grasso, arricchito a volte con
del midollo di bue, nelle preparazioni di grasso. Giuseppe Maffioli (1983) descrive che
“sia per la preparazione di grasso che per quella di magro, i casi erano tre: o si
facevano insaporire nel soffritto le erbine primaverili; aggiungendo poi brodo o
acqua o si aggiungevano le erbine già sobbollite e con la loro acqua, o appassite
21
che fossero le erbine, si aggiungeva il riso, e come questo avesse assorbito gli umori
delle erbine si aggiungeva a poco a poco il brodo, mescolando sempre”.
Le erbe spontanee da utilizzare per tali minestre sono i bruscandoi (Humulus
lupulus), i schiocheti (Silene vulgaris) e le giovani ortiche (Urtica dioica). Con gli stessi
ingredienti si preparavano zuppe, preferendo ortiche, o una mistur a di silene (Silene
vulgaris) e rosoline (Papaver rhoeas), e persino pissacan (Taraxacum officinale),
quando non ha ancora il fiore, altrimenti troppo amaro. Se tali zuppe si confezionavano
senza fondo, allora era il cibo quaresimale per eccellenza, bollite nell’acqua e condite
con olio, aceto, sale e pepe, il tutto bollente versato sopra il pane (Maffioli, 1983).
Con l’avanzare della stagione primaverile, le donne si dedicavano alla raccolta delle
erbe: catarle su, curarle, còsarle e metarle su (Coltro, 1983). Lavate accuratamente si
lessano - se troppo amare per confezionare delle insalate crude - e, preparato il soffritto,
aggiungendo anche della pancetta, si fanno insaporire per bene, aggiustando di sapore.
Ecco pronte le erbe cote, ottime per accompagnare lessi, assieme alla radice di cren
(Armoracia rusticana) grattugiata, o per comporre torte salate assieme a formaggi
freschi, come la ricotta o la casatella trevigiana. A questo scopo, era abitudine
raccogliere i sbrusa-oci (Taraxacum officinale), che si trovavano in qualunque prato
erboso. Tutta la pianta era utilizzata: le foglie andavano lessate, mentre la radice veniva
tostata e macinata, per ottenere un surrogato del caffé. Senza contare l’apporto di nettare
che offriva il fiore alle api, da cui si otteneva un ottimo miele. Il medesimo utilizzo
veniva fatto della cicoria (Cichorium intybus) e del dente di leone (Leontodon hispidus)
e, nel caso in cui entrambi fossero scarsi, si aggiungevano foglie di strigoli (Silene
vulgaris) o del rosolaccio (Papaver rhoeas).
Nello stesso periodo venivano raccolti i teneri germogli degli asparagi selvatici
(Asparagus tenuifolius) e del luppolo (Humulus lupulus) per gustarli con uova o condirli
con olio, sale e pepe. Il veneziano Giacomo Castelvetro (1614), nel suo manoscritto
Brieve racconto di tutte le radici, di tutte le erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti che in
Italia si mangiano, segnala il consumo de’ lupuli e degli sparesi. Riguardo ai primi
scrive:
“[…] a cuocere in acqua con un poco di sale mettiamo; e, cotta, di là la
traemo, e ben bene sgocciolata in un piatto netto posta, con sale, con assai olio, con
22
poco aceto, od in suo luogo succo di limone, e un poco di pepe franto e non
polverizzato l’acconciamo, e inanzi pasto per l’insalata l’usiamo. Altri poi, bolliti
che hanno i lupuli gl’infarinano e in oglio gli friggono, e sopra vi sparono un poco
di sale, di pepe e succo di melaranci, e così con gusto se li mangiano”.
In riferimento agli asparagi consiglia:
“[…] Questi vengono d’alcuni mangiati crudi col sale e col pepe, ma, cotti e
acconci come de’ lupuli vango di dire, a me piacciono molto più. Altri di loro
pigliano i più grossi, e prima d’olio gli ungono bene, e poi, avendovi sparto alquanto
sale e pepe, sopra un tagliero gli rivolgono per quel sale impreparato, e così acconci
sopra la graticola ad arrostir gli mettono, et è un delicato mangiare, massime
spargendovi sopra sugo di naranzi […]”.
Per la stagione estiva, Castelvetro (1614), oltre alle primizie dell’orto, consiglia di
condire l’insalata di porcellana (Portulaca oleracea) con cipolla tritata e pepe, “che
sono come un antidoto contro alla di lei molta freddezza”.
Oltre alle classiche erbe cote, che sostituiscono le fresche insalate della primavera,
si raccoglie durante l’inverno il crescione d’acqua (Nasturtium officinale):
“[…] quando però non agghiaccino i grossi e piccoli ruscelli, la quale è assai
buona, […]. La quale erba nasce ne’ ruscelli d’acqua di fontana corrente e perciò è
rinfrescativa molto, e cruda si mangia”
(G. Castelvetro, 1614).
La cucina povera sopperiva, molte volte, con un saporito contorno alla scarsezza
del companatico, ed era la donna che si occupava di cercare, lavare, lessare e cuocere le
erbe (Coltro, 1983), perché era necessario molto tempo, mentre l’uomo si dedicava al
lavoro dei campi. La facilità con cui si ottenevano gustosi risotti, minestre e zuppe, era
data anche dalla semplicità degli ingredienti che si utilizzavano, qualche foglia di ortica
(Urtica dioica) o germoglio di luppolo (Humulus lupulus), ad esempio, oppure, chi non
aveva molta disponibilità di cibo si accontentava di una semplice insalata di cicoria, o
mistura di piantaggine (Plantago lanceolata, P. maior) e di rucola (Diplotaxis
tenuifolia), condita con lardo sciolto sul fuoco e un pizzico di sale.
23
24
5. LE PIANTE ALIMURGICHE DELLA S INISTRA M EDIO BRENTA
Nel territorio della Sinistra del Medio corso del Brenta, tra coltivi e incolti, dove la
vegetazione spontanea autoctona ma, come si è visto, anche “esotica”, ha trovato un
habitat ideale, è stato effettuato uno studio delle piante utilizzabili in cucina. Il territorio
dell’indagine è stato ristretto ai comuni dell’Alta Padovana attraversati dai fiumi Brenta
e Tergola.
Tra le piante selvatiche qui rinvenute sono state create delle schede che descrivono
le diverse specie alimurgiche, legate alla tradizione culinaria del Veneto.
L’individuazione, la catalogazione e la descrizione delle piante è avvenuta in base alle
conoscenze apprese da testi sull’argomento e da conoscenze personali, con lo scopo di
valorizzare piante spontanee, utilizzate per decenni dalla tradizione contadina ed ora
dimenticate, proponendole come ingredienti, che oltre a sostituire le specie coltivate di
oggi, offrono un valore culturale legato ai vantaggi di una cucina naturale e nutriente.
La scheda di ogni singola pianta sarà così composta:
1) Nome botanico (nome comune, n. scientifico, n. famiglia)
2) Nome popolare
3) Significato etimologico
4) Descrizione botanica
5) Specie rassomiglianti
6) Habitat
7) Utilizzo in cucina: cosa, quando si raccoglie
8) Ricette
9) Legami con tradizioni etno-botaniche
Ogni singola pianta descritta, inoltre, è presentata da una foto scattata nella zone
dell’indagine, con lo scopo di facilitarne l’individuazione (Appendice 1: Area e data di
ritrovamento delle piante selvatiche nel territorio della Sinistra Medio Brenta).
25
Acetosa
Rumex acetosa L.
Famiglia: Polygonaceae
Nome popolare:
Pan e Vin, Romice,
Erba brusca
Significato etimologico:
Rumex, di
derivazione latina, che significa
alabarda, indica la forma delle
foglie;
Acetosa,
dal
latino
acetum, in relazione al suo gusto
acidulo (Gallino 2001).
Descrizione botanica: Pianta
erbacea
perenne, con apparato rizomatoso-radicale ingrossato. Il fusto, rossastro e striato
longitudinalmente, può raggiungere un metro di altezza; ha la caratteristica di essere
poco ramificato ed all’interno è cavo. Le foglie basali sono spicciolate saettiformi o
astate ovalo-allungate, quelle superiori sono inserite sul fusto come una guaina. I fiori
maschili e femminili formano pannocchie slanciate.
Specie rassomiglianti:
In montagna, troviamo il Rumex alpinus, detto Rabarbaro alpino,
usato per le sue virtù antianemiche, diuretiche, lassative e depurative del fegato. A
differenza delle varietà presenti in pianura, il Rumex alpino è una megaforbia, cioè dalle
foglie larghe (Gallino, 2001). In pianura si mangiano ugualmente il R. scutatus L., il R.
acetosa L., il R. obtusifolius D.C. (Mattirolo, 1918). Non trova nessun impiego culinario
la Rumex conglomeratus Murray, conosciuta come “lengua de vaca” (Rodato, 1989). La
varietà coltivata, R. hortensis, è caratterizzata dal suo minor sapore acidulo e
aggressivo, perché non contiene altrettanti ossalati quanto quella spontanea (Indrio,
1981).
26
Habitat:
Vive e prospera in tutte le altitudini, prediligendo prati incolti, corsi d’acqua e
margini delle strade.
Utilizzo in cucina:
Le giovani foglie vengono usate sia crude, in insalate, assieme ad altre
specie, per lenire il gusto acidulo, sia cotte in minestroni e frittate. Essendo una pianta
perenne, la raccolta può avvenire per tutto l’anno (Indrio, 1981). Ricca di carboidrati,
vitamina A e C, e sali minerali (Gallino, 2001), tra cui acido ossalico, biossalato di
potassio e acido tartarico (Rodato, 1989). Per la presenza dei suoi componenti va usata
con moderazione dai soggetti con problemi di calcoli biliari e artriti (Indrio, 1981). Per
il suo sapore particolarmente acidulo, l’acetosa ha ricoperto nell’antichità il ruolo di
spezia (Indrio, 1981). Usate per salse agrodolci, o assieme agli spinaci, per insaporirli.
Tritate e miste a burro per tartine e col formaggio per salsette (Lanzani, 1989).
Ricette:
Risotto d’erba brusca
Rosolare in poco burro le foglie tagliuzzate
finemente, aggiustare di sapore. In una
casseruola, tostare il riso, con della cipolla
tritata. Versare il vino e farlo evaporare. A
questo punto, allungare con il brodo
bollente e portate a cottura, sempre
mescolando. Mantecare con il parmigiano e
il burro, e servirlo.
300 gr di riso
1 manciata di foglie di acetosa
1 manciata di foglie di piantaggine
Brodo vegetale
Sale e pepe
½ bicchiere di prosecco
Parmigiano grattugiato
Burro e olio
Crema di acetosa
Rosolare il porro tagliato finemente con il
burro. Unire le patate tagliate a pezzetti e la
farina, e versare tutto il brodo. Insaporire.
Lasciare cuocere per 30 minuti. A questo
punto aggiungere le foglie di acetosa e
farinaccio tagliate a pezzi, e cuocere per 10
minuti. Passare il tutto al passaverdura.
Rimettere il composto sul fuoco per 5
minuti e aggiungere il latte. La crema dovrà
risultare densa e saporita. Servire con
crostini di pane.
2 mazzetti di foglie di acetosa
3 patate
1 porro
2½ l di brodo
1 manciata di farinaccio
1 bicchiere di latte
1 cucchia io di farina
Burro
Noce moscata
Sale e pepe
27
Legami con tradizioni etno-botaniche:
I fusti dell’acetosa venivano masticati dai bambini,
invece le foglie strofinate sulla pelle urticata da ortiche o punture di insetti, per lenire il
fastidio. Nei territori di origine germanica della Lessinia, la Rumex acetosa, era
conosciuta con il nome di Smaltz Lòpar, letteralmente foglie per il burro, adoperate dai
malgari per avvolgere il loro burro e mantenerlo fresco (Zampiva, 1999).
28
Acetosella
Oxalis acetosella L.
Famiglia:
Oxalidaceae
Nome
popolare:
Pan
cuch,
Panevea, Pan de Frate
Significato
etimologico:
Oxalis,
composto dalle parole greche
oxys e hals, indica l’elevata
quantità
di
acido
ossalico
presente nelle foglie, che ne
determina il gusto.
Descrizione botanica: Pianta
erbacea
perenne, non più alta di 20 centimetri. Le foglie sono costituite da un lembo composto
da 3 foglioline cuoriformi. Hanno la caratteristica di ripiegarsi in due verso il picciolo,
quando scende il tramonto. I fiori sono bianchi con venature rosa-porporino, e
presentano 5 petali.
Specie rassomiglianti:
L’Oxalis corniculata e l’Oxalis striata, entrambi riconoscibili per i
fiori gialli, e la prima per le foglie tendenti al porpora. Non è stato riscontrato nessun
caso di utilizzo alimentare (Rodato, 1989).
Habitat:
Predilige il sottobosco umido, fresco e ombroso. La troviamo dalla pianura alla
fascia montana.
Utilizzo in cucina:
Le foglie raccolte durante la primavera e l’estate, sono caratteristiche
per il loro sapore acidulo. Contengono vitamina B, acido ascorbico, mucillagini,
pectina, acido ossalico con i suoi sali (Lazzarini, 2008). Il biossalato di potassio e
29
l’acido ossalico contenuto nelle foglie sono sostanze irritanti che possono provocare
intossicazioni con diarree emorragiche e blocco dei reni (Rodato, 1989). Vengono
aggiunte alle insalate - con moderazione - per esaltarne il gusto e, in funzione di spezia,
ad arrosti e stufati.
Ricette:
Salsa agrodolce all’acetosella
2 cucchiai di burro
2 cucchiai di cipolline tritate fini
3 cucchiai di farina
1/3 di litro di brodo di carne
1 cucchiaio di zucchero
1 cucchiaio di aceto di vino
1 pugno di foglie e bulbi di acetosella
4 cucchiai di panna
il tutto di farina, a fuoco basso, e mescolare
finché non si sia amalgamata. Aggiungere il
brodo, lo zucchero, l’aceto e portare il tutto
a ebollizione. Cuocere a fuoco molto basso
finché la salsa non è ben amalgamata e
cremosa. A questo punto, passare la salsa,
con l’aiuto di un colino, spremendo più
succo possibile dalle cipolle. Rimettere la
salsa nella pentola ed aggiungere la
acetosella tritata e la panna. Riscaldare a
fuoco basso; aggiustare di sapore, e servire
con carne bollita.
Sciogliere il burro in una pentola e
soffriggere le cipolline nel burro, finché
non prendono un colore dorato. Spolverare
foglie, per ottenere un estratto. A parte,
mescolare lo yogurt con il sale, il pepe, lo
zucchero e 4 cucchiai del succo di
acetosella. Amalgamare bene il tutto.
Aggiustare di sapore, e se necessario
aggiungere ancora del succo di acetosella o,
se si preferisce delle foglioline di acetosella
tritate fini, in modo da risaltarne il sapore.
Questa salsa può essere servita con della
carne o dell’insalata.
Salsa di acetosella e yogurt
2 pugni di acetosella tritati
0,25 l di acqua
0,25 l di yogurt
2 cucchiai di zucchero
Sale e pepe
Lavare le foglie di acetosella e tritarle
finemente. Cuocere in acqua bollente le
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Per chi lavorava in campagna, era abitudine succhiare
le foglioline come dissetante (Lanzani, 1989).
30
Asparago selvatico
Asparagus tenuifolius Lam.
Famiglia: Liliaceae
Nome popolare:
Sparasine, Sparesi
selvareghi
Il termine
Significato etimologico:
Asparagus, di origine greca, ha
diverse
pieno
lacerare,
etimologie:
di
sugo;
riferito
spargan,
sparasso,
alla
forma
appuntita dei turioni; a-speiro,
senza semina, perché si diffonde
facilmente per via vegetativa
(Gallino, 2001).
Descrizione botanica:
Pianta erbacea perenne, con apparato radicale rizomatoso, da cui, in
primavera, sorgono i germogli commestibili; questi ultimi, se non raccolti, daranno
origine ai fusti ramificati, con cladodi lunghi 20-30 mm, presentando un aspetto
cespuglioso. In giugno compaiono i fiori, di minuscola dimensione, a forma
campanulata con petali bianchi rigati di verde (Rodato, 1989). A maturità, i frutti,
diventano bacche rosse e carnose, provviste di pochi semi neri (Lonardoni e Lazzarini,
1992).
Specie rassomiglianti:
La varietà coltivata, Asparagus officinalis, deve la sua diffusione
all’interesse che avevano i romani per questo vegetale. Infatti, furono loro a effettuare
una selezione tra le varietà selvatiche, tra cui A. acutifolius e l’A. tenuifolius. Le diverse
varietà, si distinguono per il loro habitat di diffusione: A. officinalis vegeta in aree
31
umide con terreni freschi e sabbiosi, invece l’A. acutifolius necessita di boschi della
fascia mediterranea.
Habitat:
Asparugus tenuifolius predilige boschi termofili, situati in zone esposte e calde
con substrato acido (Gallino, 2001).
Utilizzo in cucina:
I turioni, dal latino turio, getto, gemma (Gallino, 2001), raccolti in
primavera, vengono consumati nel medesimo modo della varietà coltivata. Vengono
impiegati quale ingrediente di frittate, sughi, risotti o semplicemente lessati, conditi con
“sae, pevaro, oio e axeo” e accompagnati da uova sode.
Ricette:
Sparesi coi ovi
4 manciate di asparagi selvatici
4 uova sode
Olio extravergine d’oliva
Aceto di vino
Sale e pepe
Rassodare le uova, quindi metterle su un
piatto, e dopo averle sbucciate, romperle
con una forchetta, tritandole finemente ed
unendo olio, aceto, sale e pepe.
Amalgamare bene il tutto, fino ad ottenere
una salsa. Condire gli asparagi con la salsa
e servirli.
Lessare i giovani turioni in acqua salata,
sarebbe consigliabile una cottura a vapore.
Soufflé di formaggio e asparagi
150 gr di Asiago DOP dolce
3 uova
150 gr di asparagi selvatici
½ l di besciamella
Pangrattato
Sale e pepe
turioni lessati degli asparagi selvatici.
Salare e pepare, e lasciare raffreddare il
tutto. Incorporare al composto un tuorlo alla
volta e successivamente gli albumi montati
a neve. Versare l’impasto in uno stampo
imburrato e cosparso di pangrattato.
Cuocere in forno a 180°C per 30 minuti.
Servire come antipasto.
Unire alla besciamella, ancora tiepida, il
formaggio Asiago tagliato a dadini e i
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Gli “Sparesi coi ovi”, consumati nel periodo pasquale,
è ormai una tradizione culinaria veneta. L’azione diuretica dell’asparago, conosciuta già
dagli antichi, permette una depurazione dell’organismo e grazie, anche, alla presenza di
vitamine (A, B1, B2, C e PP), di sali minerali come ferro, fosforo, magnesio, boro,
32
cobalto, potassio, rame e selenio e l’importante contenuto di asparagina, colina,
asparagosi, arginino e pirotechina (Gallino, 2001) risulta essere un ottimo integratore
alimentare.
33
Cicoria
Cichorium intybus L.
Famiglia: Compositeae
Nome popolare:
Sicoria, Indìvia,
Andìvia
Significato
etimologico:
Questa
pianta, grazie alle sue proprietà
terapeutiche, era utilizzata già ai
tempi degli egizi, infatti si trova
citata nel papiro di Erbes, uno
dei
più
dell’epoca
antichi
(Da
documenti
Broi,
2005).
L’utilizzo diffuso della cicoria
nel mondo antico è riconducibile anche dalla somiglianza dei termini con cui i popoli
dell’area mediterranea la denominavano: il latino Plinio riporta il nome cicoria, i greci
Teofrasto e Dioscoride kikhoreia (Gallino, 2001).
Descrizione botanica: Pianta
erbacea bienne-perenne (Lazzarini, 2008). Il fusto eretto, cavo,
flessuoso e ruvido per la presenza di peli setolosi, può raggiungere l’altezza di 100
centimetri. La radice fittonante e carnosa, utilizzata tostata come surrogato del caffè, si
presenta biancastra all’interno e bruniccia all’esterno. La cicoria è riconoscibile per i
suoi rami ampiamente divaricati, con capolini sessili, che si chiudono di notte e quando
piove (Gallino, 2001). I fiori di colore azzurro, consentono una facile identificazione
della pianta da luglio a settembre. Dall’autunno alla primavera, sono presenti le foglie
basali a rosetta, dalla forma allungata- lanceolata con una dentellatura più o meno
marcata.
34
Specie rassomiglianti:
Nel periodo primaverile, ancora quando la pianta non è sviluppata,
può essere confusa con il Taraxacum officinale W. data la somiglianza della rosetta
basale ma, a differenza del tarassaco, la cicoria presenta delle nervature rossicce sulle
foglie.
Habitat:
Si trova facilmente ai bordi delle strade o lungo sentieri erbosi. Vive e prospera
in tutte le altitudini e latitudini, prediligendo terreni calcarei, argillosi e asciutti (Da
Broi, 2005).
Utilizzo in cucina:
Le foglie, raccolte nella primavera, sono utilizzate nelle misticanze, nei
risotti, nelle frittate o nelle torte salate. Le foglie bollite ed aggiunte ad altre specie,
Taraxacum officinale W., Silene vulgaris (Moench) Garcke (Rodato, 1989), e
completate con dell’olio extravergine di oliva ed aglio, risultano un ottimo contorno per
carni lessate. La cicoria, sia le foglie che le radici, presenta proprietà toniche, depurative
e blandamente lassative (Gallino, 2001).
Ricette:
Cotechino con le erbe cote
2 cotechini
1 kg di erbe miste (Cicoria, Tarassaco,
Silene)
Cipolla
Aglio
Burro
Sale e pepe
Cuocere i cotechini in acqua fredda e
portarli ad ebollizione. Cuocerli per circa
tre ore a fuoco basso. Mondare e lavare le
erbe raccolte. Lessarle in acqua salata.
Soffriggere sul burro la cipolla e l’aglio
tritati assieme. Aggiungere le erbe e
lasciarle insaporire, aggiustando di sapore
con del sale e del pepe. A cottura ultimata,
accompagnare i cotechini con le erbe
insaporite.
Sformato di cicoria
1 kg di cicoria
2 uova
½ l di besciamella
Burro
Sale e pepe
Lessare la cicoria in acqua bollente salata.
Scolarla, strizzarla il più possibile, tritarla
grossolanamente e insaporirla in un tegame
con del burro. Versare in una ciotola le
verdure, le uova sbattute con sale e pepe.
Amalgamare il tutto, e aggiungere la
besciamella. Versare il composto in uno
stampo imburrato. Cuocere in forno per 45
minuti a 180°C.
35
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Fonti storiche fanno risalire l’uso alimentare della
cicoria al 1751 (Aa.vv., Les Salades Sauveges, 1998); fino ad allora il suo utilizzo era
limitato alla farmacopea. La radice tostata e macinata, e usata in infusione, per ottenere
un surrogato del caffè, o addirittura per falsificare, “t agliare”, la miscela di caffè è
attestata dal XVIII secolo, in Olanda. Il caffè di cicoria non presenza caffeina (Da Broi,
2005), e perciò negli ultimi anni attrae coloro che cercano un caffè decaffeinato
naturale. Questa pianta iniziò a coprire un interesse botanico dal XVII secolo, quando, a
seguito di incroci con altre varietà, si iniziò ad ottenere i progenitori delle varietà di
radicchio attuali (Da Broi, 2005).
36
Crescione d’acqua
Nasturtium officinale R. Br.
Famiglia: Cruciferae
Nome popolare: Grassòn,
Significato etimologico:
Strusso
Nasturtium,
dal latino nasus, naso e tortus,
torto, indica il particolare odore
acre della pianta. Crescione, dal
francese creisson, in riferimento
al fatto che la pianta si sviluppi,
de créisser, quando le altre
specie non vegetano ancora per il
freddo (Aa.vv., Les
Salades
Sauveges, 1998).
Descrizione botanica:
Pianta erbacea perenne con fusti prostrati o ascendenti, che
raggiungono circa i 60 centimetri di lunghezza, caratterizzati da nodi inferiori radicanti.
Le foglie sono pennatosette formate da 2-3 paia di segmenti laterali, ovali con apice
ottuso, e uno apicale, tondeggiante e più grande. Da aprile a luglio, compaiono piccoli
fiori ascellari a quattro petali bianchi. Il frutto, una siliqua lineare, contiene numerosi
semi alveolati.
Specie rassomiglianti:
La Cardamine amara L. vive negli stessi ambienti del crescione, ed è
molto simile a questo ultimo. Si differenzia per il sapore decisamente amaro, rendendola
sgradevole a un possibile uso come ingrediente in cucina (Gallino, 2001), e per la
numerosità maggiore delle foglioline, oltre all’antere violacee dei fiori (Lanzani, 1989).
In alcuni casi, oltre alla Cardamine amara L. vengono usati indifferentemente come
sostituitivi la Veronica Beccabunga L. (Rodato, 1989) e il Lepidium sativum L.
37
(Lanzani, 1989). Entrambi non sostituiscono il caratteristico sapore piccante e aromatico
del crescione.
Habitat: Sorgenti
e ruscelli creano l’ambiente ideale per questa pianta acquatica. L’acqua
deve essere limpida e avere un flusso lento e continuo. Il fatto di trovarsi vicino a corsi
d’acqua deve mettere in allerta chi si accinge a raccoglierla. Infatti, si deve fare
attenzione alla salute ambientale del luogo in cui si trova, come le presenza di
discariche o di ampie e diffuse coltivazioni.
Utilizzo in cucina:
Per tutto il periodo primaverile si possono cogliere i getti fogliari del
crescione. Solitamente vengono usati crudi, in modo da non perdere il caratteristico
piccante e tutte le proprietà nutrizionali della pianta. Oltre ad arricchire una semplice
insalata, il crescione, se tritato, può valorizzare salse, formaggi e burro per tartine e
antipasti. Per anni, è stato un rimedio contro lo scorbuto, data la presenza rilevante di
sali minerali e vitamine, A, B6 , C e PP (Gallino 2001), oltre a carboidrati, proteine e
glucosidi solforati. Per la presenza dei suoi componenti va usata con moderazione dai
soggetti con disturbi urinari cronici (Gallino, 2001).
Ricette:
Minestra di crescione
250 gr di foglie di crescione
100 gr di riso
1 patata
1 uovo
1,5 l di brodo
Sale e pepe
Rosolare in poco burro le foglie tritate del
crescione e le patate tagliate a fettine sottili.
Aggiungere il brodo e portare ad
ebollizione. Versare il riso, salare e pepare.
A cottura ultimata aggiungere il tuorlo
d’uovo, mescolare e lasciare riposare per
qualche minuto prima di servire.
Crescione con pinoli e nocciole
4 cucchiai di pinoli
4 cucchiai di nocciole tritate
400 gr di crescione, tritato fine
100 gr di pancetta tagliata a cubetti
Olio extravergine d’oliva
Aglio
Sale e pepe
Scaldare l’olio in una padella con un paio di
spicchi d’aglio. Dopo due minuti togliere
l’aglio, quindi dorare nell’olio i pinoli e le
nocciole. Aggiungere la pancetta e il
crescione. Aggiustare di sapore. Può
accompagnare della carne bollita o arrostita,
o mangiata semplicemente con dei crostini
come antipasto.
38
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Nell’antichità, il crescione era considerato un ottimo
medicinale e usato come ingrediente nelle farmacie. Contro tossi e bronchiti bisognava
ricorrere al succo verde del crescione mescolato con del latte tiepido. Era considerato,
inoltre, un ottimo cosmetico che curava malattie della pelle e dava rimedio alla caduta
dei capelli (Zampiva, 2000). Il crescione utilizzato crudo, oltre a fornire i benefici
precedentemente descritti, è un pericoloso veicolo di trasmissione della Fasciola
epatica. Questa larva, infatti, trova riparo tra le foglie del Nasturtium officinale dopo
essere stata espulsa con le feci dall’intestino degli ovini (Gallino, 2001). Se ingerita
dall’uomo, la larva cercherà di raggiungere i canali biliari, provocando la distomatosi
epatica (Rodato, 1989).
39
Dente di leone
Leontodon hispidus L.
Famiglia: Compositae
Nome
Radicée,
popolare:
Cassemorte (Mazzetti, 1987)
Significato etimologico:
Dal greco
leon, leontos e odous, odontos:
dente di leone; si riferisce alla
caratteristica forma dentata delle
foglie (Mazzetti, 1987), anche se
non in tutte le varietà è così
marcato.
Descrizione botanica:
Pianta erbacea perenne con rizoma profondo e robusto. Le foglie,
riunite a rosetta, sono dentate-sinuate a base stretta e lobi acuti rivolti in avanti. Molto
evidenti i fiori gialli, che appaiono da luglio ad agosto, tutti con corolla ligulata
(Mazzetti, 1987).
Specie rassomiglianti:
Le molteplici varietà di questa specie possono essere utilizzate
indistintamente in cucina, dato il poliformismo della pianta, che crea caratteri
morfologici propri per ogni nicchia ecologica. Il Leontodon hastilis L. è indicato da O.
Mattirolo (1918), mentre P. Boni (1986) predilige il Leontodon taraxacoides Vill.,
distinguibile per la colorazione rossa di alcune foglie, e menzionando, inoltre, le varietà
L. hirtus Vill., differenziabile dal primo per una roncinatura maggiore delle foglie e L.
autumnalis L., varietà più tardiva e con foglie frastagliate. Oltre all’aspetto botanico
della pianta, è necessario prestare attenzione alla sua denominazione comune: dente di
leone. Molti autori, infatti, designano con questo nome il Taraxacum officinale W., che
40
si differenzia in modo evidente dal Leontodon per le foglie maggiormente roncinate e
pennatifide e per lo stelo floreale cavo (Mazzetti, 1987).
Habitat:
Specie diffusa in tutti i prati erbosi del territorio o lungo greti sassosi di fiumi e
di torrenti.
Utilizzo in cucina:
Le rosette basali raccolte in primavera, più tardi induriscono e non sono
più adatte allo scopo (Mattirolo, 1918), costituiscono la base per una buona insalata da
arricchire con altre specie: Silene vulgaris (Moench) Garcke e Papaver rhoeas L.
(Rodato, 1989) o Diplotaxis tenuifolia DC.. Tutte le varietà del Leontodon possono
venire lessate, come la Catalogna (Boni, 1986).
Ricette:
Insalata di dente di leone
200 gr di foglie di dente di leone
5 radici di dente di leone
0,25 l di yogurt
2 cucchiai di succo di limone
2 cucchiai di zucchero
Sale e pepe
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Pulire le foglie e le radici dalla terra.
Grattare le radici, senza pelarle, tagliarle a
dischetti sottili. In una ciotola versare lo
yogurt, insieme al limone e gli altri
ingredienti. Amalgamare il tutto finché
risulti una salsa omogenea. Servire la salsa
assieme all’insalata di dente di leone.
La varietà Leontodon taraxacoides Vill. ha la
caratteristica di comparire tra i prati da giugno fino alle prime brinate. Decenni fa, non
era insolito vedere il dente di leone trapuntare tutto il prato dopo la falciatura con il suo
colore giallo accesso. In quel periodo, si era soliti a raccoglierli e grazie alla sua
abbondanza, una volta lessate, nonostante il forte calo voluminoso che ha l’erba durante
la cottura non destava problemi, e permetteva una significativa dose di erbe cote pronte
da condire (Boni, 1986).
41
Equiseto
Equisetum arvense L.
Famiglia: Equisetaceae
Nome
Camossìne,
popolare:
Codamussina, Coa de mussa
Significato etimologico:
Dai rami
sottili che caratterizzano questa
specie e dalla sua forma deriva il
nome equiseto, dal latino equus,
cavallo e seta, setola, crine
(Dalla Fior, 1969).
Descrizione botanica: Pianta
erbacea
perenne con rizoma ramificato e strisciante. Il rizoma emette fusti fertili, di colore
rossiccio, riconoscibili per la presenza di una spiga portante le sporangi, e fusti sterili, di
colore verde e ramificati (vedi foto).
Specie rassomig lianti:
Esistono diverse varietà: E. maximum Lam., riconoscibile per i fusti
sterili alti fino ad un metro, e di circonferenza maggiore; E. palustre L., che porta spighe
fertili su fusti verdi, ma è sconsigliata la sua raccolta perché contiene sostanze tossiche
(Boni, 1986). Come si evince dal nome, questa varietà si trova specialmente nelle
paludi.
Habitat:
L’equiseto vive e prospera in tutti i terreni umidi, lungo argini di fossi e fiumi,
senza distinzione per l’altitudine.
Utilizzo in cucina:
L’interesse gastronomico per questa primordiale pianta ricade sui fusti
fertili che devono essere raccolti da febbraio a marzo (Lazzarini, 2008). Per il suo alto
42
contenuto di silice e di altri sali minerali (potassio, manganese, magnesio) è utile per
arricchire una dieta povera di questi elementi, ma si consiglia di utilizzarla cotta,
altrimenti sarebbe troppo coriacea in bocca. I fusti fertili, utilizzati come i germogli
dell’Asparagus tenuifolius e dell’Humulus Lupulus, si sbollentano e poi si gratinano con
pangrattato, sale, prezzemolo tritato e olio, o inseriti in zuppe, nelle minestre di legumi
o mangiate semplicemente condite con dell’olio e del succo di limone (Lazzarini, 2008).
Ricette:
Frittata con equiseto
4 germogli di equiseto
6 uova
6 cucchiai di latte
Sale e pepe
30 gr di parmigiano
troppo sodi. Uniteli ai tuorli e condite con
sale e pepe. Versate tutto in una teglia, e
ponete su fuoco basso. Appena inizia a
dorarsi il fondo della frittata, aggiungete i
germogli lessati tagliati a rondelle e il
formaggio parmigiano. Mettete in forno e
cuocere per 10 minuti. È possibile
insaporire con dell’erba cipollina o della
salvia dei prati.
Separate il tuorlo dalla chiara delle uova e
battete i tuorli aggiungendovi anche il latte;
montate gli albumi a neve, ma non fateli
Legami con tradizioni etno-botaniche:
I fusti sterili, non utilizzati in cucina, hanno proprietà
fitoterapiche. Godono, infatti, di azione diuretica-depurativa, antiemorragica e
remineralizzante. Grazie alle sue particolari foglie, ricche di squame ispide ed abrasive,
e il loro alto contenuto di silice, le massaie si servivano della coa de mussa per lucidare
paioli e secchi di rame, mentre gli artigiani la usavano per levigare legni pregiati
(Zampiva, 1999).
43
Farinaccio selvatico
Chenopodium album L.
Famiglia: Chenopodiaceae
Nome
Farinassi,
popolare:
Spinacio salvadego, Peche de
oca (Rodato, 1989)
Significato etimologico:
Il genere
Chenopodium prende il nome
per la sua caratteristica forma
della foglia a “piede d’oca”, dal
greco chen, oca, e pus, piede. In
particolare, il C. album L. è
distinguibile per la colorazione
biancastra delle foglie, come indica il suo nome.
Descrizione botanica:
Pianta erbacea annua, con foglie ovato-bislunghe od ovato-
romboidali (Dalla Fior, 1969), di aspetto biancastro, per la presenza di pruina
(Lazzarini, 2008). Il fusto eretto può raggiungere l’altezza di 180-200 centimetri. I fiori
verdastri, che compaiono da luglio a settembre, sono raccolti in glomeruli riuniti in
pannocchie (Rodato, 1989).
Specie rassomiglianti: Il
C. album L. è una specie polimorfa, ma è facile imbattersi in una
specie, la Chenopodium vulvaria L., denominata erba puzzolona (Boni, 1986), che non
trova nessun impiego in cucina, il nome ne spiega il motivo. In altre altitudini, è
possibile raccogliere C. foliosum Ashers (=C. virgatum Ambr.), detto “Spinacio
frugifero”, diffuso nella Val Gardena, a 2400 metri (Dalla Fior, 1969); C. bonushenricus L., usato alla stregua dello spinacio dai malgari del Monte Grappa (Rodato,
1989), e riconoscibile per le grandi foglie lanceolate.
44
Habitat:
Il farinaccio sembra abbia una predilezione per i campi coltivati a patate (Boni,
1986), ma non disdegna incolti, terreni sabbiosi e margini delle strade.
Utilizzo in cucina:
In primavera, si raccolgono le giovani piantine, nell’estate sono da
preferire le foglie più tenere. Il C. album è possibile usarlo nelle misticanze crude, ma è
consigliabile lessarlo, aromatizzando con origano e timo (Boni, 1986), e utilizzarlo
come ingrediente sostitutivo dello spinacio nelle diverse preparazioni: nei ravioli o nei
cannelloni di magro, mescolato con della carne macinata per polpette, nelle torte salate
o con dell’erba cipollina nella frittata. L’autrice A. Lanzani (1989) propone una farina
ottenuta dai semi del farinaccio, sostenendo che siano ricchi di proteine (20%) e di
carboidrati (40%), oltre ad importanti oligoelementi (calcio, potassio, manganese, sodio,
ferro e zinco). Le giovani pianticelle contengo vitamine B e C, acidi organici,
aminoacidi e oligoelementi (Lazzarini, 2008).
Ricette:
Gnocchi di farinaccio
400 gr di foglie di farinaccio
200 gr di ricotta fresca
4 uova
Farina integrale
Noce moscata
Sale e pepe
Triturare le foglie precedentemente lessate.
Incorporarle alla ricotta, aggiungendo sale,
pepe e noce moscata. Amalgamare il tutto,
incorporando le uova e la farina, quanto
basta per ottenere una pasta soffice e
leggera. Cuocere in acqua salata gli gnocchi
ottenuti, e servirli conditi con burro fuso e
formaggio grattugiato.
Polpette al farinaccio
400 gr di carne di maiale e di manzo bollite
200 gr di farinaccio
2 uova
1 patata lessata
50 gr di mortadella
1 cipolla
Pane grattugiato
Olio extravergine d’oliva
Sale e pepe
Tritare la cipolla e rosolarla con dell’olio.
Aggiungere il farinaccio e portarlo a
cottura. Amalgamare in una ciotola la carne
bollita macinata con la mortadella, la patate
e le erbe tritate, il tutto con le uova.
Formare delle polpette e cospargerle di
pangrattato. Cuocerle in olio con qualche
foglia di Salvia pratensis L..
45
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Le popolazioni dei colli asolani utilizzavano le foglie e
le sommità fiorite del farinaccio, come paston par e gaine ritenuto lassativo e
rinfrescante per questi animali (Rodato, 1989). Allontanandoci dal nostro continente, e
approdando in America, da 5000 anni i semi del Chenopodium album L., o con
maggiore probabilità del C. quinoa Willd. (Saltini, 1996), sono macinati dai popoli
precolombiani per ottenere farina panificabile (Lanzani, 1989).
46
Luppolo
Humulus lupulus L.
Famiglia: Cannabaceae
Nome
popolare:
Bruscandoi,
Bruscàndo’i (Mazzetti, 1987)
Significato etimologico: diverse
sono
le interpretazioni del termine
humulus: dal latino humus, terra,
per
indicare
generalmente
l’aspetto prostrato della pianta
(Gallino, 2001); per la posizione
a terra dei fusti qualora non
trovino un sostegno, intorno al
quale avvolgersi (Dalla Fior, 1969); per la predilezione che ha dei luoghi umidi
(Lanzani, 1989). Incerta, inoltre, è l’origine del termine, si sostiene che abbia una
provenienza scandinava, humall (Gallino, 2001). La provenienza del termine lupulus è
riconducibile ad un’espressione di Plinio – lupus salictarius- per descrivere questa
specie come erba cattiva, che invade e soffoca le piante coltivate (Gallino, 2001).
Descrizione botanica:
Piante rampicante perenne, dioica, con germogli teneri, fragranti e di
sapore amarognolo. Il fusto si presenta striato, ramoso, coperto di peli rigidi e ricurvi
(Dalla Fior, 1969), con avvolgimento destrorso (Gallino, 2001). Le foglie sono dentate
al margine con forma palmato-lobata costituite da tre lobi ovalo-ellettici profondi. Le
piante maschili presentano numerose infiorescenze a pannocchia con fiori biancogiallini. Nelle piante femminili, invece, si trovano dei coni ovo idali, costituiti da brattee
fogliacee giallastre. Alla base delle brattee si trova una sostanza resinosa amarognola: la
luppolina (Mazzetti, 1987).
47
Specie rassomiglianti:
Tra le siepi lungo i fossi è facile imbattersi in una specie annua meno
pregiata: Humulus scadens, di origine asiatica, riconoscibile per la foglia verde chiaro e
divisa in 5 lobi acuti e profondi (Lanzani, 1989). I giovani getti dell’H. lupulus possono
essere confusi con quelli del Tamus communis L., il tamaro. Molti autori sconsigliano il
loro uso in cucina (Gallino, 2001; Lanzani, 1989), perché tossico; altri consigliano
solamente l’utilizzazione dei germogli, consumati lessati come le sparasine e i
bruscandoi, evitando i frutti e le radici, perché irritanti a livello gastrico- intestinale
(Mazzetti, 1987; Lazzarini, 2008). Il Tamus è riconoscibile per le foglie cuoriformi, di
un verde lucente, e i frutti globulosi, rossi e riuniti in grappolini penduli (Lanzani,
1989).
Habitat:
Cresce nei boschi umidi, soprattutto quelli di salice (Gallino, 2001), lungo i
fiumi e nei margini dei campi incolti.
Utilizzo in cucina:
I germogli primaverili possono essere lessati in acqua, conditi con olio
extravergine, sale e succo di limone, oppure si gratinano nel forno con pangrattato, sale,
prezzemolo ed aglio (Lazzarini, 2008). Altrimenti, arricchiscono frittate, risotti e
minestre (Rodato, 1989). Le infiorescenze femminili vengono utilizzate per
aromatizzare la birra. La luppolina, infatti, presente sulle ascelle delle brattee fogliacee
donano il caratteristico sapore amaro alla birra. Si racconta che i monaci, oltre ad usare
il luppolo per aromatizzare la birra, lo utilizzassero per le sue proprietà anafrodisiache,
vista la presenza di estrogeni (Gallino, 2001).
Ricette:
Frittata con bruscàndo’i
300 gr di germogli di luppolo
1 cipolla
6 uova
Olio
Sale e pepe
Burro
Soffriggere la cipolla tritata con l’olio di
oliva extravergine. Saltare e insaporire i
bruscàndo’i. Sciogliere il burro in un
padellino e versarsi le uova sbattute.
Amalgamare in cottura i germogli e cuocere
la frittata.
48
Risotto alle erbe
300 gr di riso
50 gr di germogli di luppolo
50 gr di foglie di ortiche
1 cipolla
1 bicchiere di prosecco
Brodo vegetale
Burro
Parmigiano grattugiato
Sale e pepe
Legami con tradizioni etno-botaniche: In
Rosolare la cipolla tritata nel burro.
Aggiungere il riso e farlo tostare. Quindi
versare il prosecco e lasciarlo evaporare.
Incorporare le erbe cotte precedentemente
in acqua salata e tritate grossolanamente.
Continuare la cottura del risotto con
l’aggiunta del brodo. Aggiustare di sapore,
e a cottura ultimata mantecare con del
formaggio parmigiano.
campagna, non era inusuale la produzione di birra tra
le famiglie contadine, che utilizzavano come ingredienti ciò che riuscivano a produrre e
a raccogliere. F. Zampiva riporta la ricetta nel suo Erbario Veneto (Egida, 1999):
“In tre litri di acqua far bollire per alcuni minuti due manciate di fiori di
luppolo con due pugni di orzo, lasciare raffreddare, filtrare e aggiungere due, tre
cucchiai di zucchero. Far nuovamente bollire quindi porre in bottiglie e lasciar
riposare per almeno una settimana prima di bere”.
Con le infiorescenze, oltre ad essere utilizzate per la produzione della birra, anche
quella casalinga, era tradizione confezionare dei cuscini per migliorare il sonno (Da
Broi, 2005), o una tisana contro l’insonnia (Gallino, 2001), visto le proprietà sedative e
calmanti della luppolina.
49
Malva
Malva silvestris L.
Famiglia: Malvaceae
Nome popolare: Nalba
Significato
etimologico:
Pianta
selvatica, silvestris, che cresce
nelle campagne e nei luoghi
incolti. Il nome Malva – molle-,
dal greco malakòs, si suppone
che indichi le sue proprietà
emollienti (Dalla Fior, 1969), o
sia
riferito
mucillaginosi
ai
succhi
contenuti
nella
pianta (Mazzetti, 1987).
Descrizione
botanica:
Il fusto, di questa pianta erbacea annuo-bienne-perennante
(Lazzarini, 2008), può raggiungere l’altezza di cento centimetri, ed è caratterizzato dalla
presenza di peluria superficiale. Le foglie sono tondeggianti, divise dai 3 ai 7 lobi
triangolari e dentati al margine. Si riscontrano anche sulle foglie la presenza di peli, in
entrambe le lamine. I fiori sono riconoscibile per i lori 5 petali incisi da una insenatura
apicale, di colore roseo- violetto, venati da 3 strie porpora cupo (Lazzarini, 2008).
Specie rassomiglianti: La
M. rotundifolia L., malva strisciante, trova il medesimo utilizzo in
cucina della M. silvestris L. (Lanzani, 1989). La malva strisciante si riconosce, oltre al
suo portamento, anche per i fiori bianco-rosei e per le foglie lobate molto più piccole
dalla malva comune.
50
Habitat:
Incolti, ruderi, lungo le strade e i fossi, pressi di abitazioni di campagna, senza
nessuna predilezione per l’altitudine.
Utilizzo in cucina:
La malva, pianta dalle molteplici proprietà, era nota nel passato
soprattutto perché risanava e scioglieva il corpo (Lanzani, 1989). In cucina trovano
ampio utilizzo in minestre, con dell’orzo o del riso, in misticanze o in frittate, le giovani
foglie e i fiori, che sbocciano da aprile a ottobre. È da evitare di raccogliere quelle foglie
macchiate di ruggine di color porpora, perché infestate dalla Puccinia malvacearum,
che colpisce la pianta con maggiore frequenza nei periodi piovosi (Lanzani, 1989). Le
miracolose proprietà attribuite dalla tradizione popolare alla malva, hanno trovato un
importante riscontro scientifico: infatti svolge una azione rinfrescante, emolliente e
lassativa, ed è utile a lenire infiammazioni del tubo digerente e delle vie urinarie
(Lazzarini, 2008).
Ricette:
Minestra di malva
50 gr di fiori
100 gr di foglie
1 l di acqua
Prezzemolo tritato
150 gr di pasta all’uovo o riso
Noce moscata
Sale e pepe
Fare cuocere foglie e fiori, dopo averli
lavati, nell’acqua bollente per 15 minuti.
Aggiustare di sapore, e valutare la
consistenza della minestra in base ai propri
gusti, poiché i principi contenuti nella
malva la addenseranno. A parte cuocere la
pasta o il riso, ed aggiungerlo alla minestra
solamente quando è servita nel piatto.
Zuppa di malva
500 gr di foglie di malva
½ l di brodo di carne
2 spicchi d’aglio
Olio extravergine d’oliva
Coriandolo
Sale e pepe
Tagliare le foglie di malva molto fini e
bollirle nel brodo per 10 minuti. In una
padella rosolare l’aglio schiacciato con
dell’olio; aggiungerci le spezie. Versare il
soffritto ottenuto alla zuppa, e continuare la
cottura per altri 2-3 minuti. È possibile
aggiungere delle carote (Daucus carota L.),
o del fenociòn (Ferula campestris Grec.), o
semplicemente della carne lessata tagliata a
dadini.
51
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Co’ la malva el mal va: un detto popolare che rende
chiara l’idea dell’importanza della malva in farmacopea. Nell’altipiano d’Asiago, era
nota con il nome di malbe, ed era utilizzata dai malgari per mantenere inalterate a lungo
le proprietà del latte (Zampiva, 1999). Nei paesi anglosassoni, i bambini mangiavano i
semi della malva, noti con il nome di cheeses, per la forma rotondeggiante simile al
formaggio (Indrio, 1981), ma il sapore è del tutto insignificante.
52
Menta acquatica
Mentha acquatica L.
Famiglia: Labiatae
Nome popolare:
Menta selvadega,
Puniol
Significato etimologico:
La Mentha,
dal nome di una dea mitologica,
è conosciuta nella tradizione
popolare come erba diaolòna
(Zampiva,
1999),
o
puniol,
termini riferiti agli antichi usi
esoterici della menta.
Descrizione botanica:
Pianta erbacea perenne, provvista di rizomi che produce stoloni. Il
fusto, a sezione quadrangolare può raggiungere l’altezza di 50-60 centimentri. Le foglie
crenate ovalo-oblunghe, con margini seghettati, sono opposte a due a due. All’apice del
fusto si trova l’infiorescenza di colore violaceo.
Specie rassomiglianti:
Diverse sono le varietà del genere Mentha che si apprestano ad un
utilizzo in cucina. S. Rodato (1989) segna la “la Mentha rotundifolia Huds. (ricca di
foglie grandi, rotonde, leggermente ellittiche); la M. pulegium L. (ricca di piccola foglie
dentate e diffusa nei luoghi paludosi); la M. arvensis L. (ricca di foglie pelose scure e
diffusa lungo i fossi); la M. longifolia (risulta molto presente, specie lungo i fossi)”.
Oltre a quelle già descritte precedentemente, F. Indrio (1981) menziona la M. piperita
L., anche se non spontanea, può trovarsi sub-spontanea, perché sfuggita alla coltura
(Rodato, 1989). A. Lanzani (1989), a riguardo della Mentha pulegium L., sconsiglia il
suo utilizzo “perché ha un odore penetrante e canforato”, inoltre, il suo olio essenziale
53
contiene per la maggior parte il pulegone, un chetone tossico da cui si ricava il mentolo
sintetico. Nel territorio selezionato, però, si trova solamente la Mentha acquatica.
Habitat:
Argini di fiumi, sponde, margini di fossi, prati erbosi umidi sono i luoghi ideali
per la Mentha acquatica.
Utilizzo in cucina:
Si usa tutta la parte aerea della pianta (Indrio, 1981), foglie e fiori, e si
raccolgono durante l’estate. Viene adoperata per condire verdure (patate e zucchine
lesse, melanzane grigliate), per marinare pesci e carni, per aromatizzare grappe, liquori
d’erbe e bevande analcoliche (Lazzarini, 2008). Le proprietà dissetanti e rinfrescanti
sono date dalla presenza di un olio essenziale: il mentolo; inoltre la pianta è conosciuta
per l’azione calmante, tonica e digestiva.
Ricette:
Salsa alla menta
½ bicchiere d’acqua
¼ di bicchiere di vino bianco
3 cucchiai di zucchero
1 pugno di foglie e fiori di menta,
finemente tritati
Mescolare acqua, zucchero e vino in una
scodella grande, finché lo zucchero non si
scoglie completamente. Aggiungere la
menta e lasciare riposare per 2 ore circa.
Servire la salsa ottenuta con carne o pesce.
Arrosto alla menta
1 kg di girello di manzo
6 fette di pancetta tagliate a pezzetti
2 pugni di foglie e fiori di menta
Sale e pepe
2 cipolle tritate
2 porri tritati
4 cucchiai di burro
2 cucchiai di farina
½ l di brodo
Legami con tradizioni etno-botaniche:
In una scodella mettere insieme pancetta,
menta, sale, pepe, cipolla e porri,
mescolando accuratamente. Rosolare gli
ingredienti su una placca da forno con
dell’olio e il girello. Infornare a 200 °C per
venti minuti, continuando a bagnare
l’arrosto con il brodo. A questo punto,
aggiungere ancora della menta e continuare
la cottura per ancora un’ora. A cottura
ultimata, addensare il fondo di cottura, se
necessario aggiustare di sapore. Servire la
sala ottenuta con il girello tagliato a fette.
La menta trova un ampio utilizzo sotto l’aspetto
farmaceutico, grazie anche al suo piacevole aroma. Per questo motivo, era consuetudine
essiccare le foglie di menta, che hanno “un odore aromatico, unde la conforta il
54
stomacho, move l’apetito e tole la abominatione de li bumori putridi…usandola a
mangiare commve la luxuria” (Pietro Spano, Il tesoro dei poveri ammalati, 1543).
55
Ortica
Urtica dioica L.
Famiglia: Urticaceae
Nome popolare:
Antrìga, Artìga,
Ontrìga (Mazzetti, 1987), Ortiga
(Rodato, 1989)
Significato etimologico:
Dal latino
ùrere, bruciare, per il bruciore
prodotto
dalla
penetrazione
dell’estremità dei peli e della
sostanza
irritante
in
essi
contenuta (Dalla Fior, 1969). Il
liquido urticante è composto da
acetilcolina, formiato sodico e istamina (Lanzani, 1989). I fiori femminili e quelli
maschili si trovano in due esemplari distinti, ossia dioica, e la differenza è visibile solo
al microscopio.
Descrizione botanica:
Pianta erbacea perenne con rizoma strisciante. Le foglie ovalo-
lanceolate hanno il caratteristico margine dentato-seghettato. Il fusto subquadrangolare
può raggiungere l’altezza di 150-200 centimetri (Indrio, 1981). I fiori, dalla primavera
all’autunno, sono delle spighe pendule, più lunghe del piccio lo della foglia ascellante
(Dalla Fior, 1969). I peli urticanti, disposti sul fusto, sono costituiti da silice, perciò
molto fragili. Sfiorando la punta del pelo si provoca la sua rottura, che va a infilare nella
cute, provocando la sua irratazione momentanea superficiale (Lanzani, 1989).
Specie rassomiglianti:
Nel territorio veneto, oltre all’Urtica dioica L., è presenta l’U. urens
L.. Questa varietà è riconoscibile per le foglie più rotondeggianti dal colore verde
chiaro, e per la sua minor altezza: non supera i 50 centimetri (Boni, 1986). Nonostante
56
la differenza morfologica, l’U. urens L. è usata nel medesimo modo di quella dioica.
Nel sottobosco è possibile imbattersi in una specie assomigliante all’ortica: il Lamium
album L.. Si riconosce per il semp lice fatto che manca dei peli pungenti sul fusto, perciò
al tatto non irrita la cute. I fiori bianchi, inoltre, facilitano l’identificazione, essi
spuntano a livello ascellare della foglia da maggio ad agosto. L’uso in alimentazione è il
medesimo dell’ortica ma, a differenza di questa, è possibile consumarlo in misticanze
crude.
Habitat:
L’ortica si diffonde e prospera in ambienti abitati dall’uomo, vicino a macerie o
ruderi, su terreni incolti e ricchi di sostanza organica.
Utilizzo in cucina:
In primavera, le giovani foglie vengono raccolte per confezionare dei
minestroni e dei risotti o per arricchire delle frittate. I germogli, raccolti estirpando
l’intera pianta, poiché si trovano sotto il livello del terreno, risultano essere una
leccornia per gli intenditori (Indrio, 1981). È possibile farcire dei ravioli con i germogli
leggermente lessati, amalgamati con della ricotta, sale e noce moscata. Interessante è
l’apporto nutrizionale: vitamine B, C e K (Lazzarini, 2008), oltre a ferro (Boni, 1986) e
oligoelementi. Fin dall’antichità, sono note le proprietà diuretiche e depurative
dell’ortica (Rodato, 1989).
Ricette:
Zuppa di ortiche
300 gr di foglie di ortica
1 cipolla
1 patata
Olio di oliva extravergine
Brodo vegetale
Sale e pepe
Soffriggere la cipolla tritata con l’olio.
Aggiungere la patata tagliata a dadini e le
foglie fresche di ortica. Aggiungere il
brodo, il sale e il pepe. Cuocere per alcune
ore, finché la patata non risulti cotta.
Aggiustare di sapore. Servire con crostini di
pane.
Frittata con germogli di antrìghe e prosciutto
4 uova
2 pugni di gemogli di antrìghe
150 gr di prosciutto cotto
Burro
Sale e pepe
Rosolare il prosciutto e le ortiche con una
noce di burro. Versare nella padella le uova
sbattute con del sale e del pepe. Cuocere in
ambo le parti la frittata. Servire con del
pane “nero” a fette.
57
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Decenni fa, i contadini usavano comporre con le foglie
dell’ortica un pastone per le galline, utile ad aumentare la produzione di uova (Lanzani,
1989). La radice, invece, bollita in acqua ed aceto (Zampiva, 1999), era nota per il suo
utilizzo nella cura contro la caduta dei capelli (Rodato, 1989 - Da Broi, 2005).
58
Piantaggine
Plantago lanceolata L.
Famiglia: Plantaginaceae
Nome popolare: Piantàdena,
Rècia
de conèjo
Significato etimologico:
Plantago,
dal latino planta: pianta del
piede, in riferimento alla forma
delle foglie. Per l’autore B.
Gallino (2001) il significato del
termine si riconduce al fatto che
le
piantaggini
sono
assai
resistenti se calpestate; sono
presenti, infatti, in cortili e strade battute.
Descrizione botanica:
La caratteristica forma delle foglie della P. lanceolata dà il nome a
questa pianta erbacea perenne. Sulla superficie delle sue foglie sono presenti nervature
longitudinali che partono dal picciolo. I fiori di color bianco, posti su uno stelo floreale
di 10-60 centimetri, sono disposti in spiga cilindrico-conica.
Specie rassomiglianti:
La piantàdena è facilmente riconoscibile e la possibilità di errore
nell’identificarla è nullo. Della stessa specie però trovano utilizzo in cucina anche le
varietà P. media L. e la P. maior L. (Indrio, 1987 – Gallino, 2001). La P. media L. è
riconoscibile per le foglie pelose su ambedue le facce (Dalla Fior, 1969), mentre quella
maior, denominata centonervi, è caratterizzata da foglie ovali, ottuse all’apice, con
numerose nervature parallele (Lazzarini, 2008).
Habitat:
Prospera in tutto il territorio italiano, prediligendo incolti, terreni ghiaiosi, prati.
59
Utilizzo in cucina:
La raccolta delle foglie avviene dalla primavera alla fine dell’estate (Da
Broi, 2005 – Lazzarini, 2008). Se giovani, le foglie possono rientrare in insalate con
altre specie, altrimenti lessate – anche se in cottura ingialliscono (Lazzarini, 2008) - e
consumate con frittate, minestre e ripieni di carne (Gallino, 2001). Importante è il
contenuto di vitamine, A e C (Indrio, 1981), e sali minerali. La piantaggine svolge una
buona azione antinfiammatoria e depurativa.
Ricette:
Polpettone di piantaggine
500 gr di foglie di piantaggine
2 cucchiai di burro
3 cipolle
500 gr di carne macinata
½ l di salsa di pomodoro
1 tuorlo
Sale e pepe
ottenuto. Aggiustare di sapore. Su un foglio
di carta d’alluminio formare uno strato di
carne macinata, arricchita di un tuorlo e
insaporita con sale e pepe. Posizionare la
piantaggine in centro. Con l’ausilio della
carta arrotolare su se stessa la carne, in
modo da creare un polpettone. Cuocere in
una casseruola con del vino bianco e della
salsa di pomodoro.
In una padella soffriggere le cipolle tritate
con del burro. Stufare le erbe con il soffritto
Minestra di piantaggine
2 patate
20 foglie di piantaggine
1 cipolla
1 l di brodo vegetale
Parmigiano grattugiato
Sale e pepe
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Tagliare le patate a dadini, sminuzzare le
foglie, e tritare la cipolla e versare il tutto in
una pentola. Aggiungerci il brodo e portare
a cottura. Aggiustare di sapore. A cottura
ultimata delle patate servire con del
parmigiano.
Conosciuta dai bocia con il nome di careghèta, la
piantaggine diventava un gioco creativo, con cui i bambini costruivano delle piccole
sedie con il lungo stelo, intrecciandolo, o si divertivano a tirare le resistenti nervature,
facendo così assumere delle forme fantasiose alle foglie (Zampiva, 2001). Le foglie,
nella medicina popolare, erano conosciute per le proprietà cicatrizzanti di piaghe e di
ferite.
60
Porcellana
Portulaca oleracea L.
Famiglia: Portulacaceae
Nome
popolare:
Erba
grassa,
Porseana
Significato etimologico:
Per il fatto
di essere molto appetita ai porci,
Plinio chiamò questa pianta, oggi
considerata infestante, porcilaca.
La denominazione scientifica,
invece, deriva dai termini latini
portula, piccola porta, per il
modo con cui si aprono le
capsule dei frutti maturi, e olera, ortaggio, perché ai tempi dei romani questa pianta
rientrava nell’alimentazione umana (Gallino, 2001).
Descrizione botanica: Pianta
erbacea annua, con fusto cilindrico, succoso, molto ramificato,
rossastro, prostrato. Le foglie, sessili, sono di forma ovato-spatolata di colore verde
brillante; sui fusti in basso sono opposte, a metà altezza sono alterne, mentre in alto
sono riunite in pseudoverticilli. I fiori ascellari sono di colore giallo. Il frutto è una
capsula ovale appuntita all’apice, che a maturità si divide in due parti mediante una
fessura circolare trasversale.
Specie rassomiglianti: La
portulaca è riconoscibile in qualsiasi orto che si rispetti. Oltre alla
specie P. oleracea L. trova interesse alimentare anche la varietà sativa (Aa.vv., Les
Salades Sauveges, 1998), morfologicamente più grande della precedente. Molto
conosciuta è anche la specie Portulaca grandiflora Hooker, coltivata per i suoi fiori, ma
non utilizzata nell’alimentazione umana.
61
Habitat: Terreni
smossi e sabbiosi, orti e ruderi, crepe dei selciati e bordi delle strade.
Utilizzo in cucina:
Pianta estiva, di cui se ne utilizzano le foglie. La porcellana rientra in
diverse preparazioni: insalate, sughi, minestre, in salamoie o fritture, ma la sua
consistenza mucillaginosa e il suo sapore acidulo-salato (Gallino, 2001) la rendono
sgradita a molti. Il suo contenuto di acqua è del 90 per cento (Gallino, 2001), ed apporta
dosi importanti di vitamine A, B e C, proteine, sali minerali, e acido aspartico, citrico e
ossalico. Nella storia, alla porseana è stata riconosciuta proprietà antiscorbutiche, azioni
diuretiche e depurative del sangue, capacità rinfrescanti, antinfiammatorie delle vie
urinarie e delle gengive (Da Broi, 2005).
Ricette:
Portulaca sottaceto
1 kg di foglie di portulaca
Aceto
Sale grosso
Dopo aver lavato le foglie, le si dispongono
in un vaso di vetro con il sale, formando dei
strati. Si pone il recipiente per 3 giorni al
sole. Successivamente si svuota il vaso e si
ripuliscono le foglie dal sale. Si rimettono
nel vaso e si versa l’aceto. Servitele con
altre verdure sottaceto.
Gnocchi di portulaca
4 cucchiai di burro
2 tazze di foglie di portulaca tagliate fini
Asiago DOP piccante grattugiato
Parmigiano reggiano grattugiato
2 uova
6 cucchiai di farina
Noce moscata
Sale e pepe
metterle in una ciotola, aggiungere l’Asiago
piccante, le uova, la farina, il sale, il pepe e
la noce moscata. Con l’impasto ottenuto,
formare degli gnocchi. Cuocerli in acqua
salata bollente per 10 minuti. Scolarli e
versarli in uno stampo imburrato e
infarinato. Cospargerli di parmigiano e
burro. Infornare per 10 minuti. Servirli
quando saranno ben gratinati.
Cuocere le foglie di portulaca in una
padella con del burro. Quando saranno cotte
Legami con tradizioni etno-botaniche:
La porcellana, di origine orientale, era utilizzata per
l’alimentazione già 2000 anni fa in India (Indrio, 1981). Nei secoli è stata usata come
spezia o condimento. Gli arabi, nell’età mediovale, stimavano a tal punto la portulaca
da coltivarla nei giardini reali (Aa.vv., Les Salades Sauveges, 1998).
62
Rosa selvatica
Rosa canina L.
Famiglia:
Rosaceae
Nome popolare:
Rosète salvèghe,
Stropacu’i,
Sbrusacu’i
(Mazzetti, 1987)
Significato etimologico:
La Rosa, di
cui il nome era già in uso presso
gli antichi romani, è conosciuta
nella tradizione popolare con la
denominazione stropacu’i date le
proprietà astringenti dei frutti
(Rodato,
1989).
I
greci
attribuivano alle radici della Rosa canina la capacità di curare la rabbia e i morsi di cani
e lupi: da qui il termine distintivo di canina (Da Broi, 2005).
Descrizione botanica:
Pianta fruttifera cespugliosa alta fino a 2-3 metri (Lazzarini, 1992),
con fusti legnosi e glabri, che portano aculei robusti. Le foglie caduche hanno una forma
ovale-ellittiche, con apice acuto e margine seghettato. I fiori, che appaiono da maggio a
giugno, hanno petali di colore bianco-rosa, con forma obcuneato-bilobi. Il frutto,
cinorrodonte, si presenta rosso a maturità; si tratta del ricettacolo ingrossato e carnoso,
contenente alcuni acheni e una peluria rigida e pungente (Lazzarini, 2008).
Specie rassomiglianti:
Esistono diverse varietà del genere Rosa, ma la maggior parte sono
coltivate per l’interesse floro- vivaistico dei loro fiori.
63
Habitat:
La rosa selvatica è frequente lungo le siepi, a margine di campi e strade e nei
luoghi erbosi abbandonati, su terreno povero, sassoso di qualsiasi natura (Mazzetti,
1987).
Utilizzo in cucina:
“Gli usi alimentari sono molteplici, così come quelli medicinali. I frutti
freschi possono essere impiegati per condire le frittate, i petali per decorare e
aromatizzare le insalate, marmellate, e anche la pasta” (Gallino, 2001). I frutti della rosa
canina, raccolti durante l’autunno, sono una ottima fonte di vitamina C. Infatti, 3 bacche
di rosa, contengono altrettanta vitamina C quanto un’arancia, e sono più ricche in ferro,
calcio e fosforo (Indrio, 1981). I frutti, inoltre, possono essere impiegati per
confezionare marmellate, o conservati sotto grappa e sotto alcol (Lazzarini, 2005), o se
opportunamente essiccati per tisane. Oreste Mattirolo (1918) consiglia di utilizzare le
foglie della Rosa canina come succedanee del tè. I cinorrodi svolgono un’azione
emostatica, diuretica, depurativa, antiscorbutica, tonica e astringente (Rodato, 1989). In
particolare, per limitare questa ultima proprietà è necessario prestare cura nel mondare i
frutti dai peletti che lo circondano: tale peluria, è fastidiosa e irritante per l’intestino
(Mazzetti, 1987).
Ricette:
Marmellata di Rosa canina
1 kg di polpa di frutti di rosa canina
800 gr di zucchero
Vino bianco secco
Scorza di limone grattugiata
casseruola, mettere la polpa dei frutti e
ricoprirli con il vino. Aromatizzare con la
scorza di limone grattugiata e portare a
cottura. Passare al frullatore e versarci lo
zucchero. Riporre la pentola sul fuoco e
addensare il composto. Inserire la
marmellata ottenuta in vasetti con chiusura
ermetica.
Raccogliere i frutti dopo che hanno subito
una gelata (Rodato, 1989). Tagliarli a metà
e togliere i semi e i fastidiosi peli. In una
Miele rosato
100 gr di petali di rosa
500 gr di miele
incorporarlo al miele. Mescolare lentamente
per facilitare l’omogeneizzazione del
composto. Utile per lenire mal di gola o
infiammazioni delle vie orali (Indrio, 1981).
Mettere in infusione per 12 ore in acqua
bollente i petali di rosa. Filtrare il tutto e
64
Salsa alle rose
Un pugno di petali di rosa
2 cucchiai di cognac
250 ml di panna
1 cucchiaino di mostarda
2 cucchiai di olio extravergine d’oliva
Sale e pepe
Lascia re in infusione per due ore i petali nel
cognac. Mescolare con la panna, la
mostarda e l’olio. Condire con sale e pepe.
Servire la salsa ottenuta con uova sode o
patate lessate. Aggiungendo capperi e aneto
tritato si può migliorare il sapore (Indrio,
1981).
Legami con tradizioni etno-botaniche: In
base alla “teoria dei segni”, data la presenza di aculei
simili ai denti di cane, la rosa canina, era usata per curare i morsi di cani e lupi. Per il
medesimo motivo, il frutto della rosa, contenente acheni, simili a calcoli urinari, era
conosciuto per le proprietà curative del sistema urinario. Nella storia più recente, i frutti
della rosa canina era utilizzati come primaria fonte di vitamina C dai paesi nordici,
durante la Seconda Guerra Mondiale. Il governo della Gran Bretagna organizzò la
raccolta dei frutti di rosa canina, formando un comitato delle erbe medicinali –
Vegetable Drug Committe -, per produrne uno sciroppo da distribuire alla popolazione
che soffriva gravi carenze alimentari (Indrio, 1981).
Nella tradizione veneta era comune il Ratafià di rose, un liquore corroborante e tonico:
“Raccogliere accuratamente dei petali di rose, fresche e belle. In un vaso di
vetro a chiusura grande porre a strati petali e zucchero fino a riempimento. [...]
Chiudere ermeticamente e porre il vaso per un mese al sole. Trascorso il tempo, i
petali si saranno completamente disciolti assieme allo zucchero. Mescolare con un
cucchiaio di legno ed amalgamare bene e versare nel vaso buona grappa nostrana
fino a nuovo riempimento. Agitare e richiudere. Trascorso un altro mese, filtrare e
conservare il liquore ottenuto in bottiglia scura”
65
(Zampiva, 1999).
Rovo
Rubus caesius L.
Famiglia:
Rosaceae
Nome popolare:
Ruse, Moragne,
More
Significato
etimologico:
Rubus,
nome dato dai romani ai rovi e
alle rose selvatiche (Dalla Fior,
1969),
è
popolarmente
conosciuto come rusa, che sta
indicare
la
sua
caratteristica
forma aggrovigliata e la presenza
di numerosi aculei che impedisce
agli avventori di penetrarla e di impossessarsi dei frutti.
Descrizione botanica:
Pianta fruttifera, a portamento cespuglioso, con rami arcuato-
radicanti, serpeggianti, ricoperti di spine falciformi. Foglie pennate con margine
irregolarmente dentato; quelle dei rami giovani sono composte da cinque segmenti
palmati, ellittico-ovali ad apice acuto, invece quelle dei rami fioriferi con solo tre
segmenti. A fine maggio compaiono le infiorescenze riunite in grappoli e costituite da
fiori con cinque petali di forma ovata di colore bianco-roseo. I frutti, le more, sono
glomeruli piramidali formati dall’unione di numerose drupe succose nere e lucenti,
contenente ciascuna un piccolo seme (Mazzetti, 1987).
Specie rassomiglianti:
Di difficile identificazione sono le numerose varietà di Rubus; le più
conosciute sono il R. ulmifolius Schott, il R. fruticosus L. e il R. idaeus L.. In particolare,
questo ultimo è conosciuto con il nome comune di lampone. Si identifica per i suoi
piccoli fiori di colore bianco, e per i frutti, che a maturazione sono rossi, più dolci e
66
saporiti del R. ulmifolius Schott (Rodato, 1989), inoltre predilige luoghi freschi di
collina.
Habitat: Il
Rubus caesius L. è molto comune nei territori dell’Alta padovana, cresce lungo
siepi, sentieri e strade, ai margini dei boschi e nelle radure, nei cedui, negli incolti,
attorno alle case abbandonate e in ogni altro luogo in cui il manto vegetale è indebolito
o degradato.
Utilizzo in cucina:
I frutti, raccolti dal mese di luglio, possono essere consumati freschi, in
macedonie, o in crostate, oppure trasformati in succhi, in marmellate, o se fermentate e
distillate forniscono una grappa apprezzata (Gallino, 2001). Hanno una azione lassativa
e rinfrescante (Rodato, 1989) e contengono molta vitamina C, zuccheri, pectine,
antocianina e acido citrico, malico e ossalico (Gallino, 2001). L’utilizzo alimentare delle
radici è segnalato da Rodato (1989), se “stracotte e rese in purea, condite con olio
extravergine corposo-verde, costituiscono un discreto alimento”.
Ricette:
Marmellata
1 kg di more o lamponi
800 gr di zucchero
lasciare cuocere a fiamma bassa. Quando la
marmellata avrà raggiunto la consistenza
adeguata, versare il tutto in vasetti sterili a
chiusura ermetica. Consumare dopo almeno
40 giorni. La marmellata di more è
abbinabile con la carne di selvaggina, come
capriolo o cervo.
In una casseruola capiente introdurre i frutti
scelti - se sono more è consigliabile
passarli, per eliminare i semi (F. Indrio,
1981)-, e lo zucchero. Portare a cottura e
Liquore di more
2 kg di more
1 l d’acqua
500 gr di zucchero per ogni litro di succo
1 cucchiaio di chiodi di garofano
Cannella e noce moscata
½ l di whisky per ogni litro di sciroppo
Bollire le more nell’acqua finché non si
spappolano e passarle poi al setaccio.
Aggiungere lo zucchero nelle proporzioni
prescritte e mescolare. Pestare in un
mortaio le spezie e inserirle nel composto.
Cuocere il succo per trenta minuti. Quando
sarà pronto, lasciare raffreddare e
aggiungere ½ litro di whisky per ogni litro
di sciroppo. Imbottigliare e tappare bene.
67
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Nonostante le sue spine, i ragazzini di campagna
riuscivano a farsi salutari scorpacciate di questo frutto. Le foglie, invece, erano usate in
decotti dalla medicina popolare per la sua azione antisettica, astringente e sedativa, e
con l’aggiunta di miele, diventava un antinfiammatorio per le vie orali (Zampiva, 1999).
68
Ruchetta selvatica
Diplotaxis tenuifolia DC.
Famiglia: Cruciferae
Nome popolare:
Significato
Rucoéta mata
etimologico:
scientifico
selvatica
della
è
Il nome
ruchetta
dovuto
alla
disposizione dei semi in doppia
serie in ciascuna loggia del
frutto, dal greco diplùs – doppio
– e taxis – serie – (Dalla Fior,
1969). La specie coltivata è la
Eruca sativa Mill. P., infatti, è
corretto denominare la Diplotaxis t. ruchetta o rucola selvatica (Indrio, 1981). Per la
precisione, il termine rucola deriva dal greco eréugomai, ruttare, rigettare, per il
particolare sapore bruciante della pianta (Dalla Fior, 1969).
Descrizione botanica:
Pianta perenne con fusto legnoso alla base, che può raggiungere 100
centimetri di altezza. Le foglie pennatopartite hanno segmenti laterali stretti e lunghi,
mentre il lobo terminale è poco più largo. I fiori, che compaiono da maggio fino a
settembre, sono gialli riuniti in racemi. I frutti sono silique lineari, diritte con semi
ovoidi.
Specie rassomiglianti:
Le diverse varietà della Diplotaxis, muralis DC. e viminea DC., sono
ugualmente utilizzabili (Aa.vv., Les Salades Sauveges, 1998). La D. muralis è
riconoscibile per il fusto interamente erbaceo e di altezza inferiore alla D. tenuifolia, e
per le foglie indivise e bislungo-spatolate. Allo stesso modo della ruchetta O. Mattirolo
(1918) propone di utilizzare il Thlaspi perfoliatum L., il Lepidium latifolium L, il
69
Lepidium Draba L o il Lepidium sativum L.. In particolare questa ultima specie è
segnalata anche dall’autore Dalla Fior (1969) come verdura coltivata negli orti.
Habitat:
La ruchetta si trova frequentemente nei terreni ghiaiosi o nei greti sassosi
abbandonati dei fiumi. Non è insolito trovarla tra ruderi e macerie, o tra prati e vigneti.
Utilizzo in cucina:
Dalla primavera all’autunno è possibile raccogliere le rosette della
ruchetta, recidendole alla base, in modo che la pianta continui a produrne di nuove.
L’antico uso culinario di questa pianta dal sapore pungente e piccante è testimoniato da
una ricetta di Settimio Severo (Lanzani, 1989), che consigliava il suo utilizzo per
confezionare una torta denominata moretum. Per le sue proprietà nutrizionali si
sconsiglia di utilizzarla cotta, altrimenti verrebbero meno tutte le vitamine (B e C) e le
sostanze solforate. Tutti conoscono il deprimente ruolo odierno della rucola: servire da
“letto” per tagliate di carne o arrosti, o più popolarmente “bresaola, rucola e grana”. Ma
solamente per il suo sapore tenace sarebbe utile renderle giustizia: confezionando delle
salse con la rucola da proporre assieme alle carni, o semplicemente tritarla cruda per
aromatizzare paste fredde o formaggi freschi.
Ricette:
Salsa di ruchetta
500 gr di rucola
40 gr di burro
¼ l di latte
Sale e pepe
una padella sciogliere il burro, versare il
latte e il frullato ottenuto. Aggiustare di
sapore e fare addensare. Se necessario
aggiungere un cucchiaio di farina. Servire
la salsa con della carne o condire
semplicemente la pasta aggiungendoci del
formaggio grattugiato.
Lessare la ruchetta in acqua salata per 5
minuti. Lasciarli sgocciolare e frullarli. In
Pasta e rucola selvatica
300 gr di pasta
100 gr di rucola selvatica
40 gr di burro
1 spicchio d’aglio
Parmigiano grattugiato
Sale e pepe
Cuocere la pasta in acqua salta e due minuti
prima di scolarla unire la rucola. In una
padella rosolare l’aglio nel burro. Scolare la
pasta e saltarla nella padella, aggiustando di
sapore. Servire con il parmigiano
grattugiato.
.
70
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Presso gli antichi la rucola trovava impiego nelle
officine farmaceutiche per le sue doti espettoranti e antiscorbutiche delle foglie, oltre
all’azione emolliente e disinfettante dei semi (Gallino, 2001). Nella tradizione popolare
la ruchetta era riconosciuta per le sue proprietà afrodisiache, perciò durante il medioevo
bandita dagli orti monastici. La tradizione si rifà alla consuetudine della divinità Priapo
di consumare la sue foglie, che leggenda narra, si possa trovare la discendente di quella
consumata dal dio romano presso i ruderi dell’Appia Antica (Lanzani, 1989).
71
Salvia dei prati
Salvia pratensis L.
Famiglia: Labiatae
Nome popolare: Salvia
mata
Dal latino
Significato etimologico:
sanare, la salvia, specialmente la
S. officinale, era conosciuta dagli
antichi
per
le
medicamentose;
il
doti
termine
pratensis è per specificare la sua
abitudine di frequentare prati e
terreni erbosi.
Descrizione botanica:
Pianta erbacea perenne dotata di una radice cilindrica, affusolata e
fibrosa. Il fusto quadrangolare può raggiungere l’altezza di 50-90 centimetri (Lazzarini,
2008). Le foglie della rosetta sono spicciolate, ovali e crenate, mentre quelle cauline
sono sessili e semi-abbraccianti. Caratteristica della maggior parte delle specie delle
labiatae è l’infiorescenza, molto simile a un labbro. Il fiore è di colore violaceo, riunito
sulla sommità del fusto in glomeruli di 4-6 elementi.
Specie rassomiglianti:
Esistono diverse varietà di salvia che, se non un interesse
terapeutico, hanno almeno un utilizzo in ambito alimentare. Infatti, la varietà S. sclarea
L., detta moscatéa, era utilizzata per la preparazione del vermouth, grazie al suo
caratteristico aroma (Gallino, 2001). Questa specie è abbastanza rara nel territorio
veneto. Da non dimenticare la Salvia officinalis L., ritenuta indispensabile ingrediente in
tutte le officine farmaceutiche dell’antichità. Tutt’oggi le vengono riconosciute
proprietà antisettiche, diuretiche, antinfiammatorie, ma è riuscita a conquistare un posto
d’onore anche tra lo speziale del cuoco.
72
Habitat:
La Salvia pratensis è identificabile, grazie ai suoi vistosi fiori violacei, tra le
erbe di prati, pascoli, bordi delle strade e cigli dei fossi.
Utilizzo in cucina:
Le foglie, raccolte tra marzo e maggio, insaporiscono assieme a
prezzemolo e aglio orsino, le patate lessate (Rodato, 1989). L’utilizzo della salvia dei
prati è molteplice, anche se il suo aroma è più delicato (Gallino, 2001), ma può
sostituire dignitosamente le varietà coltivate (Salvia officinalis L.), o accompagnando il
rosmarino, utilizzata fresca nei sughi, negli arrosti, nelle frittate e nelle minestre o,
tritata fresca, amalgamata nel burro (Gallino, 2001). I fiori raccolti da aprile a maggio
possono “colorare” misticanze o guarnire piatti.
Ricette:
Frittata con salvia mata
10 foglie di salvia
2 cucchiai di fiori dei medesimi
6 uova
6 cucchiai di latte
Sale e pepe
30 gr di parmigiano
Separare il tuorlo dalla chiara delle uova e
battere i tuorli aggiungendovi anche il latte;
montare gli albumi a neve. Unirli ai tuorli e
aggiustare di sapore. Versare tutto in una
teglia, e porre su fuoco basso. Appena
inizia a dorarsi il fondo della frittata,
aggiungere le foglie sminuzzate, i fiori e il
formaggio parmigiano. Mettete in forno e
cuocere
per
10
minuti.
.
Legami
con
tradizioni
etno-botaniche:
Usata
dall’antichità
per
le
sue
proprietà
medicamentose, specialmente la Salvia officinalis L., era adorata come “erba sacra”.
Infatti, un proverbio popolare recita:
“Quando mòre la salvia che xe ne l’orto, mòre anca el so pàron, se nol xe za
morto”
(Zampiva, 1999).
Da ciò si deduce quanta stima avesse la cultura popolare di un tempo per questa pianta.
Le proprietà terapeutiche riconosciute ufficialmente sono: azione tonica, stomatica,
antisudorifera e astringente. I vecchi contadini la reputavano capace, inoltre, di aiutare a
smaltire l’ebbrezza del vino (Zampiva, 1999).
73
Strigoli
Silene vulgaris (Moench) Garcke
Famiglia: Caryophyllaceae
Nome popolare:
S-crissiòi, Carléti,
Sciocheti
Significato
etimologico:
Il nome
scientifico di questa specie è
dovuto al caratteristico calice
rigonfio simile al ventre del dio
Sileno.
Il
nome
popolare
sciocheti è dovuto al tradizionale
gioco dei bambini, in cui i calici
rigonfi vengono fatti “scoppiare”
sul dorso della mano (Rodato, 1989).
Descrizione botanica:
Pianta erbacea perenne a fusto semplice, con base legnosa e nodi
ingrossati, può raggiungere l’altezza di settanta centimetri. Le foglie lineari- lanceolate
sono leggermente pelose e di color verde-gluaco. I fiori, presenti da aprile ad agosto,
hanno un calice ovoide, rigonfio e caratterizzato da 20 nervi ben distinti (Lazzarini,
2008), e la corolla bianca-rosea presenta 5 petali divisi profondamente in 2 lacinie.
Specie rassomiglianti:
Il genere Silene può essere confuso con la famiglia delle
Euphorbiaceae, in particolare con il genere Euphorbia L. (Aa.vv., Les Salades
Sauveges, 1998), poiché le specie appartenenti a questo genere contengono un latice
velenoso, caustico, bianco e attaccaticcio per la presenza di caucciù (Dalla Fior, 1969).
Il riconoscimento dell’Euphorbia avviene per le foglie lanceolate alternate e per le
infiorescenze molto vistose di color giallo-rosso. Trova impiego alimentare anche altre
74
varietà della Silene: la S. alba Mill., conosciuta come rjéce de lièvore, e la S. dioica
Clairv., diffusa soprattutto nel massiccio montuoso del Grappa (Rodato, 1989).
Habitat:
Gli strigoli sono diffusi in tutto il territorio veneto. Si trovano in particolare nei
margini di strade, zone asciutte e soleggiate.
Utilizzo in cucina:
Nei terreni falciati è possibile raccoglierla dalla primavera alla fine
dell’autunno (Mazzetti, 1987). Le foglie basali crude rientrano in misticanze, o se
lessate possono arricchire minestre di legumi, vellutate, ravioli di pasta fresca, lasagne,
frittate, torte salate e polpette (Lazzarini, 2008). Si ritiene che gli sciocheti siano un
ottimo depurativo del sangue (Rodato, 1989) e apporti importanti quantità di vitamine B
e C (Lazzarini, 2008). Contiene, inoltre, un’essenza resinosa aromatica, che la rende
gustosa semplicemente lessandola. (Rodato, 1989).
Ricette:
Risotto coi sciocheti
300 gr di foglie di strigoli
300 gr di riso
20 gr di burro
1 bicchiere di vino bianco
100 gr di casatella trevigiana
1 cipolla
Brodo vegetale
Parmigiano grattugiato
Sale e pepe
Rosolare nel burro gli strigoli e aggiustare
di sapore. In un tegame rosolare la cipolla
con dell’olio, e tostarci il riso. Versare il
vino bianco, e lasciare evaporare.
Aggiungere gli strigoli e portare a cottura il
riso, aggiungendo il brodo. A cottura
ultimata mantecare con del formaggio
grattugiato e la casatella trevigiana.
.
Ravioli di strigoli e salsiccia
Pasta all’uovo fresca
500 gr di strigoli
250 gr di salsiccia
250 gr di ricotta
1 uovo
Parmigiano grattugiato
Burro
Sale e pepe
Pulire le erbe e lessarle in acqua salata.
Quando saranno cotte strizzarle e tritarle
finemente. Amalgamarle con la ricotta, con
la salsiccia rosolata e spezzettata e con
l’uovo. Insaporire il composto con il
parmigiano grattugiato, il sale e il pepe.
Tirare la pasta e distribuire dei mucchietti
di ripieno grandi come una noce. Ricoprire
con un'altra striscia di pasta e ricavare, con
l’aiuto di uno stampino, i ravioli.
Sbollentarli in acqua salata, e servirli con
burro fuso e foglie di salvia dei prati.
75
Legami con tradizioni etno-botaniche: Riconosciuta
dai bambini e dai vecchi per il suo aspetto
“ludico”, la silene veniva utilizzata per arricchire un piatto di erbe cote, mescolandola
con del tarassaco, delle ortiche o della cicoria.
76
Tarassaco
Taraxacum officinale Weber
Famiglia: Compositae
Nome popolare:
Pissacan, Sbrusa-
oci, Piva sona, Radicio mato
Significato etimologico:
Si hanno
diverse versioni, a secondo degli
autori, dell’etimo della parola
taraxacum; alcuni lo riferiscono
al greco tàraxis – intorbidimento
della vista – e akos – rimedio
(Dalla Fior, 1969); altri al verbo
greco tarasso – agitare – e, chi
invece, all’arabo
tarah sagun – cicoria - o al persiano tarachakon - erba amara -
(Gallino, 2001). Di certo, invece, è il termine popolare soffione, che si lega ai particolari
semi che compaiono sul fiore.
Descrizione botanica:
Pianta erbacea perenne con radice fittonante e carnosa. Le foglie
pennatopartite sono di forma lanceolata e si sviluppano a rosetta, spesso l’apice fogliare
è triangolare. Il nervo mediano della foglia è cavo all’interno e sporgente su entrambe le
facce. I fiori di colore giallo-arancio, ligulati a 5 denti, sono visibili quasi tutto l’anno, a
parte la stagione invernale. I frutti sono acheni muniti di un filamento con il pappo
composto da setole ramificate a mo’ di ombrello (Lazzarini, 2008).
Specie rassomiglianti:
Riconoscere il tarassaco in un prato fiorito è quasi qualcosa di
istintivo. Se i fiori sono assenti, l’errore può ricadere sul Leontodon hispidus L., a causa
delle rosette abbastanza simili, ma anche questa specie trova impiego come ingrediente
in cucina. Tuttavia, esistono altre specie che possono essere utilizzate alla stregua del
77
pissacan, o mescolate assieme a questo ultimo per lenire il suo gusto amaro. Il
Tragopogon pratensis L., noto come barba di becco, può essere consumato crudo in
insalate, o la sua radice lessata e consumata in misticanze. Nel territorio del SinistroMedio Brenta non è stata riscontrata la sua presenza, ma visto l’utilizzo tradizionale
veneto di questa erba, era d’obbligo almeno nominarla. Altre specie diffuse, invece,
sono: la Crepis vescicaria sub sp. Taraxifolia (Thuill.) Thell., che si consuma cotta, date
le foglie coriacee; la Hypochoeris radicata L., conosciuta con il nome di petassù
(Mazzetti, 1987), consigliata in insalata; la Lactuca serriola L., consumata in qualunque
modo, a volte confusa con la Chicorium indivia, per il medesimo nome usato dagli
esperti – scarola-; e, infine, la specie Sonchus, e le diverse varietà (S. arvensis L., S.
oleraceus L, S. asper Hill). Le piante precedentemente nominate sono considerate “poco
nobili”, infatti, infestano i luoghi più inquinati e il loro sapore è scialbo e privo di
interesse culinario.
Habitat:
In qualunque luogo erboso, prato o campo, si può trovare il pissacan, ma non
disdegna luoghi umidi, come margini di fossi o di fiumi, o terreni coltivati e margini
della strada.
Utilizzo in cucina:
Le foglie, raccolte durante tutto l’anno (Lazzarini, 2008), trovano
impiego in cucina lessate o servite crude in insalate miste. I fiori e i boccioli servono ad
aromatizzare i vini e le insalate e come condimento nei crostini all’aglio. I giovani
boccioli, presenti tra le foglie basali delle rosette, possono essere raccolti e conservati
sotto aceto o sotto sale, e utilizzati come succedanei dei capperi (Lanzani, 1989 –
Rodato, 1989). Il tarassaco in campo medicinale è un rimedio per la cura di molteplici
malattie. Le proprietà terapeutiche, infatti, attribuite alla pianta sono amaro toniche,
depurative (Rodato, 1989 - Da Broi, 2005), lassative, stimolanti la funzione epatica e la
digestione (Rodato, 1989 - Lazzarini, 2008). Nota, fin dall’antichità, le capacità
diuretiche, testimoniata anche dai numerosi appellativi popolari: in Italia, piscialletto, in
Francia, pissenlit, in Inghilterra, pissabed (Gallino, 2001). Il caratteristico gusto amaro
delle foglie è dato dalla lactucopicrina (Gallino, 2001).
78
Ricette:
Zuppa di tarassaco
800 gr di tarassaco
400 gr di zucca
1 cipolla
1 carota
1 gambo di sedano
Prezzemolo e rosmarino
1 spicchio d’aglio
Brodo vegetale
Sale e pepe
padella soffriggere con dell’olio la cipolla,
il sedano e la carota tritati finemente,
quando il soffritto sarà pronto aggiungere il
prezzemolo e il rosmarino tritati.
Aggiungere la polpa di zucca tagliata a
dadini
e
il
pissacan
tagliato
grossolanamente, lasciare insaporire per
alcuni minuti. A questo punto aggiungere il
brodo, aggiustare di sapore, e completare la
cottura. Servire con crostini di pane
abbrustolito con dell’aglio.
Pulire le foglie di tarassaco, e lessarlo
leggermente in acqua bollente. In una
Tarassaco in insalata
400 gr di foglie di pissacan
80 gr di lardo
Aceto di vino bianco
Sale e pepe
Legami con tradizioni etno-botaniche:
Rosolare in padella il lardo ed aggiungerlo
con gli altri ingredienti all’insalata cruda.
Nella tradizione, l’insalata viene servita con
della polenta abbrustolita.
Assieme alla radice di cicoria, veniva raccolta anche
quella del tarassaco che, dopo essere state tostate, venivano macinate per ottenere un
surrogato del caffè. Questo avveniva nei periodi bellici, quando le razioni non erano
sufficienti al fabbisogno quotidiano. Negli stessi periodi, trovavano ampio uso anche le
foglie del pissacan che, stufate con dell’aglio o una fetta di pancetta tagliata a dadini,
accompagnavano la “povera e triste” polenta (Maffioli, 1983).
79
80
CONCLUSIONI
Le piante selvatiche ad utilizzazione alimurgica sono, quindi, quelle specie erbacee
ed arbustive le cui parti vengono usate come alimento, raccolte ad un appropriato stadio
del ciclo vegetale e preparate in maniera opportuna.
La tradizione locale ha saputo valorizzare le proprietà di ogni singola specie,
conoscendo e tramandando oralmente, attraverso le generazioni, i loro usi e pregi in
cucina.
Al giorno d’oggi, il recupero e la salvaguardia delle conoscenze botaniche e delle
tradizioni del territorio permette di valorizzare conoscenze etno-botaniche, storiche,
gastronomiche della zona; questo, oltre ad avere un evidente significato culturale,
consente di creare una proposta di piatti tradizionali, rivisitati e adattati alle necessità
odierne da parte dei ristoratori locali.
L’elenco di informazioni proposte nelle schede - nome latino, significato
etimologico, specie rassomiglianti, descrizione botanica, habitat, utilizzo in cucina,
legami con tradizioni etno-botaniche, foto - sono utili per conoscere a fondo ogni
singola pianta, in modo da poterne sfruttare al meglio proprietà e caratteristiche. Come
si è visto, non tutte le specie sono idonee a confezionare semplici insalate ma, in base
alle loro peculiarità, possono essere proposte in molteplici preparazioni culinarie.
Le piante spontanee hanno un diverso tempo di raccolta e rappresentano, quindi,
una fonte alimentare distribuibile durante tutto l’arco dell’anno che rifornisce, così, in
ogni stagione la cucina di prodotti vegetali (vedi tab.1). Se la raccolta è effettuata in
luoghi e modi sbagliati possono essere compromesse l’igiene, la salubrità e le
caratteristiche organolettiche delle piante commestibili. L’ambiente circostante è assai
importante per garantire una raccolta di erbe senza rischi; si dovranno perciò evitare
margini di strade trafficate e zone adiacenti a discariche e campi coltivati che subiscono
frequenti trattamenti.
Il territorio dell’indagine, compreso nei comuni di Cittadella, Fontaniva, Piazzola
sul Brenta, Tombolo e Villa del Conte, nonostante la forte antropizzazione, riserva
ancora spazi naturali o semi- naturali lungo il corso del Brenta e Tergola. A riguardo,
molti autori hanno dedicato particolare interesse all’aspetto naturalistico della raccolta,
tenendo conto anche della soddisfazione che regala il poter passeggiare lungo sentieri e
81
prati e poter riconoscere, tra le diverse erbe spontanee, specie alimurgiche nei loro
habitat naturali. Non va infine trascurato il fatto che le piante rappresentano l’elemento
più significativo del paesaggio e svolgono quindi un ruolo importante in termini del
“piacere estetico” che trasmettono e, in definitiva, di qualità della vita.
Tabella 1:
Piante selvatiche utilizzate in cucina
Nome volgare
Nome latino
Periodo di raccolta
Parte commestibili
Principale utilizzo
ACETOSA
Rumex acetosa
tutto l’anno
foglie
minestre, risotti
ACETOSELLA
Oxalis acetosella
primavera-estate
foglie
insalate, salse
ASPARAGO SELVATICO
Asparagus tenuifolius
primavera
turioni
lessati, risotti
CICORIA
Cichorium intybus
primavera
foglie, radici
insalate, lessate
CRESCIONE D ’ACQUA
Nasturtium officinale
primavera
foglie
insalate, minestre
DENTE DI LEONE
Leontodon hispidus
tutto l’anno
foglie
insalate, lessate
EQUISETO
Equisetum arvense
primavera
fusti fertili
frittate, lessati
FARINACCIO SELVATICO
Chenopodium album
primavera-estate
foglie
lessate, ripieni
LUPPOLO
Humulus lupulus
primavera
germogli
lessati, risotti
MALVA
Malva silvestris
primavera-autunno
foglie, fiori
insalate, minestre
MENTA ACQUATICA
Mentha acquatica
estate
foglie, fiori
aroma
ORTICA
Urtica dioica
primavera-estate
germogli, foglie
frittate, minestre
PIANTAGGINE
Plantago lanceolata
primavera-estate
foglie
lessate, ripieni
PORCELLANA
Portulaca oleracea
estate
foglie
insalate, sottaceto
ROSA SELVATICA
Rosa canina
primavera-autunno
petali, frutti
insalate, marmellate
ROVO
Rubus caesius
primavera-estate
radici-frutti
marmellate, succhi
RUCHETTA SELVATICA
Diplotaxis tenuifolia
primavera-autunno
foglie
insalate, aroma
SALVIA DEI PRATI
Salvia pratensis
primavera-estate
foglie, fiori
aroma, frittate
STRIGOLI
Silene vulgaris
primavera-autunno
foglie
risotto, ripieni
T ARASSACO
Taraxacum officinale
tutto l’anno
foglie, radici
lessate, minestre
82
APPENDICE 1
AREA E DATA DI RITROVAMENTO DELLE PIANTE SELVATICHE
NEL TERRITORIO DELLA SINISTRA MEDIO BRENTA
(*): Specie di interesse alimentare rinvenute nella zona dell’indagine,
menzionate nelle schede, ma non trattate in modo esauriente.
Nome latino
Località di ritrovamento
Asparagus tenuifolius
Piazzola sul Brenta
Chenopodium album
Abbazia Pisani
Cichorium intybus
Piazzola sul Brenta
Clematis vitalba *
Piazzola sul Brenta
Diplotaxis tenuifolia
Fontaniva
Equisetum arvense
Fontaniva
Fragaria vesca *
Abbazia Pisani
Helianthus tuberosus *
Onara
Humulus lupulus
Abbazia Pisani
Lamium album *
Abbazia Pisani
Leontodon hispidus
Abbazia Pisani
Malva silvestris
Abbazia Pisani
Mentha acquatica
Abbazia Pisani
Nasturtium officinale
Piazzola sul Brenta
Oxalis acetosella
Fontaniva
Plantago lanceolata
Fontaniva
Plantago maior *
Fontaniva
Portulaca oleracea
Abbazia Pisani
Rosa canina
Onara
Rubus caesius
Piazzola sul Brenta
Rumex acetosa
Abbazia Pisani
Salvia pratensis
Piazzola sul Brenta
Sambucus nigra *
Piazzola sul Brenta
Silene vulgaris
Cittadella
Solanum dulcamara *
Abbazia Pisani
Taraxacum officinale
Onara
Thymus serpyllum *
Fontaniva
Urtica dioica
Piazzola sul Brenta
83
Data
13/07/2008
03/09/2008
13/07/2008
10/08/2008
08/07/2008
08/07/2008
03/09/2008
21/08/2008
03/09/2008
03/09/2008
03/09/2008
03/09/2008
03/09/2008
10/08/2008
08/07/2008
08/07/2008
08/07/2008
03/09/2008
21/08/2008
13/07/2008
03/09/2008
10/08/2008
10/08/2008
04/07/2008
03/09/2008
10/07/2008
08/07/2008
13/07/2008
84
BIBLIOGRAFIA
aa.vv. 1983. Guida pratica ai fiori spontanei in Italia. Milano: Reader's digest
aa.vv. 1998. Les salades sauveges. Montpellier: Les ecologistes de l'Euzière
Abrami G. 1984. Zone umide del Brenta - La palude di Onara. Padova: Tip. Suman
Boni P. 1986. Nutrirsi al naturale con erbe selvatiche. Ro ma: Edizioni Paoline
Busnardo G. 1990. Il paesaggio vegetale. In Ambiente fiume - Natura e vita nel Parco del Brenta.
Venezia: Marsilio Editori
Caspari C. e Schouer T. 1987. Guida all'identificazione delle piante. Bologna: Zanichelli
Castelletti L., Castiglioni E. e Rottoli M. 2001. L'agricoltura dell'Italia Settentrionale dal Neolitico al
Medioevo. In Le piante coltivate e la loro storia. Milano: Franco Angeli Ed.
Cipriani G. 2005. La rucola selvatica non richiede né concimi né antiparassitari. Vita in campagna.
9/2005: 24
Coltro D. 1983. La cucina tradizionale veneta. Roma: Newton Compton Editori
Da Broi F. 2005. Il prato è servito. Nervesa: Francesco Da Broi Ed. Multimediali
Dalla Fior G. 1969. La nostra flora. Trento: Casa Editrice G.B. Monauni
Della Beffa M.T. 2001. Erbe. Novara: Istituto Geografico De Agostini
Flandrin J.L. e Montanari M. 1996. Storia dell'alimentazione. Roma-Bari: Editori Laterza
Francescato V. 2002. La vegetazione del medio corso del Brenta. In La nostra Brenta. Mestre: Andrea
Mazzanti e C. Editori s.n.c.
Gorini I. 2004. Come preparare ottimi piatti con ortiche, cime di luppolo e asparagine. Vita in campagna.
4/2004: 74
Gorini I. 2004. Come utilizzare borragine, rucola e acetosella per preparare saporiti piatti. Vita in
campagna. 5/2004: 76
Gruppo erboristico Comunità Montana del Grappa 1986. Schedario di piante spontanee utilizzate in
alimentazione. Treviso: ESAV
Gualandi R. 1991. ErbissSima. Bologna: Leopoldo Fusconi Editore
Indrio F. 1981. Piante selvatiche commestibili. Milano: Ottaviano
Lancellotti A. 2001. Le erbe aromatiche in cucina. Lodi: Bibliotheca culinaria
Lanzani A. 1989. Il prato nel piatto. Milano: Oscar Mondadori
85
Lazzarini E. 2008. Le erbe selvatiche. Milano: Hoepli
Lazzarini E. e Lonardoni A.R. 1992. Andar per prati e boschi. Bologna: Edagricole - Ed. Agricole
Leung A.e Foster S. 1999. Enciclopedia delle piante medicinali. Roma: Aporie
Lippi A. 2002. Da erbe per i poveri a cibo per buongustai. Capannori: Ponte
Maffioli G. 1981. La cucina padovana. Padova: Franco Muzzio Editore
Maffioli G. 1983. La cucina trevigiana. Padova: Franco Muzzio Editore
Marcone A. 1997. Storia dell'agricoltura. Roma: Carocci
Marinoni J. 1984. Cucina e salute con le erbe spontanee nelle Tre Venezie. Padova: Franco Muzzio
Editore
Martelli E. e Zanetti Berni M. 2000. Erbe magiche per piatti incantati. Bologna: Atesa editrice
Mattirolo O. 1918. Phytoalimurgia Pedemontana, copia anastatica. Aggiornamenti di Gallino B. 2001.
Peveragno: Edizioni Blu
Mazzetti A. 1987. La flora dei Colli Euganei. Padova: Canova
Montanari M. 1993. La fame e l'abbondanza. Roma-Bari: Editori Laterza
Montanari M. 2004. Il cibo come cultura. Roma -Bari: Editori Laterza
Moretti Foggia A. 1978. Le piante alimentari e medicinali del Dottor Amal. Milano: Sonzogno
Rapaggi M. L. 1995. Erborare e cucinare. Bologna: Edagricole - Ed. Agricole
Riva E. 1995. L'universo delle piante medicinali. Bassano del Grappa: Ghedina & Tassotti Editore
Rodato S. 1989. Piante spontanee utilizzate in alimentazione. Caselle d'Asolo: G.S. Stampa
Rosati A. 2005. Le più note piante spontanee di stagione: il Chenopodio (Chenopodium album). Vita in
campagna. 6/2005: 59
Rosati A. 2005. Le più note piante spontanee di stagione: la Portulaca (Portulaca oleracea). Vita in
campagna. 7-8/2005: 47
Rosati A. 2006. Le più note piante spontanee di stagione: la Malva (Malva sylvestris). Vita in campagna.
5/2006: 59
Rosati A. 2006. Le più note piante spontanee di stagione: La rucola selvatica o ruchetta. Vita in
campagna. 9/2006: 57
Rosati A. 2006. Le più note piante spontanee di stagione: il Dente di leone o Tarassaco. Vita in campagna.
12/2006: 65
86
Rosati A. 2007. Le più note piante spontanee di stagione: il Sambuco (Sambucus nigra). Vita in
campagna. 6/2007: 55
Rosati A. 2007. Le più note piante spontanee di stagione: l’ortica, pianta urticante ma valida in cucina.
Vita in campagna. 7-8/2007: 56
Rosati A. 2007. Le più note piante spontanee di stagione: i deliziosi strigoli. Vita in campagna. 9/2007: 60
Rosati A. 2007. Le più note piante spontanee di stagione: l’amara e salutare cicoria selvatica. Vita in
campagna. 11/2007: 58
Saltini A. 1996. I semi della civiltà. Bologna: Avenue Media
Sartori F. 1988. La Pianura Padana. Novara: Istituto Geografico De Agostini
Scuro G.L. 1990. L'assetto geologico e geomorfologico. In Ambiente fiume - Natura e vita nel Parco del
Brenta. Venezia: Marsilio Editori
Signori F. 1990. Il Brenta nei secoli. In Ambiente fiume - Natura e vita nel Parco del Brenta. Venezia:
Marsilio Editori
Spinardi R. 2001. Aromi & Sapori. Cesena: Litografia Wafra
Viggiani P. e Pezzi G. 2002. Le piante dell'uomo. Bologna: Edagricole & Il Sole 24 Ore
Zampiva F. 1999. Erbario veneto. Vicenza: Egida
87