NUMERO DUE
MAGGIO
2007
la rivista di ambiente dell’associazione Zygena
Sfogliamento
Parliamo di acqua
LE SEZIONI
ARTE
Gli artisti hanno sempre trovato ispirazione osservando la natura,
in tutte le epoche, cominciando dai primi tentativi che
rappresentavano animali e caccia ed arrivando alle più alte espressioni delle
emozioni e della bellezza insita nelle forme naturali.
Natura ispiratrice per l'arte, arte nella natura, bellezza, perfezione, emozione:
guardare l'ambiente con gli occhi dell'artista è davvero un bel modo per osservarlo
BIZZARRIE
Il mondo naturale è una fonte continua di simpatiche curiosità,
bizzarrie e notizie che sembrano incredibili.
Perchè questa sezione?
Perchè l'amore per l'ambiente passa anche per la capacità di saper scoprire gli
aspetti comici della difficile convivenza tra gli esseri umani e le altre forme
viventi.
NATURA
Botanica, zoologia, etologia, ma anche turismo sostenibile,
tradizioni, biodiversità..
La natura ha infiniti aspetti da approfondire, per capire un po' meglio le forme
viventi che ci circondano, noi stessi compresi, in quanto parte di un unico
ecosistema complesso e affascinante.
LA REDAZIONE
“Sfogliamento” è il periodico mensile dell’associazione
di ricerca, consulenza e comunicazione ambientale
“Zygena onlus”.
registrazione Tribunale di Terni n. del 26/3/07
Direttore Responsabile:
Fabrizio Manzione
Redattori:
Nicoletta Bettini
Simona Capogrosso
Francesco Donati
Gisella Paccoi
Alessia Vespa
redazione: via del Cassero 5 - Terni
[email protected]
sommario
Numero Due - Maggio 2007
ARTE
UN PIANETA SENZ’ACQUA
5
I TEMI NATURALI DELL’ARTE EGIZIA 20
LA PAZIENTE ARTE DI UN CORSO
D’ACQUA
20
GELIDA PASSIONE
23
LIQUIDE MELODIE
24
DI FUTURI CE N’È TANTI.. SPERIAMO! 26
IN QUESTO NUMERO
Se ne parla in toni allarmati
da alcuni giorni, ormai. Il
mondo - o almeno l’Italia sembra essersi accorta che
l’acqua non è illimitata.
Viene in mente la battuta di
quei comici siciliani che dicono “sai? Sembra che abbiano
trovato l’acqua su Marte: mio
zio è già partito con le taniche!”
Sdrammatizzare va bene, ma
abbassare l’attenzione non è
altrettanto buono: per questo
abbiamo deciso di dedicare
un intero numero a questa
preziosa risorsa.
Ovviamente,
parlandone
com’è nel nostro stile: sotto
tanti punti di vista diversi.
Ci sono delle curiosità storiche, altre botaniche e zoologiche, il consueto appuntamento con la scienza in bianco e
nero ed il ritrovato inserto di
astronomia, questa volta in
duplice versione: chi vuole
essere guidato nell’osservazione della luna troverà tutte
le indicazioni.... ma solo nella
versione on-line.
Parliamo di acqua: cominciamo così a fare la nostra parte,
e proseguiamo poi con le
azioni, più attente, parsimoniose e rispettose, per “mettere da parte” un po’ del patrimonio anche per chi verrà
dopo di noi.
La redazione
BIZZARRIE
ROMA E I SUOI ACQUEDOTTI
10
LA SCIENZA IN BIANCO E NERO:
LE “SIGNORINE MOLECOLE”
12
I MOLINI SUL TEVERE
18
UN NASO SEMPRE RAFFREDDATO
22
“CIBUS... DOCET!”
25
NATURA
IL LAGO D’ARAL
6
I PRIMI CONQUISTADORES DELLE TERRE
EMERSE
8
L’INSERTO DI ASTRONOMIA:
FIRMAMENTO
13
LA PIANTA DELL’ACQUA
17
UNA DANZA PERFETTA PER L’AMORE DI
21
UNA ESTATE
RUBRICHE
I POST-IT DEL MESE
4
NOTIZIA DELLE QUATTRO SETTIMANE 26
SFOGLIAMENTO RUBRICHE
se
e
m
l
e
d
t
i
t
s
o
ip
Cince e balie nere
nidificano dove
la radioattività è minore,
anche in un sito
contaminato come
Chernobyl
Nel cervello dei topi c'è
un'area in grado di
attivarsi quando vedono
oggetti che
possono diventare
un buon nido
Tra 50 anni
le piante
potrebbero produrre una
quantità di pollini
nettamente superiore
all'attuale
Autostrada sigillata:
passano
due milioni di
farfalle in migrazione.
Accade ogni anno
a Taiwan.
Alcuni batteri riescono a
"rendersi invisibili" al sistema immunitario dell’ospite
grazie ad un "mantello
magico" fatto di carboidrati
ed una proteina detta Wza
4
MAGGIO
SFOGLIAMENTO
ARTE
Un pianeta
senz’acqua
viaggio nella desertificazione
contemporanea
“Le mappe dei nostri atlanti non corrispondono più alla realtà, i laghi e i mari
interni stanno scomparendo, le falde sotterranee si svuotano e i fiumi si insabbiano prima di arrivare alla foce.
Nel 2025 tre miliardi di persone si troveranno a fronteggiare siccità croniche e
lo spettro di guerre per l’acqua.
Una situazione drammatica, di cui solo pochi si preoccupano.
Il giornalista inglese Fred Pearce, da sempre impegnato sul fronte della salvaguardia dell’ambiente, ha viaggiato in tutto il mondo per documentare un cataclisma che colpisce ormai tutti i maggiori fiumi, dal Nilo al Fiume Giallo. Le
cause di questa crisi idrica sono molteplici, fra queste gli sprechi, una serie di
progetti ingegneristici sbagliati, le colture ad alto rendimento che hanno salvato una generazione dalla carestia ma ora stanno causando una progressiva
desertificazione.
Per irrigare le loro colture, India, Cina e Pakistan consumano metà di tutta
l’acqua disponibile sul pianeta. Le paludi africane, asiatiche e sudamericane
vengono bonificate e destinate all’agricoltura senza alcun criterio.
Il Medio Oriente, qualche anno fa, è stata la prima regione ad esaurire le sue riserve idriche.
Alternando il racconto di eventi catastrofici (migliaia di pozzi in India e Bangladesh sono avvelenati da arsenico e
fluoruro), informazioni quasi incredibili (per produrre un chilo di caffè ci vogliono ben 20.000 litri), analisi di casi
esemplari come quello di Venezia e del MOSE, Pearce ci accompagna in un viaggio alla scoperta dei fiumi, ma anche
in una riflessione sul nostro uso dell’acqua.
Tenendo conto della “acqua virtuale”, quella che serve a produrre i beni di consumo, ogni giorno per nutrirci e vestirci ne utilizziamo una quantità pari a cento volte il nostro peso.
I consumatori dell’Occidente sono quindi direttamente coinvolti nell’inaridimento del pianeta, e ancor più lo sono
le nazioni che importano ed esportano acqua virtuale in modo sconsiderato.
Le immagini potenti, l’analisi penetrante e la denuncia appassionata fanno di questo libro una lettura fondamentale per chiunque sia sensibile ai problemi dell’ambiente, e dimostrano l’urgenza di un’etica mondiale dei consumi, l’unica via per esorcizzare lo spettro di un pianeta senz’acqua”.
“Un pianeta senz’acqua” (“When the rivers run dry”) è della casa editrice “il Saggiatore”
www.saggiatore.it
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
NATURA
Il lago
d’Aral
dalla catastrofe ecologica
alla tragedia umana
NICOLETTA BETTINI
"All'inizio bevi l'acqua, alla fine il veleno": è così che un proverbio uzbeco riassume l'agonia del lago d'Aral, un tempo quarto lago al mondo.
Situato in Asia Centrale tra l'Uzbekistan e il Kazakhstan, ha come affluenti l'Amu Darya e
il Syr Darya.
Si stima che questo, negli ultimi 40 anni ha perduto più della metà della sua superficie.
Tutto cominciò negli anni '60 quando l'Unione Sovietica, per contrastare la concorrenza
degli Stati Uniti, avviò la coltivazione di immense piantagioni di cotone e la produzione di
energia idroelettrica in una steppa incolta del Bassopiano Turanico. Per irrigarle vennero
deviati i corsi dei due principali affluenti su menzionati, furono costruiti canali a cielo
aperto che lasciavano evaporare la maggior parte dell'acqua trasportata, a spese del lago
che via via si andava prosciugando. La prevista produzione di cotone però fu al di sotto
delle aspettative a causa della salinità del terreno e richiese una sempre maggiore quantità di acqua.
La costa arretrava di 100-150 km ed i porti vennero abbandonati.
Ad oggi il volume del lago è diminuito del 75% ed il livello si è abbassato di 16 mt.
Circa 35.000 chilometri quadrati una volta occupati dal lago, sono ora un'area ricoperta di polvere salata (zona che
oggi viene chiamata deserto di Aralkum).
L'aumento della salinità del suolo, da 10 a 35 gr/lt (simile ai valori tipici del mare), ha modificato il microclima: in
inverno la temperatura scende sotto i 35° e in estate può raggiungere 50°, accelerando il processo di evaporazione
delle acque.
Le piogge sono diminuite di dieci volte.
Il delta, un tempo ecosistema unico, ora è scomparso, divenendo il più grande disastro ecologico a scala planetaria.
La fauna ha visto scomparire 140 delle 178 specie animali che lo popolavano, 26 sono in pericolo di estinzione; delle
24 specie marine ne sono rimaste solo 4, molte specie di piante e animali sono quasi estinte.
Il suolo è ricoperto di sali che, insieme alle scorie industriali, i fertilizzanti ed i pesticidi (tra cui il temuto DDT), vengono dispersi dal vento inquinando il lago ed i suoi affluenti.
Il 97% delle donne che vivono nella regione è affetto da anemia, partoriscono prematuramente e la mortalità infantile è di circa l'80 per mille (la media italiana è dell'8 per mille), molti neonati sono affetti da malformazioni.
Aumentano tubercolosi, colera, tifo, problemi respiratori, diarrea, insufficienza renale, vari tipi di tumori. Un grave
pericolo è causato dall'isola, ormai abbandonata, di Vozrozdenie, che sorge al centro del lago. Fino al 1992 c'era una
base segreta russa che sperimentava armi batteriologiche, in grado di produrre peste, vaiolo siberiano, brucellosi,
morva, febbre del Queensland, antrace. Una percentuale delle spore di quest'ultima è ancora attiva e potenzialmente mortale.
Se il livello del lago si abbassasse ulteriormente, l'isola si congiungerebbe alla costa facilitando gli spostamenti di
insetti, rettili e roditori, che potrebbero trasportare le spore dell'antrace sulla terraferma. Se accadesse, sarebbe difficile impedire la diffusione del terribile bacillo.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
NATURA
Oggi il lago d'Aral è diviso in due parti, unite da un piccolo lembo di terra: la più grande è a forma di ferro di cavallo, quella più piccola, situata a Nord, è chiamata Piccolo Aral.
Gli sforzi internazionali sono tesi a salvaguardare quest'ultimo, dato che il bacino più grande scomparirà entro 14
anni.
In questi anni gli studiosi di diversi paesi quali Kazakistan, Uzbekistan, Russia, Finlandia, Francia, Germania, Italia
e Spagna stanno studiando questa nuova "steppa" desertica per capire se sia possibile ricreare il vecchio letto del
lago, piantumando della specie autoctone e inserendo microrganismi che fissino l'azoto atmosferico. Un primo passo
è stato compiuto dal Kazakistan, che sta cominciando a controllare il flusso delle acque con nuove dighe e nuovi
canali, ottenendo un innalzamento dei livelli delle acque.
Quello che è rimasto oggi del lago Aral è dunque il risultato di una mancata cooperazione fra paesi che usufruiscono della stessa risorsa, stravolgendo un prezioso ambiente naturale, annullando secoli di storia e di tradizioni. Forse
sarà tardi per poterlo salvare completamente, ma questo ci ha insegnato l'importanza di usare con attenzione la
risorsa più preziosa che la natura ci ha donato: l'acqua.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
NATURA
I primi "conquistadores"
delle terre emerse
Ecco come è avvenuto
il passaggio dall’acqua alla terra
ALESSIA VESPA
Secondo la tesi più accreditata è negli oceani che si sono sviluppate le prime forme di vita.
Solo successivamente le terre emerse sono state colonizzate
dapprima da organismi vegetali e poi animali.
L'ambiente aereo aveva caratteristiche diverse da quelle che
oggi conosciamo: prima di tutto la composizione dell'atmosfera
dove predominavano vapore acqueo, anidride carbonica,
ammoniaca e metano, inoltre, almeno inizialmente, era priva di ossigeno.
Solo quando gli organismi inventarono la fotosintesi clorofilliana l'ossigeno, prodotto di scarto del processo, cominciò ad accumularsi e una volta diventato sufficientemente abbondante andò a costituire uno strato particolarmente
importante nell'alta atmosfera - l'ozono.
Quest'ultimo ha il compito di bloccare il passaggio dei raggi ultravioletti, nocivi per i viventi, preparando così il terreno per la colonizzazione terrestre (anche se comunque si dovrà attendere ancora del tempo affinché ciò si verifichi).
L'ambiente terrestre presentava da principio i seguenti vantaggi: era privo di competitori, le piante potevano meglio
catturare la luce rispetto all'ambiente acquatico, l'anidride carbonica era presente in maggiore concentrazione
rispetto agli oceani, ma d'altro canto oltre a questi benefici si devono considerare anche una serie di fattori limitanti che hanno influito portando ad una riorganizzazione degli esseri viventi.
Nell'acqua gli organismi sfruttano la spinta di Archimede per sostenersi mentre nell'ambiente aereo devono far fronte a una diversa forza, quella di gravità, per cui devono presentare una struttura di sostegno più robusta.
Nelle piante si sviluppa un apparato radicale con funzione sia di ancoraggio che di assorbimento e un sistema per il
trasporto dell'acqua e degli altri nutrienti. Negli animali invece si realizza un irrobustimento della colonna vertebrale e lo sviluppo di arti per una più efficiente locomozione.
Inoltre sulla superficie terrestre sia gli animali che le piante tendono a perdere liquidi e per tale ragione devono proteggere il loro corpo da un'eccessiva evaporazione.
Ed ecco comparire nelle piante la cutina e negli animali una corneificazione degli strati superficiali dell'epidermide.
Non sono esenti da tale pericolo gli embrioni per questa ragione si svilupperanno dei gusci a protezione (semi nelle
piante e uova amniotiche negli animali).
Tra gli animali i primi colonizzatori delle terre emerse sono considerati gli anfibi.
Tuttavia essi non sono completamente svincolati dall'ambiente acquatico. Osservando una rana o un rospo abbiamo
potuto notare che la sua epidermide deve essere costantemente mantenuta umida.
Infatti essa torna periodicamente in acqua per deporre le uova in quanto quest'ultime non sono munite di un guscio
che le protegge dall'essiccazione.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO NATURA
In primavera si osservano vere e proprie migrazioni in gruppo di rane e rospi verso stagni, pozze d'acqua ecc. con lo
scopo di riprodursi.
Quei "soavi" gracidii serali non sono altro che i richiami dei maschi per attirare le femmine nel territorio e dar luogo
alle danze dell'amore!
Gli anfibi hanno un ciclo vitale caratterizzato da due fasi una acquatica ed una terrestre. Ed è proprio in acqua che
trascorrono la prima parte della loro esistenza dove dall'uovo si schiude una larva, che negli anuri è detta girino, che
poi si trasformerà in un adulto terrestre.
A tutti noi è capitato almeno una volta di osservare, magari durante una passeggiata nei boschi, dei girini agitarsi
nelle pozze d' acqua.
Spesso ci è venuta la tentazione di raccoglierne alcuni e portarli a casa per condividere con essi la loro metamorfosi.
Cosa avremmo potuto osservare se avessimo fatto tale esperimento?
All'inizio avremmo avuto un girino dal corpo ovale allungato munito di una coda piuttosto robusta, senza una distinzione tra il capo e il resto del corpo. La larva è munita di branchie che svolgono una duplice funzione - respiratoria
e nutritiva. Al termine della fase larvale avremmo assistito ad una vera e propria riorganizzazione dell'organismo,
avremmo potuto osservare il girino perdere la coda e sviluppare gli arti. La metamorfosi però porta anche ad altri
cambiamenti morfologici e fisiologici come lo sviluppo dei polmoni al posto delle branchie e poi lo scheletro, che si
modifica profondamente per il nuovo stile di vita…tuttavia sempre in acqua la nostra rana dovrà tornare se vorrà far
perpetuare la sua discendenza.
L'acqua, quindi, non deve essere vista come una semplice molecola chimica, ma l'ambiente che ha dato origine alla
vita così come noi oggi la conosciamo e che tuttora rappresenta un mezzo dove avvengono reazioni vitali.
Ad uscire dall’acqua sono stati gli antenati degli attuali anfibi; il
passaggio è testimoniato dai ritrovamenti fossili, che mostrano le
prime tracce di adattamento all’ambiente aereo e le ultime vestigia di una vita completamente acquatica.
Quegli “animali di passaggio”, quei “conquistadores” oggi non
fanno più parte delle specie viventi.
Esiste però un “fossile vivente”, un “anello di congiunzione” importante - anche se non proprio diretto - nel passaggio tra pesci ed
esseri a quattro zampe: il celacanto (Latimeria chalumnae).
Pur essendo un pesce (che si credeva essere estinto da ottanta
milioni di anni!), il celacanto fa parte di quel gruppo di animali da
cui certamente si è evoluto il primo tetrapode; avere un rappresentante vivente da poter osservare vuol dire avere a disposizione delle
informazioni preziosissime anche su tutte quelle parti che non si
conservano con la fossilizzazione (tessuti molli, organi interni, composizione chimica...).
Anche se i tetrapodi probabilmente non derivarono direttamente dal celacanto, è comunque
affascinante poter guardare un animale rimasto praticamente identico a com’era prima che la
“ramificazione” avvenisse, ossia prima che alcuni temerari tentassero la colonizzazione delle
terre emerse.
Per leggere l’appassionante romanzo della scoperta del primo celacanto vivente, pescato per caso
al largo delle coste del Sudafrica nel dicembre del 1938, c’è “La storia del celacanto”, di Keith
Tomson, edito da Bompiani.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
BIZZARRIE
Roma
e i suoi acquedotti
Roma imperiale aveva
ben undici acquedotti
SIMONA CAPOGROSSO
Roma, sin dalla sua nascita, è strettamente legata all'acqua e non è esagerato affermare che senza il Tevere non ci
sarebbe stata Roma.
La presenza della foce del fiume come punto privilegiato di approdo al riparo dalle tempeste in centinaia di chilometri di costa tirrenica e l'esistenza dell'isola Tiberina come punto obbligato di passaggio dall'una all'altra sponda
hanno reso Roma la dominatrice incontrastata del Mediterraneo.
Il suo paesaggio è stato, ed è tuttora, caratterizzato dalla presenza del fiume Tevere, tra l'altro completamente navigabile sino all'Ottocento.
Per circa quattro secoli dalla sua fondazione, gli abitanti poterono contare solo sull'approvvigionamento idrico fornito dal Tevere, dalle numerose e piccole sorgenti locali nonché da pozzi. Roma è stata la città d'ogni tempo e d'ogni
luogo di gran lunga più ricca e meglio servita del prezioso elemento.
L'inquinamento del Tevere, sin dall'antichità e gli incostanti flussi delle varie sorgenti sotterranee, comportarono la
necessità di pensare a nuove soluzioni. L'aumento della popolazione residente e la maggiore richiesta di acqua per
alimentare le fontane e le terme di ville patrizie rese indispensabile ricorrere ad altri sistemi di rifornimento idrico,
anche da fonti lontane dalla città. Ebbe inizio, così, la progettazione e la costruzione di quelle imponenti opere che
sono gli acquedotti.
L'origine del termine latino da aqua e ductus: indica la sua funzione di essere un condotto per l'acqua, dalla sorgente al luogo di consumo, sfruttando le pendenze del terreno.
La costruzione degli undici principali acquedotti è stata graduale.
Un primo sistema tecnico per la raccolta e distribuzione dell'acqua fu realizzato scavando una rete di cunicoli sotterranei impermeabilizzati con malta idraulica, per convogliare le vene acquifere del sottosuolo; per le acque superficiali furono creati dei fossi di canalizzazione.
Il canale poteva pescare l'acqua direttamente da un bacino naturale, come il caso dell'acquedotto Alseatino, che era
alimentato dal lago di Martignano oppure direttamente dal fiume, come è il caso dell'Anio vetus che prendeva le
acque direttamente dall'Aniene, presso la stazione di Vicovaro; oppure, si costruivano delle vasche là dove sgorgavano le acque sorgive convogliando ordinatamente i loro rivoli in laghetti, come il caso dell'acquedotto Marcio.
L'acqua percorreva lunghi tragitti, anche decine e decine di chilometri, dovendo raccogliere le acque delle colline circostanti e trasportarle nelle città o, occasionalmente, nei campi a scopo di irrigazione, grazie all'ingegnosità dei sifoni invertiti e alla loro pendenza. La progettazione degli acquedotti doveva tener conto delle variazioni di quota dei
terreni attraversati per mantenere la giusta pendenza dei condotti, perciò, il percorso poteva essere sotterraneo o a
tratti esterno.
Il viaggio dell'acqua si concludeva quando entrava nelle città dove veniva raccolta in un serbatoio per l'erogazione
(castellum aquae) e poi una volta depurate, scorrevano in tubi diversi arrivando ad alimentare le fontane pubbliche,
uniche strutture per l'approvvigionamento idrico. Solo i nobili potevano permettersi il lusso di usufruire dell'acqua
direttamente in casa.
Il primo acquedotto in ordine di tempo fu quello dell'Aqua Appia, una condotta sotterranea della lunghezza di circa
16 km, realizzata durante l'amministrazione del censore Appio Claudio, da cui derivò il nome, verso il 312 a.C.e che
si può ammirare alla periferia di Roma.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
BIZZARRIE
L'acquedotto Anio Venus fu, invece, il primo acquedotto a portare in città l'acqua da regioni lontane e venne completato in tre anni, tra il 272-269 a.C., con il bottino ottenuto dalla vittoria su Pirro.
L'acquedotto dell'Aqua Marcia, costruito nel 144 a.C dal pretore Quinto Marcio Re, fu invece il primo acquedotto
romano non sotterraneo. Lungo complessivamente circa 90 Km, era dotato di una parte a ponti-canali di 16 Km. Il
pretore ebbe l'accortezza di non utilizzare direttamente l'acqua del fiume ma quella che scaturiva direttamente dalla
montagna e formava un gelido laghetto. Plinio il Vecchio racconta che l'acqua proveniente dall'acquedotto Marcio
era la migliore tra quelle che arrivavano a Roma tanto da essere ritenuta "un dono fatto all'Urbe dagli dei" e la più
adatta ad essere mescolata con il vino.
Gli acquedotti Aqua Tepula e Aqua Julia, realizzati nel 125 a.C. e nel 33 a. C., avevano le sorgenti situate nella zona
vulcanica dei Colli Albani. Il primo deve il nome alla temperatura, appunto tiepida, della sua acqua; l'altro al futuro
imperatore romano Caio Giulio Cesare Ottaviano, detto Augusto.
L'acquedotto Aqua Virgo, costruito nel 19 a. C., è l'unico acquedotto, dopo venti secoli, ad essere ancora in funzione.
L'Acqua Vergine è utilizzata per l'alimentazione di alcune delle più belle e celebri fontane romane: la Barcaccia, a
piazza di Spagna, la fontana di Trevi e quella dei Fiumi a piazza Navona.
L'acquedotto Aqua Alsietina fu voluto da Augusto nel 2 a.C.nelo stesso anno in cui l'imperatore fece costruire la
"Naumachia" del Trastevere, il grande bacino artificiale adibito agli spettacoli di finte battaglie navali. Esso prendeva l'acqua direttamente dal piccolo lago di Martignano, non potabile, proprio per alimentare esclusivamente la
Naumachia.
Nel I secolo d.C. Roma era diventata il centro dell'impero, controllava quasi tutta l'Europa occidentale e il bacino del
Mediterraneo. L'esigenza di soddisfare la concentrazione di persone e le necessità della corte imperiale portarono
alla costruzione dell'acquedotto Aqua Claudio, finito nel 52 d.C. Questo prese il nome dall'imperatore Claudio che
l'aveva realizzato con una notevole spesa dovuta alla mole dell'impresa, alle tecnologie e alla percentuale della mano
d'opera di lavoratori liberi. Le sorgenti principali si trovavano nell'alta valle dell'Aniene e fornivano un acqua molto
buona.
L'acquedotto Anio Novus, realizzato insieme all'acquedotto Aqua Claudio, prende il nome del fiume dal quale proveniva. L'aggettivo "novus" gli venne dato per distinguerlo da quello omonimo già in funzione da più di tre secoli,
che diventò , da quel momento, "vetus" cioè vecchio.
L'acquedotto Aqua Traiana fu fatto costruire dall'imperatore Traiano per servire il rione Trastevere; unica regione
urbana che a quel tempo mancava di un adeguato e autonomo rifornimento idrico.
L'acquedotto Aqua Alexandrina è l'ultimo degli undici grandi acquedotti dell' Antica Roma e fu realizzato nel 226
d.C., quasi cinque secoli e mezzo dopo il primo.
Gli acquedotti rappresentano, ancora oggi, la più tipica testimonianza dell'arte edilizia e ingegneristica dei Romani.
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MAGGIO
SCIENZA IN BIANCO E NERO
Le
“signorine molecole”
C’è stato un momento in cui
la scienza ai ragazzi si raccontava così...
DA: ENCICLOPEDIA
“IL TESORO”, 1939
Mettiamo un pezzo di ghiaccio in una pentola, e poniamo la pentola sul
fuoco.
Il ghiaccio pian piano se ne va tutto in acqua. Ecco: ora è tutto diventato acqua.
Continuando a scaldare la nostra pentola, vedremo dopo qualche minuto l’acqua bollire e, a poco a poco, andarsene verso l’alto, sotto forma di
vapore.
Il corpo ha, quindi, cambiato aspetto, cioè lo stato fisico, pur rimanendo intatta la sua sostanza.
Da ghiaccio è diventato acqua, da acqua vapore, secondo il diverso stato
delle sue particelle.
Vedremo infatti che tre sono gli stati fisici dei corpi: solido, liquido, aeriforme.
Che differenza di aspetto fra i tre stati dell’acqua! Eppure si tratta sempre dello stesso corpo.
Ma riflettete.
Allo stato solido di ghiaccio, le particelle di cui l’acqua è composta erano vicine vicine, strettamente unite e solidali
fra loro come buone sorelline, come se una forza occulta le legasse.
Allo stato di acqua, cioè allo stato liquido, le particelle erano più lontane e scorrevoli, facevano assumere al liquido
la forma del recipiente e la forza di unione tra loro era molto minore.
Nel vapore, poi, le particelle di acqua aspiravano addirittura alla libertà più assoluta e tendevano continuamente a
espandersi, a evadere, a fuggirsene via
Il diverso stato fisico dei corpi non dipende, dunque, che dalla maggiore o minore attrazione che le particelle hanno
tra loro, dalla maggiore o minore forza che le avvince a formare il corpo e che si chiama coesione.
E perchè queste particelle le incontreremo spesso nelle nostre chiacchierate, ve le presento addirittura: si chiamano
molecole.
Non dimenticate dunque le “signorine molecole”. Sono personaggi importanti, lo vedrete!
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MAGGIO
SCIENZA IL CIELO STELLATO
l’inserto di astronomia:
FirmaMento
Il cielo stellato al binocolo
in primavera - seconda parte
FRANCESCO DONATI
Proseguiamo questo mese il viaggio iniziato lo scorso aprile alla scoperta del cielo stellato da osservare con il semplice aiuto di un binocolo e, perché no, se volete anche ad occhio nudo.
Prima di addentrarci nell'osservazione vera e propria vogliamo dare altre informazioni e curiosità che saranno sempre utili al neofita per le sue osservazioni.
Le stelle che possiamo osservare in cielo appartengono tutte alla nostra galassia, la Via Lattea.
Osservando la volta celeste si ha la falsa impressione che tutte le stelle si trovino alla stessa distanza da noi, ossia che
si trovino tutte sullo stesso piano.
In realtà sappiamo che le stelle si trovano a distanze variabili dalla Terra; ce ne sono alcune che possiamo vedere
molto brillanti e luminose e che sono molto vicine a noi (in termini di distanza astronomica), mentre altre si trovano veramente molto distanti della Terra. Ciò nonostante molte stelle, seppur lontanissime, sono molto grandi e luminose cosicché la loro luce riesce ad arrivare sino a noi e possiamo comunque vederle magari anche solo come puntini appena visibili.
La posizione delle stelle su questo piano virtuale che è la volta celeste fa sì che esse formino delle figure che sin dall'antichità l'uomo ha sentito l'esigenza di interpretare.
In questo modo le stelle sono state raggruppate in porzioni della volta celeste chiamate Costellazioni. Al di là di questo, l'uomo ha sentito anche l'esigenza di dare un NOME alle stelle osservate nel cielo.
I nomi delle stelle
I sistemi per identificare le stelle sono più di uno, come conseguenza una stella può essere indicata con più di un
nome. Le stelle più brillanti e più evidenti del cielo hanno avuto sin dall'antichità dei nomi di origine araba, latina o
greca. Basti pensare ad alcuni nomi che a molti suoneranno sicuramente familiari come ad esempio Sirio nel Cane
Maggiore, oppure Vega nella costellazione della Lira. Il nome proprio dato ad una stella ha chiaramente un significato e lo scopriremo nel corso delle varie "puntate" di questa rubrica parlando dei vari astri di volta in volta. Per il
momento citiamo solo come esempio la stella Antares nella costellazione dello Scorpione: il nome viene dal greco
(anti-Ares) e significa "il rivale di Marte", ciò a causa del suo evidente colore rosso che la fa appunto rivaleggiare con
il colore del pianeta del nostro sistema solare.
Al di là del nome proprio, le stelle più brillanti di ogni costellazione sono indicate da una lettera greca seguita dalla
forma genitiva del nome della costellazione di cui fanno parte. Generalmente (ma non sempre) la stella più brillante della costellazione viene indicata con la lettera alfa, la seconda più brillante con la lettera beta, la terza gamma e
così via.
Consideriamo le stelle di cui abbiamo parlato la volta scorsa: la stella Polare è Alfa Ursae Minoris, Arturo è Alfa
Bootis, Gemma (o Alphecca) è Alfa Coronae Borealis. Questo metodo di nomenclatura fu introdotto da Johann Bayer
nel 1603.
Non spaventatevi quindi. Per osservare il cielo non è necessario imparare la lingua greca; sarà sufficiente avere
dimestichezza con le lettere dell'alfabeto soprattutto se vi capiterà di sfogliare qualcuno dei tantissimi atlanti e cataloghi stellari che sono in circolazione.
L'alfabeto greco è però composto da 24 lettere,un numero cioè chiaramente insufficiente per poter nominare tutte
le stelle (anche solo quelle visibili ad occhio nudo). L'astronomo di casa reale inglese John Flamsteed introdusse successivamente a Bayer, un catalogo stellare in cui le stelle sono indicate da un numero progressivo. In questo caso
però la numerazione non è coincidente con la luminosità della stella ma segue un ordine da destra a sinistra per chi
guarda il cielo (esempio: la stella Arturo non è 1 Bootis ma è 16 Bootis).
Esistono poi cataloghi specifici per particolari tipi di stelle. Ad esempio le stelle variabili (vengono così nominate
tutte quelle stelle il cui splendore non è costante nel tempo ma presenta variazioni di periodo diverso da poche ore
a molti anni) vengono indicate con lettere dell'alfabeto romano, ad esempio R Leonis.
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MAGGIO
SCIENZA IL CIELO STELLATO
Quando tutte le possibili combinazioni di lettere sono esaurite si usa indicare le stelle variabili con la lettera V seguita da un numero.
Infine, con lo sviluppo di telescopi sempre più potenti si è avuta l'esigenza di catalogare tutte le tantissime stelle
osservate. Due cataloghi oggi molto usati sono il catalogo HD (Henry Draper catalogue) e il catalogo SAO
(Smithsonian Astrophysical Observatory Star Catalogue) pubblicato nel 1966.
La scala di Luminosità
Per indicare la luminosità di una stella si usa la scala di luminosità o magnitudine. Fu introdotta dall'astronomo
greco Ipparco già nel II secolo a.C. In questa scala le stelle più luminose hanno il numero di magnitudine più basso
rispetto a quelle meno luminose che lo hanno più alto. Inoltre, se la differenza di luminosità tra due stelle è di 100
volte, significa che la stella più luminosa delle due ha numero di magnitudine 5 volte più piccolo rispetto all'altra
(una stella di magnitudine 1 è 100 volte più luminosa di una stella di magnitudine 6 e 10000 volte più luminosa di
una stella di magnitudine 11; la stessa stella di magnitudine 1 è 10 volte più luminosa di una stella di magnitudine
3,5 e così via ). La scala di magnitudine è quindi una scala logaritmica in cui ogni differenza di una magnitudine corrisponde in termini di luminosità alla radice quinta di 100 il cui valore è circa 2,5. Da ciò ne consegue anche che alle
stelle più luminose oltre 2,5 volte di quelle di magnitudine 1 si danno valori di magnitudine negativi.
Per definizione è stato dato alla stella polare il valore di magnitudine pari a +2.
Considerate che ad occhio nudo è possibile osservare stelle fino alla sesta magnitudine. Con un binocolo si può arrivare ad osservare stelle fino alla nona magnitudine, con un piccolo telescopio amatoriale ci si può spingere fino alla
undicesima magnitudine, con un telescopio semiprofessionale si può arrivare perfino alla quindicesima magnitudine.
La scala di luminosità viene usata per le stelle ma altrettanto usata per tutti gli astri del cielo (pianeti, comete) e per
tutti gli oggetti stellari diffusi tipo ammassi, nebulose e galassie, ed è utilizzata anche per la nostra Luna, la quale nei
giorni di massima luminosità (quando è piena per capirci) raggiunge valori di magnitudine elevatissimi dell'ordine
di -12, -13 etc.
C'è però da dire che questa misura della luminosità di un astro è solo una misura "relativa" ma non è una misura
assoluta, vale a dire che non ne viene stimato l'effettivo splendore che corrisponde a sua volta alla energia irraggiata dall'astro stesso. Il motivo è dovuto alla differenti distanze che i vari astri hanno dalla Terra. È chiaro che gli astri
a noi più vicini ci sembreranno più splendenti di quelli che si trovano molto lontani. La stella Sirio rappresenta un
esempio tipico: essa brilla sfavillante nel cielo invernale ed è luminosissima, ma tale luminosità è dovuta essenzialmente alla sua vicinanza alla Terra; in termini assoluti non è assolutamente una stella molto brillante.
Si definisce allora la magnitudine assoluta come la magnitudine che una stella avrebbe se fosse posta ad una distanza dalla Terra che convenzionalmente è di 10 Parsec (equivalgono a circa 33 anni luce). Magnitudine assoluta (M),
magnitudine relativa (m) e distanza (d) di una stella sono collegate dalla seguente relazione:
m-M = -5 + 5 log d
Questa relazione è fondamentale per gli astronomi; conoscendo infatti la distanza di una stella e misurandone la
magnitudine relativa in modo abbastanza agevole tramite un fotometro, si ricava facilmente la magnitudine assoluta che è un parametro fondamentale per studiare qualsiasi astro del cielo.
Adesso che abbiamo appreso altre nozioni basilari di astronomia passiamo alla nostra attività preferita: andiamo ad
osservare!!
Venere di sera
La sera, poco dopo il tramonto, osservate il cielo ad ovest. Noterete un astro luminosissimo far bella mostra di se. È
il pianeta Venere che all'inizio del mese sta transita nella costellazione del Toro, dall'otto maggio entra nei Gemelli
e vi rimane per tutto il mese. Intorno alla metà del mese lo potrete osservare agevolmente fin verso le dieci di sera.
Di tutti i pianeti osservabili facenti parte del sistema solare, Venere è il più luminoso. La ragione è duplice.
Innanzitutto la sua vicinanza: è infatti il pianeta del sistema solare più vicino alla nostra Terra. In secondo luogo,
Venere possiede una altissima capacità di riflettere la luce solare. Il 75% della luce che lo colpisce viene infatti riflessa. Nessun altro pianeta del sistema solare raggiunge un potere riflettente (albedo) così alto. Il motivo è dovuto alla
sua atmosfera, talmente densa da impedire qualsiasi osservazione della sua superficie.
Venere è il pianeta più simile alla Terra in termini di caratteristiche generali. Il suo diametro è di circa 24300 Km
(praticamente poco inferiore a quello della Terra); come la Terra è un pianeta di tipo roccioso, la sua densità è il 95%
di quella della Terra, la sua massa circa l'85%. Insomma vista in questi termini si tratta di un pianeta gemello della
Terra che per giunta è anche il più vicino come detto poco fa.
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MAGGIO
SCIENZA IL CIELO STELLATO
E allora, qualcuno potrebbe chiedersi, come mai se le cose stanno così non si sente mai parlare di una possibile missione per far sbarcare sulla superficie del pianeta esseri umani così come è stato fatto sulla Luna? Perché tutte le
attenzioni sono rivolte alla possibile colonizzazione di Marte, che è più lontano di Venere dalla Terra?
C'è una ragione molto plausibile per questo: Venere è nella realtà dei fatti un pianeta infernale.
A dispetto della sua bellezza visiva, questo pianeta presenta condizioni ambientali e climatiche assolutamente letali
per gli esseri umani. La sua atmosfera è praticamente fatta di anidride carbonica (per il 95%) che come sappiamo è
tossica per l'uomo. Per il resto è presente azoto con tracce di ossigeno, e anidride solforica. Il pianeta è perennemente ricoperto da nubi ed è presente un effetto serra spaventoso. La superficie del pianeta è spazzata da venti fortissimi, piogge acide di acido solforico e fluorosolforico (uno dei liquidi più corrosivi in assoluto) si abbattono costantemente insieme a temporali molto forti. La temperatura alla superficie è talmente elevata da fondere il piombo. Anche
la pressione è elevatissima. Pensate che le poche sonde che sono state inviate su Venere hanno smesso di funzionare dopo pochi minuti dall'atterraggio disintegrandosi. Altro che pianeta gemello! Chi vorrebbe andarci in un posto
così?
Questo ostile ambiente venusiano ci spinge a fare alcune considerazioni. Astronomi e planetologi sono concordi nel
dire che la Terra e Venere hanno avuto una origine simile. La loro evoluzione però è stata molto diversa. Secondo
alcuni studiosi Venere potrebbe essere un esempio di come poteva essere la Terra negli stadi giovanili della sua evoluzione almeno tre miliardi di anni fa. Anche la nostra atmosfera infatti era fatta di anidride carbonica. Ma per cause
ancora non chiare, sulla Terra si sono sviluppate le prime forme rudimentali di vita da cui si sono sviluppati i primi
organismi fotosintetici. Questi hanno cominciato a produrre ossigeno al punto che la composizione dell'atmosfera
della Terra è cambiata (per nostra fortuna). Da questo momento in poi i destini della Terra e di Venere sono cambiati radicalmente.
Ma attenzione, secondo molti studiosi, Venere rappresenta anche un modello che deve metterci in guardia su quali
potrebbero essere le conseguenze dell'instaurarsi dell'effetto serra sul nostro pianeta. La ragione dell'altissima temperatura presente su Venere è dovuta solo in minima parte alla sua maggiore vicinanza al Sole rispetto a noi. Basti
pensare che Venere riceve dal Sole appena il doppio dell'irraggiamento che riceve la Terra. Una differenza di insolazione dello stesso ordine è quella che per esempio esiste tra il nord europa e i caraibi, ma tra essi non c'è di certo una
così alta differenza climatica come esiste tra la Terra e Venere. E allora è chiaro che tutto è riconducibile all'effetto
serra. In definitiva, Venere ci invia suo malgrado un messaggio chiaro, quello di porre la massima attenzione alla salvaguardia dell'ambiente e del clima qui sulla Terra dato che le conseguenze potrebbero essere irreparabili.
La costellazione del Leone
Nel cielo di sud-ovest non vi sarà troppo difficile localizzare la bella e vasta costellazione del Leone. È una costellazione tipicamente primaverile ed una delle poche la cui figura in cielo ricorda proprio l'animale da cui prende il
nome. Annualmente culmina (ossia raggiunge il punto più alto in cielo) i primi giorni di marzo, ma la si può osservare per i primi sei mesi dell'anno. Si trova attualmente abbastanza alta in cielo ed è facilmente visibile alla sinistra
del pianeta Saturno (che vi sta appunto transitando) che abbiamo imparato a localizzare lo scorso mese.
La costellazione del Leone, come tutte le costellazioni zodiacali, ha origini molto antiche. Il Sole transita nel leone
tra luglio ed agosto, ossia nei mesi più caldi dell'anno; da qui l'espressione che ci è molto familiare "solleone". Per
tale motivo gli antichi Babilonesi associavano il Leone al Sole.
In termini mitologici la costellazione rappresenta il Leone di Nemea, un animale dalla pelle invulnerabile che quindi non poteva essere ucciso. Il Leone attaccava gli abitanti di Nemea e ne devastava il territorio. Ma ad Ercole furono comandate 12 imprese, le famose dodici fatiche, di cui la prima fu proprio il salvataggio degli abitanti di Nemea.
Ercole inseguì il Leone fin dentro la sua tana riuscì ad ucciderlo strangolandolo, poi lo scuoiò e con la sua pelle si
fece un mantello.
L'asterismo principale che si osserva nella costellazione del Leone è la falce, che ha la forma di un punto interrogativo rovesciato. È composta da 7 stelle che qui elenchiamo a partire dalla più bassa e luminosa:
Alfa Leonis (Regolo, 32 Leonis, SAO 98967 per usare tutta la nomenclatura di cui abbiamo parlato) è di magnitudine 1,3. E' la stella principale della costellazione e il nome derivato dal latino significa "Piccolo Re". Questo nome
fu attribuito dal famoso astronomo e cosmologo polacco Copercnico ma non ha nessun riferimento con il guerriero
romano delle guerre puniche, né tantomento con il genere dei piccoli uccelli insettivori dell'ordine dei passeriformi.
È una stella che è stata osservata sin dall'antichità: l'antico popolo mesopotamico degli Accadi la chiamavano Amil
gal ur ("Il Re della sfera celeste"), i babilonesi la chiamavano Sharru ("il Re"),
il nome arabo è invece Kabeleced che significa "Cuore del Leone".
È distante dalla Terra 78 anni luce, è 4 volte più grande del nostro Sole e 120 volte più luminosa. La sua temperatura superficiale è 13400 gradi Kelvin, è quindi molto calda e il suo colore vi apparirà bianco-azzurrognolo.
Regolo ha una piccola stella compagna di magnitudine 8 che è legata gravitazionalmente alla principale.
Eta Leonis, 3,5m. distante ben 2000 anni luce e 15000 volte più luminosa del Sole.
Gamma Leonis (Algieba, "la criniera"), 2,6m di colore arancione. È una bellissimo sistema costituito da due
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MAGGIO
SCIENZA IL CIELO STELLATO
stelle che girano l'una intorno all'altra in 620 anni circa. La stella secondaria ha magnitudine 3,5. Si trovano a 90
anni luce da noi. La separazione angolare di queste stelle è però troppo piccola per permettere al vostro binocolo di
poterle vedere separate. Comunque col binocolo si può osservare una stella vicina indipendente di magnitudine circa
5, si tratta di 40 Leonis.
Zeta Leonis (Adhafera, ma anche chiamata Al Jabhah "La fronte") 3,6m. E' addirittura una stella tripla. Al binocolo sembrerebbe avere due compagne di magnitudine circa 6 e che si trovano a distanze differenti.
Mi Leonis (Rasalas) 4,0m.
Epsilon Leonis (Ras Elased Australis, "La metà superiore della testa del Leone") 3,1m, si trova a 300 anni luce. È
una stella gigante di colore essenzialmente giallo.
Lambda Leonis (Alterf), 4,5m.
Il resto della costellazione è costituito da 3 stelle abbastanza brillanti:
Beta Leonis (Denebola, ossia "Coda del Leone"), 2,2m 16 volte più luminosa del Sole si trova abbastanza vicino alla
Terra a soli 39 anni luce ed è di colore bianco. Il nome Denebola è per così dire il nome con cui questa stella è conosciuta solo ai giorni nostri, il nome originario era Al Dhanab al Asad ("La coda del Leone" appunto) ed era considerata un astro dalle influenze maligne.
Delta Leonis (Zosma). Il nome deriva dal greco e significa "il ginocchio". La storia del nome è abbastanza curiosa.
Il termine Zosma fu trovato nelle tavole degli astronomi persiani ma il nome non corrisponde alla posizione della
stella nella figura della costellazione ( che si trova sul dorso dell'animale vicino alla coda). Ha magnitudine 2,6 ed è
distante 52 anni luce.
Teta Leonis (Chertan "Le due costole" ma la traduzione non è certa) 3,4m. Distante 175 anni luce
C'è una stella molto particolare che non fa parte dell'asterismo che ricorda la figura del Leone. Si tratta di R Leonis.
La lettera R ci dice che è una stella variabile, ossia una stella che può cambiare la sua luminosità nel tempo. Non si
trova molto distante da Regolo, è una stella gigante di colore rosso cupo e la sua luminosità cambia con periodo di
circa 310 giorni dalla magnitudine 4,4 (visibile ad occhio nudo) alla magnitudine 11,3 (invisibile anche con binocoli
e piccoli telescopi!!). Dista dalla Terra circa 600 anni luce.
Parlando della costellazione del Leone abbiamo incontrato due tipologie di stelle: le stelle doppie e le stelle variabili. Parleremo presto di questi tipi di stelle perché sono tra gli oggetti preferiti degli osservatori e soprattutto perché
sono molto comuni nell'universo. Il nostro Sole comunque (e per nostra fortuna!!) non è né una stella doppia né tantomeno una stella variabile.
Infine, non molto distante da Algieba in direzione nordovest si trova il radiante di origine dello sciame meteorico
delle Leonidi. È un sciame di meteoriti abbastanza famoso (ma non quanto quello delle Perseidi della notte di San
Lorenzo) che raggiunge il massimo di intensità in novembre e che ad intervalli di circa 33 anni raggiunge un alto
livello di spettacolarità. Il motivo di questa cadenza trentennale è dovuto al fatto che le Leonidi sono il risultato della
disintegrazione progressiva della cometa Temple-Tuttle la cui orbita passa vicino a quella della Terra proprio con un
periodo di 33 anni. A causa del vento solare la cometa perde particelle lungo la propria orbita e quando la Terra
incrocia l'orbita della cometa cattura queste particelle che entrando nel campo gravitazionale terrestre ionizzano l'atmosfera producendo una scia luminosa.
LA
per
l’osser vazione
della
luna di
maggio
consul tare la
versione
on-line!
COSTELLAZIO-
LEONE E
SATURNO LA SERA
DEL 15 MAGGIO
ALLE
ORE
23
CIRCA
CONSIDE RANDO
ROMA
NE DEL
COME
LUOGO
DI
OSSERVAZIONE.
VENGONO
RIPOR-
TATI I NOMI DELLE
STELLE PIÙ IMPORTANTI E LA VARIABILE
R LEONIS.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
NATURA
La pianta
dell’acqua
quando è necessario
trovare l’acqua dove c’è
DA:
“FLORARIO” DI ALFREDO CATTABIANI
Il “cardo dei lanaioli” ha la particolarità di avere le grandi foglie opposte che si saldano alla base, formando una
piccola riserva di acqua piovana.
Per questo motivo venne denominato botanicamente
Dipsacus fullonum, dove il primo termine è la traduzione
del greco dipsàkos, che deriva dal verbo dipsào, ho sete;
mentre il secondo deriva dal latino fullo, fullonis, che
significa “sgrassatore di panni”, perchè le pagliette spinose dei capolini della specie coltivata servono nell’industria tessile per cardare la lana, cioè per eliminare la
borra superficiale dei tessuti.
Anticamente, la pianta era detta Lavacrum Veneris,
nome che si riferiva probabilmente alle “coppe”
vegetali (ossia le basi delle foglie, saldate a coppa)
dove gli insetti, che vi rimanevano intrappolati,
annegavano nell’acqua piovana per essere demoliti
da batteri.
Forse proprio per questa sua capacità di combattere
e distruggere gli insetti, l’acqua del cardo lanaiolo
veniva raccolta nei fusti e considerata curativa.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO BIZZARRIE
I molini
sul Tevere
sul “biondo fiume”
ce n’erano in abbondanza
GISELLA PACCOI
Sono in molti ad essersi occupati del Tevere, sotto i
più diversi aspetti; quasi nessuno, però, ha menzionato una presenza che fino a poco più di un secolo fa
caratterizzava la fisionomia di questo fiume, quella dei
mulini (o “molini”, come sono chiamati in romanesco).
Queste strutture, quasi sempre in legno, erano presenti lungo tutto il corso del Tevere e anche sui corsi d’acqua minori che attraversavano la città (e che ora, a
loro volta, sono scomparsi, incanalati nei collettori
principali o rinchiusi in condotte sotterranee).
Qualche molino era destinato alla macinazione di
materie prime “industriali”, come ad esempio l’indaco, il guado e la robbia, ossia i colori che potevano tingere le stoffe. Il “molino” per antonomasia, però, a
Roma era quello da grano.
In tarda età imperiale era quasi certamente in funzione un molino nelle terme di Caracalla; di sicuro, comunque, a
partire dall’età di Traiano comparvero molini sulla pendice del Gianicolo che da San Pietro in Montorio scende ripida verso il Tevere. Essi sfruttavano la potenza dell’acqua che l’imperatore aveva captato dai monti Sabatini grazie ad
un acquedotto (lo stesso che, molti secoli dopo, sarà ripristinato da Papa Paolo V Borghese con il rinforzo dell’acqua
proveniente da Bracciano.... e che a Roma è sempre stato tenuto in bassissima considerazione, tanto da dar vita al
detto, per indicare una cosa inutile: “E che cce fai? L’Acqua Paola?”).
Data la portata dell’acquedotto e la potenza dell’acqua in rapida caduta, quei molini hanno prodotto una parte rilevante dela farina consumata a Roma, fino a quando non sono stati resi inattivi dall’assedio di Roma da parte dei Goti,
nel 537 d.C., che volevano privare i cittadini e soprattutto i soldati bizantini, guidati da Belisario (inviato da
Giustiniano a riconquistare l’Italia), di un bene così prezioso.
Per ovviare al problema di macinare il grano ammassato nei magazzini, il generale Belisario ebbe l’idea di sfruttare
la corrente del Tevere; fece quindi collocare in mezzo al fiume una coppia di barche ancorata alle due sponde, e in
mezzo a loro una grande ruota che, azionata dalla corrente, faceva girare macine ospitate dalle barche.
Ormeggiata a questa prima “mola” collocò a valle una seconda coppia di barche, anch’essa con macine e ruota e così
via; e con questa lunga teoria di molini galleggianti, che partivano probabilmente dai ponti dell’Isola TIberina, fu
risolto il problema annonario.
Le pesanti pietre da macina delle mole del Gianicolo furono trasferite dunque sulle barche, per riprendere a funzionare senza che gli assediati restassero “a secco” di farina.
Così, dunque, nacquero i molini galleggianti sul Tevere; ma quelli di cui ci è stata tramandata l’immagine non si
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO BIZZARRIE
trovavano “al centro del fiume”, ma piuttosto accostati alle rive per consentire un più facile trasporto del grano in
entrata, e della farina in uscita, operazione, questa, che dall’Alto Medioevo e fin quasi alla metà dell’Ottocento si
faceva a dorso d’asino o di mulo fin dentro le barche.
Per quanto robustamente ancorati alla riva, i molini erano soggetti alla minaccia delle ricorrenti alluvioni.
Già nel 1557 e nel 1598 (anno, questo, della terrbile piena che spezzò il Ponte Emilio), la furia della corrente strappò dagli ancoraggi e trascinò via alcuni molini, che si andarono ad incagliare sotto i ponti, impedendo il deflusso
delle acque e aumentando il pericolo in città finchè non si sfasciarono.
Uno storico, alla data del 6 aprile 1725 registrò: “essendo in questi giorni cadute fuori delle piogge e soffiando venti
sciroccali, il Tevere si era gonfiato oltremodo e, portando la corrente gran legname, questo si era fermato alla conocchia del nuovo molino fatto all’Orso, in modo che furono obbligati a disfarla a forza di accetta e si teme che non possa
più servire, posta in quel luogo”.
Anche le “conocchie”, quindi, ossia le palizzate messe nel fiume per convogliare maggior acqua verso la ruota, erano
estremamente pericolose. Nel Settecento, due ingegneri inviati dal Papa riferivano che esistevano “tante palizzate
che si vedono fatte nel Fiume per uso di dette mole, alcune di esse non necessaria ma ideata dal capriccio per l’interesse de’ Padroni de’ Molini”, e che tali palizzate “si dovrebbero rimuovere tutte, trasportando altrove i Molini”.
Il carattere “bizzarro” del Tevere viene bene descritto nel diario dello storico Valesio, alla data del 23 maggio 1706.
Valesio racconta che all’ambasciatore della Repubblica di Venezia era stata donata una gondola, e che alcuni suoi
servitori avevano deciso di provarla sul fiume. Il Tevere, però, non è la Laguna, e l’imbarcazione fu travolta dalla corrente; gli improvvisati fiumaroli finirono tra le pale di un molino.... che, per fortuna, essendo domenica era fermo.
Con la piena del dicembre 1870 i molini del Tevere scompaiono.
In parte fu a causa dell’impressione causata da tre mole portate via insieme, in parte fu anche per fattori economici, come le conseguenze di un bando del 1847 che aveva vietato il trasport di farina e di grano a dorso di animale da
soma, obbligando al trasporto con carri che non potevano transitare sulla stretta “scala” che conduceva dalla ripa al
molino.
Ad eliminarli non fu, in modo diretto, la costruzione dei muraglioni, ma certo è che essa ha reso impossibile ricostruirli.
La storia ultracentenaria dei molini galleggianti sul Tevere finisce dunque subito dopo che
Roma è diventata capitale d’Italia.
Ancora per poco tempo resteranno delle tracce,
in muratura, a ricordare il luogo dove un tempo
era ancorato un molino e girava la grande
ruota.
Poi, con la trasformazione ambientale provocata dalla costruzione dei muraglioni, dalle mole
sparirà anche il ricordo, per buona pace della
maggior parte dei romani.. che, a quanto pare,
non avevano un rapporto così stretto con il
fiume e con le strutture che su di esso sorgevano.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
ARTE
LA NATURA NELL’ARTE
LA FOTO DEL MESE
I temi naturali
dell’arte egizia
La paziente arte
di un corso d’acqua
La civiltà egizia si è sviluppata lungo le sponde del fiume
Nilo: la sua arte non può non contenerne traccia
Il fiume Nera, in Umbria, incide nelle rocce i segni
del proprio passaggio
Se si pensa all’arte
degli antichi Egizi,
perlopiù si visualizzano le piramidi, come
espressione dell’architettura, e le figure
umane a due dimensioni nella pittura.
Certamente
quelle
sono le forme più note
e più frequenti, ma
nell’arte egizia si trovano anche dei bellissimi esempi di raffigurazioni di
esseri viventi, sia animali che piante, sia veri che mitologici.
Un esempio di quest’ultimo gruppo è dato dall’Araba
Fenice, come questa trovata in un’incisione nella tomba
di Irenefer e risalente alla XIX-XX dinastia.
Tra le sculture che simboleggiano piante, le più note
forse sono le
colonne del tempio di Karnak, i
cui capitelli si
allargano come le
foglie dei papiri
che affondano le
proprie radici nel
limo del Nilo e
che
crescono
rigogliosi anche
mantenendo il
fusto parzialmente sommerso.
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Appena prima di arrivare a Terni, quando già ha ricevuto “l’amoroso abbraccio” del Velino, che vi si getta
creando la cascata delle Marmore, ed è già stato frastornato dalle dighe dell’Enel, che lo hanno rallentato in
tutti i modi, il fiume Nera (anzi, “la” Nera, come lo chiamano da quelle parti) si diverte ad incidere tracce del
proprio passaggio come un artista egocentrico.
Quando può, ossia quando l’uomo non riduce la sua
portata a poco più di un rigagnolo (come in questo
caso), il fiume lascia la traccia di tutti i mulinelli e i piccoli gorghi che si creano quando scorre su questi massi.
MAGGIO
SFOGLIAMENTO
NATURA
Una danza perfetta
per l’amore di un’estate
Ogni anno, in primavera, si ripete
la danza nuziale degli svassi
GISELLA PACCOI
Parlando di acqua, è d'obbligo citare uno degli abitanti più eleganti dei fiumi e dei
laghi, ossia lo Svasso maggiore (Podiceps cristatus), un bellissimo uccello facilmente riconoscibile dal collo lungo, dalle guance rosso-fulve e dalla cresta nera.
Il Maggiore è il più grande tra gli svassi europei, con i suoi 45-60 centimetri e l'apertura alare di 60-70 cm. Nel diciannovesimo secolo, era cacciato per il suo folto
piumaggio (le caratteristiche piume della cresta venivano utilizzate come decorazione in alcuni capi d'abbigliamento), tanto da aver rischiato l'estinzione in diverse zone dell'Europa.
Il suo nome scientifico vuol dire letteralmente "piede nella regione posteriore" (cristatus non ha bisogno di traduzione!), perché le zampe si trovano piuttosto indietro, nel corpo, come adattamento al nuoto e alle immersioni.
In effetti, è un eccellente nuotatore: si può facilmente osservare sparire sott'acqua
per quasi un minuto per catturare pesci, crostacei e altre prede. In genere si immerge a una profondità di 2/4 metri,
ma è in grado di raggiungere anche acqua molto più profonde, anche -20 o -30 metri. Durante il nuoto, si muove
esclusivamente grazie al movimento delle zampe, e raggiunge velocemente la preda. Anche quando si sente minacciato, preferisce nuotare piuttosto che volar via; può nuotare sott'acqua per più di 100 metri.
E' particolarmente noto per il suo complicatissimo rituale di corteggiamento, che viene anche chiamata "danza dello
specchio" o "delle erbe".
In effetti, così come i danzatori eseguono una successione di posizioni ben precise, in armonia l'uno con l'altro e
seguendo un certo ritmo, allo stesso modo i due svassi ripetono una serie di figure ben precisa; un "errore" determina addirittura l'interruzione del corteggiamento e la ripresa dall'inizio, proprio come due atleti umani.
All'inizio del corteggiamento, il maschio si avvicina alla femmina esibendo il suo ciuffo ed assumendo la "posizione
del gatto", con il collo proteso in avanti, le ali allargate ed il corpo il più possibile abbassato; quindi, emette un primo
richiamo.
Quando la femmina lo raggiunge, i due cominciano a muovere specularmente la testa a destra e a sinistra, fermandosi di tanto in tanto per guardarsi.
Questa fase ha termine con la cosiddetta "danza del pinguino", quando
entrambi si tuffano in acqua simultaneamente per raggiungere il fondale
dello specchio d'acqua e risalgono, in un sorprendente sincronismo, portando nel becco ciascuno delle erbe acquatiche, come un'offerta reciproca di
cibo, e si ergono sull'acqua scambiandosi i doni.
Lo scopo di questo elegante rituale di corteggiamento non è l'accoppiamento, che avviene alcune settimane dopo, ma il rafforzamento del loro legame
"affettivo" o, per meglio dire, l'accertamento dell'effettiva appartenenza alla
stessa specie e della "fedeltà" reciproca… almeno per tutto il periodo della
cura della prole! Una volta deposte le uova (in un nido che solitamente è
una struttura galleggiante costruita vicino a canne, rami o altri supporti, in
qualche modo ancorato alla sponda), queste vengono covate da entrambi i
genitori, che poi portano i piccoli ancora inetti sul dorso.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
BIZZARRIE
Un naso
perennemente raffreddato
Storia e curiosità
dei “nasoni”, le fontanelle di Roma
GISELLA PACCOI
I romani, si sa, hanno da sempre l’abitudine di “ribattezzare” gli oggetti piccoli e grandi relativi alla loro città.
Ecco quindi che l’Altare della Patria diventa la “macchina per scrivere” (sfido chiunque a non
vedere la somiglianza... naturalmente con una olivetti primo modello!), il Palazzo di
Giustizia è conosciuto come il “palazzaccio”.. e le fontanelle, quelle di ghisa, vengono chiamate “nasoni” per via del caratteristico cannello ricurvo.
Queste fontane, tipiche di Roma, furono installate per la prima volta nel 1874, per iniziativa
dell'allora assessore Rinazzi, ed erano dotate di tre bocchette a forma di testa di drago. Ne
resta ancora traccia in quella, storica, che si trova all’inizio della scalinata di via delle Tre
Cannelle, appunto.
In seguito però, i “nasoni” di nuova installazione vennero realizzati con un semplice cannello liscio; per il resto, ancora oggi il modello è sempre lo stesso, caratterizzato dal tipico foro
superiore per bere.
Ogni nasone è alto 120 cm e pesa 100 kg; nel comune di Roma i "nasoni" sono circa 2.000,
dei quali 378 all'interno delle mura.
I cosiddetti “nasoni della lupa imperiale”, invece, sono fontanelle in travertino, così chiamate per via della testa di lupa dalla quale sgorgava l’acqua; attualmente ne restano circa una settantina, salvate - per ora - dai
vandali, perlopiù conservate nei giardini e nelle ville storiche.
Ai nasoni Aldo Tomassini ha dedicato un sonetto che ha ricevuto il primo
premio al concorso per la poesia romanesca "ROMEO COLLALTI" 1990:
LA FUNTANELLA
Che c'è de mejo de 'na funtanella
a Roma quanno incoccia la calura?
Pare 'na cascatella in miniatura
e t'arilegri solo ner vedella.
Co' l'acqua che viè giù da la cannella,
su quer metro quadrato de frescura,
te poi riconcijà co' la natura:
opri la bocca e bevi a garganella.
E si j'attappi er bucio co' la mano
l'acqua schizza defora dar bucetto
e lo zampillo ariva ar primo piano.
Allora puro quanno ch'è sereno,
tra lo sbrilluccichio de quell'archetto
ce pòi vedé spuntà l'arcobbaleno.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
ARTE
Gelida
passione
il ghiaccio permette
espressioni artistiche uniche
GISELLA PACCOI
E’ proprio vero: alla passione non si comanda.
Quando la creatività chiama, quando “urge” esprimersi, qualunque materiale si abbia a disposizione va bene.
Anche il ghiaccio.
Chi scolpisce l’acqua gelata, però, sa che le proprie creazioni non sopravviveranno alla bella stagione, e quindi non
ha la speranza che la sua opera un giorno possa essere inclusa in un museo famoso ed ammirata “dal vivo” nei secoli.
Finchè dura, però, ogni opera di ghiaccio è di una bellezza suggestiva, assolutamente unica, perchè riesce in quello
che è un desiderio che tutti, prima o poi, abbiamo provato: “congelare” l’attimo, il movimento, come la strega cattiva delle fiabe che ferma il mondo così come si trova in un dato momento, avvolgendolo con un manto bianco.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO ARTE
Liquide
melodie
L’acqua in passato era usata
anche per creare sorprendenti congegni
GISELLA PACCOI
La musica meccanica, pur avendo raggiunto il momento di massimo
splendore negli anni a cavallo fra Ottocento e Novecento, ha origini
molto antiche.
L’invenzione dell’organo idraulico si attribuisce, tradizionalmente a
Ctesibio, meccanico della suola di Alessandria vissuto nel I secolo a.C.;
Erone Alessandrino lo avrebbe poi perfezionato, tramandandone la
descrizione.
Per il funzionamento dello strumento, si applicava il principio della
non comprimibilità dell’acqua: mediante uno stantuffo l'aria viene
spinta, attraverso un tubo, nell'interno di una specie di campana
immersa in un recipiente pieno d'acqua. La campana all' estremità
superiore è munita di un tubo che porta alle canne il vento, spinto dalla
pressione esercitata dall' acqua stessa.
L’organo idraulico fu via via perfezionato, fino alla “ruota idraulica” creata da Salomon de Caus.
Si tratta di un tamburo sul quale sono infisse due file di pioli, che - durante la rotazione - pigiano dei tasti i quali a
loro volta aprono delle valvole di aria compressa prodotta da mantici azionati dalla stessa ruota idraulica che fa girare la ruota musicale.
Organi idraulici di grandi dimensioni venivano installati nelle grotte artificiali dei giardini cosiddetti "all'italiana"
per sottolineare con la musica le scene pastorali ivi rappresentate.
Un esempio molto noto è quello della fontana dell’organo a Villa d’Este (Tivoli), creata da Claude Venare, che contiene un congegno grazie al quale
la caduta dell’acqua determina l’uscita dell’aria dalle canne mentre in contemporanea un altro congegno abbassa i
tasti.
Poco distante, un altro prodigio della meccanica di allora: la fontana delle
Civette. Un altro congegno idraulico, sfruttando la caduta dell’acqua, permetteva ad una civetta in bronzo di avvicinarsi ai chiassosi uccelli bronzei (il cui
cinguettio veniva realizzato sfruttando il passaggio dell’aria nel becco), spaventandoli e facendoli smettere di cinguettare.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
BIZZARRIE
“Cibus....
... docet!”
Due importanti incontri
alla Nuova Fiera di Roma
NICOLETTA BETTINI
Cibus
Si è svolta dal 13 al 16 Aprile alla Nuova Fiera di Roma il più grande appuntamento con i sapori italiani, Cibus Roma
2007. La manifestazione nasce nel 1985 a Parma, centro della Food Valley italiana, ed è stata concepita per promuovere ed affermare in tutto il mondo i prodotti alimentari italiani, i più imitati del pianeta. Roma è stata scelta per far
apprezzare ai turisti il gusto italiano in una città capitale dell'arte, del turismo e della cultura, che ospita annualmente oltre i due terzi del turismo straniero e nazionale sul territorio italiano. Numerosa la partecipazione delle aziende
agroalimentari, degli esponenti della grande distribuzione, ma anche dei piccoli produttori provenienti da tutte le
regioni italiane. Tutti quanti hanno fatto conoscere agli operatori del settore ed al pubblico i loro prodotti, mettendo in risalto l'utilizzo di materie prime e valorizzando le loro tradizioni. Il piacere del gusto, la ricerca della qualità
e la cura nella preparazione dei cibi, si sono intrecciate alle più avanzate tecnologie produttive e le più moderne strategie di distribuzione delle aziende. Un tale patrimonio si rivela quanto mai vincente anche in termini di benessere
e sicurezza. Curiosando tra gli stands i visitatori hanno degustato gli olii, i formaggi, la pasta,
la mozzarella, il vino, i prodotti da forno ed il caffè. Ma anche prodotti tipici di qualità come
i liquori, i tartufi, i dolci regionali. Per coloro che volevano trovare in Cibus un momento di
"studio" o di "aggiornamento", era presente anche uno spazio attrezzato per le degustazioni
guidate, per incontri con specialisti del settore e per le iniziative volte a realizzare un'attività
promozionale mirata ed incisiva.
Con Cibus Roma l'industria alimentare italiana potrà contare su di una vasta eco internazionale, l'ampio spazio dedicato dai media a questa Fiera, contribuirà maggiormente all'affermazione del prodotto alimentare italiano sui mercati di tutto il mondo.
Cibus Roma 2007 continuerà il suo percorso a Mosca, a San Pietroburgo, a Shanghai e poi di
nuovo a Parma nel 2008, luogo in cui era nato.
Docet
Dal 30 marzo all'1 aprile, nel nuovo polo fieristico di Roma, ha avuto luogo "DOCET 2007", la manifestazione dedicata alle idee ed ai materiali per l'educazione. Il grande successo riscontrato l'ha confermata come il più importante
evento nazionale (si svolge alternativamente nelle sedi di Roma e Bologna) dedicato all'educazione, alla didattica ed
al mondo della scuola in tutte le sue articolazioni. Quattro giorni dedicati al "pianeta scuola e famiglia", poiché anche
quest'ultima è interessata alle problematiche educative, con iniziative destinate ai professionisti, alle classi invitate
con i loro insegnanti, ed al pubblico. Con questa manifestazione si è avuta l'opportunità di incontrare editori e produttori che hanno ideato percorsi e contenuti da sviluppare per offrire, agli insegnanti e non, un adeguato supporto
alle loro richieste. L'esigenza di avere un luogo di confronto sulle idee ed i materiali utili al percorso educativo dei
bambini e dei giovani, ha motivato gli organizzatori a proporre convegni e dibattiti dedicati ai temi di maggior interesse, offrendo anche la possibilità di personalizzare il percorso di visita. Il Ministero della Pubblica Istruzione ha
dato ampio risalto alla manifestazione ed ai suoi contenuti attraverso tutti i propri canali ufficiali di comunicazione,
dando una qualificata presenza espositiva ed un'attenta risposta a tutti i presenti. Ampio spazio è stato dato alla tecnologia (dai supporti multimediali per l'e-learning alle soluzioni dedicate ai diversamente abili), ai laboratori creativi dedicati alla dimostrazione pratica di metodi e prodotti, ai materiali e attrezzature per le attività psico-motorie,
alle attività educative dei vari Musei. Anche l'arredamento e l'edilizia scolastica, i parchi-gioco e l'architettura dei
giardini scolastici hanno saputo attirare l'attenzione degli operatori.
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO
ARTE
Di futuri ce n’è tanti..
.... speriamo!
Una provocazione
un po’ scaramantica
GISELLA PACCOI
Abbiamo aperto questo numero presentando un libro che vorremmo
fosse di fantascienza, ma non lo è.
Le situazioni descritte sono reali, e gli scenari presentati anche.
Senza scherzare, la situazione del Pianeta Terra è davvero critica.
Ci stiamo preparando ad un’estate problematica, dal punto di vista
idrico (ed energetico, ma questa - come direbbe Michael Ende nella
sua “Storia Infinita” - è un’altra storia).
Tra una ricostruzione storica ed una scherzosa curiosità, abbiamo
parlato dell’acqua, per focalizzare l’attenzione su tutti gli aspetti che
ruotano intorno ad essa, da quello economico a quello politico, da
quello biologico a quello culturale.
Pensare al futuro, delineare scenari, fa quasi disegnare inquietanti
situazioni che fino ad ora erano presentate solo nella fantascienza,
nei racconti più estremi e deliranti.
Ma la fantascienza, per quanto possa essere ben fatta, è solo un genere letterario creato dall’uomo; e dato che mai come in questo
momento è l’uomo che può “cambiare il finale” alla realtà, ci è sembrato di buon auspicio presentare questo libro (che può essere definito una “guida alla fantascienza”) prendendone in prestito il titolo per un augurio di più ampio respiro.
Tocca a noi, a tutti noi, far sì che di futuri ce ne siano davvero più di uno.. oltre quello che allo stato delle cose sembra quello più probabile ma meno auspicabile.
IL LIBRO “DI
“AVVERBI”
FUTURI CE N’È TANTI”, DI DANIELE BARBIERI E RICCARDO MANCINI, È EDITO DALLA CASA EDITRICE
WWW.AVVERBI.IT
[email protected]
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MAGGIO
SFOGLIAMENTO RUBRICHE
La notizia delle quattro settimane
I mammiferi e l’albero
E' stato creato il più grande albero genealogico dei mammiferi, il primo virtualmente completo, con l'aiuto di dati
genetici ed informazioni derivanti dai fossili.
Nell'albero ora sono inserite quasi tutte le 4500 specie viventi di questa classe.
I risultati del lavoro del team internazionale che ha prodotto lo studio potrebbe riscrivere la storia dell'origine dei
mammiferi.
Secondo i risultati, infatti, questi animali non avrebbero iniziato a diffondersi con l'estinzione dei dinosauri, alla
fine del Cretaceo, ma "solo" 10 - 15 milioni di anni dopo.
Una “casa pulita” per cince e balie
Uno studio condotto nella Foresta Rossa, a circa 3 km dal reattore nucleare di Chernobyl (esploso nel 1986), ha
mostrato che, a parità di altre condizioni (posizione, risorse alimentari…), gli uccelli scelgono di nidificare in siti
con bassi livelli di radioattività.
Lo studio è stato condotto posizionando 200 casette nido per due specie, la cinciallegra Parus major e la balia nera
Ficedula hypoleuca, in una zona dove il materiale radioattivo non si era depositato uniformemente.
Entrambe le specie hanno una netta preferenza per i nidi posti in zone a bassa radioattività; la balia nera sembra
comunque essere più sensibile della cinciallegra.
Dino, corridore che scava tane
E' stata scoperta una famiglia di dinosauri "scavatori".
Sono stati infatti trovati i resti di una nuova specie di dinosauri che si rifugiava in tane sotterranee e si prendeva
cura dei piccoli.
I paleontologi dicono che è la prima prova valida del fatto che i dinosauri vivevano in tane e che gli adulti accudivano i piccoli a lungo dopo la schiusa delle uova.
I dinosauri scavatori di tane fanno parte di una specie erbivora a due zampe sconosciuta in precedenza, che è stata
chiamata Oryctodromeus cubicularis, letteralmente "corridore che scava tane".
Se cincia dà l’allarme.. picchio risponde
Il segnale di allarme che viene lanciato da una cincia bigia americana (Poecile atricapillus) serve non solo a esemplari della stessa specie ma anche a quelli di picchio pettirosso americano (Sitta Canadensis), che hanno evoluto un
sistema di comprensione interspecifico.
Il caratteristico verso della cincia, a dispetto di un'apparente semplicità, contiene una notevole quantità d'informazione, e sembra che esso possa veicolare anche l'allarme per la presenza di predatori nella zona e che questo venga
interpretato nel modo corretto anche dal picchio.
Alcuni animali rispondono al segnale di allarme di altri animali, ma questo è il primo esempio noto in cui un richiamo viene interpretato da un'altra specie.
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MAGGIO
Periodico on-line della
Associazione Zygena Onlus
Direttore Responsabile:
Fabrizio Manzione
Coordinatore di redazione:
Gisella Paccoi
Impaginato il 30/04/2007
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