Il Meeting delle Etichette Indipendenti ei pericoli dell

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Un’immagine
del documentario
su Gibellina,
foto Mauro D’Agati
EASY COME, EASY GO
Marianne Faithfull
Naive Records
18 canzoni per amanti della
musica. E’ questa la promessa
(mantenuta) nel sottotitolo che
accompagna l’ultima uscita
discografica, la ventiduesima, di
Marianne Faithfull. Avrebbe
potuto anche scriverci “diciotto
tesi a dimostrazione del fatto
che realizzare delle cover non
sempre è un inutile esercizio
commerciale”. Anzi. A volte si
rischia il capolavoro. Questo
disco potrebbe non esserlo, ma
sicuramente gli si avvicina
parecchio. Nella scelta dei brani
e nella scelta dei modi, nel
gusto e nell’armonia della
reinterpretazione che combina
insieme ingredienti
apparentemente lontani.
Da Dolly Parton ai Black Rebel
Motorcycle Club la distanza,
musicale e di sensazioni, è
lunga. Ma qualcosa
evidentemente resta comune
nella differenza. Qualcosa che
Marianne Faithfull trova e regala
in questo disco pieno di duetti
imperdibili dove dà vita non ad
indovinati episodi, ma ad un
lavoro riuscito nella sua totalità.
In questo disco Marianne
Faithfull sa sopratutto scegliere.
Le canzoni più “classiche”e
raffinate da interpreare da sola
come la title track “Easy come,
easy go” di Bessie Smith o la
stupenda ”Dear God Please
Help Me” di Morrissey e quelle
più nascoste che sceglie di
affrontare in duetto con artisti di
culto più o meno ampio. Sceglie
Cat Power, Antony Hogarty, Nick
Cave, Rufus Wainwright, Jarvis
Cocker e sceglie canzoni di
Neko Case, dei Decemberist,
degli Espers, dei Traffic.
Sceglie, e indovina, trova
armonia, come quella che
scova il suo sodale, il produttore
Hal Willner che la accompagna
con quest’ultimo lavoro da tre
dischi. E’ lui che tesse le trame
di archi e contrabasso che
riducono alla ragione perfino il
rock nervoso e psichedelico dei
Black Rebel Motorcycle Club. A
garantire il calore del suono dal
vivo, i Sear Sound di New York.
Niente è stato trascurato, ma
non si tratta di una confezione
vuota. L’interpretazione di
Marianne Faithfull rende
giustizia a quella che dovrebbe
essere una vera cover. Un’altra
canzone. Ed è questo che la
cantautrice realizza attraverso
un mood che corre lungo i
diciotto brani. Un lavoro da
ascoltare tutto, come si faceva
con un disco prima che le
playlist e gli mp3 prendessero il
sopravvento. Un disco destinato
a diventare un classico nel
migliore dei sensi possibili. Non
è un caso che arrivi da Marianne
Faithfull. Contiene la stessa
sorpresa della naturalità e
poesia di Maggie/Irina Palm che
interpreta nello splendido film
del 2007 di Sam Garbarski. Da
ascoltare e tenere sempre a
portata di mano, perché non ha
tempo, perché non annoierà
mai, e forse rischia davvero di
essere un capolavoro.
sa.po.
“Earthquake ’68 - Gente di Gibellina”, un documentario di Emanuele Svezia. Una foto di gruppo dovrebbe
riconciliare i cittadini con il famoso “cretto” di Alberto Burri che marca il luogo del sisma
Un terremoto, un’opera d’arte incompresa
un gruppo di giovani, un paese senza identità
Davide Turrini
GOTAN PROJECT
2, 3 dicembre
Roma (Tendastrisce),
o
Brescia (Liobar), Milan
z)
tra
ca
(Al
MASSIMO VOLUME
Si chiude la dodicesima edizione del MEI a Faenza. Crescono i numeri e cresce
l’attenzione dell’industria discografica che fiuta il business “alternativo”
Il Meeting delle Etichette Indipendenti
e i pericoli dell’“Indie” made in major
6, 7 dicembre
Trieste (Tetris), Savona
(Raindogs)
La musica indipendente è
diventata un po’ come la
questione ambientale. In molti si
accorgono che è necessario e
utile difenderla e altrettanti
scoprono che può essere un
business di non scarsa entità
cominciare a farlo.
/10
Roma (Circolo degli
Artisti), Firenze (Flog),
Salerno (Soho),
Ravenna (Bronson)
WLLARD GRANT
CONSPIRACY +
CESARE BASILE
Sandro Podda
Ora, come per l’ambiente, il fatto che sia
un ottimo investimento non è di principio una cosa ripugnante. Ripugnante
no, rischiosa sì. Dietro alla categoria “indipendente”, in questi ultimi anni caratterizzati da una crisi verticale dell’industria discografica dovuta in larga parte alle sue stesse politiche miopi e vampiresche, si celano spesso “prodotti” confezionati ad arte per dare un’idea di indipendenza, alternativo, che poco, pochissimo ha a che vedere con la natura del
prodotto stesso.
Vetrina esemplare dei problemi che sollevano queste contraddizioni dodicesima edizione del Mei, il meeting delle etichette indipendenti che si conclude oggi a Faenza, rende idea . La manifestazione è cresciuta esponenzialmente di anno
in anno. Sono cresciute le etichette indipendenti che vi si incontrano, discutono, elaborano strategie per sopravvivere
nel mercato. Sono aumentati gli artisti
che decidono di non dovere passare il
tempo a rendere più accomodante la
propria musica per avere accesso ad una
produzione major. E’ aumentato il pubblico che ascolta e cerca suoni non appiattiti alle esigenze del mainstream. O
meglio a quei pochi disperati dalla mancanza di offerta ma che sono il cuore delle situazioni indipendenti si è aggiunta
una buona fetta di persone che sono state educate a cercare altro. Il pubblico, i
consumatori. A meno che non si abbia
la rispettabilissima vocazione a sentirsi
una fiera minoranza gruppettara che
ascolta “musica buona”, una sorta di élite carbonara che si riunisce in umide o
caldissime stamberghe per ascoltare il
gruppo migliore del mondo che ha venduto tre dischi, si dovrebbe accogliere
con favore il fatto che il mercato si sia accorto delle potenzialità economiche dei
“marginali”. Bisognerebbe forse essere
contenti che Mtv o Sony-Bmg si mascherino in sottocategorie “indie” o “alternative” usando la loro potenza di fuo-
3, 4, 5, 6 dicembre
Il Teatro degli Orrori, il progetto nato dall’incontro di Pierpaolo Capovilla degli One Dimensional Man, Francesco Valente e
Gionata Mirai (dei Super Elastic Bubble Plastic)
co per promuovere artisti esclusi finora
dal mainstream. Forse.
La sensazione che si ha purtroppo è che
invece all’aumento di proposte e possibilità non corrisponda necessariamente
un aumento della qualità e che l’indie rischi di diventare, se già non lo è, un vestito con cui coprire lo stesso corpo medio. Un po’ come una cresta punk in testa a un conservatore, un meccanismo
che in fondo si ripete ciclicamente. Sotto l’etichetta indie al momento si trovano Il Teatro degli Orrori dell’ex uomo ad
una sola dimensione, ma anche i Dio
della Love per intendersi. Un esempio
evidentissimo in questa edizione del Mei
era il premio per il “videoclip major che
rispecchia di più lo spirito indipendente”. La fastidiosa operazione non ha bisogno di commenti. Se si evita accuratamente questo genere di insidie, il Mei rimane comunque un punto di incontro
prezioso. Caotico, ma prezioso.
Sarebbe ingeneroso non riconoscere
l’utilità e l’eccezionalità della scommes-
sa vinta. Le vere etichette indipendenti
hanno trovato lì un luogo dove rafforzare i rapporti che negli anni hanno tessuto nell’underground e lì molti dei gruppi che si sono magari incrociati nei piccoli locali della penisola si rivedono stabilendo a volte rapporti umani e artistici
proficui. Lì, ancora, si continua a discutere di Siae e diritto d’autore nell’epoca
in cui il digitale e l’Internet ne hanno
stravolto ruoli e definizioni cambiando
la fruizione e la percezione della musica.
Le Creative Commons, la rivoluzione
culturale sul diritto d’autore immaginata da Lawrence Lessig nel 2001, da scelta
politica e di nicchia stanno diventando
sempre più popolari tra gli artisti. Perché
sono più attuali, perché lasciano più libertà all’autore e perché, a dirsela tutta,
per la generazione “laptop” per la quale
produrre un disco è diventato economicamente molto più accessibile, il diritto
d’autore studiato per le mega produzioni rappresenta solo un vincolo insostenibile e destinato a scomparire. Al di là del-
le convinzioni ideologiche ma con
lentezza, considerata la massima di
Lawrence Lessig secondo cui il passato tenta sempre di impedire al futuro di realizzarsi.
Un buon modello di business, se si vuole cinicamente rimanere con i piedi per
terra e un esempio delle grandi potenzialità di questo fenomeno al Mei è stato of-
Le Creative Commons sempre
più popolari tra gli artisti.
Una scelta che sembra anche
funzionare come dimostrano
i numeri del portale Jamendo
ferto da Jamendo alla presentazione del
libro di Simone Aliprandi, “Creative
Commons: manuale operativo”. Jamendo è un portale internet nato da un’idea
del giovanissimo Sylvain Zimmer nel
2005: rendere possibile scaricare brani legalmente. Per farlo la musica a disposizione doveva essere non protetta da norme sul diritto d’autore “classiche”, visto
che semplicemente non sarebbe stato
possibile. La scelta di Creative Commons o Free Art License è stata ovvia. Il
numero di artisti e brani disponibili in
download al momento è davvero impressionante: 7641 artisti europei,
177583 brani, 444587 membri attivi della community. Come fa a funzionare
economicamente e quale vantaggio ne
traggono gli artisti ce lo spiega Veronika
Körmendi: «Il sito funziona naturalmente come vetrina. I proventi della pubblicità vengono divisi al cinquanta per cento con gli artisti ai quali vanno anche le
donazioni personali che arrivano con
pay-pal». Semplice ed efficace. Tanto da
attrarre investimenti importanti come
quelli di Skype. Insieme all’Arci, che ha
dato il via al progetto Real, Jamendo ha
presentato i Rein, gruppo romano tra i
più interessanti della scena indipendente che ha pubblicato le sue due uscite discografiche in licenza creativa.
L’interesse dell’Arci per la libera diffusione della cultura non è nuovo se si pensa
alle esperienze finora ospitate e supportate (Giovinazzo Rock Festival, Aritmia
Mediterranea, Play, Vudstock in Sabina,
Festival di San Lorenzo, Collateral..) e la
nascita di questo progetto per la musica
live è di certo una notizia confortante,
un’occasione in più. Di rilievo, considerato anche che a inaugurarlo con un tour
sarà un gruppo che ha fatto da apripista
a molte realtà indipendenti della penisola come gli Assalti Frontali con il loro rap
politico e poetico. Gente che ha assaggiato dopo anni l’esperienza in major, ma
ne è fuggita dopo un disco per non diventare semplice “merce”. Una lezione
preziosa per molti dei giovani che si affacciano al mercato pieni di ideali e speranze: nonostante tutto, non mollate.
Qualcuno ricorderà, in “Caro
diario” di Moretti, il sindaco
di Stromboli interpretato da
Antonio Neiwiller. Guidava
l’ape car e scarrozzava in giro
per l’isola Moretti e Renato
Carpentieri cercando loro,
senza fortuna,
una stanza per la notte.
Intanto fantasticava grandi opere architettoniche e manifestazioni culturali faraoniche per la sua isola al suono dello “scion scion” di Morricone.
Un personaggio che pare la copia di
quel Ludovico Corrao, sindaco per
venticinque anni con personale lista
cristianosociale poi comunista di Gibellina, che dopo il terribile terremoto del ’68 spostò di una quindicina
di chilometri il paese e lo ricostruì
chiamando a raccolta i maggiori architetti, urbanisti ed artisti europei
degli anni ’70-’80.
Gibellina rinacque a nuova vita nel
‘79, dopo undici anni di container
per i suoi abitanti, secondo criteri urbanistici all’avanguardia: grandi monumenti ed edifici griffati da Consagra e Quaroni, sculture en plein air
di Pomodoro, Rotella e decine d’altri grandi nomi. E sui resti del sisma
il celeberrimo “cretto” di Alberto
Burri, una spianata di cemento rialzato a chiazze di diverse centinaia di
metri, lasciato a simboleggiare la vecchia ubicazione del paese distrutto.
Emanuele Svezia, giovane filmmaker romano (collaboratore al montaggio de L’orchestra di Piazza Vittorio)
si è ritrovato per caso a Gibellina nel
2004 ed ha ricostruito la vicenda di
questo incredibile paese partendo
proprio dallo iato generazionale che
l’opera di Burri ha creato nello spirito collettivo dei gibellinesi. Earthquake ’68 – Gente di Gibellina, questo il titolo del documentario proiettato nei giorni scorsi al 26esimo Torino Film festival, è prima di tutto la
conferma che la macchina da presa
in digitale può produrre grande senso del racconto quando si tratta di
disegnare traiettorie per sguardi in
profondità dello spettatore. Molte
sequenze del lavoro di Svezia sono
sorprendenti istantanee, frame improvvisi su squarci di architettura
contemporanea evidentemente incompresi: «Appena sbuchi davanti
alla città di Gibellina l’impressione
di sorpresa è forte: ti ritrovi contemporaneamente affascinato ed estraniato da queste numerose opere d’arte», racconta il regista, «una città-museo, ma senza le mura del museo».
Concetto ribadito più volte dagli
abitanti intervistati nei novantacinque minuti di documentario: l’opera di ricostruzione ideata dall’eccentrico Corrao è stata vissuta dapprima
con orgoglio e sostegno, poi lentamente con apatia e distacco, fin quasi a rendere Gibellina, con le sue
piazze smisurate, le sue case improvvisamente separate decine di metri
l’una dall’altra, una sorta di città fantasma: più meta per rari e curiosi turisti, che altro.
L’avventura di Svezia comincia con
l’incontro al pub Earthquake ’68 di
un ragazzo del luogo che ha un’idea
per ricucire la ferita più sentita: il
cretto di Burri. Si tratta di ritrarre
con una foto commemorativa
un’immensa riunione di gibellinesi
di tutte le età sulle chiazze di cemento dell’artista umbro. L’iniziativa
coinvolge il giovane sindaco della
città Bonanno, le scuole (magnifiche
le testimonianze sull’opera di Burri
L’idea è di un ragazzo:
fotografare gibellinesi
di tutte le età sulle chiazze
di cemento. Misurandosi
con questo paesaggio
la telecamera digitale svela
le sue potenzialità
disegnate dai bambini del luogo) e
buona parte del paese. La spinta
messa in campo per realizzare la foto attiva un gruppo di giovanissimi
al punto da portarli a fondare una lista civica per le elezioni del 2007
(poi vinte dall’ex sindaco appoggia-
to da Udc, An e centro-sinistra). «Di
fronte all’imposizione proveniente
dallo stato per ricostruire la città, il
problema vero è stato rifondare allora come oggi un’identità, uno spirito collettivo di cittadinanza tra gli
abitanti di Gibellina», raccconta l’autore di Earthquake ’68. «Il gruppo di
giovani che ho incontrato si è messo
in moto per realizzare la foto di
gruppo, ma ha anche attivato un
senso di responsabilità sociale in
contrasto con la cultura individualistica che oggi sembra imperare in Sicilia. Una nicchia che, partendo dalla volontà di abbattere il tabù di
molte famiglie riguardo la rivoluzionaria trasformazione urbanistica, è
finita per diventare un’esperienza
politica importante slegata dai partiti ufficiali e punto di riferimento per
cause quotidiane di malaburocrazia,
per esempio le ingiuste bollette dei
rifiuti che sono arrivate a diversi anziani». Un pezzo di Sicilia under 40
che resiste e mettendocisi d’impegno
realizza i propri obiettivi. Di come
sia andata a finire la storia della famosa foto riconciliatrice sul cretto
non vi sveliamo nulla. Sarebbe bello
poteste vederlo in una sala cinematografica, magari non di Gibellina.
Vernissage
Matteo Guarnaccia
Punk Art da
Christie’s, N.Y.
La prima asta che la sede newyorkese della
prestigiosa casa Christie’s ha voluto dedicare alla
subcultura punk ha deluso le aspettative. Le rare
memorabilia scampate a uno degli stili di vita più
spericolati e scenografici della fine del Novecento,
sono andate via a prezzi di saldo. Siamo di fronte ad
un nuovo istruttivo capitolo della “Più Grande Truffa
del Rock’n’Roll” e a un’ulteriore dimostrazione
dell’insipienza dei curatori dei musei di arte
contemporanea, grandi assenti alla seduta di
martedì scorso. Eppure l’offerta era eccitante.
C’erano le grafiche situazioniste di Jamie Reid e le tshirt maledette della coppia Westwood – McLaren
(Cowboys Gay, Fuck Your Mother, Crocifissioni a testa
in giù giustapposte a svastiche, la Regina Elisabetta
spillata); i volantini abrasivi dei Buzzcocks e i poster
di locali infami quali il CBGB e il Max’s Kansas City di
New York, dove una generazione di scoppiati ha
vomitato musiche e succhi gastrici. Spiccano in
controtendenza due lotti venduti oltre la base d’asta:
una divertente foto stile pinup dell’insuperabile
Blondie e la meravigliosa fanzine dei Sex Pistols,
“Anarchy in the UK” del 1976, con in copertina una
spettacolare Sue Catwoman. I collezionisti si sono
dimostrati assai conservatori, chi ha scelto il
rock’n’roll come bene rifugio ha preferito investire su
“titoli” sicuri, magliette degli Eagles e dei Fleetwood
Mac, anelli di Elvis Presley, testi autografi di Jimi
Hendrix, la tromba Selmer di Louis Armstrong, un
album autografato dai Led Zeppelin.
“Punk/ Rock”, Christie’s Rockfeller Plaza, New York, 24
Novembre 2008.
11/