scuola permanente per l`aggiornamento degli insegnanti di scienze

SCUOLA PERMANENTE PER L’AGGIORNAMENTO
DEGLI INSEGNANTI DI SCIENZE SPERIMENTALI
A cura di:
Michele A. Floriano
Giovanni Magliarditi
Claudio Fazio
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), numero speciale 10
University of Palermo, Italy
SCUOLA PERMANENTE PER L’AGGIORNAMENTO
DEGLI INSEGNANTI DI SCIENZE SPERIMENTALI
Il Sole.
La nostra stella
e/è la nostra
risorsa
I.I.S. "O. M. Corbino", Siracusa
21 - 26 Luglio 2015
A cura di:
Michele A. Floriano
Giovanni Magliarditi
Claudio Fazio
Contributi alla
Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli
Insegnanti di Scienze Sperimentali
IX edizione: “Il Sole. La nostra stella e/è la nostra risorsa ”
I.I.S. "O. M. Corbino",
Siracusa, 21 – 26 LUGLIO 2015
Coordinamento scientifico-didattico:
Presidente: Michele A. Floriano
Anna Caronia
Delia Chillura Martino
Maria Concetta Consentino
Claudio Fazio
Patrizia Gasparro
Mario Gottuso
Giovanni Magliarditi
Roberta Maniaci
Daniela Tomasino
Margherita Venturi
Comitato organizzatore:
Claudia Caligiore
Anna Caronia
Carmela Fronte
Damiela Tomasino
Emanuela Tringali
[email protected] - www.unipa.it/flor/spais.htm
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), numero speciale 10
Editor in Chief: Claudio Fazio – University of Palermo, Italy
Editorial Director: Benedetto di Paola - University of Palermo, Italy
ISBN: 978-88-941026-1-1
First edition, 1st August 2016, © SPAIS, Palermo
Indice
Prefazione
Michele Antonio Floriano e Anna Caronia
Nanodispositivi e macchine molecolari. Dai materiali alle scienze della vita
1
Giuseppe Calogero
Solare 3.0: l'energia del sole ecosostenibile con i colori della natura e le nanotecnologie
4
Fabio Caradonna
Le razze umane non esistono, lo dimostra… il colore della pelle!
23
Fabio Caradonna
Radiazione solare e variabilità genetica: cosa ci regala il sole sulla spiaggia
(oltre la tintarella)
28
Guido De Guidi and Alfio Catalfo
Photosensitization, lights and shadows
34
Pierantonio Garlini
Esperimenti di Fisica con la calcolatrice CASIO fx CG 20 e una centralina
CLAB
68
Stefania Gilardoni Garlini
La chimica dell'atmosfera e il clima del nostro pianeta
80
Danilo Giulietti
Energia, potenza, intensità e brillanza di una sorgente luminosa: dagli Specchi
Ustori di Archimede ai laser super-intensi
88
Salvatore Antonino Lombardo
Tecnologie per l’ENERGia e l’Efficienza energETICa (ENERGETIC)
103
Claudio Oleari
Esperienze visive a colori, psicofisica e fisiologia della visione a colori - Introduzione alla colorimetria
107
Fabio Reale
Il Sole che cambia
137
Mariano Venanzi
Astrochimica: un percorso affascinante per l'insegnamento delle scienze integrate
146
Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
“Il Sole. La nostra stella e/è la nostra risorsa”, I.I.S. "O. M. Corbino", Siracusa, 21-26 luglio 2015
Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), n. speciale 10, 2016
Prefazione
Il Sole. La nostra stella e/è la nostra risorsa
Michele A. Floriano1,2 e Anna Caronia3
1
Divisione Didattica della Società Chimica Italiana
2
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche, Chimiche e Farmaceutiche, Università di Palermo
3
I.S. “Ettore Majorana”, Palermo
e-mail: [email protected]; [email protected]
Sito web: www.unipa.it/flor/spais.htm
Il Sole è la stella più vicina a noi ed è la fonte di energia da cui dipende la vita
sulla Terra. La nostra Stella è in grado di convertire 600 milioni di tonnellate di
idrogeno in 596 milioni di tonnellate di elio producendo in un solo giorno, per
conversione del difetto di massa, l’energia utilizzata dall’intero nostro pianeta in
un anno. A questo tasso di fusione nucleare, il carburante si esaurirà in circa 5 miliardi di anni, periodo che, rispetto ai tempi antropici, può essere considerato infinito. In altre parole, dal punto di vista umano la durata del Sole può essere considerata infinita.
Ad eccezione dell'energia geotermica e di quella nucleare tutte le forme di energia, derivano da processi di trasformazione, più o meno, complessi
dell’energia solare. Ciò è vero anche per il petrolio, prodotto della mineralizzazione nei millenni della biomateria da resti di organismi accumulata negli strati litosferici.
L’energia solare è la regina delle rinnovabili, è gratuita, non altera l’equilibrio
ambientale e giunge sulla Terra sottoforma di un ampio spettro di radiazioni elettromagnetiche, fra le quali anche la radiazione infrarossa (calore). Il processo di
trasformazione di tipo termodinamico è il più diffuso dopo quello elettromagnetico ed oggi la ricerca scientifica ha raggiunto livelli tali di sviluppo da consentire
la messa a punto di dispositivi efficienti ed efficaci.
Uno dei campi di maggior interesse in cui la ricerca oggi risulta essere molto
promettente è quello mirato ad imitare la fotosintesi clorofilliana. L’energia producibile tramite il processo di fotosintesi è immensa, pari a circa sei volte l’attuale
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consumo energetico mondiale. Questo ha indotto gli scienziati a interrogarsi sulle
possibilità attuali di finalizzazione tecnologica nel campo del suo sfruttamento a
scopi pratici.
La IX edizione di SPAIS, in occasione dell'Anno Internazionale della Luce indetto dall'UNESCO, si è focalizzata su aspetti multidisciplinari riguardanti l'effetto della radiazione solare sull'ecosistema terrestre oltre sui risultati più attuali nel
campo della sua utilizzazione a fini pratici.
Il programma si è articolato in 15 ore di lezioni frontali, un confronto dibattito
sulla evoluzione del Sole nei millenni e gli effetti di tali cambiamenti
sull’ecosistema terrestre, un laboratorio con dimostrazioni sulle proprietà della radiazione elettromagnetica con semplici strumentazioni utilizzabili anche in classe
e un laboratorio con dimostrazione di sorgenti luminose innovative quali i LED.
Inoltre è stata realizzata, fuori dal programma scientifico, un'affascinante conversazione serale “Sul mito della caverna” di Platone. Il programma scientifico, di
elevato livello qualitativo, è stato particolarmente apprezzato per la competenza
dimostrata da tutti i relatori, ma anche per la loro disponibilità a confrontarsi sulle
ricadute didattiche delle diverse tematiche di ricerca nonché per l'evidente entusiasmo con cui hanno partecipato alla Scuola.
Il quadro complessivo dei contributi ha consentito di evidenziare gli aspetti più
importanti legati allo sfruttamento dell’energia solare, dalle applicazioni tecnologiche più innovative, alla delucidazione dei meccanismi naturali indotti dalla radiazione, fino agli aspetti di carattere economico e sociale legati allo sfruttamento
di tale risorsa. Inoltre, la provenienza multidisciplinare dei relatori ha consentito
efficacemente di mettere in luce punti di vista diversi nello studio della stessa tematica.
Siamo grati al Distretto Tecnologico Sicilia Micro e Nano Sistemi nelle persone Dr. Corrado Spinella, Presidente, e dell'Ing. Filippo D'Arpa, Amministratore
Delegato, per il supporto e per la condivisione della filosofia di SPAIS
nell’ambito di un accordo di collaborazione triennale.
Si ringraziano l’Ufficio Scolastico Regionale per la Sicilia, le Università di Catania, Messina e Palermo e il Piano Lauree Scientifiche, aree Chimica e Fisica
delle stesse sedi, per il continuo supporto. Si ringrazia la Zanichelli Editore s.p.a.
agenzia Cannata srl di Siracusa e la Casio per avere messo a disposizione materiale di supporto e strumentazione didattica.
La presente edizione della Scuola è parte del progetto PRIN (Progetti di Ricerca di
Interesse
Nazionale)
2010-11
dal
titolo
"Tecnologie supramolecolari integrate per il trattamento dell'informazione chimica: dispositivi e materiali molecolari avanzati (Infochem)" di cui si ringrazia il supporto.
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Floriano & Caronia – Il Sole. La nostra stella e/è la nostra risorsa
Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
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Un particolare ringraziamento è rivolto alla Prof.ssa Carmela Fronte, Dirigente
Scolastico dell’I.S.S.S. "O.M. Corbino" di Siracusa, per avere messo a disposizione i locali dell’Istituto per la corrente edizione di SPAIS ed al personale docente, tecnico e ausiliare per la collaborazione. Infine, siamo grati a quei Relatori che
hanno consentito di rendere permanente il proprio contributo con la realizzazione
di questi Atti.
Floriano & Caronia – Nanodispositivi e macchine molecolari ...
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Solare 3.0: l’energia del sole ecosostenibile con
i colori della natura e le nanotecnologie.
Giuseppe Calogero*
CNR-IPCF, Istituto per i Processi Chimico-Fisici, Via F. Stagno
D’Alcontres 37,98158 Messina, Italy.
*Corresponding author email: [email protected]
Riassunto. Nel lavoro verranno descritti i metodi di preparazione ed i processi di fabbricazione di dispositivi fotovoltaici di terza generazione a base di coloranti naturali. Tra i vegetali che si
possono utilizzare per estrarre pigmenti naturali si annoverano il
fico d’india, l’arancia moro, l’uva, le more, il gelso, la melanzana, il radicchio ecc.., tutti abbondanti nel territorio siciliano, privi
di tossicità, biodegradabili, non inquinanti e facilmente reperibili.
Le celle solari descritte, conosciute come celle solari di Grätzel,
sfruttano la capacità di assorbire la luce visibile che possiedono
alcune molecole organiche presenti in natura come le “antocianine”, e/o betalaine, clorofilla, carotenoidi, ecc.., per catturare
l’energia solare e convertirla in elettricità. Per una migliore comprensione verranno mostrati e descritti tutti i componenti necessari per la preparazione dei materiali che compongono il dispositivo fotovoltaico finale. Inoltre verrà spiegato il processo chimico
–fisico che sta alla base del funzionamento delle celle di Gratzel.
Verrà illustrata anche l’opportunità di sfruttare coloranti vegetali
provenienti da scarti alimentari vegetali insieme con l’impiego di
nanomateriali tecnologici altamente innovativi, come ad esempio
il grafene e suoi precursori come la grafite. Verrà mostrata
l’interdisciplinarietà dell’argomento trattato che è capace di suscitare interesse ed entusiasmo combinando insieme tra loro varie
discipline quali la biologia, la chimica, la fisica, la fotochimica,
l’architettura, l’elettronica, la matematica,la tecnologia, la nanotecnologia, l’agricoltura, l’informatica, il computazionale ecc..
Questo lavoro dal punto di vista didattico e divulgativo può dare
spunto a molti approfondimenti delle varie discipline coinvolte
nella tematica sia a livello scolastico che accademico.
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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), n. speciale 10, 2016
1. Introduzione
Come è noto l’energia viene definita come la capacità di compiere lavoro, tuttavia
esistono altri modi per definirla: alcuni di questi furono introdotti dalla meccanica
quantistica e dalla teoria della relatività speciale con il contributo di un giovane
scienziato tedesco (A. Einstein, 1879-1955). Egli insieme con altri scienziati
dell’epoca (M. Planck 1958-1947) aiutò a comprendere che sia la luce ( E = h  )
che la materia ( E = m c2 ) non sono altro che forme di energia che si manifesta in
modo diverso nello spazio-tempo, dove rispettivamente h è la costante di Planck e
c il valore della velocità della luce nel vuoto. Noi forse non ci rendiamo conto
quanto è importante per noi l’energia ed in particolare quella solare. Il fatto è che
l’energia ci circonda, essa è ovunque, e non ne possiamo fare a meno. Basti ricordare che la sola energia contenuta nella luce UV-visibile insieme con l’energia elettrostatica dei fulmini ha permesso la nascita e lo sviluppo della vita sulla terra
partendo dal brodo primordiale [1] ed in seguito attraverso la fotosintesi clorofilliana abbia favorito la formazione dell’attuale atmosfera terrestre, che ci consente
di respirare. La Terra riceve dal sole in un ora la quantità di energia che l’umanità
consuma in un intero anno solare. Parte di quest’energia viene riflessa direttamente, parte viene assorbita dagli oceani e dall’atmosfera contribuendo ai venti ed alle
correnti, parte viene assorbita dal terreno e poi in parte riflessa, una piccola quantità serve per la fotosintesi. Dall’energia solare dipende quindi quasi tutta
l’energia che è presente sul nostro pianeta ( ad esclusione dei fenomeni geotermici, di quelli nucleari e quelli dovuti alla forza di gravità ed ai moti lunari, ecc..).
La potenza emessa dal Sole si calcola dalla famosa equazione di Stefan-Boltzman
P=  T4 dove  è la costante di Stefan-Boltzman e T è la temperatura superficiale
della nostra stella. Ma come si calcola la quantità di energia solare che arriva sulla
Terra? Semplice, bisogna calcolare la costante solare della Terra: So che è il rapporto tra la Potenza totale emessa dal sole e l’area della sfera su cui orbita la Terra. So= P/ (4 r2) dove r è la distanza Terra-Sole. Ogni pianeta ha dunque la sua
costante solare, per la terra è circa 1370 W/m2, esso è un parametro fondamentale
per il calcolo della potenza solare incidente per unità di superficie in qualunque
punto della Terra. Considerando l’effetto dell’atmosfera essa si riduce a circa 947
W/m2, che diventano 1042 W/m2 se si tiene anche conto della componente di luce
diffusa dall’atmosfera. La potenza incidente è però influenzata da un altro fattore
fondamentale: la declinazione del Sole, ossia l’angolo che forma con la verticale.
L’effetto della declinazione si manifesta in due modi. Innanzitutto, maggiore la
declinazione, maggiore lo spessore dello strato di aria attraversato dalla luce prima di giungere a terra. Questo effetto si schematizza con un parametro denominato Air Mass (AM), che quantifica questo spessore in numero di atmosfere equiva-
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lenti. Lo spettro solare AM 0 è quello che si ha al di fuori dell’atmosfera, lo spettro AM 1 quello per il Sole allo zenith. In tutte le altre situazioni si trova: AM =
1/cos dove  è l’angolo di declinazione (es. AM 1.5 è 48.2°). L’intensità di
luce alla superficie, su un pianoperpendicolare alla direzione dei raggi del Sole,
dipende quindi dall’angolo di declinazione (Fig.1):
Figura 1. Schema di come varia l’angolo di declinazione rispetto allo Zenith.
Questa è la potenza solare incidente diretta? Per tenere conto dell’effetto della radiazione diffusa nell’atmosfera bisogna maggiorare questo valore del 10%. Se poi
vogliamo considerare un valore della potenza incidente sulla superficie orizzontale, bisogna considerare l’effetto puramente geometrico della declinazione del Sole, moltiplicando ulteriormente il valore ottenuto per il coseno dell’angolo 
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Figura 2. Le dimensioni del nanomondo.
Per esempio con una stazione meteo collocata sul tetto dell’istituto dei Processi
Chimico Fisici del CNR ho stimato che sulla nostra isola piovono circa 5475,288
MJ/m2 annuo cioè circa 15 MJ/m2 al giorno. Per sfruttare questa manna solare è
indispensabile utilizzare delle nuove tecnologie, in grado di convertire efficacemente i raggi del sole in energia elettrica. Ma non bastano le comuni tecnologie,
servono tecnologie più avanzate, quelle che oggi si stanno afferendo in moltissimi
campi: le nanotecnologie. Ma cosa sono le nanotecnologie? Cominciamo dal prefisso nano (10-9), indica che questa tecnologia riguarda oggetti di dimensioni piccolissime mille volte più piccoli dell’occhio di una zanzara , il nanometro (nm)
appunto. Per prendere confidenza con le nanotecnologie e il nanomondo è utile ricordare che lo spessore di un capello e di circa 75000 nm , mentre l’E. Coli ha le
dimensioni di circa 2000 nm, il diffusissimo processore i7 ( Intel) ha dimensioni
dell’ordine dei 45 nm, il DNA ha solo 2 nm di diametro, il grafene ha uno spessore di soli 0.3 nm mentre il piccolissimo atomo d’idrogeno ha un diametro di circa
0.1 nm (Fig. 2). Ripercorrendo all’indietro un po’ la storia dello sviluppo tecnologico ci accorgiamo che la possibilità di sfruttare lo spazio del mondo microscopico che esiste intorno a noi nasce nel 1959. Infatti proprio in quell’anno al Caltech,
Richard Feynman in un ormai famosissimo discorso dal titolo “ C’è un sacco di
spazio là in fondo”, considerava la possibilità di una diretta manipolazione di singoli atomi come una forma più rilevante di chimica sintetica rispetto a quelle in
uso ai suoi tempi. Da questa visione alcuni anni dopo nel 1974 Norio Taniguchi in
un articolo dava la definizione di nanotecnologia e per la prima volta usava questo
termine [2]. Nel 1981 Heinrich Roher & Gerd Binnig con un famoso esperimento
dimostrarono che era possibile manipolare gli atomi e costruire oggetti piccolissimi, nasce il Microscopio a scansione con effetto tunnel [3]. Il nanomondo presenta proprietà bizzarre dovute alle piccolissime dimensioni degli oggetti, per esempio le particelle metalliche mostrano proprietà ottiche che sono dipendenti
dalle loro dimensioni. Tornando alla nostra domanda dunque : la nanotecnologia è
un ramo della scienza applicata e della tecnologia che si occupa della progettazione e realizzazione di oggetti di dimensioni non superiori ad un micrometro. Per
realizzare nano strutture si possono avere due approcci dall’alto (top down) o dal
basso (bottom up) (Fig. 3).
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Figura 3. Costruire nanostrutture : top-down e bottom-up.
Nel primo caso si scavano gli oggetti con acidi o fasci di particelle cariche e si
scolpiscono le nano strutture, nel secondo caso si assemblano uno ad uno i singoli
componenti fino ad ottenere un assemblato che è la nano struttura.
2. Celle solari di terza generazione ibrido organiche : costruzione e principi
di funzionamento
Per catturare la luce del sole occorre che la luce e la materia interagiscano.
Dalla loro interazione possono scaturire fenomeni come la visione o la conversione di energia luminosa in elettrica.
Se consideriamo una specie chimica A (Fig.4) essa può interagire con la luce
assorbendola e portandosi in uno stato eccitato A* che può disattivarsi in diversi
modi.
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Figura 4. Destino di uno stato eccitato.
Uno di questo comporta la cessione di una carica elettrica negativa ad un'altra
molecola o composto (Q) , avremo quindi A* + Q  A+ + Q- .
Questo cammino di disattivazione è sfruttato nelle celle solari di terza generazione comunemente note anche come celle di Gratzel ( dal nome del suo inventore). Come è composta una cella solare di terza generazione ibrida organica? La
prima descrizione di una cella di Grätzel, o DSSC basata su nano cristalli di TiO2
si trova in una pubblicazione del 1991 [4].
La cella solare a sensibilizzatore (come illustrata nello schema di Fig.5) è costituita da tre principali componenti: il fotoanodo, l’elettrolita e il controelettrodo.
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Figura 5. Schema di una cella solare di Gratzel vista in sezione trasversale.
L’insieme dei componenti è assemblato e tenuto insieme da sigillanti come polimeri e/o resine o prodotti ceramici. Il fotoanodo generalmente è costituito a sua
volta da un supporto rigido o flessibile trasparente (vetro o plastica) reso opportunamente conduttore mediante deposizione di un film sottile di un ossido trasparente come SnO2:F (FTO), o In2O3:SnO2 (ITO); su questo supporto viene depositato un film di nanoparticelle di biossido di titanio (anatasio) sul quale viene fatto
assorbire il colorante sensibilizzatore. L’elettrolita è preparato sciogliendo un sale
di ioduro insieme a dello iodio in solventi poco volatili che possono essere mescolati con altri materiali come i liquidi ionici o con materiali polimerici per fare dei
gel elettrolitici. Il contro-elettrodo più comune o catodo comunemente più impiegato è a base di platino [5] o carbonio [6,7]. La sigillatura della cella viene fatta
grazie ad una guarnizione di materiale plastico (Surlyn®) comunemente utilizzato
nell’industria della conservazione degli alimenti.
Il funzionamento è il seguente: l’energia solare è assorbita dal colorante (sensibilizzatore) che eccitandone gli elettroni li mette in movimento verso le nanoparticelle e da queste la spinta energetica è sufficiente per giungere fino al vetro
conduttore e quindi al filo elettrico ad esso collegato. Quasi contemporaneamente
l’elettrolita, costituito come già detto dalla coppia iodio-ioduro (I2/I-), riattiva il
colorante restituendogli gli elettroni persi ed assicura il trasporto di carica mi-
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grando verso il contro-elettrodo di Platino dove trova gli elettroni persi dal colorante che erano fluiti nel filo elettrico esterno chiudendo il circuito.
Il funzionamento della cella si può descrivere dettagliatamente in cinque processi:
1) il colorante (S) adsorbito sull’anodo assorbe un fotone, e un elettrone viene promosso dall’HOMO (High Occupied Molecular Orbital) al LUMO (Low
Unoccupied Molecular Orbital); la sua energia passa da EHOMO a ELUMO
2) l’elettrone viene iniettato nella banda di conduzione del semiconduttore
(ECB), che si trova ad un’energia più bassa; passa così da ELUMO a ECB
3) dal semiconduttore passa al vetro conduttore e dopo aver attraversato il
circuito esterno, ed alimentato un eventuale carico, l’elettrone arriva al catodo con
un’energia più bassa, Ecat.
4) Grazie all’azione catalizzatrice di quest’ultimo esso può andare a ridurre
lo ione ossidato della coppia redox. Il salto di potenziale in questo caso è da Ecat
ad Eredox
5) lo ione diffonde attraverso il solvente fino a raggiungere l’anodo; e qui
cede l’elettrone al colorante ossidato, che è quindi pronto a ricominciare un nuovo
processo.
Il ciclo si chiude senza che il sistema abbia subito modifiche permanenti. In linea teorica, come si può vedere, questo ciclo è perfettamente reversibile e funziona grazie all’energia solare. La tensione massima disponibile ai capi della cella
(Voc) dipende dalla differenza di potenziale tra la banda di valenza del semiconduttore (Ecb) e il potenziale di riduzione della coppia redox impiegata (Eredox). Per
quanto riguarda l’iniezione elettronica, si deve tener conto del fatto che il percorso che si vuole far compiere all’elettrone è solo uno dei molti possibili. In effetti,
può verificarsi anche uno qualunque dei seguenti processi alternativi che influiscono negativamente sul funzionamento della cella:
1b) Disattivazione: l’elettrone, una volta eccitato, ricade nel suo stato fondamentale senza essere iniettato nel semiconduttore. Può essere radiativa, se accompagnata da emissione di un fotone, o non radiativa, se l’energia viene invece liberata sotto forma di energia termica.
2b) Retro‐iniezione: l’elettrone, dopo essere stato iniettato nel semiconduttore,
torna a combinarsi con una molecola di colorante ossidata.
3b) Ricombinazione: l’elettrone nella banda di conduzione del semiconduttore
riduce uno ione ossidato della coppia redox presente nell’elettrolita; ad esempio,
se la coppia impiegata è I2/I‐, riduce una molecola di iodio. Come si è già detto,
l’elemento fondamentale che consente ad un materiale semiconduttore ad ampio
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gap come l’ossido di titanio di assorbire luce visibile è il sensibilizzante, o colorante. Fin dall’inizio dello studio delle DSSC l’attenzione dei ricercatori, incluso
lo stesso Grätzel, è stata concentrata soprattutto sull’impiego e lo sviluppo dei coloranti dalle migliori proprietà. Questi si sono rivelati essere soprattutto alcuni
complessi organometallici del rutenio, un metallo nobile ed estremamente raro, al
punto che si stima ne esistano solo 5000 tonnellate su tutta la Terra.
I primi coloranti impiegati nelle DSSC sono stati composti di derivazione sintetica, in particolare complessi organometallici del Rutenio [8,9] (dal latino “Ruthenia”, ovvero Russia, luogo dove venne inizialmente scoperto). Appartenente al
gruppo VIIIB, periodo 5, della tavola periodica, il Rutenio è un metallo duro,
bianco-argentato e puro; risulta estremamente difficile da lavorare, essendo caratterizzato da un’ottima resistenza: non reagisce, infatti, con aria, acqua ed alcuni
acidi come nitrico e cloridrico; tuttavia si scioglie se trattato con acqua regia, ipocloriti alcalini, soluzioni concentrate di perossidi o idrato di sodio. La sua sensibilità all’ossidazione aumenta all’aumentare della temperatura, nonostante rimanga
duro e fragile anche oltre i 1500° C. Gli stati di ossidazione più comuni tra gli otto
che può avere sono: +2, +3 e +4 ed in particolare il primo è lo stato di ossidazione
che troviamo nei complessi di Rutenio utilizzati per la realizzazione delle celle tipo Grätzel. I coloranti capaci di fornire le migliori prestazioni sono il cis‐bis (isotiocianato) bis(2,2’‐bipiridil‐4,4’‐dicarbossilato) ‐ rutenio (II)
bistetrabutilammonio, nome commerciale N719, il cis‐bis (isotiocianato)
bis(2,2’‐bipiridil‐ 4,4’‐dicarbossilato) ‐rutenio (II), nome commerciale N3, e il tris
(isotiocianato) ‐rutenio(II) ‐ 2,2’:6’, 2”‐terpiridine ‐ 4,4’,4”‐acido tricarbossilico
tris‐tetrabutilammonio, nome commerciale Black Dye. Questi coloranti, però, al
di là delle loro innegabili qualità che consentono rese di conversione di energia
solare in elettricità elevate, presentano due grossi svantaggi: il primo è il prezzo
molto alto, dovuto alla rarità del rutenio e soprattutto alla complessità della sintesi
di queste molecole; il secondo svantaggio è la tossicità del rutenio. Questo pone
un problema relativo alla preparazione e allo smaltimento delle celle giunte a fine
vita, che può diventare complesso e costoso. Una risposta alternativa ci viene
dall’osservazione della natura. Come abbiamo detto all’inizio esiste un processo
chimico che ha molti punti in comune con quello che garantisce il funzionamento
delle celle di Grätzel, ed è la fotosintesi clorofilliana. Grazie ad essa le piante verdi convertono continuamente anidride carbonica e acqua in ossigeno e sostanze
nutritive, quali il glucosio, grazie all’assorbimento di luce solare, con
un’efficienza di circa il 2%, con casi limite (canna da zucchero) che raggiungono
l’8%. La clorofilla, la molecola che catalizza questo processo assorbendo la luce,
ha una struttura simile a quella dei coloranti visti in precedenza, e opera in modo
analogo. E non solo: diverse altre molecole, presenti in fiori, foglie e frutti di mol-
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ti vegetali e responsabili dei loro colori più vivaci, hanno proprietà simili. Si tratta
principalmente delle antocianine, molecole appartenenti al genere dei flavonoidi
che conferiscono il colore rosso a molti frutti e fiori, così come quello giallo‐aranciato alle foglie secche, e delle betalaine, presenti ad esempio nel fico
d’india, le cui tonalità virano dal violetto al rosso e al giallo. L’impiego di coloranti naturali basati su antocianine e betalaine, pur esibendo basse efficienze di
conversione di energia solare in energia elettrica, presenta innegabili vantaggi ecologici ed economici. In una cella di Grätzel il colorante svolge la fondamentale
funzione di sensibilizzare il semiconduttore, consentendogli di interagire con una
porzione di spettro solare più ampia. Esso si lega allo strato di semiconduttore
mediante un processo di adsorbimento che avviene grazie all’immersione diretta
dell’elettrodo nella miscela colorata, sfruttando l’effetto chelante, l’effetto di
complessazione semplice o self-assembly molecolare. Affinché sia possibile la
formazione del legame fra TiO2 e colorante, è necessario, però, che quest’ultimo
sia dotato di alcuni requisiti fondamentali. In primo luogo, occorre che in esso
siano presenti dei gruppi funzionali capaci di formare legami chimici con il semiconduttore. I principali gruppi che svolgono questa funzione sono gli ossidrilici
ed i carbossilici, non troppo stericamente ingombrati, capaci di legarsi al Ti 4+ posto nei siti superficiali del film, formando nuovi legami Ti-O. E’ fondamentale
l’utilizzo di nano particelle del semiconduttore, infatti quando la dimensione delle
nanoparticelle TiO2 diventa minore di 20 nm, la superficie degli atomi di Ti cambia la struttura di coordinazione da ottaedrica a tetragonale con forma piramidale
ed il Ti diventa penta coordinate, con la conseguente deformazione lunghezza di
legame Ti- O a seconda della curvatura nanoparticelle . In questa nuova geometria
strutturale a piramide a base quadrata, le piccolissime particelle di TiO2 espongono in superficie un gran numero di sotto-coordinati "difetti angolari " ( atomi di
Ti ai quali manca un ossigeno), che sono la fonte di nuovi siti ai quali si possono
attaccare i gruppi funzionali dei coloranti formando legami più forti e stabili.
Altri elementi determinanti sono l’ampiezza e la posizione del gap di energia
tra HOMO e LUMO del colorante: da essi dipende non solo l’energia minima dei
fotoni assorbiti, fondamentale per l’efficienza di conversione dello spettro solare,
ma anche il dislivello energetico tra il potenziale della coppia redox e lo stato
fondamentale del colorante, dislivello che costituisce la “driving force” per il processo di rigenerazione del colorante stesso, che deve essere il più veloce possibile
per evitare la retro-iniezione e la ricombinazione degli elettroni. In generale la
condizione fondamentale nella scelta del colorante è la capacità dello stesso di effettuare un totale assorbimento nel visibile e almeno parziale nell’infrarosso e
nell’ultravioletto. Queste richieste vengono soddisfatte da una vasta gamma di sostanze sia di origine naturale (es. clorofilla, antocianine, betalaine), sia di deriva-
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zione sintetica (complessi del rutenio) che biomimetici (Clorofilline [10], Sali di
flavilio [11]). In particolare l’attenzione è rivolta a composti che assorbano nella
regione spettrale estesa dal blu al verde. Ci si può spiegare così la ragione per la
quale la scelta dei coloranti venga rivolta preferenzialmente verso sostanze rosse
o viola, quali antocianine, betanine e complessi di Ru(II). Tra tutti i coloranti contenenti complessi organometallici di Ru(II), approfonditamente studiati a partire
dagli anni ’70, quelli che hanno fornito i migliori risultati, sono stati: N719, N3 e
Black Dye, precedentemente descritti. Il risultato più significativo raggiunto con i
composti di Rutenio è stato un valore di efficienza di conversione del 11.8% [12].
La presenza in questi composti dei gruppi carbossilici (sostituenti sugli anelli piridinici), li rende la scelta ottimale come coloranti nei dispositivi DSC:
l’adsorbimento sul semiconduttore avviene tramite cessione di un protone da parte
del carbossile al TiO2. Inoltre, la distribuzione degli orbitali di frontiera gioca un
ruolo fondamentale riguardo l’adempimento della funzione fotosensibilizzatrice.
Poiché l’HOMO coincide con uno degli orbitali d del metallo ed il LUMO è localizzato sugli anelli piridinici recanti i carbossili, la velocità del processo di disattivazione subisce un abbassamento, a vantaggio dell’iniezione elettronica. Infatti, le
transizioni MLCT (Metal to Ligand Charge Transfer) [13] a cui va incontro questo tipo di molecole a seguito dell’irradiazione, portando l’elettrone eccitato verso
il legante, ne favoriscono l’iniezione nel semiconduttore. Nonostante tali coloranti
abbiano determinato buone prestazioni, il loro impiego comporta degli svantaggi
a causa dei loro elevati costi nonché della rarità del rutenio [14,15].
3. Uso coloranti naturali come sensibilizzatori
Una delle sfide raccolte dai ricercatori di tutto il mondo per sviluppare le potenzialità della tecnologia delle celle DSSC e le sue caratteristiche di economicità,
disponibilità dei materiali e, soprattutto, di eco-compatibilità, riguarda lo studio di
fotosensibilizzatori di origine naturale, generalmente estratti da frutti e foglie
(Fig.6). Si possono estrarre sensibilizzatori anche da alghe marine ricche di clorofilla c [16]. Il loro uso come colorante sensibilizzatore per celle DSSC può rappresentare una valida ed interessante soluzione alternativa per la produzione di
celle a costo ancor più contenuto. I pigmenti naturali presenti negli alimenti presentano strutture complesse più differenziate [Errore. Il segnalibro non è definito.].
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Figura 6. Pigmenti naturali di origine vegetale.
Fra i pigmenti naturali si distinguono:
1) Flavonoidi;
2) Betalaine;
3) Carotenoidi;
4) Tannini;
5) Clorofille;
6) Altri pigmenti (chinoni, curcumina ecc.).
Tra i vari coloranti naturali, quelli utilizzati con successo per le DSC senza alcuna
purificazione appartengono principalmente a due grandi categorie: antocianine e
betalaine.
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Figura 7. Formula struttura generale delle antocianidine nella forma di catione
flavilio dove Rn ( n=1-7) possono essere gruppi OH o H.
Gli antociani o antocianine, (dal greco anthos = fiore, kyáneos = blu), sono una
classe di pigmenti, presenti in quasi tutte le piante superiori ed in molti frutti e
fiori, cui danno colorazioni rosse, blu o violette. La produzione e la quantità di
questi pigmenti dipendono dal tipo di pianta e da altre condizioni esterne quali la
natura del suolo, la temperatura e la luce. Alimenti ricchi di queste sostanze sono
il ribes, la ciliegia, il cavolo rosso, l'uva, la fragola, il sambuco, le bacche e le arance rosse. Questi pigmenti idrosolubili appartengono alla famiglia dei flavonoidi, composti polifenolici a 15 atomi di carbonio: 2 anelli benzenici uniti da una
catena lineare a 3 atomi di carbonio. Una delle classi principali di flavonoidi è costituita dalle antocianidine, che rappresentano la forma aglicona delle suddette antocianine, costituite, infatti, da antocianidine combinate con molecole glucidiche
(ad es. glucosio, galattosio, ramnosio, genziobiosio). Le antocianidine presentano
una struttura di base composta da una molecola di benzene fusa con un anello piranico (anello eterociclico contenente ossigeno), a sua volta sostituito con un
gruppo fenilico: questa complessa molecola, che rappresenta la struttura di base di
tutte le antocianine, prende il nome di catione flavilio, ed è stabilizzata per risonanza come si osserva in Fig. 7.
Le antocianine, essendo acidi deboli le cui forme dissociate ed indissociate
hanno diverso colore, possono essere usate come indicatori di pH, virando dal
rosso al violetto o al blu con l’aumentare dell’alcalinità dell’ambiente. Per comprendere in che modo l’acidità incida sul colore è importante considerare le modifiche prodotte sulla struttura del colorante, ed in particolare sul sistema di doppi
legami coniugati. All’aumentare del pH, per le antocianine si osserva il viraggio
dal rosso al blu, passando per uno stadio intermedio che caratterizzato da una colorazione viola. Responsabile di tale variazione cromatica è la deprotonazione di
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due gruppi ossidrili, che comporta la rottura di un doppio legame del catione flavilio (cromoforo) e la formazione della struttura chinoidale. La ragione del viraggio può essere spiegata considerando che, al diminuire della coniugazione presente nel sistema, diminuisce l’energia necessaria per la formazione dello stato
eccitato. Risulta quindi evidente l’importanza del pH nel modulare l’energia assorbita da questi coloranti naturali: infatti, in ambiente alcalino, in seguito
all’abbassamento della coniugazione, si osserva un aumento dell’energia di eccitazione e lo spostamento dell’assorbimento verso l’UV; in ambiente acido invece,
per via del ripristino dei doppi legami e dell’abbassamento dell’energia di eccitazione, l’assorbimento si evidenzia nel visibile. L’assorbimento di questi pigmenti
naturali può, inoltre, dipendere dalla presenza di ioni metallici (come alluminio,
ferro, stagno o titanio), con i quali possano dar luogo alla formazione di complessi. Un esempio di tale comportamento si evidenzia per il complesso antocianinaTiO2 che, caratterizzato prevalentemente dalla forma chinoidale del legante, assorbe a valori più alti di energia rispetto alla sola antocianina. L’adsorbimento e la
conseguente formazione del complesso si ottiene a seguito di una rapida condensazione fra il gruppo ossidrilico dell’antocianina in posizione 4’ e quello legato al
titanio sulla superficie dell’ossido semiconduttore, processo favorito dall’effetto
chelante esercitato dai due ossidrili del colorante rivolti verso il Ti 4+. Per comprendere il processo di iniezione si considerano gli orbitali di frontiera
dell’antocianina: la densità elettronica del LUMO è posizionata vicino al gruppo
carbonilico che consente il legame con il titanio, invece l’HOMO è localizzato
all’estremità opposta, in una configurazione favorevole all’iniezione degli elettroni dal LUMO del dye, appunto, alla banda di conduzione del TiO2. Di contro, la
presenza di più siti capaci di legare chimicamente il TiO2 ma non posizionati nella
regione occupata dall’orbitale LUMO, comporta un decremento dell’efficienza
del meccanismo di iniezione. Al fine di limitare il più possibile tale inconveniente, si predilige l’uso di coloranti dotati di una struttura che minimizzi la capacità
legante dei gruppi ‘’interferenti’’, mediante sostituenti ad elevato ingombro sterico situati ad hoc.
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Figura 8. Formula struttura generale delle betalaine.
Le piante appartenenti all’ordine Centrospermae (famiglie: Amarantaceae,
Aizoaeae, Basellaceae, Chenopodiaceae, Cactaceae, Didieraceae, Nyctaginaceae,
Phytolaccaceae, Portulacaceae e Stegnospermaceae) producono pigmenti azotati
idrosolubili rossi e gialli chiamati rispettivamente betaciani e betaxantine (il termine betalaine indica collettivamente entrambi i tipi). Le betalaine sono idrosolubili e sono localizzati nei vacuoli cellulari. L’unità betalamica è legata ad un aminoacido proteico nelle betaxantine, mentre nei betaciani essa è legata all’acido
5,6‐diidrossi‐2,3‐diidroindol ‐2‐carbossilico (cyclodopa), dando così origine alla
betanidina. Il Fico d’india e molte varietà ad esso riconducibili sono ricchissime
di betalaine. Le betalaine si divididono in betaxantine e betanine (Fig. 8) le prime
assorbono principalmente nella regione blu del visibile mentre le seconde nella
regione rossa, entrambe hanno un alto coefficiente di estinzione molare [17].
I vantaggi dei pannelli biologici con le arance rosse, le melanzane, il fico
d’india e la rapa rispetto al fotovoltaico inorganico tradizionale sono:
 basso costo sia energetico che finanziario.
 funzionamento anche in condizioni di scarsa illuminazione per applicazioni dentro le mura domestiche.
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 possibilità utilizzare più coloranti aumentando la sensibilità del film
dove il silicio non è sensibile.
 costi d’istallazione trascurabili.
 integrazione architettonica e bellezza artistica ( possibilità di arredare
vetri a mosaico, facciate di palazzi.
 basso impatto ambientale (si impiegano quasi esclusivamente materiali
di uso comune e non tossici : vetro, ossido di stagno, biossido di Titanio, carbonio e suoi derivati, acqua, coloranti naturali, ioduro, ecc..
 Riciclabilità dei materiali impiegati.
Sensibilizzatore
Jsc (mA/cm2)
Voc
(mV)
FF
%
Opuntia vulgaris
7.854
382
0.62
1.87
Rubus ulmifolius
5.849
320
0.57
1.07
Citrus sinensis
5.133
329
0.59
1.01
Morus alba
4.455
340.75
0.64
0.99
Cichorium intybus
5.054
322
0.55
0.90
Solanum melongena
3.479
346.37
0.533
0.64
Vitis vinifera
3.058
333.39
0.56
0.57
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Tabella I. Parametri fotovoltaici di DSSC basate su sensibilizzatori naturali.
I dati riportati in Tab. I hanno mostrato valori di densità di corrente e di tensione molto alti per le betalaine, che a mio avviso risultano essere tra i migliori sensibilizzatori naturali di origine vegetale [18].
4. Conclusioni
I “chip biologici” o pannelli solari naturali qui presentati mostrano alcuni
svantaggi come scarso rendimento e modesta stabilità. Infatti, il rendimento energetico di queste celle solari, cioè il rapporto tra potenza elettrica erogata dalla cella e potenza solare ricevuta, è circa il 2% che è molto più basso rispetto sia ai tradizionali pannelli solari al silicio che alle DSSC che impiegano coloranti
artificiali a base di rutenio. Per quanto riguarda la stabilità , anche se essi resistono termicamente fino a circa 120°C prima di decomporsi (nel caso delle antocianine acilate), le celle solari contenenti questi pigmenti soffrono delle stesse problematiche di quelli organici prodotti per via sintetica. Tuttavia, i naturali, sono
comunque promettenti sensibilizzatori in quanto tutti i processi che potrebbero
degradare il colorante naturale si trovano a competere con il processo di iniezione
di carica dell’elettrone nel semiconduttore (trasferimento elettronico), che avviene
in tempi molto più veloci (picosecondi), sono di fatto sfavoriti. Il problema principale per l’utilizzo su larga scala di DSSC basate su coloranti naturali di origine
vegetale è la loro scarsa efficienza, tuttavia se si riuscisse a migliorare il trasporto
elettronico tra una nanoparticella e l’altra aumentando il tempo di vita
dell’elettrone all’interno del fotoanodo, si potrebbe realizzare quello che è il sogno di molti ricercatori che lavorano sulle fonti di energia rinnovabili. Per adesso
lo sfruttamento dei sensibilizzatori naturali è importante per scopi sia didattici che
divulgativi. Inoltre dal loro studio si possono ricavare utili informazioni per progettare nuovi coloranti simili ai naturali che abbiano le opportune proprietà sensibilizzanti.
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Le razze umane non esistono, lo dimostra…il
colore della pelle!
Fabio Caradonna
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche Chimiche
e Farmaceutiche (STEBICEF) - Sezione di Biologia Cellulare - Università di Palermo
E-mail: [email protected]
Sommario. Alcune manifestazioni fenotipiche della specie umana sono
tramandate di generazione in generazione secondo delle regole che apparentemente non seguono le classiche leggi di Mendel: sono i caratteri
continui, un tipo particolare di ereditarietà in cui ha molta influenza
l’ambiente ed anche le sue interazioni con il genoma. Solo per questi tipi particolari di caratteri è possibile definire due grandezze,
l’ereditabilità e la varianza, che danno una misura di quanta sia la componente genetica e di quanto quella ambientale nella loro definizione.
Studi di correlazione fra persone non imparentate e gemelli monozigoti
hanno dimostrato che il carattere continuo umano “creste digitali” ha un
alto valore di ereditabilità, cioè la loro ereditarietà è molto dipendente
dalle informazioni genetiche mentre l’ambiente influisce pochissimo. Al
contrario, invece, studi simili hanno anche dimostrato che il carattere
umano “colore della pelle” ha una bassa ereditabilità, cioè viene tramandato con una bassa influenza dell’ereditarietà genetica ed una alta
influenza dell’ambiente ed in particolare della radiazione solare. Stessi
concetti valgono per altri caratteri distintivi delle varie popolazioni umane, quasi tutti caratteri continui, come la facies, la grandezza delle
narici, delle rime palpebrali, della distanza interoculare, la forma degli
occhi ed altri. Se possiamo, fra viventi superiori, definire una razza come un gruppo di individui che condivide una certa costanza di informazioni genetiche possiamo anche affermare che, almeno per il carattere
colore della pelle, le razze nella specie umana non esistono. Ricordiamocelo, quando ne sentiamo parlare……”a sproposito”!
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Nella specie umana, e non solo, caratteri come l’altezza, il peso ed altre condizioni misurabili, sono ereditate secondo uno schema genetico che apparentemente
non segue le leggi di Mendel: sono i caratteri continui, così detti perché si manifestano con una gamma di fenotipi che copre in maniera continua, un range di variazione. Forti sono infatti le differenze fra questi caratteri e quelli derivanti da
una ereditarietà strettamente mendeliana (chiamata qui, per differenza, discontinua) in cui, al massimo delle eccezioni, si ammettono 3 fenotipi a causa di un genotipo semplice (uno o al massimo 2 geni) e di un semplice rapporto genotipofenotipo: dominanza, completa o incompleta, e recessività (Fig. 1).
Figura 1. Confronto fra distribuzione di fenotipi per caratteri mendeliani (discontinui, a
sinistra) e continui (a destra).
I svariati fenotipi in cui si presentano, invece, i caratteri continui, sono ordinabili in istogrammi di frequenza unendo i quali è possibile ottenere una curva
“gaussiana” con un punto di media, di mediana e di moda. Così li descrisse, storicamente, Johansen, il primo genetista che ai primi del 900 pubblicò una descrizione di questi caratteri pesando semi di fagiolo. La teoria poligenica, oggi assodata, dei caratteri continui sostiene che questi caratteri sono specificati da molti
geni, sicuramente più di 4, e che nella determinazione del fenotipo possono concorrere altri fattori, interni ed esterni all’organismo che li porta: per questo questi
caratteri vengono anche chiamati multifattoriali. Se per un genotipo semplice a
due geni ci si aspetta di avere fino a 5 fenotipi, un carattere espresso da 4 geni ne
esprimerà 9: l’azione coordinata di parecchi diversi contributi allelici, formano, a
seconda della combinazione fra funzionali e non funzionali, una gamma continua
di svariati fenotipi poco differenti fra loro ma che nell’insieme coprono una vasta
variazione di quel carattere. Al pari di come in uno stadio l’azione coordinata di
vari tifosi può creare l’onda messicana, meglio nota come «OLA»: ripetendo più
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Caradonna – Le razze umane non esistono ...
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volte l’OLA non potrà mai venire uguale ad una precedente: ne consegue una
gamma infinita di OLA (Fig. 2).
Figura 2. Il paragone fra i fenotipi associati a caratteri continui e l’onda messicana, detta
OLA, fatta da tifosi in uno stadio
Per questi caratteri, e solo per questi, è di interesse misurare come i vari fenotipi si distribuiscono attorno a quello più frequente, cioè è interessante calcolare la
varianza, fenotipica o genotipica, con tutte le rispettive componenti, compresa
quella ambientale e di interazione genotipo-ambiente. L’ambiente, infatti, determina in maniera numericamente calcolabile il fenotipo di caratteri continui, agendo sia attraverso il genotipo, sia indipendentemente da questo evidenziando che in
questo caso, rispetto a quello mendeliano, sussiste un rapporto complesso fra genotipo e fenotipo. Quanto “pesa” ogni singolo fattore nel determinare il fenotipo
finale? Per misurare questo rapporto si calcola l’ereditabilità che stabilisce, in fin
dei conti, quanto il fenotipo è determinato da fattori genetici e quanto da fattori
ambientali (Fig. 3).
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Figura 3. l’Ereditabilità: variabile fondamentale e peculiare dei caratteri continui
Per poter meglio comprendere questi caratteri si potrebbe esprimere la Varianza fenotipica nelle sue componenti e simulare di porre come nulla qualcuna di esse. Se azzerassimo la varianza genotipica, come nel caso di gemelli monozigoti, la
varianza fenotipica è tutta a carico dell’ambiente; se azzerassimo la varianza ambientale quale quella di due piante da serra, allora un’eventuale varianza fenotipica è tutta a carico di differenze genetiche. Osservare come sono variati statura e
peso di ragazzi e ragazze italiani negli ultimi 80 anni dimostra come l’ambiente
(la guerra del 1945) ha determinato una diminuzione di questi 2 caratteri, pur non
variando alcun genotipo (Fig. 4).
Figura 4. L’ambiente influenza l’espressione dei caratteri continui. Per questo vengono
anche chiamati “multifattoriali”.
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Stabilito che per i caratteri continui può essere determinata l’ereditabilità, possiamo considerare alcuni esempi di caratteri di questo tipo nella specie umana: le
creste digitali (alta ereditabilità), colore degli occhi (media ereditabilità) e colore
della pelle (bassa ereditabilità). Il colore della pelle, dunque, ha molte influenze
ambientali e poche genetiche e, solo per questo, è già chiaro che suddividere il
genere umano in razze attraverso le differenze del colore della pelle non è scientificamente corretto. Inoltre, analizzando meglio il carattere si scopre che la produzione della melanina è determinata da almeno 39 geni: in un sistema gaussiano di
fenotipi potrebbero essere predetti centinaia di fenotipi tutti poco diversi fra loro
ma che insieme coprono un ampio range di variazione di colore. In più, il sequenziamento del genoma umano ha detto che le differenze genomiche fra i soggetti
con diverso colore della pelle sono infinitesime. Inoltre, studi di correlazione fra
parenti e non parenti hanno decretato che questo carattere non ha un andamento
molto ordinato. Infine, sorprendenti scoperte influenze ambientali, per questo carattere, hanno recentemente riportato che una dieta ricca di carotenoidi ha l’effetto
di variare in maniera significativa il colore della pelle di chi li consuma in maniera regolare.
Se ne deduce che le razze nella specie umana non esistono.
Il carattere colore della pelle dà l’occasione di correlare evidenze scientifiche a
conclusioni etiche: è ampiamente noto, infatti, quanti e quali conseguenze si sono
avute per l’umanità quando una parte di questa ha deciso di considerare su base
valoriale la divisione in razze. Il consiglio è quello di amministrare scienza sempre eticamente tenendo conto di ciò che è già successo (storia) e di quello che potrebbe accadere (prospettiva).
Bibliografia
 Richard A Sturm1 and David L Duffy. “Human pigmentation genes under
environmental selection. Genome Biology 2012, 13:248;
http://genomebiology.com/2012/13/9/248.
 Luca Cavalli-Sforza. Vari scritti ed articoli sulle popolazioni umane dal 1985
al 1997
 Cummings MR: Eredità: principi e problematiche della genetica umana. Ed.
Edises, 2014.
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Radiazione solare e variabilità genetica: cosa ci
regala il sole sulla spiaggia (oltre la tintarella)
Fabio Caradonna
Dipartimento di Scienze e Tecnologie Biologiche Chimiche e Farmaceutiche (STEBICEF) - Sezione di Biologia Cellulare - Università
di Palermo
E-mail: [email protected]
Sommario. La radiazione solare ha una componente UV ed è ormai abbastanza noto che questi raggi, essendo radiazioni ionizzanti, procurano danni
al DNA. Più in particolare, l’energia conferita da queste radiazioni a due o
più basi azotate pirimidiniche adiacenti su una stessa emielica di DNA,
forma i “dimeri di pirimidina”, tipico addotto che renderebbe il DNA localmente illeggibile e non replicabile se non eliminato dai sistemi endogeni
di riparazione. Ma per fortuna, in una cellula umana ci sono molti complessi
enzimatici deputati alla rimozione dei dimeri di pirimidina e, considerando
che ogni enzima è sempre codificato da un gene e che per ogni gene, per variabilità genetica, possono esistere tante varianti alleliche in una popolazione, ogni appartenente alla specie umana ha teoricamente una capacità diversa di riparare questi danni: dalla più prestante alla meno efficiente, entro
certi ovvi limiti di compatibilità con la vita. Se si considera che non riparare
questi danni equivale a conferire alla cellula tagli al DNA con formazione di
estremità fusigeniche prone a produrre aberrazioni cromosomiche strutturali
ed in ultima analisi instabilità genomica e probabile trasformazione neoplastica, possiamo ben comprendere come questo fenomeno, spesso sottovalutato da tutti noi, ci espone a grandi rischi, specialmente quando, ignari del
nostro genotipo specifico, cerchiamo in estate, a mare o in montagna, di
prendere più sole possibile. Come sapere di che genotipi specifici si è dotati? Quali altri genotipi e fenotipi aiutano a ridurre o aumentare questo rischio? Quali le forme di prevenzione e i limiti da non valicare? Parliamone……ma all’ombra, per sicurezza!
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La radiazione luminosa che ci viene regalata dal sole spazia in varie lunghezze
d’onda: dall’infrarosso all’ultravioletto, passando, ovviamente, per il visibile. Sono abbastanza noti gli effetti benefici di una vita in ambienti con illuminazione
naturale, quali quelli legati all’innesco di alcune reazioni metaboliche che avvengono nella pelle superficiale (sintesi della vitamina D, della serotonina, del cortisolo) che regolano la crescita ossea, l’umore e i ritmi circadiani: queste reazioni
sono avviate soprattutto dalla componente UV che potrebbe risultare quindi benefica. Vivere in ambienti angusti e non luminosi, infatti, è anche nell’immaginario
collettivo, legato al rachitismo, al cattivo umore ed, in generale, ad una vita non
salubre.
Ma la componente UV della radiazione solare è anche mutagena cioè procura
danni al DNA. Più in particolare, energizza l’anello pirimidinico delle timine e
delle pirimidine in genere, causando una dimerizzazione fra due pirimidine adiacenti sulla stessa emielica di DNA.
Il prodotto finale è un “dimero di pirimidina” (DdP) (Fig. 1) una struttura molecolare che procura una distorsione nell’elica del DNA ma soprattutto, non avendo più la stessa proprietà di legame con la base complementare, risulta illeggibile
ad una qualunque polimerasi: è intuitivo che un dimero del genere, se presente in
un DNA in replicazione, può far bloccare la sintesi e creare pericolose estremità
libere di DNA.
Figura 1. Schema di formazione di un dimero di pirimidina dopo irradiazione UV di un
DNA.
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La cellula eucariotica ha sviluppato una serie di meccanismi e strutture cellulari
per evitare di avere estremità libere di DNA: queste, infatti, nel disordine molecolare di un nucleo in interfase, potrebbero pericolosamente trovarsi spazialmente
vicine ad altre non omologhe generando, dopo saldatura ad opera di ligasi, delle
traslocazioni cromosomiche o altre aberrazioni, anticamera della trasformazione
neoplastica della cellula. Ma l’evoluzione ha dotato, per fortuna, la cellula eucariote, e quella umana in particolare, di efficienti geni check-control e di riparazione del DNA. I primi, innescati da proteine “sensori” di danni al DNA codificano
prodotti proteici che regolano negativamente il ciclo cellulare per non far replicare il DNA ed evitare maggiori problemi; nel frattempo i geni riparatori codificano
enzimi deputati a risolvere quanto cagionato dalla luce UV: un sistema, in certe
condizioni, quasi infallibile. I batteri, dotati di DNA “nudo”, possiedono geni per
l’enzima fotoliasi; questo, assorbendo un quanto di luce, è in grado di scindere il
DdP e risolvere facilmente il problema creatosi.
Gli eucarioti, che invece possiedono DNA complessato a proteine (la cromatina) non possono risolvere così facilmente il problema e possiedono batterie di enzimi che sono in grado di escindere la parte dell’emielica che contiene il DdP e
poi avviare sintesi locale di DNA; oppure sono in grado di avviare processi di ricombinazione per limitare i danni creati dall’arresto locale della sintesi di DNA
(Fig. 2).
Figura 2. Esempi di riparazione dei dimeri di pirimidina indotti dalla luce UV. A sinistra
la fotoriattivazione applicata dai batteri ed a destra la riparazione per excisione
utilizzata dalle cellule eucariotiche.
Sono già descritte un certo numero di patologie genetiche umane da fotosensibilità, cioè presenti in soggetti che possiedono alleli mutati per alcuni geni della
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riparazione del DNA e che per questo motivo mal tollerano insulti che per altre
persone potrebbero essere innocui, quali la normale esposizione alla luce del sole.
Potrebbe sembrare dunque che tutto si “riduca” ad una netta distinzione fra
condizioni patologiche legate ad alleli mutati presenti e tramandati in alcune famiglie e la luce solare; potrebbe quindi concludersi che la questione non riguardi
l’intero genere umano, ma solo una parte “sfortunata” di esso.
E’ importante ricordare, a questo punto, che la variabilità genetica, anche nella
specie umana, distribuisce diversità fenotipica proprio perché la diversità di ogni
soggetto, piuttosto che l’uguaglianza, è la chiave evoluzionistica di successo di
una popolazione che vive in un ambiente, per definizione, mutevole. Alcuni esempi di diversità fenotipiche sono ampiamente studiate e riguardano aspetti visibili del nostro corpo (peso, altezza, etc) o anche gusti e stili di vita (sensibilità al
gusto amaro, fumo, alcool etc). Ma la variabilità fenotipica deriva da quella genotipica e cioè ad ogni diversità visibile corrisponde una diversità in alleli posseduti
per quel carattere: la mutazione che ricorre inesorabilmente e costantemente nel
corso delle generazioni, tenuta a bada dai meccanismi di mantenimento
dell’integrità genomica di una cellula, agisce secondo un equilibrio e diversifica i
soggetti di una popolazione. Questa possibilità è cogente per ogni tratto di DNA
di qualunque genoma, dunque nessun gene può sottrarsi facendo scaturire il concetto che possiamo anche essere variabili per i geni della riparazione del DNA.
Per qualche gene della riparazione, potremmo cioè essere inconsapevolmente
omozigoti per due alleli funzionali o anche eterozigoti e possedere cioè un solo allele funzionale: questi geni agiscono in maniera mendeliana dove, è noto, che
l’eterozigote e l’omozigote dominante hanno lo stesso fenotipo.
Se fossimo eterozigoti, e se ci esponessimo alla luce solare in maniera limitata,
non avremmo conseguenze; ma quando l’irradiazione è massiva, quale quella cui
volontariamente ci esponiamo durante il bagno di sole estivo sulle spiaggie, potremmo avere pericolose conseguenze (Fig. 3).
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Figura 3. Percorso concettuale di conseguenze di esposizione a dosi massicce di radiazione solare a seconda del genotipo posseduto per i geni della riparazione.
Quindi, ogni soggetto di una popolazione dotata di grande variabilità genetica,
come quella umana, è una combinazione unica ed irripetibile di caratteristiche che
ha per sé e che può trasmettere alle generazioni future ma, vedendo la cosa da un
altro punto di vista, per la variabilità genetica, ogni soggetto ha reazioni diverse
nei confronti di insulti uguali rispetto ad altri soggetti, cioè, ogni soggetto ha una
capacità differenziata di reagire, quasi personalizzata, nei confronti di uguali sollecitazioni ambientali. In queste condizioni, conoscere l’assetto allelico di ciascuno di noi, per tutti i geni, ma soprattutto, per quelli della riparazione del DNA e
per quelli controllori del ciclo cellulare, è un goal di notevole interesse per
l’umanità, anche in considerazione del fatto che la manifestazione fenotipica di
danni al DNA potrebbe essere molto postuma rispetto all’insulto iniziale ed anche
legata alla concomitanza con altri insulti. Effetti ben diversi, infatti, possono essere predetti, se ciascuno di noi fosse eterozigote o omozigote dominante per ciascuno dei geni controllori del ciclo cellulare: un eterozigote, più facilmente
dell’omozigote dominante, può avere, in alcune cellule, effetti seri dopo esposizioni ripetute a certi insulti ambientali.
Non potendo sapere ciascuno di noi quale genotipo possediamo per questi geni
(Fig. 4), dobbiamo applicare il principio di prudenza in base al quale non ci si deve esporre a fonti mutagene conosciute ed anche, evitare con corretti stili di vita,
di accumulare insulti genotossici che, alla fine, potrebbero rendere manifesto un
fenotipo patologico in sé latente.
Figura 4. I geni controllori della crescita cellulare agiscono secondo regole mendeliane:
un omozigote dominante ed un eterozigote hanno lo stesso fenotipo. Rimane
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dunque ignoto per ciascuno di noi sapere quale genotipo si possiede fra questi
due.
A chi dice che l’argomento “Variabilità genetica e radiazione solare” è un argomento “da spiaggia” risponderei che ha ragione: vorrei, però, affrontarlo sotto
l’ombrellone……per prudenza.
Bibliografia


Cummings MR: Eredità: principi e problematiche della genetica umana. Ed.
Edises, 2014.
Migliore L: Mutagenesi ambientale. Ed Zanichelli, 2004.
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Photosensitization, lights and shadows
Guido De Guidia,b and Alfio Catalfoa
a
Dipartimento di Scienze Chimiche, Viale A. Doria 6,Università di Catania
b
CRAM3RA, Centro di ricerca per l'analisi, il monitoraggio e le metodologie di minimizzazione del rischio ambientale, Viale A. Doria
6,Università di Catania
E-mail: [email protected]
Abstract. I processi della fotosensibilizzazione, in particolare
quelli indotti da farmaci, sono studiati da decenni. In questo articolo solo i principi e un breve compendio sono dati. La maggior
parte di questo lavoro è dedicata alla descrizione di alcune pubblicazioni che trattano la sensibilizzazione foto indotta da farmaci
su modelli di target biologici.
Abstract. Photosensitization processes, in particular those mediated by drugs, are studied since decades. In this paper only the
principle and a short overview will be given. The main part of the
paper is dedicated to describe some works about drug mediated
photosensitization on biological target models.
1. Introduction
UVA radiation (320-400 nm), which represents about 90% of the environmentally relevant solar UV radiation reaching earth’s surface (Figure 1), has been established as one of the factors responsible for the photoactivation of various
classes of compounds, generating adverse side-effects (Quintero & Miranda 2000;
de Gruijl 2002; Cadet et al. 2005; Kielbassa et al. 1997). UVC (200–280 nm) is
blocked by the ozone layer and UVB (280–320 nm), which is highly mutagenic
due to direct absorption by DNA, is quickly attenuated by the upper layers of the
epidermis. On the other hand, UVA penetrates more efficiently to basal layers of
epidermis and to dermis and can generate photosensitization reaction in the pres-
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ence of components from endogenous or exogenous origin present in tissues. Indeed, UVA photons reach dermal blood vessels where potential photosensitizers
can absorb light and, subsequently, the photogenerated species can be carried to
other compartments. The importance of photosensitization reactions can be easily
understood taking into account the increasing number of reports dealing with phototoxic effects induced by chemicals and pharmaceutical compounds. Meanwhile,
knowledge of photosensitization pathways may be used to design photoprotective
devices and suitable sunscreens as well as to develop therapeutic strategies towards several diseases, such as skin tumours.
Figure 1. The almost visible part of the electromagnetic spectrum
2. Photosensitization
Photosensitization is the process by which a photochemical or photophysical
alteration occurs in a compound (substrate, target) as a result of initial absorption
of radiation by another (xenobiotic) compound called a photosensitizer. In
mechanistic photochemistry the term is limited to cases in which the photosensi35
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tizer is not consumed in the reaction. However, in most reactions the xenobiotic
is often degraded. In humans, skin inflammation trigged by drug mediated photosensitization is a frequently observed drug side effect (Figure 2).
Photosensitizer (xenobiotic) alone
Light alone
Photosensitizer and Light
No Effect
No Effect
Change in Organism
Figure 2.
2.1. Basics of photosensitization
Thus, in order to understand the photosensitization process, we should know
the main definitions.
A xenobiotic is a foreign chemical substance found within a system (organism,
organ, cell, and organelle) that is not normally naturally produced by the system
or expected to be present within that system. For example, drugs such as antibiotics are xenobiotics in humans because the human body does not produce them itself, nor are they part of a normal food. In simple words, all manmade compounds
can be xenobiotics. Natural compounds can also become xenobiotics if they are
taken up by another organism, such as the uptake of drugs (antibacterial quinDe Guidi & Catalfo - Photosensitization, lights ...
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olones, natural human hormones, etc.) by fish found downstream of sewage
treatment plant outfalls. The term xenobiotic is very often used in the context of
pollutants such as poly aromatic hydrocarbons (PAHs) and polychlorinated biphenyls (PCBs) and their effect on the organism. Thus, antioxidants, carcinogens,
drugs, environmental pollutants, food additives, hydrocarbons, and pesticides are
frequently defined as classes of xenobiotics.
A photosensitizer (often a xenobiotic, Figure 3) is a molecule that produces a
chemical change in another molecule in a photochemical process (Calvert & Pitts
1966). Photosensitizers are commonly used in polymer chemistry in reactions
such as photopolymerization, photocrosslinking, and photodegradation (Calvert &
Pitts 1966; Wayne & Wayne 2005). Photosensitizers generally act by absorbing
energy electromagnetic radiation in the form of ultraviolet or visible light and by
transferring energy or radical species to adjacent molecules.
Figure 3. Examples of known photosensitizers produced by the organisms themselves
2.2. Electromagnetic radiation and photochemistry
Photochemistry is the branch of chemistry concerned with the chemical effects of
light. It is chemical reaction caused by energy transfer of ultraviolet C, B and A
light (wavelength from 100 to 400 nm), of visible light (400 – 750 nm) or of in-
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frared radiation (750 – 2500 nm; near IR – far IR, Figure 4) (Calvert & Pitts
1966).
Figure 4. Electromagnetic radiation (EMR) is the radiant energy released by certain
electromagnetic processes. Visible light is one type of electromagnetic radiation; other
familiar forms are invisible electromagnetic radiations such as radio waves, infrared light
and X rays
Photochemical reactions (Figure 5) are important in chemistry, because they
proceed differently than thermal reactions. Many heat mediated reactions have
their photochemical equivalents. Photochemical paths offer the advantage over
thermal methods of forming thermodynamically disfavored products, overcoming
large activation barriers in a short period of time, and allowing reactivity otherwise inaccessible by thermal processes. Reactions examples that are based on
light promoted energy transfer in organisms are photosynthesis and formation of
vitamin D with sunlight.
Energy transfer is a process by which a compound in ground state (S0) absorbs light and originates a molecular excited state (S1, S2, S3,...). In mechanistic
photochemistry energy transfer is a photophysical process in which an excited
state of S1 (the donor) is deactivated to a lower-lying state by transferring energy
to S0 (the acceptor) which is thereby raised to a higher energy state. The excitation may be electronic, vibrational, rotational or translational. The donor and acceptor may be two parts of the same compound, in which case the process is
called intramolecular energy transfer.
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Figure 5. Jablonski diagram. Radiative paths (Fluorescence, Phosphorescence) are represented by straight arrows and non-radiative paths (IC, ISC) by twisted lines
2.3. Basics of photochemistry
Photoexcitation is the first step in a photochemical process where the reactant
is elevated to a state of higher energy, an excited state. In a photochemical reaction light must be absorbed by a chemical substance (first law of photochemistry,
i.e. the Grotthuss–Draper law). As defined by the quantum yield (Φ), for each
photon of light absorbed by a chemical system, no more than one molecule is activated for a reaction (Wayne & Wayne 2005).

molecules degraded
photons assorbed
The quantum yield (Φ) of a radiation-induced process is the number of times
a specific event occurs per number of photon absorbed by the system. The quantum yield for the degradation of a sensitizer in a light driven process, called
photodegradation, is defined as above.
Moreover, according to spin selection rule, a molecule in S0 that absorbs light
transfer one electron to a excited higher orbital level. This electron maintains its
spin, given that other transitions violate the law of conservation of angular momentum.
This excitation of S0 to a higher singlet state can be from HOMO (Highest Occupied Molecular Orbital) to LUMO (Lowest Unoccupied Molecular Orbital) or
to a higher orbital, thus being possible different singlet excitation states S 1, S2,
S3… depending on its energy (Figure 6).
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Figure 6. Photoexcitation process and HOMO to LUMO electron transition
Kasha's rule says that a higher singlet states decay quickly by radiationless decay or internal conversion (IC) to S1. Thus, S1 is usually, but not always, the only
relevant singlet excited state. This excited state S1 can further relax to S0 by IC,
but also by an allowed radiative transition from S1 to S0 that emits a photon; a
process called fluorescence (Figure 5).
Alternatively, it is possible for the excited state S1 to undergo spin inversion
and to generate a different excited state with the two unpaired electrons with the
same spin. This excited state has a triplet multiplicity and is therefore called triplet (T1). This violation of the spin selection rule is only possible by intersystem
crossing (ISC) of vibration and electronic levels of the interactive states. Hund's
rule of maximum multiplicity stated that this T 1 state would be more stable than
S1.
T1 can relax to ground state S0 by radiationless IC or by phosphorescence, a
radiative process. Phosphorescence implies a change on electronic spin (from T 1
to S0) that is forbidden by the spin selection rule. Moreover, phosphorescence
(from T1 to S0) is much slower than fluorescence (from S1 to S0). Thus, as a result
triplet states have commonly longer lifetimes than singlet states.
S1 or T1, have a half empty low and a half empty high energy orbital, consequently they are able to oxidize or reduce, i.e. excited species are prone to participate in electron transfer processes (Wayne & Wayne 2005).
3. Photosensitization mechanisms
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In general, almost every compound able to absorb the incident radiation can act
as photosensitizer: drugs, dies, vitamins, plant pigments, chlorophylls, porphyrins,
etc. Additionally, all compounds of the surroundings may become photosensitization target. The processes in photosensitization are almost the same as described
for photochemistry (see sections above). However, the mechanism includes generally the participation of oxygen and the photodegradation of the target (substrate), as well as the degradation of the photosensitizer (Figure 7, 8). There are
three different main reaction pathways: Type I, Type II and T-T energy transfer
(Pouyet & Chapelon 1987).
The Type I pathway results from the formation of radicals originated from the
photoexcited singlet sensitizer (Sen*) and the substrate, possibly by a heterolytic
breaks. Further oxidized products may be formed by reaction of the radicals (R)
with oxygen (Figure 7, 8a). Thus, the formation of reactive oxygen species
(ROS), such as hydroxyl radicals, superoxide anion, hydrogen peroxide if often
observed. Unlike as in mechanistic photochemistry, the photosensitizer is consumed in the reaction.
In the Type II pathway (Figure 7, 8b) is also oxygen e (3O2) involved and singlet oxygen (1O2) is formed.
This step consists of a spin inversion and of the sensitizer triplet T 1 generation
by ISC. Then, the T1 sensitizer undergoes energy transfer to oxygen (Figure 5, 7,
8b).
Figure 8c shows the third main reaction pathway, a direct interaction of the
photoactivated molecule with the substrate via efficient triplet energy transfer.
Figure 7. Simplified photosensitization mechanism in the presence of oxygen. Sen,
sensitizer; hv, light; 3O2, molecular oxygen; 1O2, singlet oxygen;
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a)
b)
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c)
Figure 8. Photosensitization mechanism: a) Type I (Radical); b) Type II (Singlet Oxygen); c) Energy transfer (T-T Transfer); hv, light; 3O2, molecular oxygen; 1O2, singlet oxygen; R, radical
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3.1. Reactive oxygen species (ROS)
Reactive oxygen species (ROS) are chemically reactive molecules containing
oxygen (Figure 9). ROS comprise peroxides, superoxide, hydroxyl radical, and
singlet oxygen. ROS are also formed as a natural byproduct of the normal metabolism of oxygen, in particular of mitochondrial origin, and are part of the signaling and homeostasis cell machinery (Tp et al. 2015). When exposed to environmental stress (UVA, burning, chemicals, etc.), ROS levels in cells can increase
dramatically (Tp et al. 2015). This may result in significant damage to cell structures. A long-term cell exposure to high ROS doses is known as oxidative stress.
Also ionizing radiation is able to produce ROS (Turrens 2003).
Formation and decomposition
The reduction of molecular oxygen (O2) produces superoxide (·O2−) and is the
precursor of most other reactive oxygen species (Turrens 2003):
O2 + e− → ·O2−
Dismutation of superoxide produces hydrogen peroxide (H2O2):
2H+ + ·O2− + ·O2− → H2O2 + O2
Hydrogen peroxide in turn may be partially reduced to hydroxyl radical (·OH)
or fully reduced to water:
H2O2 → HO · + ·OH
H2O2 + H2O2 → H2O + H2O + O2
Figure 9. ROS ionization
Exogenous ROS
Exogenous ROS can be produced from xenobiotics and pollutants such as tobacco, smoke and drugs, as well as from radiation. Ionizing radiation can generate
damaging intermediates through the interaction with water, a process termed radiolysis. Since water comprises 55–60% of the human body, the probability of radiolysis is quite high under the presence of ionizing radiation. In the process, water
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loses an electron and becomes highly reactive. Then through a three-step chain
reaction, water is sequentially converted to hydroxyl radical (·OH), hydrogen peroxide (H2O2), superoxide radical (·O2−) and ultimately oxygen (O2).
Endogenous ROS
As described above, ROS are normally produced intracellularly through multiple mechanisms and depending on the cell and tissue types. The major producers
of ROS are oxidase complexes in cell membranes, mitochondria, peroxisomes,
and endoplasmic reticulum (Turrens 2003). Mitochondria convert energy for the
cell in a process in which ATP is produced, oxidative phosphorylation. The
transport of protons across the inner mitochondrial membrane by means of the
electron transport chain is involved in the ADP phosphorylation to ATP. In the
electron transport chain, electrons are passed through a series of proteins/enzymes
via oxidation-reduction reactions, with each acceptor protein along the chain having a greater reduction potential than the previous. The last destination for an
electron along this chain is an oxygen molecule. In normal conditions, the oxygen
is reduced to produce water; however, in about 1% of electrons passing through
the chain oxygen is instead prematurely and incompletely reduced to give the O2−
(Turrens 2003). This latter is not particularly reactive by itself, but can inactivate
specific enzymes or initiate lipid peroxidation in its protonated form HO2. The
pKa of HO2. is 4.8. Thus, at physiological pH, the majority will exist as superoxide anion. When the mitochondria are excessively damaged, the cell undergoes
apoptosis, i.e. programmed cell death.
Singlet oxygen
Singlet oxygen is a high energy form of oxygen (Figure 10). A gas with the
formula O2, its physical properties differ only slightly from those of the more
prevalent triplet form of O2. In terms of its chemical reactivity, however, singlet
oxygen is far more reactive toward organic compounds. It is responsible for the
photooxidation of many materials and is also use in chemical synthesis and in
medicine. Trace amounts of singlet oxygen are found in the upper atmosphere and
also in polluted urban atmospheres where it contributes to the formation of toxic
nitrogen dioxide (Tp et al. 2015).
In spectroscopic notation, the singlet and triplet forms of O2 are labeled 1Δg and
3 −
Σg , respectively. The terms singlet and triplet refer to the quantum state of the
molecules. Molecular oxygen is in the singlet state with a total quantum spin of 0.
1
O2 is also a product of photosynthesis in plants. In the presence light, photosensitizers such as chlorophyll may convert molecular oxygen (3O2) to singlet ox-
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ygen (Figure 8b) (Laloi & Havaux 2015). Singlet oxygen is highly reactive, especially with organic compounds that contain double bonds. The resulting damage
caused by singlet oxygen reduces the photosynthetic efficiency of chloroplasts. In
plants exposed to excess light, the increased production of singlet oxygen can result in cell death (Laloi & Havaux 2015). Various plant substances such as cellular pigments contained in chloroplasts quench singlet oxygen as antioxidant, and
therefore protect against singlet oxygen toxic effects (Figure 11).
Figure 10. Singlet oxygen
Figure 11. antioxidant mechanism
The singlet states of oxygen are 158 and 95 kilojoules per mole higher in energy than the triplet ground state of oxygen (Figure 12). Under most common laboratory conditions, the higher energy 1Σg+ singlet state rapidly converts to the
more stable, lower energy 1Δg singlet state (Wayne 1969; Frimer 1985); it is this,
the more stable of the two excited states, the one with its electrons remaining in
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separate degenerate orbital but no longer with like spin, that is referred to by the
title term, singlet oxygen, commonly abbreviated 1O2, to distinguish it from the
triplet ground state molecule, 3O2 (Frimer 1985).
Figure 12. MO diagram, triplet ground state and two singlet excited states of molecular
dioxygen.
Shown are three electronic configurations of the molecular orbitals (MOs) of
molecular oxygen, O2. From left to right, the MOs are for: 1Δg singlet oxygen,
1 +
Σg singlet oxygen, and 3Σg– triplet oxygen. The lowest energy 1s molecular orbital uniformly filled in all three is omitted for simplicity. The broad horizontal
line with the π and π* labels represent two molecular orbitals (for filling by up to
4 electrons in total). Critically, note that the three states only differ in the occupancy and spin states of electrons in the two degenerate π* antibonding orbitals
(Schweitzer & Schmidt 2003).
4. Photosensitization on bio-targets
Light is able to penetrate skin and therefore to interact with cells (Figure 13).
Given that potentially every compound able to absorb the incident radiation can
act as photosensitizer, the cell components may also become photosensitization
target. The processes in cell photosensitization are of course more intricate as
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those described until now (see sections above). However, the mechanism is almost based on main reaction pathways: Type I, Type II and T-T energy transfer
(Figure 14).
Figure 13. Breakthrough capacity of waves into skin
5. Photoaging
A tissue process induced by chronic UVA and UVB exposure, that causes
characteristic changes to skin (Figure 13) (Rapini et al. 2007). The major consequences of the aging process are the deterioration of biological functions and ability to manage metabolic stress, for example ROS containment (see above). Aging
is a complex, progressive process that leads to functional and esthetic changes in
the skin. This process can result from both intrinsic and extrinsic processes (genetically and environmental determined, respectively). Photoaging is attributed to
continuous, long-term exposure to UVA radiation, either natural or synthetic.
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Figure 14. Biotargets of cell photosensitization
6. Photosensitization in models with increasing complexity: proteins
A photosensitization study in models of increasing complexity must take into account of several key factors, such as, light absorption in scattering environments,
photosensitizer concentration, duration of contact between cell and photosensitizer, transport and uptake, as well as sub-cellular localization.
6.1. Aminoacids
The aromatic amino acid tryptophan is the most susceptible protein residue involved in various photosensitized adverse effects. Between these processes, the
tryptophan photosensitization induced by methylene blue (MB) has been well
studied (Catalfo et al. 2009). A predominant type II photosensitizing activity, mediated by singlet oxygen, has been already demonstrated on various models. It is
possible to compare this photosensitization system with that induced by naproxen
(NAP), belonging to the class of non-steroidal anti-inflammatory drugs. For this
compound, a type I (radical) and type II (singlet oxygen) cooperative mechanism
of photoinduced damage was previously proposed. This represents an example of
testing drugs on the simple experimental model of amino acid residues in proteins. In particular, modifications caused by the formation of drug photomediated
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toxic species, such as ROS can be achieved following the kinetics of
photodegradation of the sensitizers and of the amino acid, as well as the formation
of their photoproducts and by evaluation of quantum yields of the various processes. Tryptophan photoproducts represent biomarkers of oxidative damage indicative for protein photooxidation and for the molecular mechanism of photosensitization (Figure 15).
The results are in agreement with both type I and II pathways. These observations
support extending the investigation to systems of increasing molecular complexity, that is Trp in isolated proteins and in cells and represent an effort to provide a
simplified rationale of the complex picture coming out from literature data and
our experimental results.
Figure 15. Biomarkers of oxidative damage
6.2. Proteins
UVA photosensitization of MB or naproxen NAP can be extended towards bovine
serum albumin (BSA) using also time resolved singlet oxygen measurements
(Bracchitta et al. 2012). The most stable drug-protein adducts stoichiometry of
MB-BSA (1:1) and NAP-BSA (9:1) can be verified by means of binding constant
determination. UVA photosensitization of MB or NAP on BSA was studied by
monitoring tryptophan (Trp) residues integrity. Also in this case, the sensitized
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photodegradation of the BSA results in different degrees of Trp damage. Protein
damage is evaluated by quantitative measurements of the different Trp (photo)products that are diagnostic for the photosensitization mechanism. The analysis of
quantum yields of photoproducts distribution allows to weight up the type I/II
contribution on UVA photosensitization mechanism. Experiments in deuterated
solvent results in an increase of the photodegradation quantum yields for those
species where a singlet oxygen mechanism is involved. The UVA mediated generation of these Trp derivatives is consistent with the occurrence of singlet oxygen
formation (almost dominant in MB), and photoionization (significant in NAP)
within the protein matrix. Additional experiments with human serum albumin
(which differs for Trp content and, partially, localization), support further the molecular mechanism of photosensitization proposed. (Figure 16) (Yuan et al.
2006). The results obtained in the case of this more complex system are in agreement with in the free Trp model, even if in almost all cases the Trp photoproduct
formation quantum yields are lower, due to the higher number of sensitization
targets in proteins.
Figure 16. Albumin
6.3. Yeasts
A further step in increasing complexity is represented by UVA photosensitization
by MB or by NAP towards cell proteins in yeast Saccharomyces cerevisiae
(Bracchitta et al. 2012). Finally, it is possible to compare this system with the two
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simpler models free Trp in solution and as a component of bovine and human serum albumin. The analysis of quantum yields of photoproduct distribution allows
to weight up the type I/II contribution on UVA photosensitization mechanism.
The UVA mediated generation of these Trp derivatives confirms the occurrence
of singlet oxygen formation (almost dominant in MB), and photoionization (significant in NAP) within the protein matrix (Figure 17) (Schafer & Hocker 1997).
The results obtained in the case of this more complex system (cell) are in agreement with the two simpler models. The quantum yields of Trp photoinduced degradation, as well as of its photoproducts formation, decrease with increasing the
complexity of the investigated target. (Figure 18).
In conclusion, the comparison of these three models suggests some endpoints:
1
The mechanism is reproducible on moving to systems with increasing
molecular complexity, with a decrease of the processes efficiency
2
In the case of NAP, Trp photoproducts, markers for a type I process, are
obtained with higher quantum yields compared to Type II diagnostic products.
3
NAP acts via a cooperative Type I/II mechanism, whereas BM operates
prevalently via a Type II mechanism
4
MB induced photosensitization leads to higher cytotoxicity, due to the of
intracellular targets multiplicity
5
“In vitro” simulation must take into account to possible changes at the environmental compartments outside the cell, as well as the extracellular matrix
6
The relative weigth of the photoinduced damage is strongly influenced by
the distance between the bound photosensitizer and the molecular target.
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Figure 17. UVA mediated generation of these Trp derivatives
Trp-NAP
Trp-MB
BSA-NAP
BSA-MB
Cell-NAP
Cell-BM
1,0
0,8
0,6
quantum yield x 10
2
0,4
0,2
0,075
0,050
0,025
0,000
Tr
p
ine
ol
hin
-c
OH
4-
try
ine
am
pt
O
3-
e
nin
re
nu
ky
H-
e
nin
re
nu
ky
.
yn
ylk
rm
fo
N
.
ac
ic
en
ur
h
nt
xa
Figure 18. Quantum yields of Trp photoinduced degradation and photoproduct formation
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7. Photosensitization in models with increasing complexity: DNA
Different models can be employed to study DNA photodamage mediated by
xenobiotic agents (organisms, cells, isolated biomolecules and super molecules).
In this case, the Fluoroquinolones (FQ) is the chosen xenobiotic class. Being the
effect of environment (polarity of the medium, ions, pH, binding with biomolecules, etc) crucial in FQ photochemistry, photobiological reactions can be
consequently dramatically influenced. Thus, also in this case the photosensitization processes induced by FQs must take into account that such extensive and
cross-targeted pathological implications covers photosensitization in systems of
increasing molecular complexity. This can explain in vivo and in vitro evidences
for photoallergy, phototoxicity, photomutagenesis and photocarcinogenesis.
7.1. DNA bases
An extensive review can provide information about this aspect of biomodel photosensitization induced by FQs (De Guidi et al. 2011). Guanine is the most susceptible DNA target with regard to oxidation induced by ROS (Figure 19).
Commonly, different dGuo products come from FQs photoexcitation. These derivatives are diagnostic for the photosensitization mechanism, which is an attack
of dGuo via a type I (oxazolone derivative) (Ravanat et al. 2003) or via a type II
(dSp, Spiroiminodihydantoin) pathway (Adam et al. 2002). A type II photosensitizing mechanism was assigned in the oxidation of free dGuo in the presence of
OFL (Cuquerella et al. 2003) and RUF (Cuquerella et al. 2003; Belvedere et al.
2002). In RUF photomediated process, Cu2+ inhibits formation of type II products. The reduction of type II products, dSp, is higher than the copper (II) concentration used, pointing to a catalytic pathway. The significant decrease of dSp
counteracts the almost negligible increase of type I derivatives, caused by an electron extraction from dGuo from the radical cation of RUF (Cuquerella et al.
2010).
Figure 19. DNA dGuo derivatives diagnostic for the photosensitization mechanism; RFX,
rufloxacin; dGuo, deoxiguanosine; dSp, diimminospirihydantoins isomers; 8-OH-dGuo,
oxidized dGuo
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7.2. Plasmids
FQs induce base damage in form of bulk oxidations in purines and pyrimidines of
plasmids (circular supercoiled double strand DNA) as well as DNA strand cleavage (Catalfo et al. 2005). This latter is generated from alterations such as single
strand breaks (SSB) and double strand breaks (DSB). For photocleavage experiments plasmid containing FQs are subjected to sensitization and the induced
structural DNA changes are detected by agarose gel electrophoresis. This technique is very sensitive, because only one SSB is enough to convert the supercoiled circular form (Form I) into the nicked relaxed form (Form II) by means of
SSB, whereas DSB lead to the formation of linear DNA (Form III). These three
forms exhibit different electrophoretic mobilities (Figure 20).
Figure 20. Plasmid analysis on a electrophoretic gel; I, II and III are the different plasmid
forms
7.3. Cellular DNA
Comet assay (i.e. SCGE, single cell gel electrophoresis) is a rapid, simple, and
sensitive technique for measuring DNA damage in individual eukaryotic cells.
(Figure 21) It has been used for in vivo and in vitro studies in the evaluation of
the (photo-)toxic potential of FQs. It can be used to quantify the presence of a
wide variety of DNA lesions including DSB and SSB. Comet assay allows verifying cellular DNA repair ability by measuring the decrease of the DNA damage
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when cells are incubated after FQs photosensitization (Catalfo et al. 2005; Catalfo
et al. 2007). The data of Comet assay of FQs photosensitized cells are complementary to those obtained by plasmid photosensitization. Indeed, a structural correlation to genomic DNA seems to be a reasonable way in order to give further
details about photodamaged cell DNA revealed by unwinding in electrophoresis.
Comet assay allows verifying yeasts cellular DNA repair ability in RUF
photodamage (Serrentino et al. 2010).
Figure 21. Comet assay results
7.4. DNA in wild type microorganisms
FQ photocytoxicity can be studied also in a more complex cellular model, a wildtype eukaryotic fast-growing microorganism whose cultivation is cheap and easily
managed, Saccharomyces cerevisiae. (Figure 22). Particular emphasis must be
given to DNA modifications caused in yeast by the formation of FQ
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photomediated toxic species, such as hydrogen peroxide and formaldehyde. The
results confirm the phototoxicity of FQ on yeast cell and are in agreement with
those previously obtained with human fibroblast and with the simpler models
(Figure 23), and provide a clear link between DNA photosensitization and overall
phototoxicity(Catalfo et al. 2007).
Figure 22. Yeast cells in sporulation (right), Yeast CFU (left)
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Figure 23. Phototoxicity results of FQ on different models
8. Mutagenesis in yeast induced by photosensitization
Panel of yeast (Saccharomyces cerevisiae) mutants affected in different DNA repair pathways are very useful to study the phototoxic and photomutagenic potency of xenobiotics (Serrentino et al. 2010). Indeed, yeast mutants provide a senDe Guidi & Catalfo - Photosensitization, lights ...
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sitive tool to identify the photodamage and the DNA repair pathways that cope
with it (Figure 24). Cell viability test at increasing dose of UVA shows that both
the DNA repair deficient and wild type cells are equally sensitive to FQ induced
photosensitization, demonstrating that phototoxic effect is not due to DNA injury.
Photomutagenicity is evaluated by measuring the frequency of forward Can R mutations. The mutation induction is low in wild type cells. A high increase in mutation frequency is observed in strains affected in Ogg1 gene, compared to wild
type and other base excision repair deficient strain. The photomediated mutation
spectrum in wild type cells reveals a bias in favour of GC > TA transversions. Attention must be directed also to the role played by DNA mismatch repair,
translesion synthesis and post replication repair in the prevention of mutagenic effects due to FQ exposure. These investigations point out possible unwanted sideeffects in skin under sunlight and xenobiotics.
Figure 24. Mutagenesis results in yeast induced by FQ photosensitization
9. Photoprotection and Phototherapy
Considering what reported above, it is clear that more efforts directed to clarify
xenobiotics-mediated photosensitizing mechanisms on bio-targets are needed,
since this could allow the design of suitable bio-compatible devices, which may
control or modulate photosensitizer photodegradation and, as a consequence, exert a photoprotective action toward photoinduced damage. Meanwhile, knowledge
of photosensitization pathways may be used to design suitable sunscreens or to
develop therapeutic strategies towards several diseases, such as skin tumours.
9.1. Metal ions
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Thus in this context, taking into account that photogenerated unstable species
comes both from photoionization and singlet oxygen generation, the choice of
copper(II) ion as a scavenging agent seems reasonable. Indeed, this ion, free or
complexed, acts at very low concentrations as efficient catalyst of cellular dismutation processes against membrane oxidative damage and DNA cleavage; for this
reason, it represents a valid tool in inhibiting toxic effects photoinduced by xenobiotics, by influencing their photodegradation (Cuquerella et al. 2010) (Figure
25). Copper(II) represents also a potential strategy for modulating the photochemical pathways involved in drug photodegradation(Sortino et al. 1999). Transition metals are present in very low concentration in vivo (in the nM-µM range,
depending on the metal ion and compartment). Human body contains some micrograms of these trace elements, and their interactions with the biological substrates can be considerably altered when a therapeutically effective dose of drug is
administered. This change in the relative ratio between the metal ion and the bioligands may have a profound effect upon the activity of the drug against potentially susceptible bacteria. Indeed, formation of the complexes may increase the
bioavailability of the metal ion or of the drug, or both.
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Figure 25. Copper(II) modulation on the photochemical pathways involved in drug
photodegradation
9.2. Sunscreens
Choosing sunscreen can be confusing. There are organic and inorganic types, and
jargon like UV, SPF and broad-spectrum to sift through. Probably the most com61
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monly used sunscreens are "chemical absorbers." They contain carbon compounds made in a laboratory. Some 22 chemicals have become available in the
U.S. to shield the skin from the sun's harmful rays since the first compound
PABA was developed in the 1940s. Physical blockers come in two types: zinc oxide and titanium dioxide—natural minerals ground down to fine powders. They
are active broadband sunscreens that screen both UVB (290–320nm) and UVA
(320–400nm) sunlight radiation and as high SPF makers. These used to leave
white residue on the skin but modern processing techniques have largely done
away with that. The benefit of physical blockers is that they do not decompose
through sun exposure, so they theoretically have a longer life on your skin. When
sunlight hits the skin, chemical absorbers absorb the active UV rays and release
their energy in harmless ways. When UV rays hit skin coated in physical blockers, they are reflected and cannot penetrate the skin. FDA certified safety of physical blockers, also if the debate is still open due to their ability to catalyze reactions involving free radicals (Figure 26). Indeed, these metal oxides are known to
generate highly oxidizing radicals (hydroxyl radical and superoxide anion) and
other reactive oxygen species (ROS) such as H2O2 and singlet oxygen, 1O2, which
are known to be cytotoxic and/or genotoxic (Serpone et al. 2007).
Figure 26. FDA certified chemical and physical blockers
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9.3. Photodynamic therapy
Photodynamic therapy (PDT) is a treatment that uses a drug, called a photosensitizer or photosensitizing agent, and a particular type of light (Savoia et al. 2015),
(Figure 27). When photosensitizers are exposed to a specific wavelength of light,
they produce a form of oxygen that kills nearby cells (Figure 28). Each photosensitizer is activated by light of a specific wavelength. This wavelength determines
how far the light can travel into the body. Thus, doctors use specific photosensitizers and wavelengths of light to treat different areas of the body with PDT. In
the first step of PDT for cancer treatment, a photosensitizing agent is injected into
the bloodstream. The agent is absorbed by cells all over the body but stays in cancer cells longer than it does in normal cells. Approximately 24 to 72 hours after injection, when most of the agent has left normal cells but remains in cancer
cells, the tumor is exposed to light. The photosensitizer in the tumor absorbs the
light and produces an active form of oxygen that destroys nearby cancer cells. The
light used for PDT can come from a laser or other sources. Laser light can be directed through fiber optic cables (thin fibers that transmit light) to deliver light to
areas inside the body.
Figure 27. RA-301, a Rasiris triad incorporating the central porphyrin PDT agent (RA105), a pegylated near-IR imaging agent (indodicarbocyanine, left-hand side), and an
octreotate cyclic SST2 targeting moiety (right-hand side). http://spie.org/x26485.xml
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Figure 28. PDT principle
Acknowledgements
Thanks to MIUR “Piano Nazionale Lauree Scientifiche for the financial support
References
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Esperimenti di Fisica con la calcolatrice
CASIO fx CG 20 e una centralina CLAB
Pierantonio Garlini – Docente Miur – Formatore Nazionale Casio
E-mail: [email protected]
Abstract. Vari esperimenti sono stati condotti, tra cui molti sulla
luce- polarizzazione, albedo. Qui ho sintetizzato lo psicrometro
di Assman. La caratteristica essenziale di tali esperimenti di fisica è quella che utilizzano materiali poveri, reperibili a basso costo, tra cui una calcolatrice Casio fx CG 20- grafica. Il confort
percepito in un ambiente è strettamente legato alla temperatura
dell’aria ed alla sua umidità relativa ϕ . Quest’ultima, ad una data
temperatura ed a pressione atmosferica, è espressa dal rapporto
tra la densità del vapor d’acqua alla temperatura ambiente e la
densità che avrebbe lo stesso in condizioni di saturazione.
L’umidità relativa di un ambiente può essere determinata con lo
psicrometro di Assman.
Lo psicrometro di Assman
Lo strumento è costituito da un condotto ad Y nei cui due rami confluenti sono posizionati due termometri, uno dei quali con il bulbo contornato da
una garza inumidita con acqua distillata.
Forzando l’aria, con una ventolina, ad attraversare lo strumento i termometri registreranno:
la temperatura di bulbo secco Tbs dell’aria ambiente;
la temperatura di bulbo umido Tbu in prossimità della garza dove l’acqua, evaporando, determina l’abbassamento locale della temperatura per sottrazione di calore
durante evaporazione (calore latente: r = 2501 KJ/kgas).
Note le temperature tbs e tbu, l’umidità relativa è data dalla seguente relazione:
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Obiettivo
Determinare l’umidità relativa in un ambiente mediante la misura di temperatura;
Osservare l’abbassamento di temperatura che si determina a causa dell’ evaporazione dell’acqua.
Materiale occorrente
Psicrometro (condotto a Y con ventolina elettrica e due vani per termometri di cui
uno dotato di garza);
acqua distillata;
calcolatrice fx-CG20;
interfaccia C-LAB;
due sonde di temperatura inox − 50 ÷ +130 °C
N. B. lo psicrometro è stato realizzato con materiali di fortuna:
n.1 raccordo a Y per impianti idraulici DN 32;
n.2 retine per tasselli chimici;
n.1 ventolina per microprocessore di recupero.
L’esperimento
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Per questo l’esperimento occorre esegui le seguenti operazioni:
attiva la ventola (collocata in modo da aspirare l’aria dopo che abbia lambito le
sonde per evitare di alterarne la misura);
inumidisci la garza con acqua distillata (avendo cura di strizzarla bene poiché Il
formarsi di un velo d’acqua sulla sonda influirebbe negativamente sulle condizioni di
scambio termico;
collega le sonde: quella di bulbo asciutto alla porta n. 1 della C- LAB, quella di
bulbo umido alla porta n.2;
accendi le apparecchiature;
Associa le sonde ai canali - Setup
Passaggio #1
Dal MAIN MENU accedi
a E- CON2 con l.
Passaggio #2
Premi q (SET) per attivare il menù di Setup.
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Passaggio #3
Premi w(ADVANCE)
per attivare il menù di
Setup avanzato.
Premi 1 (Channel) per
attivare il setup dei canali.
Passaggio #4
Premi q (CASIO) per
scegliere il sensore da
associare a CH1.
Passaggio #5
Spostandoti con le frecce
N
seleziona temperature e
conferma con l.
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Passaggio #6
Premi l per scegliere
l’unità di misura [°C].
La prima sonda di temperatura risulta, ora associata la canale CH1.
Passaggio #7
Spostati con la freccia N
su CH2 e ripeti i passaggi
dal 4 al 6 per associare la
seconda sonda al canale
CH2.
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Passaggio #8
Premi d per tornare al
menù precedente.
Definisci le modalità di prova
Passaggio #9
Premi 2 (Sample) per definire le modalità di prova
(Sample Setup).
Passaggio #10
Premi q (R-Time) per
impostare la modalità di
prova Real Time.
Questa modalità è particolarmente indicata per le
prove di breve durata.
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Passaggio #11
Spostati con Nsu
Interval.
Premi q(NUMBER)
Passaggio #12
Digita 1 per Impostare
l’intervallo di campionamento di [1 sec].
Conferma con l.
Passaggio #13
Spostati con Nsu
Number.
Premi q(NUMBER)
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Passaggio #14
Digita 301
per impostare il numero di scansioni.
Conferma con l.
Passaggio #15
Con i parametri scelti il
tempo totale di prova risulta
di 5 minuti ed è tale da consentire alla sonda umida di
raggiungere una condizione
di equilibrio nello scambio
termico.
Passaggio #16
Premi d per tornare al
menù precedente.
Avvia la prova
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Passaggio #17
Premi q (START) per
avviare la prova.
Passaggio #18
Conferma con l.
Sul display viene visualizzato l’andamento
grafico della prova.
Un bip segnala il termine.
Analizza i risultati
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Passaggio #19
Osserva il grafico di
CH2, noterai che ha un
andamento asintotico.
Premi q (Trace) e
sposta, con le frecce, il
puntatore sulla destra.
All’istante 291[sec]
leggerai t bu = 22,18[°C ]
Passaggio #20
Premi dper annullare
Trace.
Premi B (freccia su) per
passare al grafico del canale
CH1.
Passaggio #21
Premi r (Sketch) e scorri il
menù con u.
Seleziona w(Horizontal) e
posizionati con le frecce nella parte bassa del grafico
CH1 quindi premi l.
Avrai creato una linea orizzontale di demarcazione.
Spostati con le frecce nella parte alta del grafico e pigia nuovamente lper ottenere un’altra linea orizzontale di demarcazione.
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Le linee ti consentiranno di leggere meglio i grafici e capire che T bs oscilla
nell’intervallo 29,45 ≤ T bs ≤ 29,85.
Conclusioni
Dall’analisi dei risultati hai rilevato che:


la temperatura di bulbo umido tende a stabilizzarsi al valore Tbu = 22,18
°C dopo che il sistema ha raggiunto l’equilibrio;
la temperatura di bulbo secco oscilla tra i valori 29,45°C ≤ Tbs ≤
29,85°C , tra l’alto molto vicini tra loro;
Puoi, dunque, calcolare la temperatura media di bulbo secco:
Tbs 
29, 45C  29,85C
 29, 65C
2
e l'umidità relativa:

Tbu  0, 45Tbs 22,18C  0, 45  29,65C

 0,508
0,5867Tbs
0,5867  29,85C
Il risultato ottenuto ben si accorda con quello che avresti ottenuto usando il terribile diagramma psicrometrico, presentato qui sotto
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Referenze
 Casio Italia - Milano
 Pierantonio Garlini – Matematica saper fare 5 volumi – Temi Bologna 1993
Online document
www.casio.it
Web site
www.dimensioneducativa.org
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La chimica dell’atmosfera e il clima del nostro
pianeta.
Stefania Gilardoni
Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, Consiglio Nazionale delle Ricerche (ISAC-CNR)
E-mail: [email protected]
Abstract. L’interazione della radiazione solare con le componenti dell’atmosfera definisce il clima del nostro pianeta. La radiazione solare (radiazione UV e visibile) che raggiunge la superficie della terra viene riemessa dal pianeta come radiazione
infrarossa. La radiazione UV-visibile e la radiazione infrarossa
interagiscono con i gas e le particelle presenti in atmosfera, determinando il clima, cioè la meteorologia su larga scala temporale. Alcuni gas presenti in atmosfera, come l’anidride carbonica, il
vapore acqueo, l’ozono, ed il metano, contribuiscono al riscaldamento del pianeta (gas serra), mentre le polveri sottili possono
portare ad un aumento o ad una diminuzione della temperatura.
L’effetto delle polveri sottili dipende dai meccanismi di interazione delle stesse polveri con la radiazione e con gli altri componenti dell’atmosfera.
Il clima e le variabili climatiche
Il tempo atmosferico è l’insieme dei fenomeni atmosferici che avvengono in un
determinato momento, mentre il clima è lo stato medio del tempo atmosferico osservato su scala temporale di 20-30 anni. Le variabili climatiche più comunemente analizzate sono la temperatura superficiale globale media, la frequenza delle
precipitazioni, e la quantità di pioggia. Il cambiamento del clima implica, non solo la variazione del valor medio di queste variabili, ma anche il cambiamento della loro varianza, ovvero della deviazione standard.
Il clima del pianeta è governato da due fattori: l’energia proveniente dal sole e la
redistribuzione di questa energia tramite l’atmosfera e gli oceani. La radiazione
solare raggiunge la superficie della terra in direzione tangenzialmente ai poli ed in
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modo quasi perpendicolare all’equatore, creando un gradiente termico, con temperature maggiori all’equatore rispetto ai poli. Tale gradiente genera una circolazione di masse d’aria calda che si muovono dai tropici verso i poli. La circolazione si suddivide in tre percorsi corrispondenti alle celle di Hadley, alle celle di
Ferrel, e alle celle polari (circolazione generale). All’equatore le masse d’aria calde e umide salgono ad alta quota e si spostano verso i tropici, dove ridiscendono a
basse quote dopo che la loro temperatura è diminuita. Ai poli le masse d’aria
fredda in alta quota scendono verso il basso e si spostano verso le medie latitudini
dove, con l’aumento della loro temperatura, salgono nuovamente a quote superiori. Alle medie latitudini si genera una circolazione complementare alle celle polari
e tropicali, come rappresentato in figura 1. Alla circolazione generale si sommano
i venti locali generati dalla rotazione della terra e dall’attrito delle masse d’aria in
movimento con le asperità della superficie del pianeta. Infine, in corrispondenza
delle regioni dove si generano basse pressioni per l’ascensione di masse d’aria
calde e umide, ovvero all’equatore e nelle zone temperate, si osservano le precipitazioni più frequenti. La circolazione generale, i venti superficiali, e le precipitazioni controllano il tempo meteorologico e influenzano il clima attraverso la redistribuzione dell’energia proveniente dal sole.
Figura 1. Circolazione generale atmosferica (da
http://www.seas.harvard.edu/climate/eli/research/equable/hadley.html).
La temperatura del pianeta ha subito numerose variazioni nel passato. Misure accurate della temperatura alla superficie sono iniziate solo nella seconda metà del
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Aumento della CO2 in
epoca industriale
Variazione della temperatura (K)
Concentrazione di CO2 (ppm)
diciannovesimo secolo. La ricostruzione della temperatura nei secoli e nelle ere
geologiche precedenti si basa quindi su misure indirette, come lo spessore degli
anelli degli alberi, la sviluppo dei coralli, e la concentrazione di specifici isotopi
nei sedimenti e nei ghiacciai. La temperatura geologica è ricostruita dalle misure
isotopiche dell’ossigeno nelle carote di ghiaccio raccolte nelle regioni polari. La
figura 2 mostra l’andamento della temperatura negli ultimi 350.000 anni. Questo
intervallo di tempo è stato caratterizzato da periodi in cui la temperatura era 510°C inferiore alle temperature attuali (periodi glaciali) e periodi più brevi caratterizzati da temperature simili alla temperatura odierna (periodi interglaciali)
(Petit et al., 1999). Le temperature più elevate sono sempre state riscontrate nei
periodi caratterizzati da alte concentrazioni di anidride carbonica. A partire dalla
rivoluzione industriale, cioè dalla seconda metà del diciottesimo secolo, la temperatura superficiale del pianeta è aumentata in modo continuo, fino ad un aumento
medio di 0.85°C. Tale aumento di temperatura però non è omogeneo su tutta la
superficie del pianeta, ma presenta aree caratterizzate da valori superiori a 2°C,
come il nord America, il sud America, ed il continente euroasiatico (IPCC, 2013).
Anche in Italia l’aumento di temperatura medio è stato superiore ai 2°C (Brunetti
et al., 2006).
Migliaia di anni
Figura 2. Andamento delle temperatura (blu) e della concentrazione di anidride carbonica
(verde) negli ultimi 350.000 anni derivanti dall’analisi della carota di ghiaccio di Vostok.
L’andamento della CO2 in epoca industriale dal report dell’IPCC (2011) è riportata in rosso (adattato da http://www.pikpotsdam.de/~stefan/Publications/Journals/rahmstorf_etal_eos_2004.html)
Gli effetti dell’aumento delle temperature sono evidenti in tutto il pianeta, ed includono i) il ritiro dei ghiacciai, ii) lo scioglimento di parte delle calotte polari,
con conseguente alterazione della salinità degli oceani, delle correnti oceaniche, e
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dell’albedo del pianeta, iii) l’innalzamento del livello del mare (dal 1990 al 2100
si aspetta un incremento di 28-34 cm), e iv) l’aumento della frequenza di eventi
meteorologici estremi, quali le ondate di calore, le inondazioni, e le siccità, con
implicazioni rilevanti per la salute umata, la produzione di cibo, e l’economia
(IPCC, 2013).
Il clima e l’atmosfera
La radiazione ultravioletta e visibile proveniente dal sole raggiunge l’atmosfera. I
gas che costituiscono l’atmosfera sono trasparenti a gran parte della radiazione
proveniente dal sole, Questa radiazione, dopo aver attraversato l’atmosfera, è assorbita dalla Terra e viene poi riemessa dal pianeta come radiazione infrarossa,
ovvero calore. Alcuni gas presenti in atmosfera, quali l’acqua e l’anidride carbonica, assorbono la radiazione infrarossa in uscita, portando ad un aumento delle
temperature. Questo effetto è definito effetto serra. In assenza dell’effetto serra la
temperatura del pianeta sarebbe pari a 15°C sotto lo zero, quindi la presenza
dell’effetto serra è fondamentale per la vita. I gas che controllano l’effetto serra
sono l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4), il protossido di azoto (N2O), e
gli alogeno-carburi.
Le prime misure a lungo termine di un gas serra sono state eseguite dal professor
David Keeling presso l’osservatorio di Manua Loa (Hawaii) a partire dal 1958
(Keeling et al., 1976). Le misure di anidride carbonica di Manua Loa hanno subito
evidenziato l’oscillazione annuale delle concentrazioni di questo gas dovuti al ciclo di vita delle piante, accompagnate da un continuo aumento dei valori minimi e
massimi anno dopo anno. Nel 1958 la concentrazione annuale media di anidride
carbonica era pari a 310 parti per milione (ppm), mentre la concentrazione media
nel 2014 era 398 ppm. Rispetto all’epoca preindustriale, la concentrazione di anidride carbonica è aumentata del 55%. Oltre all’anidride carbonica, anche le concentrazioni degli altri gas serra sono aumentate. La concentrazione atmosferica di
metano è inferiore rispetto all’anidride carbonica e corrisponde a 1770 parti per
bilione (ppb, equivalenti a 1.77 ppm), mentre la concentrazione in epoca preindustriale era 600 ppb, pari ad un incremento del 180%. La concentrazione atmosferica attuale del protossido di azoto attuale è 320 ppb, corrispondente ad un aumento rispetto al valore preindustriale del 20%. Gli alogeno-carburi sono una
classe vasta di composti, che includono i fluoro carburi (FC), gli idrofluorocarburi
(HFC), e gli idroclorofluorocarburi (HCFC). Benché la concentrazione di queste
specie in atmosfera sia molto bassa (tipicamente in parti per trilione), la loro capacità di assorbire la radiazione infrarossa e il tempo di vita in atmosfera sono
molto elevati, e per questi motivi sono definiti High Global Warming Potential
gas (HGWP, gas ad alto potenziale di riscaldamento globale). L’aumento signifi83
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cativo e rapido dei gas serra dovute alle attività antropiche in epoca industriale ha
condotto all’aumento della temperatura superficiale del pianeta (IPCC, 2013,
IPCC, 2007).
Le sorgenti, i processi di rimozioni atmosferici, e il tempo di permanenza dei gas
serra sono riportati in Tabella 1.
Tabella 1. Gas serra.
Sorgenti
Processi di
rimozione
Dissoluzione negli
oceani, respirazione
delle piante
Tempo di vita
CO2
Combustione di
combustibili fossili, produzione di
cemento, e deforestazione
5-200 anni
CH4
Decomposizione
anaerobica di materiale organico,
industria petrolifera
Ossidazione in troposfera, adsorbimento
nel suolo, ossidazione
in stratosfera
12 anni
N2O
Uso di fertilizzanti, combustione di
biomasse, e uso di
combustibili fossili.
Ossidazione in troposfera e stratosfera
114 anni
Alogenocarburi
Refrigeranti, materiali ignifughi, industria elettronica
Ossidazione in atmosfera
1.4 – 270 anni per HFC e
HCFC, 1000-50000 per
FC e SF6.
I gas serra sono caratterizzati da tempi di permanenza in atmosfera dell’ordine di
anni, quindi possono influenzare le proprietà dell’atmosfera anche lontano dalle
regioni in cui sono emesse. Oltre ai gas serra, esiste una classe di composti presenti in atmosfera e in grado di influenzare il clima, ma caratterizzati da tempi di
vita atmosferici dell’ordine di pochi giorni e quindi responsabili di alterare il clima in prossimità delle loro sorgenti. Tali composti sono indicati con il nome di
“short lived climate forcers” (SLCF), ovvero forzanti climatiche a tempi di vita
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brevi. I più importanti SLCF sono il black carbon e l’ozono. Il black carbon è uno
dei componenti delle polveri sottili, e contribuisce al riscaldamento in modo diretto, assorbendo la radiazione solare, e indiretto, modificando l’albedo superficiale
e alterando il ciclo di vita delle nubi. Il black carbon è emesso durante la combustione di combustibili fossili e delle biomasse, ed è caratterizzato da un tempo di
permanenza in atmosfera di pochi giorni. L’ozono troposferico è un gas prodotto
dalla reazione di fotolisi degli ossidi di azoto in atmosfera, promossa
dall’ossidazione atmosferica del metano e degli idrocarburi non metanici. Il suo
tempo di vita atmosferico varia da 4 a 18 giorni.
Un recente studio promosso dal programma ambientale delle nazioni unite
(UNEP) ha evidenziato che la riduzione delle emissioni di black carbon e metano
(come principale sorgente di ozono) ha un effetto immediato di rallentamento del
riscaldamento su scala locale e globale. Inoltre tale riduzione avrebbe effetti benefici per la salute umana e la produzione agricola, attraverso la riduzione delle
morti premature dovuta a esposizione degli inquinanti, e l’aumento della produzione agricola di colture (UNEP/WHO, 2011).
Figura 3. Stime del radiative forcing per i diversi costituenti dell’atmosfera nel 2011 relativi al 1750 (report dell’IPCC, 2013).
Il radiative forcing
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La capacità di una singola specie chimica di alterare il clima è quantificato attraverso il radiative forcing. Il radiative forcing è la differenza tra l’energia solare
che entra in atmosfera e l’energia riflessa verso lo spazio attribuibile ad ogni singolo componente dell’atmosfera. Il radiative forcing è misurato in Watt al metro
quadro (W m2).
La figura 3 mostra il radiative forcing dei gas serra, dei precursori dell’ozono
(monossido di carbonio CO, idrocarburi non metanici NMVOC, e ossidi di azoto
NOx), e del materiale particellare incluso il black carbon. Un valore di radiative
forcing positivo caratterizza la specie responsabili del riscaldamento atmosferico.
Le barre di errore indicano l’incertezza del dato quantitativo. Benché l’incertezza
del radiative forcing del black carbon sia ampia, il black carbon è una delle specie
maggiormente responsabili del riscaldamento atmosferico, insieme ad anidride
carbonica e al metano.
Conclusioni
Molti aspetti dei cambiamenti climatici persisteranno per diversi secoli, anche se
le emissioni di gas serra venissero oggi istantaneamente azzerate, quindi intervenire con azioni di contrasto al cambiamento climatico rappresenta un impegno per
diversi secoli a venire. L’ulteriore incremento delle emissioni nel presente implica
la necessità di intervenire con riduzione più stringenti nel futuro, con maggiori
costi economici e sociali. Oggi abbiamo comunque gli strumenti tecnologici e le
conoscenze per intervenire efficacemente nel presente sulle emissioni di gas serra,
perché i costi dell’inazione sono senz’altro maggiori di quelli per le necessarie azioni di mitigazione nel futuro.
References
brunetti, M., Maugeri, M., Monti, F. & Nannia, T. 2006. Temperature and precipitation
variability in Italy in the last two centuries from homogenised instrumental time
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IPCC 2013. Climate Change 2013: The Physical Science Basis, Summary for
Policymakers.
Keeling, C. D., Bacastow, R. B., Bainbridge, A. E., Ekdahl, C. A., Guenther, P. R.,
Waterman, L. S. & Chin, J. F. S. 1976. Atmospheric Carbon-Dioxide Variations
At Mauna-Loa Observatory, HawaiI. Tellus, 28, 538-551.
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Petit, J. R., Jouzel, J., Raynaud, D., Barkov, N. I., Barnola, J. M., Basile, I., Bender, M.,
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Stievenard, M. 1999. Climate and atmospheric history of the past 420,000 years
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UNEP/WHO 2011. Integrated Assessment of Black Carbon and Tropospheric Ozone.
United Nations Environment Programme, Nairobi, Kenya, and World
Meteorological Organization, Geneva, Switzerland.
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Energia, potenza, intensità e brillanza di una
sorgente luminosa: dagli Specchi Ustori di Archimede ai laser super-intensi.
Danilo Giulietti
Dipartimento di Fisica dell’Università e INFN, Pisa
E-mail: [email protected]
Riassunto. Una rivisitazione critica, su basi scientifiche,
dell’episodio storico secondo cui Archimede avrebbe bruciato
con degli specchi alcune navi Romane durante l’assedio di Siracusa nel 212 a.c., offre l’occasione per prendere in esame le principali sorgenti di luce ed i limiti imposti dall’Ottica nella sua
concentrazione.
Abstract. A critical review, science-based, of the historical episode that Archimedes would burn with mirrors some Roman
ships during the siege of Syracuse in 212 BC, provides an opportunity to consider the main sources of light and the limits imposed by the Optics in its concentration.
PACS: 42.15Eq; 42.79Ek; 52.57-z; 41.75.Jv
1. Introduzione.
Il Sole rappresenta la sorgente di radiazione che consente la vita sulla Terra. Per
questo motivo esso è stato fin dalle origini della Storia dell’Uomo venerato come
una divinità. La radiazione solare intercettata dalla Terra corrisponde ad una potenza di circa 100PW. Essa ha la caratteristica di essere diffusa, cosa che la rende
di difficile utilizzazione per le molte attività umane che richiedono elevate concentrazioni di radiazione (Intensità, W/m2). Archimede è stato fra i primi che ha
cercato di concentrare la radiazione solare per fini bellici: i famosi Specchi Ustori
mediante i quali avrebbe bruciato le navi Romane che assediavano la città di Siracusa. In realtà, come si può facilmente capire sulla base dell’Ottica, Archimede
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poteva al massimo arrivare a disturbare (forse accecare) i soldati Romani, non
certo bruciare le navi su cui essi si trovavano. In questo articolo si mostrerà come
l’intensità di radiazione che si riesce a concentrare con un sistema ottico dipenda
dal rapporto (diametro /lunghezza focale) dell’ottica di focalizzazione e dalla brillanza della sorgente, cioè l’intensità che investe il sistema ottico di focalizzazione
diviso l’angolo solido sotto cui è vista la sorgente. I laser sono le sorgenti di luce
più brillanti a nostra disposizione. Le intensità che attualmente si possono ottenere concentrando la loro radiazione superano quella del Sole sulla superfice terrestre di un fattore 1023 !! Le applicazioni che i laser possono consentire sono innumerevoli ed includono, solo per citarne alcune, la diagnostica e terapia medica,
l’accelerazione di particelle, la fusione termonucleare controllata.
2. Archeologia sperimentale.
Gli storici antichi ci riferiscono talvolta di imprese od eventi che tutt’oggi ci sembrano impossibili, tanto che siamo portati a ritenerli frutto della loro fantasia. Tuttavia i moderni studiosi di storia ed archeologia hanno cominciato negli ultimi decenni a tentare di verificare sperimentalmente la veridicità di alcune di queste
impresse, come ad esempio quella riportata dallo stesso Cesare, nel “De Bello
Gallico”, secondo cui nel 55 a.c. i suoi soldati avrebbero costruito un ponte sul
fiume Reno in soli 10 giorni (Figura 1).
Figura 1. Verifica sperimentale di quanto affermato da Cesare nel “De Bello Gallico”, secondo cui nel 55 a.c. i suoi soldati avrebbero costruito un ponte sul fiume Reno in soli 10
giorni.
Una vicenda ancora più nota fin dall’antichità è quella relativa all’assedio di Siracusa da parte dei Romani, nel 212 a.c., secondo cui Archimede, mettendo a profitto le sue grandi capacità di matematico, fisico ed ingegnere, avrebbe bruciato alcune delle navi Romane che si avvicinavano alle strutture difensive della città
(Figura 2). In effetti gli storici Greci e Romani riportano di alcune macchine da
guerra appositamente progettate da Archimede in quella occasione, ma non men89
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zionano gli Specchi Ustori in particolare. L’unica testimonianza al riguardo c’è
giunta attraverso compendi e sintesi della “Storia Romana” di Dione Cassio (155235 d.c.), attuate nel Medioevo (XII secolo) da Giovanni Tzetzes e Giovanni Zonara.
Non risulta che siano stati fatti tentativi sperimentali per verificare la veridicità di questa testimonianza, anche se molte sono le dimostrazioni didattiche
nelle quali la concentrazione della radiazione solare (od altra sorgente di luce)
viene impiegata per bruciare un pezzo di carta o accendere un fiammifero. Ben
altra impresa sarebbe quella di mostrare di poter bruciare un pezzo di legno posto
ad alcune decine di metri da uno specchio parabolico che concentri su di esso la
radiazione solare. In effetti, per convincerci che Archimede non poteva bruciare le
navi Romane, ma solamente disturbare o al massimo accecare i marinai su quelle
navi, è sufficiente fare alcune considerazioni sulla capacità di un sistema ottico di
concentrare la radiazione di una sorgente luminosa e, naturalmente, sulla sorgente
luminosa da lui utilizzata: il Sole.
Figura 2. E’ realistico pensare che Archimede durante l’assedio di Siracusa (212 a.c.) sia
riuscito a bruciare le navi Romane con gli Specchi Ustori ?
3. Il Sole.
Il Sole, visto dalla Terra, ci appare come una sfera luminosa di apertura angolare
di circa ≈0.5 gradi. Lo spettro di radiazione che esso emette corrisponde a
quello di un Corpo Nero alla temperatura di circa T≈5800°K ( temperatura superficiale ) (Figura 3). Sulla base di questi soli due dati sperimentali è quindi possibile determinare sia il valore della Costante Solare (I≈1400W/m2), cioè
l’intensità di radiazione che arriva sulla Terra, che la potenza complessivamente
intercettata dal nostro pianeta (W≈100PW).
Infatti, indicando:
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rS = raggio Sole
rT = raggio Terra
dTS = distanza Terra- Sole
s = 5.67 ´10-8 Wm-2 K -4 Stefan- Boltzmann constant
T = Temperatura superficiale del Sole
si ha:
da cui
e quindi
Il fatto che il Sole è visto dalla Terra sotto un angolo  fa sì che l’ombra dei corpi che intercettano la sua radiazione non sia netta, ma appaia una zona così detta
di penombra.
Figura 3. Il Sole, visto dalla Terra, ci appare come una sfera luminosa di apertura angolare di circa ≈ 0.5 gradi, con temperatura superficiale di T≈5800°K.
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Intercettando con un cartoncino i raggi del Sole davanti ad una parete dipinta di
bianco si osserva che l’ombra non è netta, ma vi è una regione di penombra (Figura 4); misurandone l’estensione si può risalire all’angolo  sotto cui vediamo
il Sole.
h » d × J estensione penombra
per d =1 m q = 0.5gradi » 0.01 rad Þ h » 1 cm
h

d
Figura 4. Penombra prodotta da una sorgente estesa.
4. Concentrazione della radiazione luminosa.Un fascio di radiazione sostanzialmente parallelo che incide su una lente convergente o su su uno specchio parabolico (privi di aberrazioni) non viene concentrato su un punto geometrico, come prevederebbe l’Ottica Geometrica, ma su una macchia focale le cui
dimensioni sono determinate dalla diffrazione:
f » 2.44
l
f
D
dove è il diametro della macchia focale,  la lunghezza d’onda della radiazione,
D il diametro dell’ottica di focalizzazione ed f la sua lunghezza focale. Nel caso
del Sole tuttavia l’angolo sotto cui lo vediamo dalla Terra risulta generalmente
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molto maggiore dell’angolo di diffrazione relativo all’ottica di focalizzazione, per
cui la sua radiazione risulta concentrata in un disco il cui diametro vale:
dove è l’angolo sotto cui vediamo il Sole.
L’intensità della radiazione solare sul fuoco dell’ottica di focalizzazione risulta
dunque:
If =
D2
f
2
I0 =
D2
f a
2
2
0
I0 =
I0
B
= 2
2
WF
F
dove
f
; Numero F
D
a 0 = angolo sotto cui è visto il Sole
F=
essendo a 0 << 1, W » a 02 ; angolo solido I 0 = costante Solare
B=
I
; Brillanza del Sole W
Come si vede l’intensità che si raggiunge sul fuoco dipende solamente da due fattori. Il numero F, cioè il rapporto lunghezza focale/diametro dell’ottica di focalizzazione e la brillanza del Sole, cioè la sua intensità (costante Solare) diviso
l’angolo solido sotto cui vediamo il Sole, che per piccoli angoli d’apertura è approssimativamente uguale al quadrato dell’angolo stesso.
A questo punto siamo in grado di valutare l’intensità della radiazione Solare una volta che proviamo a concentrarla mediante una lente convergente o uno
specchio parabolico. Chi di noi da ragazzo non ha provato a bruciare con una lente un foglio di carta o un mucchietto di paglia secca? (Figura 5). Una comune
lente che si trova in genere nelle nostre case è una lente positiva usata come lente
d’ ingrandimento. In questo caso tipicamente le dimensioni sono di circa 10cm di
diametro e la lunghezza focale è di circa 20cm, cioè F=2. Si ha dunque:
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W
f
e F = = 2
cm2 strad
D
B
W
I f = S2 » 250 2
F
cm
I f = 2500 ´ I S
con BS » 103
Osserviamo che in queste condizioni riusciamo ad aumentare di un fattore 2500
l’intensità della radiazione Solare e, non senza una qualche difficoltà, a bruciare
carta e paglia secca. Certamente, non un pezzo di legno !
Figura 5. Nel fuoco di una lente (F=2) l’intensità d’irraggiamento solare aumenta di
2500 volte.
5. Archimede e le navi Romane.
Le navi Romane che assediavano Siracusa dovevano trovarsi a non meno di 50
metri dalle mura della città, dove Archimede avrà presumibilmente collocato i
famosi specchi. Quindi, supponendo che Archimede sia stato capace di costruire
uno specchio di 5metri di diametro (di buona qualità) con una focale di circa 50
metri, l’intensità solare concentrata sulle navi romane non sarebbe stata sufficiente a bruciare le vele, né tantomeno il fasciame, ma abbastanza per abbagliare i marinai, impedendo loro di manovrare efficacemente, mentre dalle mura lungo la costa i Siracusani li bersagliavano mediante il lancio di frecce e proiettili
incendiari. Si ottiene infatti un’intensità sul fuoco dello specchio largamente inferiore a quella (come mostrato nel paragrafo precedente) necessaria per bruciare
un foglio di carta!
Giulietti – Energia, Potenza, intensità e brillanza ...
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W
f 50
e F = =
= 10
cm strad
D 5
B
W
si ha I f = S2 » 10 2 = 100 ´ I S
F
cm
mentre servirebbe almeno 10 4 × I S
con BS » 103
2
6. Brillanza di una sorgente di luce.
Come abbiamo appena visto, nella concentrazione della radiazione luminosa conta non solo l’intensità della sorgente (I=W/m2), ma anche l’angolo di divergenza
della radiazione (), cioè la sua Brillanza ( B= I/ ≈I/2). E’ interessante osservare che la brillanza di una sorgente di luce è una sua caratteristica intrinseca e
non cambia se ci avviciniamo ulteriormente ad essa ovvero se ce ne allontaniamo.
Ritornando infatti al modo in cui abbiamo calcolato la brillanza del Sole, osserviamo che, sia l’intensità che riceviamo, sia l’angolo solido sotteso dal Sole diminuiscono come l’inverso del quadrato della distanza che ci separa da lui; quindi il
loro rapporto, cioè la brillanza del Sole è indipendente dalla sua distanza. Quindi,
durante il movimento di rivoluzione della Terra attorno al Sole, pur variando la
costante solare (è massima quando la terra si trova in condizioni di perielio),
l’intensità sul fuoco di una stessa lente non cambia. Ma cosa succede se ci allontanassimo dal nostro Sole quanto lo siamo dalle altre stelle che vediamo in cielo ?
Chiaramente in questo caso l’intensità sul fuoco della stessa lente sarebbe drammaticamente più bassa. Questo non contraddice quanto sopra osservato. Infatti in
questo caso l’angolo sotto cui vedremmo il nostro Sole sarebbe talmente piccolo
da risultare inferiore all’angolo di diffrazione dovuto al passaggio della sua radiazione attraverso la lente. In queste condizioni allontanandoci dal Sole diminuirebbe la sua intensità sulla lente (costante Solare), mentre l’angolo di divergenza della radiazione che attraversa la lente rimane costante, essendo dovuto alla sola
diffrazione.
Prendiamo in esame ora alcune sorgenti di luce alla portata della nostra vita quotidiana: il Sole, una lampada da 100W ed un laserino da 1mW. Come sistema ottico di focalizzazione consideriamo il cristallino del nostro occhio e vediamo di
valutare l’intensità luminosa sul suo fuoco, cioè sulla retina. Il cristallino ha un
diametro circa uguale alla sua lunghezza focale, cioè F≈1. Come si può osservare,
mentre una lampada da 100W può abbagliarci se guardata fissamente, ma nulla di
più, il Sole ed un laserino da solo 1mW possono danneggiarci permanentemente
la retina, in quanto l’intensità che si raggiunge su di essa supera quella sul fuoco
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di una lente utilizzata per bruciare un foglio di carta, mentre vi concentra la radiazione solare. Se non sorprende la pericolosità per i nostri occhi della radiazione
Solare, risulta invece a prima vista stupefacente che lo sia quella di una sorgente
di solo 1mW.
F » 1 per il cristallino dell 'occhio
Lampada da 100W BLamp » 0.1 Sole BSole » 10 3
W
B
W
® I f = S2 » 0.1 2 ® I f = I S
cm2 strad
F
cm
W
B
W
® I f = S2 » 10 3 2 ® I f = 10 4 ´ I S
cm2 strad
F
cm
Laserino da 1mW BLaser » 7 ×10 4
W
B
W
® I f = S2 » 7×10 4 2 ® I f = 7×10 5 ´ I S
cm2 strad
F
cm
La straordinaria brillanza del laser da soli 1mW ci spinge a fare alcune considerazioni sulla radiazione laser e su un fenomeno fisico di primaria importanza
nell’Ottica: la diffrazione della luce. In effetti la radiazione laser essendo caratterizzata dalla produzione di un flusso di fotoni identici (emissione stimolata) presenta una divergenza che è semplicemente legata agli effetti diffrattivi prodotti
dalle dimensioni trasversali del mezzo attivo in cui il processo laser si sviluppa.
Nel caso del piccolo laser da 1mW possiamo supporre una dimensione trasversa
del mezzo attivo dell’ordine di 1mm, cui corrisponde un angolo di diffrazione e
relativo angolo solido:
l 2.44 ´ 5×10-5
q diff = 2.44 »
» 1.2 ×10 -3 rad
D
0.1
2
-6
W » q » 1.5×10
diff
e quindi una brillanza
B=
I laser
W
» 7×10 4 2
W
cm sterad
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Il laserino da 1mW emette indubbiamente una piccolissima potenza, ma la sua divergenza è talmente bassa da produrre una brillanza superiore a quella del Sole.
Ed è la brillanza a determinare l’intensità sul fuoco !
7. LASER.
Come si è visto nel paragrafo precedente i laser, grazie alla loro estrema direzionalità, sono caratterizzati da altissimi valori di brillanza e quindi sono fra le sorgenti di luce quelle che consentono i più alti valori di intensità, una volta focalizzati.
Esiste una grande varietà di sistemi laser, che lavorano su frequenze che
vanno dall’infrarosso all’ultravioletto. Essi si raggruppano in due grandi famiglie:
i laser in continua, che emettono un flusso di radiazione continuo nel tempo e
quelli impulsati. I primi possono trasportare importanti quantità di energia e vengono utilizzati, una volta focalizzati, per tagliare con grande precisione i più svariati tipi di materiali. Le loro massime potenze sono dell’ordine di decine di KW. I
laser impulsati al contrario emettono impulsi di radiazione da pochi Joules, fino a
106 Joules, con durate d’impulso che vanno da poche decine di fs (10 -15s) fino ad
alcuni ns(10-9s). Le potenze emesse sono anch’esse molto variabili e vanno da pochi Watts fino ad una decina di PW (1PW=1015W). La potenza dei sistemi laser è
andata progressivamente aumentando a partire dalla loro scoperta nel lontano
1960, grazie alle sempre nuove tecniche di amplificazione accompagnate ad una
progressiva riduzione della durata degli impulsi (Figura 6).
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Giulietti – Energia, Potenza, intensità e brillanza ...
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Isole=0.1Wcm-2
INFN - PLASMONX
NL Optics
Figura 6. Intensità massima dei sistemi laser dalla loro nascita ad oggi e corrispondente
energia di oscillazione di un elettrone sotto l'azione del campo elettrico dell'onda elettromagnetica. L'energia è espressa in eV (1eV=1.6x10 -19J).
Fra le applicazioni più importanti che i laser di grande potenza consentono ve ne
sono due che si impongono su tutte le altre: la Fusione Termonucleare Controllata
via Laser (ICF) e l’accelerazione di elettroni nei plasmi prodotti da laser. I laser
impiegati negli esperimenti collegati all’ICF (Figura 7) hanno la durata tipica del
ns, in quanto essi hanno il compito di comprimere e riscaldare il combustibile nuGiulietti – Energia, Potenza, intensità e brillanza ...
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cleare (tipicamente D-T) al fine di rendere possibile un adeguato numero di processi di fusione dei nuclei di D e T, che ha come conseguenza la creazione di nuclei di 4He, accompagnata dall'emissione di un neutrone, ed il rilascio di una cospicua quantità di energia sotto forma di energia cinetica dei prodotti di reazione:
n (14.1 MeV) ed 4He (3.5 MeV) (Figura 8).
Figura 7. Il laser ABC del Centro Ricerche ENEA di Frascati. Laser a Nd che emette,
a ≈1µm, due fasci da 100J della durata di circa 3ns.
La durata del ns è in questo caso necessaria giacché il processo idrodinamico di
compressione, sostenuto dall’irraggiamento laser, si sviluppa su tempi tipici di
centinaia di ps (1ps=10-12s).
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Figura 8. Tipico esperimento di ICF. Capsula di D-T irraggiata indirettamente dalla radiazione X prodotta inviando numerosi fasci laser su un involucro cilindrico di Oro.
Nel caso dell’accelerazione di elettroni nei plasmi i laser impiegati hanno caratteristiche completamente differenti da quelli usati per l’ICF. Per l’accelerazione laser-plasma l’energia per impulso è di soli pochi Joules, ma la durata dell'impulso
è estremamente corta, poche decine di fs (1fs=10-15s). In questo modo le potenze
impulsive liberate sono enormi, fino ad alcuni PW (Figura 9).
Figura 9. Laboratori Nazionali di Frascati Amplificatore finale del LASER del Progetto Strategico dell’INFN “PLASMONX”. Il laser Ti:Sapphire (≈1µm) libera 6J in
20fs (300TW) per impulso, con frequenza di ripetizione di10Hz.
La brevità dell’impulso e le elevatissime intensità che si raggiungono focalizzandolo sul plasma consentono di eccitare onde elettroniche di plasma di grande amGiulietti – Energia, Potenza, intensità e brillanza ...
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piezza, il cui enorme campo elettrico longitudinale permette di portare elettroni ad
energie di qualche GeV su distanze di pochi centimetri (Figura 10). Le applicazioni che queste nuove tecniche di accelerazione consentono sono innumerevoli.
Infatti le ridotte dimensioni degli apparati, paragonati a quelle gigantesche degli
acceleratori convenzionali (CERN), rendono fattibile nel campo della diagnostica
e della terapia medica l'impiego di fasci di particelle energetiche. A loro volta
queste particelle cariche di grande energia permettono di realizzare sorgenti secondarie di radiazione X-gamma, anch'esse utilizzabili per gli scopi appena menzionati ed altri ancora.
Figura 10. Un impulso laser super-intenso ed ultra-corto genera in un plasma onde elettroniche il cui enorme campo elettrico longitudinale accelera un pacchetto di elettroni
ad energie dell’ordine del GeV su distanze di pochi centimetri.
8. Conclusioni.
Il Sole rappresenta la più importante sorgente di energia di cui possiamo disporre
sulla Terra.
Tuttavia questa forma di energia è diffusa, anche se con intensità diversa, su tutta
la superficie Terrestre; la sua concentrazione ha rappresentato da sempre un obbiettivo ambizioso per l’Uomo. Archimede è stato fra i primi (212 a.c.) ad ottenere dei risultati sorprendenti, concentrando la radiazione Solare mediante specchi
di grandi dimensioni, tecnologicamente assai avanzati per i suoi tempi. Ora con
l’avvento dei LASER le concentrazioni di radiazione luminosa possono raggiungere valori sorprendentemente elevati (oltre 1022 volte la Costante Solare !!), che
consentono numerose applicazioni: dalla Fusione Termonucleare Controllata,
all’accelerazione di particelle mediante apparati dalle ridotte dimensioni, alla diagnostica e terapia medica dei tumori.
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Bibliografia.
1) D. Giulietti (2004). Shaped pre-formed plasmas for laser wake-field acceleration experiments, in “Atoms and Plasmas in Super-Intense Laser Fields”, edited
by Italian Physical Society, pp.119-139.
2) D. Giulietti and A. Macchi (2007). Laser Superintensi per tutti, Il Nuovo Saggiatore, 23, 76-84.
3) D. Giulietti and L. Labate (2009). Laser plasma acceleration and related electromagnetic sources, Progress in Ultrafast Intense Laser Science V, Springer Series in Chemical Physics , 165-185.
4) D. Giulietti (2014). The particle laser-plasma acceleration in Italy, Journal of
Physics: Conference Series 508 (2014) 012001 doi:10.1088/17426596/508/1/012001
5) A. Curcio and D. Giulietti (2015), Innovative X- ray sources based on laserproduced plasmas, NIM B, DOI:10.1016/j.nimb.2015.03.023
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Tecnologie per l’ENERGia e l’Efficienza energETICa (ENERGETIC)
Salvatore Antonino Lombardo
Istituto per la Microelettronica e Microsistemi (IMM) - Consiglio
Nazionale delle Ricerche (CNR), Z.I., VIII Strada, 5, 95121 Catania
Sommario. Il progetto dal titolo "Tecnologie per l’ENERGia e l’Efficienza
energETICa", acronimo ENERGETIC, è un progetto di Ricerca e di Formazione del Programma PON Ricerca e Competitività 2007-2013. Il Soggetto
Attuatore è il Distretto Tecnologico Sicilia Micro e Nano Sistemi. I Soci
coinvolti sono l'Istituto per le Tecnologie Avanzate, la società Engineering
– Ingegneria Informatica S.p.A., l'Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF),
la Italtel S.p.A., la STMicroelectronics S.r.l., l'Università degli Studi di
Messina, l'Università degli Studi di Palermo, il Consiglio Nazionale delle
Ricerche (CNR), con due Istituti (l'IPCF e l'IMM), e l'Università degli Studi
di Catania.
Il Progetto studia tecnologie per sistemi fotovoltaici e per l’efficienza energetica su aspetti concernenti materiali, dispositivi, e ICT. Ci si focalizza su quattro ambiti:




Fotovoltaico II e III gen.
Transistor di potenza (settore industriale, motori elettrici, automobili ibride ed elettriche, illuminazione, etc.)
Hardware: reti di sensori wireless alimentati da fotovoltaico; sistemi fotovoltaici per uso domestico
Software per l’efficienza energetica per home, building e campus
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Figura 1. Cella e Mini-Modulo Fotovoltaico di Silicio Amorfo Idrogenato su Substrato
Flessibile
Il progetto è impostato su settori strategici nel campo delle rinnovabili e dell’efficienza
energetica, con particolare attenzione alle realtà industriali presenti nel territorio e cercando di sfruttare le ottime competenze scientifiche e di ricerca delle Università e degli Istituti del CNR presenti in Sicilia. Nel settore delle rinnovabili e dell’efficienza energetica il
progetto segue l’intero percorso tecnologico che va dai materiali e dispositivi elementari,
all’hardware e al software per l’efficienza energetica, focalizzandosi su alcune enablingtechnologies e su aspetti rilevanti.
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Figura 2. Modulo MPPT per Mini-Modulo Fotovoltaico e Antenna per Nodo di Rete di
Sensori Wireless
Nell’ambito del fotovoltaico il progetto studia alcune tecnologie e materiali per realizzare celle fotovoltaiche di II e III generazione. Abbiamo studiato nuovi ossidi trasparenti
conduttivi che consentono migliore intrappolamento della luce per celle solari a film sottile. La tecnologia è stata provata con successo su celle e moduli fotovoltaici micromorfe.
Sono stati realizzati prototipi di moduli fotovoltaici a film sottile di silicio amorfo su supporto flessibile (Fig. 1), adatti a energizzare sensori wireless per il controllo ambientale.
Sono stati realizzati prototipi di celle solari di III generazione a colorante di alta performance e ideate nuove tecnologie di condizionamento elettrico per estenderne la durata. Il
fotovoltaico è una fonte rinnovabile di enorme potenzialità ma è limitata dal fatto che
l’energia è disponibile solo in presenza di illuminazione solare. Da ciò l’importanza
dell’immagazzinamento dell’energia, ad es. batterie e stoccaggio di idrogeno. In
ENERGETIC sono studiati nuovi materiali per lo stoccaggio a stato solido dell’idrogeno
con primi risultati interessanti. Riguardo ai dispositivi discreti per l’efficienza energetica,
sono stati realizzati vari prototipi di transistor di potenza con nuove architetture che consentono di migliorare il compromesso tra Ron e tensione di breakdown, permettendo di ridurre la prima e aumentare la seconda molto significativamente. Le tecnologie studiate
(Multi-Drain, OFT, e IGBT) sono basate su architetture innovative, ad esempio a canale
verticale, o con elettrodi sepolti, o fanno uso di tecniche di processing non convenzionale
quali fette di silicio ultra-sottili o laser annealing per ‘attivazione dei droganti. Un caso a
parte è quello dei diodi in SiC ad altissima tensione di breakdown. In tal caso il semiconduttore stesso utilizzato per realizzare il componente, invece del classico silicio, è un nuo105
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vo materiale, il Carburo di Silicio, politipo 4H (4H SiC), che ha il vantaggio di possedere
una gap molto grande, ideale per realizzare giunzioni con alta tensione di breakdown. Passando dai componenti elementari (celle solari, diodi e transistor), all’hardware, in
ENERGETIC si sta realizzando un prototipo di sensore wireless per il controllo ambientale, con modulo solare a film sottile, MPPT e DC-DC converter (Fig. 2), batteria a film sottile, board con i sensori, microcontroller, e tranceiver. Si stanno inoltre studiando nuovi
Inverter e sistemi di controllo per impianti fotovoltaici domestici. Infine, per quanto concerne i sistemi software, stiamo realizzando dei prototipi di software per la gestione
dell’efficienza energetica in building o campus, e per l’educazione all’uso efficiente delle
risorse energetiche. In conclusione, il progetto segue un grosso ventaglio di nuove tecnologie per il fotovoltaico e l’efficienza energetica, con buone prospettive di innovazioni di
interesse industriale. Ulteriori informazioni sono disponibili su:
http://www.distrettomicronano.it/drupal/it/content/progetto-energetic
Desidero ringraziare l'Ing. Filippo Darpa, la Prof.ssa Maria Grazia Grimaldi, l'Ing. Salvatore Frisella, l'Ing. Leoluca Liggio, la Dott.ssa Giovanna Leanza, e il Dott. Corrado
Spinella per il grande aiuto e supporto per l'organizzazione e gestione di ENERGETIC.
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Esperienze visive a colori, psicofisica e fisiologia della visione a colori - Introduzione alla colorimetria
Claudio Oleari
Dipartimento di Fisica e Scienze della Terra, Università degli
Studi di Parma
[email protected]
Riassunto. Questo articolo propone una rassegna degli standard
psicofisici e psicometrici per la colorimetria della “Commission
International de l’Éclarage” (CIE), dandone succintamente le ragioni fenomenologiche.
1. Introduzione
Il colore come sensazione è incomunicabile ed i nomi con cui li richiamiamo sono
solo parole convenute per la comunicazione. Il fisiologo Arne Valberg scrive [1]:
“… how brain activity gives rise to conscious experience remains an
enigma, as enigmatic is the process behind colour qualities, e.g., the
redness of red.”
Ciononostante è possibile costruire una corrispondenza tra sensazioni di colore e
radiazioni luminose e così costruire la colorimetria.
La colorimetria è il capitolo dell’ottica che, come dice la parola, si occupa
della misurazione del colore. La sua importanza pratica è grande ed evidente, basta pensare alla riproduzione del colore, dalla fotografia, alla stampa, alla televisione. È una disciplina antica che si è evoluta attraverso una successione di fasi
strettamente legate alla fisiologia, alla fisica e alla psicologia. Tutt’oggi non è ritenuta chiusa e probabilmente la sua chiusura coinciderà con la comprensione totale del fenomeno della visione a colori. Le varie fasi storiche della colorimetria,
caratterizzate dal tipico nome inglese, sono tre:
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1. La fase del colour matching è la fase psicofisica, iniziata con Isaac Newton
(1671) e terminata con James C. Maxwell (1860), che per primo misurò le
funzioni colorimetriche (“colour-matching functions”);
2. La fase della colour difference è la fase psicometrica, riguarda le scale di colore ed è iniziata con Hermann von Helmholtz (1891-92) ed Ervin Schrödinger (1920), che posero e discussero il problema della metrica nello spazio del
tristimolo;
3. La fase della colour appearance riguarda la percezione; in senso psicofisico
la “colour appearance” studia il colore percepito sotto l’influenza di due fattori apparentemente contraddittori:
- da una parte il fenomeno della costanza del colore, secondo il quale il colore percepito di un oggetto illuminato sembra non mutare al cambiare
dell’illuminazione;
- dall’altra parte la mutevolezza del colore percepito in relazione al campo
prossimale, al contorno, allo sfondo e al livello d’illuminazione.
Le grandezze definite nella fase del “colour matching” sono dette psicofisiche,
quelle della “colour difference” sono dette psicometriche e, infine, quelle della
“colour appearance” percepite.
La distinzione tra queste fasi può essere meglio compresa dopo avere dato pochi rudimenti sulla fisiologia dell’occhio.
La pratica colorimetrica si basa su norme e raccomandazioni della “Commission International de l’Éclarage” (CIE) [2], alle quali si riferisce quanto esposto in
questo articolo. In bibliografia [2-16] sono raccolte le pubblicazioni ritenute più
significative e tra queste si indica il “Wyszecky and Stiles, Color Science, 1982”
[3] quale riferimento primo per autorevolezza e completezza. Gli altri testi in bibliografia [17-20] riguardano classiche applicazioni della colorimetria.
In questo articolo non si considera la colorimetria attuata mediante atlanti di
colori. Questa è sotto molti aspetti alternativa e complementare alla colorimetria
qui considerata. Essa si è sviluppata sulla base di specifici sistemi di ordinamento
dei colori, che richiederebbero una trattazione a parte. Citiamo solo i nomi dei sistemi colorimetricamente più significativi: il sistema Munsell, il sistema NCS
(“Natural Colour System”), il sistema DIN (“Deutsche Institut für Normung”) e il
sistema OSA-UCS (“Optical Society of America - Uniform Color Scales”). La
concretezza dei campioni fisici offerti da tali sistemi li rende utili strumenti pratici, nonostante che i campioni di colore debbano essere osservati sotto
l’illuminazione di definite sorgenti. Esistono atlanti molto usati in ambiente industriale che non sono qui citati, e ciò è dovuto al fatto che questi non si basano su
propri e significativi sistemi di ordinamento dei colori.
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2. Fisiologia dell’occhio [4]
In colorimetria l’occhio è considerabile come una camera ottica sferica (Fig. 1).
La radiazione luminosa è fisicamente misurata fuori dall’occhio e l’intervallo
di lunghezze d’onda della luce visibile è ~ 360760 nm. La luce che entra
nell’occhio è detta stimolo di colore e questo è fisicamente rappresentato dalla radianza spettrale Le,λ [W/(sr m2 nm)].
I fotorecettori si suddividono secondo la loro forma in bastoncelli e coni e sono operativi in presenza di diversi flussi luminosi:
1) i bastoncelli sono attivi a basso flusso luminoso, tipico del crepuscolo, e la visione, detta scotopica, è acromatica;
2) i coni sono operativi ad alto flusso luminoso, tipico della luce diurna, e la visione, detta fotopica, è a colori perché i coni sono di tre tipi caratterizzati da
tre differenti fotopigmenti (Fig. 5);
3) esiste una regione intermedia, detta mesopica, in cui operano sia i bastoncelli
che i coni; questa è tipica della visiva che si ha durante la guida automobilistica notturna.
Noi siamo interessati alla visione a colori, quindi consideriamo solo i coni.
L’assorbimento della luce da parte dei coni è il primo atto del processo della visione a colori. I coni dotati di fotopigmento con maggiore assorbimento di luce alle corte lunghezza d’onda sono detti coni S, quelli con maggiore assorbimento alle
medie lunghezza d’onda coni M e quelli con maggiore assorbimento alle lunghe
coni L (Fig. 5).
Il numero di fotoni assorbiti dai tre tipi di coni nell’unità di tempo è detto attivazione dei coni. Questa è una grandezza definita sulla base sul principio
dell’univarianza di Rushton, il quale afferma che l’effetto visivo di una radiazione
dipende solo dal numero di fotoni assorbito nell’unità di tempo ed è indipendente
dalla loro energia. Ciò comporta che un fotone, una volta assorbito dal pigmento
di un cono attiva un processo nervoso il quale è indipendente dall’energia del fotone. Fotoni dotati di diversa energia hanno loro proprie probabilità di essere assorbiti e quindi producono differenti effetti visivi. Le attivazioni dei tre tipi di coni costituiscono una terna di numeri sufficiente a specificare il colore della luce,
perché in ogni definita situazione visiva la corrispondenza tra attivazioni dei coni
e sensazioni di colore è biunivoca.
La luce che entra nell’occhio attraversa mezzi con differenti indici di rifrazione e si focalizza sul fondo dell’occhio, il quale è ricoperto da una membrana sensibile alla luce, detta retina. In questo percorso la distribuzione spettrale di potenza della luce è alterata dalla lente dell’occhio (cristallino), la quale assorbe
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fortemente la luce nella regione delle corte lunghezze d’onda al di sotto di 450 nm
(Fig. 2).
Figura 1. Sezione dell’occhio e sezione ingrandita della retina
Figura 2. Densità ottica del cristallino nell’essere umano adulto giovane.
La retina è una membrana non uniforme costituita da vari strati di cellule di
diverso tipo e con ruoli specifici nel processo della visione a colori. Lo strato di
cellule più esterno è costituito dai fotorecettori (Fig. 1).
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La radiazione efficace per la visione è quella che ha attraversato tutto l’occhio,
retina compresa. In particolare la parte centrale della retina, detta macula lutea,
contiene un pigmento inerte che, assorbendo selettivamente la radiazione luminosa, ne modifica la distribuzione spettrale di potenza (Fig. 3, 4). Ciò comporta che
la luce che colpisce i fotorecettori nella regione maculare sia spettralmente modificata rispetto alla regione extramaculare.
Figura 3. Fondo dell’occhio umano visto attraverso la pupilla con evidenziata la zona della
macula lutea.
Figura 4. Densità ottica del pigmento della macula lutea m(λ).
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Figura 5. Densità ottiche relative dei fotopigmenti dei tre tipi di coni S(),M(λ) e L(λ).
Figura 6. Soglia di discriminazione λ tra radiazioni monocromatiche equiluminose.
Tale differenza porta a definire due diversi sistemi colorimetrici, uno per la regione maculare e l’altro per la regione periferica. Il campo visivo relativo alla visione
maculare ha per convenzione un angolo solido la cui sezione è inferiore a 4°,
mentre la visione periferica riguarda un angolo solido con sezione di 10°.
I segnali generati localmente dai coni vengono confrontati ed elaborati dalle
cellule degli strati prossimi della retina. Il risultato di questo confronto è condizionato dagli analoghi segnali generati nella retina in corrispondenza del campo
prossimale e del contorno. Il risultato è che la sensazione di colore in ogni punto
dipende dalla situazione visiva globale. Tale elaborazione, che costituisce il secondo atto nel fenomeno della visione a colori, non è ancora pienamente conosciuta.
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Il terzo atto avviene nel cervello ed è meno conosciuto.
Questo sistema di tre fotorecettori è molto efficiente e consente una discriminazione tra radiazioni luminose monocromatiche con differenza in lunghezza
d’onda compresa tra 1 e 3 nm in un’ampia parte dell’intervallo visibile (Fig. 6).
Ciò impone che la strumentazione colorimetrica sia tarata con una incertezza non
superiore a 1 nm.
Tavola 1. Fasi storiche della colorimetria, stadi della visione, campi visivi e sistemi
standard CIE.
Fasi storiche / zone / sistemi
c
a
m
p
o
v
i
s
i
v
o
visione
foveale
(campo visivo <4°)
visione extra-foveale
(campo visivo 10°)
1a fase storica
“colour matching”
2a fase storica
“colour difference”
1a stadio della visione:
trasduzione
sistema psicofisico
Osservatore Standard
CIE 1931
(X, Y, Z)
Osservatore di Vos
Osservatore Fondamentale CIE 2°
2o stadio della visione:
adattamento
Osservatore Standard Supplementare
CIE 1964
(X10, Y10, Z10)
Osservatore Fondamentale CIE 10°
sistema psicometrico
sistema CIELUV
(L*, u*, v*)
sistema CIELAB
(L*, a*, b*)
sistema CIELUV
(L*10, u*10, v*10)
sistema CIELAB
(L*10, a*10, b*10)
3a fase storica
“colour appearance”
3o stadio della
visione
...
CIECAM97
CIECAM02
Retinex
...
La descrizione fin qui data della retina è sufficiente a definire i vari sistemi colorimetrici in funzione della regione della retina e in funzione dello stadio del
processo visivo (Tavola 1). Gli standard colorimetrici presentati in tabella 1 sono
della CIE ad esclusione dell’osservatore di Vos e del sistema Retinex.
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3. Colorimetria psicofisica
Si inizia considerando la visione nella regione maculare a cui è associato
l’Osservatore Standard CIE 1931.
Le attivazioni dei coni sono specificate da una terna di numeri che soddisfano
alle regole dell’addizione (leggi di Grassmann) e sono ben rappresentate da punti
in uno spazio vettoriale lineare tridimensionale, noto come spazio del tristimolo.
In questo caso il sistema di riferimento è detto fondamentale. Sono possibili molti
sistemi di riferimento e tra questi consideriamo
il sistema di riferimento fondamentale LMS,
il sistema di riferimento strumentale RGB,
il sistema di riferimento XYZ del sistema colorimetrico standard CIE 1931.
Per ragioni didattiche introduciamo prima il sistema di riferimento fondamentale e poi, partendo da questo, definiremo l’RGB e infine il riferimento più usato,
l’XYZ.
-
3.1 Spazio del tristimolo e sistema di riferimento fondamentale
Le attivazioni dei coni prodotte da uno stimolo di colore di radianza spettrale Le,
sono proporzionali a tre numeri (L, M, S), rispettivamente per i coni L, M ed S,
detti valori del tristimolo, e così definibili
780
L
L
e,
380
780
l () d, M 
L
e,
380
780
m() d,
S
L
e,
s ( ) d 
380
dove le funzioni l ( ) , m ( ) e s ( ) (Fig. 7), dette funzioni colorimetriche (in
inglese “colour-matching functions”), sono rispettivamente le sensibilità spettrali
dei coni L, M e S, e tengono conto anche dell’assorbimento di luce nel cristallino
e nella macula lutea. Le funzioni colorimetriche sono normalizzate in modo che S
= M = L = 1 per lo stimolo equienergetico Le, = 1. Ciò comporta che le
l ( ), m ( ), s ( ) rappresentano le componenti del vettore tristimolo associato
alle radianze unitarie e monocromatiche di lunghezza d’onda λ (Fig. 8). Le proprietà matematiche dello spazio del tristimolo furono definite per la prima volta
dalle leggi di Grassmann (1853), ma l’idea originale fu di Newton (1704) ed è nota come regola del centro di gravità.
L’addizione dei colori, intesa come addizione di luci e di sensazioni, è rappresentata nello spazio del tristimolo dall’addizione dei corrispondenti vettori.
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Figura 7. Funzioni colorimetriche nel sistema di riferimento fondamentale per visione foveale
l ( ), m ( ), s ( ) .
Figura 8. Visione prospettica dello spazio del tristimolo nel sistema di riferimento fondamentale con gli stimoli monocromatici di radianza unitaria, il piano del diagramma di cromaticità,
la linea spettrale, e gli assi dei sistemi di riferimento RGB e XYZ.
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Figura 9. Diagramma di cromaticità nel sistema di riferimento fondamentale. Le aree dei
triangoli SMQ, LSQ e MLQ sono proporzionali alle corrispondenti coordinate baricentriche (l,
m, s).
La definizione dei vettori (L, M, S) comporta che la corrispondenza tra stimoli
di colore e vettori tristimolo è univoca, cioè molti ad uno, infatti esistono radianze
differenti a cui corrispondono uguali attivazioni (L, M, S) e che, quindi, producono uguali sensazioni di colore. Questo fenomeno è detto metamerismo e gli stimoli di colore che producono uguali sensazioni di colore sono detti stimoli metamerici o metameri.
La lunghezza dei vettori è relativa all’entità dello stimolo di colore e la direzione è relativa alla sensazione cromatica. Poiché le direzioni dei vettori sono in
corrispondenza biunivoca con i punti intersezione tra le linee su cui giacciono i
vettori e un piano, si suole classificare le sensazioni cromatiche mediante questi
punti. Questi punti rappresentano la cromaticità e costituiscono una figura detta
diagramma di cromaticità (Fig. 8 e 9), il cui ruolo pratico è molto importante. Nel
diagramma di cromaticità le luci monocromatiche sono rappresentate da punti che
costituiscono il luogo spettrale, il segmento che unisce le regioni estreme delle
corte e delle lunghe lunghezze d’onda riguarda le tinte porpora e la regione centrale del diagramma riguarda i colori acromatici. Sul diagramma di cromaticità gli
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stimoli di colore sono rappresentati da coordinate baricentriche o areolari (l, m,
s)
L
M
S
, m
, s
, l  m  s 1 .
LM S
LM S
LM S
Le proprietà di queste coordinate sono molto utili nel trattare l’addizione di
stimoli di colore (sintesi additiva). Ogni luce ottenuta dalla somma di altre due
luci ha la cromaticità che si trova sul segmento che unisce le cromaticità di queste. È su questa proprietà che si basano le definizioni dei colori complementari,
della lunghezza d’onda dominante e della purezza:
1) complementari sono le coppie di colori che, se miscelati in rapporto opportuno
desumibile dal diagramma di cromaticità, producono un colore acromatico;
2) data una luce metamericamente uguale alla somma di una luce monocromatica
e una bianca, si definisce sua lunghezza d’onda dominante la lunghezza
d’onda della radiazione monocromatica;
3) data una luce metamericamente uguale alla somma di una luce monocromatica
e una bianca, la sua purezza d’eccitazione (definita nell’intervallo 0 ÷ 1) è definita dal rapporto tra la distanza tra la sua cromaticità e la cromaticità della
luce bianca e la distanza tra la cromaticità della luce monocromatica e della
bianca (poiché la purezza d’eccitazione dipende dal diagramma di cromaticità
scelto, si preferisce usare la purezza colorimetrica definita dal rapporto tra le
luminanze della luce monocromatica e la luminanza della luce stessa).
l
3.2 Spazio del tristimolo e sistema di riferimento strumentale RGB
Il riferimento RGB assume importanza pratica nell’utilizzo di apparati tricromatici (televisione, telecamere, fotocamere digitali, …), ma ha avuto il suo primo ruolo nella misurazione delle funzioni colorimetriche, le quali furono misurate indirettamente tramite l’uguagliamento metamerico dei colori. Due sono le tecniche
usate: 1) la tecnica nota come “maximum saturation technique” e 2) la tecnica
della minima saturazione di Maxwell. Qui ci limitiamo a considerare solo la prima tecnica a cui si riferiscono gli standard CIE. Questa tecnica richiede la scelta
di tre luci monocromatiche come luci di riferimento, generalmente una rossa, una
verde e una blu, alle quali corrispondono tre vettori che definiscono il sistema di
riferimento. Sono le tinte di tali luci di riferimento, “Red”, “Green” e “Blue”, a
generare l’acronimo RGB. Nell’uguagliamento metamerico dei colori due miscele
di luci sono proposte all’osservatore in un campo bipartito (Fig. 10 e 11). Le luci
che entrano in queste due miscele sono le luci di riferimento e una luce monocromatica di radianza unitaria Le(λ e lunghezza d’onda L’osservatore può modificare le radianze LR, LG e LB delle tre luci di riferimento fino a che si raggiunge
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l’uguagliamento delle due miscele di luci. Il caso di Fig. 11 considera la lunghezza d’onda λ della luce monocromatica compresa tra le lunghezze d’onda della luce verde e della luce blu, supponendo monocromatiche anche le luci di riferimento. Nel riferimento RGB le funzioni colorimetriche alla lunghezza d’onda λ sono
proporzionali alle radianze delle luci di riferimento r ( )  k R LR , g ( )  kG LG
e b ( )  k B LB , in cui le costanti di proporzionalità sono costanti di normalizzazione definite in modo che allo stimolo equienergetico corrispondano valori del
tristimolo uguali. In questo riferimento i valori del tristimolo sono definiti dagli
integrali
780
R

780

Le, r () d, G 
380
780
Le, g () d,
B
380
L
e, 
b ( ) d 
380
e le coordinate di cromaticità da
R
G
B
r
,g
,b
, r  g  b  1.
RG B
RG B
RG B
Una trasformazione lineare attua il passaggio tra i valori del tristimolo (L, M,
S) e (R, G, B) come pure tra le funzioni colorimetriche l ( ), m ( ), s ( )  e
r ( ), g ( ), b ( ). Questa trasformazione lineare viene costruita conoscendo nel
riferimento RGB gli assi L, M e S, i quali sono desunti da uguagliamenti metamerici di luci fatte dai dicromati, individui dotati di due soli tipi di coni.
Il riferimento RGB qui considerato è relativo all’osservatore standard CIE
1931. Ogni dispositivo o sistema tricromatico (monitor, scanner, videocamera, …,
sistema televisivo NTSC, PAL, HDTV,…, sRGB, Adobe RGB, Adobe wide gamut, …) ha un suo proprio riferimento RGB e si passa dall’un riferimento all’altro
mediante trasformazione lineare. Confondere riferimenti RGB diversi è errore. Si
osserva anche che esistono sistemi RGB in cui le terne (R, G, B) subiscono elevazioni a potenza, come per esempio nel sistema sRGB, usato in WEB e nel sistema
operativo Windows, distruggendo la linearità dello spazio.
3.3 Spazio del tristimolo e sistema di riferimento XYZ nel sistema CIE 1931
Il sistema colorimetrico CIE 1931 ingloba la fotometria nella colorimetria e ciò è
evidenziato dal riferimento XYZ. La fotometria mette in relazione la brillanza delle luci alla loro radianza Le,λ, mediante la seguente definizione di luminanza
780
Lv  K m
L
e, 
V ( ) d 
cd/m2
380
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con
- V(λ) = funzione di efficienza luminosa fotopica relativa, che definisce
l’Osservatore Fotometrico Standard CIE 1924 (Fig. 12),
- Km = 683 lumen / watt.
Questa equazione che definisce la luminanza è simile alle equazioni che definiscono i valori del tristimolo (L, M, S). Basta sostituire le funzioni colorimetriche
l ( ), m ( ), s ( )  con la V(λ) e ciò porterebbe a ipotizzare un fotorecettore specifico, tipico della luminanza. La fisiologia indusse ad ipotizzare la luminanza come
prodotta dagli stessi coni L, M e S, rappresentandola con una combinazione lineare dei valori del tristimolo
Lv  LL L  LM M  LS S  LR R  LG G  LB B .
Tale ipotesi comporta che la luminanza dello stimolo di colore risultante dalla
somma di più stimoli di colore è uguale alla somma delle corrispondenti luminanze (legge di Abney). Questa scelta indusse a definire il sistema di riferimento XYZ
con le seguenti proprietà:
- la componente Y del vettore tristimolo è proporzionale alla luminanza Lv (fatto importante nella pratica illuminotecnica), cioè
Lv = Km Y cd/m2
e di conseguenza
y ( )  V ( ) ,
dove x ( ), y ( ), z ( )  sono le funzioni colorimetriche nel sistema di riferimento XYZ (Fig. 13),
- gli assi X, Y e Z sono mutuamente ortogonali,
- gli assi X e Z appartengono al piano a luminanza nulla Y = 0,
- i vettori tristimolo con significato fisico hanno tutte le componenti positive,
- i piani X = 0 e Z = 0 sono rispettivamente tangenti al luogo spettrale nelle regioni delle lunghezze d’onda medio-corte e lunghe.
I valori del tristimolo sono
-
780
-
780
780
L
X   Le, x ()d, Y   Le, y ()d  v , Z   Le, z ()d
Km
380
380
380
e le coordinate di cromaticità sono
x
X
Y
Z
, y
, z
, x  y  z  1.
X Y  Z
X Y  Z
X Y  Z
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Questo è il sistema di riferimento XYZ dell’Osservatore Colorimetrico Standard
CIE 1931.
L’usuale diagramma di cromaticità (x, y) CIE 1931 (Fig. 14) è ottenuto proiettando dall’infinito sul piano Z = 0 il diagramma costruito sul piano
X  Y  Z  1 . Grazie a questa proiezione le coordinate di cromaticità (x, y) risultano ortogonali e relativamente al triangolo XYZ sono coordinate baricentriche.
Una trasformazione lineare attua il passaggio tra i valori del tristimolo (R, G,
B) e (X, Y, Z), e tra le funzioni colorimetriche r ( ), g ( ), b ( )  e
x ( ), y ( ), z ( )  .
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Figura 10. Esempio di apparato per l’uguagliamento metamerico dei colori. Esso consiste in
un contenitore cubico con un foro attraverso cui guardare dentro. All’osservatore si presenta
un campo bipartito come proposto in Fig.11. Il contenitore è diviso in due parti in modo che le
luci presenti in una parte non entrino nell’altra. Il fondo osservato del contenitore deve essere
un buon diffusore non selettivo in lunghezza d’onda in modo che, illuminato nelle due parti
con radiazioni diverse, proponga all’osservatore due colori da uguagliare. Compito
dell’osservatore è modificare le emissioni delle quattro sorgenti in modo da attuare
l’uguagliamento metamerico dei colori.
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Figura 11. Campo bipartito per l’uguagliamento metamerico dei colori come proposto
dall’apparato di Fig. 10. Nel caso particolare considerato, la somma (LG + LB) delle luci di
riferimento blu e verde uguaglia la somma (Le,(λ)+ LR) di una luce monocromatica di lunghezza d’onda λ con la luce di riferimento rossa.
Figura 12. Funzione di efficienza luminosa fotopica relativa dell’Osservatore Fotometrico
Standard CIE 1924 V(λ).
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3.4 Spazio del tristimolo in fisiologia
Per completezza si fa cenno che in fisiologia si suole considerare per la visione
foveale
a) uno spazio definito su funzioni colorimetriche derivate da Vos correggendo
un errore sistematico presente nelle CIE 1931 ed evidenziato da Judd (Fig.
15);
b) un diagramma di cromaticità, detto diagramma di cromaticità equiluminoso
delle eccitazioni dei coni, definito sul piano a luminanza costante L + M = 1 (i
coni S non contribuiscono alla luminanza) e con coordinate di cromaticità
l
L
M
S
, m
, s
, con l  m  1
LM
LM
LM
(coordinate di cromaticità che non vanno confuse con le omonime definite nel
precedente riferimento fondamentale). Questo diagramma è dovuto a MacLeod e
Boynton (Fig. 16).
Figura 13. Funzioni colorimetriche CIE 1931  x ( ), y ( ), z ( )  (linea nera) e CIE 1964
x10 ( ), y10 ( ), z10 ( )  (linea rossa).
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Figura 14. Diagramma di cromaticità CIE 1931 (x, y). Le aree dei triangoli YZQ, ZXQ e XYQ
sono proporzionali alle corrispondenti coordinate baricentriche x, y, z = 1 ‒ x ‒ y.
Figura 15. – Funzioni colorimetriche di Vos x ' ( ), y ' ( ), z ' ( )  (linea rossa) a confronto
con le CIE 1931  x ( ), y ( ), z ( )  (linea nera). Si osserva che lo scarto tra le due terne di
funzioni colorimetriche è nella regione delle corte lunghezze d’onda.
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3.5 Osservatore Standard Supplementare CIE 1964
Per la visione esterna alla macula (campo visivo di 10°) vale una trattazione
analoga a quella relativa al sistema CIE 1931 e ciò porta all’Osservatore Standard
Supplementare CIE 1964. In questo caso le varie grandezze sono distinte dal pedice “10”, che si riferisce alla sezione del campo visivo di 10°, cioè i valori del
tristimolo sono (X10, Y10, Z10) e le funzioni colorimetriche sono
x10 ( ), y10 ( ), z10 ( )  . Il confronto tra le funzioni colorimetriche dei due osservatori CIE è proposto in Fig. 13 e tra i diagrammi di cromaticità in Fig. 17. Lo
spostamento delle cromaticità delle radiazioni monocromatiche è evidente, anche
se i due diagrammi appaiono quasi uguali. L’osservatore standard supplementare
CIE 1964 è oggi il più usato in ambito industriale.
3.6 Specificazione strumentale del colore di oggetti non auto-luminosi
Qui si considerano oggetti opachi e una trattazione analoga vale per corpi trasparenti e traslucidi. In colorimetria il colore di oggetti non auto-luminosi è specificato in modo relativo a un riferimento, che, per convenzione, è costituito dal
perfetto diffusore riflettente. Il perfetto diffusore riflettente è un corpo ideale che
non assorbe e non trasmette e dal quale emerge una radianza riflessa uguale in tutte le direzioni, indipendente dalla geometria d’irradiamento. Tale comportamento
del perfetto diffusore è detto lambertiano.
L’apparenza di un oggetto e quindi anche il colore dell’oggetto dipendono
dall’illuminazione, sia come geometria e sia come distribuzione spettrale, e dal
punto di osservazione. Per la specificazione del colore di un corpo non autoluminoso, occorre scegliere un illuminante e definire le geometrie d’illuminazione e di
visione. La geometria opera nella misurazione del fattore di riflessione spettrale
R(). Occorre anche scegliere tra visione foveale e visione extra foveale.
Per ragioni pratiche gli illuminanti sono standardizzati e considerati dalla CIE,
che ne definisce le distribuzioni spettrali di potenza. Gli illuminanti standard più
importanti sono:
l’illuminante A, associato alla lampadina con filamento di tungsteno avente
un potere emissivo spettrale uguale a quello del corpo nero con temperatura
di  2856 K;
gli illuminanti del tipo “daylight” associati a teoriche luci del giorno indicate
rispettivamente con D50, D55, D65, D75 … in corrispondenza a temperature
di colore di 5000 K, 5500 K, 6500 K, 7500 K … ;
le lampade fluorescenti F2 del tipo “coolwhite”, F7 del tipo “daylight fluorescent” e F11 del tipo “white fluorescent”.
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Figura 16. Visione prospettica dello spazio del tristimolo nel riferimento LMS di MacLeodBoynton con piano equiluminante L + M = 1, diagramma di cromaticità equiluminoso delle eccitazioni dei coni e asse Y.
Il fattore di riflessione spettrale è definito come rapporto tra i flussi di luce
monocromatica riflessa in un punto del campione di colore e in un punto del perfetto diffusore riflettente illuminati in modo uguale e secondo la stessa geometria.
Le geometrie più usate per la misurazione del fattore di riflessione standardizzate dalla CIE sono:
1) geometria “45/8”, in cui il campione è illuminato da un fascio di luce parallela
con angolo di incidenza di 45° e allo spettrometro è inviata la luce che emerge
con un angolo di 8° rispetto alla superficie del campione;
2) geometria “de/8”, in cui il campione è illuminato in modo diffuso (mediante
sfera d’integrazione) con componente speculare esclusa e allo spettrometro è
inviata la luce che emerge dal campione con un angolo di 8° rispetto alla normale;
3) geometria “di/8”, in cui il campione è illuminato in modo diffuso (mediante
sfera d’integrazione) con componente speculare inclusa e allo spettrometro è
inviata la luce che emerge dal campione con un angolo di 8° rispetto alla normale.
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Figura 17. Diagrammi di cromaticità CIE 1931 (linea nera) e CIE 1964 (linea rossa). Lo spostamento delle cromaticità degli stimoli monocromatici è notevole, pur essendo i due diagrammi quasi uguali in forma.
Una volta scelto un osservatore standard, per esempio l’osservatore CIE 1931,
scelto un illuminante con distribuzione spettrale di potenza S e scelta una geometria per la misurazione del fattore di riflessione R(), il colore risulta specificato
da
780
X K

780
S R () x ()d, Y  K
380
con K 

780
S  R () y ()d, Z  K
380
100
 S R() z ()d

380
.
780
S

y ( ) d 
380
La costante di normalizzazione K rende la specificazione del colore relativa e
indipendente dal livello di illuminazione e ciò induce a considerare il colore misurato come proprietà degli oggetti. La componente Y, detta fattore di luminanza
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percentuale, è rappresentata su scala percentuale e vale 100 per il diffusore riflettente ideale. La terna (X, Y, Z) qui definita non va confusa con la omonima terna
definita in precedenza.
Il fattore di riflessione spettrale è una grandezza fisica dipendente dalla temperatura e di conseguenza anche il colore dipende dalla temperatura. Il fenomeno è
detto termocromismo.
Da quanto detto segue che ogni specificazione di colore di oggetti non autoluminosi è relativa alla scelta dell’osservatore standard, alla scelta
dell’illuminante, alla scelta della geometria di misurazione e alla temperatura in
cui si è operato.
4.
Colorimetria psicometrica
Nella seconda zona del sistema visivo si ha che il segnale nervoso, generato
dall’attivazione dei coni, viene elaborato, compresso e codificato. Ciò porta a definire una nuova terna di segnali: il primo è acromatico e riguarda la sensazione
luminosa, gli altri due riguardano la sensazione cromatica. In tale processo la linearità che caratterizzava l’attivazione dei coni è persa. Pertanto nello spazio del
tristimolo le variazioni dei vettori tristimolo, corrispondenti a differenze appena
distinguibili di cromaticità e di chiarezza, non sono uguali per tutti i vettori, cioè
lo spazio del tristimolo ha scale non uniformi di cromaticità e di chiarezza. Tali
differenze sono indicate con jnd, dall’inglese “just noticeable difference”.
4.1 Sensazione luminosa
Per definire le scale della sensazione luminosa si attua un esperimento in visione
maculare con campo bipartito. L’esperimento inizia proponendo nelle due parti
del campo bipartito la stessa radiazione a uguale luminanza Lv. Si procede variando l’entità della luminanza Lv + Lv di un semicampo fino a che i due semicampi
risultano distinti e così si valuta il Lv relativo alla soglia di discriminazione.
L’incremento di luminanza corrispondente a tale soglia soddisfa con buona approssimazione all’equazione
Lv
 0.01
Lv
nota come legge di Weber-Fechner. Questa equazione porta a definire una nuova
grandezza rappresentativa della sensazione luminosa
 L 
1
3
2
S  kS log  v  con Lv,0  2  10 cd/m e kS 
L 
0.01
 v,0 
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tale che S = kS Lv / Lv = 1. La proprietà principale di questa legge è di definire
la sensazione luminosa S dotata di scala uniforme.
Altri esperimenti indussero gli scienziati a preferire al logaritmo della luminanza la radice cubica della luminanza come grandezza rappresentativa della sensazione luminosa dotata di scala uniforme (legge di Stevens). Lo scarto tra la funzione logaritmica e la radice cubica nell’intervallo delle luminanze usate in
colorimetria è poco significativa.
4.2 Chiarezza psicometrica CIE 1976 L*
La chiarezza di un colore (X, Y, Z) è definita come la sua brillanza giudicata in relazione alla brillanza del diffusore ideale, che, illuminato in modo uguale e sotto
lo stesso illuminante, appare bianco e di colore (Xn, Yn = 100, Zn). Sulla base di
questa definizione e della legge di Stevens, nel 1976 la CIE propose la seguente
definizione di chiarezza psicometrica
1/ 3

Y 
116    16

 Yn 
L*  
Y 

 903.3  Y 
 n

per
per
Y 
   0.008856
 Yn 
,
Y 
   0.008856
 Yn 
grandezza adimensionale e con intervallo di definizione 0  100. Questa definizione vale per l’osservatore CIE 1931 e per l’osservatore CIE 1964 (distinto dal
pedice “10”) ed è specifica dell’illuminante considerato.
4.3 Sistema colorimetrico CIELAB
Nel 1976 la CIE propose due differenti sistemi colorimetrici, il CIELAB e il
CIELUV, con lo scopo principale di avere spazi del colore a scale uniformi. Qui
si considera il solo sistema CIELAB perché è diffusamente più usato per oggetti
non autoluminosi (ed oggi anche autoluminosi). Questo sistema è scandito dalle
coordinate (L*, a*, b*) o dalle (L10*, a10*, b10*) a seconda che sia relativo
all’osservatore CIE 1931 o CIE 1964. Le motivazioni e gli scopi che sono alla base di questo sistema sono ambiziosi e non completamente soddisfatti, e il successo
di questo sistema è dovuto al fatto che fino ad oggi non si sono proposti sistemi
migliori.
Qui si considera l’osservatore CIE 1931, ma quanto segue è ripetibile per il
CIE 1964. Una volta scelto un illuminante e considerato il colore del diffusore ideale (Xn, Yn = 100, Zn), al quale si associa per convenzione un fattore di luminan-
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za Yn = 100, gli stimoli di colore (X, Y, Z) sono rappresentati nel sistema CIELAB
dalle coordinate adimensionali (L*, a*, b*), dove L* è la chiarezza CIE 1976 e

  X 
 Y 
a*  500  f 
  f  
 Yn  

  Xn 

 Y 
 Z 

 b*  200  f  Y   f  Z  
 n 
  n

,
dove
  X   X 1/ 3
 f


  Xn   Xn 

 X 
 X  16

 f  X   7.7867  X   116
 n
 n

per
per
 X 

  0.008856
 Xn 
 X 

  0.008856
 Xn 
e ugualmente per f Y / Yn  e f  Z / Zn  . Le coordinate a* e b* rappresentano
approssimativamente i colori opponentisi dell’ipotesi di Hering: in particolare a*
rappresenta l’opponenza rosso-verde e b* l’opponenza giallo-blu.
Spesso si usano coordinate cilindriche (L*, hab, C*ab), in cui

 b*
hab  arctan  angolo di tinta misuratoin gradi .
 a *

C *  a *2 b *2
croma
 ab
Questo spazio è ottenuto dallo spazio del tristimolo mediante una trasformazione non lineare e pertanto non è più uno spazio vettoriale. Ciononostante lo spazio è metrico perché in esso è definita la distanza tra due colori (L*1, a*1, b*1) e
(L*2, a*2, b*2) quale distanza euclidea con lo scopo di rappresentare la differenza
di colore
E *ab 
L *1  L *2 2  a *1 a *2 2  b *1 b *2 2 
Nella pratica industriale questa formula per la differenza di colore non è completamente soddisfacente, pertanto negli anni sono state fatte molte proposte di
miglioramento, in particolare la formula CMC, la formula CIE94 e la recentissima
CIEDE2000.
4.4 Formula per la differenza di colore CIEDE2000 [21-22]
130
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Il grande valore pratico del calcolo delle differenze di colore ci induce a riportare
la più recente formula per piccole differenze di colore pubblicata dalla CIE col
nome CIEDE2000 e col simbolo E00. La formula è definita sulle coordinate
*
del sistema
L' , a' , b' , C ' , h' in funzione delle note coordinate L*, a*, b*, Cab
CIELAB
L'  L *
7

Cab*

a'  (1  G) a * con G  0.5 1 
7

Cab*  257

b'  b *




C'  a'2 b'2
 b' 
h'  tan 1  
 a' 
*
*
in cui Cab
è la media aritmetica dei valori Cab
relativi alla coppia di campioni di
colore in esame. La formula è
2
 L'   C '
  
E00  
 k L S L   kC S C
2
  H '
  
  kH SH
2
 C '

  RT 

 kC S C
  H '
 
  kH SH



in cui
SL  1 
0.015 ( L '50) 2
20  ( L '50) 2
, SC  1  0.045C ' , S H  1 0.015 C ' T
T  1  0.17 cos(h '30 )  0.24 cos(2 h ' )  0.32 cos(3 h '6)  0.20 cos(4h '63 )
RT   sen(2 ) RC
RC  2
con


  30 exp  h '275/ 25
2
e con
C '7
C '7 257
 L '  L 'b  L ' s ,
C '  C 'b C 's ,
 h' 
H '  2 C 'b C 's sen

 2 
con
h'  h'b h's
dove
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-
il pedice s distingue lo standard dal campione b (batch),
le grandezze L ' , C ' , h ' sono le medie aritmetiche delle corrispondenti L', C',
h' valutate per campione e standard,
k L , k C , k H sono fattori parametrici da scegliere in relazione alla tessitura e alle condizioni di visione dei campioni in esame (una scelta generalmente valida è k L  kC  k H  1 ).
Occorre particolare attenzione nel calcolare h ' nel caso in cui si considerino
colori con angolo di tinta appartenenti a differenti quadranti, per es. se lo standard
e il campione hanno rispettivamente angoli di tinta di 90° e 300°, il valore medio
195° è diverso dal valore corretto che è 15°. Per evitare l’errore occorre valutare
la differenza assoluta tra i due angoli di tinta. Se tale differenza è inferiore di 180°
si considera la media aritmetica degli angoli di tinta, altrimenti si deve sottrarre
360° all’angolo di tinta maggiore e quindi fare la media aritmetica.
La complessità di questa formula dimostra quanto il sistema CIELAB sia inadeguato alla specificazione del colore e quanto si debba ancora fare per capire
compiutamente il fenomeno della visione a colori.
5. Colorimetria e colore interferenziale
In generale il colore è dovuto a disomogeneità ottiche dei corpi, le quali comportano assorbimento, diffusione e rifrazione della luce. Come sopra detto, la specificazione del colore di oggetti non autoluminosi dipende dal fattore di riflessione o
trasmissione spettrale, la cui misurazione è standardizzata dalla CIE secondo particolari geometrie, significative soprattutto per i colori poco dipendenti dalle geometrie di illuminazione e di visione.
Il colore prodotto per interferenza è detto colore interferenziale (che appartiene al più ampio colore strutturale) ed è tipico dei rivestimenti ottici, delle vernici
con pigmenti metallici e micacei e in natura lo troviamo per esempio sulle ali delle farfalle, negli insetti, nelle piume d’uccello, nelle bolle di sapone. Questo tipo
di colore è fortemente dipendente dalle geometrie di illuminazione e di visione,
pertanto le geometrie di misurazione della CIE risultano inadeguate e le misurazioni gonio-radiometriche del fattore di riflessione o trasmissione sono più significative per una valutazione realistica del colore. La specificazione del colore risultante, espressa nei sistemi XYZ o CIELAB, deve essere data unitamente alla
geometria di misurazione e alla temperatura. Inoltre, poiché i colori interferenziali
sono generalmente visti nella regione maculare della retina, l’osservatore da preferirsi è il CIE 1931.
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Figura 18. Questa figura propone due sequenze uguali di strisce acromatiche aventi chiarezza
crescenti dal nero al bianco. Nella sequenza di destra le varie strisce contigue sono a contatto
mentre nella sequenza di sinistra sono separate da una linea acromatica di chiarezza media. La
contiguità tra le strisce della sequenza di destra comporta che ogni striscia appaia non uniforme, più chiara dalla parte della striscia meno luminosa e più scura dalla parte della striscia più
chiara. Il fatto che le strisce di sinistra siano isolate dal contesto con una linea acromatica uniforme comporta che queste appaiano uniformi quali esse sono. Inoltre, poiché la linea di separazione ha chiarezza uguale in tutti i suoi punti, le strisce al di sotto di tale chiarezza appaiono
più scure e quelle al di sopra appaiono più chiare. Quest’ultimo fenomeno è noto col nome inglese “crispening”. Questi fenomeni sono dovuti al contrasto di brillanza.
6. “Colour Appearance”
Quanto è stato fin qui detto vale in situazioni visive controllate, in cui il campione
di colore, che è uniforme, si trova isolato e separato dal contesto e la regione di
separazione è acromatica. La “colour appearance” vuole specificare il colore di
uno stimolo di colore posto in un contesto vario in luminanza e in cromaticità
[23]. Il problema è arduo per complessità. Ciononostante numerosi modelli sono
stati proposti. Qui non si entra nella presentazione di questi modelli e ci si limita a
proporre visivamente i fenomeni più appariscenti della percezione, comunemente
noti come contrasto di brillanza e contrasto cromatico simultaneo.
Le figure 18, 19, 20 e 21 propongono in diversi contesti campioni di colore
dotati di radianze spettrali uniformi e uguali, a cui corrispondono uguali stimoli di
colore, ma che a causa del diverso contesto inducono sensazioni cromatiche e
sensazioni luminose differenti. Questi fenomeni sono esposti nelle didascalie del-
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Figura 19. Figure uniformi di diversa radianza (la stessa per ogni tipo di figure) proposte su
fondo degradante dal colore rosso-arancio al verde. Tale sfondo realizza con le figure un contrasto simultaneo di brillanza e cromatico che induce in queste alterazioni di chiarezza e cromatiche.
Figura 20. Insieme dei campioni di colore riproducibili con un monitor a tubo a raggi catodici
relativi a una coppia di tinte opposte del sistema CIELAB per l’osservatore CIE 1931 e
l’illuminante standard D65 (“daylight”, temperatura di colore 6500 K). Le tinte considerate sono hab=140° (parte destra di tinta verde) e hab=320° (parte sinistra di tinta magenta), separate
dalla scala di campioni acromatici. La chiarezza cresce dal basso verso l’alto assumendo valori
multipli di 10 e la croma cresce a partire dalla colonna acromatica con passo 10. In questa figura i vari campioni sono separati da una linea acromatica e appaiono uniformi. Confronta con la
figura 21.
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Figura 21. Confronta con la figura 20. In questa figura i campioni già proposti in Fig. 20 sono
a contatto e, in accordo col contrasto di brillanza della Fig. 18, appaiono più chiari in basso e
più scuri in alto, nonostante che siano uniformi. Questo fenomeno è dovuto al contrasto di brillanza. Inoltre i campioni appaiono contenere a desta un poco della tinta dei campioni di sinistra
e a sinistra un poco della tinta dei campioni di destra. Ciò vale per tutti i campioni esclusi quelli
ai bordi. Questo fenomeno è prodotto dal contrasto cromatico simultaneo ed è una induzione
dovuta ai colori circostanti a ogni campione.
le figure stesse. Secondo la “colour apperance” sensazioni di colore uguali, anche
se dovute a stimoli di colore diversi proposti in opportuni contesti, devono essere
specificate dalla stessa terna di numeri.
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Il Sole che cambia
Fabio Reale
Dipartimento di Fisica e Chimica, Universita` di Palermo
E-mail: [email protected]
Abstract. For its long life, the Sun has slightly changed, its size
has slightly increased. However, on the Earth the average climate
conditions do not seem to have changed accordingly: how can we
explain this? Its an open issue and here they are illustrated a few
hypotheses, such as a higher greenhouse effect and/or a higher
solar activity in the past. Planet Venus might be similar to the
young Earth, and a present-day study has measured the height of
its ionosphere, by using the transit of 2012. Solar eruptions are
typical manifestations of the solar activity and a recent study has
highlighted analogies with the flows accreting to the young stars
from the disks leftover of the original cloud.
Sommario. Il Sole, nella sua lunga vita, ha subito piccoli cambiamenti, e` leggermente cresciuto di dimensioni. Tuttavia, sulla
Terra le condizioni climatiche medie sembrano essere cambiate
molto poco nel tempo: come si spiega? E` un problema aperto e
vengono illustrate qui alcune ipotesi, come un maggiore effetto
serra e/o una maggiore attivita` solare nel passato. Il pianeta Venere potrebbe avere alcune caratteristiche della giovane Terra e
uno studio attuale ne ha misurato l’altezza della ionosfera, sfruttanto il transito del 2012. Le eruzioni solari sono tipiche manifestazioni dell’attivita` solare e uno studio recente ne ha evidenziato le analogie con i flussi di accrescimento che precipitano sulle
giovani stelle dai dischi residui della nube originaria.
1. La luce del Sole
In questo brano ripercorriamo la storia del Sole e come essa possa avere influenzato la storia biologica della Terra. In particolare, cio` che a noi interessa e` se e
come sia variata la luminosita` del Sole nel corso della sua vita, dalla nascita fino
all’eta` attuale. Il Sole e` la nostra stella e ad esso dobbiamo la nostra presenza
sulla Terra. La sua energia alimenta tutte le attivita` sulla superficie terrestre,
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dall’atmosfera alla vegetazione, alla dinamica marina. L’energia emessa dal Sole
ci perviene per lo piu` attraverso la sua radiazione, la luce. Il Sole emette la maggior parte della sua radiazione nella banda elettromagnetica del visibile, intorno ai
500 nm. Tale radiazione e` emessa per lo piu` dalla sua superficie.
Essendo il Sole interamente gassoso, per superficie si intende quello strato di atmosfera al di la` del quale non riusciamo a penetrare con le osservazioni Questo
strato viene detto fotosfera. La fotosfera e` costituita da gas ad una temperatura di
circa 6000 gradi Kelvin. Nella luce visibile il Sole appare come un disco bianco,
pressocche` uniforme, punteggiato di tanto in tanto da zone piu` scure di forma irregolare, dette macchie solari. Le macchie sono regioni dove il campo magnetico
del Sole e` piu` intenso. Nelle macchie, per bilanciare la maggiore pressione magnetica, la pressione termica del gas deve diminuire e con essa la temperatura. A
piu` basse temperature, circa 4000 K, il gas emette luce meno intensa e per questo
motivo le macchie appaiono scure. Il numero di macchie solari, come anche
l’attivita` magnetica, varia periodicamente tra un massimo e un minimo con un
ciclo di 11 anni circa (ciclo solare). In questo momento (2016), dopo aver attraversato un massimo fino al 2014, ci si avvia verso un nuovo minimo.
2. Vita del Sole
Come tutte le stelle, il Sole e` costituito per lo piu` da idrogeno ed elio e si e`
formato da una nube primordiale simile ad esempio alla nebulosa di Orione, dove
si stanno formando tuttora stelle. Parte della nube si contrasse gravitazionalmente
assumendo forma sferica. Una volta diventata opaca, la pressione della nube ando` aumentando e con essa la temperatura interna. All’esterno si formo` un disco
di gas e polveri che in parte ha continuato ad alimentare l’accrescimento della
stella, in parte si e` frammentato formando i pianeti, come la Terra.
Il processo di contrazione si arresto` quando le forze di pressione interna bilanciano la forza di gravita` e il Sole raggiunse una condizione di equilibrio. Le forze di
pressione sono differenziali: la pressione deve diminuire in direzione della superficie per avere una forza netta verso l’esterno che bilanci la forza di gravita` diretta verso l’interno. L’enorme massa del Sole e conseguente gravita` produce enormi pressioni al suo centro, dove le temperature raggiungono valori intorno ai 15
milioni di gradi. Alla fine la temperatura e la pressione raggiunsero valori tali da
innescare reazioni di fusione termonucleare che riescono a mantenere nel tempo
queste pressioni e temperature elevate senza ulteriori contrazioni. Le reazioni trasformano 4 nuclei di idrogeno, cioe` 4 protoni, in un nucleo di elio, costituito da 2
protoni e 2 neutroni, liberando energia per lo piu` sotto forma di radiazione e neutrini. La somma delle masse dei 4 protoni e` infatti leggermente superiore a quella
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del nucleo di elio, e la differenza e` proprio quella che viene trasformata in energia secondo la formula di Einstein E = mc2. Dal momento che il Sole e` per la
maggior parte (~75 % in massa) composto da idrogeno, questo fornisce
un’enorme quantita` di combustibile, in grado di manterlo in equilibrio per miliardi di anni. Il Sole ha un’eta di circa 4,5 miliardi di anni, e continuera` nello
stato attuale per altrettanti, trovandosi quindi grosso modo a meta` della sua esistenza.
3. Cambiamenti del Sole
La struttura del Sole e` rimasta grosso modo invariata in tutto questo periodo.
Possiamo identificare un nucleo centrale dove avvengono le reazioni termonucleari, una zona radiativa intorno, dove l’energia prodotta nel nucleo viene trasmessa
per radiazione, e infine uno strato convettivo dove l’energia viene trasportata per
moti convettivi a bolle e che si estende fino alla superficie.
Ma il Sole e` cambiato nel tempo? Abbiamo detto che la struttura e` rimasta la
stessa, ma al passare del tempo c’e` un fattore che deve determinare dei cambiamenti: il consumo di carburante. L’idrogeno viene trasformato in elio all’interno
del nucleo. All’inizio le reazioni erano concentrate proprio al centro, dove la temperatura e` ovviamente piu` alta. Tuttavia, al passare del tempo, l’idrogeno al centro veniva trasformato in elio, venendo quindi a mancare per ulteriore combustione. Il centro del nucleo quindi si va trasformando tutto in elio e la fusione
dell’idrogeno si va spostando dove l’idrogeno e` ancora disponibile, cioe` in strati
del nucleo via via piu` esterni.
L’energia prodotta rimane grosso modo invariata, in quanto dipende sostanzialmente dalla massa totale del Sole che non cambia nel tempo. Tuttavia la struttura
interna del Sole risente un po’ di questo progressivo spostamento delle reazioni
termonucleari. Questo spostamento e` dunque dall’interno verso l’esterno; ovvero
in altri termini, la fonte di energia del Sole si va avvicinando, sia pure a poco a
poco, alla sua superficie. Temperature elevate a distanze maggiori dal centro fanno si` che la pressione diminuisca piu` gradualmente verso l’esterno, cioe` la stessa differenza di pressione di presenta su distanze maggiori. La conseguenza e` che
la superficie di allontana dal centro: il Sole si va gonfiando leggermente nel tempo! Modelli di struttura stellare [1] ci dicono che il Sole oggi ha un raggio circa il
10% piu` grande che alla sua nascita (Figura 1). Anche la sua temperatura superficiale e` leggermente aumentata (circa 200 K). In conseguenza anche la sua luminosita` e` aumentata, si parla di circa un 30%. Il Sole appena formato doveva
essere circa il 30% meno luminoso che adesso!
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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), n. speciale 10, 2016
Figura 1. Come sono cambiate le dimensioni del Sole dall’origine ad oggi. Il Sole va
aumentando di dimensioni nel tempo.
4. Il paradosso del Sole giovane tenue e l’effetto serra
Abbiamo detto che l’energia luminosa proveniente dal Sole determina le caratteristiche della superficie terrestre. Ci si aspetterebbe che un Sole meno luminoso,
quindi un minore irraggiamento, si traduca in una temperatura piu` bassa sulla superficie terrestre. Sappiamo che, ad esempio, la presenza di acqua liquida sulla
Terra sia legato ad un piccolo intervallo di temperature. Per temperature piu` basse, gia` di qualche decina di gradi, l’acqua dovrebbe essere allo stato solido; quindi ci si aspetta una giovane Terra con acque interamente ghiacciata. Invece, ci sono evidenze che l’acqua sia presente allo stato liquido almeno fin da 3,8 miliardi
di anni fa, e la vita da circa 3,5 miliardi di anni. Questo costituisce il cosiddetto
“paradosso del Sole giovane tenue” (per ulteriori informazioni si veda
https://en.wikipedia.org/wiki/Faint_young_Sun_paradox), per la prima volta sollevato da Sagan e Mullen nel 1972 [2], e che rappresenta a tutt’oggi un problema
aperto per la scienza. Sono state fornite una serie di possibili spiegazioni piu` o
meno probabili. Elenchiamo qui quelle principali.
L’ipotesi principale e` quella dell’effetto serra, quell’effetto per cui l’atmosfera e`
trasparente alla radiazione in entrata che viene riemessa a lunghezze d’onda maggiori alle quali l’atmosfera e` opaca, rimanendo quindi intrappolata e producendo
riscaldamento. Si ritiene infatti che sulla Terra appena formata l’atmosfera potesse contenere piu` gas serra, e in particolare l’anidride carbonica (CO2) e il metano
(CH4). Anche l’intensa attivita` vulcanica sarebbe responsabile di questo arricchimento (Figura 2). E` comunque altrettanto acclarato che la Terra abbia attra-
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versato ciclicamente dei periodi in cui gli oceani si sono interamente ghiacciati, le
ere glaciali.
Figura 2. L’effetto serra nell’atmosfera terrestre puo` essere accentuato da un intenso
vulcanismo (Tratta da http://www.meteoweb.eu)
5. Venere, una giovane Terra
Un esempio delle informazioni che e` possibile trarre sulla Terra in origine ci viene dallo studio di altri pianeti simili come Venere. Su Venere sono presenti condizioni fortemente influenzate dall’effetto serra e potrebbe costituire un esempio
di giovane Terra. L’atmosfera di Venere e` infatti composta prevalentemente da
anidride carbonica (95%) e la temperatura sulla sua superficie rocciosa supera i
400° C. Della superficie rocciosa di Venere abbiamo informazioni solo da osservazioni nella banda radio, che riescono a penetrare la spessa coltre di nubi che ricopre interamente il pianeta.
Osservazioni in bande ad alta energia come l’estremo ultravioletto (EUV) e i raggi X forniscono informazioni sugli alti strati dell’atmosfera di Venere. Un caso
ingegnoso e` quello di uno studio recente dell’osservazione dell’ultimo transito di
Venere avvenuto nel 2012, effettuato da un gruppo guidato da ricercatori del Dipartimento di Fisica e Chimica dell’Universita` di Palermo, pubblicato sulla rivista Nature Communications [3]. In questo studio si e` appurato che Venere appare
leggermente piu` grande osservato in bande ad alta energia di quanto non lo sia
nella banda del visibile. Il suo raggio e` circa 50 km maggiore. Quando misuria-
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mo il raggio di Venere nella banda del visibile stiamo in realta` misurando
l’altezza degli strati piu` esterni delle nubi. Quando facciamo lo stesso nelle bande
X ed EUV stiamo misurando l’altezza alla quale viene bloccata questa radiazione
ad alta energia, cioe` gli strati piu` alti della ionosfera, quello strato dell’atmosfera
in cui gli atomi e le molecole vengono ionizzate dalla radiazione proveniente dal
Sole (Figura 3).
La ionosfera e` presente anche nell’atmosfera terrestre. Informazioni sulla ionosfera di Venere sono molto utili per vari motivi. A parte il dato utile alla verifica
dei modelli stessi di atmosfera di Venere, una giovane Terra, esso costituisce un
dato importante per le missioni spaziali che sorvolano Venere. Esso permette di
effettuare previsioni sull’effetto di frenamento da parte degli strati piu` alti
dell’atmosfera.
In piu`, costituisce un interessante banco di prova per future osservazioni di pianeti extrasolari nelle bande ad alta energia. Molti pianeti extrasolari vengono oggi
rivelati grazie ai loro transiti davanti alle stelle intorno a cui orbitano. Questi transiti provocano dei piccoli affievolimenti nell’intensita` luminosa della stella, da
cui si deduce la presenza del pianeta, ma anche le sue dimensioni. Un giorno sara`
possibile percepire le differenze tra le dimensioni misurate in varie bande e questo
sara` un ulteriore strumento per rivelare la presenza di atmosfere intorno ai pianeti. Lo studio di questo transito di Venere ha aperto la strada a questa possibilita`.
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Figura 3. Ionosfera di Venere rivelata durante il transito del 2012. Nello sfondo il Sole
nella banda EUV. Il disco di Venere osservato del visibile (nubi). La ionosfera e` il sottile
anello color fucsia intorno al disco di Venere.
6. Attivita` solare
Un’altra ipotesi che potrebbe spiegare una Terra con acqua liquida nonostante un
Sole di luminosita` inferiore e` quella di una maggiore attivita` solare. Le stelle da
poco formate ruotano di solito piu` velocemente di quelle di eta` maggiore, che
vengono frenate per varie cause, tra cui i getti di gas che fuoriescono dalla loro
atmosfera, simili al vento solare e alle tempeste solari. Una rotazione piu` veloce
determina la formazione di campi magnetici piu` intensi e quindi, ad esempio, un
maggior numero di macchie solari, come succede in corrispondenza dei massimi
del ciclo solare. In prossimita` delle macchie si verificano spesso esplosioni solari
di grande violenza (brillamenti) che fanno partire enormi quantita` di gas e radiazioni verso lo spazio interplanetario e quindi anche verso la Terra. La grande attivita` magnetica produrrebbe anche un piu` intenso vento solare. Il vento avrebbe
potuto proteggere maggiormente la Terra dai raggi cosmici, i quali sembra possano avere un effetto di raffreddamento sull’atmosfera terrestre. Questo, insieme a
un moderato effetto serra, potrebbero spiegare l’acqua liquida sulla giovane Terra.
Anche l’attivita` del Sole e` visibile al meglio nelle bande ad alta energia. Il
Sole nelle bande EUV e X appare molto diverso da quello uniforme nella banda
del visibile. Infatti in queste bande stiamo osservando gas a temperature molto
piu` elevate, oltre il milione di gradi. A queste temperature il gas e` completamente ionizzato, e viene chiamato plasma. Il plasma e` quindi interamente costituito
da cariche elettriche libere. Cariche positive e negative comunque si bilanciano e
quindi rimane neutro anche su piccola scala. Tuttavia le cariche sono in forte movimento e quindi piu` che dei campi elettrici risentono fortemente dell’interazione
con il campo magnetico solare.
Nelle bande EUV e X viene osservata la parte piu` esterna dell’atmosfera solare, che viene chiamata corona solare, perche` e` anche quella visibile durante le
eclissi totali [4]. Il plasma della corona, oltre a essere caldo, e` estremamente tenue e viene facilmente confinato dal campo magnetico. La corona che osserviamo
ad alta energia assume quindi un po’ proprio la forma del campo magnetico, e per
questo osserviamo strutture luminose a forma di arco, dette archi coronali. A causa delle tensioni a cui e` soggetto il campo magnetico, si possono verificare delle
esplosioni (brillamenti) durante le quali a volte questi archi coronali si spezzano e
plasma viene eruttato verso l’esterno.
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Figura 4. Grande eruzione solare osservata il 6 giugno 2011 nella banda EUV con il
satellite USA Solar Dynamics Observatory. Molti frammenti scuri ricadranno sulla
superficie del Sole. Il resto viene espulso verso lo spazio interplanetario, provocando
tempeste solari sulla Terra.
Una di queste eruzioni solari, verificatasi nel giugno del 2011 (Figura 4), e` stata studiata nel dettaglio da un gruppo coordinato da ricercatori del Dipartimento di
Fisica e Chimica dell’Universita` di Palermo. E` un’eruzione molto particolare
perche` una parte dei frammenti eruttati sono ricaduti sulla superficie del Sole e
hanno dato luogo a impatti sorprendentemente luminosi nelle bande ad alta energia. L’idea originale e` stata quella di associare questi impatti luminosi all’impatto
dei flussi di materia che precipitano dai dischi presenti intorno alle stelle in formazione sulle stelle stesse (cf. Sezione 2). Questi ultimi non riusciamo a osservarli nel dettaglio, perche` troppo lontani, e quindi quelli sul Sole diventano dei preziosi esempi da prendere a modello. Un comunicato stampa della NASA recita:
“Gli scienziati che hanno studiato il materiale in caduta hanno concluso che
stiamo vedendo una versione ridotta di cio` che succede quando le stelle si formano e raccolgono gas per gravita`. (Il telescopio solare EUV) AIA ha permesso
di studiare un processo coinvolto nella creazione stellare in dettaglio maggiore di
quanto si possa vedere altrove nell’Universo.” Ci sono infatti forti evidenze indirette che dai dischi circumstellari partano dei notevoli e continui flussi di materia
che precipitano sulle stelle. Ci sono evidenze anche che i punti di impatto sulla
superficie della stella siano luminosi e caldi. Ultimamente si sono anche rivelati
eccessi di emissione nella banda X che sono stati interpretati come evidenza di
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impatto di flussi di accrescimento ad alta velocita`, di centinaia di km/s. Ecco
quindi l’analogia con l’evento solare, anche se questo e` su scala minore e di piccola durata. I frammenti dell’eruzione solari ricadono infatti sul Sole a qualche
centinaio di km/s e sono di densita` confrontabile con quelle dedotte nei flussi
stellari.
Lo studio ha analizzato l’osservazione solare per costruire un modello e riprodurre l’osservato tramite una simulazione al computer. In questo modo e` stato
possibile capire i dettagli del fenomeno e soprattutto i meccanismi che originano
quest’emissione luminosa degli impatti. Ad esempio si e` capito che i flussi stellari non devono necessariamente essere continui, ma impatti luminosi possono essere prodotti da serie di frammenti densi e freddi. L’idea originale di creare questo
ponte tra il Sole e suoi analoghi giovani e` stata ritenuta di grande interesse e lo
studio e` stato pubblicato sulla rivista Science [5]. Lo studio dei dischi circumstellari e` esso stesso di grande interesse perche`, come accennato sopra, dai dischi si
originano i pianeti, anche se la loro formazione avviene ovviamente in tempi successivi.
Riconoscimenti. L’autore ringrazia G. Peres, A. F. Gambino (Universita` di Palermo), S. Orlando, G. Micela, A. Maggio (INAF – Osservatorio Astronomico di
Palermo), T. Widemann (Universite` de Versailles-Saint-Quentin, Francia), P. Testa (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, USA), E. Landi (University of
Michigan, USA), C. J. Schrijver (Lockheed Martin Advances Technoogy Center,
USA), G. Piccioni (INAF – Istituto di Astrofisica e Planetologia Spaziali) per collaborazione scientifica. Solar Dynamics Observatory e` la prima missione lanciata
per il programma Living With a Star della NASA.
Bibliografia
[1] Bohm-Vitense, E. (1997). Introduction to stellar astrophysics. Volume 3: Stellar structure and evolution. Cambridge: Cambridge University Press.
[2] Sagan, C., Mullen, G. (1972) Earth and Mars: Evolution of atmospheres and
surface temperatures, Science 177 (4043): 52-56.
[3] Reale, F., Gambino, A. F., Micela, G., Maggio, A., Widemann, T., Piccioni,
G. (2015), Using the transit of Venus to probe the upper planetary atmosphere,
Nature Communications, 6:7563
[4] Golub, L., Pasachoff, J. M. (1997), The Solar Corona, Cambridge University
Press, Cambridge.
[5] Reale, F., Orlando, S., Testa, P., Peres, G., Landi, E., Schrijver, C. J. (2013),
Bright hot impacts by erupted fragments falling back on the Sun: a template for
stellar accretion, Science 341, 251-253
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Astrochimica: un percorso affascinante per
l’insegnamento delle scienze integrate
Mariano Venanzi
Laboratorio di Chimica Fisica delle Biomolecole, Dipartimento di
Scienze e Tecnologie Chimiche, Università di Roma ‘Tor Vergata’,
Roma ECSIN.
E-mail: [email protected]
Riassunto. In questo contributo verranno descritti i meccanismi di formazione di atomi e molecole a partire dai primi minuti successivi al Big Bang
fino alla generazione di composti molecolari complessi, introducendo i processi fisici e chimici alla base della evoluzione della materia in condizioni
critiche di densità e temperatura. L’obiettivo è quello di proporre un percorso didattico fortemente interdisciplinare in cui la fisica, la chimica e la biologia concorrono a descrivere e comprendere i processi che hanno portato
alla comparsa della vita sulla Terra.
Introduzione
Lo studio della nascita e dell'evoluzione dell’Universo è una disciplina affascinante, che da sempre colpisce e stimola la curiosità e l’immaginazione degli studenti. Questo campo di ricerca e d'insegnamento è storicamente appannaggio della fisica. Tuttavia, negli ultimi due decenni la chimica, con la scoperta di molecole
anche complesse come gli idrocarburi aromatici policiclici nelle comete e nello
spazio interstellare, ha di fatto imposto di diritto il suo ingresso in questo ambito,
definendo una propria regione propria di interesse, semplicemente denominata astrochimica.[1]
Di più, il sacro graal della ricerca di possibili forme di vita nell’Universo o di
possibili origini extraterrestri della vita ha dato luogo alla nascita della astrobiolologia. E’ possibile dunque immaginare un percorso didattico interdisciplinare che
abbia il suo centro di interesse nello studio della struttura e dell'evoluzione
dell’Universo nei suoi diversi aspetti fisici, chimici e biologici.
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Qui si vuole affrontare alcuni aspetti di questo percorso, dal punto di vista molto particolare dell'evoluzione dei processi chimico-fisici che hanno portato alla
formazione degli elementi (nucleosintesi) e delle molecole, da quelle più semplici
alle molecole di interesse biologico (amminoacidi e acidi nucleici).
I. Nucleosintesi: La formazione degli elementi
Nella figura 1 è riportata la abbondanza degli elementi chimici nel sistema solare
(attenzione alla scala logaritmica decimale). Dal grafico si può notare come gli elementi di gran lunga più abbondanti siano Idrogeno ed Elio, con un minimo caratteristico per il Litio, il Berillio e il Boro, e una diminuzione esponenziale delle
abbondanze a partire da Carbonio, Azoto ed Ossigeno fino ai pesi atomici più elevati. Si osservano pure alcuni picchi caratteristici per il Ferro e il Piombo.
La netta predominanza di Idrogeneo ed Elio è il risultato dei proceessi innescati
dal Big Bang. Secondo il modello standard, la formazione degli elementi chimici
può avere inizio solo quando nel processo di raffredamento globale le temperature
raggiungano valori al di sotto dei 109 K (180 s dopo il Big Bang), dando luogo alla produzione di H, He, D e Li. E’ solamente a temperature intorno ai 3000K (37·105 s), che si formano stabilmente gli elementi più leggeri.[2]
E’ proprio questa profonda asimmetria della distribuzione degli elementi chimici che fa pensare a George Gamow nel 1946 che l’Universo primordiale doveva
trovarsi inizialmente in uno stato di forte disequilibrio. Nel famoso articolo αβγ,
così denominato dal nome degli autori, Gamow ipotizza un processo di sintesi degli elementi per successiva cattura di protoni e neutroni. [3] Gli elementi si sarebbero quindi formati a partire dall’Idrogeno, per formare via via Deuterio per
addizione di un neutrone, Elio(3) per ulteriore cattura di un protone, Elio(4) per
cattura neutronica, e così via.
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Figura 1. Abbondanza relativa degli elementi nel sistema solare (valori normalizzati rispetto a 106 atomi di Silicio).
In realtà, questo processo si arresta rapidamente al Li. E’ lo stesso successo dell
ipotesi del Big Bang che rende poco probabile questo meccanismo, poichè il raffreddamento dell’Universo previsto dal modello standard è troppo veloce per continuare a produrre reazioni nucleari di questo tipo.
I reattori chimici più efficienti sono in realtà le stelle. La formazione di una
stella e la sua evoluzione dipende da un delicato equilibrio tra collasso gravitazionale e temperatura. Al crescere della massa di una stella, aumentano la sua pressione e temperatura interne, innescando via via processi termonucleari che conducono alla formazione di atomi più pesanti.
Il sole, ad esempio, è una stella troppo piccola per dare luogo a reazioni che
portino alla formazione di elementi pesanti. Il 91% dell’energia solare proviene
infatti da processi di fusione protonica che coinvolgono idrogeno ed elio.
H + 1H → 2H + e+ + ν
H + 1H → 3He + γ
3
He + 3He → 4He + 21H
1
2
L’energia liberata per ogni ciclo di reazione è di ca. 26.8 MeV (4.3·10 -12 J).
(Appendice A)
La tabella 1 elenca alcuni dei processi termonucleari più efficienti, legandoli
alla temperatura che si realizza nel nocciolo interno di una stella, a sua volta determinata essenzialmente dalla sua massa (espressa nella tabella in unità di massa
solare).
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Tabella 1. Processi termonucleari di generazione degli elementi nelle stelle
Processo
Prodotti
H-burning
He-burning
C-burning
Ne-burning
O-burning
Si-burning
He
C, O
O, Ne, Na, Mg
O, Mg
Mg to S
Fe
T(K) (core)
2·107
2·108
8·108
1.5·109
2·109
3·109
Massa minima
(m.s.)
0.1
1
1.4
5
10
20
Il meccanismo più efficiente in stelle sufficientemente pesanti è la cattura di
particelle alfa (4He), come esemplificato nelle reazioni seguenti per temperature
dell’ordine di 108-109 K:
C + 4He → 16O + γ
O + 4He → 20Ne + γ
20
Ne + 4He → 24Mg+ γ
24
Mg +4He → 28Si + γ
28
Si +4He → 32S + γ
32
S +4He → 36Ar + γ
12
16
Una serie di reazioni molto interessanti dal punto di vista degli elementi coinvolti riguarda il ciclo Carbonio-Azoto-Ossigeno, riportato in figura 2, che ha luogo a temperature maggiori di 1.6·107 K e per masse stellari maggiori di 1.1 in unità di massa solare.
Processi di cattura protonici e di decadimento β regolano le abbondanze relative di questi elementi così importanti per la costruzione di molecole complesse.
Tutti i nuclei fino al Ferro si formano dunque mediante processi termonucleari
che avvengono all’interno di stelle massive (tabella 1).
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Figura 2. Ciclo CNO (T > 1.6·107 K, M > 1.1 m.s.).
La formazione di Fe esaurisce tutti i processi nucleari di nucleosintesi che hanno luogo all’interno delle masse stellari (da qui il massimo relativo nella distribuzione delle abbondanze degli elementi riportata in figura 1).
Gli elementi più pesanti si formano a partire da altri processi, tipicamente da
processi di cattura di neutroni.[2] Questi ultimi si dividono in processi di cattura
neutronica lenti (s-process), che hanno luogo durante il collasso del nucleo ferroso di stelle pesanti, o processi di cattura neutronica rapidi (r-process), innescati
generalmente durante l’espulsione di materiale nella fase supernova di una stella
pesante. Elementi come Cu, Zn, Br, I, Ag, Au, Pt, Pd, lantanidi e attinidi si formano generalmente durante gli eventi che accompagnano l’evoluzione di una
supernova fino alla sua esplosione finale.
Fino ad ora, abbiamo analizzato i processi di formazione di nuclei più pesanti a
partire dai nuclei più leggeri. In realtà l'abbondanza relativa degli elementi è determinata anche dai percorsi di decadimento radioattivo di elementi instabili pesanti. L’Uranio-238, Uranio-235, Torio-232 innescano dei processi radioattivi che
terminano invariabilmente con isotopi più o meno stabili del Piombo [Ex. U238→Th-234→Pd-234→U-234→Th-230→Ra-226→Rn-222→Po-218→Pb214(26.8 min)→Bi-214→Po-214→Pb-210 (22.3 anni)→Bi-210→Po-210→Pb206 (stabile)].
Questi processi spiegano il massimo misurato per il Pb nella distribuzione delle
abbondanze relative degli elementi riportate in figura 1.
I processi radioattivi aprono la possibilità di disegnare dei veri e propri orologi
atomici, utili per determinare i tempi-scala di molti processi astronomici (tabella
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2). Nella Appendice B viene ottenuta facilmente la relazione che lega la costante
di velocità dei processi radioattivi ai loro tempi scala caratteristici.
Tabella 2. Tempi scala di alcuni processi di decadimento radioattivo
Isotopo radioattivo parente
U-238
U-235
Th-232
Rb-87
K-40
Sa-147
Isotopo stabile prodotto
Pb-206
Pb-207
Pb-208
Sr-87
Ar-40
Nd-143
Tempo di decadimento/anni
4.5 miliardi
704 milioni
14.0 miliardi
48.8 miliardi
1.25 miliardi
106 miliardi
La cosa interessante che si evince dai dati riportati in tabella 2 è che alcuni dei
tempi di decadimento di elementi radioattivi sono nella stessa scala temporale di
processi astronomici come il Big Bang, la cui origine è stimata intorno ai 15 miliardi di anni, o la formazione del sole, datata intorno ai 4.5 miliardi di anni.
Nella Appendice C viene dimostrato come è possibile dallo spettro di emissione dell’atomo di idrogeno risalire alla temperatura della corona solare (termometri
atomici).
II. Molecole nello spazio
Se la genesi degli elementi chimici è sostanzialmente compresa, molto più problematica è la comprensione della formazione di molecole, soprattutto alla luce
degli ultimi risultati sperimentali che hanno evidenziato la presenza nello spazio
interstellare di molecole anche complesse, come ad esempio idrocarburi aromatici
policiclici (PAH==polycyclic aromatic hydrocarbons).
La tabella 3 riporta un elenco di molecole, in ordine di complessità molecolare,
la cui presenza nello spazio interstellare si può dare per assodata.
La presenza di molecole ha un profondo effetto nella evoluzione dei processi
astronomici. Mentre gli atomi infatti possono portare ad un raffreddamento delle
temperature dell’Universo fino ad un minimo di 8000K, le molecole sono molto
più efficienti nel guidare tale raffreddamento. Con le molecole entrano in gioco
vibrazioni e rotazioni con la possibilità di assorbire ed emettere radiazione nella
regione infrarossa e nelle microonde. L’universo del profondo ultravioletto è
quello degli atomi, l’universo del visibile, dell’infrarosso e delle microonde è
quello delle molecole.
Nell’appendice D è discusso un effetto puramente quantistico che determina la
maggiore efficienza di molecole deuterate nel determinare il raffreddamento delle
temperature dell’universo, mentre nell’appendice E è mostrato come dallo spettro
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rotovibrazionale di una molecola (CO) si possono ottenere informazioni sulle
temperature locali di una nebulosa (termometri molecolari).
Tabella 3. Molecole nello spazio interstellarea
2
2
H2
3
NaCl
C3,
3
C2H,
CH2
+
N2H ,
N2O,
4
5
c-C3H
6
C5,
C5H,
+
l-C3H
H2COH
l-H2C4
C3N,
C4H,
C2H4,
C3O,
C4Si,
CH3CN
C3S
SiH4
OCS,
C2H2,
l-C3H2,
CH3OH,
CO2,SO2
SiC3,
c-C3H2
CH3SH,
HCCN,
CH2CN,
HC3NH+,
HCNH+
CH4
HC2CHO
HNCO,
HC3N,
NH2CHO,
HNCS
HC2NC
C5N
NH2
AlF, AlCl
C2,
CH
CH,
OH
C2O, C2S
PN
HCN, HCO,
+
HCO
+
NaCN
H3O
+
CN,
CO,
SO, SO
+
CO+
+
HCS ,
c-SiC2
HOC+
CP, CSi
SiN,
SiO,
H2O, H2S
H3+
SiS
HCl, KCl
NH,
NO,
CS
+
HCN, HNO
HF
NS
HOCO ,
HCOOH,
H2CO
H2CHN
MgCN,
H2CN,
H2C2O,
MgNC
H2CS
H2NCN,
+
HNC3
11
13
HC9N
HC11N
NH3
7
8
9
C6H
CH2CHCN
CH3C2H
HC5N
HCOCH3
NH2CH3
C-C2H4O
CH3C3N
HCOOCH3
C7H
H2C6
CH3C4H
(CH3)2CO
CH3CH2CN
(CH3)2O
CH3CH2OH
HC7N
C8H
152
10
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2
H2
AlF, AlCl
C2,
CH+
CH,
CN, CO,
CO+
CP, CSi
HCl, KCl
NH,
NS
NO,
7
C6H
CH2CHCN
CH3C2H
HC5N
HCOCH3
NH2CH3
C-C2H4O
a
Ref. [4]
Tabella 3. Molecole nello spazio interstellarea
2
3
3
4
5
NaCl
C3,
C2H, N2H+,
c-C3H
C5,
CH2
N2O,
l-C3H
H2COH+
NH2
OH
C2O, C2S
NaCN
C3N,
C4H,
C3O,
C4Si,
C3S
SiH4
PN
HCN,
OCS,
C2H2,
l-C3H2,
HCO,
CO2,SO2 SiC3,
c-C3H2
HCO+
H3O+
SO, SO+
HCS+,
c-SiC2
HCCN,
CH2CN,
HOC+
HCNH+
CH4
SiN, SiO, H2O, H2S
H3+
HNCO,
HC3N,
SiS
HNCS
HC2NC
CS
HCN, HNO
HOCO+, HCOOH,
H2CO
H2CHN
HF
MgCN,
H2CN,
H2C2O,
MgNC
H2CS
H2NCN,
NH3+
HNC3
8
9
10
11
13
CH3C3N
CH3C4H
(CH3)2CO
HC9N
HC11N
HCOOCH3 CH3CH2CN
C7H
(CH3)2O
H2C6
CH3CH2OH
HC7N
C8H
6
C5H,
l-H2C4
C2H4,
CH3CN
CH3OH,
CH3SH,
HC3NH+,
HC2CHO
NH2CHO,
C5N
III. Reazioni chimiche nello spazio interstellare
Lo svolgersi di reazioni chimiche con la relativa formazione di molecole stabili,
pone una serie di problemi legati alle condizioni fisiche e chimiche nelle quali
queste reazioni si svolgono tipicamente.
Innazitutto, le concentrazioni estremamente basse dei reagenti. In fondo
due reagenti devono pur incontrarsi per reagire e nello spazio interstellare,
nel quale tipicamente le densità molecolari sono dell’ordine di 100 molecole
per cm3 e le temperature dell’ordine di qualche decina di Kelvin, la frequenza di
collisione è intorno a 5·10-8 s-1 (1 collisione ogni anno e mezzo).
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Le basse temperature hanno un’altra conseguenza immediata. Secondo la legge di
Arrhenius, la costante di velocità di reazione dipende in maniera esponenziale dalla energia di attivazione Ea e dalla temperatura.
 E 
k (T )  A exp  a 
 RT 
Ad esempio, la semplice reazione di isomerizzazione CH3NC → CH3CN ha una
energia di attivazione di 160 kJ·mol-1. Alle temperature chimiche di una nebulosa
(30K) RT è uguale a 0.25 kJ·mol-1 ed il rapporto Ea/RT=279. A temperatura ambiente (298K) Ea/RT=28, mentre nella corona solare (T=5780K) Ea/RT=2.
Queste considerazioni portano alla drastica conclusione che nello spazio, reazioni
che richiedano una energia di attivazione maggiore del prodotto RT (generalmente molto piccolo), abbiano velocità del tutto trascurabili. Né il termine preesponenziale A, legato alla frequenza di collisione, riesce a rendere la costante di
velocità sufficientemente grande.
Queste considerazioni portano immediatamente ad escludere reazioni che coinvolgano specie neutre. Le uniche reazioni che avvengono con una certa probabilità sono dunque reazioni a energia di attivazione ‘zero’, come reazioni radicaliche:
CH2· + CH2· → prodotti
o reazioni ione-molecola:
H2+ + H2 → H3+ + H
Prendiamo in esame un tipico ciclo di reazioni che avvengono nello spazio:
I.
II.
III.
IV.
H + H → H2 (su polvere stellare)
H2 → H2+ + e- (raggi cosmici)
H2 + H2+ → H3+ + H
(rapida)
+
+
H3 + CO → HCO + H2
La prima reazione ha un'energia di attivazione non trascurabile e le concentrazioni
dei reagenti nello spazio interstellare sono bassissime. L’unico modo perchè questa reazione abbia effettivamente luogo è quello di farla avvenire su grani di polvere interstellare, in cui la superficie del grano funziona da catalizzatore eterogeneo. In questo modo, gli atomi d'idrogeno hanno la possibilità di rimanere in
contatto per tutto il tempo necessario a reagire [ tempo e spazio sono le uniche cose che ci sono in abbondanza nelle nuvole molecolari, le cui dimensioni si contano in anni luce (9.46·1012 km)].
Il secondo passaggio è costituito dalla reazione di ionizzazione della molecola d'idrogeno, evento tipicamente innescato da raggi cosmici (fotoionizzazione). Il terzo passaggio è rapido, trattandosi di una reazione ione-molecola con energia di at-
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tivazione trascurabile (è il contributo elettrostatico a guidare la rapida evoluzione
della reazione). Il quarto passaggio, ancora una reazione ione-molecola, coinvolge
una molecola di CO, con formazione di HCO+ e idrogeno molecolare,
quest’ultimo pronto a rientrare nel ciclo II→IV. Le concentrazioni di HCO+ e CO
sono facilmente misurabili mediante spettroscopia rotovibrazionale nella regione
infrarossa e delle microonde dello spettro.
In figura 3 sono riassunti i tipi di reazione che avvengono nello spazio interstellare e alcune delle più comuni reazioni ione-elettrone ed elettrone-molecola:
Figura 3. Reazioni nello spazio interstellare (rif. [5]).
III.A Processi fotochimici
Un ruolo decisivo nell’innesco di reazioni chimiche fotoindotte è giocato
dall’assorbimento di raggi cosmici di appropriata lunghezza d’onda. L’energia associata ad una radiazione di lunghezza d’onda λ per mole di fotoni assorbiti è:
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E (kJ  mol 1 )  N A
hc


119625
 (nm)
Uno dei processi di interesse per la reattività chimica è la fotodissociazione, la
rottura di legami chimici indotta dall’assorbimento di radiazione. La tabella 4 riporta alcuni esempi di legami chimici, le energie di legame associate e le lunghezze d’onda necessarie per la loro rottura.
Tabella 4. Legami chimici, energie di legame e lunghezze d’onda associate
Legame chimico Energia di legame (kJ·mol-1) Lunghezza d’onda (nm)
C≡O
1075
105
N≡N
943
120
C≡N
754
149
C≡C
838
134
C=O
612
184
C-C
348
323
C-H
415
271
H-H
436
274
Secondo la legge di Wien, una stella con una temperatura superficiale di 28000K
emette radiazioni con un massimo di intensità ad una lunghezza d’onda di 104
nm. Nessuna molecola potrebbe sopravvivere ad una radiazione così energetica, e
la chimica risultante sarebbe estremamente povera: una molecola appena formata
(e abbiamo visto con quali difficoltà) sarebbe rapidamente distrutta dalla radiazione cosmica.
Lo stesso sole con una temperatura superficiale di 5780K e una lunghezza d’onda
di massima intensità di 501 nm, come ben noto genera una sensibile emissione di
raggi UV, con una frazione non trascurabile di lunghezze d’onda intorno a 323
nm, l’energia necessaria a rompere un legame C-C. E’ lo strato di ozono che filtra
questa radiazione a rendere possibile la vita sulla Terra.
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Nello spazio interstellare questo schermo non esiste, e solo le molecole protette
dallo strato di ghiaccio che ricopre i grani di polvere stellare sono in grado di sopravvivere stabilmente e dar luogo alla produzione di molecole organiche.
L’altro processo d'interesse per la reattività chimica innescato dall’assorbimento
di radiazione è la fotoionizzazione:
A + hν  A+ + eLa produzione di specie cariche è, come abbiamo visto, indispensabile per promuovere reazioni chimiche ad energia di attivazione ‘zero’, le uniche possibili alle temperature dello spazio interstellare.
In tabella 5 sono state riportate le energie di ionizzazione di alcuni atomi e molecole e le relative lunghezze d’onda di ionizzazione.
Tabella 5. Energie di ionizzazione e lunghezze d’onda associate
Atomo o molecola
Energia di ionizzazione
(eV)
Lunghezza d’onda di ionizzazione
(nm)
H
13.6
90.73
He
24.59
50.48
Li
5.32
233.3
C
11.26
110.2
O
13.62
93.19
H2
15.43
80.45
CO
14.01
88.60
C2
12.0
103.4
CN
13.8
89.9
CH4
12.6
98.5
III.B Reazioni chimiche sui grani di polvere stellare. Catalisi eterogenea
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Come abbiamo visto, un aspetto decisivo della cinetica delle reazioni chimiche
che avvengono nello spazio interstellare, è il ruolo catalitico svolto da granelli di
polvere interstellare.
La composizione chimica di un granello di polvere e alcuni dei processi chimici e
fotochimici che si svolgono sulla sua superficie sono illustrati in figura 4.
Figura 4. Struttura e composizione chimica di un grano di polvere stellare. In figura
vengono anche riportati alcuni processi fotochimici che si svolgono in superficie.
L’interno di un grano di polvere stellare è composto essenzialmente da silicati e carbonati, prodotti tipicamente dall’esplosione di una supernova ricca di ossigeno. Questo nucleo minerale è protetto da un guscio sottile di ghiaccio contenente un certo numero di
molecole organiche.
Inoltre, il bombardamento di raggi cosmici innesca tutta una serie di processi fotochimici in superficie, illustrati in figura 5.
Figura 5. Processi chimici sulla superficie di un grano di polvere stellare (rif. [5]).
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Il tutto è governato da quanto fortemente atomi e molecole sono adsorbite sulla superficie, dalla loro concentrazione e mobilità diffusionale.
La capacità di una superficie di ridurre l’energia di attivazione di molte reazioni chimiche è ben nota (catalisi eterogenea). L’energia di interazione con la superficie favorisce
infatti la rottura di legami chimici, l’incontro di specie reattive, la formazione di stati di
transizione reattivi.
La principale fonte di formazione di idrogeno molecolare a partire da idrogeno atomico
è proprio costituita da reazioni che si sviluppano sulla superficie di grani di polvere stellare.
C’è una reazione elementare molto importante che rende conto della presenza di numerose molecole organiche nel mantello ghiacciato che ricopre i grani di polvere stellare: la
reazione di inserzione di atomi di carbonio.
I.
II.
III.
C+ + CH4 → C2H2+ + H2
C2H2+ + e- → C2H2
C2H2 + C+ → C3+ + H2
Le reazioni che costituiscono questo ciclo reattivo sono considerate essere le reazioni
elementari che danno luogo alla formazione di catene di atomi di carbonio e di composti
aromatici policiclici. Sono, come indicato, tutte reazioni di tipo ione-molecola e quindi a
bassa energia di attivazione.
La catena reattiva può comunque essere molto complicata. Nella nuvola molecolare
TMC-1 sono state identificate 218 specie atomiche e molecolari, legate tra loro da 2747
diverse reazioni chimiche. In figura 6 è stato riportato il network di reazioni utilizzato per
descrivere l’insieme di reazioni chimiche che si svolgono all’interno di TMC-1.
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Figura 6. Network di reazioni chimiche proposto per descrivere l’insieme di reazioni
in TMC-1 (rif. [6]).
IV. Chimica prebiotica
Il sacro graal della astrochimica è trovare tracce nell’Universo delle molecole che possano
aver dato origine alla vita per come noi la conosciamo sulla Terra. Ad esempio nello spazio interstellare è stato identificato lo spettro caratteristico della glicina mediante spettroscopia a microonde.
Nei grani di polvere interstellare è stata provata la presenza di tutta una serie di molecole formate dai quattro elementi (C, N, O, H), fondamentali nella sintesi di molecole d'interesse biologico. Abbiamo già visto come fotoprocessi nella regione UV possano scatenare migliaia di reazioni chimiche che coinvolgono mattoni di possibili architetture
molecolari complesse.
Perché non pensare ai grani di polvere stellare come ‘semi’ ricchi di molecole organiche che in un ambiente con condizioni chimiche favorevoli possano dar luogo alla formazione di biomolecole (figura 7)?
E’ casuale che C, N, O, al centro del primo periodo della Tavola Periodica, siano gli elementi più reattivi e soprattutto in grado di dar luogo alle molteplici combinazioni necessarie alla costruzione di molecole complesse?
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Figura 7. Un grano di polvere stellare visto come seme ‘CHON’(rif. [7]).
In un interessante esperimento di laboratorio sono state ricreate le condizioni fisiche
(temperatura, irradiazione) e chimiche (concentrazione di specie atomiche e molecolari,
ghiaccio) presenti in un grano di polvere stellare. In figura 8 è stato riportato il gascromatogramma misurato a diversi tempi. E’ da notare la ricchezza delle specie chimiche
rivelate e la presenza di un cerro numero di amminoacidi o di loro derivati (Gly, Ala, Val,
Pro, Asp, Ser).
Un aspetto interessante dei risultati ottenuti riguarda la sostanziale uguaglianza di concentrazione tra enantiomeri dello stesso amminoacido (L- e D-Ala nell’inserto di figura
8). Questo risultato lascia aperto uno dei grandi quesiti della origine della vita, e cioè la
causa della chiralità preferenziale delle molecole biologiche (gli amminoacidi naturali sono tutti in configurazione levogira).
Figura 8. Gas-cromatogramma ottenuto in laboratorio ricreando le condizioni chimicofisiche presenti in un grano di polvere interstellare in una nuvola molecolare di alta densità (rif.[8]).
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Nella Figura 9 è stato delineato un possibile percorso chimico che, a partire
dall’eccitazione di raggi cosmici, porta attraverso un network di reazioni elementari alla
formazione di molecole complesse. Le condizioni chimico-fisiche sono quelle di una nuvola molecolare relativamente densa.
Figura 9. Network chimico per la formazione di molecole complesse in una nuvola
molecolare relativamente densa (rif. [6]).
Questo percorso può essere completato in opportune condizioni di reazione dallo
schema delineato in figura 10 fino alla sintesi dei mattoni chimici (peptidi e nucleotidi)
necessari alla costruzione di biomolecole funzionali (proteine e acidi nucleici).
Figura 10. Un possibile percorso chimico da molecole semplici a biomolecole funzionali (rif. [9]).
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Gli schemi riportati nelle figure 9 e 10 individuano un percorso chimico plausibile e
certamente possibile. E’ anche quello realmente seguito nell’evoluzione chimica del nostro universo dai primi minuti successivi al Big Bang alla comparsa della vita nel nostro
sistema solare?
Più modestamente, siamo convinti che il percorso che abbiamo sommariamente discusso in queste pagine possa davvero essere oggetto di un percorso didattico interdisciplinare
che coinvolga in maniera integrata la fisica, la chimica e la biologia.
Le leggi della chimica operanti nell’Universo non sono diverse da quelle che abbiamo
imparato ad utilizzare nel nostro laboratorio terrestre, e i protagonisti dei processi che abbiamo provato a delineare sono sempre gli elementi che abbiamo classificato nella Tavola
Periodica (come potrebbe essere altrimenti?).
Prima che nei programmi ministeriali, le scienze sono veramente integrate nel grande
libro dei processi evolutivi dell’Universo.
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Appendice A. Energia e massa
Un nucleo di 4He è formato da 2 protoni e 2 neutroni. La massa totale dovrebbe essere:
2mp + 2mn = 2x1.6726·10-27 + 2x1.6749·10-27 kg = 6.69688·10-27 kg
In realtà il peso di 4He è pari a 6.64446·10-27 kg, con un conseguente difetto di massa di
5.242·10-29 kg. Secondo la nota relazione di Einstein: E = mc2, questo difetto di massa
corrisponde ad una energia pari a:
E = 5.242·10-29x ( 3·108)2 = 4.72·10-12 J = 29.5 MeV
Appendice B. Orologi atomici
Tempi di decadimento di processi radioattivi
I processi radioattivi sono generalmente descritti da cinetiche del I ordine, per le quali
la variazione nel tempo di un dato numero di molecole (N) è proporzionale al numero di
molecole stesse.
dN
 kN
dt
dN

 kdt
N

Integrando separatamente tra un tempo 0 [N(t=0)=N 0] e un tempo t [N(t)], si ottiene:
N (t )


N0
ln
t
dN
 k  dt
N
0
N (t )
 kt
N0
N (t )  N 0 e kt
Questa espressione, conoscendo la costante di velocità k, permette di ottenere il numero di molecole al tempo t a partire da un numero di molecole N 0 al tempo t=0.
Il tempo di decadimento (o di dimezzamento) è definito come il tempo necessario a
diminuire della metà il numero di molecole iniziali.
Quindi al tempo t=τ, N(τ) = N0/2
Dalla soluzione generale del problema si ottiene:
N ( ) 
1
 e  k
2
1
ln    k
2
N0
 N 0 e  k
2
ln 2  k

ln 2
k
Dalla quale si può notare subito che il tempo di decadimento radioattivo è una costante
caratteristica dell’elemento atomico in esame.
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Appendice C. Termometri atomici
Spettro dell’Idrogeno atomico
Alla fine dell’800 le evidenze più clamorose della inadeguatezza della fisica classica a
spiegare tutta una serie di osservazioni sperimentali, vennero dalla misura degli spettri di
emissione solare eseguita nei laboratori spettroscopici di Lord Rutherford.
In particolare, lo spettro di emissione dell’Idrogeno atomico mostrò una serie di righe
spettroscopiche, la cui posizione seguiva una equazione fenomenologica molto semplice
in cui l’energia era funzione di soli numeri interi:
 1
1 
E 2  E1   R 2  2 
n1 
 n2
R=109.000 cm-1
La interpretazione di questa legge avrebbe dovuto aspettare il modello di Bohr (1911),
mentre la sua soluzione analitica sarebbe venuta solo dalla soluzione della Equazione di
Schrödinger (1927).
Già al tempo degli esperimenti di Rutherford questa espressione, unita alla distribuzione di Boltzmann, aveva fornito una misura corretta della temperatura della corona solare.
La misura delle intensità relative delle righe di emissione del sole costituiva in realtà
una misura della popolazione dei livelli n=2 e n=1 dell’atomo di idrogeno.
Dalla distribuzione di Boltzmann si aveva:
 En  En1
n2
 exp  2
n1
kT

 R


1
-9

  exp  2

 n  n 2  = 5.15·10 (sperimentale)
kT


1 
 2

Da cui si ottiene per n2=2 e n1=1: T=5780K in ottimo accordo con il dato sperimentale.
Appendice D. Il refrigerante migliore: un effetto puramente quantistico
L’abbondanza del deuterio nello spazio interstellare può essere anche 5000 volte maggiore di quella naturale sulla Terra. Questo ha un effetto molto importante nei processi di
raffreddamento dell’Universo guidato dall’assorbimento ed emissione di radiazione infrarossa.
Il rilassamento vibrazionale intramolecolare è un processo molto efficiente che ha luogo generalmente nella regione temporale dei picosecondi. Di conseguenza, le molecole
popolano quasi esclusivamente il loro stato vibrazionale fondamentale. Un risultato puramente quantistico (non previsto dalla fisica classica) è che le molecole nel loro stato fondamentale vibrazionale abbiano un'energia non nulla (energia di punto zero).
Secondo la meccanica quantistica un oscillatore armonico ha una energia pari a:


1
2
 v   v  h
dove v è il numero quantico vibrazionale. Per v=0 (stato fondamentale):
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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), n. speciale 10, 2016
0 
1
h
2
La frequenza di un oscillatore armonico è pari a:

1
2
k

Dove k è la costante di forza dell’oscillatore e μ la sua massa ridotta:

m1 m2
m1  m2
Le molecole H2, HD e D2 hanno in prima approssimazione la stessa costante di forza,
poiché quest’ultima è determinata essenzialmente dall’energia di legame molecolare.
L’energia di legame è determinata dalla condivisione della densità elettronica nella regione internucleare, che è sostanzialmente non influenzata dalla sostituzione isotopica (Approssimazione
di
Born-Oppenheimer).
Secondo
questa
approssimazione:
k(H2)=k(HD)=k(D2).
Ne consegue:
H
2
 HD

H
D

D
H
 HD
H
2
2
2
2
2
Poiché:
H 
2
mH mH
m
 H
mH  mH
2
D 
2
H
4

 1.155
 HD
3
2
mH mD
2
 mH
mH  mD 3
 HD 
mD mD
 mH
mD  mD
H
 2  1.414
D
2
2
Sperimentalmente si trova:
H
1.320  1014

 1.100
 HD
1.090  1014
2
H
2
D
2

1.320  1014
 1.212
8.98  1013
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Atti della Scuola Permanente per l’Aggiornamento degli Insegnanti di Scienze Sperimentali
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Quaderni di Ricerca in Didattica (Science), n. speciale 10, 2016
Alle tre energie di punto zero corrispondono temperature molecolari pari rispettivamente a 6600K (H2), 5450K (HD) e 4490K (D2).
Appendice E. Un termometro molecolare
Spettro rotazionale del CO
La soluzione quantistica della rotazione di una molecola biatomica, assimilata ad un rotatore rigido, trova un’equazione molto semplice per l’energia rotazionale in funzione del
numero quantico J:
 J  BJ  J  1
Dove B è la costante rotazionale, una proprietà molecolare legata al momento di inerzia
della molecola:
B
h
8  r 2 c
2
Dove μ è la massa ridotta e r è in prima approssimazione la lunghezza di legame molecolare.
La popolazione dei vari livelli rotazionali segue la distribuzione di Boltzmann:
NJ
 hcBJ ( J  1) 
 (2 J  1) exp 

N J 0
kT


Per la molecola 12CO: B=1.92 cm-1.
Dall’intensità relativa delle righe dello spettro rotazionale osservato nelle microonde si
ottiene T=40K.
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“Il Sole. La nostra stella e/è la nostra risorsa”,
I.I.S. "O. M. Corbino", Siracusa, 21-26 luglio 2015
ISBN: 978-88-941026-1-1