UNIVERSITÀDELLACALABRIA Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di Laurea in Filosofia e Storia delle Idee Tesi di Laurea in Letteratura Italiana L'artigiano della parola. Matrici letterarie nell'opera di Fabrizio De Andrè. Relatore Candidato Ch.mo Prof. Giovanni BARBERI SQUAROTTI Anno Accademico 2007 – 2008 Luciano SOLANO Matr. 96764 … La musica è semplicemente un veicolo attraverso il quale io ho pensato di esprimere le sensazioni che ho avuto, addirittura quelle che possono essere le sintesi o le dilatazioni di fatti e avvenimenti che mi è accaduto di vedere o di sentire o addirittura di leggere. Non sono un musicista perché altrimenti mi sarei limitato a fare della musica, non sono un poeta perché mi sarei limitato a fare della poesia cioè a scrivere, sono un cantautore quindi faccio un lavoro composito che ha bisogno, per arrivare a un tentativo compiuto di espressione, di ambedue le componenti, quindi sia delle parole che della musica. Do più valore alle parole perché mi ci trovo meglio, mi trovo meglio a scrivere che a comporre. Sono più un paroliere che musicista. Come ripeto, la musica per me continua a essere un tram col quale portare in giro le parole. Fabrizio De Andrè 1 Indice pag. 3 Brevi cenni sulla produzione discografica di Fabrizio De Andrè » 17 Matrici letterarie dell’opera deandreiana » 28 II.1 Speculazioni e proposte di analisi sull’opera di Fabrizio De Andrè » 43 II.2 Due intellettuali a confronto: Fabrizio De Andrè e Pier Paolo Pasolini » 50 III.1 Analisi di alcuni album del cantautore » 57 III.2 Tutti morimmo a stento (cantata in si minore per solo, coro e orchestra) [1968] » 58 III.3 Storia di un impiegato [1973] » 89 III.4 Le nuvole [1990] » 120 BIBLIOGRAFIA » 158 INTRODUZIONE CAPITOLO PRIMO I.1 I.2 CAPITOLO SECONDO CAPITOLO TERZO 2 Introduzione Introduzione La figura di Fabrizio De Andrè è ormai unanimemente riconosciuta come fondamentale nel panorama musicale italiano degli ultimi quaranta anni del secolo scorso, ma l’interezza e l’omogeneità della sua opera rivelano una caratura artistica che va ben al di là di una seppur notevole produzione discografica. Questo lavoro di analisi di alcune sue opere ha come obiettivo proprio quello di porre l’accento sullo spessore culturale che contraddistingue i lavori del cantautore sin dalle prime composizioni, fino a giungere al suo unico romanzo, Un destino ridicolo,1 scritto a quattro mani con lo psicanalista Alessandro Gennari, nel corso degli ultimi anni della sua vita. Del resto, non è difficile notare la moltitudine di rimandi filosofici e letterari ma anche storici presenti in tutte le sue opere. Alcune di esse poi, sono il frutto di vere e proprie ricerche filologiche; basti pensare al solo album Creuza de mä, che oggi, a distanza di venticinque anni ormai dalla data della sua pubblicazione, è ancora al centro di dibattiti e convegni da parte di linguisti ed etnomusicologi.2 1 F. De Andrè e A. Gennari, Un destino ridicolo, Torino, Einaudi 1996 Su questo vedi: R. Giannoni, Fabrizio De Andrè e i dialetti, in «Il segnale», XVIII (1999), 54, pp. 21-34; A. Podestà, Un dialetto in sogno e De Andrè si confessa, in «Italiano e oltre», XI 2 3 Introduzione Non deve allora stupire che, analizzando l’intero corpus delle opere di un cantautore, si arrivi qui a considerarlo come un intellettuale e un artista, vale a dire colui il quale, combinando le peculiarità del proprio pensiero con alcune importanti fonti letterarie, attraverso una particolare sensibilità estetica e musicale, giunge a creare un’opera originale dotata di valenza artistica. A simili conclusioni, anche se in merito a un diverso stile musicale, giunse, infatti, già un altro intellettuale del secolo scorso, Theodor W. Adorno che nel suo saggio La musica, i media e la critica arrivò ad affermare che «I media sono ambienti estetici in cui avvengono atti estetici (ascoltare, vedere) e in cui lo spettatore/ ascoltatore fa la maggior parte della sua esperienza del mondo».3 Rimanendo sempre in ambito sociologico, riportiamo anche l’opinione di Marco Santoro, che nel suo articolo La leggerezza insostenibile4 considera «la canzone come un oggetto culturale» e, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento, «come una (1996), 3, pp. 138-139; Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana, a cura di L. Coveri, Novara, Interlinea 1996; L. Coveri, Il dialetto di De Andrè / così familiare, così estraneo, «Il Secolo XIX», 13 gennaio 1999; G. Plastino, Mediterranean mosaic. Popular music and global sound, New York, Routledge 2003. Per quanto riguarda i convegni organizzati recentemente in Italia su questo ed altri temi relativi alle opere di Fabrizio De Andrè rimando al volume Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, a cura di E. Valdini, Milano, BUR 2007. 3 T.W. Adorno, La musica, i media e la critica, Napoli, Tempo lungo 2002, p. 10. 4 M. Santoro, La leggerezza insostenibile. Genesi del campo della canzone d’autore, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XLI (2000), 2, pp. 189-222. 4 Introduzione forma artistica di espressione e di comunicazione autonoma, sebbene socialmente e politicamente rilevante».5 Al suo interno vi è poi la canzone d’autore quale «genere distinto ed autonomo […], come categoria estetica». Santoro arriva anche a definire il cantautore come «una specifica categoria sociale» derivante da un processo di «costruzione culturale», cosa sulla quale preferisco sorvolare essendo dell’avviso che non si debbano necessariamente includere, in questo nostro tipo di analisi, classificazioni riguardanti categorie umane che spesso sono solamente il frutto di forzature sociologiche. Al di là di quest’ultimo passaggio, si può comunque agevolmente comprendere quanto sia oramai svuotata di ogni valenza critica l’obiezione, purtroppo ancora frequente in ambito accademico, che vorrebbe la canzone d’autore, con al suo interno anche le opere di Fabrizio De Andrè, come la sorella minore e “zoppa” della poesia. A dissipare ogni ragionevole dubbio, qualora se ne sentisse ancora la necessità, cercherò di riassumere brevemente l’analisi di Roberto Vecchioni che, proprio su tali questioni, ha tenuto recentemente dei corsi universitari. Da una sintesi di questi seminari, è stato ricavato un saggio, La canzone d’autore in Italia, realizzato dallo 5 Ivi, p. 191. 5 Introduzione stesso cantautore e successivamente inserito nell’aggiornamento annuale dell’Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti.6 Secondo Vecchioni, la canzone d’autore7 aggiunge ai due sistemi semantici preesistenti, il linguaggio poetico e quello musicale, un terzo, dato dall’interpretazione.8 Quest’ultimo risulta essere fondamentale ai fini della fusione dei precedenti in un’unità metrica e narrativa inscindibile che è cosa ben diversa da un loro semplice accostamento.9 Anche per questo motivo, tale processo genera ovviamente una forma d’arte dal genere nuovo e autonomo.10 La canzone d’autore – aggiunge Vecchioni - assume dalla tecnica poetica alcune figure retoriche, metafore, analogie, sinestesie, ma ne rende più immediata e ‘popolare’ l’intelligibilità e la fruizione, accorciando le distanze tra i due campi di lettura delle metafore (vero11 traslato) e delle allegorie (simbolo e realtà). Infine, soffermandosi poi sull’apporto originale di Fabrizio De Andrè a questa forma d’arte contemporanea, Roberto Vecchioni scrive: 6 R. Vecchioni, La canzone d’autore in Italia, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti. Appendice 2000, vol. I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001, pp. 279-283. 7 È d’uopo far risalire alla seconda metà degli anni Cinquanta l’inizio di tale genere ed attribuirne la paternità antelitteram al cantautore pugliese Domenico Modugno. 8 Cfr. ivi, p. 279. Su questo vedi anche P. Jachia, La canzone d’autore italiana 1958-1997, Milano, Feltrinelli 1998, p. 10, dove l’autore inserisce nell’orbita dell’interpretazione vari fattori, quali la voce, la gestualità, l’arrangiamento, l’esecuzione e gli strumenti musicali utilizzati. 9 Cfr. R.Vecchioni, La canzone d’autore in Italia, cit. , p. 279. 10 Cfr. ibid. 11 Ibid. 6 Introduzione In Fabrizio De Andrè la parola diventa viaggio […] sostenuta da un notevole bagaglio di riferimenti letterari. […] in De Andrè il linguaggio si fa decisamente più astratto e ricco di metafore. […] la ballata […]costituisce il genere prediletto di questo autore: nessun altro andamento metrico infatti è più adatto per amplificare e rendere paradigmatiche le odissee delle minoranze: prostitute, travestiti, civiltà emarginate da culture tecnologiche, banditi, assassini, rivoluzionari.12 Sono queste le considerazioni principali dalle quali siamo partiti per affrontare questa nostra analisi: le parole di Vecchioni, ma anche il parere molti altri insigni studiosi, infatti, lasciano trasparire, quasi, un senso di reverenza nei confronti di chi, attraverso le sue canzoni, ha voluto esprimere molto di più di un seppur vasto repertorio di emozioni. Fabrizio De Andrè, insieme con alcuni altri suoi colleghi, ha contribuito, di fatto, alla “sprovincializzazione” e allo svecchiamento del mondo della canzone e, in una certa misura, osiamo dire, anche della cultura italiana. Se è pur vero, infatti, che la canzone, in molti casi, è principalmente un prodotto di largo consumo, ciò non toglie che essa può anche, e nel caso di De Andrè soprattutto, soddisfare quel bisogno di poesia che deriva, essenzialmente, dalla vacanza della stessa poesia 12 Ivi, p. 280. 7 Introduzione nella vita del popolo italiano. Tale situazione, venutasi a creare durante la seconda metà del Novecento, fu dovuta, sicuramente, a una molteplicità di fattori. Sicuramente, una simile questione non può essere trattata in questa sede in maniera esaustiva, ma corre l’obbligo di segnalare almeno uno di questi fattori. La situazione descritta in precedenza ebbe origine, in Italia, dopo la fine della II Guerra Mondiale, quando la Nazione fu costretta, dall’esito del conflitto, a “rimboccarsi le maniche” e ricostruire, socialmente, moralmente, ma anche e soprattutto, fisicamente, il Paese: allora, figure quali, ad esempio, i poeti, che in altri tempi ebbero l’onore e l’onere di condurre la popolazione verso prese di coscienza collettive, si ritrovarono a svolgere il loro lavoro in ambiti sempre più ristretti e isolati. Infatti, la crescita esponenziale dell’importanza della sfera economica, nella vita quotidiana della gente comune e, a livello macroscopico, dello Stato sociale, lasciò sempre meno spazio ad attività artistiche non direttamente coinvolte nel suo sviluppo. Tale stato di cose portò, progressivamente, i poeti, e altre figure a essi assimilabili, a rifugiarsi, quasi, nella “torre d’avorio” rappresentata dal mondo accademico; fu proprio in quegli anni e, a 8 Introduzione nostro parere, come sua diretta conseguenza, che la musica cosiddetta “leggera”, e in essa la forma canzone, iniziò a espandersi in tutta la penisola italiana. Il linguaggio poetico, ricco di artifici letterari che poco si prestano a una veloce decodificazione, divenne allora sempre più lontano dalla quotidianità, lasciando un vuoto che sarebbe stato colmato, di lì a poco, con l’avvento, nel mondo della canzone, di autori i cui testi, anche se colmi di riferimenti letterari, meglio si prestavano a una loro facile e veloce fruizione. La larga e rapidissima diffusione dei nuovi supporti tecnologici, ovvero i dischi in vinile, sui quali le canzoni venivano incise, contribuì fortemente a questa “avanzata” della canzone rispetto alla poesia che, comunque e fortunatamente, non cessò di esistere, anzi cercò, anche se spesso inutilmente, nuove sperimentazioni e contaminazioni. In tal senso, Nicola Merola, in un intervento del 2004 dal titolo Oltre la prosa. Il posto della poesia nella Modernizzazione, in occasione di un convegno su La poesia italiana del secondo Novecento, afferma: A differenza di quanto sarebbe successo a partire dagli anni Sessanta, non si era peraltro ancora affacciata la concorrenza, che 9 Introduzione sarebbe risultata insostenibile, di una comunicazione in versi che fosse insieme qualitativa, cioè d’autore, e autenticamente popolare, cioè non intimidita dallo sbarramento della carta stampata e non indotta dalla scuola. Ci riferiamo ai cosiddetti cantautori e alla canzonetta capace di accordare sulla musica dell’intrattenimento le parole della sensibilità contemporanea o solo dell’attualità (ma è potuto avvenire anche il contrario e che la miracolosa fusione adoperasse la voce del cantante per ribaltare il rapporto intuitivo tra parole e musica). È tutto tranne che fantasiosa l’ipotesi che in questo modo venisse soddisfatto un autentico bisogno di poesia. Non è semmai necessario rispolverare la formula in nome della quale D’Annunzio si volse al romanzo, per prendere semplicemente atto che non c’è mai stato prima un così massiccio investimento di tempo ed energie nell’apprendimento indiretto, assicurato, da ciascuna a modo suo, ma sempre in nome del risparmio energetico, da tutte le simulazioni dell’esperienza, in cui rientrano tanto la poesia, quanto il romanzo e l’universo intero della fiction contemporanea, ivi compresa, ovviamente la canzone d’autore, che di questo universo sarà a tutti i titoli la poesia.13 È per questo motivo che abbiamo scelto di analizzare, in questo nostro lavoro, alcune delle opere di Fabrizio De Andrè, considerando tale autore, come affermano anche gran parte dei critici di questo genere musicale e letterario, uno dei maggiori esponenti della canzone d’autore italiana contemporanea. 13 N. Merola, Oltre la prosa. Il posto della poesia nella Modernizzazione, in La poesia italiana del secondo Novecento, atti del Convegno della Mod, Società Italiana per lo Studio della Modernità Letteraria, svoltosi ad Arcavacata di Rende, 27-29 maggio 2004, a cura di N. Merola, Università degli Studi della Calabria, Rubbettino 2006, pp. 110-111. 10 Introduzione Inizieremo, nel primo capitolo, con l’accennare per sommi capi a quella che è stata la sua produzione discografica, facendo riferimento, quasi esclusivamente, ai suoi album contenenti canzoni, sino ad allora, inedite; cercheremo, in tal modo, di evitare la confusione, che spesso si viene a creare in questi casi, dovuta alla serie innumerevole di ristampe e raccolte antologiche, ufficiali e non, che le case discografiche continuano, a tutt’oggi, a pubblicare, snaturando, spesso, il senso di alcuni brani, destinati dall’autore a un progetto più ampio, che risponde al nome di concept album. Questo particolare tipo di album, che avremo modo di trattare più approfonditamente nelle pagine seguenti, caratterizza i lavori di De Andrè sin dai suoi primi LP, dove l’autore sceglie un tema, da sviluppare sotto vari aspetti, che caratterizza tutti i brani ivi presenti. Sempre nel primo capitolo, tratteremo, panoramicamente, il punto centrale di questo nostro lavoro, in altre parole, i numerosi riferimenti letterari e filosofici, e anche musicali e interpretativi, presenti in tutte le opere del cantautore. Nel secondo capitolo, invece, rintracceremo una delle linee guida che segna l’intero corpus discografico di Fabrizio De Andrè, nella fattispecie, la critica nei confronti del potere; partendo proprio da 11 Introduzione questa, svilupperemo, nello stesso capitolo, un breve ma significativo confronto con un altro emblematico personaggio del Novecento italiano, Pier Paolo Pasolini che, come vedremo, ha più di un elemento in comune con il cantautore genovese. Nel terzo e ultimo capitolo, infine, analizzeremo nel dettaglio tre concept album di De Andrè, Tutti morimmo a stento, Storia di un impiegato e Le nuvole, evidenziando, in ognuna di esse, il modo in cui l’autore sviluppa la sua critica nei confronti del potere, che risulterà sempre diversa e originale, nel corso degli anni. La scelta di appuntare le nostre analisi proprio su questi tre album è dovuta al fatto che essi, composti in tre momenti differenti della produzione discografica del cantautore, riflettono, in un certo qual modo, sia la sua crescente maturità artistica, sia la diversa realtà sociale, politica e storica nella quale furono generati. La caratteristica principale di queste tre opere, inoltre, è la loro organicità e unitarietà, il loro essere concepiti, ognuno, come una sorta di narrazione con un inizio, uno sviluppo e un finale, in un’ottica operistica anziché, semplicemente, canzonettistica: tal elemento distintivo, li rende, appunto, dei concept album. In essi, molto più che in altri lavori del cantautore genovese, è 12 Introduzione anche facile rintracciare e delineare quella costante concettuale costituita dalla critica di De Andrè nei confronti del potere. Ognuna di queste opere, infatti, indaga dei particolari aspetti del potere, sviluppando concetti diversi ma tutti riconducibili a esso. Nel primo, Tutti morimmo a stento, l’autore, attraverso la narrazione di alcune vicende accomunate dal tema preannunciato nel titolo, la Morte, sottolinea la totale assenza di pietà dei detentori del potere, che si manifesta nella scarsa umanità che risiede nelle leggi e nelle istituzioni, anche di fronte all’estrema dipartita. Storia di un impiegato, poi, è il più feroce attacco del cantautore nei confronti del potere, narrato attraverso la vicenda di un uomo che, da semplice impiegato, si tramuta in un pericoloso rivoluzionario, inconsapevolmente guidato, però, dal potere stesso che proprio grazie alle sue gesta, tanto eversive quanto inutili, si rinnova. Nell’album Le nuvole, infine, De Andrè divide la sua narrazione in due parti: nella prima di esse, l’autore fotografa, con amara ironia, alcune figure che si avvicendano nei diversi luoghi di potere, all’indomani di quella svolta epocale rappresentata dall’abbattimento del Muro di Berlino, ovvero, dall’annientamento del regime comunista sovietico; la seconda parte di quest’opera, invece, mira a descrivere, 13 Introduzione anche attraverso la scelta dell’uso di alcuni dialetti, il popolo che, nelle sue vicissitudini quotidiane, il potere, è solo costretto a subirlo. Abbiamo cercato, inoltre, di accostarci a tali opere esaminandone, soprattutto, i diversi riferimenti letterari in esse contenuti. Il motivo di questa scelta è da ricercarsi nella rarità, all’interno dell’enorme mole di libri dedicati a Fabrizio De Andrè che aumenta di anno in anno, di approfonditi studi specifici di questo aspetto. La letteratura che ha come oggetto la figura del cantautore Fabrizio De Andrè, risente, ovviamente, delle leggi di mercato che vedono, ma soprattutto vogliono far vedere agli altri, in questo, come in altri suoi colleghi, principalmente il “divo”, la star: innumerevoli sono state, conseguentemente, le sue biografie con, al loro interno, approssimative e frettolose rassegne delle sue canzoni. Negli ultimi anni, però, sembra esserci stata una vera e propria inversione di tale tendenza, e sempre più studiosi, oltre che estimatori, si sono cimentati in analisi diverse, delle opere di questo cantautore genovese, con risultati, a volte, eccellenti. Uno di questi è, sicuramente, Roberto Cotroneo che in Una smisurata preghiera, saggio introduttivo a un’antologia dei testi del 14 Introduzione cantautore genovese, si pone, analogamente a quello che è il fine di questo nostro lavoro, un problema di metodo, ricercando un approccio all’opera di Fabrizio De Andrè diverso da quello comunemente usato nei libri dedicati a un cantautore: Forse è un discorso sul metodo. Forse qualcosa di più. Non si riesce a citare, in una introduzione a un libro che raccoglie testi di canzoni, parti di testo senza avere la sensazione di entrare in un’altra dimensione, che non è più critica e letteraria - come in questo caso ha da essere – ma appartiene alla memoria, a un tempo della vita. Questo di norma non accade con la poesia. Dove il rapporto con il tempo è meno immediato, più filtrato. Citare qui le parole di De Andrè, si pensi alla Canzone dell’amore perduto, o al Suonatore Jones, vuol dire catapultare il lettore che le conosce in una dimensione emotiva che prescinde dal testo, e lo sposta in un momento diverso, forse in un luogo altro. Questo non è un limite, ma semmai è un punto di forza. Per quanto la poesia si sforzi non ottiene lo stesso risultato perché non appartiene a tutti, non accompagna generazioni, non chiarisce periodi della vita. La musica veicola le emozioni aggiungendo – come un paratesto ingombrante e formidabile – senso al senso. Se qui penso alla musica come fosse un paratesto so che sto entrando in un terreno minato, su cui non si finirà mai di polemizzare, ma questo è davvero un discorso sul metodo. E porsi, per la prima volta con serietà, il problema di mettere in un libro una parte di lavoro di un poeta come De Andrè vuol dire sapere che la musica è una metà che aggiunge significato, talvolta in modo persino ingombrante. Allora un passo indietro: i testi ci 15 Introduzione sono, qui li si accompagna in una tonalità diversa da quella musicale, cercando di riprodurre la stessa precisione di una partitura.14 Condividiamo pienamente il pensiero e i fini perseguiti da Cotroneo. Con la nostra ricerca, infatti, ci prefiggiamo l’obiettivo di analizzare quelle che sono state le diverse fonti alle quali Fabrizio De Andrè attinse per concepire le sue opere, cercando di dimostrare come esse, naturalmente, variarono nel trascorrere del tempo e nella maturazione dell’artista che, col passare degli anni, acquistò sempre maggior esperienza e originalità nell’amalgamarle, fondendole con le sue considerazioni ed esperienze personali. Il presente lavoro, infine, lungi dall’esser stato concepito come un discorso esaustivo sull’intera opera deandreiana, ma anche orgoglioso della palese diversità rispetto al gran numero di volumi sulla vita e le esperienze di Fabrizio De Andrè, vuole solamente porre su un tavolo accademico, al pari dei grandi poeti e romanzieri del passato, una discussione sulla figura di questo cantautore genovese, rilevandone la valenza artistica delle opere, costituita dalla parte musicale, certo, ma principalmente dalla elevata caratura poetica e culturale. 14 R. Cotroneo, Una smisurata preghiera, in Come un’anomalia: tutte le canzoni di Fabrizio De Andrè, Torino, Einaudi 2000, pp.XIV-XV. 16 Capitolo Primo CAPITOLO PRIMO I.1 Brevi cenni sulla produzione discografica di Fabrizio De Andrè La produzione discografica di Fabrizio de Andrè ha inizio nel 1960 con il suo primo 45 giri Nuvole barocche, sul lato B del quale vi era incisa anche E fu la notte. Ne seguiranno altri trentadue fino al 1975, distribuiti da diverse “etichette”. Osservando proprio il primo cambiamento di casa discografica operato dall’artista genovese, si può notare in nuce la sua volontà di realizzare degli album di tipo nuovo, con una loro omogeneità di argomenti e un vero e proprio Leitmotiv testuale e, successivamente, anche musicale. A questo punto è indispensabile un veloce chiarimento sulla situazione nella quale versava la canzone italiana alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Il mondo della canzone del Secondo Dopoguerra viveva ancora di retaggi musicali ereditati dal passato. Tra questi la principale era senz’altro la romanza ottocentesca, caratterizzata dalle ariose armonie basate sulle grandi opere liriche del passato; d’altro canto però iniziavano anche ad affacciarsi sul 17 Capitolo Primo panorama musicale mediterraneo, seppur ancor timidamente per la verità, anche alcuni nuovi ritmi americani quali il jazz e il rock che fino ad allora erano quasi banditi dalla nostra penisola. Dal punto di vista discografico, sopravvivevano ancora i vecchi 78 giri, ma la maggior parte della produzione si basava ora sui 45 giri, di dimensioni e peso molto ridotti rispetto ai primi e contenenti un solo brano per ognuna delle due facciate. I 33 giri, album o long playing che dir si voglia, rappresentavano allora la vera novità: di dimensioni maggiori rispetto ai 45 ma composti del loro stesso materiale, più leggero rispetto ai 78, vantavano la possibilità di racchiudere più brani tra i loro solchi. Proprio per tale potenzialità, nel giro di una decina d’anni, gli album arrivano a essere la principale forma discografica in commercio. La prima importante scelta stilistica e allo stesso tempo funzionale al già citato progetto di omogeneità delle sue opere, Fabrizio De Andrè la attua nel passaggio dalla Karim, prima e piccola etichetta discografica che nota il cantante in un caffé-teatro genovese durante una delle sue primissime esibizioni di fronte a un pubblico, alla Bluebell Records.15 Questo primo passaggio dell’autore è molto 15 La produzione discografica successiva di Fabrizio De Andrè comprenderà in tutto una decina di case discografiche e relative etichette ma questo esula dalla nostra analisi che si limiterà, 18 Capitolo Primo significativo perché avviene in seguito all’uscita del primissimo album di Fabrizio De Andrè, che altro non era se non la raccolta dei suoi pezzi già in circolazione singolarmente su 45 giri. La mancata approvazione dell’autore di questa scelta della Karim significò la sua uscita dalla stessa casa discografica e gli strascichi giudiziari tra i due che durarono alcuni anni. Oltre a questo, per rimarcare ancor di più la sua posizione di disaccordo sull’uscita di quel primo album, la sua opera successiva, distribuita nel 1967 dal nuovo produttore ovvero la Bluebell Records, avrà come titolo Volume I. Fabrizio De Andrè ricorrerà ancora a questo espediente altre due volte nel corso della sua carriera, oltre che per delle scelte stilistiche e contenutistiche, anche per prendere le distanze dalle varie raccolte e antologie non autorizzate dei suoi brani che, nel corso degli anni, saranno pubblicate da diverse etichette.16 prevalentemente, allo studio di alcune delle opere dell’artista genovese dal punto di vista estetico e letterario soprattutto, con degli accenni al fattore musicale e a quello interpretativo. Si tralascia volutamente, in questa sede, la sua storia personale e discografica, dal punto di vista tecnico, perché già da altri, forse troppi riguardo alla prima delle due, abbondantemente trattata; ci riserviamo comunque di segnalare, nei riferimenti bibliografici, tutte le fonti in nostro possesso in modo di poter agevolare altri eventuali approfondimenti. 16 Questa ricerca, lontana come accennavamo poco prima da eventuali pretese di completezza riguardo alla figura di questo artista, prenderà in considerazione i suoi seguenti tredici album, escludendo naturalmente le varie collaborazioni non direttamente collegate a questi, gli album registrati durante i concerti, le antologie ed altri lavori minori: Volume I, Tutti morimmo a stento, Volume III, La buona novella, Non al denaro non all’amore né al cielo, Storia di un impiegato, Canzoni, Volume VIII, Rimini, Fabrizio De Andrè (Indiano), Creuza de mä, Le nuvole, Anime salve. 19 Capitolo Primo Queste prese di posizione da parte dell’autore, ben lungi dall’essere da noi interpretate come delle ripicche d’artista, si possono comprendere pienamente e definitivamente solo alla luce del suo successivo lavoro, datato 1968, dal titolo Tutti morimmo a stento (cantata in si minore per solo, coro e orchestra) e che può considerarsi a pieno titolo il primo disco a tema, o concept album, della discografia italiana. La particolarità di questo LP la si riscontra immediatamente, oltre che nel sottotitolo, nel leggere anche i titoli dei brani che lo costituiscono: risulta infatti che i vari pezzi, tra i quali non vi sono aggiunte pause come invece si era soliti fare in un qualsiasi altro album di canzoni, sono uniti tra loro da tre Intermezzi che fanno quasi da collante all’intera opera. La stessa è tutta e «programmaticamente dedicata a riflettere sulle varie forme e i vari modi con cui si può o si deve lasciare questa terra»,17 come si potrebbe intuire sin dal titolo; sarebbe riduttivo allora definire questo lavoro come una raccolta di canzoni: più appropriata ci sembra la definizione di «poema dell’infelicità umana».18 Il tema della 17 18 P. Ghezzi, Il vangelo secondo De Andrè, Milano, Àncora 2003, p. 108. G. Baldazzi, L. Clarotti e A. Rocco, I nostri cantautori, Bologna, Thelma Editore 1990, p. 108. 20 Capitolo Primo Morte non era nuovo nei componimenti di Fabrizio De Andrè e sarà da lui ripreso più volte negli album che seguiranno. Dello stesso anno è anche Senza orario senza bandiera, altro concept album nel quale però Fabrizio De Andrè compare solo come autore. Il long playing è inciso, infatti, da un gruppo di giovani musicisti genovesi, i New Trolls. Questa opera, spesso tralasciata da chi si occupa dei lavori del cantautore ligure, meriterebbe invece di essere analizzata al pari di altre sue realizzazioni e con essi, magari, confrontarla. Molti sono, infatti, i punti in comune tra questa e altre opere coeve dello stesso De Andrè come i suoi collaboratori, Riccardo Mannerini e Giampiero Reverberi in primis e lo spunto poetico di partenza, analogo a quello dell’album Non al denaro non all’amore né al cielo. Nel disco successivo, Volume III, l’autore riprende alcune sue vecchie composizioni, come La canzone di Marinella, che grazie anche all’interpretazione di Mina tanto successo portò nel frattempo al cantautore, accostandole a delle nuove composizioni. La piena maturità artistica Fabrizio De Andrè la raggiunge nel 1970, ritornando alla forma dell’album monotematico, con La buona novella dove l’autore, nella stesura dei testi, punta a una sorta di 21 Capitolo Primo umanizzazione della figura del Cristo e dei personaggi a lui più vicini. Proprio a tal fine, De Andrè utilizza come fonti per questo lavoro i Vangeli Apocrifi, in contrapposizione a quelli canonici. Quello dell’anno seguente è ancora un album a tema, tratto questa volta da una raccolta di poesie, l’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, poeta statunitense d’inizio Novecento. Il titolo dell’album è Non al denaro non all’amore né al cielo. Il lavoro successivo, Storia di un impiegato, è del 1973. Per una sintetica descrizione di questo LP ci affidiamo a una lucida analisi presente nel libro I nostri cantautori: Narra le vicende di “un borghese piccolo piccolo”. Infiammato d’un tratto dalle idee rivoluzionarie sogna una rivoluzione che lo liberi dal grigiore della sua vita e crede di risolvere il problema con le bombe. Quando si trova in prigione si rende conto di non essere il solo a soffrire […] . Con questo LP Fabrizio De Andrè ferma nel tempo un periodo problematico della nostra storia recente e lo esamina in controluce con una certa crudeltà.19 Nei due album successivi, l’autore, ritorna alla forma classica di LP come “raccolta di canzoni”. Nel primo, Canzoni appunto,20 rielabora alcune sue vecchie composizioni, mentre in Volume VIII si 19 Op. cit. , p. 116. Come si può notare, anche la scelta del titolo, banale di per sé, risponde ad una precisa scelta stilistica e programmatica dell’autore. 20 22 Capitolo Primo avvale della collaborazione di un giovane cantautore che stava già facendosi notare grazie si suoi testi anticonformisti e densi di metafore e simbologie: Francesco De Gregori. Questo “ottavo capitolo” del corpus di opere di De Andrè, segna quasi un passaggio epocale nell’ambito della canzone d’autore, come sottolinea Doriano Fasoli all’interno del suo libro dedicato al cantautore genovese: Volume VIII segna una tappa nell’evoluzione linguistica della canzone italiana degli anni Settanta. I due cantautori lavorano nella direzione di una poesia cantata, il cui ritmo, scandito dalle parole, dai giochi delle frasi, dai percorsi inconsueti del linguaggio, si realizza in un tipo di struttura musicale nuova e aperta.21 Nello stesso periodo Fabrizio De Andrè decide di acquistare un appezzamento in Gallura, in Sardegna, per la fondazione di un’azienda agricola. Questa scelta, ricaduta precisamente sulla tenuta dell’Agnata, ubicata nella zona di Tempio Pausania, potrebbe apparire irrilevante ai fini della nostra ricerca ma essa determina, invece, una svolta fondamentale per la successiva produzione artistica dell’autore. Tutto ciò si può evincerlo già dall’album del 1978, Rimini, nel quale 21 D. Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo. Da Carlo Martello a Prinçesa, Milano, Edizioni Associate 2001, p. 201. 23 Capitolo Primo De Andrè «volge lo sguardo verso un mondo diverso, quello delle etnie, siano esse lontane [gli indiani d’America], o vicine [i pastori sardi]».22 L’album l’Indiano,23 datato 1981, riprende le atmosfere del precedente, ampliandole e sviluppandole coerentemente. Sempre in questo nuovo lavoro, l’autore trova modo di raccontare l’avventura del suo rapimento, avvenuto in Sardegna nel 1979, nel brano Hotel Supramonte. «In questo album – come riferisce ancora Felice Liperi nella sua Storia della canzone italiana – l’attenzione verso nuovi mondi si somma a quella nei confronti dell’ambiente naturale, dove i tempi sono dettati dall’uomo a contatto con l’ambiente che lo circonda».24 Nei tre anni successivi Fabrizio De Andrè si dedica a un progetto legato alla riscoperta delle radici etniche aventi come filo conduttore il bacino del Mediterraneo. Il lavoro prende corpo in Creuza de mä, un album che supera lo stesso concetto di disco a tema per divenire «un flusso continuo di suoni strumentali e vocali».25 La 22 F. Liperi, Storia della canzone italiana, Roma, RAI-ERI 1999, p. 245. In effetti il titolo è assente e viene quindi indicato convenzionalmente con il nome completo dell’autore, ma la dicitura sopra indicata gli viene attribuita dall’immediatezza del significato della foto di copertina, una riproduzione di un dipinto di Remington, che ritrae appunto un pellerossa a cavallo. 24 Storia della canzone italiana, cit. , p. 246. 25 Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo …, cit. , p. 233. 23 24 Capitolo Primo lingua di cui si serve è un genovese antico, quasi ricostruito dall’autore, che grazie ai circa duemila vocaboli importati soprattutto a scopi commerciali e marittimi dal mondo arabo ben si sposa con gli strumenti etnici usati durante l’incisione del disco. Da questo momento in poi la critica, discografica e letteraria, sarà unanime nel riconoscere a Fabrizio De Andrè il merito di aver elevato la canzone a un livello più alto di un semplice prodotto di rapido consumo. Del resto, le implicazioni filologiche, letterarie e antropologiche sono, in questo ultimo lavoro, più che mai evidenti. I ritmi discografici dell’autore si fanno ora più lenti tanto che il nuovo long playing, Le nuvole, penultimo suo album di pezzi inediti, dovrà attendere il 1990 per vedere la luce. L’idea di questo disco, di chiara matrice aristofanea, nasce dalla riflessione di De Andrè sulla futilità dei nostri tempi, dove Le nuvole rappresentano i detentori del potere che con la loro arrogante supremazia impediscono al popolo di poter contemplare il cielo. In questo disco la presenza etnica, seppur rilevante, si stempera nel recupero di un’antica passione del cantautore per gli aspetti più surreali e grotteschi; diviene anzi funzionale al progetto dell’autore. 25 Capitolo Primo L’album è, infatti, diviso in due parti: la prima, cantata soprattutto in lingua italiana, tratteggia Le nuvole ovvero i detentori del potere, mentre la seconda, dove invece sono usati alcuni strumenti e dialetti di diverse etnie mediterranee, ritrae personaggi, situazioni e sentimenti popolari. Ad altri sei anni di distanza, nel 1996 quindi, Fabrizio De Andrè incide il suo ultimo album “da studio”: Anime Salve. Il disco affronta le tematiche legate al disagio, alla sofferenza e ai soprusi subiti quotidianamente dalle minoranze, dagli emarginati, siano esse singole persone o intere comunità. A chiarire meglio questo concetto è lo stesso De Andrè in una dichiarazione riportata da Fasoli all’interno del suo libro:26 Oggi maggioranza ha un significato numerico, ma deriva dal termine latino maior, che al plurale fa maiores. I maiores nel mondo latino erano coloro che detenevano i privilegi ed esercitavano l’autorità e il potere. Oggi questi maiores sono diminuiti di numero, ma la loro diminuzione è direttamente proporzionale all’aumento in loro favore dei privilegi, dell’autorità, del potere, (ormai) pressoché illimitati […]. I minores saremmo poi tutti noi al di là del mestiere che facciamo. Credo che la gente si sia per questo identificata con le minoranze emarginate, le protagoniste di Anime salve. 26 Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo…, cit. , p. 272. 26 Capitolo Primo Un altro importante particolare è costituito dal titolo dell’opera che, come spiega ancora l’autore, «si rifà all’etimo delle due parole, “anima” e “salvo”, e vuole mantenere il significato originario di “spirito solitario”».27 L’album, in assoluto il più premiato di tutta la produzione dell’artista, ottiene vari riconoscimenti: dal Gilberto Giovi al premio speciale della giuria al Piero Ciampi, fino ai titoli di “miglior album dell’anno” e “miglior canzone”, Prinçesa, ottenuti alla rassegna sulla canzone d’autore organizzata annualmente a Sanremo, parallelamente al più famoso Festival, dal Club Tenco.28 Nell’anno seguente viene dato alle stampe l’unico romanzo di Fabrizio De Andrè, Un destino ridicolo,29 scritto nei mesi precedenti con Alessandro Gennari, psicanalista mantovano appassionato di letteratura e già premiato nel 1995 con il premio Bagutta per il suo precedente libro Le ragioni del sangue. 27 Ivi, p. 74. Il Club Tenco organizza, ormai da alcuni anni, anche convegni sulla canzone d’autore, raccogliendone gli interventi in volumi di estremo interesse per chi si occupa di tali questioni. Due di queste raccolte sono: La tradotta. Storia di canzoni amate e tradite, a cura di E. De Angelis e S. S. Sacchi, Civitella in Val di Chiana, Zona 2003; L’anima dei poeti: quando la canzone incontra la letteratura, a cura di E. De Angelis e S. S. Sacchi, Civitella in Val di Chiana, Zona 2004. 29 F. De Andrè e A. Gennari, Un destino ridicolo, cit. 28 27 Capitolo Primo Dopo questi ultimi lavori Fabrizio De Andrè si dedica a quello che sarà il suo ultimo giro di concerti. Sarà, infatti, costretto a interromperlo alla fine dell’estate del 1998 a causa di quel male incurabile ai polmoni che, all’alba del nuovo anno, stroncherà la sua vita e la sua carriera. I.2 Matrici letterarie dell’opera deandreiana La poetica presente nei testi di Fabrizio De Andrè è densa di riferimenti letterari. Sono presenti, particolarmente nei primi tre album, ad esempio, retaggi delle sue letture giovanili, dove preponderante era la presenza di filosofi e romanzieri legati all’anarchismo classico del filone collettivista e comunista, come Michail Bakunin, Petr Kropotkin ed Elisée Redus. Un’altra figura, anch’essa centrale nella formazione politica e letteraria di De Andrè, è quella del filosofo Max Stirner, sempre legato all’ideologia anarchica ma individualista. Tale nome è solamente uno pseudonimo: il nome vero di questo autore è Johann Kaspar Schmidt. Egli, nato nel 1806 e morto cinquanta anni dopo, pose, in contrapposizione all’universalismo hegeliano, il riconoscimento dell’individuo come unica realtà e unico valore della 28 Capitolo Primo storia. Le sue posizioni influenzarono il dibattito filosofico sull’anarchismo della seconda metà del XIX secolo. Proseguendo su questa linea troviamo anche delle tracce di altri autori come Steinbeck, Dostoevskij ed Henry Thoreau, fino ad arrivare a quello che possiamo considerare il più equilibrato, chiaro e moderno degli anarchici italiani: Errico Malatesta. Non mancano, com’è ovvio, alcuni riferimenti a poeti italiani quali Montale, Ungaretti e Umberto Saba. Non è solamente la modernità però a ispirare il cantautore sin dai suoi esordi: molte sono, infatti, le attenzioni che egli rivolge all’età medievale e che si potrebbero riassumere qui in quattro punti fondamentali.30 Il primo di questi è costituito dalle forme metriche adottate, in particolare quelle della ballata, che Fabrizio De Andrè non rinuncia, a 30 Interessante, in questo senso, è l’analisi proposta da Antonio Tabucchi in una sua lezione tenuta presso l’università di Siena il 13 dicembre 2004 nell’àmbito del convegno Fabrizio De Andrè e il mito di Spoon River, pubblicata su «L’Unità», 14 dicembre 2004 col titolo De Andrè il trovatore e inserita successivamente, col titolo Quando un’epigrafe diventa racconto, nel volume Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, cit. , pp. 130-135. Partendo proprio da quest’analisi cercheremo di sviluppare questi agganci, costituiti a volte dalla ripresa di alcuni schemi metrici ma più spesso anche solo da dei richiami culturali, che le opere di Fabrizio De Andrè hanno con la tradizione poetica occidentale. 29 Capitolo Primo volte, a porre in evidenza già nei titoli delle sue composizioni.31 Dalle parole di Tabucchi poi, apprendiamo che: Un’altra ballata che invece nel titolo originale di De Andrè si chiama «canzone» è La canzone di Marinella, anch’essa riconducibile allo schema metrico e strofico della ballata classica, di quella codificata addirittura nel Quattrocento e poi nell’umanesimo fiorentino. Prendiamola ad esempio. La canzone di Marinella è una ballata classica in endecasillabi e settenari organizzati in un ritornello di quattro versi a rima baciata che era una sorta d’introduzione per il coro danzante. Nello schema originale seguivano una o più stanze affidate alla voce del solista, dove poi si distinguono due o più piedi a rima varia in cui la prima rima riprende quella dell’ultimo piede della stanza. Mentre l’ultima rima riprende la rima finale del ritornello. Ebbene, ho trovato una ballata del Poliziano che coincide col modello classico tipico de La canzone di Marinella di De Andrè.32 La ballata alla quale il Tabucchi si riferisce, è la Canzone a ballo CII tratta dalle Rime di Angelo Poliziano: I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino Di mezzo maggio in un verde giardino. Erano intorno vïolette e gigli, fra l’erba verde, e vaghi fior' novelli, azzurri, gialli, candidi e vermigli: ond'io porsi la mano a côr di quelli… 31 Pensiamo ad esempio ai brani La ballata dell’eroe e La ballata del Miché, entrambi inseriti dall’autore nell’opera Volume III del 1968, che, se anche non rispettano fedelmente le caratteristiche metriche della ballata, vi si rifanno almeno come per una falsariga. 32 Tabucchi, Quando un’epigrafe diventa racconto, cit. , p. 131. 30 Capitolo Primo Continuando nella sua esposizione, Tabucchi, introduce poi un’altra forma utilizzata a volte come punto di riferimento da Fabrizio De Andrè nella costruzione dei suoi testi, ovvero quella che Dante Alighieri considerò la più illustre delle forme liriche: la canzone. Di questo tipo di componimento, dapprima usato dai trovatori provenzali ma che gli Stilnovisti ripreso successivamente dai rimatori della “scuola Siciliana”, esistono non poche varianti, dal punto di vista, ad esempio, della tematica. Veniamo così al secondo punto in questione, che riguarda le ambientazioni e i temi che il cantautore prende a prestito, naturalmente attualizzandoli, dal mondo medievale. Alcune varianti della canzone, dicevamo, riguardano le tematiche affrontate nel testo, come la canzone “d’alba” o chanson d’aube, che affronta il distacco dell’uomo dalla donna amata e che Fabrizio De Andrè utilizza in uno dei suoi primissimi pezzi: La ballata del Miché.33 Un altro dei filoni tipici della grande tradizione poetica provenzale e italiana è quella che viene chiamata canzone “della tela” o chanson de toile, che ritroviamo in Fila la lana,34 composizione, questa, che l’autore recupera, non a caso quindi, dalla tradizione popolare francese del XV secolo. 33 34 Cfr. ivi, p. 132. Cfr. ivi, p. 133. 31 Capitolo Primo Oltre a questi modelli che appartengono alla tradizione colta della nostra poesia, ve ne sono anche altri legati maggiormente alla cultura popolare; a uno di questi fa cenno ancora Tabucchi nel finale del suo intervento: Infine la chanson d’histoire. Che cos’era? Una canzone in musica, una poesia che parlava della storia. Quale? La grande e piccola, quella collettiva che prendeva in esame gli eventi che la storia porta con sé (guerre, carestie) ma anche i piccoli eventi personali che accadono a ciascuno di noi e che, messi insieme, formano comunque la grande storia. Così sarà per l’Antologia di Spoon River e per l’album Non al denaro non all’amore né al cielo. De Andrè ne compone una [canzone] che si chiama Delitto di paese. […] È la poesia che diventa narrativa, un elemento fondamentale di tutta la poesia del tardo Novecento. […] in presenza di Fabrizio De Andrè ci troviamo di fronte a un grande autore moderno, un trovatore nel senso più nobile della parola.35 Il terzo aggancio con la tradizione culturale occidentale, presente nelle opere dell’autore genovese, è costituito dall’impiego, in principio in sede di registrazione dei pezzi e in seguito anche nei suoi concerti, di molti strumenti musicali legati alla tradizione popolare e 35 Ivi, pp. 134-135. Possiamo anche considerare appartenenti a questo modello, oltre ad un gran numero di singole canzoni composte da De Andrè, anche alcuni altri album come, ad esempio, Storia di un impiegato del 1973. 32 Capitolo Primo alla musica “colta” dei secoli passati. Tra gli altri, si possono udire nelle sue canzoni i suoni armoniosi del clavicembalo, del corno francese, del liuto, dell’organo a canne ed anche della fisarmonica; questi strumenti offrono al cantautore delle affascinanti e inconsuete soluzioni timbriche che ben si coniugano alla sua voce calda e pulita. Il quarto e ultimo punto da trattare, per quanto riguarda gli spunti che Fabrizio De Andrè ricava dall’età “di mezzo”, riguarda direttamente i poeti. Oltre all’adattamento musicale che il cantautore compie su un sonetto di Cecco Angiolieri,36 i rimandi espliciti, in questo caso, si possono riassumere particolarmente e significativamente in un nome: François de Montcorbier, meglio noto come François Villon.37 Poeta e avventuriero francese, Villon condusse, nella metà del XV secolo, un’esistenza alquanto tormentata fino al punto di salvarsi da ben due condanne capitali. Propri di questo autore, inserito a pieno titolo nella tradizione poetica d’Oltralpe dell’Alto Medioevo, sono alcuni tratti stilistici presenti in tutte le sue opere: l’alta cifra espressiva e una singolare intensità di passione, ad esempio, che 36 Si tratta del sonetto S’i’ fosse foco che il cantautore inserisce nell’album Volume III del 1968. Tratteremo un poco più approfonditamente questo controverso poeta in uno dei capitoli successivi dedicato interamente all’analisi dell’album Tutti morimmo a stento, opera che Fabrizio De Andrè realizza nel 1968 e nella quale compare La ballata degli impiccati, un brano ispirato proprio ad una poesia del francese. 37 33 Capitolo Primo furono in lui sublimate dalle situazioni estreme nelle quali spesso si trovò a destreggiarsi. L’interesse e la passione di Fabrizio De Andrè nei confronti di questo autore non si esauriranno con il passare degli anni: nel 1996, infatti, firmerà una Prefazione per una raccolta di poesie di François Villon pubblicata da Feltrinelli.38 Altra fonte dalla quale il cantautore genovese attinge a piene mani, anche in questo caso sin dalle sue prime canzoni, è la generazione esistenzialista francese del Secondo Dopoguerra. Già negli anni Trenta, infatti, la Francia era stata teatro di collaborazioni organiche tra il mondo della canzone d’autore e l’universo accademico della poesia e della letteratura. Si possono citare, tra gli altri, i nomi di Prévert e Cocteau, per dare l’idea di quanto fosse diversa, allora come per molti aspetti anche oggi, la situazione nei territori d’Oltralpe rispetto alla nostra Nazione. Di questa forma di sinergia delle arti non v’è traccia in Italia almeno fino alle collaborazioni di alcuni scrittori e poeti, del calibro di Franco Fortini, Italo Calvino e altri, che diedero un importante contributo a quel gruppo, fondato a Torino nel 1957 da Fausto Amodei, Sergio Liberovici e Michele Straniero, noto col nome di 38 F. Villon, Poesie, a cura di Luigi De Nardis e con una Prefazione di Fabrizio De Andrè, Milano, Feltrinelli 1996. 34 Capitolo Primo Cantacronache. L’esperienza torinese, ricalcata sulle orme di quella francese e operante solo fino al 1963, non divenne mai però una vera e propria “scuola” o corrente autonoma e originale. Senz’altro più duraturi sono stati gli apporti dati da Roberto Roversi, fin dagli anni Settanta, all’opera di Lucio Dalla e da Manlio Sgalambro alle più recenti composizioni di Franco Battiato; ma questi e altri sporadici episodi non possono certo paragonarsi alla concentrazione d’intellettuali di spicco del panorama culturale, compreso naturalmente il settore musicale, che subito dopo la fine della II Guerra Mondiale affollarono le caves del quartiere latino a Parigi, dando vita a una stagione di poesia che ancora oggi viene studiata, analizzata e apprezzata non solo da giornalisti e musicologi.39 Così, mentre in Italia il panorama canoro era dominato dalle melodie intonate da Nilla Pizzi e Luciano Tajoli, verosimilmente nell’ambito dell’annuale appuntamento del Festival della Canzone Italiana che continua ancora oggi a svolgersi a Sanremo, e dalle “marcette” del maestro Fragna, una per tutte I pompieri di Viggiù, in Francia cantanti come Juliette Gréco, Yves Montand ed Edith Piaf interpretavano testi di Jean-Paul Sartre e Raymond Queneau. Nello 39 Cfr. S. Pivato, Introduzione, in Id. , La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana, Bologna, il Mulino 2002, p. 20. 35 Capitolo Primo stesso contesto, riscuotevano i primi successi anche altri chansonnier di poco più giovani rispetto ai precedenti: Jacques Brel, Boris Vian, Léo Ferré e Jean Ferrat i nomi più significativi.40 Un altro cantautore d’Oltralpe, di pari grandezza stilistica, polarizza però l’interesse di Fabrizio De Andrè sin dalla sua adolescenza: il suo nome è Georges Brassens. Nato nel 1921 e morto sessant’anni dopo nella stessa città, Séte, che diede i natali anche a Paul Valery, questo autore, al quale l’Académie Française conferirà il Grand Prix de Poésie del 1967, influenza moltissimo l’opera del cantautore genovese. Dal suo repertorio, infatti, De Andrè apprende come utilizzare dei ritmi popolareschi come la giava, il valzer o la tarantella, sposandoli a dei testi profondi e dando loro, in tal modo, quella leggerezza che permette di renderli comprensibili e piacevoli anche a un pubblico non intellettuale; oltre a ciò, traduce e interpreta sei suoi brani e da almeno altri due trae degli spunti importanti per delle sue composizioni originali.41 Altri due cantautori, questa volta d’oltreoceano, entrano a far parte dell’orizzonte musicale nel quale si muove Fabrizio De Andrè 40 Cfr. Ivi, p. 81. Su questo vedi La tradotta…, cit. , ma anche l’articolo, e relativa bibliografia, Tra Lerici e Turbìa. Fabrizio De Andrè e Georges Brassens di Franco Arato, in «Belfagor», LIV (1999), 6, pp. 735-740. 41 36 Capitolo Primo sebbene per un breve periodo e con minore intensità rispetto al caso precedente. Si tratta dell’autore canadese Leonard Cohen e dello statunitense Bob Dylan, che molti considerano il nome più celebre della popular music della seconda metà del Novecento. L’opera di questi due folk singer confluisce in quella dell’autore genovese solo a metà degli anni Settanta e, significativamente, proprio durante la sua collaborazione col giovane Francesco De Gregori. Prima però delle influenze americane e successivamente a quelle d’Oltralpe, Fabrizio De Andrè volge quella che oramai possiamo definire la sua ricerca verso due testi in particolare, molto diversi ma entrambi importantissimi. Il primo di questi lavori, La buona novella, è infatti basato sui Vangeli Apocrifi, scritti tra il I e il IV secolo dopo Cristo da autori di diversa etnia e religione che, proprio per questo motivo, narrarono la vicenda del Cristo da angolature diverse rispetto agli scrittori dei Vangeli canonici, privilegiandone gli aspetti umani a discapito di quelli teologici. Per una sintetica descrizione di questo album ricorriamo alle parole di Doriano Fasoli: La Buona Novella è un disco colto, carico di stratificazioni visive e letterarie, basti pensare, nelle Tre madri, a quella ripetizione 37 Capitolo Primo del termine «figlio», che ha un precedente antico nel duecentesco Pianto della Madonna di Jacopone da Todi, e ai soffusi riferimenti iconografici ed ambientali, nell’Infanzia di Maria, agli affreschi di Cimabue e Giotto. Tutti elementi che De Andrè utilizza e trasforma, trasfigura allo scopo di creare immagini, visioni, di penetrare tra gli occhi ed il cuore di chi ascolta, e ascoltando, vede42 Il secondo, di tutt’altra natura, è l’album Non al denaro non all’amore né al cielo, realizzato da De Andrè adattando liberamente e musicando alcune poesie tratte dall’Antologia di Spoon River, scritta nei primi anni del Novecento dal poeta statunitense Edgar Lee Masters. Questo disco del cantautore ottenne anche l’avallo, e in una certa maniera anche la partecipazione diretta, di Fernanda Pivano. La scrittrice italiana condivise con Cesare Pavese il merito, attraverso la sua personale traduzione italiana dell’opera di Masters, di diffondere l'Antologia di Spoon River in Italia: nel 1943, infatti, Pavese, che anni prima aveva donato il testo in lingua originale alla Pivano, allora giovanissima, convinse Einaudi a pubblicarne la traduzione che la scrittrice aveva nel frattempo realizzato.43 È la stessa Pivano in un suo libro recentemente pubblicato, I miei amici cantautori, a raccontare, con la sua personalissima 42 Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo…, cit. , p. 136. Cfr. G. Davico Bonino, Nota introduttiva, in E. L. Masters, Antologia di Spoon River, a cura di F. Pivano, Torino, Einaudi 1993, pp. V-VII. 43 38 Capitolo Primo sensibilità ed emozione, la sua incursione nel mondo della canzone d’autore e il rapporto con Fabrizio De Andrè: Roberto Danè [produttore del disco in questione] mi ha telefonato di andare a Roma allo studio Ortophonic dove stavano registrando il disco, stavano facendo il disco, stavano rendendo immortali quei teneri versi della mia adolescenza nella voce di questo poeta, di questo incantatore. Naturalmente sono andata allo studio Ortophonic e per la prima volta nella vita ho visto come si fa a imprigionare una canzone […] C’era da fare la copertina del disco e naturalmente gli avevo chiesto di fare un’intervista, ma ancora non si era rassegnato a darne mille al minuto […] credo che questa sia stata una delle sue prime interviste e l’abbiamo messa sulla copertina del disco senza prevedere che Fabrizio avrebbe aggiunto qualche riga che io considero il mio premio Nobel; sono poche righe ma le ho lasciate al fondo dell’intervista con un orgoglio e una riconoscenza difficili da descrivere: “Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è una ragazza di vent’anni che inizia la sua professione traducendo il libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt’altra tendenza. È successo tra il ’37 e il ’41: quando questo ha significato coraggio”. Ma ormai mi facevo coraggio e andavo a sentirlo nei suoi concerti e un giorno mi avevano chiesto di presentarlo a un premio che dovevano dargli ad Aulla il 26 luglio 1997 e che gli dovevano dare al Tenco il 23 ottobre 1997. avevo provato a dire, cosa di cui ero sempre più convinta, che Fabrizio era il nostro poeta più bravo, bravo al punto di non avere paragoni, Brassens o non Brassens, e mentre io parlavo lui mi ascoltava con un’ironia che solo la mia devozione mi ha permesso di sopportare. Ma quando gli ho detto: “Dicono che Fabrizio è il Bob 39 Capitolo Primo Dylan italiano. Oh, nel dargli questo premio, d’amore più che di potere, vorrei che fosse Bob Dylan a venire chiamato il Fabrizio americano”, la sua ironia per un istante era finita e ci siamo 44 abbracciati con gli occhi un po’ troppo lucidi. Abbiamo pensato fosse utile riportare questa lunga citazione, al di là dell’estrema delicatezza del racconto, come esempio di quanto a volte possano essere vicini mondi che appaiono così distanti, come quello della letteratura e quello della canzone d’autore. Tuttavia, poco prima della fine dello stesso decennio, Fabrizio De Andrè matura una scelta artistica che potremmo definire radicale, puntando il suo lavoro alla riscoperta di antiche tradizioni, linguaggi, suoni e atmosfere che accomunano anche le etnie che sembrano più distanti. Questa idea portante, che in qualche modo lo accompagnerà fino alla sua scomparsa, culmina nel pionieristico tentativo di un linguaggio, anche e soprattutto musicale, comune alla maggior parte delle popolazioni che popolano il bacino del Mediterraneo. Questa musica “mediterranea” o mediterranean music, presente soprattutto nell’album Creuza de mä del 1984, viene considerata da alcuni studiosi di antropologia musicale, primo fra tutti Goffredo Plastino, 44 F. Pivano, I miei amici cantautori, Milano, Mondatori 2005, pp. 69-70. 40 Capitolo Primo come il punto di partenza di quel fenomeno culturale che prende il nome di musica “dal mondo” o world music.45 Anche nel corso di queste sue ricerche etniche però, Fabrizio De Andrè non si esime dallo scandagliare il mondo della cultura cosiddetta “ufficiale” per attingere a delle ispirazioni che si potessero ben coniugare a quelle descritte in precedenza. Oltre alla già citata opera aristofanea, dalla quale parte per la costruzione del suo penultimo album, Le nuvole appunto, l’ultimo suo riferimento esplicito in questo senso è Àlvaro Mutis. Proprio da un’opera di questo poeta e romanziere colombiano, nato a Bogotà nel 1923, l’autore genovese acquisisce lo spunto giusto per comporre il brano finale dell’ultimo suo disco Anime salve. L’opera del colombiano è la saga di Maqroll il Gabbiere mentre il titolo del brano di De Andrè è Smisurata preghiera.46 Si correrebbe il rischio di una mitizzazione del personaggio se non si ricordassero infine i collaboratori diretti che aiutarono il cantautore nella realizzazione di tutti i suoi dischi. Tra questi, alcuni 45 Su questo argomento vedi G. Plastino, Mediterranean mosaic. Popular music and global sound, cit. 46 La versione portoghese di questa composizione, dal titolo Desmedida plenaria, fu usata, nello stesso anno della sua pubblicazione ossia il 1996, dal regista Sergio Cabrera. Il brano infatti venne inserito nella colonna sonora del film Ilona llega con la lluvia, anch’esso basato sul romanzo di Àlvaro Mutis. 41 Capitolo Primo già citati e altri dei quali scriveremo dopo, ricordiamo qui i più importanti. Il primo in ordine cronologico e fondamentale all’affermazione dei suoi primi componimenti è l’arrangiatore e direttore d’orchestra Giampiero Reverberi.47 Nel corso degli anni il suo posto sarà poi occupato, per brevi periodi, da alcuni altri: tra questi, un giovane Nicola Piovani che risulta essere anche coautore delle musiche di un paio di album del cantautore e infine Piero Milesi che sarà presente negli ultimi due suoi long playing. Fabrizio De Andrè si avvalse spesso, nei testi e nelle musiche dei suoi lavori, anche dell’aiuto di altri autori, ognuno dei quali però lo affiancò solo per uno o al massimo due dischi. Giuseppe Bentivoglio, ad esempio, firma con lui i testi di due dei suoi concept album, così come Massimo Bubola e anche Mauro Pagani che lo supporta in quella ricerca di una comune musica “mediterranea” della quale abbiamo già trattato in precedenza. E infine, l’ultimo disco, il già citato Anime salve, è frutto di una per niente facile collaborazione con un altro noto esponente del filone cantautorale italiano, Ivano Fossati. 47 Anche di questa importantissima figura artistica approfondiremo alcuni aspetti durante la trattazione dell’album Tutti morimmo a stento. 42 Capitolo Secondo CAPITOLO SECONDO II.1 Speculazioni e proposte di analisi sull’opera di Fabrizio De Andrè La caratteristica fondamentale riscontrabile, in linea di massima, in ogni singola opera di Fabrizio De Andrè, come abbiamo già accennato in precedenza, è data dalla sua visione organica dell’opera-album o concept album. Tale idea rappresenta l’anticipazione, tipica delle avanguardie artistiche, di un modo di scrivere canzoni che verrà sviluppato particolarmente negli anni Settanta del Novecento, da molti altri autori seppur con alterne fortune e con esiti non sempre eccellenti. A un livello di analisi macroscopico possiamo addirittura spingerci oltre. Quasi tutti i lavori del nostro autore sono accomunati da un unico tema di fondo: la critica nei confronti del Potere. Quest’ultima è presente nei testi di De Andrè in modi e toni di volta in volta differenti; ciò che rimane invece costante in ogni suo lavoro è il punto di vista, la prospettiva che parte sempre dal basso, vale a dire dalle varie forme di umanità che animano le persone ai margini della società. Assumere il loro punto di vista permette al nostro autore, quasi fosse un espediente letterario, di muovere delle critiche, a volte 43 Capitolo Secondo anche crude e violente, altre volte più leggere e satiriche ma sempre in maniera lucida e personalissima. La sua, infatti, non è una sterile contestazione del sistema sociale e istituzionale, cosa per altro molto in voga nel corso degli anni Sessanta e Settanta, ma una sorta di analisi, etica ed estetica al tempo stesso, del rapporto instauratosi tra l’uomo e il potere nel corso dei secoli. Anche se tale argomentazione potrebbe apparire alquanto astratta e speculativa, addentrandosi invece nello studio dei testi e delle fonti dalle quali l’autore ha attinto, ci si rende perfettamente conto del suo effettivo pragmatismo. Per meglio chiarire questo aspetto si potrebbe ricorrere alle parole di Andrea Podestà, autore di alcuni articoli pubblicati sulla rivista bimestrale «Italiano e oltre»48 dedicati all’uso del dialetto genovese al quale Fabrizio De Andrè ricorre nei suoi ultimi tre album, ed anche di una sua biografia.49 Proprio da quest’ultima ricaviamo la definizione di Potere che, secondo Podestà, traspare dalle opere del cantautore genovese: Ma il potere è, ovviamente, più subdolo e non sempre si materializza nelle figure che materialmente hanno poteri decisionali (re, principi, ministri). Il potere è ciò che ha imposto schemi fissi di 48 A. Podestà, Un dialetto in sogno e De Andrè si confessa, cit. A. Podestà, Fabrizio De Andrè: in direzione ostinata e contraria, Civitella in Val di Chiana, Zona 2003. 49 44 Capitolo Secondo pensiero e che è pronto a distruggere tutto ciò che è alternativo (verrebbe in mente il discorso di Pasolini sul genocidio culturale del 50 sottoproletariato). È bene tenere presente quest’affermazione durante l’ascolto di quasi tutti i lavori di De Andrè, perché ognuno di essi contiene un riferimento più o meno esplicito a tali «schemi fissi».51 Questi, infatti, non sono identificabili, una volta e per tutte, con una precisa persona o personaggio o istituzione: è l’atto stesso di dominio, di predominanza. Sono citate spesso la religione, la cultura e addirittura la morale dominante come delle costruzioni oppressive che l’uomo stesso ha creato per soggiogare o comunque tenere a freno le vere inclinazioni e peculiarità degli altri uomini. E così, in una sorta di visione kafkiana, l’uomo che assume degli atteggiamenti sbagliati, quali peccati o reati, non è completamente autonomo e determinato a sbagliare, ma indotto, se non addirittura costretto, da quelle regole che qualcun altro ha imposto. Quella dell’autore genovese è una vera compartecipazione all’umana esistenza terrena ed è proprio grazie a questo suo slancio che riesce, nei suoi testi, a tradurre le diversità degli uomini in varietà e, quindi, in ricchezza estetica anziché minaccia ideologica. Tali idee 50 51 Ivi, p. 39. Ibid. 45 Capitolo Secondo riflettono una profonda coscienza etica perfettamente congiunta a un’indiscussa sensibilità artistica. Del resto anche le letture giovanili già citate nei capitoli precedenti52 e le personalissime rielaborazioni musicali delle stesse, proposte dal cantautore nell’arco di tutta la sua carriera, ci forniscono un quadro pressoché completo degli intenti etici ed estetici dell’autore. Soffermiamoci ora sulla convergenza di questi ultimi due concetti nell’opera deandreiana. A tal fine è sicuramente utile ricordare uno scritto di Leone Tolstoi, risalente alla fine del sec. XIX, dal titolo Che cosa è l’arte?53 dove l’autore evidenzia degli aspetti dell’oggetto artistico che spesso si tende a sottintendere, se non addirittura a tralasciare. Primo fra tutti, e non a caso posto a Conclusione del libro, il fine ultimo dell’arte che deve essere «quello di effettuare l’unione fraterna degli uomini».54 Come Fabrizio De Andrè abbia fatto propria questa che, più che un’affermazione, sembra quasi un’esortazione da parte dell’autore, lo si può evincere dalla stragrande maggioranza dei testi da lui composti, dai 52 Precisamente il II par. del capitolo primo: Matrici letterarie dell’Opera deandreiana. L. Tolstoi, Che cosa è l’arte?, Milano, Treves 1899. 54 Ivi, p. 261. 53 46 Capitolo Secondo quali traspare quasi una sorta di esigenza etica appunto, una solidarietà manifestata attraverso un raro senso di vicinanza agli altri uomini. Questa sua caratteristica non è molto distante da quel sentimento di pietas che presso i latini aveva un ampio spettro di significati; infatti, a differenza della riduzione semantica da essa subita nel corso dei secoli dovuta anche alla sua nuova collocazione nell’ambito della religione cristiana, la pietas comprendeva: la devozione e il sentimento di dovere nei confronti degli dei, l’amor paterno, l’amor patrio, la fedeltà, la rettitudine, la clemenza, l’equità e l’indulgenza. Tutte queste virtù morali sono racchiuse nei testi di Fabrizio De Andrè sotto forma di rispetto e comprensione nei confronti di qualunque essere umano, buono o cattivo che sia, ma anche verso la natura che ci circonda, le diverse religioni esistenti e finanche i diversi soggetti politici. Su questo aspetto della poetica presente nelle opere di Fabrizio De Andrè e sull’accostamento di queste ultime ai principi indicati da Tolstoi all’interno del suo saggio citato precedentemente, ma anche sull’accostamento che proporremo poco oltre tra il cantautore genovese e Pier Paolo Pasolini, concorda anche Romano Giuffrida, come si evince dal suo intervento nell’ambito delle Giornate di studio, 47 Capitolo Secondo Per mare, per cieli per terre, con Fabrizio, alla ricerca dell’Uomo, svoltesi a Garessio il 14 e 15 luglio del 2000:55 E anche se a una lettura superficiale potrebbe risultare paradossale affermare che il messaggio sociale cristiano sottenda l’indignazione anarchica che anima la poesia di Fabrizio De Andrè, l’analisi di alcuni elementi non può che confermare questa tesi. Il principale di essi è, in assoluto, il sentimento della pietas, della pietà per tutti gli ultimi, i vinti, gli esclusi. […] è pietà per gli assassini di Delitto di paese, è pietà per chi «sulla croce sbiancò come un giglio»,56 […] per il bandito sardo «senza luna senza stelle e senza fortuna»,57 per le «spose bambine» dei Rom che vanno a «caritare»58 […] . L’arte dunque, per De Andrè, è come ancora una volta scriveva Tolstoj, uno strumento “per l’avanzamento dell’umanità verso la perfezione” ed è una perfezione che in De Andrè si è esplicata da sempre nella semplicità espressiva dei suoi versi, come se volesse rispondere all’indicazione dello scrittore russo. Per chiarire ulteriormente questo concetto ci sembra utile ricorrere a un’altra analisi di Roberto Vecchioni, effettuata, anche questa volta, in una sua lezione tenuta in diverse università italiane e successivamente pubblicata all’interno del già citato volume Volammo 55 R. Giuffrida, In direzione ostinata e contraria, Fabrizio De Andrè fra Tolstoj, Stirner e Pasolini, in Volammo davvero…, cit. , pp. 80-91. 56 Quello citato da Giuffrida è il verso finale del brano Si chiamava Gesù, dall’album Volume I del 1967. 57 Verso iniziale del ritornello della canzone Franziska, da Fabrizio De Andrè, album del 1981 meglio noto come l’Indiano. 58 Questi ultimi due termini vengono estrapolati ancora da Giuffrida da Khorakhanè (a forza di essere vento), seconda composizione dell’ultima opera dell’autore risalente al 1996, Anime salve. 48 Capitolo Secondo davvero.59 Qui Vecchioni, partendo dalla spiegazione del concetto di monotematicità, caratteristica costantemente presente negli album del cantautore genovese, arriva ad affrontare il significato della nozione di «contro-storia»: “Monotema” per Fabrizio significa elaborare allegoricamente un nucleo letterario, storico, artistico: partire cioè da un’opera, da un periodo, da un personaggio e svolgerli a suo modo, riproporli al presente per evidenziare la sua tesi, la sua contro-storia. Contro-storia vuol dire rileggere l’avventura umana sull’asse potere-individuo e rivalutare, giustificare la prassi dell’errore sociale, del presunto “peccato” individuale, come risposta a una costruzione, a uno schiacciamento qualunquista, perbenista, accentratore, consolatorio del potere stesso. Contro-storia è partire dall’interno dell’uomo, valutarne la risposta, la strenua difesa davanti all’assurdo del dogma e della prevaricazione e non, come si è sempre fatto, giudicare l’uomo in base alla sua risposta positiva o negativa nei confronti del potere.60 L’ultimo dei concetti enucleati da Vecchioni, la «contro-storia», che chiude questa probabilmente doverosa serie di precisazioni che abbiamo pensato fosse utile riportare, ci riconduce al tema fondamentale precedentemente accennato, presente in vari modi e 59 R. Vecchioni, Fabrizio De Andrè, lezione in ateneo, in Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, cit. , pp. 154-187. 60 Ivi, pp. 154-155. 49 Capitolo Secondo livelli in quella che si può oramai definire a pieno titolo poetica deandreiana: la critica nei confronti del potere. Tale critica s’innesta nella canzone d’autore italiana come un elemento nuovissimo e fecondo, a differenza del mondo della poesia dove invece la figura dell’«intellettuale critico»61 era già presente, per alcuni versi da molti secoli, ma particolarmente e in termini vicini alla nostra disquisizione da quasi cento anni. Uno di questi poeti, tra i più carismatici e rappresentativi del Novecento italiano, è Pier Paolo Pasolini che, come cercheremo di dimostrare tra breve e naturalmente con tutte le dovute precauzioni e distanze, ha non pochi elementi in comune con l’autore da noi trattato in questa sede. II.2 Due intellettuali a confronto: Fabrizio De Andrè e Pier Paolo Pasolini La prima caratteristica comune tra questi due personaggi è, come già accennato, l’essere entrambi «intellettuali critici» ossia in crisi, in rotta di collisione con il ceto sociale, la borghesia, da cui entrambi provenivano.62 Da qui ne deriva quella critica al potere che porta 61 Giuffrida, In direzione ostinata e contraria, Fabrizio De Andrè fra Tolstoj, Stirner e Pasolini, cit., p. 83. 62 Cfr. ibid. 50 Capitolo Secondo forzatamente chi la persegue a due possibili approdi: da una parte inserirsi nella classe sociale antagonista, in questo caso particolare il proletariato, in un’ottica d’impegno totale; dall’altra estraniarsi da entrambe così da poter avere una visione del sistema sociale non edulcorata da faziosità politiche.63 Proprio di fronte a questo bivio si appalesano le differenze ideologiche che intercorrono tra i nostri due autori: Pasolini, infatti, sceglie comunque come interlocutore dialettico il proletariato mentre De Andrè non risolve la sua collocazione di classe anche perché, se il primo rispecchia un’ideologia spiccatamente marxista, il secondo si considera un anarchico individualista.64 Altro elemento comune è il loro amore e interesse profondo verso il dialetto. Entrambi, infatti, usarono non solo l’idioma delle loro terre natie, ossia il friulano per quel che riguarda Pasolini65 e il genovese in riferimento a De Andrè,66 ma anche alcuni altri dialetti che entrambi conobbero nel prosieguo delle loro vite.67 63 Cfr. ivi, p. 84. Cfr. ibid. 65 Il poeta in verità nacque a Bologna ma la sua infanzia fu caratterizzata da continui spostamenti. L’unico suo punto di riferimento geografico nonché luogo felice in quel periodo fu la casa materna a Casarsa, nel Friuli; non a caso, la sua prima raccolta di versi, risalente al 1942, fu proprio Poesie a Casarsa, naturalmente in dialetto friulano. 66 L’esempio maggiore non può che essere l’intero suo album Creuza de mä del 1984, ma anche altri singoli brani presenti nei lavori successivi, come già ricordato precedentemente. Per la questione dell’uso del dialetto da parte del cantautore rimandiamo comunque alla tesi Il dialetto 64 51 Capitolo Secondo Anche queste scelte artistiche s’inseriscono, soprattutto per quanto riguarda il cantautore, nell’ottica della critica ai regimi, linguistici in questo caso, imperanti. La precisazione necessaria la fornisce lo stesso De Andrè in una delle frequenti chiose che era solito fare durante i suoi concerti: I dialetti assurgono a dignità di lingue e le lingue decadono a dialetto per motivi soprattutto politici o militari, basterebbe fare la storia del Portogallo […] mi interessa invece l’aspetto culturale della faccenda, vale a dire che una lingua nazionale come l’italiano sarebbe finita miseramente come l’inglese, cioè una lingua che purtroppo si usa solamente per commerciare patate e baccalà, se non si fosse nutrita di quelli che sono considerati gli idiomi locali. […] La lingua italiana quindi continua a essere vivace da molti secoli a questa parte proprio per il fatto che si nutre di questi idiomi locali, tanto è vero che quando ci troviamo di fronte a una frase particolarmente divertente e spiritosa diciamo che è una frase idiomatica. Ed è soltanto questo che io auspicherei, come dice Spadolini, che questi dialetti locali, non fosse altro che per fornire qualche cosa di nuovo alla lingua nazionale, continuassero a resistere e a esistere.68 rivisitato nelle canzoni di Fabrizio De Andrè. Appunti di lavoro e la relativa bibliografia, realizzata da Elisa Di Padova nell’a. a. 2001-2002 presso l’Università degli studi di Torino. 67 Il cantautore, in altri suoi album, usò anche alcune varianti del dialetto sardo e di quello partenopeo, mentre Pasolini, nel 1957, collaborò alla sceneggiatura del film Le notti di Cabiria, del regista Federico Fellini, stendendone i dialoghi in romanesco. 68 Da una dichiarazione dell’autore successivamente riportata, con il titolo Appunti al pesto: lingua e dialetto, in Volammo davvero…, cit. , pp. 271-272. 52 Capitolo Secondo L’ultima caratteristica che avvicina l’opera dei due autori è una sorta di religiosità laica, da noi accennata in precedenza per quel che riguarda De Andrè, che si concretizza in una sorta di empatia nei confronti degli uomini ai margini, protagonisti questi ultimi di quasi tutte le loro pagine. Per questa loro particolare vocazione, la fonte dalla quale attingono è data dai valori sociali del Cristianesimo delle origini e non dalla sua religiosità ufficiale applicatagli a posteriori dalle istituzioni clericali. Anche e forse soprattutto in questa conclusione risiede la similarità della riflessione poetica di queste due figure del Novecento italiano, così distanti, certo, ma così corali nella loro visione dell’uomo come essere “sbagliato” per eccellenza perché imperfetto, colmo di contraddizioni, ma forse, proprio in quanto tale, unica essenza da noi veramente comprensibile. Non è un caso, infatti, che tanto Pasolini quanto De Andrè si siano accostati, in più di un’occasione, alla vicenda del Cristo, raccontandola con strumenti differenti ma anche con simili intenti. Citiamo, per quanto riguarda Pasolini, il suo film del 1964, Il Vangelo secondo Matteo, dove le scelte del regista, come quella di 53 Capitolo Secondo servirsi spesso, anziché di attori professionisti, di persone ingaggiate nella periferia della capitale, quasi come un moderno Caravaggio, danno risalto alla figura umana di Gesù, uomo tra gli uomini, restituendone in pieno il senso di sacrificio e di speranza che appartiene alle sue vicende terrene. Un’operazione analoga viene compiuta anche da Fabrizio De Andrè nell’album del 1970, La buona novella, e in altri singoli brani,69 dove citazioni più o meno esplicite del Cristo ne invocano appunto la sua presenza ed essenza terrena piuttosto che la celebrata soprannaturalità. È ancora Giuffrida, nel medesimo intervento citato in precedenza, ad accorgersi della similarità che intercorre tra le due opere di questi autori: Procedendo come Pasolini ne Il Vangelo secondo Matteo, De Andrè non solo disegna le figure della narrazione spogliandole dell’aura della mistica tradizionale e dando loro la dimensione umana di precarietà e conflittualità esistenziale astorica ma evidenzia anche i pregiudizi dei dogmi e la violenza del potere che difende sé e i propri privilegi calpestando quella stessa religiosità di cui si vorrebbe depositario. […] Non è un caso che il mondo da loro descritto veda sempre, come protagonisti positivi, quei soggetti che la società 69 Tra questi ricordiamo la più significativa ovvero Si chiamava Gesù. 54 Capitolo Secondo disprezza e marginalizza e non è un caso, nemmeno, che in quel mondo entrambi collochino il «loro» Cristo, uomo e ribelle sconfitto da ragioni di stato e «di bottega».70 I testi letterari de La buona novella, com’è stato più volte ribadito dallo stesso autore, sono ispirati, in maniera programmatica, ai Vangeli Apocrifi. Il perché di tale scelta e i suoi intenti così vicini con il film già citato di Pier Paolo Pasolini si possono apprendere dalle stesse parole di De Andrè: Ho quindi preso spunto dagli evangelisti cosiddetti apocrifi, apocrifo vuol dire falso, in effetti era gente vissuta in carne e ossa, solo che la Chiesa mal sopportava sino a qualche secolo fa che fossero altre persone non di confessione cristiana ad occuparsi di Gesù. Si tratta di scrittori, di storici arabi, armeni, bizantini, greci che nell’accostarsi all’argomento nel trattare la figura di Gesù di Nazareth lo hanno fatto direi addirittura con deferenza, con grande rispetto, tanto è vero che ancora oggi, proprio il mondo dell’Islam continua a considerare subito dopo Maometto, e prima ancora di Abramo, Gesù di Nazareth il più grande profeta mai esistito. Laddove invece il mondo cattolico continua a considerare Maometto qualcosa meno di un cialtrone e questo direi che è un punto che va a favore dell’Islam. L’Islam quello serio. […] Posso dire ancora su La buona novella che dato il taglio conferito a questo argomento, probabilmente i personaggi del Vangelo 70 Cfr. , In direzione ostinata e contraria, Fabrizio De Andrè fra Tolstoj, Stirner e Pasolini, cit. , p. 91. 55 Capitolo Secondo perdono un poco di sacralizzazione, ma io credo e spero soprattutto a vantaggio di una loro migliore e maggiore umanizzazione.71 Non bastano certo questi pochi e sommari elementi per tracciare un preciso parallelismo tra questi due artisti così carismatici. Di altri e più accurati studi necessiterebbe una ricerca in tal senso, ma ci serviva in questa sede solo una piccola dimostrazione di quanto complesso può essere stato l’intreccio d’influenze e dei diversi linguaggi semantici dei quali si è nutrito l’ambiente culturale italiano della seconda metà del secolo scorso. 71 Anche questo brano è stato estrapolato da una precisazione fatta dall’autore all’interno di una sua performance concertistica e successivamente riportata, con il titolo Appunti apocrifi… e le mie braccia divennero ali…, in Volammo davvero…, cit. , pp. 365-367. 56 Capitolo Terzo CAPITOLO TERZO III.1 Analisi di alcuni album del cantautore Cerchiamo ora di analizzare, in maniera più concreta, alcune delle opere nelle quali Fabrizio De Andrè ha maggiormente sviluppato il suo impulso di contestazione e di denuncia nei confronti dei «poteri forti». Abbiamo scelto di soffermarci in questa sede solo su tre dei suoi numerosi album: Tutti morimmo a stento, Storia di un impiegato e Le nuvole. Tale scelta non è del tutto arbitraria. Innanzi tutto, li accomuna il loro essere concepiti ognuno come progetto organico e unitario e non come semplice raccolta di canzoni;72 ognuno di essi poi è paradigmatico delle forme e dei contenuti espressi dall’autore in un preciso momento storico. Questi lavori furono infatti realizzati da De Andrè in tre periodi alquanto lontani tra loro, rispecchiando anche, in ultima analisi, una diversa maturità artistica e culturale del loro autore. 72 Ci si riferisce qui, naturalmente, alla già più volte ribadita definizione di concept album. 57 Capitolo Terzo III.2 Tutti morimmo a stento (cantata in si minore per solo, coro e orchestra) [1968] Cantico dei drogati Primo intermezzo Leggenda di natale Secondo intermezzo Ballata degli impiccati Inverno Girotondo Recitativo (due invocazioni e un atto di accusa) Corale (leggenda del re infelice) 58 Capitolo Terzo A meno di dieci anni di distanza dalle sue prime incisioni discografiche su 45 giri, Fabrizio De Andrè realizza la sua prima vera opera su album dotata di una compiutezza e organicità, fino ad allora estranea non solamente ai suoi dischi ma anche all’intero panorama musicale nazionale. È un’opera molto complessa che meriterebbe delle analisi particolareggiate per ognuno dei suoi tre livelli semantici. Per quanto riguarda la costruzione sonora, sulla quale si sviluppa l’idea poetica originaria, l’intento dell’autore è chiaro ed esplicito sin dalle parole del sottotitolo, ovvero Cantata in si minore per solo, coro e orchestra, dicitura che rimanda chiaramente a un passato non troppo lontano dominato artisticamente dallo stile barocco. Sono le parole dello stesso De Andrè a chiarire le implicazioni contenute in questa opera, riconducibili a questo stile: È polveroso [il suo disco], è cattedratico, è barocco. E ricordiamoci che in quel periodo, sotto il barocco, c’era stata la controriforma. Quindi è un disco che, pur nel suo tentativo di mettere in mostra alcuni dei vizi più notevoli della società, ha tuttavia un modo di esprimersi e anche di accompagnare lo scritto con la musica un po’ arrogante, un po’ ridondante. È un disco che, direi, risente quasi di 73 autoritarismo in qualche maniera, ma è proprio barocco in tal senso. 73 Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo…, cit. , p. 40. 59 Capitolo Terzo Per quanto riguarda gli arrangiamenti musicali, l’incarico fu affidato a Giampiero Reverberi, musicista “serio”, di stampo classico e già prolifico arrangiatore di altri brani dell’artista genovese come anche di altri autori dell’epoca. Per meglio comprendere l’entità del suo apporto nella realizzazione di questo album ci affidiamo alle parole di Cesare G. Romana:74 Come in una cantata bachiana impaginò arie, recitativi, suture strumentali, non ancora pago spaziò tra gli echi del beat e del corale luterano, elegie supreme e sferzate di trombe, intimismo pucciniano e asperità stravinskiane. […] compose in un affresco cangiante archi pensosi come preci, schiaffi di trombe, chitarre assorte, interludi orchestrali tra un brano e l’altro. Alternò l’organo liturgico di Cantico dei drogati all’epos morriconiano di Ballata degli impiccati, impennate di ritmo e trasparenze impressioniste, cori metafisici e un pianoforte rapsodico. Fino al delirio popolaresco del Girotondo, al 75 melologo severo del Recitativo e all’intreccio barocco del Corale. Questa ricercata tessitura orchestrale, che visto il gran numero di elementi possiamo a buon diritto definire imponente, assieme alla voce di Fabrizio, suadente e straniante al tempo stesso, e ad altri 74 Giornalista e critico musicale, Romana è autore di alcuni volumi sulla parabola umana ed artistica di Fabrizio De Andrè quali: C. G. Romana, Amico fragile. Fabrizio De Andrè, Milano, Sperling & Kupfer 1999, ed anche C. G. Romana, Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con Fabrizio De Andrè, Roma, Arcana 2007. Romana curò anche la stesura di quelle note introduttive, riportate sulla copertina dei primi LP di De Andrè, che servivano quasi ad avvicinare l’ascoltatore ad una più profonda comprensione dei brani ivi contenuti. 75 Romana, Smisurate preghiere…, cit. , pp. 19-20. 60 Capitolo Terzo elementi che non riteniamo sia qui la sede adatta a un loro eventuale approfondimento, sono tutti “mattoni” che contribuiscono in egual misura alla costruzione di quell’impalcatura artistica ed estetica che Vecchioni, come già ricordato in precedenza,76 definisce «terzo elemento semantico essenziale» o linguaggio dell’interpretazione. Sul linguaggio musicale strictu sensu non ci soffermeremo, lasciando così in sospeso una questione la quale importanza meriterebbe uno studio ben più accurato e specifico.77 Concentreremo ora la nostra attenzione, invece, su quello che riteniamo essere il sistema semantico fondamentale e peculiare della canzone d’autore come genere e delle opere di De Andrè in particolare: il linguaggio poetico. L’idea di base della quale l’autore si avvale per la stesura dei testi di questo album è composta da almeno quattro elementi fondamentali: le sue letture giovanili con al centro una composizione di François Villon; alcuni fatti di cronaca avvenuti in quegli anni; le influenze poetiche e musicali di Georges Brassens e del poeta 76 Vedi l’Introduzione del presente testo dove vengono riassunti alcuni passi di R. Vecchioni, La canzone d’autore in Italia in Enciclopedia Italiana…, cit. , pp. 279-283. 77 Questo infatti spetterebbe a quegli scrupolosi ricercatori di teoria della musica che, invece di analizzare in maniera scevra da pregiudizi anche questo genere musicale relativamente nuovo, continuano a vivisezionare ogni altro tipo di musica in una ricerca infinitesimale che mira a svelare, in una sempre più piccola particella melodica, il senso “vero” della musica. 61 Capitolo Terzo Riccardo Mannerini e infine alcuni riferimenti autobiografici. L’amalgama di tali fattori, che analizzeremo nel dettaglio soffermandoci sui singoli brani, plasma una particolare alchimia del tutto nuova per l’epoca. Lo scenario sociale nazionale e internazionale del 1968, anno di pubblicazione dell’album, era in pieno fervore politico e ideologico. Le istanze rivoluzionarie del Sessantotto, infatti, contribuirono non poco alla creazione di un clima che lasciava presagire grandi trasformazioni sociali e culturali. Il panorama musicale dell’epoca rifletteva nella sua produzione discografica quest’ondata di rinnovamento con uno stile, quello della beat generation, che racchiudeva al suo interno una molteplicità di tendenze ed espressioni differenti. In contrapposizione a esso vi era ancora una forte tradizione melodica legata particolarmente a eventi “nazional-popolari” quali, ad esempio, il Festival di Sanremo. L’album di Fabrizio De Andrè rappresentò un’anomalia nel clima musicale del 1968: era alquanto strano, infatti, che un autore di canzoni concentrasse un suo album sulla fine dell’umana esistenza, ovvero, la morte. Quest’ultima è qui trattata inoltre con dei toni spesso 62 Capitolo Terzo gravi, senza indugiare però su facili sentimentalismi che, al contrario, erano costantemente presenti nei testi degli altri autori di quegli anni. Del distacco dalla vita terrena vengono qui trasposte in versi le cause, i motivi e, non da ultimo, gli umori di chi da questa esistenza si distacca anche per una propria scelta o per imposizione altrui; ma ciò che soprattutto importa a De Andrè è descrivere la difficoltà di vivere, il che, a ben pensarci, equivale alla difficoltà di morire dignitosamente come ogni uomo dovrebbe, al di là delle sue colpe o virtù. Proprio in questo passaggio finale si può rintracciare la forte presa di posizione che l’autore assume, attraverso le parole contenute in questa opera, nei confronti dei detentori del potere; la sua scelta di schierarsi al fianco di coloro che, non accettando le regole imposte dalla morale comune, lamentano il disprezzo di cui sono colmi gli occhi dei loro carnefici «benpensanti». Non è un caso, infatti, che De Andrè scelga di impostare i testi più importanti di questo album sul discorso in prima persona: singolare, per quanto riguarda il brano d’apertura Cantico dei drogati; plurale, per la Ballata degli impiccati e il Recitativo finale. Ciò che si evince da questi brani è anche il profondo senso di solitudine che si trasforma in una disperata invocazione di pietà dei protagonisti 63 Capitolo Terzo condannati, dalla morale o dalla legge, a una pena, la morte, ingiusta comunque, anche per le colpe più atroci. Il rifiuto della pena di morte, del resto, è una delle tematiche costanti nelle opere di Fabrizio De Andrè e rappresenta anch’essa una presa di posizione dell’autore, forse la più decisa e netta, nei confronti delle istituzioni. Il primo dei testi che compongono quest’opera è, come abbiamo avuto modo di accennare, Cantico dei drogati. L’idea originaria per questa composizione è ricavata da Eroina, una poesia composta da Riccardo Mannerini, poeta vero appartenente a quella schiera di personaggi che il nostro sistema culturale fatica ancora a riconoscere come degni di ulteriori approfondimenti: 5 10 15 Come potrò dire a mia madre che ho paura? La vita, il domani, il dopodomani e le altre albe mi troveranno a tremare mentre nel mio cervello l’ottovolante della critica ha rotto i freni e il personale è ubriaco. Ho paura, 64 Capitolo Terzo 20 25 30 35 40 45 50 55 60 tanta paura, e non c’è nascondiglio possibile o rifugio sicuro. Ho licenziato Iddio e buttato via una donna. La mia patria è come la mia intelligenza: esiste, ma non la conosco. Ho voluto il vuoto. Ho fatto il vuoto. Sono solo e ho freddo e gli altri nudi ridono forte mentre io striscio verso un fuoco che non mi scalda. Guardo avvilito questo deserto di grattacieli e attonito vedo sfilare milioni di esseri di vetro. Come potrò dire a mia madre che ho paura? La vita, il suo motivo, e il cielo e la terra io non posso raggiungerli e toccare… Sono sospeso a un filo che non esiste e vivo la mia morte on un anticipo terribile. Mi è stato concesso di non portare addosso vermi o lezzi o rosari. Ho barattato con una maledizione 65 Capitolo Terzo 65 70 75 80 85 90 95 vecchia ma in buono stato. Fu un errore. Non desto nemmeno più la pietà di una vergine e non posso godere il dolore di chi mi amava. Se urlo chi sono, dalla mia gola escono deformati e trasformati i suoni che vengono sentiti come comuni discorsi. Se scrivo il mio terrore, chi lo legge teme di rivelarsi e fugge per ritornare dopo aver comprato del coraggio. Solo quando scadrà l’affitto di questo corpo idiota avrò un premio. Sarò citato di monito a coloro che credono sia divertente giocare a palla col proprio cervello riuscendo a lanciarlo oltre la riga che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito. Come potrò dire a mia madre che ho paura? Insegnami, tu che mi ascolti, un alfabeto diverso 78 da quello della mia vigliaccheria. La figura di questo poeta influenzò non poco le opere ed anche la vita di De Andrè fino a quel periodo. Innanzi tutto li legava una 78 R. Mannerini, Un poeta cieco di rabbia, a cura di C. Pozzani e M. Macario, Liberodiscrivere, Genova 2005, pp. 53-55. 66 Capitolo Terzo profonda amicizia fondata anche, ma non solo, sulle comuni idee anarchiche e libertarie. La sua storia personale poi era molto vicina a quella dei protagonisti delle canzoni di De Andrè: era un uomo di mare e in uno dei suoi lavori a bordo di una nave fu investito dai fumi di una caldaia in avaria che di lì a poco lo avrebbe reso irrimediabilmente cieco; aveva spesso problemi con la giustizia, dovuti anche alla sua umana disponibilità ad ospitare nella propria casa persone non sempre rispettabili e talvolta anche ricercate dalla polizia.79 Nel 1980, infine, si suiciderà, impiccandosi nella sua dimora. I componimenti di Mannerini, che trasforma la sua depressione in versi tanto delicati e profondi quanto asciutti e al limite dell’amarezza, servono al cantautore quasi da canovaccio sul quale costruire delle canzoni che, in quanto tali, abbiano una maggiore precisione nella scansione metrica, ritmica e musicale. Nello stesso anno di pubblicazione dell’album che stiamo qui analizzando, il 1968, viene dato alle stampe anche Senza orario senza bandiera, prima opera importante del giovane gruppo dei New Trolls, 79 È possibile che De Andrè si ispiri a questa caratteristica dell’amico poeta per l’idea generale del testo de Il pescatore, brano che contiene anche dei riferimenti alla vicenda del Cristo, come i versi «ma versò il vino, spezzò il pane / per chi diceva ho sete, ho fame» 67 Capitolo Terzo nel quale De Andrè risulta essere coautore dei testi insieme a Mannerini. In verità il cantautore, come accennato poco sopra, svolge soprattutto un lavoro di adattamento dei testi del poeta, cesellando i versi in modo da renderli validi anche musicalmente. Ciò non significa però che De Andrè non dia un apporto veramente originale alla realizzazione di questi brani; anzi al contrario, perché anche nella scelta dei termini o metafore o anche solo idee da trasferire nelle canzoni si può riconoscere lo stile personalissimo e la sua delicata sensibilità, quasi fosse un’arte di levare più che d’aggiungere. Lo stesso lavoro viene svolto dall’autore nella stesura definitiva del Cantico dei drogati: partendo dai quasi cento versi liberi della poesia originaria, De Andrè scrive un testo composto da quattro strofe esastiche a rima baciata, inframmezzate da altrettanti ritornelli di un sol verso identico per ciascuno e un distico finale in assonanza piena. Il verso «come potrò dire a mia madre che ho paura»,80 che costituisce il ritornello, è l’unico elemento che rimane identico al testo precedente e questo avviene per due motivazioni fondamentali. 80 Mannerini, Un poeta cieco di rabbia, cit. , p. 53. 68 Capitolo Terzo La prima deriva dal fatto che, in Eroina,81 questo verso è il solo che viene ripetuto e per ben tre volte, svolgendo probabilmente una funzione analoga a quella della canzone ed essendo anche posto, nella prima, ad apertura del testo. Da ciò naturalmente si può anche evincere la sua effettiva importanza nel descrivere lo stato d’animo del protagonista del brano che dispera di non riuscire a manifestare le proprie insicurezze neanche all’affetto più caro per antonomasia. L’altro motivo per il quale questo verso rimane invariato è dato dal fatto che ben si sposava, probabilmente, con la costruzione melodica; in altri punti infatti, come l’intera quarta strofa e il distico finale, anche se il senso rimane sostanzialmente invariato, De Andrè apporta delle leggere modifiche a delle singole parole permettendo loro, in tal modo, di rientrare perfettamente nella scansione ritmica e melodica. La prima strofa invece è costruita sulla base di alcune idee prese da vari punti della poesia. La seconda e la terza strofa infine hanno un solo aggancio ciascuno al primo testo: i «folletti di vetro» del quinto verso della seconda strofa erano precedentemente «milioni di esseri di 81 Ivi, pp. 53-55. 69 Capitolo Terzo vetro»,82 mentre nel verso conclusivo della terza strofa è solamente l’attributo a cambiare rispetto all’altro testo, da «con un anticipo terribile»83 a «con un anticipo tremendo». Inoltre, in quest’ultimo verso che integralmente recita «dove vivo la mia morte con un anticipo tremendo», Vecchioni, nella sua già citata lezione accademica sul cantautore,84 ritrova un verso di Giuseppe Ungaretti: «la morte / si sconta / vivendo».85 Al di là delle citazioni, quello che si scorge in questa canzone è la profondità del malessere del protagonista che fugge la vita trovando approdo nell’ebbrezza momentanea e deleteria della droga; tale scelta, che si rivelerà per lui fatale, gli viene dettata, per sua stessa ammissione ribadita più volte, dalle sue insicurezze, dai suoi dubbi. Nelle parole finali, il senso ultimo dell’intera composizione; il lamento diviene critica: perché, invece di colpevolizzare un uomo la 82 Ivi, p. 54. Su questo vedi anche a p. 26, nella sezione Vita e opere realizzata da Sandra Verda, dove la curatrice afferma che in una delle prime stesure della canzone «il titolo originale era diventato Cantico dei folletti di vetro, di vetro come la bottiglia dei superalcolici che non è affatto diversa da una siringa». 83 Ivi, p. 54. 84 Vecchioni, Fabrizio De Andrè, lezione in ateneo, nel volume Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, cit. , p. 159. 85 Questi, rintracciati da Vecchioni in questo testo, sono gli ultimi tre versi di Sono una creatura, composizione che Giuseppe Ungaretti realizzò a Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916, dalla sua prima raccolta in versi, Il porto sepolto del 1916 appunto, e successivamente inserita, nel 1919, in Allegria dei naufragi, divenuta in seguito L’Allegria. 70 Capitolo Terzo cui unica colpa è la sua debolezza, non si cerca di capirne i motivi fornendogli magari gli strumenti e gli stimoli giusti per affrontarla? Il problema e motivo principale della tossicodipendenza, infatti, risiede proprio nell’insicurezza, nel pensare di non essere in grado di rapportarsi agli altri, indipendentemente dall’età e dal ruolo occupato nella società. Ne fornisce un esempio la vicenda umana dello stesso Fabrizio De Andrè che, a dispetto della sua fama e per sua stessa ammissione,86 usava quotidianamente una gran quantità di whisky per far fronte alla sua timidezza fino al 1985, quando il padre, in punto di morte, riuscirà a strappargli la sua ultima promessa, ovvero, di allontanarsi definitivamente dalla “bottiglia”. È proprio per questo motivo che Fabrizio sceglie, fra i tanti, questo testo di Mannerini cambiandone innanzitutto il titolo che da Eroina trasforma in un più generico, e grave allo stesso tempo, Cantico dei drogati,87 laddove per droga si deve intendere qualunque sostanza che possa creare una totale dipendenza, al di là del fatto che sia legale o meno. A questo punto penso sia palese anche lo stimolo 86 Su questo vedi Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo..., cit. , p. 42 che riporta alcuni brani di una precedente intervista al cantautore realizzata da Roberto Cappelli e pubblicata dalla rivista «Mucchio selvaggio» nel numero di settembre del 1992 con il titolo Cantico per i diversi. 87 Per tale questione rimando alla già citata sezione Vita e opere realizzata da Sandra Verda (p. 26) ed inserita in Mannerini, Un poeta cieco di rabbia, cit. 71 Capitolo Terzo autobiografico seguito dall’autore nel suo apporto originale al suddetto brano. Il brano successivo è il primo dei tre Intermezzi presenti nell’album. Per quanto riguarda i primi due, una buona analisi è stata già svolta da Lisa Tibaldi nel suo saggio sul cantautore genovese dal titolo La poesia per musica di Fabrizio De Andrè: I due intermezzi sono costituiti da due frasi negative, in entrambi i casi la prima riguarda il “non sapere” mentre l’altra il “non avere”. Gli arcobaleni e i ruscelli del Primo Intermezzo corrispondono alle tombe e ai capelli del secondo. De Andrè, attraverso queste immagini incisive, vuole esprimere la distanza tra il mondo in cui si muovono le vittime (drogati, fanciulle violate e impiccati) e quello degli altri uomini.88 Incastonato fra questi due brani, quasi come fosse un quadro in una cornice, grazie anche alla ricercata tessitura musicale, si trova Leggenda di Natale. Questo testo viene elaborato dall’autore ispirandosi a una composizione di Georges Brassens del 1960: Le père Noël et la petite fille. Particolarmente durante il suo primo decennio di attività artistica, De Andrè s’ispirò o addirittura tradusse e interpretò molti 88 L. Tibaldi, La poesia per musica di Fabrizio De Andrè, Civitella in Val di Chiana, Zona 2005, p. 115. 72 Capitolo Terzo brani di questo cantautore francese89 condividendone evidentemente, oltre allo stile musicale, anche e soprattutto i contenuti dei suoi testi, a partire dalle idee anarchiche e libertarie, la sua spiccata vena satirica e autoironica, fino al costante impegno antimilitarista. Il brano presente in questo album narra la storia di una fanciulla traviata da un uomo molto più maturo, identificato solo con un generico «Babbo Natale». Tale appellativo però non è casuale ma sta a significare l’assoluta assenza di malizia nella mente della protagonista che vede, nei preziosi regali e nei modi gentili dell’attempato signore, solo dei segni di profonda amicizia. Il verso finale però, dove ritroviamo la parola «Natale» che rende più feroce il gesto compiuto nel giorno più sacro, lascia intendere che il fine di quei gesti fosse decisamente più crudele e morboso. La profonda amarezza lasciata dall’ascolto di questo brano si stempera nella musica, che potremmo anche definire psichedelica, del Secondo Intermezzo il cui testo però ne ribadisce alcuni elementi principali quali i «fiori», gli «amori» e i «capelli». Si arriva così al secondo dei tre pezzi più importanti dell’intiero lavoro: La ballata degli impiccati. L’importanza di questo brano è 89 Per un’analisi più dettagliata di tale questione rimandiamo ad Arato, Tra Lerici e Turbìa. Fabrizio De Andrè e Georges Brassens, cit. , pp. 735-740. 73 Capitolo Terzo data, oltre che dalla profonda incisività del testo, da almeno due fattori significativi. Innanzi tutto è posto al centro dell’album, mentre gli altri due sono posti naturalmente ad apertura e alla conclusione dello stesso: pertanto riteniamo verosimile che esso possa rappresentare il nucleo dell’argomento sviluppato da De Andrè in questa sua opera; tale nucleo tuttavia si sviluppa ulteriormente nei due brani successivi, Inverno e Girotondo, formando così un vero e proprio trittico musicalmente ininterrotto al quale, non a caso evidentemente, seguirà il Terzo Intermezzo. Altro particolare emblematico è il verso iniziale che riporta il titolo dell’intera opera: «Tutti morimmo a stento». Il titolo di questo singolo brano, come non pochi altri elementi del testo, si rifà a un componimento di François Villon: Ballade des pendus.90 Di questo poeta, sulla cui vera identità gli studiosi non sono ancora arrivati a fare piena luce ma verosimilmente la si associa spesso al nome di François de Montcorbier, si sa con sicurezza che visse nella seconda metà del Quattrocento ed ebbe non pochi problemi con la giustizia. 90 F. Villon, Lascito testamento e poesie diverse, a cura di M. Liborio, Milano, Rizzoli 1990, pp. 456-459. 74 Capitolo Terzo Questa ballata infatti, conosciuta anche come Epitaphe Villon, potrebbe esser stata da lui composta per invocar pietà a chi di dovere, in merito alla condanna a morte per impiccagione comminatagli in seguito ad una rissa e mutata poi, provvidenzialmente, in un esilio di dieci anni da tutto il territorio di Parigi e dintorni. Anche questo antico poeta medievale dalla vita tempestosa focalizzò più volte l’attenzione di De Andrè, che si servì delle sue rime anche per altre sue canzoni e, nel 1996, come abbiamo avuto modo di segnalare precedentemente, arriverà a firmare una Prefazione a una raccolta di sue poesie.91 A fornire al cantautore lo stimolo giusto per la stesura di questo testo però contribuì anche un preciso fatto di cronaca “nera” avvenuto qualche anno prima, nel 1963 precisamente; a descriverlo, ricordando l’articolo di giornale che lo riportava, è lo stesso De Andrè nella già citata Prefazione del 1996: La corte di Johannesburg aveva destinato all’impiccagione otto presunti malviventi, naturalmente neri. L’estensione dell’articolo così descriveva il disperato infantile esorcismo del loro terrore: ballavano e cantavano sotto le corde prima di essere appesi. Poi si dilungava 91 Villon, Poesie, cit. 75 Capitolo Terzo appena nel macabro dettaglio del subito dopo: e scalciarono per un po’, alcuni sono durati un attimo, altri qualche minuto.92 Realizzando il testo di questa canzone, De Andrè parte indubbiamente dall’Epitaphe Villon, ma il tono dell’intero brano e alcuni termini legati a delle immagini precise sono senz’altro da ricollegare alla cronaca dell’avvenimento di Johannesburg appena ricordato. La composizione, infatti, nei suoi trentadue versi a rima alterna privi di un vero ritornello e con al suo posto solamente un vocalizzo, ha un tono completamente diverso dalla ballata di Villon: se il francese inizia con un affettuoso «Freres humains qui aprés nous vivez»,93 il cantautore invece, con il verso «Tutti morimmo a stento», usa una crudezza che mira a colpire il lettore, o meglio l’ascoltatore, piuttosto che impietosirlo. Muovere a pietà era naturalmente lo scopo principale di Villon e la ripetuta invocazione di una preghiera a Dio affinché assolva quei condannati dai loro peccati ne è la chiara dimostrazione. Per quanto riguarda il punto di vista religioso, dimensione fondamentale nella Francia del Quattrocento, Villon, oltre a Dio, 92 93 Ivi, p. 459 Villon, Lascito…, cit. , p.456. 76 Capitolo Terzo chiama in causa anche «le Filz de la Vierge Marie»94 ovvero il «Prince Jesus»95 e «l’infernale fouldre»96 dell’«Enfer».97 Le parole di De Andrè invece, oltre a non citare forze divine od infernali, sono colme di rabbia e di maledizioni nei confronti di coloro che derisero, seppellirono e rinnegarono quei condannati a morte, all’interno dei quali l’autore stesso si pone usando, come del resto anche Villon, un tipo di narrazione basata sulla prima persona plurale. E infine, se il poeta si preoccupa dei suoi «fratelli umani» fino a scrivere «ne soiez donc de nostre confrairie»,98 la canzone di De Andrè si chiude invece con un avvertimento a tutti coloro che vivono ancora giacché la loro morte «è soltanto un discorso sospeso». Ancora riguardo al testo di questo brano, l’autore si è avvalso della collaborazione di Giuseppe Bentivoglio, che nel decennio successivo scriverà ancora con il cantautore genovese, arrivando a essere il coautore di tutti i testi di altri due suoi concept album: Non al denaro, non all’amore né al cielo, del 1971, e Storia di un impiegato, pubblicato nel 1973. 94 Ibid. Ivi, p. 458. 96 Ibid. 97 Ibid. 98 Ibid. 95 77 Capitolo Terzo I due brani successivi chiudono il trittico che abbiamo cercato di tracciare in precedenza; entrambi affrontano il medesimo argomento, come del resto e anche se da differenti punti di vista, di tutti gli altri testi dell’album: la Morte. Questa volta però sono le forme e i generi con i quali viene descritta a essere posti una di fronte all’altra. Inverno, che inizia musicalmente con un lento “dialogo” swing tra pianoforte e tromba, è ricondotta da Fasoli, a un genere poetico ben preciso: In Inghilterra, nel Settecento, era in voga un genere poetico chiamato «poesia stagionale». I poeti che lo praticavano cantavano le stagioni dell’anno ed i riflessi delle loro atmosfere sull’animo umano. De Andrè fa qualcosa di simile, scegliendo l’inverno come specchio di una condizione generale della vita dell’uomo e del mondo: l’inverno è l’immagine della natura che si annulla nel bianco della neve e nel nero degli alberi spogli, e in questo è il simbolo della ciclica fine di tutte le cose.99 Di contro a questa, che azzardiamo definire canzone dall’innesto poetico, riferendoci ancora al genere «stagionale»100 99 Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo…, cit. , p. 118. Tuttavia, Fabrizio De Andrè, non era nuovo all’uso di questo genere poetico. In tal senso, ritroviamo dei rimandi più o meno espliciti anche in alcune altre sue precedenti canzoni, quali ad esempio: Valzer per un amore del 1964, La canzone dell’amore perduto del 1966, La stagione del tuo amore inserita nell’album Volume I del 1967 e infine anche il Terzo Intermezzo dell’album che stiamo attualmente analizzando. 100 78 Capitolo Terzo ricordato da Fasoli, troviamo Girotondo che, come si può evincere dallo stesso titolo, ha invece una derivazione nettamente popolare. Il brano in questione è stato infatti concepito, anche musicalmente, come una filastrocca per bambini: il ritmo molto semplice e brioso, scandito dalla sola chitarra, ne è un chiaro esempio, come pure l’ostinata ripetizione nel testo delle classiche formule di questo tipo di filastrocche quali «marcondiro’ndero», «marcondiro’ndera» e «marcondiro’ndà». Leggendo però attentamente il testo, di questo che potrebbe anche apparire un banale divertissement, si possono rintracciare degli elementi pure seri e importanti. La costruzione testuale gioca essenzialmente su una serie di domande e risposte formulate usando una terminologia fanciullesca o addirittura infantile; l’autore usa però questo espediente per porre degli interrogativi riguardanti alcune questioni che facete non sono quali la religione, l’ecologia e la guerra. Questi temi erano allora, come del resto anche oggi, di forte attualità e strettamente collegati, in particolare gli ultimi due, alle numerosissime manifestazioni “sessantottine” di protesta: proprio in quegli anni difatti, alcuni conflitti, come quello che si stava 79 Capitolo Terzo perpetuando nel Vietnam, erano motivo di una fortissima indignazione popolare; contemporaneamente era in atto un conflitto, per fortuna quasi esclusivamente diplomatico, che vedeva contrapposti i due blocchi politici, economici e ideologici cui facevano capo l’ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche da un lato e gli Stati Uniti d’America dall’altro. Questa situazione, la cosiddetta “Guerra Fredda”, lasciava però presagire il peggio: un eventuale impiego delle armi in possesso delle due superpotenze, infatti, quali ad esempio la bomba all’idrogeno, avrebbe distrutto ogni forma di vita esistente, lasciando avvolta la Terra in uno scenario apocalittico. Tale scenario è quello che De Andrè descrive alla fine del testo di Girotondo, dove però, quasi come una speranza o una preghiera, immagina che l’intero pianeta divenga di dominio esclusivo delle uniche forme di vita rimaste, i bambini, che la userebbero infine solo per i loro giochi. Ancora due precisazioni su questo brano che comprendono anche il livello semantico dell’interpretazione. La prima riguarda l’orchestra che in questo brano è assente significativamente fino ai versi «ci penseranno gli uomini, le bestie e i fiori / i boschi e le 80 Capitolo Terzo stagioni con i mille colori», dove il suo ingresso pone l’accento, attraverso un timido tappeto di archi, sull’ultima ipotesi possibile circa l’interrogativo, neanche tanto sotteso, posto in lettere da Fabrizio De Andrè in questo brano: «riuscirà la Terra a sopravvivere a una guerra nucleare?» Dopo aver vanificato anche l’ipotesi che la natura, con le sue creature, possa salvare o almeno consolare il pianeta, il coro, ed ecco la seconda precisazione, chiude la filastrocca insieme all’orchestra che, grazie anche a degli strumenti e armonie di chiara matrice folklórica, scandisce nettamente e in maniera bandistica gli ultimi versi. Essi vengono concepiti dalla penna di De Andrè in continua ripetizione delle stesse parole ma con un ordine sempre leggermente mutato, così da creare, all’atto dell’ascolto, un effetto straniante e psichedèlico. Il coro P. Carapellucci, diretto dallo stesso maestro d’orchestra Giampiero Reverberi, è un elemento interpretativo fondamentale in questo brano, dove interagisce direttamente col cantautore sin dai primi versi; lo ritroveremo ancora ad alternarsi alla voce solista di 81 Capitolo Terzo Fabrizio De Andrè nella composizione finale che è posta di seguito al Terzo Intermezzo. L’ultimo dei tre Intermezzi, a sua volta, differisce molto dai primi due: sia nel testo, che consta di otto versi anziché quattro ripetuti, sia nella parte musicale, dove troviamo un ritmo più lento abbinato a una diversa melodia. Dei precedenti però mantiene sostanzialmente la funzione di collante tra due brani. Più precisamente, questo avviene ribadendo alcuni elementi rintracciabili nel pezzo precedente, presentandone contemporaneamente anche altri che riguardano la composizione che chiude l’intero album. I due elementi descritti sommariamente negli otto versi del Terzo Intermezzo sono la guerra, come sinonimo di morte, e in contrapposizione a essa, l’amore. A ognuno di essi sono dedicati due distici che ne evidenziano alcune caratteristiche fondamentali, quali ad esempio: «la polvere il sangue le mosche l’odore», per quanto riguarda il primo elemento, e «l’estate nel cuore»,101 per il secondo. Infine, sul ritmo, un “terzinato” lento della chitarra cui sopraggiunge delicatamente l’orchestra solo nel secondo e nel quarto 101 Anche questo verso si riaggancia a quel filone, precedentemente descritto, che Fasoli definisce «poesia stagionale». Su questo vedi anche la nota n. 100. 82 Capitolo Terzo distico, ha anch’esso una funzione di preparazione al lento valzer finale. Nell’ultimo brano del presente album, infatti, l’orchestra scandisce un ritmo ternario molto lento, nel quale peraltro la chitarra solista di Fabrizio segna il passo, dopo aver avuto un ruolo fondamentale in tutti i brani precedenti, dando spazio alla corposa tessitura orchestrale che l’enfasi di quest’ultimo testo richiede. La chiusura di Tutti morimmo a stento è in verità affidata a una composizione di due testi che si avvicendano sul medesimo intervento orchestrale; anche nei titoli riportati sulla copertina del disco102 vengono distinti in: Recitativo (due invocazioni e un atto di accusa) e Corale (leggenda del re infelice). A dividere ulteriormente i testi è anche l’esecuzione canora: è naturalmente lo stesso autore a declamare, anziché cantare stavolta, i versi del Recitativo mentre il Corale è affidato al coro di voci bianche P. Carapellucci, com’è stato già accennato in precedenza. Dopo aver evidenziato alcuni aspetti di questa composizione riguardanti più che altro il livello semantico dell’interpretazione, 102 Per questa e tutte le altre simili questioni inerenti alla discografia di Fabrizio De Andrè quali didascalie, crediti, differenti versioni, ecc., si consulti la sezione Discografia curata da Mariano Brustio all’interno del libro Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De Andrè, a cura di R. Bertoncelli, Firenze, Giunti 2003. 83 Capitolo Terzo possiamo ora occuparci in maniera più approfondita del suo livello testuale. Il Recitativo consta di cinque strofe di otto versi ciascuna, suddivisibili in due quartine a rima alternata o sostituita in sei casi da assonanza, secondo lo schema ABABCDCD; invece, i versi del Corale anch’essendo sempre otto per ognuna delle tre strofe che lo compongono, sono quasi privi di rima, eccezion fatta per alcune assonanze presenti nella seconda strofa. Il registro linguistico che l’autore qui adotta è anch’esso diviso: aulico e ricco di figure retoriche quello del primo testo, semplice e lineare per il secondo. De Andrè costruisce il testo del Recitativo citando esplicitamente i protagonisti, fisici o metaforici, degli altri brani di questo long playing. Sono naturalmente esclusi da quest’architettura i tre Intermezzi e, in un certo qual modo, anche il Girotondo che però è legato al Corale per evidenti motivi interpretativi e testuali. Nella prima strofa del Recitativo ritroviamo quindi i protagonisti del brano che apre l’album, vale a dire i «drogati», a invocare pietà per coloro i quali non hanno mai avvertito la necessità di nascondersi dietro una “sostanza” per affrontare le avversità della vita. 84 Capitolo Terzo Nella seconda strofa, dopo la prima parte del Corale, sono le «fanciulle traviate», come la protagonista di Leggenda di Natale, a narrare la loro fragile esistenza e a invocar pietà proprio a coloro che, potenzialmente, possono identificarsi con il «Babbo Natale» della suddetta canzone. Subito dopo, nella terza strofa, è il popolo dei condannati a morte a prender la parola ma l’intento, questa volta, è diametralmente opposto: non invocano pietà come i precedenti personaggi bensì ribadiscono la loro rabbia, già evidenziata nella canzone Tutti morimmo a stento, nei confronti dei loro carnefici. Gli ultimi quattro versi della stessa strofa sono usati dall’autore per ribadire il suo scetticismo nei confronti di una giustizia che condanna, spesso anche degli innocenti, a una pena capitale, arrogandosi un diritto che spetterebbe solamente a Dio. Dopo la seconda incursione del coro all’interno di questo brano troviamo le due strofe finali del testo interpretato dalla sola voce del cantautore. La prima di queste due strofe accenna a un altro brano presente nell’album, Inverno, utilizzando alcuni termini a esso riconducibili quali «le sere di novembre», il «fioco lume» e, significativamente, i «camposanti». 85 Capitolo Terzo È l’ultima strofa, però, a racchiudere in sé il senso ultimo dell’intero lavoro e, a nostro parere, la sua immagine poetica più incisiva e suggestiva. Per quanto concerne la prima di queste due precisazioni, esplicitata nei primi quattro versi della strofa, è senza dubbio un monito della coscienza che esorta gli uomini a non negare a nessuno, fosse anche il più crudele dei criminali, un momento di pietà. Anche perché nessuno tra gli uomini può, in ultima istanza, condannare l’intera esistenza di un altro uomo senza risultare colpevole egli stesso al cospetto di Dio. È l’umana pietà, allora, il sentimento che ci consente di condurre una vita dignitosa e di pensare alla morte senza alcun timore. Che poi sia proprio il sentimento della pietà a essere centrale in questo testo, lo si può comprendere anche dal numero e dalla posizione delle sue ripetizioni: al quarto e all’ottavo verso delle prime due strofe; al primo verso della quarta strofa; al terzo verso della quinta strofa; per quanto riguarda il Recitativo. Nel Corale invece il termine «pietà» si ripete per ben tre volte consecutive 86 Capitolo Terzo fungendo da chiusura della composizione e, con essa, anche dell’intero album. L’autore raggiunge poi il punto poetico più alto nell’ultima quartina della quinta e ultima strofa, dove costruisce un’allegoria basata su di una similitudine tra la «morte» e il «villano»; entrambi i personaggi sono accomunati dall’uso della falce e tutti e due sorvegliano quelli che saranno i frutti del loro lavoro, rispettivamente, gli uomini e il grano: Sappiate che la morte vi sorveglia, gioir nei prati o fra i muri di calce, come crescere il gran guarda il villano finché non sia maturo per la falce. Si possono anche rintracciare, in questi versi, una figura retorica, l’anastrofe del penultimo verso, e una rima alquanto ricercata, o rara, tra il sesto e l’ottavo verso (calce/falce). Sull’altro testo compreso in questo brano, il Corale (leggenda del re infelice), possiamo solo dire che è stato sicuramente composto dall’autore per meglio chiarire, esemplificandolo in un linguaggio e una forma quasi infantili, il valore che egli attribuisce a quel sentimento di pietà di cui abbiamo già trattato e che crediamo sia, in ultima analisi, una delle 87 Capitolo Terzo principali tematiche sviluppate da Fabrizio De Andrè nell’intero corpus delle sue opere. Ricollegandoci a quello che abbiamo adottato come filo conduttore della nostra ricerca ovvero la critica di questo autore nei confronti del potere, possiamo affermare che quello che egli denuncia attraverso i testi che abbiamo sin qui esaminato è la totale assenza, nelle leggi e nelle istituzioni così come nei cuori di molti uomini facoltosi e benpensanti, di un minimo accenno di pietà nei confronti di chi, anche solo per una sua paura o debolezza, abbia commesso un errore. 88 Capitolo Terzo III.3 Storia di un impiegato [1973] Introduzione Canzone del maggio La bomba in testa Al ballo mascherato Sogno numero due Canzone del padre Il bombarolo Verranno a chiederti del nostro amore Nella mia ora di libertà 89 Capitolo Terzo Questa opera di Fabrizio De Andrè è forse quella più discussa e contestata poiché è sicuramente quella che appare più esplicitamente coinvolta in un discorso politico e ideologico. Storia di un impiegato è in verità una lucidissima e altrettanto cinica riflessione sugli esiti del Sessantotto, composta con la consapevolezza derivante dal lasso temporale di un lustro che intercorre tra i primi eventi di protesta e contestazione e la data di pubblicazione dell’album. Cercando di accantonare tutte le polemiche che questo album di De Andrè suscitò nel panorama politico dell’epoca, e particolarmente nelle sue frange estremiste, le quali si espressero da destra tacciandolo di propaganda rivoluzionaria e da sinistra contestandone la troppa disinvoltura e una “innocua” deriva qualunquista, cercheremo invece in questa sede di trattare questo lavoro dell’autore in maniera diversa. Innanzi tutto l’implicazione del filo conduttore delle nostre ricerche, vale a dire la critica di Fabrizio De Andrè nei confronti del potere e dei suoi detentori, ci sembra talmente esplicita, all’interno di questo suo lavoro, da convincerci di evitare di ribadirla ancora oltre, nell’ambito di quest’analisi. Del resto, basterebbe anche solo la sua 90 Capitolo Terzo scelta di occuparsi, e in tal modo, delle proteste sessantottine ad avvalorare ancora una volta le nostre tesi. Naturalmente e per sua stessa ammissione, De Andrè approvò molte delle istanze rivoluzionarie di quel periodo, ma quello che egli elaborò in questo suo disco non può e non deve essere ricondotto e circoscritto in un ambito politico in senso stretto. Oltretutto, anche se con toni, atmosfere e contenuti assolutamente differenti, già un altro dei suoi precedenti album, La buona novella del 1970, era stato composto dal cantautore con l’intento di allegorizzare i moti rivoluzionari “sessantottini”: Quando scrissi La buona novella era il 1969 quindi in piena lotta studentesca. Le persone meno attente, che poi sono sempre la maggioranza di noi, compagni, amici e coetanei, considerarono quel disco come anacronistico. Mi dicevano: “Come, noi andiamo a lottare nelle università e fuori dalle università contro abusi e soprusi e invece tu ci vieni a raccontare la storia, che per altro già conosciamo, della predicazione di Gesù Cristo?”. Non avevano capito che La buona novella voleva essere un’allegoria, un’allegoria che si precisava nel paragone fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del Sessantotto, e istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate ma da un punto di vista etico-sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto 91 Capitolo Terzo contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità in nome di una fratellanza universale. Si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più 103 grande rivoluzionario di tutti i tempi. Quello che allora Fabrizio De Andrè realizza nel 1973 è un nuovo e originalissimo concept album che narra le vicende e i sentimenti di un uomo che, da ignaro impiegato statale, si trasforma, attraverso una presa di coscienza della realtà sociale che lo circonda, in un maldestro terrorista eversivo; il protagonista riuscirà alla fine a comprendere pienamente l’inutilità del suo gesto solitario ma solo dopo essere stato rinchiuso in cella, dove, entrando in contatto con altri detenuti che hanno avuto un percorso e un destino simili ai suoi, capisce l’importanza della collettività e della condivisione dei valori e degli obiettivi da raggiungere. L’interpretazione degli avvenimenti accaduti in quegli anni, elaborati artisticamente in questa sua opera, avvicinano ancora una volta la figura di questo cantautore a quella di Pier Paolo Pasolini. Infatti, alcune delle opere dello scrittore, come, ad esempio, la raccolta di articoli e saggi, precedentemente pubblicati sulle colonne di alcuni dei maggiori quotidiani nazionali e raccolti, poi, nel volume 103 Appunti apocrifi… e le mie braccia divennero ali…, in Volammo davvero…, cit. , p. 365. 92 Capitolo Terzo Scritti corsari,104 come anche un gran numero di dichiarazioni dello stesso Pasolini, raccolte recentemente in un altro volume, che nel titolo s’ispira al precedente, ovvero Interviste corsare,105 riflettono delle prese di posizione molto vicine a quelle enucleate da De Andrè in Storia di un impiegato. Del resto, le corrispondenze che intercorrono tra le opere del cantautore e quelle dello scrittore, da noi già trattate in un capitolo precedente, sono oggetto di ricerca anche di molti critici che scelgono di occuparsi di questi due intellettuali italiani del nostro Novecento; Bruno Bigoni e Romano Giuffrida, ad esempio, nel loro saggio Canzoni corsare, confrontando le opere di Pasolini e De Andrè, affermano: Vi sono in entrambi connotazioni ideologiche, etiche e sentimentali comuni nella rivendicazione di una radicale diversità che si esplicita in un’opposizione inesausta al mondo borghese e alla sua razionalità alienante e distruttiva.106 104 P. P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti 1991. P. P. Pasolini, Interviste corsare sulla politica e sulla vita 1955-1975, a c. di M. Gulinucci, Roma, Liberal Atlantide Editoriale 1995. 106 F. De Andrè, Accordi eretici, a cura di R. Giuffrida e B. Bigoni, Milano, EuresisEdizioni 2001, p. 63. 105 93 Capitolo Terzo Ci sembra doveroso ricordare, prima di spingerci oltre, che anche se l’idea, il progetto e la realizzazione di Storia di un impiegato è indubbiamente e in massima parte frutto dell’elaborazione creativa di Fabrizio De Andrè, l’album risulta essere stato scritto con l’apporto di Giuseppe Bentivoglio per la parte testuale e di Nicola Piovani per quella musicale. Entrambi hanno avuto i medesimi ruoli anche nel precedente Non al denaro, non all’amore né al cielo, a dimostrazione del fatto che l’Opera dell’autore genovese ha avuto, nel corso degli anni, una serie di mutazioni o cicli che ne riflettono, passo dopo passo, la crescente maturità e durante le quali De Andrè sceglieva, significativamente, di avvalersi della collaborazione di alcuni, piuttosto che di altri, autori. Tornando all’album Storia di un impiegato, una delle prime cose da sottolineare è la sua attitudine cinematografica: lo svolgimento di questo disco, infatti, è molto vicino a quello di un film, dove viene narrata una storia sottolineandone, di volta in volta, gli aspetti e i passaggi più importanti. Questo è tanto più evidente se lo si confronta con l’album Tutti morimmo a stento precedentemente analizzato: in quello, infatti, non 94 Capitolo Terzo vi era uno sviluppo cronologico bensì un’esposizione di diverse situazioni emotive accomunate dal tema costante della Morte e legate tra loro da un espediente tecnico, vale a dire i tre Intermezzi. L’album del 1973, grazie alla caratteristica appena evidenziata, è sicuramente uno dei più organici e unitari di tutta la produzione di De Andrè: i testi in esso contenuti, infatti, poco si prestano a delle analisi singole e separate in quanto, in ogni sua singola composizione, si possono trovare dei rimandi più o meno espliciti ad altri luoghi dell’album, così come frequenti sono anche le riproposizioni di uno stesso motivo musicale, di volta in volta, diversamente elaborato, cosa questa che conferisce all’opera una sua particolare organicità anche dal punto di vista sonoro. Una distinzione che possiamo attuare però è quella che riguarda i tre momenti fondamentali vissuti dal protagonista, accompagnati da altrettanti mutamenti del suo stato d’animo: dei nove brani che compongono complessivamente l’album, infatti, i primi tre corrispondono al primo momento, i tre successivi a un altro di questi e gli ultimi tre a quello finale. I primi tre brani, Introduzione, Canzone del maggio e La bomba in testa, introducono appunto l’argomento e mostrano il protagonista 95 Capitolo Terzo dell’intero LP che entra in contatto con i sentimenti che animavano i moti rivoluzionari di qualche anno prima. Nell’Introduzione, brano per lo più strumentale che inizia piano con un fischio che accenna quella che sarà poi la melodia dei suoi pochi versi, la voce del cantautore, traducendo in parole i pensieri dell’impiegato, descrive sommariamente i protagonisti della rivolta studentesca, ovvero «i cuccioli del maggio».107 In questi pochi versi liberi, il fattore che viene evidenziato dagli autori è il termine di paragone che il protagonista adotta nell’osservare, o nel ricordare, quei gruppi di contestatori: l’età, e tutto quello che ne comporta; il giudizio del protagonista è, in questo primo brano, quello di un uomo maturo e con maggiore esperienza e responsabilità che guarda dei ragazzi «giocare» a far la rivoluzione, rapiti forse da quei sentimenti romantici che sono propri di quell’intrepida stagione della vita, segnata dal passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Proprio grazie alla loro giovinezza, infatti, essi possono, o meglio potevano, anche permettersi il lusso di protestare fino a finire in galera per qualche tempo, a differenza degli adulti che invece sono 107 L’autore si riferisce naturalmente alle manifestazioni del Maggio francese del Sessantotto 96 Capitolo Terzo soggetti a delle responsabilità ben precise e che proprio per questo percepiscono oramai il trascorrere del tempo quasi come un susseguirsi di scadenze piuttosto che come un alleato fedele, come si deduce infine dai pensieri del protagonista. Proprio da un canto di quei giovani ribelli dell’epoca, composto realmente da un’anarchica parigina che lo cede ai due autori a patto che non venga menzionata nei crediti del disco perché ancora ricercata dalla polizia gollista, viene liberamente tratto il secondo brano, Canzone del maggio appunto, che chiama in causa tutti, compreso naturalmente l’ignaro, almeno fino ad allora, protagonista. Di questo testo esistono almeno due versioni: una è quella ufficiale inserita nell’album del 1973, l’altra, inedita su disco, è stata eseguita dall’autore in alcune delle sue performance “dal vivo” come, ad esempio alla manifestazione Festival Re Nudo del 1976; scegliamo di riportare qui il testo della seconda, e analizzare le principali differenze che intercorrono tra le due, al fine di ricostruire le scelte dell’autore, sia dal punto di vista stilistico che da quello contenutistico: Anche se il nostro maggio ha fatto a meno del vostro coraggio se la paura di guardare 97 Capitolo Terzo 4 vi ha fatto guardare in terra se avete deciso in fretta che non era la vostra guerra voi non avete fermato il tempo 8 gli avete fatto perdere tempo. E se vi siete detti non sta succedendo niente, le fabbriche riapriranno, 12 arresteranno qualche studente convinti che fosse un gioco a cui avremmo giocato poco voi siete stato lo strumento 16 per farci perdere un sacco di tempo. Se avete lasciato fare ai professionisti dei manganelli per liberarvi di noi canaglie 20 di noi teppisti di noi ribelli lasciandoci in buonafede sanguinare sui marciapiedi anche se ora ve ne fregate, 24 voi quella notte voi c'eravate. E se nei vostri quartieri tutto è rimasto come ieri, se sono rimasti a posto 28 perfino i sassi nei vostri viali se avete preso per buone le "verità" dei vostri giornali non vi è rimasto nessun argomento 32 per farci ancora perdere tempo. Lo conosciamo bene 98 Capitolo Terzo il vostro finto progresso il vostro comandamento 36 "Ama il consumo come te stesso" e se voi lo avete osservato fino ad assolvere chi ci ha sparato verremo ancora alle vostre porte 40 e grideremo ancora più forte voi non potete fermare il tempo gli fate solo perdere tempo. Lo schema metrico dei due testi, ovviamente identico, consta di 5 strofe di 8 versi: i primi 6 strutturati su schemi a rime baciate o alterne, gli ultimi due a rima baciata (strofe I, III, V) o in assonanza (strofa II: strumento / tempo, e strofa IV: argomento / tempo); tutte le strofe sono costruite, comunque, su un sistema di 5 rime. Lo schema delle strofe, inoltre, si organizza secondo due moduli ricorrenti: il primo, comune alle strofe I e IV, segue il modello AABCDCEE (nella strofa IV, come già segnalato, E è in assonanza); il secondo, invece, è comune alle strofe II, III e V, secondo il modulo ABCBDDEE (nella strofa II E è in assonanza; nella strofa III D è in consonanza e presenta vocale tonica identica). A queste cinque strofe, si aggiunge, a chiusura del brano, un ultimo distico che, come i distici finali di ognuna delle strofe, ha quasi 99 Capitolo Terzo una funzione di ritornello, o refrain, come sottolinea, efficacemente, anche l’accompagnamento musicale. Questi ultimi due versi hanno una funzione fondamentale nell’economia del pezzo, ovvero, quella di ribadire il concetto espresso anteriormente nei distici finali di tre delle cinque strofe presenti nel testo (vv. 7-8; 15-16; 31-32). I distici finali della terza e della quinta strofa, invece, sono identici in ambedue le versioni: «anche se ora ve ne fregate, / voi quella notte voi c’eravate», ribadisce, anche se con parole diverse, il senso espresso nei versi precedenti, mentre «verremo ancora alle vostre porte / e grideremo ancora più forte», servono come preparazione e aggancio al distico finale. Dal punto di vista contenutistico, le differenze tra le due versioni sono poche ma sostanziali. Si nota innanzi tutto nella versione inedita una maggiore incisività legata a una terminologia più esplicita nei confronti degli scontri di piazza: termini quali «guerra», «professionisti dei manganelli», «sparato» e la contestazione dello slogan «ama il consumo come te stesso» plasmato su uno dei Comandamenti della religione cristiana, restituiscono fedelmente la rabbia presente nelle piazze in quei giorni ormai lontani. 100 Capitolo Terzo La differenza più evidente e significativa però riguarda quei distici finali ai quali prima accennavamo: se nella versione preferita dall’autore nelle sue esecuzioni durante i concerti, è ancora una volta il concetto del “tempo” a essere messo in evidenza, come ad esempio «voi non avete fermato il tempo / gli avete fatto perdere tempo» o «voi siete stato lo strumento / per farci perdere un sacco di tempo» e altre variazioni di questo genere, nella versione ufficiale a cambiare è anche e soprattutto il senso, insieme alle parole. Nell’album, infatti, è l’autoassoluzione collettiva contrapposta al coinvolgimento diretto durante le contestazioni a essere menzionato: versi come «anche se voi vi credete assolti / siete lo stesso coinvolti» o «per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti» chiamano in causa direttamente tutti quelli che in quel periodo fingevano di non vedere o preferivano restare a guardare piuttosto che “scendere in piazza”; questa mancanza di partecipazione era dovuta, nella maggior parte dei casi, anche, o forse soprattutto, alla paura di poter perdere quel poco che a fatica ognuno si era guadagnato lavorando faticosamente. Tale atteggiamento è denunciato nella canzone sin dall’incipit iniziale che rimane significativamente invariato in entrambe le stesure 101 Capitolo Terzo del testo: «anche se il nostro maggio / ha fatto a meno del vostro coraggio». Ritornando ancora per un attimo su quel distico che si ripete alla fine di quasi tutte le strofe, la versione che approda in sala d’incisione non è solo frutto di una scelta stilistica o terminologica ma, al contrario, essa ha una funzione precisa all’interno dell’opera; non è un caso evidentemente il fatto che i versi «per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti», oltre a chiudere il brano Canzone del maggio, siano usati da De Andrè anche come chiusura dell’ultima composizione, Nella mia ora di libertà, e quindi dell’intero album. In queste parole, infatti, è contenuta anche una sorta di accusa che colpisce direttamente la coscienza del protagonista dell’opera e ne determina così la sua scelta, non poco travagliata, di partecipare attivamente alla rivolta. Proprio su questa presa di coscienza, e di coraggio, si basa la composizione successiva, La bomba in testa, che chiude il primo dei tre cicli di canzoni nei quali abbiamo deciso di suddividere questo album. In questo brano è trasposto lo stato d’animo del protagonista che viene letteralmente sconvolto dalle parole della precedente canzone udita casualmente in una non meglio specificata occasione. 102 Capitolo Terzo La sua esistenza, come si può facilmente intuire sin dalle parole della prima strofa, trascorreva «normale» con al centro un unico pensiero: il lavoro. Il senso del dovere nei confronti della sua occupazione è, infatti, l’unica cosa che lo riporta alla realtà durante le sue riflessioni sulla validità degli argomenti dei contestatari; è proprio con i sentimenti di questi ultimi che egli si confronta durante i bilanci che compie, fino ad arrivare alla scelta fatale di ricorrere all’esplosivo per manifestare la propria solidarietà con quelli che poco prima considerava «gli ingrati del benessere francese»; ciò che spinge l’impiegato ad avvicinarsi alle posizioni di questi giovani uomini è l’universalità delle loro idee, anche perché la loro non era una protesta circoscritta alla loro società: «e non davan l’idea / di denunciare uomini al balcone / di un solo maggio, di un unico paese». Alla fine di questo travaglio che porta direttamente alla sua presa di posizione forte e netta nei confronti di «chi ha la faccia e mostra solo il viso / sempre gradevole, sempre più impreciso», ovvero chi rinuncia a schierarsi per evitare di assumersi alcuna responsabilità, politica, civile o morale che sia, il protagonista, caduto in uno stato onirico che segnerà il secondo ciclo di canzoni di questo album, sogna 103 Capitolo Terzo di autoinvitarsi a una festa in maschera per dar libero sfogo alle sue nuove tendenze esplosive. Il primo dei prossimi tre brani s’intitola appunto Al ballo mascherato. Una pungente analisi di questo testo è stata attuata da Cesare G. Romana all’interno del suo libro, citato in precedenza, Smisurate preghiere: L’Impiegato si autoinvita a un festino dove i miti della cultura borghese si danno convegno in una sorta di bolgia dantesca. Brassens è lontano, ora incombono cupe atmosfere dylaniane, par di rivivere l’adunata di spettri di Desolation Row, con cui De Gregori e De Andrè si cimenteranno più avanti. Qui danzano insieme Cristo profeta di pace e Nobel inventore della dinamite, Edipo e Maria Vergine, la Pietà e la Statua della Libertà, Nelson e Bonaparte, archetipi contrapposti. Eppoi i simboli primari, i ruoli consacrati dalla famiglia borghese e maschilista: il padre che “pretende aspirina e affetto / ma inciampa nella sua autorità”, la madre che “il martirio è il suo mestiere, la sua vanità”.108 Il secondo brano, di questa che potremo definire una lunga sequenza onirica trasposta in versi e musica, ha come titolo, e non a caso, Sogno numero due. Nonostante sia stato spesso trascurato da coloro i quali studiano i lavori di Fabrizio De Andrè, questo testo ha una grossa importanza nell’economia totale dell’opera. 108 Romana, Smisurate preghiere…, cit. , p. 55. 104 Capitolo Terzo Esso infatti, attraverso il discorso diretto di un giudice che, sempre nei sogni del protagonista, valuta il gesto compiuto da quest’ultimo nel sogno precedente, racchiude forse il senso di tutto questo lavoro di analisi tradotto in canzone di Fabrizio De Andrè riguardo alle contestazioni del Sessantotto. Le varie imputazioni del magistrato nei confronti del protagonista dell’album vengono qui tradotte dagli autori, De Andrè e Bentivoglio, in un linguaggio molto asciutto che punta direttamente e in pochissimi versi al cuore del problema: il gesto estremo dell’impiegato, ovvero la costruzione, l’innesco e il conseguente scoppio della «bomba», da egli compiuto per vendetta nei confronti dei detentori del potere significava, in realtà, la sua stessa «urgenza di potere» e celava addirittura una sotterranea e sadica emozione per quello che è il «ruolo più eccitante della legge / quello che non protegge / la parte del boia». Quello che voleva essere un disperato atto di ribellione diviene così un consolidamento del potere, messo in mano a questo punto allo stesso imputato: «Tu sei il potere. / Vuoi essere giudicato? / Vuoi essere assolto o condannato?». Con tali parole, magistralmente interpretate dalla voce del cantautore con tono austero e perentorio, si 105 Capitolo Terzo conclude questo brano emblematico che lascia il protagonista, ma tutto sommato anche il lettore o ascoltatore, alquanto perplesso e titubante sullo sviluppo della vicenda. Tornando all’accostamento tra il cantautore e Pier Paolo Pasolini, ci sembra il caso di segnalare la vicinanza degli argomenti di questo pezzo con quelli espressi dallo scrittore in una sua dichiarazione, riportata in seguito in Interviste corsare: «la borghesia rivoluziona se stessa attraverso la rivolta dei suoi figli».109 Un concetto simile, Pasolini, lo espresse più volte anche nella sua produzione poetica; ne costituisce un valido esempio La poesia della tradizione, dalla quale sono tratti i versi seguenti: Oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo! Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo a contraddirsi, per continuare; vi troverete vecchi senza l'amore per i libri e la vita: perfetti abitanti di quel mondo rinnovato attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero, ma sopratutto attraverso voi, che vi siete ribellati proprio come esso voleva, Automa in quanto Tutto.110 Della canzone di De Andrè, infine, ci pare anche doveroso segnalare l’originalità della parte musicale, curata da Nicola Piovani, 109 Gli studenti stanno facendo la guerra civile, non la rivoluzione in Interviste corsare …, cit. , p. 129. 110 La poesia della tradizione in Pasolini, Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti 1971, p.120. 106 Capitolo Terzo che rompe, in qualche modo, quel continuum che si era venuto a creare grazie alle precedenti canzoni dotate di una maggiore linearità armonica; in Sogno numero due, infatti, si notano addirittura delle sonorità psichedeliche dovute a un uso più ampio di strumenti elettronici, cosa che determina quasi una svolta nella stessa produzione discografica del cantautore. Tornando ai testi di questo album, quello che risulta essere il sesto brano, ma anche il terzo di questo secondo trittico onirico di canzoni, inizia con l’ultima domanda del giudice nei confronti dell’imputato che, chiamato a prendere il posto che fu occupato in precedenza dal suo genitore, accetta con silente rassegnazione: -Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi solo i sogni che non fanno svegliare?-Sì, Vostro Onore, ma li voglio più grandi.-C'è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre. Non dovrai che restare sul ponte e guardare le altre navi passare le più piccole dirigile al fiume le più grandi sanno già dove andare.Così son diventato mio padre ucciso in un sogno precedente il tribunale mi ha dato fiducia assoluzione e delitto lo stesso movente. 107 Capitolo Terzo È ancora Pasolini, nella stessa composizione citata poco sopra, a esprimere lo stesso concetto: «ti troverai a usare l'autorità paterna in balia del potere / imparlabile che ti ha voluta contro il potere».111 Il titolo del brano di De Andrè è, appunto, Canzone del padre e sono proprio gli affetti familiari del protagonista, solo accennati alla fine di uno dei pezzi precedenti, Al ballo mascherato, a essere al centro di questa composizione. Tuttavia le caratteristiche evidenziate nei versi di questa canzone erano, allora come per alcuni aspetti anche oggi, comuni alla maggior parte delle famiglie appartenenti al ceto medio. Una breve ma interessante sintesi di questo testo è stata realizzata da Lisa Tibaldi all’interno del suo saggio sul cantautore: Con Canzone del padre, De Andrè prosegue e chiude il percorso onirico. Il testo è particolarmente complesso anche per l’uso abbondante di metafore, adatte a costruire una dimensione di sogno sempre più confusa. L’impiegato esprime il desiderio di poter continuare a sognare, soprattutto ora che il potere lo ha accolto tra le sue fila e il giudice gli suggerisce di prendere il posto lasciato libero dal padre. Segue un ritratto della sua vita famigliare pieno di degrado e rassegnazione: una moglie che “ha gli occhi di una donna che pago”, un figlio che non ha nessun interesse per la vita; questi sono i vizi che trapelano sotto la maschera di una tranquilla vita borghese e queste 111 Ibid. 108 Capitolo Terzo sono le sofferenze private che, nella mente del piccolo impiegato, giustificano la vendetta che sta per compiere. L’uomo, ora, si ritrova completamente sveglio e certo del suo obiettivo; sa chi devono essere le vittime della sua bomba e si prepara, come in un rito purificatore, a gettarla contro il Parlamento.112 Queste ultime parole della Tibaldi ci introducono direttamente al brano successivo, Il bombarolo, che apre l’ultimo ciclo di canzoni dell’album. In questa fase il protagonista si sveglia dal lungo sogno, durato ben tre canzoni, e s’incammina con il suo ordigno esplosivo verso il suo obiettivo: il Parlamento. Quello che infatti nel testo viene definito «il mio Pinocchio fragile parente artigianale / di ordigni costruiti su scala industriale» è naturalmente il congegno esplosivo realizzato dall’impiegato; questi due versi, con al loro interno la citazione del protagonista della favola di Carlo Collodi, ci restituiscono appieno il sentimento d’affetto quasi paterno che l’impiegato sembra avvertire nei confronti della sua temibile “creatura”. Nelle parole dell’intero brano poi si avverte la spinta individualistica che soggiace al folle gesto dell’impiegato: versi quali «la decisione è mia», «oggi farò da me senza lezione» o ancora «io vengo a restituirti un po’ del tuo terrore» lasciano chiaramente 112 Tibaldi, La poesia per musica di Fabrizio De Andrè, cit. , p. 29. 109 Capitolo Terzo intendere che la condivisione dei sentimenti rivoluzionari che muoveva intere folle di giovani contestatori nel Sessantotto è ormai lontana; ora la protesta si è trasformata in gesti tanto eclatanti quanto individuali. Del resto la sua voglia di distinguersi si denota anche nei versi finali di ogni strofa che, fungendo anche da ritornello, ribadiscono la sua diversità rispetto a tutta l’altra gente comune: «io son d’un’altra razza son bombarolo», «io son d’un altro avviso son bombarolo» e infine «ho scelto un’altra scuola son bombarolo». Nel finale del brano la svolta: l’esplosione che doveva colpire il Parlamento, primo e più importante simbolo del potere costituzionale nel nostro Paese, investe invece solamente «un chiosco di giornali» situato nelle sue vicinanze; ma non è questo che atterrisce il protagonista bensì la foto della sua donna amata che si trovava già sulla prima pagina di ogni giornale colpito dalla deflagrazione. Il pensiero che corre alla sua donna, allora, ci introduce già al brano successivo: è, ovviamente, anche questo uno degli elementi ai quali accennavamo all’inizio e che fanno sì che Storia di un impiegato, come in un certo qual modo tutte le opere di questo cantautore, non possa essere definito e analizzato come una qualunque 110 Capitolo Terzo raccolta di canzoni di musica cosiddetta “leggera”; bensì, una narrazione in forma di canzoni, dotata di un’introduzione, uno sviluppo logico della vicenda e un finale, che spesso tende a riassumere i concetti principali esposti in precedenza. Verranno a chiederti del nostro amore, questo il titolo del brano, non è altro che un’accorata lettera che l’impiegato scrive alla sua donna dalla sua cella, nella quale è stato ovviamente rinchiuso all’indomani del suo attentato dinamitardo. Il testo di questo brano, da molti considerato come il più elevato, dal punto di vista stilistico, dell’intero album, deve questa sua fortuna a due fattori principali: dal punto di vista tecnico, vi è un largo uso di perifrasi113 che gli conferiscono un carattere ermetico difficilmente rintracciabile nei testi di altri cantautori italiani; da una prospettiva che riguarda invece il sistema semantico dell’interpretazione, questo è l’unico brano dell’opera che sarà riproposto dal cantautore, a distanza di sei anni, all’interno di una ormai storica serie di concerti in cui sarà affiancato da un affermato gruppo di musicisti italiani, la Premiata Forneria Marconi.114 113 Una per tutte, quella usata nel verso «a quella gente consumata nel farsi dar retta» che indica, naturalmente, la categoria dei giornalisti. 114 Da questa esperienza, nella quale De Andrè ripropone i brani del suo repertorio “vestiti” però con dei nuovi arrangiamenti curati dai musicisti di questa formazione, verranno estratti due dischi, Fabrizio De Andrè in concerto. Arrangiamenti PFM. Vol. I (1979) e II (1980). Essi rappresentano, 111 Capitolo Terzo Altra caratteristica che distingue questo brano all’interno dell’album è il fatto che esso sia l’unico a trattare il sentimento dell’amore verso una donna. Questo tema, che rappresenta da sempre la maggiore fonte d’ispirazione per qualunque scrittore, non è sicuramente centrale invece in questo lavoro di De Andrè. La situazione in cui versa il protagonista della vicenda, l’impiegato, non è sicuramente delle migliori: arrestato, infatti, in seguito al suo gesto di ribellione e in attesa di essere processato, questa volta però non in sogno ma nella vita vera, egli vola col pensiero alla sua donna amata, protagonista inconsapevole di quella che rappresenta una “notizia da prima pagina”. La visione dell’impiegato è molto lucida: egli sa che ogni sorta di giornalista farà a gara per avere un’intervista esclusiva rilasciata da quella che verrà definita “la donna del mostro”; saranno tutti pronti a prendersi cura di lei, a vestirla e a truccarla bene in modo che la differenza tra i due ex amanti sia ancora più netta e drammatica. È proprio la trasformazione, o meglio il trasformismo attuato dai mezzi di comunicazione quali i giornali o la televisione al fine di ancora oggi a distanza di quasi trent’anni , l’unico esperimento fatto in Italia di fusione di due stili musicali molto distanti tra loro: la canzone d’autore di Fabrizio De Andrè e il rock progressive della Premiata Forneria Marconi. 112 Capitolo Terzo rendere ancora più angosciosa la vicenda, a riuscire là dove l’amore aveva fallito. Significativi, in questo senso, i distici finali delle prime tre strofe: «non son riuscito a cambiarti / non mi hai cambiato lo sai»; «non sei riuscita a cambiarmi / non ti ho cambiata lo sai»; « sono riusciti a cambiarci / ci son riusciti lo sai». La strofa finale pone, alla sua conclusione, un interrogativo, «continuerai a farti scegliere / o finalmente sceglierai», che ha due possibili chiavi di lettura: la prima riguarda naturalmente la vicenda sentimentale della donna che, ancora incapace di decidere autonomamente per il proprio futuro, si lascia trasportare dagli eventi senza mai essere in grado di intervenire direttamente su di essi; altra possibile interpretazione dell’interrogativo posto a termine del brano invece è la presa di coscienza di ognuno di noi che, da soli spettatori delle nostre vicende, potremmo, qualora lo volessimo, diventare gli artefici del nostro destino, decidendo, una volta e per tutte, di scegliere piuttosto che continuare a essere scelti. Il brano finale di questo album, Nella mia ora di libertà, segna la vera svolta ideologica del protagonista. L’impiegato, ormai consapevole delle contraddizioni della società nella quale per troppi anni ha trascinato la sua esistenza attraverso «una ginnastica 113 Capitolo Terzo d’obbedienza», ha deciso di rifiutare l’ultima di queste contraddizionicostrizioni: la quotidiana ora di libertà lasciata ai reclusi all’interno dei cortili delle carceri. Parte da qui la riflessione del protagonista che successivamente passa in rassegna alcuni pensieri ai quali la sua mente approda durante il periodo di prigionia. Vi si trova ad esempio un giudizio sulla sensibilità di chi ha decretato la sua condanna, o ancora una volta verso l’ambiguo atteggiamento della sua ormai ex compagna, o addirittura verso chi, come se stesso, ha pensato di sovvertire il potere, credendo erroneamente che così facendo e affidando ad altri la gestione dello stesso, qualcosa sarebbe potuto cambiare: la verità è ben diversa purtroppo ed è racchiusa nel verso finale della quinta e terzultima strofa, ovvero l’acquisizione della certezza «che non ci sono poteri buoni». In carcere l’impiegato entra in contatto con delle realtà che prima d’allora gli erano estranee, come ad esempio il dover essere costretti a rubare, andando così a finire anche in cella, per potersi sfamare, mentre molte altre persone agiscono ben più perfidamente e indisturbate, conoscendo evidentemente «qual è il crimine giusto / per non passare da criminali». 114 Capitolo Terzo L’ultima delle sette strofe che compongono questo testo segna il passaggio ideale del protagonista da isolato rivoluzionario individualista a membro di una collettività nella quale si condividono gioie, dolori e ideologie: confrontandola, infatti, con la prima strofa, nella settima si abbandona la prima persona singolare sulla quale si basava il discorso dell’impiegato, a tutto vantaggio di un “noi” che non è solo un pronome ma un vero e proprio manifesto ideologico: Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà se c'è qualcosa da spartire tra un prigioniero e il suo piantone che non sia l'aria di quel cortile voglio soltanto che sia prigione […] Di respirare la stessa aria dei secondini non ci va e abbiam deciso di imprigionarli durante l'ora di libertà venite adesso alla prigione state a sentire sulla porta la nostra ultima canzone che vi ripete un'altra volta per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti. 115 Capitolo Terzo Il brano, e quindi anche l’intero lavoro, si conclude con la ripetizione del distico finale che chiude anche la precedente Canzone del maggio; tale scelta dell’autore ribadisce, qualora ve ne fosse ancora la necessità, l’importanza della tesi sulla quale verte l’intero album Storia di un impiegato, ovvero, che nessuno si può esimere dall’assumersi le proprie responsabilità e che queste ultime non riguardano solo ed esclusivamente il lavoro e lo stipendio, ma l’intero sviluppo della società di appartenenza. Tale conclusione, sicuramente lucida e puntuale come ogni presa di posizione riscontrabile nelle opere di Fabrizio De Andrè, ci offre la possibilità di leggere quest’opera anche in chiave autobiografica, se pure, come vedremo, non totalmente. Infatti, in merito a quanto accennavamo poco sopra, ossia il passaggio dalla prima persona singolare alla sua relativa plurale, da noi sottolineato nella citazione della prima e della settima strofa di Nella mia ora di libertà, i due autori del saggio Canzoni corsare affermano: Quel passaggio dall’io al noi che caratterizza l’inizio, il percorso e la conclusione di Storia di un impiegato, riscatta la storia del piccolo-borghese che, nella frustrazione di non essere accettato dall’alta borghesia e, nel contempo, di essere guardato con sospetto 116 Capitolo Terzo dal proletariato, si era ribellato con il gesto individuale di una bomba che avrebbe voluto lanciare contro i rappresentanti della politica ma che, invece, aveva colpito un’edicola di giornali aprendogli le porte della galera. Dall’io al noi è, appunto, ciò che l’impiegato impara e sceglie “tra gli altri vestiti uguali” dietro le sbarre. De Andrè, in realtà non sceglierà la stessa cosa. Anzi, se quel suo lavoro ufficialmente lo bollerà come bordellone, ufficiosamente farà capire di non riconoscersi appieno in quel finale (firmato, come tutte le altre canzoni dell’album, con Giuseppe Bentivoglio). Lui, per formazione, è più propenso a riconoscersi nell’Unico di Max Stirner: invece che nel noi, crede nell’io o, eventualmente, in tanti io che momentaneamente, si mettono insieme per il raggiungimento di un obiettivo. Una somma di egoismi (sempre nel senso dato all’egoismo da Stirner), pronta a rifarsi unicità aristocratica nello sguardo indignato (ma incapace di rivoluzione) del singolo.115 Spostando radicalmente l’asse del discorso, di autobiografico, in questo album, risulta essere sicuramente il testo di Verranno a chiederti del nostro amore, come apprendiamo dalle parole di Luigi Viva, nella sua biografia del cantautore genovese: Era dedicata a Roberta, la donna alla quale Fabrizio fu legato per circa due anni da una relazione molto sofferta, cui pose fine una volta resosi conto di avere a che fare con una di quelle “piccole femmine agghindate” dalle quali aveva sempre cercato di fuggire.116 115 De Andrè, Accordi eretici, cit. , pp. 36-37. L. Viva, Non per un Dio ma nemmeno per gioco. Vita d Fabrizio De Andrè, Milano, Feltrinelli 2005, p. 157. 116 117 Capitolo Terzo Quest’aggancio con la realtà rafforza l’identificazione fra il cantautore e l’«impiegato», e conferma il fatto che il protagonista dell’album sia, in una certa misura, il portavoce o l’alter ego dell’autore. De Andrè, infatti, con Storia di un impiegato, mette in scena se stesso. Non tanto, però, una sua posizione ideologica, quanto un suo atteggiamento rispetto alla realtà, il suo modo di porsi nella società e nei conflitti sociali: individualistico ed estetizzante, per l'appunto, capace di gesti isolati di ribellione, quasi aristocratici ed eroici, ma refrattario a incanalarsi nella logica collettiva, di massa, della lotta di classe e della rivoluzione marxista. Infine, a chiarire ancor meglio le ragioni che lo spinsero ad affrontare i rischi, politici e morali, che un’opera come Storia di un impiegato può e, in un certo senso, deve comportare, è proprio Fabrizio De Andrè, nel corso di una sua dichiarazione: Io sono un individualista come credo tutte le persone che nascono e crescono in un clima portato, improntato e impostato all’individualismo. Sono nato da una famiglia borghese che ha subìto il tentativo della borghesia stessa (dato che è questa classe dalla Rivoluzione francese in poi ad avere il potere) di fare delle divisioni precise all’interno della società, cercando di isolare gli individui il più possibile perché soltanto isolandoli aveva la possibilità di secernerli, 118 Capitolo Terzo di poterli controllare meglio, quindi di servirsene come meglio poteva. Collettivismo non è certo un termine di origine borghese a meno che non fosse stato scelto dai vari Robespierre per servirsene contro invece il settarismo di tipo aristocratico. A questo punto sono stato individualista nella misura in cui la mia classe mi ha individualizzato, cercato di isolare dagli altri, ho fatto e operato degli sforzi che mi sono serviti per rendermi conto che un uomo, al di fuori di quello che può essere la cerchia, anche ristretta, di amici oppure da quella che può essere una cerchia più ampia che può essere addirittura una classe, combina poco se non dei gesti quasi ed esclusivamente estetici da un punto di vista politico, questo l’ho detto anche in una canzone che si chiama Il bombarolo che è il culmine dell’individualismo estetico. In Storia di un impiegato c’è questo individuo isolato dal resto della gente, isolato per motivi politici, che arriva a compiere questo gesto di ribellione e non certo di rivoluzione. Perché la ribellione è individuale, dove la componente maggiore è forse l’esibizionismo.117 117 Appunti sul bene. Volammo davvero..., in Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, cit. , p. 9. 119 Capitolo Terzo III.4 Le nuvole [1990] Le nuvole Ottocento Don Raffae’ La domenica delle salme Megu megùn La nova gelosia ‘Â çímma Monti di Mola «… io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare.» Samuel Bellamy (Pirata alle Antille nel XVIII secolo) 120 Capitolo Terzo L’ultimo album che analizzeremo corrisponde alla penultima opera musicale di Fabrizio De Andrè, ovvero Le nuvole, pubblicata nel 1990. Il titolo di questo disco, preso a prestito dall’opera di Aristofane, è forse l’unico vero punto di contatto fra queste due opere, anche se, come vedremo fra poco, non è l’unico aggancio che questo lavoro del cantautore ha con il mondo antico. Questo album, a differenza degli altri due precedentemente analizzati in questa sede, è virtualmente diviso in due parti distinte e separate.118 La prima di esse, che comprende le prime quattro delle otto composizioni del disco, tratteggia i caratteri di alcuni personaggi e situazioni che, in un modo o nell’altro, sono riconducibili al potere. I quattro brani rimanenti sono dedicati invece a quattro storie che vedono come protagonisti delle persone comuni, appartenenti a quello che un tempo si usava definire “popolino” e che, proprio in quanto tali, conducono le proprie esistenze, non in base a “logiche di mercato” o altri simili «schemi fissi di pensiero»,119 bensì in base ai 118 È bene ricordare che all’epoca della sua pubblicazione la diffusione dei supporti digitali quali ad esempio il compact disc, che oggi ha di fatto sostituito i 33 e i 45 giri, era molto limitata e il prodotto discografico predominante era ancora il long playing, che era inciso su ambo i lati e che quindi interrompeva l’ascolto esattamente a metà dell’opera. 119 Podestà, Fabrizio De Andrè…, cit. , p. 39. 121 Capitolo Terzo propri ritmi vitali, spesso turbati da sentimenti diversi ed emozioni forti. La dicotomia è, a questo punto, palese. Le due parti della “narrazione” di De Andrè, infatti, rispecchiano, nei toni come nel registro linguistico e come anche nella stessa lingua usata dall’autore per la composizione di questi brani, alcune caratteristiche proprie dei loro protagonisti. Se, ad esempio, la lingua usata nella prima parte è prevalentemente l’italiano, fatta eccezione naturalmente per Don Raffaè che utilizza un italiano regionale120 e anche per alcune inflessioni dialettali presenti in alcuni versi del primo testo dell’album,121 negli altri quattro brani l’autore utilizza invece il dialetto o, più precisamente, i dialetti.122 Questa divisione linguistica dei brani, lontana dall’essere esclusivamente una scelta stilistica o addirittura un vezzo d’artista, è 120 Cfr. E. Di Padova, Il dialetto rivisitato …, cit. , p. 24: «Qui De André utilizza un italiano regionale, con parole napoletane italianizzate (mi assetto), termini storpiati ( son brigadiero), termini o espressioni dialettali (vulite, frate)»; vedi anche A. A. Sobrero, La ricchezza linguistica sta tra i “top ten”, in «Italiano e oltre», V (1990), 5, p. 223: «In mezzo, c’è l’italiano popolare e l’italiano regionale, fortemente caratterizzati (come nel campano di Don Raffaè) o appena riconoscibili per sfumati caratteri fonico-intonazionali (come nel piemontese e nel sardo di Le nuvole)». 121 Citiamo, ad esempio, i vv. «sembra che ti guardano con malocchio», come pure «e la terra si trema», entrambi presenti nel brano Le nuvole. 122 Oltre al napoletano de La nova gelosia, brano composto nel XVIII secolo da un anonimo musicista partenopeo e che De Andrè sceglie di reinterpretare in questo suo album, vi sono Megu megùn e ‘Â çímma, entrambe composte dal cantautore insieme al collega Ivano Fossati, in genovese, mentre per Monti di Mola il dialetto utilizzato è il gallurese. 122 Capitolo Terzo invece legata indissolubilmente ai contenuti dell’opera, come emerge da alcune dichiarazioni dello stesso cantautore: [Nell’album Le nuvole] c’è l’esperienza di Creuza de mä, nella seconda parte che è dedicata al popolo, che si esprime col suo linguaggio ed è quindi la più poetica (quando mai il potere è stato capace di poesia?) e forse la meno comprensibile (quando mai il potere si è peritato di capire il linguaggio del popolo?). E c’è il ricordo delle mie origini, dei tempi di Carlo Martello e di Bocca di rosa, quando scrivevo soprattutto per evidenziare i testi. Questo avviene nella prima parte del disco, il cui protagonista è il potere e che, perciò, è la meno lirica.123 È chiaro allora come anche questo lavoro di Fabrizio De Andrè si leghi agli altri precedentemente analizzati per ciò che riguarda il tema essenziale della nostra analisi, ovvero, la critica dell’autore nei confronti del potere, in qualunque modo e situazione esso si manifesti. Quest’ultima precisazione, relativa alle diverse manifestazioni del potere, ci immette direttamente all’analisi dei protagonisti e delle situazioni evocate da De Andrè nei primi quattro brani di questo album. 123 Romana, Amico fragile…, cit. , p. 145. 123 Capitolo Terzo Il primo pezzo, Le nuvole, ci introduce nell’opera attraverso un’ambientazione familiare: precedute da un frinire di cicale, le voci di due donne, che nell’incisione del disco appartengono a Lalla Pisano e Maria Mereu, recitano cinque strofe di varia lunghezza, alternandosi, in modo da far supporre a un dialogo tra madre e figlia; espressivo, in tal senso, è il fatto che il cantautore abbia preferito aprire l’album utilizzando due voci femminili anziché la sua, creando un’atmosfera particolare, subito riconducibile alle parole del testo. I versi che lo compongono, infatti, formano una sommaria descrizione delle nuvole, che nel dialogo tra madre e figlia sono quelle arcane figure che si materializzano nel cielo portando scompiglio nell’armonia della natura, ma metaforicamente alludono agli uomini che detengono il potere, come apprendiamo da un accostamento dello stesso De Andrè tra la sua opera e l’omonima commedia di Aristofane: Il titolo e la chiave di lettura provengono da Aristofane, ed è questa l’unica parentela tra il mio lavoro e la sua commedia. Perché già in quest’ultima le nuvole non erano fenomeni atmosferici ma personaggi: per Aristofane simboleggiavano i sofisti che, da aristocratico e da conservatore irriducibile, lui disprezzava perché erano dei contestatori del potere e della logica codificata, per me simboleggiano il 124 Capitolo Terzo contrario e cioè i potenti della finanza, della politica e dell’industria, gli intellettuali di regime, i boss dello Stato-mafia, tutti quei personaggi che impediscono al popolo di vedere la luce del sole, cioè la verità!124 Questa dichiarazione del cantautore ci riporta ai riferimenti classici che si possono rintracciare, in modi diversi e non solamente rispetto all’opera aristofanea, all’interno di questo album. È ancora De Andrè che, presentando il suo lavoro dichiara: Dentro una situazione di questo tipo, pericolosamente vicina allo sfascio dell’Impero, mi sembrava giusto intervenire: con la satira, con l’ironia, con la “denuncia sociale”. Un po’ come avevano fatto, certo molto meglio di me, Apuleio con L’asino d’oro e Petronio col Satyricon. […] anch’io partecipo, in qualche modo, a questa cena di Trimalcione, e quindi ho tutte le informazioni e le esperienze necessarie per poterne fare una satira.125 Alcuni elementi che Le nuvole condivide con il Satyricon, individuati da Paolo Lago, sono: la combinazione di stili e linguaggi diversi e «l’habitus intertestuale ed enciclopedico sotto il quale si presentano le due opere», elementi che appartengono indubbiamente a una linea culturale di derivazione menippea.126 124 Ivi, pp. 146-147. Ivi, p.145. 126 Cfr. P. Lago, Petronio e De Andrè: dal Satyricon a Le nuvole (con un’appendice su De Andrè e Catullo), «Kleos», 2004, 9, pp. 63-69. 125 125 Capitolo Terzo La satira menippea è, appunto, un componimento misto di prosa e versi (con possibili parti dialogate) avente carattere di satira moraleggiante e filosofica, in cui però la parodia e il gusto fantastico prevalgono sulle intenzioni didascaliche. Tale satira prende il suo nome da Menippo di Gadara, letterato-filosofo del III secolo a.C. di formazione cinica e fortunato autore di scritti diatribici, cioè in forma di conversazione divulgativa. In Grecia composero satire menippee, tra gli altri, Meleagro e Giuliano l'Apostata. A Roma, Varrone compose delle Saturae Menippeae con esplicito richiamo a Menippo di Gadara, delle quali ci restano solo 600 brevi frammenti e 90 titoli; Marcopolis, descrizione di una città utopica e fantastica; Sexagesis (Il sessantenne), in cui il protagonista, addormentatosi a dieci anni e risvegliatosi dopo cinquanta, si ritrova in una Roma dalle istituzioni politiche e dai valori etici totalmente degradati. Al modello di Varrone sono riconducibili l'Apocolocyntosis di Seneca e il Satyricon di Petronio. A questo tipo di satira si avvicina anche l'opera di Marziano Capella, scrittore del V secolo. Ritornando al confronto effettuato da Paolo Lago, la combinazione di stili e linguaggi diversi è rintracciabile nella varietà 126 Capitolo Terzo dei linguaggi usata da De Andrè nel suo album; il secondo fattore evidenziato, invece, ci dà la possibilità di introdurre il secondo brano del disco, Ottocento, proprio attraverso le parole dello stesso Lago: In Ottocento […] sono numerosi gli ammiccamenti a un certo milieu culturale, quello appunto di una “Mitteleuropa ottocentesca”, e una strofa pare riprendere, nelle rime, nelle assonanze e nell’anafora della parola “figlio”, una lauda di Jacopone da Todi, la Donna de Paradiso; il riuso della lauda, qui appare molto simile al riuso dei canoni alti operati da Petronio: non per ironizzare o parodiare, bensì per creare un aggancio improprio fra la realtà contemporanea “bassa” e la letteratura e i tempi passati “alti”.127 Questa è la strofa della canzone cui Lago fa riferimento: Figlio figlio povero figlio eri bello bianco e vermiglio quale intruglio ti ha perduto nel Naviglio figlio figlio unico sbaglio annegato come un coniglio per ferirmi, pugnalarmi nell'orgoglio a me a me che ti trattavo come un figlio povero me domani andrà meglio. 127 Petronio e De Andrè…, cit. , p. 67. 127 Capitolo Terzo Questi invece sono alcuni dei versi della lauda di Jacopone da Todi che maggiormente sembrano ispirare il cantautore: Figlio bianco e vermiglio, figlio senza simiglio, figlio, e a ccui m’apiglio? Figlio, pur m’ài lassato! Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo, figlio, perché t’à el mondo, figlio, cusì sprezzato?128 Appare chiaro, alla luce di questo confronto, il lavoro di citazioni e rimandi espliciti, forse anche con intenti parodici, svolto dall’autore nella stesura di questo testo. Del resto, non è la prima volta che De Andrè si ispira a questa lauda; su questo, appare senz’altro utile ricordare i versi finali della canzone Tre madri, brano compreso in uno dei suoi primi concept album, La buona novella, pubblicato nel 1970, dove la marcata ripetizione della parola figlio, da parte della Madonna che piange la morte di Gesù assieme alle madri dei due ladroni, sembra rievocare i versi di Jacopone: Figlio nel sangue, figlio nel cuore, e chi ti chiama - Nostro Signore -, nella fatica del tuo sorriso cerca un ritaglio di Paradiso. 128 vv. 116-123; si cita da Iacopone da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, Roma-Bari, Laterza 1940. 128 Capitolo Terzo Per me sei figlio, vita morente, ti portò cieco questo mio ventre, come nel grembo, e adesso in croce, ti chiama amore questa mia voce. Non fossi stato figlio di Dio t'avrei ancora per figlio mio. Un’altra rima che De Andrè recupera da Jacopone da Todi è «figlio / giglio», anch’essa presente in Donna de Paradiso nei vv. «O figlio, figlio, figlio, / figlio, amoroso giglio!», utilizzata dal cantautore, anche se in modi diversi, in altri due suoi componimenti. Il primo di questi è La città vecchia, brano composto da De Andrè nel 1965 ma inserito poi nell’album Canzoni del 1974, dove la stessa rima «figlio / giglio» viene modificata, con intenti ironici o addirittura parodici, in modo da divenire, nell’ultimo verso della canzone: «se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo», che costituisce anche un esempio di rima interna allo stesso verso. L’altro testo è Si chiamava Gesù, dall’album Volume I del 1967; anche in questo brano l’autore affronta la vicenda del Messia, descrivendo la sua crocifissione con l’uso, sempre nell’ultimo verso, della stessa rima presente in Donna de Paradiso: «Di Maria dicono fosse il figlio / sulla croce sbiancò come un giglio». 129 Capitolo Terzo Ritornando al brano dal quale eravamo partiti, ovvero Ottocento, un altro particolare degno di nota è sicuramente l’incipit della canzone: Cantami di questo tempo l'astio e il malcontento di chi è sottovento Soprattutto nel primo di questi versi, è forte, a nostro parere, l’aggancio, ancora una volta parodico, con l’invocazione alle Muse dei versi iniziali dell’Iliade di Omero: Cantami, o Diva, del Pelìde Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco129 Ottocento però, oltre a essere ricca di citazioni anche colte, è interessante anche dal punto di vista linguistico. Un’intera strofa del testo è infatti composta da De Andrè in tedesco maccheronico, utilizzando alcuni termini entrati a far parte, ormai, del linguaggio quotidiano, creando in tal modo un effetto alquanto straniante: Ein klein pinzimonie Wunder matrimonie Krauten und erbeeren Und patellen und arsellen 129 Omero, Iliade, trad. di V. Monti, Libro I, vv. 1-3. 130 Capitolo Terzo Fischen Zanzibar Und enige krapfen Früer vor schlafen Und erwachen mit walzer Und Alka-Seltzer für dimenticar La traduzione di questa strofa, del resto, non è priva di significato, anche se la sua caratteristica maggiore, è senz’altro quella dell’ironia, presente, tutto sommato, nell’intero brano in questione: Un piccolo pinzimonio splendido matrimonio cavoli e fragole e patelle ed arselle pescate a Zanzibar e qualche krapfen prima di dormire ed un risveglio con valzer e un Alka-Seltzer per dimenticar Il terzo brano dell’album, Don Raffaè, è incastonato tra due intermezzi musicali, entrambi estrapolati da Le Stagioni di Pëtr Ilič Tchajkovskij (Giugno, op.37), che Fabrizio De Andrè inserisce solo in questo punto dell’opera, come a voler incorniciare questa canzone che ricorda molto altre due sue composizioni: ritmicamente, infatti, questo brano è assimilabile a una tarantella, in questo caso 131 Capitolo Terzo molto vicina a quella de Il testamento;130 la scansione metrica del testo, invece, è molto simile a quella della più famosa Bocca di rosa.131 Di grande impatto è anche il cambio di atmosfera che si crea nella successione dei brani in questa parte del disco, come anche Paolo Lago evidenzia, all’interno del suo articolo, ribadendo la vicinanza tra Le nuvole e il Satyricon per quel che riguarda la costruzione dell’opera: Lo stacco appare nettissimo: dall’opera buffa [Ottocento] si passa alla musica classica, ad un genere “alto” e, successivamente, si riscende nel genere della canzone popolare. […] In questa parte dell’opera […] è quindi fortemente presente l’accostamento, anche repentino ed ex abrupto, di diversi stili, proprio come nel Satyricon, allo stile “alto”, sublime, spesso succede immediatamente quello “basso”.132 Contrariamente a quanto avviene in quasi tutti i pezzi di questo album, scritti con la collaborazione dello stesso Mauro Pagani che partecipò alla realizzazione del disco Creuza de mä, per la stesura di Don Raffaè De Andrè si avvale di Massimo Bubola, coautore anche di 130 In Volume III, 1968. In Volume I, 1967. Su questi accostamenti cfr. Romana, Amico fragile ... , p.153. 132 Petronio e De Andrè … , cit. , pp.64-65. 131 132 Capitolo Terzo altri due precedenti album del cantautore genovese, ovvero Rimini, del 1978, e Fabrizio De Andrè (l’Indiano), del 1981. Le fonti, alle quali i due autori hanno attinto per la composizione di questo brano, sono molte ed eterogenee; vi è, ad esempio, un forte richiamo a tre opere legate alla cultura e alla tradizione partenopea della metà del secolo scorso. La prima di queste, fondamentale per l’idea stessa della canzone, è un lavoro di Giuseppe Marotta, scrittore e giornalista napoletano, autore di testi teatrali e sceneggiature per il cinema; tra le sue opere, ricordiamo, citandone solo alcune di esse, L’oro di Napoli (1947, da cui Vittorio De Sica trasse l’omonimo film), A Milano non fa freddo (1949), Gli alunni del sole (1952), Coraggio, guardiamo (1953), Gli alunni del tempo (1960). De Andrè prende le mosse, per la creazione del protagonista della sua composizione, proprio da quest’ultima raccolta di racconti di ambientazione napoletana; a riferirlo è lo stesso cantautore in una sua dichiarazione, riportata da Federico Vacalebre all’interno di un suo libro, De Andrè e Napoli, che mira a vagliare i legami culturali e sentimentali che intercorrono tra la città partenopea e le opere del genovese: 133 Capitolo Terzo L’idea mi venne ripensando a Gli alunni del tempo di Giuseppe Marotta in cui c’era la figura di questo don Vito Cacace, la guardia notturna che ha il rango di un intellettuale perché proprietario dell’unica copia di quotidiano venduta nella zona, che ogni sera raduna i vicini e legge loro il giornale, spiegando poi che cosa ha letto e che cosa è avvenuto, esponendo i fatti ai commenti del vicinato, alla contaminazione dell’umanità che sui giornali non è mai protagonista.133 Le altre fonti principali sono rintracciabili in un’altra canzone e in un testo teatrale: la prima è ’o caffè, composta nel 1958 da Domenico Modugno e Riccardo Pazzaglia, e di essa, in Don Raffaè, è presente non solo una citazione musicale, ma anche un evidente richiamo ai versi Ah, che bello ’o caffè! Sulo a Napule ’o sanno fâ e nisciuno se spiega pecché è ’na vera specialità. La somiglianza con i versi iniziali del ritornello, del brano di De Andrè, è evidente: Ah che bello ’o café pure in carcere ’o sanno fâ co’ â ricetta ch’a Ciccirinella 133 F. Vacalebre, De Andrè e Napoli. Storia d’amore e d’anarchia, Milano, Sperling & Kupfer 2002, pp. 66-67. 134 Capitolo Terzo compagno di cella ci ha dato mammà. La seconda fonte, che ispirò anche il testo del brano di Modugno, è costituita, invece, dal monologo che apre il secondo atto di Questi fantasmi, lavoro teatrale di Eduardo De Filippo:134 le parole di questa commedia, anche se non entrano direttamente nei testi delle due canzoni, ne influenzano sicuramente alcuni dei concetti in esse sviluppati, quali, ad esempio il rituale legato alla preparazione del caffè e la passione dei partenopei verso la stessa bevanda. Altro elemento costituente del testo di Don Raffaè è sicuramente l’attualità, fattore che, del resto, permea l’intero album del cantautore. Infatti, anche se De Andrè sceglie di scrivere esplicitamente sulla copertina del disco che «i fatti e i personaggi di questa canzone sono immaginari. Ogni riferimento a persone, o a fatti realmente accaduti, è una mera coincidenza», il “don Raffaè” descritto nel testo ricorda molto la figura di un famigerato camorrista di quegli anni, ovvero Raffaele Cutolo. Ancora più esplicito è, infine, il riferimento a una dichiarazione dell’allora presidente del Consiglio dei Ministri, Giovanni Spadolini, che, recatosi a Palermo in seguito all’ennesima strage mafiosa, disse: 134 Cfr. ibid. 135 Capitolo Terzo «Sono costernato, sono indignato e m’impegno».135 Tali parole, in Don Raffaè, diventano: Prima pagina venti notizie ventun'ingiustizie e lo Stato che fa si costerna, s'indigna, s'impegna poi getta la spugna con gran dignità La cronaca quotidiana, narrata dai maggiori giornalisti di quegli anni, è sicuramente il maggior collegamento tra Don Raffaè e il brano successivo, ovvero La domenica delle salme; che gran parte delle cose che appaiono in questi due testi, infatti, derivino dalle pagine dei quotidiani, è De Andrè stesso ad ammetterlo: Gli articoli di giornalisti come Sandro Viola, Vittorio Zucconi e qualche altro: ecco, sono loro i miei ispiratori sotterranei, i «complici segreti» che vorrei invitare a iscriversi alla S.I.A.E. [Società Italiana degli Autori ed Editori], perché anche loro, come fornitori di un’intuizione originaria, dovrebbero ricevere la loro quota di diritti d’autore.136 Ma La domenica delle salme, che nel disco chiude la prima parte, corrispondente al lato A, è anche ricca di citazioni letterarie: la combinazione di questi due elementi, rende questo brano molto complesso e denso di riferimenti diversi. 135 136 Cfr. ivi, p. 70. Romana, Amico fragile … , cit. , p.145. 136 Capitolo Terzo Proprio per questi motivi, l’autore ritiene utile inserire, ancora sulle pagine interne del disco, come per la precisazione relativa a Don Raffaè citata poco sopra, alcune note esplicative, che riportiamo insieme con l’intero testo della canzone: Tentò la fuga in tram verso le sei del mattino dalla bottiglia di orzata dove galleggia Milano 5 non fu difficile seguirlo il poeta della Baggina la sua anima accesa mandava luce di lampadina gli incendiarono il letto 10 sulla strada di Trento riuscì a salvarsi dalla sua barba un pettirosso da combattimento I Polacchi non morirono subito e inginocchiati agli ultimi semafori 15 rifacevano il trucco alle troie di regime lanciate verso il mare i trafficanti di saponette mettevano pancia verso est chi si convertiva nel novanta 20 ne era dispensato nel novantuno la scimmia del quarto Reich ballava la polka sopra il muro e mentre si arrampicava 137 Capitolo Terzo le abbiamo visto tutti il culo 25 la piramide di Cheope volle essere ricostruita in quel giorno di festa masso per masso schiavo per schiavo comunista per comunista 30 La domenica delle salme non si udirono fucilate il gas esilarante presidiava le strade la domenica delle salme 35 si portò via tutti i pensieri e le regine del «tua culpa» affollarono i parrucchieri Nell'assolata galera patria il secondo secondino 40 disse a «Baffi di Sego» che era il primo - Si può fare domani sul far del mattino e furono inviati messi fanti cavalli cani ed un somaro ad annunciare l'amputazione della gamba 45 di Renato Curcio il carbonaro il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni auspicava democrazia 50 con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni - Voglio vivere in una città 138 Capitolo Terzo dove all'ora dell'aperitivo non ci siano spargimenti di sangue o di detersivo 55 a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi di questa famosa città civile perché avevamo un cannone nel cortile La domenica delle salme 60 nessuno si fece male tutti a seguire il feretro del defunto ideale la domenica delle salme si sentiva cantare 65 - Quant'è bella giovinezza non vogliamo più invecchiare – Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe accesero la televisione e ci guardarono cantare 70 per una mezz'oretta poi ci mandarono a cagare - Voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio coi pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti 75 per l'Amazzonia e per la pecunia nei palastilisti e dai padri Maristi voi avevate voci potenti lingue allenate a battere il tamburo 139 Capitolo Terzo 80 voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo – La domenica delle salme gli addetti alla nostalgia accompagnarono tra i flauti 85 il cadavere di Utopia la domenica dalle salme fu una domenica come tante il giorno dopo c'erano i segni di una pace terrificante 90 mentre il cuore d'Italia da Palermo ad Aosta si gonfiava in un coro di vibrante protesta. Note: Baggina: così viene chiamata a Milano la Casa di Riposo per anziani "Pio Albergo Trivulzio". Baffi di Sego: gendarme austriaco in una satira di Giuseppe Giusti. De Andrade: vedi Serafino Ponte Grande di Oswald De Andrade. Anche se De Andrè chiarisce alcuni riferimenti presenti nel testo, l’ermetismo di questo suo lavoro, a nostro parere, non ne agevola comunque la sua totale comprensione; si tratta, infatti, di uno dei brani più criptici dell’intero corpus delle sue opere, insieme ad Amico fragile, altra sua canzone, contenuta nell’album Volume VIII del 1975. 140 Capitolo Terzo Una caratteristica comune a entrambi i brani è, sicuramente, il modus operandi utilizzato da De Andrè in sede di scrittura: i testi di queste canzoni, ad esempio, sono stati composti dall’autore prima della parte musicale. Questa impostazione di lavoro, insolita per il mondo della canzone, dove, quasi sempre, è la realizzazione della musica a precedere la stesura del testo, ne compromette, evidentemente, il risultato finale, se lo stesso De Andrè, a proposito di La domenica delle salme, dichiara: «è una canzone un po’ rabberciata, perché la musica la abbiamo scritta dopo, la abbiamo cucita sopra il testo, e si sente».137 L’autore, in questo ultimo passaggio, si riferisce sicuramente alla quasi totale assenza, in questo tipo di brani, di una piena cantabilità del testo e della relativa mancanza di una parte musicale autonoma. Al posto di questi elementi, troviamo, durante l’ascolto, la voce di De Andrè che, invece di cantare, declama il lunghissimo testo, sostenuto musicalmente da un ostinato arpeggio di chitarra e dagli interventi di violino e kazoo, eseguiti, questi ultimi, dal coautore Mauro Pagani. 137 Fasoli, Fabrizio De Andrè… , cit. , pp. 68-69. 141 Capitolo Terzo Per quanto riguarda il testo, sicuramente il più impegnativo dell’album, gli aspetti da segnalare sono numerosi, a partire dalla singolare divisione strofica: il brano è infatti composto da quattro strofe di lunghezza diversa, intramezzate da tre ritornelli divisi in due quartine; la conclusione è affidata, poi, a una settima quartina che riassume, con amarezza e ironia, il senso dell’intera composizione. La prima strofa, composta da dodici versi, delinea sin da subito l’inquietante atmosfera del brano, che rispecchia quella di alcune zone delle grandi città, nella quale molte persone sole conducono stancamente le loro esistenze. Il personaggio al quale si riferiscono questi primi versi, infatti, è un anziano poeta che vive in solitudine gli ultimi travagliati anni della sua vita; la tarda età del personaggio, non esplicita nel testo, la possiamo dedurre da alcuni fattori in esso contenuti: il più palese è rintracciabile, senza alcun dubbio, al v. 6, «il poeta della Baggina», dove l’autore, indicando il nome di una reale casa di riposo per anziani di Milano, lascia facilmente intendere l’età del personaggio. Vi sono almeno altri due riferimenti, in questo senso, presenti ai vv. 3-4 e 9-10: nel primo di essi, l’autore, sembra voler ribaltare un noto slogan, molto in voga in quegli anni, che indicava la città 142 Capitolo Terzo lombarda citata nel testo come «la Milano da bere», riferendosi agli svaghi e le opportunità che essa offriva ai suoi abitanti; nel secondo, invece, il riferimento è a un tragico fatto di cronaca realmente avvenuto in quegli anni, cioè l’omicidio di un anziano trentino ad opera di un gruppo di giovani delinquenti. Nella strofa successiva, formata, questa volta, da diciassette versi, le citazioni sono, per lo più, storiche e profondamente ispirate al crollo dell’ideologia comunista. I primi quattro versi sono riferiti al popolo polacco come l’emblema delle popolazioni che, in seguito all’abbattimento del Muro di Berlino, arrivarono in Italia clandestinamente e in condizioni disastrate, cercando qualunque tipo di occupazione, compresa quella di lavavetri delle auto in fila, «le troie di regime», davanti ai semafori. Gli stravolgimenti geopolitici di quegli anni segnarono anche l’apertura degli scambi commerciali, situazione che indusse molti ricchi e rampanti imprenditori, «i trafficanti di saponette», a sfruttare la manodopera a basso costo nei Paesi dell’Est europeo. Tralasciando, poi, il riferimento, sin troppo esplicito, ad Adolf Hitler presente al v. 21 e quello a una delle piramidi egizie, quale simbolo dell’universale vanità umana, ricostruita dai vinti che 143 Capitolo Terzo vengono fatti schiavi, ovvero, i comunisti, arriviamo così al primo dei tre ritornelli presenti nel testo. Il tema centrale di queste due quartine, come anche di quelle degli altri ritornelli, è il «trionfo dell’effimero»:138 in un mondo come quello descritto nei versi precedenti, «la domenica delle salme» è dedicata all’abbandono della tristezza e dei cattivi pensieri, impegnati solamente dagli appuntamenti coi parrucchieri. Il titolo della composizione, caratterizzato dal cambio di fonema (salme – palme), di gusto scapigliato, riconducibile anche alla figura retorica della paronomasia, e ripreso nel primo e nel quarto di questi otto versi, è stato interpretato in vari modi, nel corso degli anni. Degno di nota, in tal senso, è, a nostro parere, il commento di Ezio Alberione all’interno del suo saggio Frammenti di un canzoniere, inserito in un volume miscellaneo interamente dedicato a Fabrizio De Andrè: Il titolo della canzone è la parodia di quella “domenica delle palme” che segnava l’inizio di una settimana cruciale per la storia della salvezza. Il giorno dell’ingresso (trionfale quanto effimero) di Cristo nella capitale diventa il giorno del trionfo dell’effimero e del capitale, dove i poveri cristi vengono inseguiti, 138 F. De Andrè, Accordi eretici, cit. , p. 116. 144 Capitolo Terzo braccati o sfruttati. Nel clima post-atomico e funerario di questa “terrificante” festa, c’è posto solo per un rifiuto e per la ricerca di un rifugio. La strofa successiva, in assoluto la più estesa, con i suoi ventuno versi, inizia con un accostamento tra “Baffi di Sego”, personaggio letterario ottocentesco, già ricordato dalle note alla canzone dallo stesso cantautore, e Renato Curcio, leader storico delle Brigate Rosse prima dell’avvento al comando di Mario Moretti avvenuto nel 1976, in seguito al suo arresto; è lo stesso De Andrè a motivare la sua scelta di inserirlo tra i versi della sua opera: Il riferimento a Curcio è preciso. Io dicevo semplicemente che non si capiva come mai si vedevano circolare per le nostre strade e per le nostre piazze, Piazza Fontana compresa, delle persone che avevano sulla schiena assassinii plurimi e, appunto, come mai il signor Renato Curcio, che non ha mai ammazzato nessuno, era in galera da più lustri e nessuno si occupava di tirarlo fuori. Direi solamente per il fatto che non si era pentito, non si era dissociato, non aveva usufruito di quella nuova legge che, certamente, non fa parte del mio mondo morale … Il riferimento poi all’amputazione della gamba, voleva essere anche un 139 richiamo alla condizione sanitaria delle nostre carceri. E ancora: «Ho pensato a Maroncelli [compagno di prigionia di Silvio Pellico che subisce l’amputazione di una gamba senza 139 Passaggi di tempo… , cit. , p. 69. 145 Capitolo Terzo anestesia, come riportato ne Le mie prigioni dallo stesso Pellico]; no, non vanno tenuti in carcere i carbonari».140 Da segnalare, ancora per quel che riguarda questa strofa, la citazione di un lavoro del poeta futurista brasiliano Oswald De Andrade, posto dall’autore nei vv. 55-58. Dopo di essi ricorre il secondo ritornello, nel quale ritroviamo, parafrasati, i versi iniziali della Canzone di Bacco, dai Canti Carnascialeschi di Lorenzo de’ Medici: «Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia!»,141 che, nella canzone di De Andrè, diventano «– Quant'è bella giovinezza / non vogliamo più invecchiare –», che sembrano riecheggiare le disperate richieste, facilmente immaginabili, dei pazienti che affollano le cliniche dei chirurghi estetici. L’ultima strofa, composta da quindici versi, è totalmente rivolta al mondo della canzone: una vera e propria invettiva meta-musicale che l’autore rivolge ai suoi colleghi, imputando loro di impegnarsi, nelle loro esibizioni, per diverse cause sociali e politiche, ostentando solidarietà e umanità, ma spinti, in verità, dal loro tornaconto e dalla smania di protagonismo; quando, invece, è proprio il mondo dell’arte, e quindi anche della musica, che avrebbe le potenzialità di 140 141 Viva, Non per un Dio ma nemmeno per gioco …, cit. , p. 207. L. de’ Medici, Scritti scelti, a cura di E. Bigi, Torino, Utet 1955. 146 Capitolo Terzo sensibilizzare la società, e il dovere civico di manifestare il proprio sdegno e dissenso per le tante ingiustizie che ogni giorno vengono compiute nei confronti dei più deboli. A questo punto del brano, troviamo l’ultimo dei tre ritornelli, con, al suo interno, almeno due elementi degni di nota. Il primo di essi è la citazione, al v. 85 che conclude la prima quartina, del romanzo di Thomas More, Utopia, identificato, metaforicamente nel testo, con gli ormai defunti ideali libertari di un Sessantotto quasi mitico. Altro particolare interessante è la figura retorica presente al v. 89, «di una pace terrificante», ossimoro che restituisce in pieno l’accidia agghiacciante che avvolge gli animi degli uomini del nostro tempo. Il finale del brano è costituito da un’ulteriore quartina alla quale solamente l’ascolto può render giustizia: infatti, anche se i versi indicano un moto di protesta popolare che coinvolge l’intera Nazione italiana, la forte intonazione regionale emessa dalla voce di De Andrè nel recitare l’ultimo verso, «di vibrante protesta» appunto, lascia intuire un amaro sarcasmo dell’autore. A chiusura di questa prima parte dell’opera, e senza soluzione di continuità nei confronti del brano appena analizzato, si odono gli 147 Capitolo Terzo stessi versi delle cicale ai quali accennammo all’inizio, come a indicare l’unica fastidiosa protesta di cui sono capaci questi nostri anni, segnati indiscutibilmente da «una pace terrificante». A voler ben guardare, questa prima parte appena analizzata, potrebbe essere letta anche in una chiave cronologica del potere; i quattro brani che la compongono, infatti, rispecchiano altrettante figure di potere legate a precisi periodi storici. Il primo brano, Le nuvole, potrebbe indicare, in questo senso, sia il timore arcaico dell’uomo nei confronti dei fenomeni meteorologici, sia un ulteriore aggancio alla commedia aristofanea. Il secondo, come si evince dallo stesso titolo, rimanda a un agiato signore appartenente alla ricca classe borghese ottocentesca. Il terzo, con il suo ritmo da tarantella e le sue citazioni di Modugno, Marotta e De Filippo, rievoca gli anni della ricostruzione e della rinascita economica italiana, ovvero gli anni Cinquanta del Novecento, quando anche alcuni esponenti dell’organizzazione mafiosa sembravano, in una visione quasi romantica, degni di rispetto e rispettosi al tempo stesso dei rapporti umani fondamentali. L’ultimo, La domenica delle salme, è indiscutibilmente legato, come abbiamo cercato di dimostrare, agli ultimi anni del secolo scorso 148 Capitolo Terzo e ai nuovi “potenti della Terra”, probabilmente i peggiori in assoluto, che riuscirono a sfruttare gli sconvolgimenti sociali, politici, ed economici, per accumulare enormi ricchezze, speculando sulle vite dei più deboli. La seconda parte dell’opera è stata concepita dall’autore come un contraltare umano e vero ai personaggi precedentemente delineati; a tal fine, come abbiamo già avuto modo di illustrare, l’autore utilizza tre dialetti diversi per le sue composizioni, in contrapposizione con la lingua ufficiale nazionale dei brani precedenti. Tale scelta conferisce loro confidenziale e vicina alle un’atmosfera diverse realtà maggiormente regionali che contraddistinguono la nostra Penisola, a discapito naturalmente delle citazioni e delle forme dotte, molto frequenti invece nella prima sezione dell’album. La prima di queste composizioni, la quinta dell’intera opera, Mégu Mégun, ritrae, nei suoi versi, un inguaribile ipocondriaco che sceglie di non uscire dalla sua dimora, temendo di essere infettato dalle impurità delle altre genti del mondo. Questo brano, come il successivo ’Â çímma, è composto da De Andrè con Ivano Fossati in un dialetto genovese molto simile a quello 149 Capitolo Terzo del suo precedente album Creuza de mä, anche se, probabilmente, rispetto a quest’ultimo, esso risulta «socio-linguisticamente più realistico», come afferma Lorenzo Coveri nel suo saggio I dialetti (e le lingue) di De Andrè142 dove vengono messi a confronto «il monolinguismo» dell’album del 1984, dedicato idealmente al popolo del bacino mediterraneo, e «il plurilinguismo di Le nuvole». Un’ultima cosa da segnalare di questa canzone è, infine, la componente autobiografica presente nel testo, come apprendiamo dalle parole dell’autore: In qualche modo, il testo è autobiografico: è l’autoritratto, o l’autodifesa, d’un Oblomov di provincia, dopotutto anche a me piace molto restarmene a letto, a pensare, a leggere o nella migliore delle ipotesi a scrivere, barricato nella mia stanza, al sicuro dal mondo. E del resto, dicevano i latini, l’ozio è il privilegio dei sapienti.143 Tra le due composizioni in dialetto genovese, troviamo un altro brano che costituisce in qualche modo una novità nel repertorio del cantautore: La nova gelosia, questo il titolo del brano, è infatti l’unico 142 Intervento nell’ambito delle Giornate di studio, Per mari, per cieli, per terre, con Fabrizio De Andrè, alla ricerca dell’Uomo, Garessio, 14-15 luglio 2000. Una versione leggermente modificata del contributo è stata pubblicata, col titolo indicato nel testo, in «Trasparenze», 22 (2004), pp. 8190; ora anche in Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, cit. , pp. 273-282. 143 Romana, Smisurate preghiere … , cit. , pp. 142-143. 150 Capitolo Terzo esempio di canzone, ripresa da De Andrè, dalla tradizione popolare musicale napoletana. La scelta di inserire questo brano all’interno dell’album, viene motivata dallo stesso cantautore in una sua dichiarazione che ritroviamo nelle pagine del libro di Vacalebre: La nova gelosia è una perla che avevo scoperto nel primo volume dell’antologia cronologica della canzone napoletana di Murolo e avevo deciso di mettere in questo disco, ignorando che proprio questo disco mi avrebbe permesso poi di conoscere Roberto [i due incideranno insieme, nel 1992, una nuova versione di Don Raffae’, per un album del cantautore napoletano dal titolo Ottantavogliadicantare]. È di autore anonimo, risale al 1700, chi l’ha scritta doveva essere in uomo colto: siamo di fronte a una serenata a doppio senso. Apparentemente la “gelosia” del titolo è la maniglia nuova e lucente della finestra, nelle cui ombre però, si cela il sentimento che ha lo stesso nome.144 Sulla genesi e l'occasione del canto si vedano le osservazioni dello stesso Murolo: Probabilmente il brano faceva parte di un lavoro teatrale, forse un’opera buffa, ma non si possiede alcun elemento per provarlo, come si ignora il nome dell’autore o degli autori. Mi piace ricordare come la finestra sia uno dei temi della poesia popolare napoletana della nostra canzone: da Fenesta ca luceve a Fenesta vascia gli innamorati 144 Vacalebre, De Andrè e Napoli … , cit. , p. 104. 151 Capitolo Terzo passeranno e spasseranno sotto balconi e persiane, passeranno notti insonni sotto i veroni delle loro belle. L’amore diventa uno spunto romantico che si raffina in forme patetiche abbandonando le atmosfere maliziose e giocose: da qui alla serenata sotto la finestra il passo è breve, proprio come l’Ottocento.145 Il testo successivo, ’Â çímma, come già ricordato, è composto da De Andrè, ancora in genovese; non è solo la lingua, però, a rimandare alla città ligure; il titolo, infatti, riprende il nome di una pietanza tipica della gastronomia genovese, ed è proprio a essa, e a un cuoco che ha il compito di prepararla, che si riferisce l’intero contenuto della canzone, come spiega dettagliatamente Cesare G. Romana: Ecco dunque, scritta con Fossati, ’Â çímma, la pietanza ligure che sta alle trenette al pesto come la vastità d’un poema sta all’univocità d’un sonetto. E che a prepararla occorre un giorno intero: per combinare le uova con le erbe fragranti, il prosciutto a tocchetti e i piselli teneri, e poi insaccare il tutto in una membrana di pelle bovina, cucirla e lasciar cuocere per ore, finché la pelle si faccia dorata ma non nera né coriacea, la sinfonia dei sapori suoni come un’orchestra e il ripieno abbia la consistenza soffice che le donne di Genova perpetuano nei secoli. Bisogna destarsi col giorno neonato per preparare la cima come esigono gli dèi, così che i diavoli fuggano dalla casa e disertino la pignatta.146 145 146 Ivi, p. 105. Smisurate preghiere … , cit. , pp.143-144. 152 Capitolo Terzo Il cuoco, che viene qui rappresentato come un novello alchimista, non si limita, com’è facilmente intuibile, a preparare delle vivande per i suoi clienti; egli, sin dalle prime luci dell’alba, «quando la luce ha un piede in terra e l’altro in mare», inizia a preparare il suo laboratorio con la cura certosina di chi ama visceralmente il proprio mestiere. Ricorre poi, sotto forma di ritornello, una invocazione alla Madonna che ha tutto il sapore di una formula magica, affinché la carne che sta cucinando venga epurata dagli spiriti maligni, divenendo, in tal modo, tenera e di un buon colore: Çe serén tèra scûa carne ténia nu fâte néigra nu turnâ dûa e 'nt'ou núme de Maria tûtti diài da sta pûgnatta anène via La traduzione di questi versi, infatti, ricorda quasi una preghiera o, addirittura, una formula magica e apotropaica tipica della religione naturale: Cielo sereno terra scura carne tenera non diventare nera non ritornare dura 153 Capitolo Terzo e nel nome di Maria tutti i diavoli da questa pentola andate via L’ultima strofa si chiude con un’imprecazione del protagonista rivolta ai camerieri, che gli sottraggono la sua creazione per darla in pasto a degli ignari avventori, e soprattutto a questi ultimi, che mangeranno avidamente la sua opera non sapendo che, prima o poi, anche a loro toccherà, fatalmente, la stessa sorte. La fine dell’album è affidata a un insolito brano in dialetto sardo, nella sua variante gallurese, dal titolo Monti di Mola, antico nome di una zona della Sardegna, oggi conosciuta come Costa Smeralda. Un’efficace analisi di questa composizione è stata compiuta da Lisa Tibaldi: È qui [ in Costa Smeralda ] che avviene lo strano incontro d’amore tra un giovane pastore del posto e un’asina, ma la cosa ancor più strana è la gelosia che quest’amore suscita nell’animo di una vecchia guardona. La vicenda si conclude tristemente: le annunciate nozze tra i due innamorati non possono avere luogo poiché dai documenti risultano essere cugini di primo grado. L’evidente vena sarcastica della canzone nasconde un ulteriore attacco alla società e in particolare a tutte quelle barriere sociali che l’ipocrisia e un finto senso del pudore impongono. I richiami al mondo naturale delle ultime canzoni ci fanno percepire una realtà più limpida e autentica, rispetto al mondo caotico e fumoso che caratterizza invece i primi pezzi 154 Capitolo Terzo dell’album. Dunque anche qui, è evidente la contrapposizione tra civiltà e natura e quest’ultima sembra imporsi finalmente come vincitrice.147 Rimangono da segnalare, all’interno di questo testo, due riferimenti alla tradizione poetica e pittorica dei secoli scorsi: il primo è l’assonanza tra la vecchia invidiosa della canzone, che ritroviamo nei versi «e 'nfattu una 'ecchia infrasconata fea / piagnendi e figgiulendi si dicia cù li bae»,148 e un’altra anziana e avvizzita donna descritta nella Canzone a ballo CXIV, tratta dalle Rime di Angelo Poliziano: Una vecchia mi vagheggia, vizza e secca insino all’osso; […] E più biascia che le mule, quando intorno mi volteggia. Appare rilevante anche il particolare che riguarda «le mule», che potrebbe far supporre, perfino, una diretta corrispondenza tra il testo poetico di Poliziano e la canzone di De Andrè. Il secondo riferimento riguarda il “mirto”, presente nella canzone al verso «l'aba si suggi tuttu lu meli di chista multa»,149 che, 147 La poesia per musica di Fabrizio De Andrè, cit. , p.54. Traduzione: « e sul posto una brutta vecchia nascosta tra le frasche / piangendo e guardando diceva fra sé con le bave alla bocca» 149 Traduzione: « l'ape si succhia tutto il miele di questo mirto». 148 155 Capitolo Terzo in numerosi dipinti rinascimentali, stava a significare l’imminente unione matrimoniale dei due amanti ritratti nella tela. Il simbolismo del mirto, però non è solo legato all’arte rinascimentale: si tratta altresì di una pianta sacra a Venere e perciò rivestita, sin dall’antichità, di un simbolismo erotico. Tale simbolismo, anche se slegato dalla pianta del mirto, è rintracciabile nella composizione del cantautore anche ai versi «amori steddu / di tutte l'ore di petralana lu battadolu / di chistu core».150 Riassumendo questa seconda parte dell’opera, possiamo facilmente notare come l’autore abbia voluto porre l’accento sui maggiori, e più vivi, sentimenti umani, che fanno quasi da specchio alle dotte citazioni presenti nella prima parte. Ritroviamo, infatti, in ognuno degli ultimi quattro brani, un sentimento diverso che ne contraddistingue il testo: nel primo di questi, Mégu Mégun, è l’arcano timore nei confronti del diverso, dell’estraneo, a essere protagonista; ne La nova gelosia è il sentimento per eccellenza, l’amore, a suggerire i delicati versi all’amante innamorato che tenta invano di spiare la sua bella; nella canzone 150 Traduzione: « amore bambino / di tutte le ore di muschio il batacchio / di questo cuore». 156 Capitolo Terzo successiva, ’Â çímma, è, invece, la dedizione, lo spirito di abnegazione, ma anche, e soprattutto, un sentimento quasi paterno nei confronti della sua creazione, a spingere il cuoco a preparare così amorevolmente la sua pietanza; infine, in Monti di Mola, è l’invidia della vecchia zitella, nei confronti dell’asina innamorata dell’aitante pastore, a rendere verosimile questo testo che, altrimenti, parrebbe maggiormente ricordare personaggi e situazioni tipiche delle Favole di Esopo.151 151 Ma si tenga presente, anche, la Metamorfosi di Apuleio, dove il protagonista, Lucio, viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana. 157 Bibliografia Bibliografia I. Saggi sulla canzone d’autore e sul rapporto tra poesia e musica Aa. Vv., La lingua della canzone italiana. Poesia in musica, a cura del Ministero della Pubblica Istruzione, Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, 1995 [Edizione fuori commercio]. Aa. Vv., La tradotta. Storia di canzoni amate e tradite, a cura di E. De Angelis e S. S. Sacchi, Civitella in Val di Chiana, Zona 2003. Aa. Vv., L’anima dei poeti: quando la canzone incontra la letteratura, a cura di E. De Angelis e S. S. Sacchi, Civitella in Val di Chiana, Zona 2004. Aa. Vv., Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana, a cura di L. Coveri, Novara, Interlinea 1996. Aa. Vv., Storia della Lingua Italiana e Storia della Musica. Italiano e musica nel melodramma e nella canzone, atti del IV Convegno ASLI Associazione per la Storia della Lingua Italiana (Sanremo, 29-30 aprile 2004), a cura di E. Tonani, Firenze, Ed. Franco Cesati 2005. Accademia degli Scrausi, Versi rock. La lingua della canzone italiana anni ’80 e ’90, Milano, Rizzoli 1996. L. C. Baldo, Tempo e memoria: percorsi di ascolto tra letteratura e musica, Alessandria, Ed. Dell’Orso 2003. M Catricalà, Incantautori italiani, in «Italiano e oltre», XI (1996), 3, pp. 186188. P. Jachia, La canzone d’autore italiana 1958-1997, Milano, Feltrinelli 1998. 158 Bibliografia M. Santoro, La leggerezza insostenibile. Genesi del campo della canzone d’autore, in «Rassegna Italiana di Sociologia», XLI (2000), 2, pp. 189-222. A. A. Sobrero, La ricchezza linguistica sta tra i “top ten”, in «Italiano e oltre», V (1990), 5, p. 223. R. Vecchioni, La canzone d’autore in Italia, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti. Appendice 2000, vol. I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001, pp. 279-283. II. Biografie Aa. Vv., Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De Andrè, a cura di R. Bertoncelli, Firenze, Giunti 2003. G. Adduci, Fabrizio De Andrè, Milano, Gammalibri 1987. G. Baldazzi, L. Clarotti e A. Rocco, I nostri cantautori, Bologna, Thelma Editore 1990. M. Borsani e L. Maciacchini, Anima salva: le canzoni di Fabrizio De Andrè, Mantova, Ed. Tre lune 1999. P. Bruni, Fabrizio De Andrè. Il cantico del sognatore mediterraneo, Castrovillari, Ed. Il Coscile 2001. M. Bubola, Doppio lungo addio, Reggio Emilia, Ed. Aliberti 2006. D. Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo. Da Carlo Martello a Prinçesa, Milano, Ed. Associate 2001. A. Franchini, Uomini e donne di Fabrizio De Andrè. Conversazioni ai margini, Genova, Ed. F.lli Frilli 2000. R. Iovino, Fabrizio De Andrè: l’ultimo trovatore, Genova, Ed. F.lli Frilli 2006. 159 Bibliografia F. Pivano, I miei amici cantautori, Milano, Mondatori 2005. A. Podestà, Fabrizio De Andrè: in direzione ostinata e contraria, Civitella in Val di Chiana, Zona 2003. C. G. Romana, Amico fragile. Fabrizio De Andrè, Milano, Sperling & Kupfer 1999. C. G. Romana, Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con Fabrizio De Andrè, Roma, Arcana 2007. F. Vacalebre, De Andrè e Napoli. Storia d’amore e d’anarchia, Milano, Sperling & Kupfer 2002. L. Viva, Non per un Dio ma nemmeno per gioco. Vita d Fabrizio De Andrè, Milano, Feltrinelli 2005. III. Saggi critici sulle opere di Fabrizio De Andrè Aa. Vv., Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, a cura di E. Valdini, Milano, BUR 2007. F. Arato, Tra Lerici e Turbìa. Fabrizio De Andrè e Georges Brassens, in «Belfagor», LIV (1999), 6, pp. 735-740. R. Cotroneo, Una smisurata preghiera, saggio introduttivo all’antologia Come un’anomalia: tutte le canzoni di Fabrizio De Andrè, Torino, Einaudi 2000, pp. V-XXIII. L. Coveri, Dialetto rock, in «Italiano e oltre», XI (1996), 3, pp. 134-142. L. Coveri, I dialetti (e le lingue) di De Andrè, in «Trasparenze», 22 (2004), pp. 81-90. L. Coveri, Il dialetto di De Andrè / così familiare, così estraneo, «Il Secolo XIX», 13 gennaio 1999. 160 Bibliografia F. De Andrè, Accordi eretici, a cura di R. Giuffrida e B. Bigoni, Milano, EuresisEdizioni 2001. E. Di Padova, Il dialetto rivisitato nelle canzoni di Fabrizio De Andrè. Appunti di lavoro, Tesi realizzata presso l’Università degli studi di Torino nell’a. a. 2001-2002. P. Ghezzi, Il vangelo secondo De Andrè, Milano, Àncora 2003. R. Giannoni, Fabrizio De Andrè e i dialetti, in «Il segnale», XVIII (1999), 54, pp. 21-34. P. Lago, Petronio e De Andrè: dal Satyricon a Le nuvole (con un’appendice su De Andrè e Catullo), in «Kleos», 2004, 9, pp. 63-69. A. Marini, Tra Piero e Marinella: narratività e “correspondance” nella scrittura di Fabrizio De Andrè, in «Allegoria», XV (2003), 45, pp. 129-137. A. Podestà, Un dialetto in sogno e De Andrè si confessa, in «Italiano e oltre», XI (1996), 3, pp. 138-139. F. Scariti, Fabrizio De Andrè fra filosofia e conoscenza, Tesi realizzata presso l’Università degli studi di Genova nell’a. a. 2005-2006. A. Tabucchi, De Andrè il trovatore, «L’Unità», 14 dicembre 2004. L. Tibaldi, La poesia per musica di Fabrizio De Andrè, Civitella in Val di Chiana, Zona 2005. IV. Altri riferimenti bibliografici T.W. Adorno, La musica, i media e la critica, Napoli, Tempo lungo 2002. F. De Andrè e A. Gennari, Un destino ridicolo, Torino, Einaudi 1996. Iacopone da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, Roma-Bari, Laterza 1940. F. Liperi, Storia della canzone italiana, Roma, RAI-ERI 1999. 161 Bibliografia Lorenzo de’ Medici, Scritti scelti, a cura di E. Bigi, Torino, Utet 1955. R. Mannerini, Un poeta cieco di rabbia, a cura di C. Pozzani e M. Macario, Liberodiscrivere, Genova 2005. E. L. Masters, Antologia di Spoon River, a cura di F. Pivano, Torino, Einaudi 1993. F. P. Memmo, Dizionario di Metrica Italiana, Roma, Ed. Dell’ateneo 1983. N. Merola, Oltre la prosa. Il posto della poesia nella Modernizzazione, in Aa. Vv., La poesia italiana del secondo Novecento, atti del Convegno di Arcavacata di Rende, 27-29 maggio 2004, a cura di N. Merola, Università degli Studi della Calabria, Rubbettino 2006, pp. 105-126. B. Mortara Garavelli, Manuale di retorica, Milano, Bompiani 2003. P. P. Pasolini, Interviste corsare sulla politica e sulla vita 1955-1975, a cura di M. Gulinucci, Roma, Liberal Atlantide Editoriale 1995. P. P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti 1991. P. P. Pasolini, Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti 1971. M. Pazzaglia, Manuale di Metrica Italiana, Firenze, Sansoni 1990. S. Pivato, La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone italiana, Bologna, il Mulino 2002. G. Plastino, Mediterranean mosaic. Popular music and global sound, New York, Routledge 2003. L. Tolstoi, Che cosa è l’arte?, Milano, Treves 1899. F. Villon, Lascito testamento e poesie diverse, a cura di M. Liborio, Milano, Rizzoli 1990. F. Villon, Poesie, a cura di Luigi De Nardis e con una Prefazione di Fabrizio De Andrè, Milano, Feltrinelli 1996. 162 Bibliografia Discografia essenziale Volume I [1967] Tutti morimmo a stento [1968] Volume III [1968] La buona novella [1970] Non al denaro non all’amore né al cielo [1971] Storia di un impiegato [1973] Canzoni [1974] Volume VIII [1974] Rimini [1978] In concerto. Arrangiamenti PFM. Vol. I [1979] In concerto. Arrangiamenti PFM. Vol. II [1980] Fabrizio De Andrè (Indiano) [1981] Creuza de mä [1984] Le nuvole [1990] Anime salve [1996] 163