Il giardino dei raggi di luna

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Sarah Addison Allen
Il giardino dei raggi di luna
Traduzione di Roberta Marasco
Della stessa autrice:
Il profumo del pane alla lavanda
Giorni di zucchero, fragole e neve
IL GIARDINO DEI RAGGI DI LUNA
Titolo originale: The Girl Who Chased the Moon
Copyright © 2007 by Sarah Addison Allen
First published in 2007 by Bantam Books,
a Division of Random House Inc., New York
Copyright © 2012 by Sonzogno di Marsilio Editori® s.p.a. in Venezia
Traduzione di Roberta Marasco/Grandi & Associati
www.sonzognoeditori.it
Prima edizione: gennaio 2012
ISBN 978-88-454-2517-2
Progetto grafico e art direction
Hangar Design Group
Dedicato alla memoria del famoso gigante gentile
Robert Pershing Wadlow (1918-1940).
Quando morì, a ventidue anni,
era alto due metri e settantadue centimetri.
Un record mondiale che non è mai stato superato.
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E
mily tardò qualche istante a rendersi conto che
l’auto si era fermata. Alzò gli occhi dal braccialetto con
i ciondoli, che girava distrattamente intorno al polso, e
guardò fuori dal finestrino. Le due querce gigantesche
nel giardino davanti alla casa sembravano signore nervose colte a metà di un inchino, i vestiti di foglie, verdi e
inamidati, che ondeggiavano al vento.
«È questa?» chiese al tassista.
«Shelby Road numero 6. È questa.»
Emily esitò, poi pagò e scese. L’aria odorava di pomodori dolci e del fumo del noce americano, un profumo al tempo stesso strano e delizioso. Emily si portò
automaticamente la lingua alle labbra. Era il crepuscolo, ma i lampioni non erano ancora accesi. Tanta tranquillità la prese alla sprovvista. All’improvviso ebbe le
vertigini. Nessun rumore in strada. Niente bambini
che giocavano. Niente musica o televisione. Aveva la
sensazione di essere in un altro mondo, come se avesse viaggiato per una distanza infinita.
Si guardò attorno nel quartiere, mentre il tassista tirava fuori dal bagagliaio le due borse di lana grezza
strapiene. La strada era costeggiata da grandi dimore
antiche, la maggior parte esemplari magnifici dell’autentico stile del Sud, come nei vecchi film, ben tenute e
con i portici dipinti.
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L’autista posò le borse sul marciapiede accanto a lei
con un cenno del capo, poi tornò al volante e si allontanò.
Emily lo guardò scomparire. Sistemò qualche ciocca
di capelli sfuggita alla corta coda di cavallo e afferrò i
manici delle borse di lana. Se le trascinò dietro mentre
percorreva il vialetto che partiva dal marciapiede e attraversava il giardino, sotto la volta degli alberi voluminosi.
Fra le foglie faceva freddo ed era buio, così Emily accelerò il passo. Quando emerse dall’altra parte, però, quello
che le si parò davanti la costrinse a fermarsi di colpo.
La casa era completamente diversa dalle altre del
quartiere.
Probabilmente un tempo era stata di un bianco sfarzoso, ma adesso era grigia, e gli archi a sesto acuto delle
finestre, stile revival gotico, erano impolverati e opachi.
L’edificio ostentava in modo scandaloso la propria età e
sputacchiava in giardino schegge di vernice e vecchie
assicelle del tetto. Al piano terra c’era un ampio portico
che faceva il giro della casa, il cui tetto fungeva da terrazza al primo piano. Anni di foglie di quercia sbriciolate li ricoprivano entrambi. Se non fosse stato per l’unico
sentiero sgombro formatosi per l’uso al centro dei gradini, si sarebbe detto che non ci viveva nessuno.
Sua madre era cresciuta lì?
Emily sentì le braccia tremare e diede la colpa al peso
delle borse. Salì gli scalini fino al portico, trascinandosi
dietro i bagagli e un bel po’ di foglie. Posò le borse, arrivò fino alla porta e bussò una volta.
Nessuna risposta.
Provò ancora.
Niente.
Infilò di nuovo i capelli dietro l’orecchio, poi si guardò alle spalle, come per cercare una risposta. Tornò a
voltarsi, aprì la porta a zanzariera arrugginita e gridò
all’interno: «Ehilà?»
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La sua voce riecheggiò nel vuoto.
Nessuna risposta.
Emily entrò con cautela. Le luci erano spente, ma
l’ultimo sole del giorno tossicchiava attraverso la finestra del soggiorno, subito alla sua sinistra. I mobili erano scuri, sontuosi e decorati, ma le parvero incredibilmente grandi, come se fossero fatti per un gigante. Alla
sua destra doveva esserci un’altra stanza, ma una porta
a soffietto chiudeva l’arco. Dritto davanti a lei c’erano
un corridoio che portava in cucina e un’ampia scalinata
che saliva al primo piano. Emily andò alla base delle
scale, guardò in su e gridò: «C’è qualcuno?»
In quell’istante, la porta a soffietto si aprì di scatto ed
Emily balzò all’indietro. Un uomo anziano, i capelli color argento da conio, uscì, chinandosi sotto l’arco per
evitare di sbattere la testa. Era incredibilmente alto e
camminava con un’andatura rigida, le gambe come
trampoli. Sembrava mal costruito, come un grattacielo
fatto di legno morbido invece che di cemento. Sembrava che stesse per sgretolarsi da un momento all’altro.
«Sei arrivata finalmente. Iniziavo a preoccuparmi.»
Emily ricordava la parlata fluida del Sud dalla loro prima
e unica conversazione telefonica, una settimana addietro, ma l’uomo non era affatto come se l’aspettava.
La ragazza allungò il collo per guardarlo. «Vance
Shelby?»
L’uomo annuì. Sembrava che avesse paura di lei. La
innervosiva l’idea che una persona così alta avesse paura
di qualcosa e all’improvviso si ritrovò a sorvegliare i propri movimenti, per non fare niente che lo spaventasse.
La ragazza tese lentamente la mano. «Ciao, io sono
Emily.»
Lui sorrise. Poi il sorriso si trasformò in una risata, un
ruggito che sapeva di cenere, come un grosso fuoco. La
mano di Emily scomparve in quella dell’uomo, quando
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lui la strinse. «So chi sei, bambina. Sei identica a tua
madre quando aveva la tua età.» Il sorriso svanì rapido
come era comparso. L’uomo lasciò cadere la mano, poi
si guardò intorno, a disagio. «Dove sono le tue valigie?»
«Le ho lasciate nel portico.»
Vi fu un breve silenzio. Nessuno dei due era al corrente dell’esistenza dell’altro fino a poco prima. Com’era possibile che fossero già a corto di argomenti? C’erano così tante cose che Emily voleva sapere.
«Puoi fare quello che vuoi, al piano di sopra» disse
lui infine. «È tutto tuo. Io non posso più salirci. Artrite
alle anche e alle ginocchia. È questa la mia stanza adesso.» Indicò la porta a soffietto. «Puoi scegliere la stanza
che vuoi, ma la vecchia camera di tua madre era l’ultima
sulla destra. Dimmi com’è la carta da parati quando ci
entri. Mi piacerebbe saperlo.»
«Grazie. Lo farò» rispose Emily, mentre lui si voltava
e si allontanava verso la cucina, i passi che rimbombavano nelle scarpe incredibilmente grandi.
Emily lo guardò andare via, confusa. Tutto qui?
Tornò sul portico e trascinò dentro le valigie. Al
piano di sopra, trovò un lungo corridoio che odorava
di lana e di chiuso. C’erano sei porte. Emily si incamminò e il suono delle borse di lana che grattavano sul
pavimento di legno duro riecheggiò nel silenzio intorno a lei.
Quando raggiunse l’ultima porta sulla destra, lasciò
cadere le borse e tastò il muro all’interno in cerca dell’interruttore. La prima cosa che notò quando la luce si accese furono le file e file di minuscoli lillà sulla carta da
parati, come quei fogli che a grattarli sprigionano profumo. La stanza profumava davvero un po’ di lillà. Contro
il muro c’era un letto a baldacchino, e i resti laceri e sottili di quello che un tempo era stato il drappo ora pendevano dalle colonne come pali di maggio.
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Ai piedi del letto c’era un baule bianco. Sopra vi era
inciso in lettere svolazzanti il nome Dulcie, il nome della
madre di Emily. Mentre vi passava accanto, la ragazza
lo sfiorò con la mano e si ritrovò nuvolette di polvere fra
le dita. Sotto il trascorrere del tempo, come guardando
attraverso una lastra di ghiaccio, quella stanza parlava
in modo inequivocabile di privilegio.
Non aveva senso. Quella camera non assomigliava
affatto alla madre.
Emily aprì le portefinestre e uscì in terrazza, facendo
scricchiolare le foglie di quercia secche che le arrivavano
alle caviglie. Dalla morte della madre le sembrava tutto
così precario, come camminare su un ponte di carta.
Emily era partita da Boston con una sensazione di speranza, come se arrivare lì potesse aggiustare tutto. L’aveva confortata il pensiero di ricadere nella culla della
giovinezza della madre, di creare un legame con un
nonno che non sapeva di avere.
Invece la stranezza solitaria di quel posto si beffava
di lei.
Non si sentiva a casa.
Emily cercò il braccialetto con i ciondoli per rassicurarsi, ma trovò solo la pelle nuda. Alzò il polso, sbalordita.
Il braccialetto era scomparso.
Emily guardò in basso, poi intorno a sé. Prese a calci
in modo forsennato le foglie sulla terrazza, sperando di
trovarlo. Corse di nuovo nella stanza e trascinò dentro
le borse, pensando che forse il braccialetto si era incastrato in una delle valigie ed era scivolato dentro. Tirò
fuori i vestiti e per sbaglio fece cadere il computer portatile, che aveva avvolto nel cappotto bianco invernale.
Ma il braccialetto non era da nessuna parte. Emily
corse fuori dalla stanza e giù per le scale, quindi si fiondò oltre la porta di ingresso. Era così buio sotto la volta
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degli alberi, ora, che dovette rallentare finché non filtrò
la luce dei lampioni, poi corse sul marciapiede.
Dopo averlo cercato per dieci minuti, si rese conto
che c’erano solo due possibilità: o le era caduto sul marciapiede e qualcuno l’aveva già preso o le era scivolato
nel taxi mentre ci giocherellava, e adesso era sulla strada
per Raleigh, dove lei aveva preso il taxi alla stazione degli autobus.
Il braccialetto apparteneva alla madre. Dulcie lo adorava e adorava in particolare il ciondolo con la mezzaluna. Quel ciondolo era diventato sottile a furia di essere
strofinato, ogni volta che Dulcie si perdeva nei suoi sogni a occhi aperti.
Emily rientrò lentamente in casa. Non poteva credere di averlo perso.
Sentì sbattere qualcosa che sembrava lo sportello di
un’asciugatrice, poi il nonno uscì dalla cucina.
«Lillà» disse Emily, quando lo incrociò nel­l’atrio, dove si era fermata e aveva aspettato che lui la notasse, per
non spaventarlo. Che strano che fosse lui il gigante e lei
quella che si sentiva fuori posto.
Il nonno le lanciò un’occhiata guardinga, come se
Emily stesse per ingannarlo. «Lillà?»
«Mi hai chiesto com’è la carta da parati nella vecchia
stanza della mamma. Ci sono i lillà.»
«Ah. C’erano sempre fiori, rose di solito, quando era
piccola. È cambiata un sacco a mano a mano che lei cresceva. Ricordo che una volta c’erano sopra dei fulmini su
uno sfondo nero come il catrame. E un’altra volta la carta era di un azzurro a scaglie, come la pancia di un drago.
Tua madre la odiava, ma non riusciva a cambiarla.»
Emily sorrise. «Non sembra proprio da lei. Ricordo
che una volta...» Si interruppe, quando il nonno guardò
altrove.
Vance non voleva saperlo. L’ultima volta che aveva
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visto sua figlia era stato vent’anni prima. Non era nemmeno curioso?
Ferita, Emily distolse lo sguardo. «Mi sa che andrò a
letto adesso.»
«Hai fame?» chiese il nonno, seguendola a una certa
distanza. «Sono andato al supermercato stamattina. Ho
comprato un po’ di cibo da adolescenti.»
Emily posò il piede sul primo scalino e si voltò. Vance fece subito un passo indietro. «Grazie. Ma sono davvero stanca.»
Lui annuì. «Va bene. Domani, magari.»
Emily tornò nella stanza e si lasciò cadere sul letto.
Dal materasso esplose una zaffata di muffa. La ragazza
fissò il soffitto. Erano entrate alcune falene, attratte dalla luce, e sobbalzavano intorno alle ragnatele del lampadario a corona. Sua madre era cresciuta con un lampadario a corona nella stanza? La stessa persona che le
faceva la predica se lasciava una luce accesa in una stanza vuota?
Emily allungò il braccio, prese alcuni vestiti dal pavimento e vi nascose dentro il viso. Avevano un odore
familiare, come l’incenso della madre. Chiuse gli occhi
con forza, cercando di non piangere. Era troppo presto
per stabilire di aver preso la decisione sbagliata. E anche
se lo fosse stata, non poteva farci niente. Era sicura di
poter sopravvivere un anno in quel posto.
Sentì il vento sparpagliare le foglie secche per la terrazza e si rese conto che il suono assomigliava a quello
di qualcuno che si aggirasse là fuori. Si tolse i vestiti dal
viso e girò la testa per guardare oltre la portafinestra
aperta.
La luce della stanza illuminava le cime degli alberi
più vicini nel giardino dietro la casa, ma i rami non si
muovevano. Emily si mise a sedere e scivolò giù dal letto. Una volta fuori, si guardò attorno con attenzione.
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«C’è qualcuno?» gridò, senza sapere che cosa avrebbe
fatto se le avessero risposto.
All’improvviso qualcosa catturò la sua attenzione. Si
avvicinò rapida alla balaustra. Le sembrava di vedere
qualcosa ai margini del bosco, oltre il gazebo del giardino incolto.
Eccola! Eccola di nuovo. Era un’intensa luce bianca,
un bagliore rapido e fugace che sfrecciava fra gli alberi.
A poco a poco la luce svanì, tornò nel­l’oscurità del bosco fino a scomparire del tutto.
“Benvenuta a Mullaby, North Carolina” pensò Emily.
Terra di luci fantasma, giganti e ladri di gioiel­li.
Si voltò per rientrare e si bloccò, pietrificata.
Sul vecchio tavolo di metallo, in cima a uno strato di
foglie secche, c’era il braccialetto della madre.
***
Troppo vino.
Ecco a che cosa avrebbe dato la colpa Julia.
Quando avesse incontrato Stella al mattino avrebbe
detto: «Oh, per quella cosa che ho detto riguardo a Sawyer
ieri sera, dimenticala. Era il vino a parlare per me.»
Quella sera, mentre saliva al suo appartamento, Julia
si sentiva vagamente nel panico e per niente brilla, come le capitava di solito nelle sere d’estate dopo aver bevuto un po’ di vino nel portico sul retro con Stella. Le
mancavano solo sei mesi per liberarsi di nuovo di quella
città, sei mesi che avrebbero dovuto essere facili, la parte in discesa del suo piano biennale. Invece aveva aperto la bocca a sproposito e si era appena resa le cose infinitamente più difficili. Se le sue parole fossero arrivate a
Sawyer, lui non avrebbe fatto finta di niente. Julia lo
conosceva troppo bene.
Aprì la porta in cima alle scale ed entrò nello stretto
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corridoio. Il piano di sopra della casa di Stella non era
stato ristrutturato perché sembrasse un appartamento.
C’erano quattro porte che davano sul corridoio. Una
portava in bagno, una alla stanza da letto di Julia, una a
una seconda stanza da letto che era stata trasformata in
cucina e un’altra a una minuscola camera che Julia usava come soggiorno.
Anni prima, dopo aver scialacquato il fondo fiduciario di Stella, il marito aveva deciso che dovessero cercare un affittuario per avere qualche entrata extra, così
aveva piazzato una lunga tenda in cima alle scale e aveva detto: «Voilà! Appartamento istantaneo.» Poi si era
stupito che nessuno lo volesse. Gli uomini che agiscono
senza pensare rimangono sempre stupiti dalle conseguenze, diceva Stella. L’ultimo anno di matrimonio, il
marito aveva cominciato a lasciare una sottile polvere
nera su tutto quello che toccava, a dimostrazione del
fatto che aveva un cuore nero, sosteneva Stella. Quando
aveva trovato la polvere nera sulle altre donne – spruzzata dietro i polpacci d’estate, quando portavano i calzoncini corti, e dietro le orecchie quando tiravano su i
capelli – Stella lo aveva finalmente sbattuto fuori. Poi
aveva chiesto al fratello di mettere una porta in cima
alle scale e un lavandino e un allacciamento per il forno
in una delle stanze da letto, nella speranza che finire
quello che aveva iniziato quello schifoso del suo ex marito le portasse qualcosa di buono. Julia era la sua prima
affittuaria.
All’inizio Julia si era sentita a disagio all’idea di affittare l’appartamento di una delle sue nemiche del liceo.
Ma non aveva molta scelta. L’appartamento di Stella
era l’unico che potesse permettersi quando si era trasferita di nuovo a Mullaby. Julia si era stupita di scoprire
che, nonostante il loro passato, lei e Stella in realtà andavano d’accordo. Era un’amicizia improbabile, che an17
cora non riusciva a spiegarsi. Stella era stata una delle
ragazze più popolari della Mullaby High, un membro
del Sassafras, come si faceva chiamare il gruppo elitario
di ragazze carine e spumeggianti. Julia era stata la ragazza che tutti evitavano nei corridoi. Era ostile e scontrosa e innegabilmente strana. Si tingeva i capelli di un
rosa acceso, portava ogni giorno un girocollo di cuoio
borchiato e usava un eyeliner tanto spesso e nero da
sembrare un livido.
E suo padre faceva di tutto per non accorgersene.
Julia percorse il corridoio fino in camera da letto. Stava per premere l’interruttore, quando notò una luce
nella casa vicina, quella di Vance Shelby. Raggiunse al
buio la finestra aperta e scrutò fuori. In tutto il tempo
che aveva vissuto a casa di Stella, in tutte le notti insonni che aveva trascorso a guardare fuori da quella finestra, non aveva mai visto una luce nelle stanze da letto
della casa accanto. Sul terrazzo vide una ragazzina. Era lì,
immobile come la neve, che fissava i boschi dietro la casa
di Vance. Era magra come i rami di un salice, aveva un
casco di capelli biondi ed emanava una sorta di vulnerabilità triste, che profumava la notte di sciroppo d’acero.
Aveva qualcosa di familiare e fu allora che Julia d’un tratto ricordò. La nipote di Vance sarebbe andata a vivere
con lui. La settimana prima non si era parlato d’altro al
ristorante. Qualcuno era curioso, qualcuno era spaventato e altri erano apertamente crudeli. Non tutti avevano
perdonato alla madre della ragazza quel che aveva fatto.
A Julia non piaceva l’idea di ciò che aspettava quella
ragazza. La rendeva tesa e apprensiva. Far dimenticare
il proprio passato è già abbastanza difficile. Non si dovrebbe essere costretti a far dimenticare anche quello
altrui.
Il mattino dopo, decise Julia, avrebbe preparato una
torta in più al ristorante e gliel’avrebbe portata.
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Si svestì e andò a letto. Dopo un po’ la luce nella casa
accanto si spense. Julia sospirò, si voltò di lato e attese
di mettere un’altra croce sul calendario.
***
Dopo la morte del padre, quasi due anni prima, Julia si
era presa qualche giorno libero per tornare a Mullaby e
sistemare le sue cose. L’idea era vendere in fretta la casa
e il ristorante, poi prendere i soldi, tornare nel Maryland
e realizzare finalmente il sogno di aprire una pasticceria
tutta sua.
Ma le cose non erano andate esattamente come sarebbero dovute andare.
Presto Julia aveva scoperto che il padre era indebitato fino al collo e che aveva ipotecato la casa e il ristorante. Con la vendita della casa, Julia aveva pagato l’ipoteca
sulla casa e una piccola parte di quella sul ristorante. Ma
anche così, rischiava la bancarotta, perfino se avesse
venduto subito il locale. Quindi aveva escogitato quello
che adesso considerava il famigerato piano biennale. Se
avesse vissuto in modo frugale e avesse aumentato il
volume d’affari del J’s Barbecue, in due anni avrebbe
pagato l’ipoteca e avrebbe potuto vendere il ristorante,
ricavandone un discreto profitto. Era stata chiara con
tutti in città. Sarebbe rimasta a Mullaby per due anni,
ma questo non significava che vivesse di nuovo lì. Era in
visita. Punto.
Quando aveva preso in mano il ristorante, il J’s Barbecue aveva una clientela modesta ma fedele, grazie al
padre che riusciva a fare in modo che la gente uscisse
dal locale felice, con il profumo dolce del fumo giallo del
barbecue a seguire i clienti come uno strascico. Mullaby
però aveva più ristoranti di barbecue pro capite di qualunque altra cittadina dello Stato, quindi la concorrenza
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era feroce. Adesso che era venuto a mancare il tocco
personale del padre, Julia sapeva che il ristorante aveva
bisogno di qualcosa che lo differenziasse dagli altri. Così aveva iniziato a cucinare e vendere dolci, la sua specialità, e gli affari ne avevano tratto un giovamento immediato. In breve, J’s Barbecue era diventato noto non
solo per il buon barbecue “alla maniera di Lexington”,
ma anche per i dolci e i pasticcini migliori della città.
Julia arrivava sempre al ristorante prima dell’alba e
l’unica persona che trovava era il cuoco. Non si parlavano quasi mai. Lui aveva il suo lavoro e Julia aveva il proprio. Julia lasciava la gestione quotidiana del locale alle
persone che il padre aveva istruito e di cui si era fidato.
Cercava di restarne fuori il più possibile, nonostante
avesse il barbecue nel sangue, conficcato nelle ossa come
uno sperone. Julia aveva voluto bene al padre, ma era
trascorso molto tempo da quando aveva desiderato essere come lui. Da bambina, prima di trasformarsi in un’adolescente immusonita con i capelli rosa, Julia lo seguiva
al lavoro ogni giorno prima di andare a scuola ed era ben
felice di aiutarlo in tutto, servendo ai tavoli o gettando
legna nella fossa che fungeva da affumicatoio. Alcuni dei
suoi ricordi più cari coincidevano con i momenti trascorsi con il padre da J’s Barbecue. Ma erano successe troppe
cose da allora perché Julia potesse illudersi di tornare a
essere altrettanto serena in quel posto. Così arrivava presto, cucinava la torta del giorno e se ne andava proprio
quando entravano i primi clienti mattinieri per la colazione. Nei giorni fortunati, non vedeva neanche Sawyer.
Quello, a quanto pareva, non era un giorno fortunato.
«Non indovinerai mai che cosa mi ha raccontato
Stella ieri sera» disse Sawyer Alexander entrando a passo tranquillo in cucina proprio mentre Julia finiva la torta di mele a strati che avrebbe portato alla nipote di
Vance Shelby.
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Julia chiuse gli occhi un istante. Stella doveva averlo
chiamato non appena Julia l’aveva salutata, la sera prima, ed era andata di sopra.
Sawyer si fermò accanto a lei al tavolo di acciaio inossidabile e le si fece vicino. Era come l’aria fresca e frizzante. Era controllato e orgoglioso, ma chiunque glielo perdonava grazie al fascino che gli scintillava intorno come
la luce del sole. Occhi azzurri, capelli biondi, era bello,
intelligente, ricco e divertente. Ed era anche disgustosamente gentile, come tutti gli uomini della sua famiglia,
pieni fino all’orlo dell’affettazione del Sud. Sawyer ogni
mattina accompagnava in macchina il nonno al ristorante di Julia, solo perché potesse fare colazione con i
suoi vecchi amici.
«Non dovresti stare qui dietro» disse Julia, mentre
metteva l’ultimo strato di torta sopra le mele essiccate e
il ripieno speziato.
«Denunciami alla proprietaria.» Le infilò alcuni capelli dietro l’orecchio sinistro e le dita indugiarono sulla
sottile ciocca rosa che Julia continuava a tingersi in quel
punto. «Non vuoi sapere che cosa mi ha detto Stella
ieri sera?» chiese Sawyer.
Julia allontanò di scatto la testa dalla sua mano, mentre sistemava le ultime mele e l’ultimo ripieno speziato
in cima alla torta, evitando di coprire i lati. «Stella era
ubriaca ieri sera.»
«Ha detto che cucini torte per causa mia.»
Julia sapeva che l’avrebbe detto, ma restò comunque
immobile, la spatola della glassa ferma a mezz’aria. Riprese subito a spalmare il ripieno, sperando che lui non
se ne fosse accorto. «Stella crede che tu abbia poca autostima. Cerca di rafforzare il tuo ego.»
Sawyer sollevò un sopracciglio nel suo modo insolente. «Sono stato accusato di molte cose, ma la poca
autostima non è fra quelle.»
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«Dev’essere dura essere tanto bello.»
«Un inferno. L’hai detto davvero?»
Con un suono metallico Julia lasciò cadere la spatola nella ciotola vuota del ripieno, poi portò entrambe le
stoviglie al lavandino. «Non mi ricordo. Ero ubriaca
anch’io.»
«Tu non ti ubriachi mai» disse lui.
«Non mi conosci abbastanza bene da uscirtene con
affermazioni generalizzate tipo “Tu non ti ubriachi mai”.»
Julia si sentì meglio dopo averlo detto. Era stata via diciotto anni. “Guarda che progressi ho fatto” avrebbe
voluto dire.
«D’accordo. Ma conosco Stella. Che io sappia non ha
mai mentito, neanche dopo aver bevuto. Perché avrebbe dovuto dirmi che cucini torte per causa mia se non
era vero?»
«Io cucino torte. Tu hai un tristemente noto debole
per i dolci. Forse ha ingarbugliato le due cose.» Julia andò in magazzino a prendere una scatola per la torta e ci
mise più del necessario, nella speranza che Sawyer desistesse e se ne andasse.
«Ti porti via una torta?» chiese lui, quando Julia rientrò.
Non si era mosso. Con tutta l’attività delirante in cucina –
le cameriere che entravano e uscivano, i cuochi che facevano avanti e indietro, il tonfo costante della legna che veniva tagliata a mano – lui era lì immobile. Julia dovette
voltarsi subito. Fissare troppo a lungo un uomo della famiglia Alexander era come fissare il sole. L’immagine ti restava impressa. Chiudevi gli occhi e continuavi a vederlo.
«La porto alla nipote di Vance Shelby. È arrivata ieri
sera.»
La risposta lo fece scoppiare a ridere. «Stai davvero
portando a qualcuno una torta di benvenuto?»
Julia non si rese conto dell’ironia finché lui non gliela
fece notare. «Non so che cosa mi è preso.»
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Sawyer la guardò mettere il dolce nella scatola di cartone. «Mi piace come ti sta questo colore» disse e toccò
la manica della camicia bianca a maniche lunghe.
Julia ritrasse subito il braccio. Dopo un anno e mezzo passato a evitare quell’uomo, doveva proprio andare a dire a Stella l’unica cosa che glielo avrebbe fatto
piombare addosso come attirato dalla forza di gravità?
Sawyer aveva cercato una scusa simile dal momento in
cui lei era rientrata in città. Voleva riavvicinarsi. Julia lo
sapeva. E la cosa la mandava su tutte le furie. Come poteva anche solo pensare di ricominciare dove avevano
lasciato, dopo tutto quello che era successo?
Julia allungò il braccio e chiuse la finestra sopra il tavolo. Era l’ultima cosa che faceva ogni mattina e a volte
la intristiva. Un altro giorno, un’altra chiamata senza risposta. Prese la scatola con la torta e la portò con sé nel
ristorante, senza dire a Sawyer una parola di più.
Il J’s Barbecue era un locale alla buona, come la maggior parte degli autentici ristoranti di barbecue del Sud:
pavimenti in linoleum, tovaglie di plastica sui tavoli,
séparé di legno pesante. Un omaggio alla tradizione.
Appena arrivata, Julia aveva tirato giù i cimeli automobilistici malconci della Nascar, che il padre aveva appeso alla parete in fondo, ma aveva suscitato così tante
proteste da doverli riappendere tutti.
Appoggiò la scatola e prese la lavagna dal bancone
del ristorante. Ci scrisse sopra i nomi delle torte del
giorno: torta Velluto Rosso e ciambella alle pesche, tipiche del Sud, ma anche amaretti al tè verde e miele e
krapfen ai mirtilli rossi. Julia sapeva che i dolci più insoliti erano quelli che finivano prima. Le ci era voluto quasi un anno, ma si era conquistata i clienti abituali con i
dolci che già conoscevano, così adesso erano disposti a
provare qualunque cosa preparasse.
Sawyer uscì nel­l’istante in cui lei rimetteva la lavagna
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sul bancone. «Ho detto a Stella che stasera porterò la
pizza. Ci sarai?»
«Ci sono sempre. Perché voi due non andate a letto
insieme e la fate finita?» Il corteggiamento a suon di pizza di Sawyer andava avanti da quando Julia era tornata a
Mullaby. Stella giurava che fra loro non ci fosse niente,
ma Julia era convinta che l’amica fosse un’ingenua.
Sawyer si chinò verso di lei. «Io e Stella siamo già
andati a letto insieme» le disse all’orecchio. «Tre anni fa,
subito dopo il suo divorzio. E prima che ti sembri indiscriminato, sappi che adesso cerco di evitare i rimorsi.»
Julia gli lanciò un’occhiataccia, mentre Sawyer si allontanava. Quel suo riferimento noncurante, quasi sfacciato, l’aveva colta di sorpresa e le aveva lasciato una
sensazione fredda e aspra, come quando si prova il lime
per la prima volta.
Non poteva avercela con lui. Era un adolescente spaventato quando tanti anni prima aveva scoperto che lei
era rimasta incinta dopo la loro unica notte insieme, sul
campo da football. Era un’adolescente spaventata anche lei. E avevano preso l’unica decisione che all’epoca
erano in grado di prendere. Giusta o sbagliata che fosse.
Ma non sopportava che lui fosse andato avanti tranquillamente con la propria vita. Per Sawyer si era trattato
solo di una notte. Una notte sventurata con la ragazza
stramba e impopolare alla quale a scuola non rivolgeva
quasi la parola. La ragazza follemente innamorata di lui.
Oddio. Stava ricascando di nuovo in quel ruolo. Non
poteva farlo.
Sei mesi e rotti e avrebbe lasciato quel posto assurdo
e non avrebbe mai più pensato a Sawyer.
Con un po’ di fortuna.
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2
Q
uando si svegliò, Emily aveva l’attaccatura dei capelli bagnata di sudore ed era esausta. Inoltre non aveva la più pallida idea di dove si trovasse. Si alzò subito
a sedere e tolse gli auricolari del lettore MP3 dalle orecchie. Si guardò intorno nella stanza: la carta da parati con i lillà, i mobili malconci da principessa. Fu allora
che si ricordò. Si trovava nella vecchia stanza da letto
della madre.
Emily non aveva mai dormito in un posto che sembrasse tanto vuoto. Nonostante sapesse che il nonno
era al piano di sotto, avere tutto il piano per sé la rendeva inquieta. Per tutta la notte si erano susseguiti lunghi
intervalli di tranquillità punteggiati dagli schiocchi sonori di assestamento del legno della casa. Le foglie continuavano a sbatacchiare fuori dalla porta della terrazza.
Alla fine Emily aveva acceso il lettore MP3 e aveva cercato di fingere di trovarsi altrove. In un posto che non fosse tanto umido.
Paura o no, la notte successiva avrebbe dovuto dormire con le porte della terrazza aperte, se non voleva
morire in una pozza di sudore. A un certo punto della
notte aveva scalciato via le lenzuola. Si era coricata in
pigiama, ma poco dopo si era liberata dei pantaloni e
adesso indossava solo la parte di sopra. La madre poteva anche essere la persona più politicamente corretta
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