Uomo arcaico e complessità-coscienza - Biosfera

Per apprezzare correttamente quest’accurata ricerca antropologica, è forse opportuno ricordare che Teilhard de Chardin estende ed applica agli esseri viventi la sua “legge di complessità-coscienza”, che per miliardi di anni aveva soltanto interessato la materia fisico-chimica. Questo lungo processo di “complessificazione”, appena giunto alle soglie della materia organica, ha evidenziato la presenza di “psichismi” elementari (forse già preesistenti, benché non distinguibili, ai livelli evolutivi anteriori) ovvero forme di “libertà”
sempre più accentuate in rapporto alla crescente complessità dei sistemi nervosi.
La creazione di inter-relazioni unitive nei gruppi umani crea la “complessificazione” sociale. Questa eleva la
“coscienza collettiva” e, per naturale ricaduta, anche i livelli individuali di “complessità-coscienza”.
Tutto ciò in proporzione all’ampiezza, al grado di unità dei gruppi umani e al tipo delle loro interazioni.
Lo studio dell’amico Marco Martini mette in evidenza la nascita della “complessità-coscienza” nelle popolazioni arcaiche ovvero l’emergenza, sin dai primordi, di interiorità collettive ampiamente condivise.
f.m.
UOMO ARCAICO E COMPLESSITÀ-COSCIENZA
di
Marco Martini
«La marcia del tempo è un assemblamento graduale della materia la cui organizzazione si aureola di una frangia via via sempre più luminosa
di libertà e di interiorità»
(Teilhard 1972, p. 110).
Nella visione teilhardiana di una evoluzione direzionata della materia, dai primi elementi inorganici fino ai
futuri intuibili prolungamenti in un termine Superiore, anche le irregolarità e il disordine apparenti
dell’avventura della specie Homo seguono lo stesso meccanismo di fondo in cui si concatenano compressione, complessità e coscienza, ma con una nuova possibilità di attivare energie, determinata dalla capacità
di «vedere» (percepire, immaginare, prevedere, amare).
In questo studio sui popoli di interesse etnologico intendiamo soffermarci non tanto sull’aspetto degli evidenti progressi tecnico-strutturali delle aggregazioni umane, già constatabili a livello arcaico e documentati
da una letteratura ormai sterminata, ma sul parallelo fenomeno che Teilhard definisce come «processo di
interiorizzazione».
IL POTERE INVENTIVO
«Una elevazione di temperatura psichica accompagna automaticamente un’organizzazione
sociale migliore, e quindi un accrescimento di
potere inventivo»
(Teilhard 1970, p. 152).
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Figura 1 – Ricostruzione di accampamento (sinistra) e tenda (destra) di cacciatori di mammut in località Molodova,
valle del fiume Dnestr (fase Molodova 3, 14.000 anni fa circa).
I cacciatori-raccoglitori arcaici hanno una organizzazione economica «senza speciali unità produttive, né
speciali gruppi o classi di consumo; in breve, l’economia non è istituzionalizzata separatamente, ma si configura soltanto come un aspetto dell’organizzazione di parentela; anzi, nel significato moderno del termine,
un’economia formale non esiste affatto. La medesima affermazione vale per le altre funzioni culturali: non
vi è vita politica separata, né governo o sistema giuridico al di sopra della modesta ed informale autorità dei
Capi famiglia e dei leaders occasionali; analogamente non vi è un’organizzazione religiosa indipendente dalla famiglia e dalla banda» (Service 1983, p. 132). La banda è la forma più semplice di raggruppamento tra
nuclei familiari. Però accade che «se le società che si trovano a livello di integrazione delle bande sono tutte
fondate sulla raccolta e sulla caccia, non tutti i popoli cacciatori-raccoglitori si trovano al livello organizzativo delle bande. Lungo la costa nord-occidentale del Nord America vivevano numerose popolazioni marittime il cui ambiente offriva tante risorse che esse costituivano comunità complesse a livello di ‘chiefdoms’
(nda: tradotto in italiano come ‘domini’, che sono società nelle quali funzionano dei centri di coordinamento delle attività economiche, sociali e religiose). In California vi erano altre società che, grazie
all’abbondanza naturale in cui vivevano, avevano superato il livello della banda. Il Paleolitico potè dunque
presentare alcune forme di società oltre a quella della banda; ma il livello di integrazione della banda resta
comunque di gran lunga il più frequente tra i cacciatori-raccoglitori che conosciamo, e dovette essere la
forma caratteristica – anche se non universale – di organizzazione sociale nel caso del Paleolitico» (Ibidem,
pp. 66/67). Inoltre è stata anche accertata una grande flessibilità della struttura della banda che, anzi, ha
come caratteristica principale proprio quella dell’inconsistenza strutturale. L’unica definizione che si può
dare della banda è la seguente: «L’organizzazione della popolazione in gruppi che variano in rapporto alle
peculiari condizioni di un’area, e le cui caratteristiche si possono piuttosto definire in negativo: non hanno
meccanismi di reclutamento, non hanno funzioni matrimoniali (quindi non sono gruppi né endogami né esogami), non sono legati in maniera rigida ad un territorio» (Arioti, 1980, p. 66). Ora, questa flessibilità porta ad esempio a raggruppamenti di consistenza assai differente, specie a seconda delle attività che bisogna
svolgere in un determinato periodo della stagione. La banda che funge da unità di cooperazione per la
maggior parte dell’anno è un insieme di nuclei familiari che assommano a 20-50 individui, a volte arrivando
anche a 100. Però vi sono casi in cui si verificano coesioni più numerose, che vanno dalle 100 alle 300 unità.
È il caso dei Montagnais-Naskapi (Algonchini nord-orientali) studiati dalla Leacock, che d’estate, per la pesca, vivono su un territorio approssimativamente definito in gruppi di appunto 100-300 membri. O degli Athapaska settentrionali studiati da Helm, che secondo l’autore erano sempre riuniti in gruppi così consistenti, tutto l’anno, mentre hanno conosciuto la banda nella forma meno numerosa solo dopo che è nata la
caccia agli animali da pelliccia, dopo l’introduzione da parte dei Bianchi del mercato delle pelli.
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I cacciatori di mammut
Dunque tra i cacciatori-raccoglitori arcaici si possono verificare delle condizioni particolari in seguito alle
quali si formano entità etniche che vanno ben oltre la comune banda, società oseremmo dire a livello tribale. Come sottolinea Elman Service, ciò potè accadere già nel Paleolitico. Passando dalla etnologia agli studi
di preistoria, troviamo un interessante riscontro a queste conclusioni nei siti della cultura di KostenkiAvdeevo (15.000/24.000 anni fa, nelle pianure della odierna Russia). Qui fiorì una civiltà basata sulla caccia
al mammut, con uno stoccaggio della carne di questo enorme bestione ed una utilizzazione massiccia anche
delle ossa e delle zanne che «hanno consentito per la prima volta di stabilire la rete degli abitati e la costruzione di importanti strutture che sono tipiche dei proto-villaggi. Qui, per la prima volta nella storia
dell’umanità, abbiamo abitazioni costruite secondo un piano predeterminato... Questi siti russi sono stati
probabilmente fondati da gruppi tra i quali, al momento della fondazione, la struttura sociale era stabile. Si
tratta di gruppi che, data l’abbondanza di cibo e la possibilità di stoccaggio, hanno raggiunto un livello stabile nel modo di vita e nella struttura sociale paragonabile a quello delle società neolitiche» (Kozlowski 1991,
pp. 64/68).
Ricordiamo che una massiccia utilizzazione di carne, ossa e zanne di mammut collegata a stabilità di collegamenti di abitati e mutamento nello stile di vita, è stata riscontrata già nella valle del fiume Dnestr (sito
principale Molodova), abitata da cacciatori musteriani di un periodo compreso tra 50.000 e 40.000 anni fa.
E poi di nuovo tra i 30.000 ed i 25.000 anni fa in siti come Dolni Vestonice, Pavlov, Ostrava-Petrkovice e
Predmosti (cultura di Pavlov), ma in forme che non consentono ancora di parlare con sicurezza di un balzo
socio-culturale in avanti dell’uomo. Indubbiamente il mammut ha consentito una svolta nell’avventura umana, ma la maggiore diffusione di questo pachiderma si è verificata tra i 120.000 ed i 50.000 anni fa, e da
sola non è stata sufficiente. Ci sono voluti anche un livello tecnologico adeguato, e condizioni climatiche di
permafrost (legno e capanne seminterrate non sono più possibili e bisogna usare ossa e zanne e costruire a
livello del suolo) che hanno favorito la conservazione della carne dei mammut uccisi, che ha potuto essere
immagazzinata. Tutto ciò si è verificato solo nella steppa-tundra della cultura di Kostenki-Avdeevo. Anche
l’etnologia conferma l’importanza dei pachidermi per un balzo in avanti del sistema di vita: «Dove è molto
importante la caccia a grossi animali, come nelle foreste centro-africane, allora tutti i membri della banda
vivono insieme nell’accampamento per la maggior parte del tempo, tanto più che la caccia a tale selvaggina
richiede spesso la cooperazione di un numero abbastanza grande di persone, e la sua cattura le può nutrire
tutte contemporaneamente» (Service 1983, p. 82). Ma, affinchè la coesione di tutti gli elementi citati si trasformasse in convincimento interiore di potersi stabilire con fiducia secondo regole, strutture e ripartizioni
che trovavano una ragione nell’unico ambiente – il Sacro – al di fuori del quale l’uomo primitivo non può
vivere, si dovettero sviluppare anche nuove idee religiose.
Figura 2
Ricostruzione di accampamento di mammut di Mezirici, bacino del fiume Dnepr, Ucraina, in
cui sono state utilizzate ossa di
circa 100 mammut; una costruzione impegnativa, che deve
essere stata utilizzata sicuramente per più di una stagione
(datazione 14.000 anni fa circa).
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La cosmogonia
Per i Desana, indios amazzonici della Colombia meridionale, all’inizio vi erano i fratelli Sole e Luna. Poi Sole
ebbe una figlia con la quale convisse come fosse sua moglie, e da questo increscioso incesto si generarono
alcune realtà: naturali, come il fenomeno del sangue mestruale nelle donne, e culturali, come l’esogamia e
il tipo di riti puberali femminili praticati in questa tribù. Luna, che era solo, cercò di conquistare la figlia e
moglie di Sole, ma quest’ultimo se ne accorse, e punì Luna riducendone la luminosità, che prima era uguale
alla sua, e allontanandolo da sé, tanto che da allora non si incontrarono più, così che uno è attivo di giorno
e l’altro di notte. Sole, tramite la sua luce splendente, creò poi ogni elemento dell’universo, del quale è anche reggitore e conservatore. Egli vive nell’alto dei cieli, zona al di sotto della quale inserì la via Lattea, luogo dove gli esseri umani possono comunicare (tramite gli specialisti del sacro) con l’invisibile e con tutti
quegli Spiriti che Sole creò per fungere da intermediari tra lui e la Terra, per proteggere il creato e far proliferare la vita. Al di sotto della via Lattea Sole pose la Terra, e ancora più sotto gli inferi, dove finiscono i defunti. Dopo aver creato animali e piante, Sole decise di popolare la Terra anche di esseri umani; ne realizzò
uno per ogni tribù conosciuta dai Desana, e li creò in cielo, servendosi poi di uno di loro, chiamato Pamurimaxse, per portarli sulla Terra. Pamuri-maxse prese una canoa che era anche una anaconda, vi caricò uno
per uno i vari capostipiti delle tribù e i pesci, che a quel tempo sulla Terra ancora non esistevano. Fu un viaggio molto lungo durante il quale, non solo si iniziò il popolamento della terraferma con gli esseri umani e
delle acque con i pesci, ma furono stabilite anche molte realtà culturali e ambientali. Per esempio: al capostipite dei Desana, Pamuri-maxse diede arco e frecce, ai capostipiti di Tucano, Pira-Tapuya, Waiyara e Neeroa la canna da pesca, al capostipite dei Kuripako la grattugia per la yucca, a quello dei Maku la cerbottana
e un cesto, a quello dei Cubeo una maschera di tela di corteccia, tutti oggetti centrali nell’economia o nei
cerimoniali delle tribù citate. E così di seguito fino a definire cosmovisione, regole, usi, costumi, ecc, così
come sono tra i Desana.
Quello sopra riassunto viene chiamato, in Storia delle Religioni, mito cosmogonico o mito della creazione.
Non tutti i popoli di interesse etnologico ne hanno uno altrettanto completo che definisca, stabilisca e includa tutto l’esistente. È il caso dei Chipewyan, da non confondersi con i Chippewa (Ojibwa delle praterie).
«La più appropriata definizione che si possa dare dell’ontologia dei Chipewyan dei territori del nord-ovest
canadese è l’esperienza del mondo come insieme di avvenimenti» (Smith 1998, p. 417). Per questo popolo
che vive in piccoli gruppi disseminati in un enorme territorio quasi disabitato, ogni elemento del creato ha
un «potere» con il quale ci si trova costretti a relazionarsi e a trovare un reciproco giovevole equilibrio. Ognuno di questi elementi è riferito a una leggenda o a un racconto che però non fanno parte di un «sistema» mitologico, di una teologia. Identica situazione un po’ più a nord, tra gli Inuit, tra i quali non esiste cosmogonia. Gli Inuit hanno risolto il problema del creato senza lunghe speculazioni, accettando la realtà come essa si presenta. Nella loro religione si trovano solo accenni alla creazione dell’uomo, e se si parla della
Terra è per affermare che è stata da sempre.
Spostiamoci ora più a sud. Ake Hultkranz ha brillantemente dimostrato che gli Shoshoni della Riserva del
Wind River (Wyoming occidentale) hanno acquisito certi riti e certe credenze che implicano nozioni di un
universo portato a compimento da popoli vicini, e solo di recente. Nella loro mitologia è però rimasta indelebile traccia di quello che era l’atteggiamento degli abitanti originari del Great Basin, dove un tempo vivevano: vi si parla di organizzazione e non di origini, non esiste un Creatore ma un Reggitore del mondo che
però è lontano e non interessato alle vicende umane, tutte in mano ai vari Spiriti, primo fra tutti il Signore
degli Animali, lo Spirito più importante per molti popoli che vivono di caccia (Hultkranz 1987a, pp. 279/295,
e Hultkranz 1987b, pp. 37/84).
Nelle credenze della maggior parte dei popoli di interesse etnologico, il centro attorno al quale ruota
l’impostazione del sistema di vita è il mito cosmogonico. Ora, se si passano in rassegna le mitologie di tutti
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questi popoli, ci si accorge che tra i cacciatori arcaici (e anche tra alcuni gruppi etnici regrediti da posizioni
più evolute, come per esempio gli indios dello Xingu) non esistono miti cosmogonici. È così tra gli indios della Terra del Fuoco, nel Gran Chaco, nel Great Basin, tra gli Inuit, gli Athapaska settentrionali, tra i Boscimani
e i Pigmei africani, tra i Semang e gli altri popoli più arcaici della penisola della Malacca, tra i Negritos delle
Filippine, gli Andamanesi, tra le tribù più primitive dell’Australia (sud-est). Queste etnie non mancano certo
di mitologia, ma questa riguarda solo le realtà terrene; le loro preoccupazioni non sembrano dunque andare oltre le realtà della loro cultura ‘di rapina’, che subisce il mondo, un mondo al quale ci si limita ad adattarsi. Se si indaga poi se attribuiscano o meno ad una loro Divinità la creazione del mondo, ci si accorge che
l’attributo di Creatore manca presso tutte le tribù pigmee africane (eccetto i Pigmei del Gabon, che ce
l’hanno per contatto con i più evoluti Bantù), tra i Boscimani, nella cultura artica (eccetto presso gli Ainu e
gli Inuit dell’Alaska, che però l’hanno acquisito dagli indiani Tlingit e Haida), presso gli Athapaska settentrionali, nella Terra del Fuoco e presso quasi tutti gli Australiani sud-orientali (eccetto presso i WiradjuriKamilaroi). Inoltre è ipotizzabile che popoli come ad esempio i citati Semang, Andamanesi, Negritos del sudest asiatico, abbiano mutuato il Dio Creatore dai vicini popoli coltivatori che hanno influenzato anche i loro
riti; l’assenza del mito cosmogonico del resto ne sarebbe la conferma. Il mito cosmogonico è invece presente tra i cacciatori-raccoglitori evoluti. Cioè tutti quelli del Nord America ad eccezione di Inuit, Athapaska settentrionali e Great Basin, nell’Asia centro-settentrionale (Aleutini, Buriati, Ceremissi, Ciukci, Coriachi, Iacuti,
Iucaghiri, Mongoli, Mordvini, Ostiachi, Samoiedi), e in diverse etnie di indios sudamericani.
Dunque, per grandi linee, i cacciatori arcaici, che nomadizzano di più, non hanno mito cosmogonico, invece
i cacciatori evoluti, legati a centri abitati più stabili e sviluppati, possiedono il mito cosmogonico. In altre parole: i primi non sono andati oltre il ‘loro mondo’, i secondi hanno preso coscienza di vivere in un universo
creato, definito.
Figura 3 – Maschere degli Inuit, che rappresentano due dei numerosi Spiriti che dominano le loro credenze religiose.
Angosciati da un ambiente ostile, gli Inuit non hanno cosmogonia e si limitano a cercare di controllare le varie e irregolarmente diffuse Forze ultraterrene da cui si sentono attorniati tramite gli specialisti del sacro. Indossare ritualmente la maschera di tutti questi Esseri è uno dei mezzi più diffusi per renderseli amici.
Conclusioni
A questo punto le conclusioni sulla motivazione che ha provocato questo salto di qualità è evidente. La risposta suggeritaci dai dati della etnologia e della preistoria sopra citati è la seguente: perchè il riunirsi in un
gruppo più vasto, complesso, stabile e coordinato rispetto alla banda, comportò una esperienza interiore
che ne stimolò un cambiamento nello stato di coscienza. L’uomo concepì l’idea di una struttura di tutto
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l’universo, creato ed ordinato (dagli Esseri Ultraterreni propri a ciascuna cultura). Fu la prima volta in cui,
nell’ambito delle idee religiose, «l’organizzazione, generatrice di coscienza, creò un ambiente in cui l’uomo
si trovò costretto a entrare per non rimanere soffocato» (Teilhard 1970, pp. 157/160). La crescente organizzazione della vita sembra generare dunque maggiore coscienza del fenomeno in cui ci si viene a trovare
avvolti, così come la coscienza acquisita permette all’uomo di accettare nuove sfide, aprire ulteriori spazi
sorretto dalla necessaria fede nei nuovi ‘sacra’.
L’UNIONE CREATRICE
«(Con l’apparire dell’essere umano sboccia) una
illimitata e continua possibilità di contatto mediante lo spirito ben più che mediante il corpo:
antenne infinitamente numerose e sottili che si
cercano in seno alle delicate sfumature
dell’anima»
(Teilhard 1984, p. 23).
Il firmamento è distante e intangibile, e ci dona la luce. Prima ancora di venire valorizzato sul piano religioso, cioè come sede di eventi o Esseri ultraterreni, lo spazio infinito che ci separa da esso, la sua altezza e la
sua luminosità, ci conducono all’esperienza della massima forma possibile di trascendenza ma anche di realtà remota. Da un lato tratti elevati che descrivono i limiti estremi della concezione dell’essere e dello
slancio ascetico (la «luce interiore»), dall’altro una presenza inattiva, lontana dalle vicende umane (Deus
Otiosus il termine tecnico usato in Storia delle Religioni), che lascia il dominio nella vita cultuale ad altre
forme religiose più attive e vicine. Nella storia delle credenze religiose dell’umanità, a volte si è però verificato il caso che queste presenze «oziose» siano state recuperate già a livello arcaico anche nel vissuto della
collettività, raggiungendo, date le loro caratteristiche, modalità di sublimazione inaccessibili attraverso altre
esperienze del sacro. È questo il caso del territorio del bacino del fiume Orinoco.
Figura 4
In verde le zone in cui sono disseminati i
gruppi delle tre tribù citate, Piaroa, Yekuana e Warao. In blu il Mar dei Caraibi.
In rosso il fiume Orinoco.
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Tra i Piaroa dell’estremo sud-ovest del Venezuela per esempio Wahari, Dio emanazione del Sole, dopo aver
creato tutto ciò che vi è di animato e inanimato sulla Terra, come tutti i Deus Otiosus se ne andò in cielo.
Poi però, seguendo dall’alto gli accadimenti terreni, si accorse che la sua opera era stata incrinata da Forze
avverse. Inviò così ogni tanto suoi incaricati in aiuto degli esseri umani, insegnò attraverso di loro nuovi riti,
e soprattutto concesse loro il principale mezzo che un Dio distante può offrire: la preghiera. «Pregate, pregate, e il male non vi toccherà», recita il mito. L’indio piaroa si è reso conto che esiste un problema che può
essere generalizzato e definito con un termine unico, il male. Afflitto da una situazione insoddisfacente, per
aprirsi una strada di sollievo ha proiettato le sue speranze recuperando un rapporto con il Dio Wahari, immaginandolo sì lontano materialmente, ma vicino spiritualmente, amorevolmente pronto a confortare
l’uomo con affettuose sollecitudini tra le quali spicca, fatto più unico che raro per i popoli di interesse etnologico dove anche gli impegni spirituali richiedono la partecipazione attiva del corpo, la pura e semplice
preghiera. «I Piaroa devono pregare per andare verso il cielo, in alto, là dove le Forze avverse non portano il
male» (Costanzo 1977, p. 153). Wahari, con la sua lontananza, invita il piaroa a sottrarsi alla amara realtà
promuovendo la ricerca di una dimensione totalmente interiore.
Tra i Warao del delta dell’Orinoco l’eroe culturale Haburi conserva la sua centralità, ma molti degli Esseri
che nella cosmologia tribale sono distanti e periferici sono stati recuperati in maniera singolare, sicuramente grazie alle elaborazioni di una classe di specialisti del sacro molto influente e variegata. Così, «ciò che
conta per un membro di questa tribù è la sopravvivenza della propria anima. Tutti i Warao sperano in una
vita post-mortem, e impostano la loro esistenza per poter raggiungere il paradiso che preferiscono» (Wilbert 1993, p. 94). Nelle loro credenze esistono infatti molti Dei Protettori, ognuno con un paradiso a cui sovraintende e al quale, grazie anche alla mediazione dello specialista del sacro, può riuscire ad accedere. I
cestai di professione per esempio, potranno vivere in eterno nella zona est del creato con il loro Protettore,
l’uccello Creatore dell’Alba. Le fabbricatrici di amache (lavoro femminile) e i suonatori rituali di clarinetto
(lo si suona durante la festa della raccolta del sago), vivranno in eterno con la loro Dea Protettrice, rispettivamente la Madre della Palma Moriche e la Madre del Sacro Clarinetto, che vivono entrambe nello stesso
luogo del cosmo, a nord-est, nel punto corrispondente al solstizio d’estate. «Non offendendo gli Dei e gli
specialisti del sacro, ogni uomo o donna può raggiungere la pienezza della vita imparando alla perfezione il
suo ruolo e soddisfacendo le aspettative del suo Protettore. Un costruttore di canoe per esempio, lavorando con diligenza e osservando il codice etico che governa il suo ruolo, sa che se il suo impegno sarà massimo, verrà apprezzato dalla Dea Dauarani, e che ciò gli garantirà un posto nell’aldilà in cima alla montagna
sacra la cui vetta arriva sino al cielo, insieme alla sua Protettrice. I costruttori di canoa muoiono con la pratica certezza della vita eterna, perché da ragazzi vengono iniziati ritualmente al sacro viaggio verso la casa
di Dauarani» (Wilbert 1993, p. 99). I canoni dell’iniziazione tribale alla vita adulta di tutti i popoli di interesse etnologico incamerano tra i Warao un valore aggiunto, la speranza nella vita eterna insieme a quelle Divinità che, usualmente scalzate da uno o due Eroi culturali, Antenati, Signori o Spiriti dei principali prodotti
alimentari che offrono aiuto durante l’esistenza terrena, da Esseri distanti che sono stati recuperati in funzione di una ipotetica situazione futura. Un orizzonte che salda la usuale pragmaticità delle religioni tradizionali alla sublimazione dell’impalpabile.
Nella zona meridionale centrale del Venezuela vive il popolo fluviale degli Yekuana, il cui patrimonio culturale è gelosamente custodito in canti, che ha come massimo Essere ultraterreno Wanadi, che abita l’ottavo
e più alto strato celeste. I loro «sacra» raccontano che Wanadi ogni tanto si è incarnato creando così la Terra e tutto quanto essa contiene, e ha trasmesso agli Yekuana le loro tradizioni, ma che alcuni esseri viventi
sono riusciti male, e sono diventati malvagi. Terminato il suo compito e vista la mala parata, Wanadi si è ritirato nel più alto dei cieli lasciando la Terra apparentemente nelle mani delle Forze della disgregazione. Ma
è solo un trucco per ingannare gli Esseri malefici, e farli credere Signori del creato; in realtà questi un giorno
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moriranno, e quando accadrà Wanadi riprenderà in mano le redini della situazione, e tutti i buoni vivranno
in un mondo perfetto e felice. Gli Esseri ultraterreni collaboratori di Wanadi, e gli esseri umani che se lo sono meritato, al contrario dei malvagi risorgeranno perché nel quarto strato celeste esiste un lago le cui acque ridaranno la vita ai giusti bagnando le loro ossa. Vengono considerati «giusti» coloro che rispettano
l’armonia delle energie vitali presenti nell’universo, che sono emanazione di Wanadi e che le Forze della disgregazione ogni giorno minano, e tra di essi gli Yekuana includono anche tutti coloro che si sono ben comportati, bianchi o indios che siano. Questo fortissimo impegno etico si è sviluppato fino al punto che
«nell’anima degli Yekuana la comunione con il trascendente è il prodotto di una visione del mondo dove
imperano unicamente categorie puramente spirituali, dono trasmesso da Wanadi attraverso la parola cantata che nessuna necessità materiale, per quanto impellente, riesce a mutare» (de Barandiarán 1979, p.
795). E alla fine arriverà la ricompensa: la risurrezione, per stare per sempre insieme a Wanadi. Queste idee
non si sono sviluppate da uno dei tanti dualismi di opposizione e complementarietà comuni ai nativi
d’America, bensì dall’assenza di Wanadi sperimentata come vuoto esistenziale (de Barandiarán 1979, pp.
800 e 864), ed è per questo che si sono così tanto spiritualizzate (p. 858).
Esempi di elevata dimensione spirituale ne esistono presso tutti i popoli di interesse etnologico, ma sono
rarissimi quelli in cui prevale l’illuminazione interiore disincarnata, fatto che produce una convergenza di
interessi verso «le cose di lassù» come nei tre casi che abbiamo citato. Questi tre popoli, che quando sono
stati studiati vivevano come si viveva nel Neolitico, testimoniano la possibilità di sviluppo di certi concetti
anche a livello arcaico, possibilità concretizzatasi che però non ha prodotto alcuna conseguenza sul resto
dell’umanità, poiché essi vivevano e vivono la loro tranquilla esistenza appartati.
Figura 5 – Indios Piaroa di ieri (fotografia di Joseph Grelier, 1951), e di oggi (fotografia di Mary Lou Walbergh, 2006).
Non molto è cambiato, a parte indumenti e utensili barattati con l’uomo bianco.
Persia
Ahura Mazda, la figura divina astratta e personale intesa come Sapiente (Mazda) e come Signore (Ahura),
da cui partirono idee che influenzarono sia il popolo ebreo sia il Cristianesimo, fu il frutto dell’esperienza
spirituale di un singolo sacerdote persiano, Zarathuŝtra. Questa elaborazione ebbe origine in una società
aria pastorale dominata dal politeismo e dal ritualismo. Zarathuŝtra combattè questi culti spiritualizzando
elementi già esistenti ma passati in second’ordine (il significato più antico di Ahura sembra fosse Sole
Splendente, cioè forse una Divinità del firmamento diventata Deus Otiosus), proiettando la speranza
dell’affermazione del suo concetto di giustizia su quello vigente in un preciso momento storico, quello del
trionfo di Ahura Mazda, già salvifico nel presente per chi entra in comunione spirituale con il Signore della
Sapienza. Si tratta però come detto solo di una speranza, come ci mostrano i testi a lui attribuiti, che si svi-
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luppano sotto forma di interrogativi, e nei quali lo si sorprende esitante, turbato, umile, desideroso di conoscere più concretamente la volontà del Signore. Da messaggio trasmesso a pochi adepti, ma comunque
toccante e sincero a tal punto da provocare la conversione del re Vishtaspa, nei secoli successivi la religione
di Zarathuŝtra si ampliò in una forma di lotta tra il Dio del Bene e il Dio del Male con forti tinte escatologiche; alla fine il Signore Buono trionferà, il Male sarà distrutto, e «avverrà una nuova creazione, buona, immacolata, eterna, immortale, ristabilita in una felicità senza macchia» (Dātastān-i-Dēnīk 37, 20/21). La certezza della vittoria del Bene sul Male donò sicurezza e convinzione alle azioni (anche belliche) del persiano,
e una etica capace di comunicare slanci socialmente utili che spiegano il grande sviluppo civile della Persia
antica, idee che sono alla base del grande Stato imperiale che i Persiani riuscirono a edificare.
La visione di un Dio che prende l’iniziativa per edificare un suo regno futuro con l’aiuto degli uomini di buona volontà, già presente in fin dei conti tra Piaroa, Warao e Yekuana, stavolta attecchisce con conseguenze
che interesseranno l’umanità intera. È la dimostrazione che certe svolte nel cammino interiore del genere
umano richiedono un adeguato supporto tecnico-organizzativo che ne permetta la diffusione, ma anche
che le conquiste della società si susseguono grazie a una forza che le muove dall’interno. I rapporti tra materia e spirito vanno cioè pensati come una unione creatrice.
LA CONVERGENZA
«L’unificazione coercitiva non fa apparire
che una pseudounità superficiale. Essa può
montare un meccanismo, ma non opera alcuna sintesi di fondo e, di conseguenza, non
genera alcun accrescimento di coscienza. In
realtà, anziché spiritualizzare, materializza.
È pertanto dall’interno che dobbiamo congiungerci, in piena libertà»
(Teilhard 1972, p. 120).
Nelle religioni dei popoli arcaici le stelle rivestono solitamente maggiore importanza nella mitologia che nel
culto. Però presso gli Skidi Pawnee (America settentrionale) si sono formati imponenti cerimoniali connessi
con il culto delle stelle che, insieme alla mitologia a cui sono profondamente legati, fanno parte di un complesso, ordinato e coerente sistema teologico sviluppato da una classe sacerdotale. Questa visione del
mondo si impose quando i Pawnee, stanziati fino al XIV secolo nell’attuale zona di confine tra Texas e Arizona, si spostarono lentamente più a settentrione fino a nord del Republican River, adottando parzialmente
usi, costumi e credenze delle genti con cui vennero a contatto. Questo popolo di lingua caddo passò così da
una economia agricola, con a capo del ciclo annuale rituale Madre Grano, indisputato Centro della vita tribale, a una economia venatoria. In questa nuova situazione, anche se l’Essere Supremo è Tirawa, Deus Otiosus che non incarna i bisogni quotidiani degli esseri viventi, divenne fondamentale il Dio Stella del Mattino, modello tribale del cacciatore e del guerriero, al quale sono stati riferiti tutti i valori della «metà maschile» su cui si fonda il dualismo pawnee, in opposizione e complementarietà all’altra metà – femminile –
dell’universo culturale tribale, riferita a Stella della Sera, Dea patrona della vegetazione. Nella sua funzione
generatrice, Stella del Mattino si è unito con Stella della Sera e ha portato a compimento l’opera creatrice
avviata da Tirawa.
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Il mito
Tirawa crea l’universo con tutti gli astri. Stella della Sera non vuole che la Terra e gli esseri umani vengano
creati, e così rifiuta, sopraffacendole, tutte le Stelle che avevano chiesto di sposarla, aiutata in ciò anche da
altri astri a lei amici e dalle quattro Divinità dell’Ovest. Però Stella del Mattino, dopo aver sconfitto queste
Potenze alleate di Stella della Sera, riesce a raggiungere e domare anche lei. Realizza tutto ciò superando un
gran numero di prove a cui Stella della Sera lo costringe a sottoporsi. Una volta sposatala, Stella della Sera
non è però ancora paga, e chiede altre cose. Infine, con una pietra le pialla la vagina che era dentata – motivo assai noto della mitologia di tanti popoli – trasformandone definitivamente la natura selvaggia ed inserendola in un contesto culturale dove gli ordini stabiliti hanno decretato certi ben determinati ruoli, sia per
l’uomo sia per la donna. Durante le prove e gli ostacoli che precedono la consumazione del matrimonio, si
verificano avvenimenti che stabiliscono credenze, usi e costumi tribali da allora in avanti perpetuati. Dalla
loro unione nasce una figlia, e allora essi creano la Terra affinchè la ragazza possa abitarvi. Intanto Sole e
Luna si accoppiano e generano un ragazzo che si unirà poi alla figlia delle due Stelle. Questa sarà la prima
coppia di Pawnee, dalla quale discenderanno poi tutti gli altri. Tra i tanti elementi culturali che le due Stelle,
prima di abbandonare definitivamente Terra ed esseri umani da loro creati, trasmettono, Stella del Mattino
dona al ragazzo arco e frecce, e gli insegna come uccidere, cioè colpendo l’animale al cuore. La comprensione dell’importanza del cuore come centro vitale è un elemento di questi nativi d’America che ritroveremo poi anche nel rito. In ultimo Stella del Mattino chiede anche agli esseri umani il sacrificio di una ragazza
in suo onore.
Il rito
La ripetizione recitata da parte degli uomini del divino accadimento narrato nel mito, come ben sappiamo,
riattira l’attenzione e la benevolenza degli Dei, con la conseguenza di rinsaldare i legami e rigarantire la loro
protezione; è come un bagno rigeneratore alla Fonte stessa dell’Essere. Il cerimoniale che riproduceva
l’unione tra le due Stelle non era inserito nel calendario annuale rituale; era celebrabile solo quando il pianeta Marte raggiungeva una certa posizione nel firmamento, e solamente se si verificava la richiesta visione
a qualche membro della tribù cui Stella del Mattino lo chiedeva. Come tutti i rituali che includevano un sacrificio umano celebrati da etnie dell’America settentrionale, al contrario di quanto accadeva nell’antico
Messico, era dunque evento raro. Linton ha pregevolmente dimostrato che tutti gli elementi che fanno parte di questo cerimoniale appartengono al patrimonio culturale dei Caddo e di altri popoli coltivatori stanziati nella valle del Mississippi, o nel sud-est e sud-ovest degli attuali USA, e che non c’è bisogno di rifarsi ai sacrifici umani dell’antico Messico per spiegare la presenza di questo costume come hanno fatto invece altri
studiosi.
Chi aveva dunque avuto la visione si recava da chi custodiva (in un involucro) gli oggetti sacri a Stella del
Mattino, uno specialista del sacro addetto al culto di questa Stella, e gli raccontava il sogno. Dopo una fumata rituale di pipa in onore di Stella del Mattino condivisa da entrambi, il sacerdote consigliava al guerriero di tornare a casa sua e reclutare degli amici per compiere la spedizione necessaria a trovare la ragazza
con il cui sacrificio si sarebbe dovuto concludere il rituale. Una volta formato il gruppo, tutti si recavano dallo stesso sacerdote; questi apriva l’involucro sacro e ne tirava fuori il contenuto (armi più vesti e altri oggetti) che consegnava al giovane protagonista che, una volta acconciato a dovere, si identificava in Stella del
Mattino. La spedizione poteva partire solo quando la Stella era sorta ed era visibile in cielo. Era composta
da altri guerrieri, da guide, cuochi, specialisti dell’accensione del fuoco e da un messaggero. Durante il viaggio, e soprattutto la notte che precedeva l’attacco, i membri della spedizione effettuavano altri riti. Nel villaggio nemico in cui veniva prelevata la ragazza non veniva torto un capello a nessuno; si provvedeva soltanto a far fuggire i cavalli dei nemici per impedire loro di inseguirli. Si scappava ritornando a casa il più in
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fretta possibile. La cerimonia però non si teneva subito, ma passavano anche mesi; si celebrava infatti in
primavera, solo quando la stella aveva raggiunto una determinata posizione in cielo, sottolineata da un anello rosso che le appariva intorno. Nel frattempo la ragazza veniva trattata con tutti i riguardi. Poteva essere toccata solo dal guerriero che l’aveva catturata e da colui al quale veniva affidata, il custode del fagotto sacro del Lupo; il Lupo infatti, nella mitologia pawnee, era stato il primo essere vivente a morire e dunque, avendo introdotto la morte, era l’essere giusto a cui affidare la giovane moritura. Dal momento della
cattura essa non veniva più considerata un essere umano, ma appartenente al Dio-Stella e quindi reclusa,
ma venerabile e ripiena di potenza, tanto che veniva condotta alla caccia invernale ai bufali come potente
ausilio. L’intero rituale durava cinque giorni. I primi quattro trascorrevano nella recita del mito sopra citato,
riattualizzato attraverso canti e danze, e nella costruzione dell’impalcatura dove doveva avvenire il sacrificio, impalcatura che possedeva un preciso simbolismo in ogni suo più piccolo particolare, legato alla cosmovisione degli Skidi. La mattina del quinto giorno, proprio mentre Stella del Mattino appariva in cielo, la
fanciulla veniva legata alla struttura di legno a braccia allargate e uccisa ritualmente. Il guerriero che l’aveva
catturata le tirava con l’arco una freccia nel cuore, e un altro le tirava un colpo di mazza da guerra (nda: altra arma di Stella del Mattino) in testa; entrambe le armi usate erano quelle del sacro fagotto. Lo specialista
del sacro che officiava le apriva il torace con un coltello, le incideva il cuore e con il sangue di quest’ultimo
imbrattava la propria faccia e un blocco di carne di un bufalo appositamente consacrato e sacrificato, carne
che veniva poi offerta a tutti gli Dei. Poi gli uomini presenti scoccavano a loro volta ognuno una freccia sul
suo corpo già morto, mentre il sacerdote accendeva un nuovo fuoco sacro. Seguiva un canto che descriveva
il sacro pasto consumato dagli Dei. Infine il corpo straziato della ragazza veniva portato fuori dal villaggio e
posto a terra pancia sotto pronunciando queste parole: «Ella si trasforma, e tutta la Terra riceverà il suo
sangue». I vari pezzi del corpo venivano poi sepolti nei terreni coltivabili.
Questa era una cerimonia di fertilità, che assicurava per un certo periodo di tempo la fertilità del suolo e il
successo dei raccolti. Nel mito la fertilità era nata perché Stella del Mattino era riuscito ad accoppiarsi con
Stella della Sera. Nel rito la ragazza, che rappresentava Stella della Sera, morendo poteva raggiungere in
spirito il marito, Stella del Mattino; il loro ricongiungimento possedeva significato di rinnovamento di tutto
il mondo vegetale terreno, che solo così poteva ricominciare a crescere (ricordiamo che si era in primavera,
quando la natura ricomincia a vivere).
Figura 6 – Accurata ricostruzione (opera di Langdon Kihn, 1942) dell’immolazione di una fanciulla al Dio Stella del
Mattino tra gli indiani Skidi Pawnee, che prende spunto da una fotografia del 1871 di un villaggio pawnee.
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La svolta
Nel 1811 il capo degli Skidi Pawnee Ritsirisaru si era incontrato e intrattenuto a lungo con il sovrintendente
agli Affari Indiani William Clark a St Louis. Nel colloquio il capo indiano si era reso conto che il sempre crescente numero di bianchi che affluivano li avrebbero costretti a degli adattamenti, ad accettare dei compromessi per poter convivere. Le argomentazioni di Clark gli erano sembrate sagge, e aveva compreso che
continuare a celebrare il sacrificio umano sarebbe stato un serio ostacolo alla necessità impellente di migliorare il rapporto con i «visi pallidi». Parlò così alla sua gente per convincerli ad abbandonarlo, ma guerrieri e sacerdoti si mostrarono apertamente contrari a questa soluzione. Nel 1816 gli Skidi, essendosi verificate le condizioni necessarie, catturarono una ragazza di una tribù vicina per sacrificarla a Stella del Mattino
nella primavera 1817. Ritsirisaru era contrario alla celebrazione del sacrificio, ma il popolo ascoltò freddamente le sue parole. Questo capo aveva un figlio di circa venti anni, Pitarisaru o Petalesharo a seconda della
interpretazione della lingua caddo, stimato e rispettato perché guerriero tra i più coraggiosi. Il giorno del
sacrificio, la ragazza fu condotta sul luogo del sacrificio e legata all’impalcatura di legno. Tutto era già pronto per il cruento atto finale quando, all’improvviso, comparve Pitarisaru. Affrontando l’intera assemblea
(nda: atto di grande coraggio tra i nativi americani), disse loro che suo padre disapprovava ciò che stavano
per compiere, e che era venuto per salvare la fanciulla o per lasciare il proprio corpo sul terreno. Poi si avvicinò all’impalcatura, liberò la ragazza, e la condusse via in tutta fretta senza che nessuno osasse muovere
un dito per fermarlo. Mise la giovane su un cavallo, salì sul suo destriero, e la accompagnò a parecchi giorni
di viaggio di distanza, verso l’Arkansas; poi le diede una provvista di cibo indicandole la strada che avrebbe
dovuto prendere per tornare dalla propria gente, cosa che puntualmente avvenne.
Nel 1818 fu catturato un ragazzo spagnolo per essere immolato a Stella del Mattino. Ritsirisaru intervenne
per salvarlo con una manovra accorta. Godendo dell’appoggio degli altri capi degli Skidi e di un mercante
francese, raccolse una notevole quantità di mercanzia che offrì a guerrieri e sacerdoti per riscattare il ragazzo. La manovra diplomatica andò in porto. Questo fatto fu riportato sulla Missouri Gazette di St Louis del 19
giugno 1818 in maniera succinta, e poi completato di dettagli qualche anno più tardi da altri testimoni. La
Missouri Gazette, in quello stesso articolo, accennò anche ad un altro sacrificio umano sventato, di una ragazza, qualche anno prima, di cui però non si possiedono i particolari. Grazie a queste imprese, Ritsirisaru e
figlio si conquistarono una certa notorietà tra i bianchi.
Nel maggio del 1833 però, un mezzosangue pawnee si recò a cavallo a Bellevue, sul fiume Missouri, per avvertire l’agente indiano del Governo USA John Dougherty che gli Skidi stavano per sacrificare una ragazza
cheyenne che avevano catturato all’inizio dell’inverno. Dougherty portò con sé cinque uomini e, nella sua
richiesta di riscatto, fu spalleggiato dai capi-tribù, come al solito più sensibili degli altri membri alle esigenze
politiche e diplomatiche. I guerrieri si dichiararono contrari a quella transazione, e con loro i sacerdoti, che
temevano che la collera degli Dei avrebbe causato la rovina della tribù molto più della collera di alcuni uomini bianchi. Dopo una notte di tensione, John Dougherty fece montare a cavallo la fanciulla circondata dai
suoi uomini; si fecero largo sotto gli sguardi minacciosi di molti pawnee. Arrivati all’altezza della dimora di
un importante indiano, Dougherty scorse uno dei sacerdoti skidi fermo in piedi appena dentro l’atrio della
capanna. Poi, di colpo, si udì vibrare un arco, e una freccia si conficcò in pieno petto della ragazza cheyenne, che lanciò un grido strozzato accasciandosi sul collo del destriero. Subito due guerrieri afferrarono le
briglie e trascinarono via il cavallo con la giovane morente in groppa. Nel villaggio si scatenò un parapiglia
tra indiani favorevoli e contrari, che Dougherty riuscì a sedare con enorme fatica. Quando ci riuscì, la fanciulla cheyenne era ormai sparita. I guerrieri skidi l’avevano trascinata morente nella prateria, dove i sacerdoti l’avevano immolata e fatta a pezzi. Quando Dougherty li raggiunse, vide gli autori del gesto far correre
sfrenatamente i loro cavalli, facendo roteare sopra le loro teste brandelli di carne sanguinolenta legati a
cinghie di cuoio. L’unico altro sacrificio di cui sappiamo, tra gli Skidi Pawnee, si verificò il 22 aprile del 1838,
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quando i sacerdoti sacrificarono a Stella del Mattino una giovane appartenente ai Sioux Oglala, di nome Haxti. Forse ce ne furono ancora, ma sicuramente mai più dopo il 1867.
Questa vicenda ci indica che il motivo principale dell’abbandono del Vecchio a favore del Nuovo non è stato
il passaggio da un tipo di economia (agricoltura) a un altro (misto di caccia e agricoltura), come è spesso accaduto, ma è stato principalmente determinato dall’incontro dei nativi d’America con gli uomini bianchi.
Costoro però non hanno affatto imposto con la forza la loro volontà (come accaduto in altre numerose occasioni che hanno poi avuto solo conseguenze negative). Sono stati necessari abilità politica, atti di coraggio, compromessi, e alla fine il Nuovo ha vinto perché nella mutata situazione in cui gli Skidi Pawnee si erano ritrovati a esistere, il Vecchio non aveva più significato. I peggiori nemici del progresso religioso e culturale degli Skidi furono i loro stessi sacerdoti e coloro che ne condividevano il punto di vista, per quanto onesti intellettualmente e interiormente potessero essere, perché rappresentavano il passato. In questo caso
dunque, il grande mutamento di adattamento degli usi e costumi alla vita della prateria ha prodotto solo
una rielaborazione di un rito preesistente degli stessi Pawnee, perché è rimasto affidato alle elaborazioni
dei sacerdoti. La cerimonia è morta quando ha prevalso la saggezza. E per i Pawnee si è aperta una nuova
via, quella della salvezza attraverso la convivenza con l’uomo bianco.
Figura 7 – Gli Skidi Pawnee custodivano sacralmente una loro mappa delle stelle (su pelle, foto a sinistra, in cui Stella del Mattino è l’astro più grande in basso) e una «borsa della medicina» appositamente riservata per la cerimonia
al Dio Stella del Mattino, con gli strumenti utilizzati nel rito dallo specialista del sacro che ne era il depositario (fotografia a destra, con un sonaglio confezionato con una zucca vuota nella mano destra).
Conclusioni
Quelli riportati sono solo tre dei numerosi esempi che, già a livello di uomo arcaico, confermano la teoria
teilhardiana che una maggiore interiorizzazione dell’elemento consente di accedere a stati più complessi e
centrati verso l’avanti. Certamente, è preferibile usare il termine «consente», senza andare oltre, perché la
combinazione degli elementi necessari non produce automaticamente l’effetto, ma si può stare certi che
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prima o poi, studiando il fenomeno per tempi lunghi, il passo in avanti si verifica: «Per il mondo, andare avanti nella durata significa progredire nella concentrazione psichica. In questo movimento si esprime la
continuità dell’evoluzione. Ma lungo questa stessa continuità, possono e persino debbono accadere delle
discontinuità. Infatti, per quanto ci risulta, nessuna grandezza psichica può crescere indefinitamente: ma
sempre, a un dato momento, incontra uno di questi punti critici in cui cambia stato» (Teilhard 1984, p. 64).
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