Ma la critica musicale serve davvero a qualcosa? Incontro con il musicologo Massimo Zicari, autore del saggio «Verdi in Victorian London» / 21.11.2016 di Zeno Gabaglio «Dalla lettura dei quotidiani italiani, inglesi, tedeschi e francesi dell’Ottocento emerge chiaramente un’attenzione forte nei confronti delle novità musicali e operistiche del tempo, con discussioni dai toni accesi e a volte apertamente polemici, con schieramenti e prese di posizione che riguardavano gli aspetti più diversi della cultura musicale, fino a toccare le questioni morali». Il tema è di quelli forti – la critica musicale: il suo senso, il suo valore – e a parlarcene è Massimo Zicari, responsabile delegato presso la Divisione ricerca e sviluppo del Conservatorio della Svizzera italiana. L’occasione per coinvolgere il musicologo ticinese attorno a questo argomento fin troppo negletto è data dalla recente pubblicazione (per Open Book Publishers a Cambridge) del libro Verdi in Victorian London, uno studio che pone proprio l’accento sulla ricezione inglese – tutt’altro che semplice, diversamente da quello che si potrebbe pensare – delle opere del sommo compositore di Busseto. Un testo che qui usiamo come pretesto – senza per questo screditarne gli stimolanti contenuti – per parlare soprattutto di critica: quel che era, quel che è. «Nell’Ottocento il critico era rivestito di un ruolo importante: vegliare sugli sviluppi dell’arte musicale e formulare un giudizio estetico fondato, con cui guidare il lettore verso una migliore comprensione delle novità che si affacciavano sul mercato della musica». Un esercizio peraltro «non esente da derive ideologiche, nazionalismi, idiosincrasie personali e quant’altro». Ma funzionava? I critici venivano ascoltati? «Difficile da dire, dal momento che né il pubblico né i compositori si lasciavano veramente influenzare dai critici. Il pubblico accorreva a teatro spesso malgrado il loro giudizio, e i compositori mal tolleravano i loro toni di rimprovero. Basti pensare a Wagner e alle sue invettive dai toni razzisti e antisemiti nei confronti dei suoi detrattori». L’impressione è però quella per cui nel passato, soprattutto in quel diciannovesimo secolo che elesse la musica a massima espressione dello spirito umano, sia la critica sia il pubblico avessero con essa un rapporto vitale: la mia vita migliora se ascolto qualcosa di buono, e faccio di tutto affinché questo possa accadere. Oggi si può dire altrettanto? «Assistiamo solo raramente a qualcosa di simile, ma la radice del problema non è da ricercare nella stampa – sempre assetata di novità – quanto piuttosto nell’impoverimento (per quanto paradossale possa suonare) della scena musicale di oggi, sempre più ripiegata verso un passato spesso museale». E in un simile contesto come può dunque venir declinata la missione della critica? «Il compito della critica oggi è certamente marginale rispetto al passato, innanzitutto perché marginale è il ruolo di una produttività musicale ripiegata tragicamente su se stessa. Quale senso ha, per intenderci, recensire per l’ennesima volta una sinfonia di Beethoven, a parte la qualità dell’esecuzione e dell’interprete? Certamente ha ancora una funzione didascalica, nella misura in cui aiuta il lettore a comprendere il repertorio del passato, ma raramente riesce a fungere da volano di cambiamenti». Un aspetto che nel tempo ha contribuito a un sostanziale screditamento della critica musicale è quello per cui spesso il giudizio degli esperti si è opposto a quello del pubblico, raccogliendo clamorose cantonate in prospettiva storica come il caso di Verdi a Londra ben dimostra. Com’è possibile che uno stesso oggetto musicale abbia portato a valutazioni così diverse? «Nell’Ottocento si parlava di filisteismo per identificare quell’atteggiamento retrivo o più spesso bassamente mercantile nei confronti dell’arte, contro il quale alcuni critici si opponevano a gran voce invocando gli ideali di un’arte musicale alta, nobile e sempiterna. È facile quindi capire come il cosiddetto “Verdi popolare” diventasse il bersaglio preferito dai critici idealisti, a maggior ragione se il pubblico veniva irretito dalle facili seduzioni di qualche volgare (nel senso etimologico della parola) “melodietta da organetto”». Criteri e atteggiamenti piuttosto miopi, dunque, che ancora duecento anni dopo non sono del tutto scomparsi… «Trovo anacronistico continuare a riproporre ancora oggi questa dialettica tra idealismo e filisteismo nell’arte, dopo che la sociologia ci ha spiegato quanti bisogni diversi la musica può soddisfare, quante funzioni può assumere, oltre a quella puramente estetica. In questo senso il critico non deve essere un moralista, non deve predicare il bene artistico supremo, ma piuttosto fornire al pubblico le chiavi di lettura utili a meglio capire i fenomeni del nostro tempo». È però anche successo il contrario – per esempio con le avanguardie storiche del Novecento – dove i critici anziché bacchettare i gusti del pubblico facevano di tutto per propinargli musiche che in realtà non voleva sentire. «È sempre la questione delle funzioni della musica e della cultura nella nostra società: il critico deve aiutare il pubblico a comprendere le ragioni di un’arte complessa, ostica, a volte indigesta; non penso invece che possa o debba convincerlo ad apprezzarla, se in realtà quest’ultimo cerca dell’altro. Siamo onesti: non andiamo ad ascoltare Schubert perché vogliamo assistere a una lezione sull’estetica musicale romantica tedesca, vi andiamo perché la sua musica ancora oggi ci muove, ci conquista, ci emoziona. Al contrario, potrei ben comprendere le ragioni estetiche delle avanguardie del Novecento e continuare a provare noia per i risultati musicali che queste hanno prodotto». Per concludere: quale funzione si può ancora immaginare per la critica musicale? «Informare, orientare le aspettative, alimentare le attese: il giudizio dell’esperto ha ancora un grande valore. Tuttavia, se è vero che i critici letterari e cinematografici si trovano costantemente confrontati con le novità del momento, lo stesso non si può dire per quelli musicali, posti di fronte allo stridente contrasto tra la prevedibilità dei repertori del passato da una parte, e la sconcertante inattualità del presente dall’altra». Anche nella nostra regione? «Nella Svizzera italiana il problema diventa ancora più delicato perché spesso manca la necessaria distanza sociale e umana tra chi esercita la critica e chi ne è oggetto. Questo aspetto non rappresenta una novità, ma la misura del problema rende le dinamiche molto delicate».