Settembre 2006, Anno 3, Numero 5 Newsl ett er di S ociol ogia Scrivi alla redazione >> [email protected] Ricerca Sociale R i c e r c a 3 S o c i a l e L’intervista al professor Massimo Follis si inserisce nello spazio ormai consueto dedicato alle storie intellettuali dei e delle docenti dell’Ateneo torinese. Massimo Follis è afferente ai corsi di studio in Scienze dell’Amministrazione e Consulenza del Lavoro (laurea di 1° livello), e in Analisi e valutazione dei Sistemi Complessi (specialistica). È titolare degli insegnamenti di Introduzione all’analisi dei reticoli sociali e Sociologia del lavoro, nonché neo-coordinatore del Dottorato di ricerca in Ricerca Sociale Comparata, presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Torino. Intervista a Massimo Follis di Marco Pozzan Quarant'anni di professione. Come anticipato proponendole l’intervista, inizierei chiedendole di parlarci della sua tesi. Mi chiede della tesi, la mia storia però comincia prima. Mentre l’attendevo ho ripensato al mio rapporto con la disciplina e mi sono reso conto che non si tratta di una storia continua, ma piuttosto caratterizzata da diverse svolte e ricominciamenti. Alcuni colleghi mi dicono che in fondo è riconoscibile nel mio lavoro un filo rosso. Io però non lo vedo chiaramente. Percepisco piuttosto le discontinuità. La mia carriera è atipica rispetto a quanto comunemente avviene. Sono stato infatti cooptato precocemente dall’allora neonata Facoltà di Scienze politiche alla ricerca di risorse e avendo sciolto a quel tempo ogni dubbio sulla mia vocazione professionale, accettai subito. Ho poi sostato a lungo prima nella posizione di Professore incaricato, quindi associato, percorrendo diverse piste di ricerca, cui successiva-mente non ho dato seguito. Questo denota una certa dispersione nella mia carriera, una metrica non ordinata. Credo sia significativo dirlo. Un assestamento è avvenuto nella seconda metà degli anni ottanta. Volendo individuare un punto d’inizio, io nasco alla sociologia grazie al Professor Marletti, che negli anni sessanta aveva creato presso il corso di laurea in Scienze politiche (all’insegna della cattedra di Socio-logia del Professor Barbano) i Gruppi di ricerca di sociologia. Cominciai assistendo ai seminari promossi da Barbano e da Bobbio presso l'Istituto Gioele Solari. Si trattava per lo più d'incontri con intellettuali non accademici, spesso provenienti dal mondo della politica, qualificati a confrontarsi con la sociologia (d’altra parte gli accademici della nostra disciplina erano allora pochissimi). Ricordo una splendida lezione di Vittorio Foa! Inoltre anche noi eravamo sollecitati ad attivare dei seminari. Fu nel complesso un’iniziativa davvero appassionante. Poi, poco alla volta, spinto da una forte passione intellettuale, entrai a fare parte di questa piccola comunità. Non siamo in molti ad essere sopravvissuti a quell’esperienza. Nel gruppo originario, con maggiore o minore coinvolgimento, erano presenti alcuni miei coetanei, tra i quali il Professor Pichierri (ora a Scienze della formazione), il Professor Almondo e il Professor Fischer. Proprio il Professor Fischer ha ricordato questa esperienza durante l’intervista a noi rilasciata e pubblicata nel numero precedente. Svolgevate dunque attività di ricerca. Sì, iniziai a fare ricerca prima di laurearmi. Eravamo "sul mercato" per così dire. Si trattava per lo più di piccole ricerche, ma talvolta anche pagate. Ricordo in particolare due survey con questionario strutturato per il Piano regionale della Valle d’Aosta. Certo, io ero un pulcino e il mio compito prevalente era quello di effettuare le interviste. Ma già subito dopo la laurea mi fu offerta l'opportunità di condurre insieme al Professor Taglioli (quasi un tandem, il nostro, all’interno del più vasto gruppo) una survey sugli operai contadini, nell'ambito di un progetto diretto dal prof. Barbano. Era un tema che avevamo scelto noi (Barbano era davvero molto disponibile). C'interessava studiare il fenomeno dal punto di vista dell’alternanza d'attività. Un tema curioso, se vuole; una sorta di fiore all’occhiello, che pur rientrando nella tematica più vasta del cambiamento sociale, era ai margini della sociologia di allora, in cui dominavano gli studi sulla seconda fase dell'industrializzazione che aveva assunto una dimensione di massa, e richiamava l’attenzione sui problemi dall’immigrazione. Tuttavia, vi riconosco un rilievo analitico. Infatti, nel paper che poi scrissi con Taglioli, confrontandomi con le analisi dei processi di modernizzazione che parlavano di una progressiva specializzazione dei ruoli e trovandomi di fronte ad un fenomeno che andava apparentemente contro tali considerazioni, mi domandavo se alla sua origine ci fossero unicamente motivi di convenienza economica e non anche l'aspirazione ad un lavoro autonomo, di cui il parallelo lavoro in fabbrica riduceva l'incertezza di reddito. Mi ponevo, cioè, già delle domande che nascevano all’interno della disciplina. Ci credevo molto....tanto che quando, in quel periodo, mi fu offerta la possibilità d’intraprendere la carriera diplomatica (a seguito di uno stage molto selezionato presso tutte le sedi italiane a Parigi, durante il quale mi occupai pure a fondo della mia tesi di laurea), rifiutai piacendomi e riconoscendomi più nel mondo della ricerca sociale. Questo avvenne durante il periodo universitario? Sì, nell’ultimo anno. Fu un impegno di circa tre mesi. Ricordo che mi mantenevo malamente, si richiedevano infatti vestiti inappuntabili e avevo qualche problema in questo. Ma, insomma, mi fu comunque fatto intendere che avrebbero avuto un occhio di favore nei miei confronti durante il successivo concorso, avendo io soddisfatto le aspettative di chi mi monitorava. Compiuta la scelta per la sociologia mi rilassai. Fino a quel momento non ero stato così convinto del mio percorso. Avevo addirittura intrapreso il corso di Laurea in Scienze politiche Settembre 2006, Anno 3, Numero 5 Scrivi alla redazione >> [email protected] perché era quello che vincolava di meno. Fu in sostanza una scelta per esclusione piuttosto che in positivo. Il rapporto con le scienze sociali è dunque certamente maturato in me grazie alla frequentazione dei Gruppi di sociologia: un ambiente anche umano molto importante, fatto di relazioni profonde. Fu un periodo bellissimo. Erano gli anni sessanta, un periodo entusiasmante per chi, orientato come noi a sinistra, credeva in un cambiamento della società in meglio. Ricordo che eravamo stakanovisti, lavoravamo anche a Natale. Lavoravo sempre! Lavoro regalato....era una forma d'apprendistato. Avevamo una visione militante della ricerca, la passione politica era indubbiamente un nostro elemento qualificante. Insieme a Marletti mi spinsi a proporre al gruppo dirigente della Federazione di Torino del Partito Comunista, al quale ero allora iscritto, di fare una riflessione sociologica sulla sua democrazia interna. Ci fu permesso e fu quindi organizzato un seminario, durante il quale raccontammo loro, con caute e garbate argomentazioni e avanzando proposte, che il calo di iscritti e di partecipazione alla vita del Partito era dovuto al muro di gomma esistente tra la base e i vertici - di cui per altro erano perfettamente consapevoli. Non intendevamo fornire linee d’azione, né essere consiglieri del principe; piuttosto cercavamo spazi, desideravamo dimostrare l’utilità dei nostri lavori. Una posizione che ancora condivido. Mi caratterizzava, cioè, una visione dal basso, unita all’interesse per la democrazia diretta - aspetti poi ricorrenti, a partire dalla mia tesi di laurea. Tuttavia, la scelta della tesi, anch’essa importante, costituisce un capitolo a parte. Me ne parli. Impiegai tre anni per preparare la tesi di laurea. È un episodio a sé, una dimensione che suscita ancora ambiguità e sofferenza nel mio ricordo personale, perché sono convinto che avrei potuto trarne una monografia se fossi stato più imprenditivo, a fronte del mancato sostegno del mio relatore e della votazione di 108 che ottenni, invece del massimo dei voti, come mi aspettavo. Tuttavia, ho sempre avuto un debito di gratitudine per Bobbio, che come correlatore e in modo inusuale (dimostrando anche profonda sensibilità umana) fece un intervento per mia fortuna molto favorevole. In seguito, mi propose anche di scrivere due voci (Consigli operai e Autogestione, che ora si possono considerare come archeologia politica) per il Dizionario di politica da lui curato, così che misi in parte a frutto il lavoro della tesi. Però fu nel complesso un evento spiacevole, che mi ha reso molto attento a questi passaggi nelle carriere dei giovani. Uno squilibrio fra investimento e ricompensa può provocare delle cicatrici che restano. In particolare, non avere un riconoscimento in un contesto così incerto come quello dell’attività creativa può portare a pensare che ciò che si è prodotto non ha valore, con conseguenze negative sia sul piano psicologico, sia su quello pratico (se non si pubblica, non si è conosciuti). Quale argomento affrontò nella sua tesi di laurea? Dopo un’incertezza iniziale, discutendone con Barbano, decisi Newsl ett er di S ociol ogia 4 per il tema dell’autogestione. All’epoca, la Repubblica Jugoslava, che comprendeva tutto ciò che fu successivamente smembrato, avendo rotto negli anni Cinquanta con il blocco sovietico e pur mantenendo un regime a partito unico d'ispirazione socialista, tentava di battere in ambito economico una terza via, alternativa a quella capitalista e a quella a pianificazione centralizzata. L’ideologia era quella dell’autogestione, appunto. Questa prospettiva ha illuso molti. Vi furono tentativi nell’Algeria di Ben Bella, subito dopo l’indipendenza dalla Francia, ed è poi noto il ruolo della Jugoslavia e dell’India nel Movimento dei paesi non-allineati. Un pezzo di storia fallita ma importante, che intrigava molto. Ebbene, io affondai in questo. Volendo risalire alle origini di tale prospettiva, m'immersi in un mare di letture sul socialismo in generale e su quello utopista in particolare, che sfociarono in uno studio sistematico di quei filoni del movimento operaio, che negli anni della Rivoluzione d’ottobre, promossero sollevazioni in tutta Europa all’insegna dell’autogoverno operaio, l’altra faccia dell’autogestione. Ma il pezzo forte della tesi era la descrizione del meccanismo di funzionamento dell’autogestione. Un meccanismo complicatissimo, che aveva una base nell’economia (gli utili delle imprese, pur essendo queste di proprietà pubblica, potevano essere reinvestiti e gestiti direttamente dai lavoratori, che avevano anche qualche diritto sulla nomina dei direttori) ed una nella politica. Vi era cioè una continua tensione tra decisioni centralistiche di piano e quelle autonome: l’idea era di rilassare man mano le prime. Il problema della Jugoslavia, noto allora e analogo alla situazione italiana oggi, era la compresenza di regioni ricche al nord e molto povere al sud, che godevano delle redistribuzioni di risorse provenienti dalla tassazione, suscitando conflittualità. Non conoscendo il serbocroato, potei consultare la sola letteratura ufficiale in francese, che taceva dei conflitti nazionali ed etnici, di cui siamo venuti poi tutti a conoscenza. Compresi successivamente che il tentativo messo in atto era di sanare i dissidi interni per via economica, cioè riconoscendo le autonomie locali. Il mio fu per certi aspetti un lavoro cieco, privo di un vero bandolo critico. Si trattò quindi di un tentativo fallito. Certamente, a fronte poi delle conseguenze a tutti note. Tuttavia, era un argomento di forte interesse in Occidente, una terza via verso lo sviluppo. Riassumendo schematicamente, l’idea, originariamente in Lenin e da lui poi contraddetta, che i mezzi del cambiamento devono essere adatti al livello di sviluppo delle forze produttive, era coerente con l’allora diffusa predilezione per l’autogestione, e sembrava riconoscere uno spazio effettivo alla libertà individuale (la democrazia diretta). Quest'aspetto si saldava con un altro mio interesse sociologico, la possibilità di prendere decisioni come manifestazione attiva della libertà. Fu un periodo, infatti, in cui mi occupai anche di scienza politica, conseguendo appena laureato una borsa di studio presso il CoSPoS (Comitato per le Scienze Politiche e Sociali in Italia). La parte originale e che più mi appassionò della tesi era vedere se e come potesse funzionare un sistema di gestione Settembre 2006, Anno 3, Numero 5 Scrivi alla redazione >> [email protected] basato su decisioni prive del presupposto del comando. Due erano gli aspetti rilevanti: da una parte la necessità di coniugare gli interessi particolari dei lavoratori coinvolti nella direzione dell’impresa, inclini a spartirsi gli utili, con quello generale del loro reinvestimento; dall’altra, l’intento di realizzare processi gestionali condivisi, tali per cui ogni lavoratore si trovasse a perseguire obiettivi e rispettare regole che aveva contribuito a stabilire. Si tratta di un livello d'analisi micro, per il quale la sociologia del tempo non forniva quasi alcuno strumento (ricordo quanto cercai di spremere dalla distinzione tra potere e autorità!), ma che qualifica il mio rapporto con la disciplina. Da questo tentativo d'analisi sono iniziati i miei interessi per il lavoro e l'aspirazione a far coesistere l’impegno professionale nella disciplina con quello politico, un elemento senza tener conto del quale si comprende poco la mia generazione in Italia. L’idea era quella di condurre studi utili ad una parte politica affinché potesse correggere gli errori e realizzare al meglio i propri obbiettivi. Senza poi dimenticare che in famiglia ebbi esperienza diretta del mondo dell’industria, in quanto mio padre era stato un piccolo imprenditore. Quanto durò la sua collaborazione presso il CoSPoS? Poco, perché presto diventai assistente volontario in Sociologia (chiamato proprio dal Professor Barbano), poi assistente supplente (sostituendo il Professor Farneti che fu promosso di grado) e quindi nel 1969, nell’appena nata Facoltà di Scienze politiche, ebbi l’incarico in Sociologia del lavoro e da allora l’ho sempre mantenuto. Di cosa si è occupato da quel momento? L'assunzione dell'insegnamento di questa materia riorientò di necessità i miei interessi. Volendo dare qualche elemento di contiguità, posso citare alcuni miei input ispiratori. Un autore che influenzò diversi torinesi, orientandoli allo studio del lavoro, fu Alain Touraine. Quest’autore francese è diventato progressivamente una maitre-a-pensée, che ben rappresenta una visione della sociologia che mi è pochissimo congeniale. Ma la sua tesi di dottorato, una ricerca sull’evoluzione del lavoro operaio nelle officine Renault, rappresentò una piccola Bibbia per diversi di noi, anche perché si interfacciava molto bene con le considerazioni che Marx aveva svolto nel Quarto capitolo del primo libro del “Capitale” (un capitolo di sociologia del lavoro e dell’organizzazione vera e propria). Allora questo si combinava, sul piano empirico, con il progetto intellettuale, non solo mio, di fare una sociologia marxista: di rendere seria e scientifica una sociologia basata sul marxismo. Progetto che sul piano analitico-teorico traeva alimento dalle argomentazioni di Althusser, in una prospettiva strutturalista. Probabilmente, per certi versi era un pasticcio. Si trattava di temi classici. Mi occupavo, cioè, di sociologia del lavoro nel senso dell’organizzazione, di work, non di labour, ovvero di mercato del lavoro. Di quest’ultimo, che ora è il mio tema, iniziai ad interessarmi molto tardi. Allora l’attenzione era rivolta ai modi di produzione ed alle loro transizioni (che io studiavo da un punto di vista micro-analitico, senza successo mancando gli strumenti nella sociologia di quel tempo), alla qualificazione del lavoro e soprattutto di quello operaio, agli Newsl ett er di S ociol ogia 5 effetti dell’automazione e dell’innovazione tecnologica, ai quali man mano negli anni settanta si è affiancato il tema dell’organizzazione a livello d’officina. Per alcuni aspetti (penso cioè a Balibar, un collaboratore di Althusser), l’approccio strutturalista offriva delle risposte: per esempio con la distinzione formale tra modo di produzione artigianale ed industriale. Oggi non ne parlo più; sono temi ed autori che hanno fatto il loro tempo non lasciando alcuna traccia, salvo la prospettiva strutturalista che ritengo un mio filo rosso. Devo tuttavia riconoscere che gli anni settanta sono stati un periodo orribile per me, anche perché vivevo con sofferenza e come una continua interferenza le richieste di prese di posizione politica da parte degli studenti. Mi sentii usato. Avrei dovuto dimostrare maggiore autonomia, dire dei no più spesso, anche a quanti su un altro fronte mi richiedevano un voto politico. Come è uscito da questa impasse? A parte piccole ricerche, ne sono uscito abbracciando due prospettive. Un autore che verso la fine degli anni settanta mi ha reintrodotto alla sociologia in modo vantaggioso e positivo è stato Raymond Boudon (che considero uno dei miei maestri, accanto a Sorensen e Goldthorpe). Per me un salvatore, gli devo infatti grande riconoscenza. Della sua prospettiva analitica strutturale, in particolare, recepii con forza (dando una svolta importante al mio pensiero), l’individualismo metodologico. Utile, congeniale e chiarificatore per i miei studi. Mi dedicai ad una lettura approfondita del libro di Boudon L'inégalité des chances. Fu il primo testo a presentare un modello di simulazione e lo utilizzai anche per alcuni miei corsi con il favore degli studenti. Lo ricordo con piacere. L’altra gamba fu il rapporto con colleghi studiosi di economia industriale. Con loro ho condotto alcune ricerche, che mi hanno permesso di acquisire una buona reputazione. Precorrendo i tempi, avemmo infatti l’intuizione di studiare il settore della componentistica per autoveicoli, allora chiamato “indotto” (questo ha inoltre rappresentato un’estensione dei miei interessi dal lavoro all’impresa), riconoscendone l’importanza e prevedendo un rovesciamento del rapporto tra produzione finale e componentistica, poi avveratosi. Ebbi dunque delle soddisfazioni in quest’attività di ricerca. Ricordo anche che un primo accenno di interesse per il labour risale al 1976, quando svolsi una ricerca empirica sul turn-over su un campione di piccole imprese. Per altro, a mio parere, le migliori intuizioni che ho avuto dal punto di vista metodologico e tecnico non mi sono mai state riconosciute. Nel 1980, ad esempio, con il Professor Enrietti feci una rilevazione sulle imprese che producevano componenti. Avevamo degli explananda riguardanti il fatturato e, a parte la piccola scoperta della rilevanza del mercato del ricambio, ebbi l’intuizione di utilizzare le informazioni sulla tecnologia dei prodotti per costruire delle proxy, ovvero variabili che diventavano dei vincoli tecnologici e di progettazione. Feci anche ricorso ad un testimone privilegiato in Fiat, l’ingegner Lanza, con cui ebbi uno scambio intellettuale entusiasmante. Alla definizione delle proxy seguirono poi delle significative elaborazioni statistiche, che furono molto apprezzate dagli economisti, ma ignorate dai sociologi. Settembre 2006, Anno 3, Numero 5 Scrivi alla redazione >> [email protected] Ecco, io credo che a qualificare il sociologo sia spesso un’intelligenza metodologica o tecnica. Siamo giunti ora agli ultimi vent’anni. Il periodo precedente è stato caratterizzato professionalmente da uno stretto rapporto con la politica e dallo studio, cosa è accaduto successivamente? Innanzitutto, ho abbandonato l’idea di combinare impegno politico e professionale, contemporaneamente anche alla parabola discendente del marxismo. È stato per me un sollievo. Inoltre, durante gli anni settanta ho, in effetti, molto studiato e poco prodotto. Cosa che non va, proprio nel periodo tra i trenta e i quarant'anni. Probabilmente sarebbe stato diverso se non fossi stato precocemente investito di un insegnamento ed in un momento tanto turbolento. Dalla seconda metà degli anni ottanta, impossessandomi nuovamente del tema lavoro, ho dato realmente senso al mio insegnamento, prima incentrato sull’eguaglianza di chances e sulla mobilità sociale; temi non proprio pertinenti con la sociologia del lavoro. Questo mio rapporto più pieno con la disciplina è nato all’insegna di rinsaldare il mio impegno per una sua rivalutazione scientifica – la parola scienza è scritta a caratteri cubitali nella mia testa. È ciò in cui credo e per cui mi spendo, in mancanza di meglio anche abbracciando la versione più positivista esistente. Forse ho una visione pessimista, ma credo che l’aspetto postmoderno stia condannando all’irrilevanza ed alla chiacchiera la nostra disciplina. Un intento originariamente presente a proposito del progetto per una sociologia scientifica marxista, un elemento di continuità con il passato. Immagino però che siano cambiati i programmi dei suoi corsi... Sì, prima è intervenuta una dimensione labour attraverso la tematica della mobilità, mediata dalle riflessioni di Boudon. Ho così importato un’ampia letteratura nordamericana sulle carriere (dentro e fuori delle organizzazioni), che in quel paese ha avuto molti riconoscimenti, ma che in Italia è rimasta pressoché sconosciuta. Un altro contributo che ha alimentato la mia didattica (sempre più orientata al labour) proviene da testi di economia del lavoro, la cui frequentazione mi ha anche permesso di rivisitare il lato work, dell’organizzazione: sebbene oggi sia più vicino al modello neoclassico, ho pesta to anch’io l’acqua nel mortaio dell’approccio istituzionalista! Attualmente, il mio corso di sociologia del lavoro ha un modulo incentrato sulla mobilità nel mercato del lavoro e l’altro sulla gestione del personale. Con coerenza ormai dagli anni novanta sono conciliato con il mio insegnamento, che credo di svolgere in modo utile, ma che tuttavia, ha pochissimi punti di contatto con quanto avviene nelle altre università italiane. Per quale motivo? Poiché la sociologia è una disciplina poco istituzionalizzata. Esistono molti paradigmi differenti, cosicché ognuno la interpreta come crede. Cosa che io appunto contrasto. Penso, al contrario, che dovrebbe essere più strutturata, rigorosa e scientifica, con argomentazioni che si prestino alla falsificazione, definendo, ad esempio, precise soglie di accesso. Come in ogni scienza, non è cioè possibile che tutti periodicamente sco- Newsl ett er di S ociol ogia 6 prano un nuovo bandolo e la riscrivano interamente da capo. È lecito piuttosto che ognuno coltivi il suo orto, fornendo così, conseguentemente, un contributo relativamente limitato, sulla base, però, di opzioni condivise. In Italia, in particolare, il potenziale enorme che esisteva negli anni sessanta è stato bruciato in modo crudele dalla mancanza di un paradigma forte e dal narcisismo penoso di chi rilascia interviste su qualunque argomento, svilendo in questo modo la nostra professione e la disciplina. Tuttavia, di fronte alla complessità crescente della società contemporanea, il potenziale resta e lo spazio per una scienza sociale rigorosa ed intelligente, che si proponga di offrire un reale valore aggiunto alla sua conoscenza, non è certo diminuito. È necessario coltivarlo. D’altra parte l’audience dei sociologi è crollata ovunque, ne da una misura, ad esempio, il numero crescente di dipartimenti chiusi negli Stati Uniti, come riportato nell’Introduzione all’utilissimo testo di Goldthorpe, Sulla sociologia. La stessa oscillazione nell’appellare la sociologia tra i termini scienza e disciplina, sovente posti in contrapposizione, è una manifestazione di tale ambiguità. Certo, ha ragione. Quali sono i suoi interessi più recenti? Sì, a seguito delle ricerche sulla componentistica sono stato coinvolto in diversi progetti europei sulle politiche della formazione continua in quell’ambito specifico, riconosciuto come fondamentale per l’industria dell’auto e per la competitività. Progetti stimolanti, interessanti e ricchi, che mi hanno permesso di viaggiare molto e interagire con validi studiosi stranieri. Inoltre, mi hanno in qualche modo accreditato come esperto di formazione, da cui la mia partecipazione nel corso degli anni ’90 a diversi progetti finanziati dal Ministero del lavoro per la definizione di standard formativi, a livello nazionale, di figure dell’industria, con riferimento in particolare all’industria meccanica e al settore auto. Questo ruolo d’esperto si è successivamente scontrato con gli impegni conseguenti al mio più recente coinvolgimento diretto nella gestione della Facoltà e ora dell’Ateneo. Ormai ho un interesse puramente scientifico per la problematica della formazione continua. Come desidera concludere questa intervista? Consiglio di essere coraggiosi e tenaci. Credo che il campo della sociologia sia promettente e necessiti di essere vangato con molta fatica, avendo un occhio di riguardo a ciò che accade fuori dai nostri confini nazionali (al cui interno, come detto, permane un ritardo). Sono anche convinto che lo spazio per ricerche irrilevanti, ovvero i cui risultati non aggiungono conoscenza chiara e usabile (e che tuttavia garantiscono ancora di ottenere riconoscimenti e fare carriere soddisfacenti), si ridurrà sempre più. Esiste un mercato e di fronte alla mano pubblica, che non può più permettersi di regalare denaro, dobbiamo dimostrare la nostra utilità. Vedo due ambiti da approfondire: quello della simulazione, un terreno d’elezione per i sociologi desiderosi di produrre spiegazioni (oggi molto praticato dagli economisti) e quello degli esperimenti.