L`artigiano della parola: matrici letterarie nell`opera di

UNIVERSITÀDELLACALABRIA
Facoltà di Lettere e Filosofia
Corso di Laurea in Filosofia e Storia delle Idee
Tesi di Laurea
in
Letteratura Italiana
L'artigiano della parola.
Matrici letterarie
nell'opera di Fabrizio De Andrè.
Relatore
Candidato
Ch.mo Prof.
Giovanni BARBERI SQUAROTTI
Anno Accademico 2007 – 2008
Luciano SOLANO
Matr. 96764
… La musica è semplicemente un veicolo attraverso il quale
io ho pensato di esprimere le sensazioni che ho avuto,
addirittura quelle che possono essere le sintesi o le
dilatazioni di fatti e avvenimenti che mi è accaduto di
vedere o di sentire o addirittura di leggere.
Non sono un musicista perché altrimenti mi sarei limitato a
fare della musica, non sono un poeta perché mi sarei
limitato a fare della poesia cioè a scrivere, sono un
cantautore quindi faccio un lavoro composito che ha
bisogno, per arrivare a un tentativo compiuto di espressione,
di ambedue le componenti, quindi sia delle parole che della
musica.
Do più valore alle parole perché mi ci trovo meglio, mi trovo
meglio a scrivere che a comporre. Sono più un paroliere che
musicista.
Come ripeto, la musica per me continua a essere un tram col
quale portare in giro le parole.
Fabrizio De Andrè
1
Indice
pag.
3
Brevi cenni sulla produzione discografica
di Fabrizio De Andrè
»
17
Matrici letterarie dell’opera deandreiana
»
28
II.1 Speculazioni e proposte di analisi sull’opera
di Fabrizio De Andrè
»
43
II.2 Due intellettuali a confronto:
Fabrizio De Andrè e Pier Paolo Pasolini
»
50
III.1 Analisi di alcuni album del cantautore
»
57
III.2 Tutti morimmo a stento (cantata in si minore
per solo, coro e orchestra) [1968]
»
58
III.3 Storia di un impiegato [1973]
»
89
III.4 Le nuvole [1990]
»
120
BIBLIOGRAFIA
»
158
INTRODUZIONE
CAPITOLO PRIMO
I.1
I.2
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
2
Introduzione
Introduzione
La figura di Fabrizio De Andrè è ormai unanimemente
riconosciuta come fondamentale nel panorama musicale italiano degli
ultimi quaranta anni del secolo scorso, ma l’interezza e l’omogeneità
della sua opera rivelano una caratura artistica che va ben al di là di una
seppur notevole produzione discografica.
Questo lavoro di analisi di alcune sue opere ha come obiettivo
proprio quello di porre l’accento sullo spessore culturale che
contraddistingue i lavori del cantautore sin dalle prime composizioni,
fino a giungere al suo unico romanzo, Un destino ridicolo,1 scritto a
quattro mani con lo psicanalista Alessandro Gennari, nel corso degli
ultimi anni della sua vita.
Del resto, non è difficile notare la moltitudine di rimandi
filosofici e letterari ma anche storici presenti in tutte le sue opere.
Alcune di esse poi, sono il frutto di vere e proprie ricerche filologiche;
basti pensare al solo album Creuza de mä, che oggi, a distanza di
venticinque anni ormai dalla data della sua pubblicazione, è ancora al
centro di dibattiti e convegni da parte di linguisti ed etnomusicologi.2
1
F. De Andrè e A. Gennari, Un destino ridicolo, Torino, Einaudi 1996
Su questo vedi: R. Giannoni, Fabrizio De Andrè e i dialetti, in «Il segnale», XVIII (1999), 54,
pp. 21-34; A. Podestà, Un dialetto in sogno e De Andrè si confessa, in «Italiano e oltre», XI
2
3
Introduzione
Non deve allora stupire che, analizzando l’intero corpus delle
opere di un cantautore, si arrivi qui a considerarlo come un
intellettuale e un artista, vale a dire colui il quale, combinando le
peculiarità del proprio pensiero con alcune importanti fonti letterarie,
attraverso una particolare sensibilità estetica e musicale, giunge a
creare un’opera originale dotata di valenza artistica.
A simili conclusioni, anche se in merito a un diverso stile
musicale, giunse, infatti, già un altro intellettuale del secolo scorso,
Theodor W. Adorno che nel suo saggio La musica, i media e la critica
arrivò ad affermare che «I media sono ambienti estetici in cui
avvengono atti estetici (ascoltare, vedere) e in cui lo spettatore/
ascoltatore fa la maggior parte della sua esperienza del mondo».3
Rimanendo sempre in ambito sociologico, riportiamo anche
l’opinione di Marco Santoro, che nel suo articolo La leggerezza
insostenibile4 considera «la canzone come un oggetto culturale» e, a
partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento, «come una
(1996), 3, pp. 138-139; Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana, a cura
di L. Coveri, Novara, Interlinea 1996; L. Coveri, Il dialetto di De Andrè / così familiare, così
estraneo, «Il Secolo XIX», 13 gennaio 1999; G. Plastino, Mediterranean mosaic. Popular music
and global sound, New York, Routledge 2003. Per quanto riguarda i convegni organizzati
recentemente in Italia su questo ed altri temi relativi alle opere di Fabrizio De Andrè rimando al
volume Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, a cura di E. Valdini, Milano, BUR 2007.
3
T.W. Adorno, La musica, i media e la critica, Napoli, Tempo lungo 2002, p. 10.
4
M. Santoro, La leggerezza insostenibile. Genesi del campo della canzone d’autore, in «Rassegna
Italiana di Sociologia», XLI (2000), 2, pp. 189-222.
4
Introduzione
forma artistica di espressione e di comunicazione autonoma, sebbene
socialmente e politicamente rilevante».5 Al suo interno vi è poi la
canzone d’autore quale «genere distinto ed autonomo […], come
categoria estetica». Santoro arriva anche a definire il cantautore come
«una specifica categoria sociale» derivante da un processo di
«costruzione culturale», cosa sulla quale preferisco sorvolare essendo
dell’avviso che non si debbano necessariamente includere, in questo
nostro tipo di analisi, classificazioni riguardanti categorie umane che
spesso sono solamente il frutto di forzature sociologiche.
Al di là di quest’ultimo passaggio, si può comunque
agevolmente comprendere quanto sia oramai svuotata di ogni valenza
critica l’obiezione, purtroppo ancora frequente in ambito accademico,
che vorrebbe la canzone d’autore, con al suo interno anche le opere di
Fabrizio De Andrè, come la sorella minore e “zoppa” della poesia.
A dissipare ogni ragionevole dubbio, qualora se ne sentisse
ancora la necessità, cercherò di riassumere brevemente l’analisi di
Roberto Vecchioni che, proprio su tali questioni, ha tenuto
recentemente dei corsi universitari. Da una sintesi di questi seminari, è
stato ricavato un saggio, La canzone d’autore in Italia, realizzato dallo
5
Ivi, p. 191.
5
Introduzione
stesso cantautore e successivamente inserito nell’aggiornamento
annuale dell’Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti.6 Secondo
Vecchioni, la canzone d’autore7 aggiunge ai due sistemi semantici
preesistenti, il linguaggio poetico e quello musicale, un terzo, dato
dall’interpretazione.8 Quest’ultimo risulta essere fondamentale ai fini
della fusione dei precedenti in un’unità metrica e narrativa inscindibile
che è cosa ben diversa da un loro semplice accostamento.9 Anche per
questo motivo, tale processo genera ovviamente una forma d’arte dal
genere nuovo e autonomo.10
La canzone d’autore – aggiunge Vecchioni - assume dalla
tecnica poetica alcune figure retoriche, metafore, analogie, sinestesie,
ma ne rende più immediata e ‘popolare’ l’intelligibilità e la fruizione,
accorciando le distanze tra i due campi di lettura delle metafore (vero11
traslato) e delle allegorie (simbolo e realtà).
Infine, soffermandosi poi sull’apporto originale di Fabrizio De
Andrè a questa forma d’arte contemporanea, Roberto Vecchioni scrive:
6
R. Vecchioni, La canzone d’autore in Italia, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti.
Appendice 2000, vol. I, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2001, pp. 279-283.
7
È d’uopo far risalire alla seconda metà degli anni Cinquanta l’inizio di tale genere ed attribuirne
la paternità antelitteram al cantautore pugliese Domenico Modugno.
8
Cfr. ivi, p. 279. Su questo vedi anche P. Jachia, La canzone d’autore italiana 1958-1997, Milano,
Feltrinelli 1998, p. 10, dove l’autore inserisce nell’orbita dell’interpretazione vari fattori, quali la
voce, la gestualità, l’arrangiamento, l’esecuzione e gli strumenti musicali utilizzati.
9
Cfr. R.Vecchioni, La canzone d’autore in Italia, cit. , p. 279.
10
Cfr. ibid.
11
Ibid.
6
Introduzione
In Fabrizio De Andrè la parola diventa viaggio […] sostenuta
da un notevole bagaglio di riferimenti letterari. […] in De Andrè il
linguaggio si fa decisamente più astratto e ricco di metafore. […] la
ballata […]costituisce il genere prediletto di questo autore: nessun
altro andamento metrico infatti è più adatto per amplificare e rendere
paradigmatiche le odissee delle minoranze: prostitute, travestiti, civiltà
emarginate da culture tecnologiche, banditi, assassini, rivoluzionari.12
Sono queste le considerazioni principali dalle quali siamo partiti
per affrontare questa nostra analisi: le parole di Vecchioni, ma anche il
parere molti altri insigni studiosi, infatti, lasciano trasparire, quasi, un
senso di reverenza nei confronti di chi, attraverso le sue canzoni, ha
voluto esprimere molto di più di un seppur vasto repertorio di
emozioni.
Fabrizio De Andrè, insieme con alcuni altri suoi colleghi, ha
contribuito, di fatto, alla “sprovincializzazione” e allo svecchiamento
del mondo della canzone e, in una certa misura, osiamo dire, anche
della cultura italiana.
Se è pur vero, infatti, che la canzone, in molti casi, è
principalmente un prodotto di largo consumo, ciò non toglie che essa
può anche, e nel caso di De Andrè soprattutto, soddisfare quel bisogno
di poesia che deriva, essenzialmente, dalla vacanza della stessa poesia
12
Ivi, p. 280.
7
Introduzione
nella vita del popolo italiano. Tale situazione, venutasi a creare
durante la seconda metà del Novecento, fu dovuta, sicuramente, a una
molteplicità di fattori. Sicuramente, una simile questione non può
essere trattata in questa sede in maniera esaustiva, ma corre l’obbligo
di segnalare almeno uno di questi fattori.
La situazione descritta in precedenza ebbe origine, in Italia,
dopo la fine della II Guerra Mondiale, quando la Nazione fu costretta,
dall’esito del conflitto, a “rimboccarsi le maniche” e ricostruire,
socialmente, moralmente, ma anche e soprattutto, fisicamente, il
Paese: allora, figure quali, ad esempio, i poeti, che in altri tempi
ebbero l’onore e l’onere di condurre la popolazione verso prese di
coscienza collettive, si ritrovarono a svolgere il loro lavoro in ambiti
sempre più ristretti e isolati.
Infatti, la crescita esponenziale dell’importanza della sfera
economica, nella vita quotidiana della gente comune e, a livello
macroscopico, dello Stato sociale, lasciò sempre meno spazio ad
attività artistiche non direttamente coinvolte nel suo sviluppo.
Tale stato di cose portò, progressivamente, i poeti, e altre figure
a essi assimilabili, a rifugiarsi, quasi, nella “torre d’avorio”
rappresentata dal mondo accademico; fu proprio in quegli anni e, a
8
Introduzione
nostro parere, come sua diretta conseguenza, che la musica cosiddetta
“leggera”, e in essa la forma canzone, iniziò a espandersi in tutta la
penisola italiana.
Il linguaggio poetico, ricco di artifici letterari che poco si
prestano a una veloce decodificazione, divenne allora sempre più
lontano dalla quotidianità, lasciando un vuoto che sarebbe stato
colmato, di lì a poco, con l’avvento, nel mondo della canzone, di
autori i cui testi, anche se colmi di riferimenti letterari, meglio si
prestavano a una loro facile e veloce fruizione.
La larga e rapidissima diffusione dei nuovi supporti tecnologici,
ovvero i dischi in vinile, sui quali le canzoni venivano incise,
contribuì fortemente a questa “avanzata” della canzone rispetto alla
poesia che, comunque e fortunatamente, non cessò di esistere, anzi
cercò, anche se spesso inutilmente, nuove sperimentazioni e
contaminazioni.
In tal senso, Nicola Merola, in un intervento del 2004 dal titolo
Oltre la prosa. Il posto della poesia nella Modernizzazione, in
occasione di un convegno su La poesia italiana del secondo
Novecento, afferma:
A differenza di quanto sarebbe successo a partire dagli anni
Sessanta, non si era peraltro ancora affacciata la concorrenza, che
9
Introduzione
sarebbe risultata insostenibile, di una comunicazione in versi che fosse
insieme qualitativa, cioè d’autore, e autenticamente popolare, cioè non
intimidita dallo sbarramento della carta stampata e non indotta dalla
scuola. Ci riferiamo ai cosiddetti cantautori e alla canzonetta capace di
accordare sulla musica dell’intrattenimento le parole della sensibilità
contemporanea o solo dell’attualità (ma è potuto avvenire anche il
contrario e che la miracolosa fusione adoperasse la voce del cantante
per ribaltare il rapporto intuitivo tra parole e musica). È tutto tranne
che fantasiosa l’ipotesi che in questo modo venisse soddisfatto un
autentico bisogno di poesia. Non è semmai necessario rispolverare la
formula in nome della quale D’Annunzio si volse al romanzo, per
prendere semplicemente atto che non c’è mai stato prima un così
massiccio investimento di tempo ed energie nell’apprendimento
indiretto, assicurato, da ciascuna a modo suo, ma sempre in nome del
risparmio energetico, da tutte le simulazioni dell’esperienza, in cui
rientrano tanto la poesia, quanto il romanzo e l’universo intero della
fiction contemporanea, ivi compresa, ovviamente la canzone d’autore,
che di questo universo sarà a tutti i titoli la poesia.13
È per questo motivo che abbiamo scelto di analizzare, in questo
nostro lavoro, alcune delle opere di Fabrizio De Andrè, considerando
tale autore, come affermano anche gran parte dei critici di questo
genere musicale e letterario, uno dei maggiori esponenti della canzone
d’autore italiana contemporanea.
13
N. Merola, Oltre la prosa. Il posto della poesia nella Modernizzazione, in La poesia italiana del
secondo Novecento, atti del Convegno della Mod, Società Italiana per lo Studio della Modernità
Letteraria, svoltosi ad Arcavacata di Rende, 27-29 maggio 2004, a cura di N. Merola, Università
degli Studi della Calabria, Rubbettino 2006, pp. 110-111.
10
Introduzione
Inizieremo, nel primo capitolo, con l’accennare per sommi capi
a quella che è stata la sua produzione discografica, facendo
riferimento, quasi esclusivamente, ai suoi album contenenti canzoni,
sino ad allora, inedite; cercheremo, in tal modo, di evitare la
confusione, che spesso si viene a creare in questi casi, dovuta alla
serie innumerevole di ristampe e raccolte antologiche, ufficiali e non,
che le case discografiche continuano, a tutt’oggi, a pubblicare,
snaturando, spesso, il senso di alcuni brani, destinati dall’autore a un
progetto più ampio, che risponde al nome di concept album.
Questo particolare tipo di album, che avremo modo di trattare
più approfonditamente nelle pagine seguenti, caratterizza i lavori di
De Andrè sin dai suoi primi LP, dove l’autore sceglie un tema, da
sviluppare sotto vari aspetti, che caratterizza tutti i brani ivi presenti.
Sempre nel primo capitolo, tratteremo, panoramicamente, il
punto centrale di questo nostro lavoro, in altre parole, i numerosi
riferimenti letterari e filosofici, e anche musicali e interpretativi,
presenti in tutte le opere del cantautore.
Nel secondo capitolo, invece, rintracceremo una delle linee
guida che segna l’intero corpus discografico di Fabrizio De Andrè,
nella fattispecie, la critica nei confronti del potere; partendo proprio da
11
Introduzione
questa, svilupperemo, nello stesso capitolo, un breve ma significativo
confronto con un altro emblematico personaggio del Novecento
italiano, Pier Paolo Pasolini che, come vedremo, ha più di un elemento
in comune con il cantautore genovese.
Nel terzo e ultimo capitolo, infine, analizzeremo nel dettaglio
tre concept album di De Andrè, Tutti morimmo a stento, Storia di un
impiegato e Le nuvole, evidenziando, in ognuna di esse, il modo in cui
l’autore sviluppa la sua critica nei confronti del potere, che risulterà
sempre diversa e originale, nel corso degli anni.
La scelta di appuntare le nostre analisi proprio su questi tre
album è dovuta al fatto che essi, composti in tre momenti differenti
della produzione discografica del cantautore, riflettono, in un certo
qual modo, sia la sua crescente maturità artistica, sia la diversa realtà
sociale, politica e storica nella quale furono generati.
La caratteristica principale di queste tre opere, inoltre, è la loro
organicità e unitarietà, il loro essere concepiti, ognuno, come una sorta
di narrazione con un inizio, uno sviluppo e un finale, in un’ottica
operistica anziché, semplicemente, canzonettistica: tal elemento
distintivo, li rende, appunto, dei concept album.
In essi, molto più che in altri lavori del cantautore genovese, è
12
Introduzione
anche facile rintracciare e delineare quella costante concettuale
costituita dalla critica di De Andrè nei confronti del potere. Ognuna di
queste opere, infatti, indaga dei particolari aspetti del potere,
sviluppando concetti diversi ma tutti riconducibili a esso.
Nel primo, Tutti morimmo a stento, l’autore, attraverso la
narrazione di alcune vicende accomunate dal tema preannunciato nel
titolo, la Morte, sottolinea la totale assenza di pietà dei detentori del
potere, che si manifesta nella scarsa umanità che risiede nelle leggi e
nelle istituzioni, anche di fronte all’estrema dipartita.
Storia di un impiegato, poi, è il più feroce attacco del cantautore
nei confronti del potere, narrato attraverso la vicenda di un uomo che,
da semplice impiegato, si tramuta in un pericoloso rivoluzionario,
inconsapevolmente guidato, però, dal potere stesso che proprio grazie
alle sue gesta, tanto eversive quanto inutili, si rinnova.
Nell’album Le nuvole, infine, De Andrè divide la sua narrazione
in due parti: nella prima di esse, l’autore fotografa, con amara ironia,
alcune figure che si avvicendano nei diversi luoghi di potere,
all’indomani di quella svolta epocale rappresentata dall’abbattimento
del Muro di Berlino, ovvero, dall’annientamento del regime comunista
sovietico; la seconda parte di quest’opera, invece, mira a descrivere,
13
Introduzione
anche attraverso la scelta dell’uso di alcuni dialetti, il popolo che,
nelle sue vicissitudini quotidiane, il potere, è solo costretto a subirlo.
Abbiamo
cercato,
inoltre,
di
accostarci
a
tali
opere
esaminandone, soprattutto, i diversi riferimenti letterari in esse
contenuti. Il motivo di questa scelta è da ricercarsi nella rarità,
all’interno dell’enorme mole di libri dedicati a Fabrizio De Andrè che
aumenta di anno in anno, di approfonditi studi specifici di questo
aspetto.
La letteratura che ha come oggetto la figura del cantautore
Fabrizio De Andrè, risente, ovviamente, delle leggi di mercato che
vedono, ma soprattutto vogliono far vedere agli altri, in questo, come
in altri suoi colleghi, principalmente il “divo”, la star: innumerevoli
sono state, conseguentemente, le sue biografie con, al loro interno,
approssimative e frettolose rassegne delle sue canzoni.
Negli ultimi anni, però, sembra esserci stata una vera e propria
inversione di tale tendenza, e sempre più studiosi, oltre che estimatori,
si sono cimentati in analisi diverse, delle opere di questo cantautore
genovese, con risultati, a volte, eccellenti.
Uno di questi è, sicuramente, Roberto Cotroneo che in Una
smisurata preghiera, saggio introduttivo a un’antologia dei testi del
14
Introduzione
cantautore genovese, si pone, analogamente a quello che è il fine di
questo nostro lavoro, un problema di metodo, ricercando un approccio
all’opera di Fabrizio De Andrè diverso da quello comunemente usato
nei libri dedicati a un cantautore:
Forse è un discorso sul metodo. Forse qualcosa di più. Non si
riesce a citare, in una introduzione a un libro che raccoglie testi di
canzoni, parti di testo senza avere la sensazione di entrare in un’altra
dimensione, che non è più critica e letteraria - come in questo caso ha
da essere – ma appartiene alla memoria, a un tempo della vita. Questo
di norma non accade con la poesia. Dove il rapporto con il tempo è
meno immediato, più filtrato. Citare qui le parole di De Andrè, si pensi
alla Canzone dell’amore perduto, o al Suonatore Jones, vuol dire
catapultare il lettore che le conosce in una dimensione emotiva che
prescinde dal testo, e lo sposta in un momento diverso, forse in un
luogo altro. Questo non è un limite, ma semmai è un punto di forza. Per
quanto la poesia si sforzi non ottiene lo stesso risultato perché non
appartiene a tutti, non accompagna generazioni, non chiarisce periodi
della vita. La musica veicola le emozioni aggiungendo – come un
paratesto ingombrante e formidabile – senso al senso. Se qui penso alla
musica come fosse un paratesto so che sto entrando in un terreno
minato, su cui non si finirà mai di polemizzare, ma questo è davvero un
discorso sul metodo. E porsi, per la prima volta con serietà, il problema
di mettere in un libro una parte di lavoro di un poeta come De Andrè
vuol dire sapere che la musica è una metà che aggiunge significato,
talvolta in modo persino ingombrante. Allora un passo indietro: i testi ci
15
Introduzione
sono, qui li si accompagna in una tonalità diversa da quella musicale,
cercando di riprodurre la stessa precisione di una partitura.14
Condividiamo pienamente il pensiero e i fini perseguiti da
Cotroneo. Con la nostra ricerca, infatti, ci prefiggiamo l’obiettivo di
analizzare quelle che sono state le diverse fonti alle quali Fabrizio De
Andrè attinse per concepire le sue opere, cercando di dimostrare come
esse, naturalmente, variarono nel trascorrere del tempo e nella
maturazione dell’artista che, col passare degli anni, acquistò sempre
maggior esperienza e originalità nell’amalgamarle, fondendole con le
sue considerazioni ed esperienze personali.
Il presente lavoro, infine, lungi dall’esser stato concepito come
un discorso esaustivo sull’intera opera deandreiana, ma anche
orgoglioso della palese diversità rispetto al gran numero di volumi
sulla vita e le esperienze di Fabrizio De Andrè, vuole solamente porre
su un tavolo accademico, al pari dei grandi poeti e romanzieri del
passato, una discussione sulla figura di questo cantautore genovese,
rilevandone la valenza artistica delle opere, costituita dalla parte
musicale, certo, ma principalmente dalla elevata caratura poetica e
culturale.
14
R. Cotroneo, Una smisurata preghiera, in Come un’anomalia: tutte le canzoni di Fabrizio De
Andrè, Torino, Einaudi 2000, pp.XIV-XV.
16
Capitolo Primo
CAPITOLO PRIMO
I.1 Brevi cenni sulla produzione discografica
di Fabrizio De Andrè
La produzione discografica di Fabrizio de Andrè ha inizio nel
1960 con il suo primo 45 giri Nuvole barocche, sul lato B del quale vi
era incisa anche E fu la notte. Ne seguiranno altri trentadue fino al
1975, distribuiti da diverse “etichette”. Osservando proprio il primo
cambiamento di casa discografica operato dall’artista genovese, si può
notare in nuce la sua volontà di realizzare degli album di tipo nuovo,
con una loro omogeneità di argomenti e un vero e proprio Leitmotiv
testuale e, successivamente, anche musicale.
A questo punto è indispensabile un veloce chiarimento sulla
situazione nella quale versava la canzone italiana alla fine degli anni
Cinquanta del secolo scorso. Il mondo della canzone del Secondo
Dopoguerra viveva ancora di retaggi musicali ereditati dal passato.
Tra questi la principale era senz’altro la romanza ottocentesca,
caratterizzata dalle ariose armonie basate sulle grandi opere liriche del
passato; d’altro canto però iniziavano anche ad affacciarsi sul
17
Capitolo Primo
panorama musicale mediterraneo, seppur ancor timidamente per la
verità, anche alcuni nuovi ritmi americani quali il jazz e il rock che
fino ad allora erano quasi banditi dalla nostra penisola.
Dal punto di vista discografico, sopravvivevano ancora i vecchi
78 giri, ma la maggior parte della produzione si basava ora sui 45 giri,
di dimensioni e peso molto ridotti rispetto ai primi e contenenti un
solo brano per ognuna delle due facciate. I 33 giri, album o long
playing che dir si voglia, rappresentavano allora la vera novità: di
dimensioni maggiori rispetto ai 45 ma composti del loro stesso
materiale, più leggero rispetto ai 78, vantavano la possibilità di
racchiudere più brani tra i loro solchi. Proprio per tale potenzialità, nel
giro di una decina d’anni, gli album arrivano a essere la principale
forma discografica in commercio.
La prima importante scelta stilistica e allo stesso tempo
funzionale al già citato progetto di omogeneità delle sue opere,
Fabrizio De Andrè la attua nel passaggio dalla Karim, prima e piccola
etichetta discografica che nota il cantante in un caffé-teatro genovese
durante una delle sue primissime esibizioni di fronte a un pubblico,
alla Bluebell Records.15 Questo primo passaggio dell’autore è molto
15
La produzione discografica successiva di Fabrizio De Andrè comprenderà in tutto una decina di
case discografiche e relative etichette ma questo esula dalla nostra analisi che si limiterà,
18
Capitolo Primo
significativo perché avviene in seguito all’uscita del primissimo album
di Fabrizio De Andrè, che altro non era se non la raccolta dei suoi
pezzi già in circolazione singolarmente su 45 giri.
La mancata approvazione dell’autore di questa scelta della
Karim significò la sua uscita dalla stessa casa discografica e gli
strascichi giudiziari tra i due che durarono alcuni anni. Oltre a questo,
per rimarcare ancor di più la sua posizione di disaccordo sull’uscita di
quel primo album, la sua opera successiva, distribuita nel 1967 dal
nuovo produttore ovvero la Bluebell Records, avrà come titolo
Volume I.
Fabrizio De Andrè ricorrerà ancora a questo espediente altre
due volte nel corso della sua carriera, oltre che per delle scelte
stilistiche e contenutistiche, anche per prendere le distanze dalle varie
raccolte e antologie non autorizzate dei suoi brani che, nel corso degli
anni, saranno pubblicate da diverse etichette.16
prevalentemente, allo studio di alcune delle opere dell’artista genovese dal punto di vista estetico e
letterario soprattutto, con degli accenni al fattore musicale e a quello interpretativo. Si tralascia
volutamente, in questa sede, la sua storia personale e discografica, dal punto di vista tecnico,
perché già da altri, forse troppi riguardo alla prima delle due, abbondantemente trattata; ci
riserviamo comunque di segnalare, nei riferimenti bibliografici, tutte le fonti in nostro possesso in
modo di poter agevolare altri eventuali approfondimenti.
16
Questa ricerca, lontana come accennavamo poco prima da eventuali pretese di completezza
riguardo alla figura di questo artista, prenderà in considerazione i suoi seguenti tredici album,
escludendo naturalmente le varie collaborazioni non direttamente collegate a questi, gli album
registrati durante i concerti, le antologie ed altri lavori minori: Volume I, Tutti morimmo a stento,
Volume III, La buona novella, Non al denaro non all’amore né al cielo, Storia di un impiegato,
Canzoni, Volume VIII, Rimini, Fabrizio De Andrè (Indiano), Creuza de mä, Le nuvole, Anime
salve.
19
Capitolo Primo
Queste prese di posizione da parte dell’autore, ben lungi
dall’essere da noi interpretate come delle ripicche d’artista, si possono
comprendere pienamente e definitivamente solo alla luce del suo
successivo lavoro, datato 1968, dal titolo Tutti morimmo a stento
(cantata in si minore per solo, coro e orchestra) e che può
considerarsi a pieno titolo il primo disco a tema, o concept album,
della discografia italiana.
La particolarità di questo LP la si riscontra immediatamente,
oltre che nel sottotitolo, nel leggere anche i titoli dei brani che lo
costituiscono: risulta infatti che i vari pezzi, tra i quali non vi sono
aggiunte pause come invece si era soliti fare in un qualsiasi altro
album di canzoni, sono uniti tra loro da tre Intermezzi che fanno quasi
da collante all’intera opera.
La stessa è tutta e «programmaticamente dedicata a riflettere
sulle varie forme e i vari modi con cui si può o si deve lasciare questa
terra»,17 come si potrebbe intuire sin dal titolo; sarebbe riduttivo allora
definire questo lavoro come una raccolta di canzoni: più appropriata ci
sembra la definizione di «poema dell’infelicità umana».18 Il tema della
17
18
P. Ghezzi, Il vangelo secondo De Andrè, Milano, Àncora 2003, p. 108.
G. Baldazzi, L. Clarotti e A. Rocco, I nostri cantautori, Bologna, Thelma Editore 1990, p. 108.
20
Capitolo Primo
Morte non era nuovo nei componimenti di Fabrizio De Andrè e sarà
da lui ripreso più volte negli album che seguiranno.
Dello stesso anno è anche Senza orario senza bandiera, altro
concept album nel quale però Fabrizio De Andrè compare solo come
autore. Il long playing è inciso, infatti, da un gruppo di giovani
musicisti genovesi, i New Trolls. Questa opera, spesso tralasciata da
chi si occupa dei lavori del cantautore ligure, meriterebbe invece di
essere analizzata al pari di altre sue realizzazioni e con essi, magari,
confrontarla. Molti sono, infatti, i punti in comune tra questa e altre
opere coeve dello stesso De Andrè come i suoi collaboratori, Riccardo
Mannerini e Giampiero Reverberi in primis e lo spunto poetico di
partenza, analogo a quello dell’album Non al denaro non all’amore né
al cielo.
Nel disco successivo, Volume III, l’autore riprende alcune sue
vecchie composizioni, come La canzone di Marinella, che grazie
anche all’interpretazione di Mina tanto successo portò nel frattempo al
cantautore, accostandole a delle nuove composizioni.
La piena maturità artistica Fabrizio De Andrè la raggiunge nel
1970, ritornando alla forma dell’album monotematico, con La buona
novella dove l’autore, nella stesura dei testi, punta a una sorta di
21
Capitolo Primo
umanizzazione della figura del Cristo e dei personaggi a lui più vicini.
Proprio a tal fine, De Andrè utilizza come fonti per questo lavoro i
Vangeli Apocrifi, in contrapposizione a quelli canonici.
Quello dell’anno seguente è ancora un album a tema, tratto
questa volta da una raccolta di poesie, l’Antologia di Spoon River, di
Edgar Lee Masters, poeta statunitense d’inizio Novecento. Il titolo
dell’album è Non al denaro non all’amore né al cielo.
Il lavoro successivo, Storia di un impiegato, è del 1973. Per una
sintetica descrizione di questo LP ci affidiamo a una lucida analisi
presente nel libro I nostri cantautori:
Narra le vicende di “un borghese piccolo piccolo”. Infiammato
d’un tratto dalle idee rivoluzionarie sogna una rivoluzione che lo liberi
dal grigiore della sua vita e crede di risolvere il problema con le
bombe. Quando si trova in prigione si rende conto di non essere il solo
a soffrire […] . Con questo LP Fabrizio De Andrè ferma nel tempo un
periodo problematico della nostra storia recente e lo esamina in
controluce con una certa crudeltà.19
Nei due album successivi, l’autore, ritorna alla forma classica di
LP come “raccolta di canzoni”. Nel primo, Canzoni appunto,20
rielabora alcune sue vecchie composizioni, mentre in Volume VIII si
19
Op. cit. , p. 116.
Come si può notare, anche la scelta del titolo, banale di per sé, risponde ad una precisa scelta
stilistica e programmatica dell’autore.
20
22
Capitolo Primo
avvale della collaborazione di un giovane cantautore che stava già
facendosi notare grazie si suoi testi anticonformisti e densi di metafore
e simbologie: Francesco De Gregori.
Questo “ottavo capitolo” del corpus di opere di De Andrè,
segna quasi un passaggio epocale nell’ambito della canzone d’autore,
come sottolinea Doriano Fasoli all’interno del suo libro dedicato al
cantautore genovese:
Volume VIII segna una tappa nell’evoluzione linguistica della canzone
italiana degli anni Settanta. I due cantautori lavorano nella direzione di una poesia
cantata, il cui ritmo, scandito dalle parole, dai giochi delle frasi, dai percorsi
inconsueti del linguaggio, si realizza in un tipo di struttura musicale nuova e
aperta.21
Nello stesso periodo Fabrizio De Andrè decide di acquistare un
appezzamento in Gallura, in Sardegna, per la fondazione di
un’azienda agricola. Questa scelta, ricaduta precisamente sulla tenuta
dell’Agnata, ubicata nella zona di Tempio Pausania, potrebbe apparire
irrilevante ai fini della nostra ricerca ma essa determina, invece, una
svolta fondamentale per la successiva produzione artistica dell’autore.
Tutto ciò si può evincerlo già dall’album del 1978, Rimini, nel quale
21
D. Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo. Da Carlo Martello a Prinçesa, Milano,
Edizioni Associate 2001, p. 201.
23
Capitolo Primo
De Andrè «volge lo sguardo verso un mondo diverso, quello delle
etnie, siano esse lontane [gli indiani d’America], o vicine [i pastori
sardi]».22
L’album l’Indiano,23 datato 1981, riprende le atmosfere del
precedente, ampliandole e sviluppandole coerentemente. Sempre in
questo nuovo lavoro, l’autore trova modo di raccontare l’avventura del
suo rapimento, avvenuto in Sardegna nel 1979, nel brano Hotel
Supramonte. «In questo album – come riferisce ancora Felice Liperi
nella sua Storia della canzone italiana – l’attenzione verso nuovi
mondi si somma a quella nei confronti dell’ambiente naturale, dove i
tempi sono dettati dall’uomo a contatto con l’ambiente che lo
circonda».24
Nei tre anni successivi Fabrizio De Andrè si dedica a un
progetto legato alla riscoperta delle radici etniche aventi come filo
conduttore il bacino del Mediterraneo. Il lavoro prende corpo in
Creuza de mä, un album che supera lo stesso concetto di disco a tema
per divenire «un flusso continuo di suoni strumentali e vocali».25 La
22
F. Liperi, Storia della canzone italiana, Roma, RAI-ERI 1999, p. 245.
In effetti il titolo è assente e viene quindi indicato convenzionalmente con il nome completo
dell’autore, ma la dicitura sopra indicata gli viene attribuita dall’immediatezza del significato della
foto di copertina, una riproduzione di un dipinto di Remington, che ritrae appunto un pellerossa a
cavallo.
24
Storia della canzone italiana, cit. , p. 246.
25
Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo …, cit. , p. 233.
23
24
Capitolo Primo
lingua di cui si serve è un genovese antico, quasi ricostruito
dall’autore, che grazie ai circa duemila vocaboli importati soprattutto
a scopi commerciali e marittimi dal mondo arabo ben si sposa con gli
strumenti etnici usati durante l’incisione del disco.
Da questo momento in poi la critica, discografica e
letteraria, sarà unanime nel riconoscere a Fabrizio De Andrè il
merito di aver elevato la canzone a un livello più alto di un
semplice prodotto di rapido consumo. Del resto, le implicazioni
filologiche, letterarie e antropologiche sono, in questo ultimo
lavoro, più che mai evidenti.
I ritmi discografici dell’autore si fanno ora più lenti tanto
che il nuovo long playing, Le nuvole, penultimo suo album di pezzi
inediti, dovrà attendere il 1990 per vedere la luce. L’idea di questo
disco, di chiara matrice aristofanea, nasce dalla riflessione di De
Andrè sulla futilità dei nostri tempi, dove Le nuvole rappresentano i
detentori del potere che con la loro arrogante supremazia impediscono
al popolo di poter contemplare il cielo.
In questo disco la presenza etnica, seppur rilevante, si stempera
nel recupero di un’antica passione del cantautore per gli aspetti più
surreali e grotteschi; diviene anzi funzionale al progetto dell’autore.
25
Capitolo Primo
L’album è, infatti, diviso in due parti: la prima, cantata soprattutto in
lingua italiana, tratteggia Le nuvole ovvero i detentori del potere,
mentre la seconda, dove invece sono usati alcuni strumenti e dialetti di
diverse etnie mediterranee, ritrae personaggi, situazioni e sentimenti
popolari.
Ad altri sei anni di distanza, nel 1996 quindi, Fabrizio De Andrè
incide il suo ultimo album “da studio”: Anime Salve. Il disco affronta
le tematiche legate al disagio, alla sofferenza e ai soprusi subiti
quotidianamente dalle minoranze, dagli emarginati, siano esse singole
persone o intere comunità. A chiarire meglio questo concetto è lo
stesso De Andrè in una dichiarazione riportata da Fasoli all’interno del
suo libro:26
Oggi maggioranza ha un significato numerico, ma deriva dal
termine latino maior, che al plurale fa maiores. I maiores nel mondo
latino erano coloro che detenevano i privilegi ed esercitavano
l’autorità e il potere. Oggi questi maiores sono diminuiti di numero,
ma la loro diminuzione è direttamente proporzionale all’aumento in
loro favore dei privilegi, dell’autorità, del potere, (ormai) pressoché
illimitati […]. I minores saremmo poi tutti noi al di là del mestiere che
facciamo. Credo che la gente si sia per questo identificata con le
minoranze emarginate, le protagoniste di Anime salve.
26
Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo…, cit. , p. 272.
26
Capitolo Primo
Un altro importante particolare è costituito dal titolo dell’opera
che, come spiega ancora l’autore, «si rifà all’etimo delle due parole,
“anima” e “salvo”, e vuole mantenere il significato originario di
“spirito solitario”».27
L’album, in assoluto il più premiato di tutta la produzione
dell’artista, ottiene vari riconoscimenti: dal Gilberto Giovi al premio
speciale della giuria al Piero Ciampi, fino ai titoli di “miglior album
dell’anno” e “miglior canzone”, Prinçesa, ottenuti alla rassegna sulla
canzone d’autore organizzata annualmente a Sanremo, parallelamente
al più famoso Festival, dal Club Tenco.28
Nell’anno seguente viene dato alle stampe l’unico romanzo di
Fabrizio De Andrè, Un destino ridicolo,29 scritto nei mesi precedenti
con Alessandro Gennari, psicanalista mantovano appassionato di
letteratura e già premiato nel 1995 con il premio Bagutta per il suo
precedente libro Le ragioni del sangue.
27
Ivi, p. 74.
Il Club Tenco organizza, ormai da alcuni anni, anche convegni sulla canzone d’autore,
raccogliendone gli interventi in volumi di estremo interesse per chi si occupa di tali questioni. Due
di queste raccolte sono: La tradotta. Storia di canzoni amate e tradite, a cura di E. De Angelis e S.
S. Sacchi, Civitella in Val di Chiana, Zona 2003; L’anima dei poeti: quando la canzone incontra
la letteratura, a cura di E. De Angelis e S. S. Sacchi, Civitella in Val di Chiana, Zona 2004.
29
F. De Andrè e A. Gennari, Un destino ridicolo, cit.
28
27
Capitolo Primo
Dopo questi ultimi lavori Fabrizio De Andrè si dedica a quello
che sarà il suo ultimo giro di concerti. Sarà, infatti, costretto a
interromperlo alla fine dell’estate del 1998 a causa di quel male
incurabile ai polmoni che, all’alba del nuovo anno, stroncherà la sua
vita e la sua carriera.
I.2
Matrici letterarie dell’opera deandreiana
La poetica presente nei testi di Fabrizio De Andrè è densa di
riferimenti letterari. Sono presenti, particolarmente nei primi tre
album, ad esempio, retaggi delle sue letture giovanili, dove
preponderante era la presenza di filosofi e romanzieri legati
all’anarchismo classico del filone collettivista e comunista, come
Michail Bakunin, Petr Kropotkin ed Elisée Redus.
Un’altra figura, anch’essa centrale nella formazione politica e
letteraria di De Andrè, è quella del filosofo Max Stirner, sempre
legato all’ideologia anarchica ma individualista. Tale nome è
solamente uno pseudonimo: il nome vero di questo autore è Johann
Kaspar Schmidt. Egli, nato nel 1806 e morto cinquanta anni dopo,
pose,
in
contrapposizione
all’universalismo
hegeliano,
il
riconoscimento dell’individuo come unica realtà e unico valore della
28
Capitolo Primo
storia. Le sue posizioni influenzarono il dibattito filosofico
sull’anarchismo della seconda metà del XIX secolo.
Proseguendo su questa linea troviamo anche delle tracce di altri
autori come Steinbeck, Dostoevskij ed Henry Thoreau, fino ad
arrivare a quello che possiamo considerare il più equilibrato, chiaro e
moderno degli anarchici italiani: Errico Malatesta. Non mancano,
com’è ovvio, alcuni riferimenti a poeti italiani quali Montale,
Ungaretti e Umberto Saba.
Non è solamente la modernità però a ispirare il cantautore sin
dai suoi esordi: molte sono, infatti, le attenzioni che egli rivolge all’età
medievale e che si potrebbero riassumere qui in quattro punti
fondamentali.30
Il primo di questi è costituito dalle forme metriche adottate, in
particolare quelle della ballata, che Fabrizio De Andrè non rinuncia, a
30
Interessante, in questo senso, è l’analisi proposta da Antonio Tabucchi in una sua lezione tenuta
presso l’università di Siena il 13 dicembre 2004 nell’àmbito del convegno Fabrizio De Andrè e il
mito di Spoon River, pubblicata su «L’Unità», 14 dicembre 2004 col titolo De Andrè il trovatore e
inserita successivamente, col titolo Quando un’epigrafe diventa racconto, nel volume Volammo
davvero. Un dialogo ininterrotto, cit. , pp. 130-135. Partendo proprio da quest’analisi cercheremo
di sviluppare questi agganci, costituiti a volte dalla ripresa di alcuni schemi metrici ma più spesso
anche solo da dei richiami culturali, che le opere di Fabrizio De Andrè hanno con la tradizione
poetica occidentale.
29
Capitolo Primo
volte, a porre in evidenza già nei titoli delle sue composizioni.31 Dalle
parole di Tabucchi poi, apprendiamo che:
Un’altra ballata che invece nel titolo originale di De Andrè si
chiama «canzone» è La canzone di Marinella, anch’essa riconducibile
allo schema metrico e strofico della ballata classica, di quella
codificata addirittura nel Quattrocento e poi nell’umanesimo
fiorentino. Prendiamola ad esempio. La canzone di Marinella è una
ballata classica in endecasillabi e settenari organizzati in un ritornello
di quattro versi a rima baciata che era una sorta d’introduzione per il
coro danzante. Nello schema originale seguivano una o più stanze
affidate alla voce del solista, dove poi si distinguono due o più piedi a
rima varia in cui la prima rima riprende quella dell’ultimo piede della
stanza. Mentre l’ultima rima riprende la rima finale del ritornello.
Ebbene, ho trovato una ballata del Poliziano che coincide col modello
classico tipico de La canzone di Marinella di De Andrè.32
La ballata alla quale il Tabucchi si riferisce, è la Canzone a
ballo CII tratta dalle Rime di Angelo Poliziano:
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino
Di mezzo maggio in un verde giardino.
Erano intorno vïolette e gigli,
fra l’erba verde, e vaghi fior' novelli,
azzurri, gialli, candidi e vermigli:
ond'io porsi la mano a côr di quelli…
31
Pensiamo ad esempio ai brani La ballata dell’eroe e La ballata del Miché, entrambi inseriti
dall’autore nell’opera Volume III del 1968, che, se anche non rispettano fedelmente le
caratteristiche metriche della ballata, vi si rifanno almeno come per una falsariga.
32
Tabucchi, Quando un’epigrafe diventa racconto, cit. , p. 131.
30
Capitolo Primo
Continuando nella sua esposizione, Tabucchi, introduce poi
un’altra forma utilizzata a volte come punto di riferimento da Fabrizio
De Andrè nella costruzione dei suoi testi, ovvero quella che Dante
Alighieri considerò la più illustre delle forme liriche: la canzone. Di
questo tipo di componimento, dapprima usato dai trovatori provenzali
ma che gli Stilnovisti ripreso successivamente dai rimatori della
“scuola Siciliana”, esistono non poche varianti, dal punto di vista, ad
esempio, della tematica.
Veniamo così al secondo punto in questione, che riguarda le
ambientazioni e i temi che il cantautore prende a prestito,
naturalmente attualizzandoli, dal mondo medievale. Alcune varianti
della canzone, dicevamo, riguardano le tematiche affrontate nel testo,
come la canzone “d’alba” o chanson d’aube, che affronta il distacco
dell’uomo dalla donna amata e che Fabrizio De Andrè utilizza in uno
dei suoi primissimi pezzi: La ballata del Miché.33 Un altro dei filoni
tipici della grande tradizione poetica provenzale e italiana è quella che
viene chiamata canzone “della tela” o chanson de toile, che ritroviamo
in Fila la lana,34 composizione, questa, che l’autore recupera, non a
caso quindi, dalla tradizione popolare francese del XV secolo.
33
34
Cfr. ivi, p. 132.
Cfr. ivi, p. 133.
31
Capitolo Primo
Oltre a questi modelli che appartengono alla tradizione colta
della nostra poesia, ve ne sono anche altri legati maggiormente alla
cultura popolare; a uno di questi fa cenno ancora Tabucchi nel finale
del suo intervento:
Infine la chanson d’histoire. Che cos’era? Una canzone in musica, una
poesia che parlava della storia. Quale? La grande e piccola, quella collettiva che
prendeva in esame gli eventi che la storia porta con sé (guerre, carestie) ma anche
i piccoli eventi personali che accadono a ciascuno di noi e che, messi insieme,
formano comunque la grande storia. Così sarà per l’Antologia di Spoon River e
per l’album Non al denaro non all’amore né al cielo. De Andrè ne compone una
[canzone] che si chiama Delitto di paese. […] È la poesia che diventa narrativa,
un elemento fondamentale di tutta la poesia del tardo Novecento. […] in presenza
di Fabrizio De Andrè ci troviamo di fronte a un grande autore moderno, un
trovatore nel senso più nobile della parola.35
Il terzo aggancio con la tradizione culturale occidentale,
presente nelle opere dell’autore genovese, è costituito dall’impiego, in
principio in sede di registrazione dei pezzi e in seguito anche nei suoi
concerti, di molti strumenti musicali legati alla tradizione popolare e
35
Ivi, pp. 134-135. Possiamo anche considerare appartenenti a questo modello, oltre ad un gran
numero di singole canzoni composte da De Andrè, anche alcuni altri album come, ad esempio,
Storia di un impiegato del 1973.
32
Capitolo Primo
alla musica “colta” dei secoli passati. Tra gli altri, si possono udire
nelle sue canzoni i suoni armoniosi del clavicembalo, del corno
francese, del liuto, dell’organo a canne ed anche della fisarmonica;
questi strumenti offrono al cantautore delle affascinanti e inconsuete
soluzioni timbriche che ben si coniugano alla sua voce calda e pulita.
Il quarto e ultimo punto da trattare, per quanto riguarda gli
spunti che Fabrizio De Andrè ricava dall’età “di mezzo”, riguarda
direttamente i poeti. Oltre all’adattamento musicale che il cantautore
compie su un sonetto di Cecco Angiolieri,36 i rimandi espliciti, in
questo
caso,
si
possono
riassumere
particolarmente
e
significativamente in un nome: François de Montcorbier, meglio noto
come François Villon.37
Poeta e avventuriero francese, Villon condusse, nella metà del
XV secolo, un’esistenza alquanto tormentata fino al punto di salvarsi
da ben due condanne capitali. Propri di questo autore, inserito a pieno
titolo nella tradizione poetica d’Oltralpe dell’Alto Medioevo, sono
alcuni tratti stilistici presenti in tutte le sue opere: l’alta cifra
espressiva e una singolare intensità di passione, ad esempio, che
36
Si tratta del sonetto S’i’ fosse foco che il cantautore inserisce nell’album Volume III del 1968.
Tratteremo un poco più approfonditamente questo controverso poeta in uno dei capitoli
successivi dedicato interamente all’analisi dell’album Tutti morimmo a stento, opera che Fabrizio
De Andrè realizza nel 1968 e nella quale compare La ballata degli impiccati, un brano ispirato
proprio ad una poesia del francese.
37
33
Capitolo Primo
furono in lui sublimate dalle situazioni estreme nelle quali spesso si
trovò a destreggiarsi. L’interesse e la passione di Fabrizio De Andrè
nei confronti di questo autore non si esauriranno con il passare degli
anni: nel 1996, infatti, firmerà una Prefazione per una raccolta di
poesie di François Villon pubblicata da Feltrinelli.38
Altra fonte dalla quale il cantautore genovese attinge a piene
mani, anche in questo caso sin dalle sue prime canzoni, è la
generazione esistenzialista francese del Secondo Dopoguerra. Già
negli anni Trenta, infatti, la Francia era stata teatro di collaborazioni
organiche tra il mondo della canzone d’autore e l’universo
accademico della poesia e della letteratura. Si possono citare, tra gli
altri, i nomi di Prévert e Cocteau, per dare l’idea di quanto fosse
diversa, allora come per molti aspetti anche oggi, la situazione nei
territori d’Oltralpe rispetto alla nostra Nazione.
Di questa forma di sinergia delle arti non v’è traccia in Italia
almeno fino alle collaborazioni di alcuni scrittori e poeti, del calibro di
Franco Fortini, Italo Calvino e altri, che diedero un importante
contributo a quel gruppo, fondato a Torino nel 1957 da Fausto
Amodei, Sergio Liberovici e Michele Straniero, noto col nome di
38
F. Villon, Poesie, a cura di Luigi De Nardis e con una Prefazione di Fabrizio De Andrè, Milano,
Feltrinelli 1996.
34
Capitolo Primo
Cantacronache. L’esperienza torinese, ricalcata sulle orme di quella
francese e operante solo fino al 1963, non divenne mai però una vera e
propria “scuola” o corrente autonoma e originale.
Senz’altro più duraturi sono stati gli apporti dati da Roberto
Roversi, fin dagli anni Settanta, all’opera di Lucio Dalla e da Manlio
Sgalambro alle più recenti composizioni di Franco Battiato; ma questi
e altri sporadici episodi non possono certo paragonarsi alla
concentrazione d’intellettuali di spicco del panorama culturale,
compreso naturalmente il settore musicale, che subito dopo la fine
della II Guerra Mondiale affollarono le caves del quartiere latino a
Parigi, dando vita a una stagione di poesia che ancora oggi viene
studiata, analizzata e apprezzata non solo da giornalisti e musicologi.39
Così, mentre in Italia il panorama canoro era dominato dalle
melodie intonate da Nilla Pizzi e Luciano Tajoli, verosimilmente
nell’ambito dell’annuale appuntamento del Festival della Canzone
Italiana che continua ancora oggi a svolgersi a Sanremo, e dalle
“marcette” del maestro Fragna, una per tutte I pompieri di Viggiù, in
Francia cantanti come Juliette Gréco, Yves Montand ed Edith Piaf
interpretavano testi di Jean-Paul Sartre e Raymond Queneau. Nello
39
Cfr. S. Pivato, Introduzione, in Id. , La storia leggera. L’uso pubblico della storia nella canzone
italiana, Bologna, il Mulino 2002, p. 20.
35
Capitolo Primo
stesso contesto, riscuotevano i primi successi anche altri chansonnier
di poco più giovani rispetto ai precedenti: Jacques Brel, Boris Vian,
Léo Ferré e Jean Ferrat i nomi più significativi.40
Un altro cantautore d’Oltralpe, di pari grandezza stilistica,
polarizza però l’interesse di Fabrizio De Andrè sin dalla sua
adolescenza: il suo nome è Georges Brassens. Nato nel 1921 e morto
sessant’anni dopo nella stessa città, Séte, che diede i natali anche a
Paul Valery, questo autore, al quale l’Académie Française conferirà il
Grand Prix de Poésie del 1967, influenza moltissimo l’opera del
cantautore genovese. Dal suo repertorio, infatti, De Andrè apprende
come utilizzare dei ritmi popolareschi come la giava, il valzer o la
tarantella, sposandoli a dei testi profondi e dando loro, in tal modo,
quella leggerezza che permette di renderli comprensibili e piacevoli
anche a un pubblico non intellettuale; oltre a ciò, traduce e interpreta
sei suoi brani e da almeno altri due trae degli spunti importanti per
delle sue composizioni originali.41
Altri due cantautori, questa volta d’oltreoceano, entrano a far
parte dell’orizzonte musicale nel quale si muove Fabrizio De Andrè
40
Cfr. Ivi, p. 81.
Su questo vedi La tradotta…, cit. , ma anche l’articolo, e relativa bibliografia, Tra Lerici e
Turbìa. Fabrizio De Andrè e Georges Brassens di Franco Arato, in «Belfagor», LIV (1999), 6, pp.
735-740.
41
36
Capitolo Primo
sebbene per un breve periodo e con minore intensità rispetto al caso
precedente. Si tratta dell’autore canadese Leonard Cohen e dello
statunitense Bob Dylan, che molti considerano il nome più celebre
della popular music della seconda metà del Novecento. L’opera di
questi due folk singer confluisce in quella dell’autore genovese solo a
metà degli anni Settanta e, significativamente, proprio durante la sua
collaborazione col giovane Francesco De Gregori.
Prima però delle influenze americane e successivamente a
quelle d’Oltralpe, Fabrizio De Andrè volge quella che oramai
possiamo definire la sua ricerca verso due testi in particolare, molto
diversi ma entrambi importantissimi.
Il primo di questi lavori, La buona novella, è infatti basato sui
Vangeli Apocrifi, scritti tra il I e il IV secolo dopo Cristo da autori di
diversa etnia e religione che, proprio per questo motivo, narrarono la
vicenda del Cristo da angolature diverse rispetto agli scrittori dei
Vangeli canonici, privilegiandone gli aspetti umani a discapito di
quelli teologici. Per una sintetica descrizione di questo album
ricorriamo alle parole di Doriano Fasoli:
La Buona Novella è un disco colto, carico di stratificazioni
visive e letterarie, basti pensare, nelle Tre madri, a quella ripetizione
37
Capitolo Primo
del termine «figlio», che ha un precedente antico nel duecentesco
Pianto della Madonna di Jacopone da Todi, e ai soffusi riferimenti
iconografici ed ambientali, nell’Infanzia di Maria, agli affreschi di
Cimabue e Giotto. Tutti elementi che De Andrè utilizza e trasforma,
trasfigura allo scopo di creare immagini, visioni, di penetrare tra gli
occhi ed il cuore di chi ascolta, e ascoltando, vede42
Il secondo, di tutt’altra natura, è l’album Non al denaro non
all’amore né al cielo, realizzato da De Andrè adattando liberamente e
musicando alcune poesie tratte dall’Antologia di Spoon River, scritta
nei primi anni del Novecento dal poeta statunitense Edgar Lee
Masters. Questo disco del cantautore ottenne anche l’avallo, e in una
certa maniera anche la partecipazione diretta, di Fernanda Pivano.
La scrittrice italiana condivise con Cesare Pavese il merito,
attraverso la sua personale traduzione italiana dell’opera di Masters, di
diffondere l'Antologia di Spoon River in Italia: nel 1943, infatti,
Pavese, che anni prima aveva donato il testo in lingua originale alla
Pivano, allora giovanissima, convinse Einaudi a pubblicarne la
traduzione che la scrittrice aveva nel frattempo realizzato.43
È la stessa Pivano in un suo libro recentemente pubblicato, I
miei amici cantautori, a raccontare, con la sua personalissima
42
Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo…, cit. , p. 136.
Cfr. G. Davico Bonino, Nota introduttiva, in E. L. Masters, Antologia di Spoon River, a cura di
F. Pivano, Torino, Einaudi 1993, pp. V-VII.
43
38
Capitolo Primo
sensibilità ed emozione, la sua incursione nel mondo della canzone
d’autore e il rapporto con Fabrizio De Andrè:
Roberto Danè [produttore del disco in questione] mi ha
telefonato di andare a Roma allo studio Ortophonic dove stavano
registrando il disco, stavano facendo il disco, stavano rendendo
immortali quei teneri versi della mia adolescenza nella voce di questo
poeta, di questo incantatore. Naturalmente sono andata allo studio
Ortophonic e per la prima volta nella vita ho visto come si fa a
imprigionare una canzone […] C’era da fare la copertina del disco e
naturalmente gli avevo chiesto di fare un’intervista, ma ancora non si
era rassegnato a darne mille al minuto […] credo che questa sia stata
una delle sue prime interviste e l’abbiamo messa sulla copertina del
disco senza prevedere che Fabrizio avrebbe aggiunto qualche riga che
io considero il mio premio Nobel; sono poche righe ma le ho lasciate
al fondo dell’intervista con un orgoglio e una riconoscenza difficili da
descrivere: “Ti sei dimenticata di rivolgermi una domanda: chi è
Fernanda Pivano? Fernanda Pivano per tutti è una scrittrice. Per me è
una ragazza di vent’anni che inizia la sua professione traducendo il
libro di un libertario mentre la società italiana ha tutt’altra tendenza. È
successo tra il ’37 e il ’41: quando questo ha significato coraggio”. Ma
ormai mi facevo coraggio e andavo a sentirlo nei suoi concerti e un
giorno mi avevano chiesto di presentarlo a un premio che dovevano
dargli ad Aulla il 26 luglio 1997 e che gli dovevano dare al Tenco il
23 ottobre 1997. avevo provato a dire, cosa di cui ero sempre più
convinta, che Fabrizio era il nostro poeta più bravo, bravo al punto di
non avere paragoni, Brassens o non Brassens, e mentre io parlavo lui
mi ascoltava con un’ironia che solo la mia devozione mi ha permesso
di sopportare. Ma quando gli ho detto: “Dicono che Fabrizio è il Bob
39
Capitolo Primo
Dylan italiano. Oh, nel dargli questo premio, d’amore più che di
potere, vorrei che fosse Bob Dylan a venire chiamato il Fabrizio
americano”, la sua ironia per un istante era finita e ci siamo
44
abbracciati con gli occhi un po’ troppo lucidi.
Abbiamo pensato fosse utile riportare questa lunga citazione, al
di là dell’estrema delicatezza del racconto, come esempio di quanto a
volte possano essere vicini mondi che appaiono così distanti, come
quello della letteratura e quello della canzone d’autore.
Tuttavia, poco prima della fine dello stesso decennio, Fabrizio
De Andrè matura una scelta artistica che potremmo definire radicale,
puntando il suo lavoro alla riscoperta di antiche tradizioni, linguaggi,
suoni e atmosfere che accomunano anche le etnie che sembrano più
distanti. Questa idea portante, che in qualche modo lo accompagnerà
fino alla sua scomparsa, culmina nel pionieristico tentativo di un
linguaggio, anche e soprattutto musicale, comune alla maggior parte
delle popolazioni che popolano il bacino del Mediterraneo. Questa
musica “mediterranea” o mediterranean music, presente soprattutto
nell’album Creuza de mä del 1984, viene considerata da alcuni
studiosi di antropologia musicale, primo fra tutti Goffredo Plastino,
44
F. Pivano, I miei amici cantautori, Milano, Mondatori 2005, pp. 69-70.
40
Capitolo Primo
come il punto di partenza di quel fenomeno culturale che prende il
nome di musica “dal mondo” o world music.45
Anche nel corso di queste sue ricerche etniche però, Fabrizio De
Andrè non si esime dallo scandagliare il mondo della cultura
cosiddetta “ufficiale” per attingere a delle ispirazioni che si potessero
ben coniugare a quelle descritte in precedenza. Oltre alla già citata
opera aristofanea, dalla quale parte per la costruzione del suo
penultimo album, Le nuvole appunto, l’ultimo suo riferimento
esplicito in questo senso è Àlvaro Mutis. Proprio da un’opera di
questo poeta e romanziere colombiano, nato a Bogotà nel 1923,
l’autore genovese acquisisce lo spunto giusto per comporre il brano
finale dell’ultimo suo disco Anime salve. L’opera del colombiano è la
saga di Maqroll il Gabbiere mentre il titolo del brano di De Andrè è
Smisurata preghiera.46
Si correrebbe il rischio di una mitizzazione del personaggio se
non si ricordassero infine i collaboratori diretti che aiutarono il
cantautore nella realizzazione di tutti i suoi dischi. Tra questi, alcuni
45
Su questo argomento vedi G. Plastino, Mediterranean mosaic. Popular music and global sound,
cit.
46
La versione portoghese di questa composizione, dal titolo Desmedida plenaria, fu usata, nello
stesso anno della sua pubblicazione ossia il 1996, dal regista Sergio Cabrera. Il brano infatti venne
inserito nella colonna sonora del film Ilona llega con la lluvia, anch’esso basato sul romanzo di
Àlvaro Mutis.
41
Capitolo Primo
già citati e altri dei quali scriveremo dopo, ricordiamo qui i più
importanti.
Il primo in ordine cronologico e fondamentale all’affermazione
dei suoi primi componimenti è l’arrangiatore e direttore d’orchestra
Giampiero Reverberi.47 Nel corso degli anni il suo posto sarà poi
occupato, per brevi periodi, da alcuni altri: tra questi, un giovane
Nicola Piovani che risulta essere anche coautore delle musiche di un
paio di album del cantautore e infine Piero Milesi che sarà presente
negli ultimi due suoi long playing.
Fabrizio De Andrè si avvalse spesso, nei testi e nelle musiche
dei suoi lavori, anche dell’aiuto di altri autori, ognuno dei quali però
lo affiancò solo per uno o al massimo due dischi.
Giuseppe Bentivoglio, ad esempio, firma con lui i testi di due
dei suoi concept album, così come Massimo Bubola e anche Mauro
Pagani che lo supporta in quella ricerca di una comune musica
“mediterranea” della quale abbiamo già trattato in precedenza.
E infine, l’ultimo disco, il già citato Anime salve, è frutto di una
per niente facile collaborazione con un altro noto esponente del filone
cantautorale italiano, Ivano Fossati.
47
Anche di questa importantissima figura artistica approfondiremo alcuni aspetti durante la
trattazione dell’album Tutti morimmo a stento.
42
Capitolo Secondo
CAPITOLO SECONDO
II.1 Speculazioni e proposte di analisi sull’opera
di Fabrizio De Andrè
La caratteristica fondamentale riscontrabile, in linea di
massima, in ogni singola opera di Fabrizio De Andrè, come abbiamo
già accennato in precedenza, è data dalla sua visione organica
dell’opera-album
o
concept
album.
Tale
idea
rappresenta
l’anticipazione, tipica delle avanguardie artistiche, di un modo di
scrivere canzoni che verrà sviluppato particolarmente negli anni
Settanta del Novecento, da molti altri autori seppur con alterne fortune
e con esiti non sempre eccellenti.
A un livello di analisi macroscopico possiamo addirittura
spingerci oltre. Quasi tutti i lavori del nostro autore sono accomunati
da un unico tema di fondo: la critica nei confronti del Potere.
Quest’ultima è presente nei testi di De Andrè in modi e toni di volta in
volta differenti; ciò che rimane invece costante in ogni suo lavoro è il
punto di vista, la prospettiva che parte sempre dal basso, vale a dire
dalle varie forme di umanità che animano le persone ai margini della
società. Assumere il loro punto di vista permette al nostro autore,
quasi fosse un espediente letterario, di muovere delle critiche, a volte
43
Capitolo Secondo
anche crude e violente, altre volte più leggere e satiriche ma sempre in
maniera lucida e personalissima. La sua, infatti, non è una sterile
contestazione del sistema sociale e istituzionale, cosa per altro molto
in voga nel corso degli anni Sessanta e Settanta, ma una sorta di
analisi, etica ed estetica al tempo stesso, del rapporto instauratosi tra
l’uomo e il potere nel corso dei secoli.
Anche se tale argomentazione potrebbe apparire alquanto
astratta e speculativa, addentrandosi invece nello studio dei testi e
delle fonti dalle quali l’autore ha attinto, ci si rende perfettamente
conto del suo effettivo pragmatismo.
Per meglio chiarire questo aspetto si potrebbe ricorrere alle
parole di Andrea Podestà, autore di alcuni articoli pubblicati sulla
rivista bimestrale «Italiano e oltre»48 dedicati all’uso del dialetto
genovese al quale Fabrizio De Andrè ricorre nei suoi ultimi tre album,
ed anche di una sua biografia.49 Proprio da quest’ultima ricaviamo la
definizione di Potere che, secondo Podestà, traspare dalle opere del
cantautore genovese:
Ma il potere è, ovviamente, più subdolo e non sempre si
materializza nelle figure che materialmente hanno poteri decisionali
(re, principi, ministri). Il potere è ciò che ha imposto schemi fissi di
48
A. Podestà, Un dialetto in sogno e De Andrè si confessa, cit.
A. Podestà, Fabrizio De Andrè: in direzione ostinata e contraria, Civitella in Val di Chiana,
Zona 2003.
49
44
Capitolo Secondo
pensiero e che è pronto a distruggere tutto ciò che è alternativo
(verrebbe in mente il discorso di Pasolini sul genocidio culturale del
50
sottoproletariato).
È bene tenere presente quest’affermazione durante l’ascolto di
quasi tutti i lavori di De Andrè, perché ognuno di essi contiene un
riferimento più o meno esplicito a tali «schemi fissi».51 Questi, infatti,
non sono identificabili, una volta e per tutte, con una precisa persona o
personaggio o istituzione: è l’atto stesso di dominio, di predominanza.
Sono citate spesso la religione, la cultura e addirittura la morale
dominante come delle costruzioni oppressive che l’uomo stesso ha
creato per soggiogare o comunque tenere a freno le vere inclinazioni e
peculiarità degli altri uomini. E così, in una sorta di visione kafkiana,
l’uomo che assume degli atteggiamenti sbagliati, quali peccati o reati,
non è completamente autonomo e determinato a sbagliare, ma indotto,
se non addirittura costretto, da quelle regole che qualcun altro ha
imposto.
Quella dell’autore genovese è una vera compartecipazione
all’umana esistenza terrena ed è proprio grazie a questo suo slancio
che riesce, nei suoi testi, a tradurre le diversità degli uomini in varietà
e, quindi, in ricchezza estetica anziché minaccia ideologica. Tali idee
50
51
Ivi, p. 39.
Ibid.
45
Capitolo Secondo
riflettono una profonda coscienza etica perfettamente congiunta a
un’indiscussa sensibilità artistica.
Del resto anche le letture giovanili già citate nei capitoli
precedenti52 e le personalissime rielaborazioni musicali delle stesse,
proposte dal cantautore nell’arco di tutta la sua carriera, ci forniscono
un quadro pressoché completo degli intenti etici ed estetici dell’autore.
Soffermiamoci ora sulla convergenza di questi ultimi due
concetti nell’opera deandreiana. A tal fine è sicuramente utile
ricordare uno scritto di Leone Tolstoi, risalente alla fine del sec. XIX,
dal titolo Che cosa è l’arte?53 dove l’autore evidenzia degli aspetti
dell’oggetto artistico che spesso si tende a sottintendere, se non
addirittura a tralasciare. Primo fra tutti, e non a caso posto a
Conclusione del libro, il fine ultimo dell’arte che deve essere «quello
di effettuare l’unione fraterna degli uomini».54
Come Fabrizio De Andrè abbia fatto propria questa che, più che
un’affermazione, sembra quasi un’esortazione da parte dell’autore, lo si
può evincere dalla stragrande maggioranza dei testi da lui composti, dai
52
Precisamente il II par. del capitolo primo: Matrici letterarie dell’Opera deandreiana.
L. Tolstoi, Che cosa è l’arte?, Milano, Treves 1899.
54
Ivi, p. 261.
53
46
Capitolo Secondo
quali traspare quasi una sorta di esigenza etica appunto, una solidarietà
manifestata attraverso un raro senso di vicinanza agli altri uomini.
Questa sua caratteristica non è molto distante da quel sentimento
di pietas che presso i latini aveva un ampio spettro di significati; infatti,
a differenza della riduzione semantica da essa subita nel corso dei
secoli dovuta anche alla sua nuova collocazione nell’ambito della
religione cristiana, la pietas comprendeva: la devozione e il sentimento
di dovere nei confronti degli dei, l’amor paterno, l’amor patrio, la
fedeltà, la rettitudine, la clemenza, l’equità e l’indulgenza.
Tutte queste virtù morali sono racchiuse nei testi di Fabrizio De
Andrè sotto forma di rispetto e comprensione nei confronti di
qualunque essere umano, buono o cattivo che sia, ma anche verso la
natura che ci circonda, le diverse religioni esistenti e finanche i diversi
soggetti politici.
Su questo aspetto della poetica presente nelle opere di Fabrizio
De Andrè e sull’accostamento di queste ultime ai principi indicati da
Tolstoi all’interno del suo saggio citato precedentemente, ma anche
sull’accostamento che proporremo poco oltre tra il cantautore
genovese e Pier Paolo Pasolini, concorda anche Romano Giuffrida,
come si evince dal suo intervento nell’ambito delle Giornate di studio,
47
Capitolo Secondo
Per mare, per cieli per terre, con Fabrizio, alla ricerca dell’Uomo,
svoltesi a Garessio il 14 e 15 luglio del 2000:55
E anche se a una lettura superficiale potrebbe risultare
paradossale affermare che il messaggio sociale cristiano sottenda
l’indignazione anarchica che anima la poesia di Fabrizio De Andrè,
l’analisi di alcuni elementi non può che confermare questa tesi. Il
principale di essi è, in assoluto, il sentimento della pietas, della pietà
per tutti gli ultimi, i vinti, gli esclusi. […] è pietà per gli assassini di
Delitto di paese, è pietà per chi «sulla croce sbiancò come un
giglio»,56 […] per il bandito sardo «senza luna senza stelle e senza
fortuna»,57 per le «spose bambine» dei Rom che vanno a «caritare»58
[…] . L’arte dunque, per De Andrè, è come ancora una volta scriveva
Tolstoj, uno strumento “per l’avanzamento dell’umanità verso la
perfezione” ed è una perfezione che in De Andrè si è esplicata da
sempre nella semplicità espressiva dei suoi versi, come se volesse
rispondere all’indicazione dello scrittore russo.
Per chiarire ulteriormente questo concetto ci sembra utile
ricorrere a un’altra analisi di Roberto Vecchioni, effettuata, anche
questa volta, in una sua lezione tenuta in diverse università italiane e
successivamente pubblicata all’interno del già citato volume Volammo
55
R. Giuffrida, In direzione ostinata e contraria, Fabrizio De Andrè fra Tolstoj, Stirner e Pasolini,
in Volammo davvero…, cit. , pp. 80-91.
56
Quello citato da Giuffrida è il verso finale del brano Si chiamava Gesù, dall’album Volume I del
1967.
57
Verso iniziale del ritornello della canzone Franziska, da Fabrizio De Andrè, album del 1981
meglio noto come l’Indiano.
58
Questi ultimi due termini vengono estrapolati ancora da Giuffrida da Khorakhanè (a forza di
essere vento), seconda composizione dell’ultima opera dell’autore risalente al 1996, Anime salve.
48
Capitolo Secondo
davvero.59 Qui Vecchioni, partendo dalla spiegazione del concetto di
monotematicità, caratteristica costantemente presente negli album del
cantautore genovese, arriva ad affrontare il significato della nozione di
«contro-storia»:
“Monotema” per Fabrizio significa elaborare allegoricamente
un nucleo letterario, storico, artistico: partire cioè da un’opera, da un
periodo, da un personaggio e svolgerli a suo modo, riproporli al
presente per evidenziare la sua tesi, la sua contro-storia. Contro-storia
vuol dire rileggere l’avventura umana sull’asse potere-individuo e
rivalutare, giustificare la prassi dell’errore sociale, del presunto
“peccato” individuale, come risposta a una costruzione, a uno
schiacciamento qualunquista, perbenista, accentratore, consolatorio
del potere stesso. Contro-storia è partire dall’interno dell’uomo,
valutarne la risposta, la strenua difesa davanti all’assurdo del dogma e
della prevaricazione e non, come si è sempre fatto, giudicare l’uomo in
base alla sua risposta positiva o negativa nei confronti del potere.60
L’ultimo dei concetti enucleati da Vecchioni, la «contro-storia»,
che chiude questa probabilmente doverosa serie di precisazioni che
abbiamo pensato fosse utile riportare, ci riconduce al tema
fondamentale precedentemente accennato, presente in vari modi e
59
R. Vecchioni, Fabrizio De Andrè, lezione in ateneo, in Volammo davvero. Un dialogo
ininterrotto, cit. , pp. 154-187.
60
Ivi, pp. 154-155.
49
Capitolo Secondo
livelli in quella che si può oramai definire a pieno titolo poetica
deandreiana: la critica nei confronti del potere.
Tale critica s’innesta nella canzone d’autore italiana come un
elemento nuovissimo e fecondo, a differenza del mondo della poesia
dove invece la figura dell’«intellettuale critico»61 era già presente, per
alcuni versi da molti secoli, ma particolarmente e in termini vicini alla
nostra disquisizione da quasi cento anni.
Uno di questi poeti, tra i più carismatici e rappresentativi del
Novecento italiano, è Pier Paolo Pasolini che, come cercheremo di
dimostrare tra breve e naturalmente con tutte le dovute precauzioni e
distanze, ha non pochi elementi in comune con l’autore da noi trattato
in questa sede.
II.2 Due intellettuali a confronto: Fabrizio De Andrè e
Pier Paolo Pasolini
La prima caratteristica comune tra questi due personaggi è, come
già accennato, l’essere entrambi «intellettuali critici» ossia in crisi, in
rotta di collisione con il ceto sociale, la borghesia, da cui entrambi
provenivano.62 Da qui ne deriva quella critica al potere che porta
61
Giuffrida, In direzione ostinata e contraria, Fabrizio De Andrè fra Tolstoj, Stirner e Pasolini,
cit., p. 83.
62
Cfr. ibid.
50
Capitolo Secondo
forzatamente chi la persegue a due possibili approdi: da una parte
inserirsi nella classe sociale antagonista, in questo caso particolare il
proletariato, in un’ottica d’impegno totale; dall’altra estraniarsi da
entrambe così da poter avere una visione del sistema sociale non
edulcorata da faziosità politiche.63
Proprio di fronte a questo bivio si appalesano le differenze
ideologiche che intercorrono tra i nostri due autori: Pasolini, infatti,
sceglie comunque come interlocutore dialettico il proletariato mentre
De Andrè non risolve la sua collocazione di classe anche perché, se il
primo rispecchia un’ideologia spiccatamente marxista, il secondo si
considera un anarchico individualista.64
Altro elemento comune è il loro amore e interesse profondo
verso il dialetto. Entrambi, infatti, usarono non solo l’idioma delle
loro terre natie, ossia il friulano per quel che riguarda Pasolini65 e il
genovese in riferimento a De Andrè,66 ma anche alcuni altri dialetti
che entrambi conobbero nel prosieguo delle loro vite.67
63
Cfr. ivi, p. 84.
Cfr. ibid.
65
Il poeta in verità nacque a Bologna ma la sua infanzia fu caratterizzata da continui spostamenti.
L’unico suo punto di riferimento geografico nonché luogo felice in quel periodo fu la casa materna
a Casarsa, nel Friuli; non a caso, la sua prima raccolta di versi, risalente al 1942, fu proprio Poesie
a Casarsa, naturalmente in dialetto friulano.
66
L’esempio maggiore non può che essere l’intero suo album Creuza de mä del 1984, ma anche
altri singoli brani presenti nei lavori successivi, come già ricordato precedentemente. Per la
questione dell’uso del dialetto da parte del cantautore rimandiamo comunque alla tesi Il dialetto
64
51
Capitolo Secondo
Anche queste scelte artistiche s’inseriscono, soprattutto per
quanto riguarda il cantautore, nell’ottica della critica ai regimi,
linguistici in questo caso, imperanti. La precisazione necessaria la
fornisce lo stesso De Andrè in una delle frequenti chiose che era solito
fare durante i suoi concerti:
I dialetti assurgono a dignità di lingue e le lingue decadono a
dialetto per motivi soprattutto politici o militari, basterebbe fare la
storia del Portogallo […] mi interessa invece l’aspetto culturale della
faccenda, vale a dire che una lingua nazionale come l’italiano sarebbe
finita miseramente come l’inglese, cioè una lingua che purtroppo si
usa solamente per commerciare patate e baccalà, se non si fosse nutrita
di quelli che sono considerati gli idiomi locali. […] La lingua italiana
quindi continua a essere vivace da molti secoli a questa parte proprio
per il fatto che si nutre di questi idiomi locali, tanto è vero che quando
ci troviamo di fronte a una frase particolarmente divertente e spiritosa
diciamo che è una frase idiomatica. Ed è soltanto questo che io
auspicherei, come dice Spadolini, che questi dialetti locali, non fosse
altro che per fornire qualche cosa di nuovo alla lingua nazionale,
continuassero a resistere e a esistere.68
rivisitato nelle canzoni di Fabrizio De Andrè. Appunti di lavoro e la relativa bibliografia,
realizzata da Elisa Di Padova nell’a. a. 2001-2002 presso l’Università degli studi di Torino.
67
Il cantautore, in altri suoi album, usò anche alcune varianti del dialetto sardo e di quello
partenopeo, mentre Pasolini, nel 1957, collaborò alla sceneggiatura del film Le notti di Cabiria,
del regista Federico Fellini, stendendone i dialoghi in romanesco.
68
Da una dichiarazione dell’autore successivamente riportata, con il titolo Appunti al pesto: lingua
e dialetto, in Volammo davvero…, cit. , pp. 271-272.
52
Capitolo Secondo
L’ultima caratteristica che avvicina l’opera dei due autori è una
sorta di religiosità laica, da noi accennata in precedenza per quel che
riguarda De Andrè, che si concretizza in una sorta di empatia nei
confronti degli uomini ai margini, protagonisti questi ultimi di quasi
tutte le loro pagine.
Per questa loro particolare vocazione, la fonte dalla quale
attingono è data dai valori sociali del Cristianesimo delle origini e non
dalla sua religiosità ufficiale applicatagli a posteriori dalle istituzioni
clericali.
Anche e forse soprattutto in questa conclusione risiede la
similarità della riflessione poetica di queste due figure del Novecento
italiano, così distanti, certo, ma così corali nella loro visione
dell’uomo come essere “sbagliato” per eccellenza perché imperfetto,
colmo di contraddizioni, ma forse, proprio in quanto tale, unica
essenza da noi veramente comprensibile.
Non è un caso, infatti, che tanto Pasolini quanto De Andrè si
siano accostati, in più di un’occasione, alla vicenda del Cristo,
raccontandola con strumenti differenti ma anche con simili intenti.
Citiamo, per quanto riguarda Pasolini, il suo film del 1964, Il
Vangelo secondo Matteo, dove le scelte del regista, come quella di
53
Capitolo Secondo
servirsi spesso, anziché di attori professionisti, di persone ingaggiate
nella periferia della capitale, quasi come un moderno Caravaggio,
danno risalto alla figura umana di Gesù, uomo tra gli uomini,
restituendone in pieno il senso di sacrificio e di speranza che
appartiene alle sue vicende terrene.
Un’operazione analoga viene compiuta anche da Fabrizio De
Andrè nell’album del 1970, La buona novella, e in altri singoli brani,69
dove citazioni più o meno esplicite del Cristo ne invocano appunto la
sua presenza ed essenza terrena piuttosto che la celebrata
soprannaturalità.
È ancora Giuffrida, nel medesimo intervento citato in
precedenza, ad accorgersi della similarità che intercorre tra le due
opere di questi autori:
Procedendo come Pasolini ne Il Vangelo secondo Matteo, De
Andrè non solo disegna le figure della narrazione spogliandole
dell’aura della mistica tradizionale e dando loro la dimensione umana
di precarietà e conflittualità esistenziale astorica ma evidenzia anche i
pregiudizi dei dogmi e la violenza del potere che difende sé e i propri
privilegi calpestando quella stessa religiosità di cui si vorrebbe
depositario. […] Non è un caso che il mondo da loro descritto veda
sempre, come protagonisti positivi, quei soggetti che la società
69
Tra questi ricordiamo la più significativa ovvero Si chiamava Gesù.
54
Capitolo Secondo
disprezza e marginalizza e non è un caso, nemmeno, che in quel
mondo entrambi collochino il «loro» Cristo, uomo e ribelle sconfitto
da ragioni di stato e «di bottega».70
I testi letterari de La buona novella, com’è stato più volte
ribadito dallo stesso autore, sono ispirati, in maniera programmatica,
ai Vangeli Apocrifi. Il perché di tale scelta e i suoi intenti così vicini
con il film già citato di Pier Paolo Pasolini si possono apprendere dalle
stesse parole di De Andrè:
Ho quindi preso spunto dagli evangelisti cosiddetti apocrifi,
apocrifo vuol dire falso, in effetti era gente vissuta in carne e ossa,
solo che la Chiesa mal sopportava sino a qualche secolo fa che
fossero altre persone non di confessione cristiana ad occuparsi di
Gesù. Si tratta di scrittori, di storici arabi, armeni, bizantini, greci
che nell’accostarsi all’argomento nel trattare la figura di Gesù di
Nazareth lo hanno fatto direi addirittura con deferenza, con grande
rispetto, tanto è vero che ancora oggi, proprio il mondo dell’Islam
continua a considerare subito dopo Maometto, e prima ancora di
Abramo, Gesù di Nazareth il più grande profeta mai esistito.
Laddove invece il mondo cattolico continua a considerare
Maometto qualcosa meno di un cialtrone e questo direi che è un
punto che va a favore dell’Islam. L’Islam quello serio. […] Posso
dire ancora su La buona novella che dato il taglio conferito a
questo argomento, probabilmente i personaggi del Vangelo
70
Cfr. , In direzione ostinata e contraria, Fabrizio De Andrè fra Tolstoj, Stirner e Pasolini, cit. , p.
91.
55
Capitolo Secondo
perdono un poco di sacralizzazione, ma io credo e spero soprattutto
a vantaggio di una loro migliore e maggiore umanizzazione.71
Non bastano certo questi pochi e sommari elementi per tracciare
un preciso parallelismo tra questi due artisti così carismatici. Di altri e
più accurati studi necessiterebbe una ricerca in tal senso, ma ci serviva
in questa sede solo una piccola dimostrazione di quanto complesso
può essere stato l’intreccio d’influenze e dei diversi linguaggi
semantici dei quali si è nutrito l’ambiente culturale italiano della
seconda metà del secolo scorso.
71
Anche questo brano è stato estrapolato da una precisazione fatta dall’autore all’interno di una
sua performance concertistica e successivamente riportata, con il titolo Appunti apocrifi… e le mie
braccia divennero ali…, in Volammo davvero…, cit. , pp. 365-367.
56
Capitolo Terzo
CAPITOLO TERZO
III.1 Analisi di alcuni album del cantautore
Cerchiamo ora di analizzare, in maniera più concreta, alcune
delle opere nelle quali Fabrizio De Andrè ha maggiormente sviluppato
il suo impulso di contestazione e di denuncia nei confronti dei «poteri
forti».
Abbiamo scelto di soffermarci in questa sede solo su tre dei suoi
numerosi album: Tutti morimmo a stento, Storia di un impiegato e Le
nuvole. Tale scelta non è del tutto arbitraria. Innanzi tutto, li accomuna
il loro essere concepiti ognuno come progetto organico e unitario e
non come semplice raccolta di canzoni;72 ognuno di essi poi è
paradigmatico delle forme e dei contenuti espressi dall’autore in un
preciso momento storico. Questi lavori furono infatti realizzati da De
Andrè in tre periodi alquanto lontani tra loro, rispecchiando anche, in
ultima analisi, una diversa maturità artistica e culturale del loro autore.
72
Ci si riferisce qui, naturalmente, alla già più volte ribadita definizione di concept album.
57
Capitolo Terzo
III.2
Tutti morimmo a stento
(cantata in si minore per solo, coro e orchestra)
[1968]
Cantico dei drogati
Primo intermezzo
Leggenda di natale
Secondo intermezzo
Ballata degli impiccati
Inverno
Girotondo
Recitativo (due invocazioni e un atto di accusa)
Corale (leggenda del re infelice)
58
Capitolo Terzo
A meno di dieci anni di distanza dalle sue prime incisioni
discografiche su 45 giri, Fabrizio De Andrè realizza la sua prima vera
opera su album dotata di una compiutezza e organicità, fino ad allora
estranea non solamente ai suoi dischi ma anche all’intero panorama
musicale nazionale.
È un’opera molto complessa che meriterebbe delle analisi
particolareggiate per ognuno dei suoi tre livelli semantici. Per quanto
riguarda la costruzione sonora, sulla quale si sviluppa l’idea poetica
originaria, l’intento dell’autore è chiaro ed esplicito sin dalle parole
del sottotitolo, ovvero Cantata in si minore per solo, coro e orchestra,
dicitura che rimanda chiaramente a un passato non troppo lontano
dominato artisticamente dallo stile barocco. Sono le parole dello
stesso De Andrè a chiarire le implicazioni contenute in questa opera,
riconducibili a questo stile:
È polveroso [il suo disco], è cattedratico, è barocco. E
ricordiamoci che in quel periodo, sotto il barocco, c’era stata la
controriforma. Quindi è un disco che, pur nel suo tentativo di mettere in
mostra alcuni dei vizi più notevoli della società, ha tuttavia un modo di
esprimersi e anche di accompagnare lo scritto con la musica un po’
arrogante, un po’ ridondante. È un disco che, direi, risente quasi di
73
autoritarismo in qualche maniera, ma è proprio barocco in tal senso.
73
Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo…, cit. , p. 40.
59
Capitolo Terzo
Per quanto riguarda gli arrangiamenti musicali, l’incarico fu
affidato a Giampiero Reverberi, musicista “serio”, di stampo classico
e già prolifico arrangiatore di altri brani dell’artista genovese come
anche di altri autori dell’epoca. Per meglio comprendere l’entità del
suo apporto nella realizzazione di questo album ci affidiamo alle
parole di Cesare G. Romana:74
Come in una cantata bachiana impaginò arie, recitativi, suture
strumentali, non ancora pago spaziò tra gli echi del beat e del corale
luterano, elegie supreme e sferzate di trombe, intimismo pucciniano e
asperità stravinskiane. […] compose in un affresco cangiante archi
pensosi come preci, schiaffi di trombe, chitarre assorte, interludi
orchestrali tra un brano e l’altro. Alternò l’organo liturgico di Cantico
dei drogati all’epos morriconiano di Ballata degli impiccati,
impennate di ritmo e trasparenze impressioniste, cori metafisici e un
pianoforte rapsodico. Fino al delirio popolaresco del Girotondo, al
75
melologo severo del Recitativo e all’intreccio barocco del Corale.
Questa ricercata tessitura orchestrale, che visto il gran numero
di elementi possiamo a buon diritto definire imponente, assieme alla
voce di Fabrizio, suadente e straniante al tempo stesso, e ad altri
74
Giornalista e critico musicale, Romana è autore di alcuni volumi sulla parabola umana ed
artistica di Fabrizio De Andrè quali: C. G. Romana, Amico fragile. Fabrizio De Andrè, Milano,
Sperling & Kupfer 1999, ed anche C. G. Romana, Smisurate preghiere. Sulla cattiva strada con
Fabrizio De Andrè, Roma, Arcana 2007. Romana curò anche la stesura di quelle note introduttive,
riportate sulla copertina dei primi LP di De Andrè, che servivano quasi ad avvicinare l’ascoltatore
ad una più profonda comprensione dei brani ivi contenuti.
75
Romana, Smisurate preghiere…, cit. , pp. 19-20.
60
Capitolo Terzo
elementi che non riteniamo sia qui la sede adatta a un loro eventuale
approfondimento, sono tutti “mattoni” che contribuiscono in egual
misura alla costruzione di quell’impalcatura artistica ed estetica che
Vecchioni, come già ricordato in precedenza,76 definisce «terzo
elemento semantico essenziale» o linguaggio dell’interpretazione.
Sul linguaggio musicale strictu sensu non ci soffermeremo,
lasciando così in sospeso una questione la quale importanza
meriterebbe uno studio ben più accurato e specifico.77
Concentreremo ora la nostra attenzione, invece, su quello che
riteniamo essere il sistema semantico fondamentale e peculiare della
canzone d’autore come genere e delle opere di De Andrè in
particolare: il linguaggio poetico.
L’idea di base della quale l’autore si avvale per la stesura dei
testi di questo album è composta da almeno quattro elementi
fondamentali: le sue letture giovanili con al centro una composizione
di François Villon; alcuni fatti di cronaca avvenuti in quegli anni; le
influenze poetiche e musicali di Georges Brassens e del poeta
76
Vedi l’Introduzione del presente testo dove vengono riassunti alcuni passi di R. Vecchioni, La
canzone d’autore in Italia in Enciclopedia Italiana…, cit. , pp. 279-283.
77
Questo infatti spetterebbe a quegli scrupolosi ricercatori di teoria della musica che, invece di
analizzare in maniera scevra da pregiudizi anche questo genere musicale relativamente nuovo,
continuano a vivisezionare ogni altro tipo di musica in una ricerca infinitesimale che mira a
svelare, in una sempre più piccola particella melodica, il senso “vero” della musica.
61
Capitolo Terzo
Riccardo Mannerini e infine alcuni riferimenti autobiografici.
L’amalgama
di
tali
fattori,
che
analizzeremo
nel
dettaglio
soffermandoci sui singoli brani, plasma una particolare alchimia del
tutto nuova per l’epoca.
Lo scenario sociale nazionale e internazionale del 1968, anno di
pubblicazione dell’album, era in pieno fervore politico e ideologico.
Le istanze rivoluzionarie del Sessantotto, infatti, contribuirono non
poco alla creazione di un clima che lasciava presagire grandi
trasformazioni sociali e culturali.
Il panorama musicale dell’epoca rifletteva nella sua produzione
discografica quest’ondata di rinnovamento con uno stile, quello della
beat generation, che racchiudeva al suo interno una molteplicità di
tendenze ed espressioni differenti. In contrapposizione a esso vi era
ancora una forte tradizione melodica legata particolarmente a eventi
“nazional-popolari” quali, ad esempio, il Festival di Sanremo.
L’album di Fabrizio De Andrè rappresentò un’anomalia nel
clima musicale del 1968: era alquanto strano, infatti, che un autore di
canzoni concentrasse un suo album sulla fine dell’umana esistenza,
ovvero, la morte. Quest’ultima è qui trattata inoltre con dei toni spesso
62
Capitolo Terzo
gravi, senza indugiare però su facili sentimentalismi che, al contrario,
erano costantemente presenti nei testi degli altri autori di quegli anni.
Del distacco dalla vita terrena vengono qui trasposte in versi le
cause, i motivi e, non da ultimo, gli umori di chi da questa esistenza si
distacca anche per una propria scelta o per imposizione altrui; ma ciò
che soprattutto importa a De Andrè è descrivere la difficoltà di vivere,
il che, a ben pensarci, equivale alla difficoltà di morire dignitosamente
come ogni uomo dovrebbe, al di là delle sue colpe o virtù.
Proprio in questo passaggio finale si può rintracciare la forte
presa di posizione che l’autore assume, attraverso le parole contenute
in questa opera, nei confronti dei detentori del potere; la sua scelta di
schierarsi al fianco di coloro che, non accettando le regole imposte
dalla morale comune, lamentano il disprezzo di cui sono colmi gli
occhi dei loro carnefici «benpensanti».
Non è un caso, infatti, che De Andrè scelga di impostare i testi
più importanti di questo album sul discorso in prima persona:
singolare, per quanto riguarda il brano d’apertura Cantico dei drogati;
plurale, per la Ballata degli impiccati e il Recitativo finale. Ciò che si
evince da questi brani è anche il profondo senso di solitudine che si
trasforma in una disperata invocazione di pietà dei protagonisti
63
Capitolo Terzo
condannati, dalla morale o dalla legge, a una pena, la morte, ingiusta
comunque, anche per le colpe più atroci.
Il rifiuto della pena di morte, del resto, è una delle tematiche
costanti nelle opere di Fabrizio De Andrè e rappresenta anch’essa una
presa di posizione dell’autore, forse la più decisa e netta, nei confronti
delle istituzioni.
Il primo dei testi che compongono quest’opera è, come abbiamo
avuto modo di accennare, Cantico dei drogati. L’idea originaria per
questa composizione è ricavata da Eroina, una poesia composta da
Riccardo Mannerini, poeta vero appartenente a quella schiera di
personaggi che il nostro sistema culturale fatica ancora a riconoscere
come degni di ulteriori approfondimenti:
5
10
15
Come potrò dire
a mia madre
che ho paura?
La vita,
il domani,
il dopodomani
e le altre albe
mi troveranno
a tremare
mentre
nel mio cervello
l’ottovolante della critica
ha rotto i freni
e il personale
è ubriaco.
Ho paura,
64
Capitolo Terzo
20
25
30
35
40
45
50
55
60
tanta paura,
e non c’è nascondiglio possibile
o rifugio sicuro.
Ho licenziato
Iddio
e buttato via una donna.
La mia patria
è come la mia intelligenza:
esiste, ma non la conosco.
Ho voluto
il vuoto.
Ho fatto
il vuoto.
Sono solo
e ho freddo
e gli altri nudi
ridono forte
mentre io striscio
verso un fuoco che non mi scalda.
Guardo avvilito
questo deserto
di grattacieli
e attonito
vedo sfilare
milioni di esseri di vetro.
Come potrò
dire a mia madre
che ho paura?
La vita,
il suo motivo,
e il cielo
e la terra
io non posso raggiungerli
e toccare…
Sono sospeso a un filo
che non esiste
e vivo la mia morte
on un anticipo terribile.
Mi è stato concesso
di non portare addosso
vermi
o lezzi o rosari.
Ho barattato
con una maledizione
65
Capitolo Terzo
65
70
75
80
85
90
95
vecchia ma in buono stato.
Fu un errore.
Non desto nemmeno
più la pietà
di una vergine e non posso
godere il dolore
di chi mi amava.
Se urlo chi sono,
dalla mia gola
escono deformati e trasformati
i suoni che vengono sentiti
come comuni discorsi.
Se scrivo il mio terrore,
chi lo legge teme di rivelarsi e fugge
per ritornare dopo aver comprato
del coraggio.
Solo quando
scadrà l’affitto
di questo corpo idiota
avrò un premio.
Sarò citato
di monito a coloro
che credono sia divertente
giocare a palla
col proprio cervello
riuscendo a lanciarlo
oltre la riga
che qualcuno ha tracciato
ai bordi dell’infinito.
Come potrò dire a mia madre
che ho paura?
Insegnami,
tu che mi ascolti,
un alfabeto diverso
78
da quello della mia vigliaccheria.
La figura di questo poeta influenzò non poco le opere ed anche
la vita di De Andrè fino a quel periodo. Innanzi tutto li legava una
78
R. Mannerini, Un poeta cieco di rabbia, a cura di C. Pozzani e M. Macario, Liberodiscrivere,
Genova 2005, pp. 53-55.
66
Capitolo Terzo
profonda amicizia fondata anche, ma non solo, sulle comuni idee
anarchiche e libertarie.
La sua storia personale poi era molto vicina a quella dei
protagonisti delle canzoni di De Andrè: era un uomo di mare e in uno
dei suoi lavori a bordo di una nave fu investito dai fumi di una caldaia
in avaria che di lì a poco lo avrebbe reso irrimediabilmente cieco;
aveva spesso problemi con la giustizia, dovuti anche alla sua umana
disponibilità ad ospitare nella propria casa persone non sempre
rispettabili e talvolta anche ricercate dalla polizia.79 Nel 1980, infine,
si suiciderà, impiccandosi nella sua dimora.
I componimenti di Mannerini, che trasforma la sua depressione
in versi tanto delicati e profondi quanto asciutti e al limite
dell’amarezza, servono al cantautore quasi da canovaccio sul quale
costruire delle canzoni che, in quanto tali, abbiano una maggiore
precisione nella scansione metrica, ritmica e musicale.
Nello stesso anno di pubblicazione dell’album che stiamo qui
analizzando, il 1968, viene dato alle stampe anche Senza orario senza
bandiera, prima opera importante del giovane gruppo dei New Trolls,
79
È possibile che De Andrè si ispiri a questa caratteristica dell’amico poeta per l’idea generale del
testo de Il pescatore, brano che contiene anche dei riferimenti alla vicenda del Cristo, come i versi
«ma versò il vino, spezzò il pane / per chi diceva ho sete, ho fame»
67
Capitolo Terzo
nel quale De Andrè risulta essere coautore dei testi insieme a
Mannerini.
In verità il cantautore, come accennato poco sopra, svolge
soprattutto un lavoro di adattamento dei testi del poeta, cesellando i
versi in modo da renderli validi anche musicalmente. Ciò non
significa però che De Andrè non dia un apporto veramente originale
alla realizzazione di questi brani; anzi al contrario, perché anche nella
scelta dei termini o metafore o anche solo idee da trasferire nelle
canzoni si può riconoscere lo stile personalissimo e la sua delicata
sensibilità, quasi fosse un’arte di levare più che d’aggiungere.
Lo stesso lavoro viene svolto dall’autore nella stesura definitiva
del Cantico dei drogati: partendo dai quasi cento versi liberi della
poesia originaria, De Andrè scrive un testo composto da quattro strofe
esastiche a rima baciata, inframmezzate da altrettanti ritornelli di un
sol verso identico per ciascuno e un distico finale in assonanza piena.
Il verso «come potrò dire a mia madre che ho paura»,80 che
costituisce il ritornello, è l’unico elemento che rimane identico al testo
precedente e questo avviene per due motivazioni fondamentali.
80
Mannerini, Un poeta cieco di rabbia, cit. , p. 53.
68
Capitolo Terzo
La prima deriva dal fatto che, in Eroina,81 questo verso è il solo
che viene ripetuto e per ben tre volte, svolgendo probabilmente una
funzione analoga a quella della canzone ed essendo anche posto, nella
prima, ad apertura del testo. Da ciò naturalmente si può anche
evincere la sua effettiva importanza nel descrivere lo stato d’animo del
protagonista del brano che dispera di non riuscire a manifestare le
proprie insicurezze neanche all’affetto più caro per antonomasia.
L’altro motivo per il quale questo verso rimane invariato è dato
dal fatto che ben si sposava, probabilmente, con la costruzione
melodica; in altri punti infatti, come l’intera quarta strofa e il distico
finale, anche se il senso rimane sostanzialmente invariato, De Andrè
apporta delle leggere modifiche a delle singole parole permettendo
loro, in tal modo, di rientrare perfettamente nella scansione ritmica e
melodica.
La prima strofa invece è costruita sulla base di alcune idee prese
da vari punti della poesia. La seconda e la terza strofa infine hanno un
solo aggancio ciascuno al primo testo: i «folletti di vetro» del quinto
verso della seconda strofa erano precedentemente «milioni di esseri di
81
Ivi, pp. 53-55.
69
Capitolo Terzo
vetro»,82 mentre nel verso conclusivo della terza strofa è solamente
l’attributo a cambiare rispetto all’altro testo, da «con un anticipo
terribile»83 a «con un anticipo tremendo».
Inoltre, in quest’ultimo verso che integralmente recita «dove
vivo la mia morte con un anticipo tremendo», Vecchioni, nella sua già
citata lezione accademica sul cantautore,84 ritrova un verso di
Giuseppe Ungaretti: «la morte / si sconta / vivendo».85
Al di là delle citazioni, quello che si scorge in questa canzone è
la profondità del malessere del protagonista che fugge la vita trovando
approdo nell’ebbrezza momentanea e deleteria della droga; tale scelta,
che si rivelerà per lui fatale, gli viene dettata, per sua stessa
ammissione ribadita più volte, dalle sue insicurezze, dai suoi dubbi.
Nelle parole finali, il senso ultimo dell’intera composizione; il
lamento diviene critica: perché, invece di colpevolizzare un uomo la
82
Ivi, p. 54. Su questo vedi anche a p. 26, nella sezione Vita e opere realizzata da Sandra Verda,
dove la curatrice afferma che in una delle prime stesure della canzone «il titolo originale era
diventato Cantico dei folletti di vetro, di vetro come la bottiglia dei superalcolici che non è affatto
diversa da una siringa».
83
Ivi, p. 54.
84
Vecchioni, Fabrizio De Andrè, lezione in ateneo, nel volume Volammo davvero. Un dialogo
ininterrotto, cit. , p. 159.
85
Questi, rintracciati da Vecchioni in questo testo, sono gli ultimi tre versi di Sono una creatura,
composizione che Giuseppe Ungaretti realizzò a Valloncello di Cima Quattro il 5 agosto 1916,
dalla sua prima raccolta in versi, Il porto sepolto del 1916 appunto, e successivamente inserita, nel
1919, in Allegria dei naufragi, divenuta in seguito L’Allegria.
70
Capitolo Terzo
cui unica colpa è la sua debolezza, non si cerca di capirne i motivi
fornendogli magari gli strumenti e gli stimoli giusti per affrontarla?
Il problema e motivo principale della tossicodipendenza, infatti,
risiede proprio nell’insicurezza, nel pensare di non essere in grado di
rapportarsi agli altri, indipendentemente dall’età e dal ruolo occupato
nella società.
Ne fornisce un esempio la vicenda umana dello stesso Fabrizio
De Andrè che, a dispetto della sua fama e per sua stessa ammissione,86
usava quotidianamente una gran quantità di whisky per far fronte alla
sua timidezza fino al 1985, quando il padre, in punto di morte, riuscirà
a strappargli la sua ultima promessa, ovvero, di allontanarsi
definitivamente dalla “bottiglia”.
È proprio per questo motivo che Fabrizio sceglie, fra i tanti,
questo testo di Mannerini cambiandone innanzitutto il titolo che da
Eroina trasforma in un più generico, e grave allo stesso tempo,
Cantico dei drogati,87 laddove per droga si deve intendere qualunque
sostanza che possa creare una totale dipendenza, al di là del fatto che
sia legale o meno. A questo punto penso sia palese anche lo stimolo
86
Su questo vedi Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo..., cit. , p. 42 che riporta alcuni
brani di una precedente intervista al cantautore realizzata da Roberto Cappelli e pubblicata dalla
rivista «Mucchio selvaggio» nel numero di settembre del 1992 con il titolo Cantico per i diversi.
87
Per tale questione rimando alla già citata sezione Vita e opere realizzata da Sandra Verda (p. 26)
ed inserita in Mannerini, Un poeta cieco di rabbia, cit.
71
Capitolo Terzo
autobiografico seguito dall’autore nel suo apporto originale al
suddetto brano.
Il brano successivo è il primo dei tre Intermezzi presenti
nell’album. Per quanto riguarda i primi due, una buona analisi è stata
già svolta da Lisa Tibaldi nel suo saggio sul cantautore genovese dal
titolo La poesia per musica di Fabrizio De Andrè:
I due intermezzi sono costituiti da due frasi negative, in
entrambi i casi la prima riguarda il “non sapere” mentre l’altra il “non
avere”. Gli arcobaleni e i ruscelli del Primo Intermezzo corrispondono
alle tombe e ai capelli del secondo. De Andrè, attraverso queste
immagini incisive, vuole esprimere la distanza tra il mondo in cui si
muovono le vittime (drogati, fanciulle violate e impiccati) e quello
degli altri uomini.88
Incastonato fra questi due brani, quasi come fosse un quadro in
una cornice, grazie anche alla ricercata tessitura musicale, si trova
Leggenda di Natale. Questo testo viene elaborato dall’autore
ispirandosi a una composizione di Georges Brassens del 1960: Le père
Noël et la petite fille.
Particolarmente durante il suo primo decennio di attività
artistica, De Andrè s’ispirò o addirittura tradusse e interpretò molti
88
L. Tibaldi, La poesia per musica di Fabrizio De Andrè, Civitella in Val di Chiana, Zona 2005, p.
115.
72
Capitolo Terzo
brani di questo cantautore francese89 condividendone evidentemente,
oltre allo stile musicale, anche e soprattutto i contenuti dei suoi testi, a
partire dalle idee anarchiche e libertarie, la sua spiccata vena satirica e
autoironica, fino al costante impegno antimilitarista.
Il brano presente in questo album narra la storia di una fanciulla
traviata da un uomo molto più maturo, identificato solo con un
generico «Babbo Natale». Tale appellativo però non è casuale ma sta a
significare l’assoluta assenza di malizia nella mente della protagonista
che vede, nei preziosi regali e nei modi gentili dell’attempato signore,
solo dei segni di profonda amicizia. Il verso finale però, dove
ritroviamo la parola «Natale» che rende più feroce il gesto compiuto
nel giorno più sacro, lascia intendere che il fine di quei gesti fosse
decisamente più crudele e morboso.
La profonda amarezza lasciata dall’ascolto di questo brano si
stempera nella musica, che potremmo anche definire psichedelica, del
Secondo Intermezzo il cui testo però ne ribadisce alcuni elementi
principali quali i «fiori», gli «amori» e i «capelli».
Si arriva così al secondo dei tre pezzi più importanti dell’intiero
lavoro: La ballata degli impiccati. L’importanza di questo brano è
89
Per un’analisi più dettagliata di tale questione rimandiamo ad Arato, Tra Lerici e Turbìa.
Fabrizio De Andrè e Georges Brassens, cit. , pp. 735-740.
73
Capitolo Terzo
data, oltre che dalla profonda incisività del testo, da almeno due fattori
significativi.
Innanzi tutto è posto al centro dell’album, mentre gli altri due
sono posti naturalmente ad apertura e alla conclusione dello stesso:
pertanto riteniamo verosimile che esso possa rappresentare il nucleo
dell’argomento sviluppato da De Andrè in questa sua opera; tale
nucleo tuttavia si sviluppa ulteriormente nei due brani successivi,
Inverno e Girotondo, formando così un vero e proprio trittico
musicalmente ininterrotto al quale, non a caso evidentemente, seguirà
il Terzo Intermezzo. Altro particolare emblematico è il verso iniziale
che riporta il titolo dell’intera opera: «Tutti morimmo a stento».
Il titolo di questo singolo brano, come non pochi altri elementi
del testo, si rifà a un componimento di François Villon: Ballade des
pendus.90
Di questo poeta, sulla cui vera identità gli studiosi non sono
ancora arrivati a fare piena luce ma verosimilmente la si associa
spesso al nome di François de Montcorbier, si sa con sicurezza che
visse nella seconda metà del Quattrocento ed ebbe non pochi problemi
con la giustizia.
90
F. Villon, Lascito testamento e poesie diverse, a cura di M. Liborio, Milano, Rizzoli 1990, pp.
456-459.
74
Capitolo Terzo
Questa ballata infatti, conosciuta anche come Epitaphe Villon,
potrebbe esser stata da lui composta per invocar pietà a chi di dovere,
in merito alla condanna a morte per impiccagione comminatagli in
seguito ad una rissa e mutata poi, provvidenzialmente, in un esilio di
dieci anni da tutto il territorio di Parigi e dintorni.
Anche questo antico poeta medievale dalla vita tempestosa
focalizzò più volte l’attenzione di De Andrè, che si servì delle sue
rime anche per altre sue canzoni e, nel 1996, come abbiamo avuto
modo di segnalare precedentemente, arriverà a firmare una Prefazione
a una raccolta di sue poesie.91
A fornire al cantautore lo stimolo giusto per la stesura di questo
testo però contribuì anche un preciso fatto di cronaca “nera” avvenuto
qualche anno prima, nel 1963 precisamente; a descriverlo, ricordando
l’articolo di giornale che lo riportava, è lo stesso De Andrè nella già
citata Prefazione del 1996:
La corte di Johannesburg aveva destinato all’impiccagione otto
presunti malviventi, naturalmente neri. L’estensione dell’articolo così
descriveva il disperato infantile esorcismo del loro terrore: ballavano e
cantavano sotto le corde prima di essere appesi. Poi si dilungava
91
Villon, Poesie, cit.
75
Capitolo Terzo
appena nel macabro dettaglio del subito dopo: e scalciarono per un
po’, alcuni sono durati un attimo, altri qualche minuto.92
Realizzando il testo di questa canzone, De Andrè parte
indubbiamente dall’Epitaphe Villon, ma il tono dell’intero brano e
alcuni termini legati a delle immagini precise sono senz’altro da
ricollegare alla cronaca dell’avvenimento di Johannesburg appena
ricordato.
La composizione, infatti, nei suoi trentadue versi a rima alterna
privi di un vero ritornello e con al suo posto solamente un vocalizzo,
ha un tono completamente diverso dalla ballata di Villon: se il
francese inizia con un affettuoso «Freres humains qui aprés nous
vivez»,93 il cantautore invece, con il verso «Tutti morimmo a stento»,
usa una crudezza che mira a colpire il lettore, o meglio l’ascoltatore,
piuttosto che impietosirlo. Muovere a pietà era naturalmente lo scopo
principale di Villon e la ripetuta invocazione di una preghiera a Dio
affinché assolva quei condannati dai loro peccati ne è la chiara
dimostrazione.
Per quanto riguarda il punto di vista religioso, dimensione
fondamentale nella Francia del Quattrocento, Villon, oltre a Dio,
92
93
Ivi, p. 459
Villon, Lascito…, cit. , p.456.
76
Capitolo Terzo
chiama in causa anche «le Filz de la Vierge Marie»94 ovvero il «Prince
Jesus»95 e «l’infernale fouldre»96 dell’«Enfer».97
Le parole di De Andrè invece, oltre a non citare forze divine od
infernali, sono colme di rabbia e di maledizioni nei confronti di coloro
che derisero, seppellirono e rinnegarono quei condannati a morte,
all’interno dei quali l’autore stesso si pone usando, come del resto
anche Villon, un tipo di narrazione basata sulla prima persona plurale.
E infine, se il poeta si preoccupa dei suoi «fratelli umani» fino a
scrivere «ne soiez donc de nostre confrairie»,98 la canzone di De
Andrè si chiude invece con un avvertimento a tutti coloro che vivono
ancora giacché la loro morte «è soltanto un discorso sospeso».
Ancora riguardo al testo di questo brano, l’autore si è avvalso
della collaborazione di Giuseppe Bentivoglio, che nel decennio
successivo scriverà ancora con il cantautore genovese, arrivando a
essere il coautore di tutti i testi di altri due suoi concept album: Non al
denaro, non all’amore né al cielo, del 1971, e Storia di un impiegato,
pubblicato nel 1973.
94
Ibid.
Ivi, p. 458.
96
Ibid.
97
Ibid.
98
Ibid.
95
77
Capitolo Terzo
I due brani successivi chiudono il trittico che abbiamo cercato
di tracciare in precedenza; entrambi affrontano il medesimo
argomento, come del resto e anche se da differenti punti di vista, di
tutti gli altri testi dell’album: la Morte. Questa volta però sono le
forme e i generi con i quali viene descritta a essere posti una di fronte
all’altra.
Inverno, che inizia musicalmente con un lento “dialogo” swing
tra pianoforte e tromba, è ricondotta da Fasoli, a un genere poetico ben
preciso:
In Inghilterra, nel Settecento, era in voga un genere poetico
chiamato «poesia stagionale». I poeti che lo praticavano cantavano le
stagioni dell’anno ed i riflessi delle loro atmosfere sull’animo umano.
De Andrè fa qualcosa di simile, scegliendo l’inverno come specchio di
una condizione generale della vita dell’uomo e del mondo: l’inverno è
l’immagine della natura che si annulla nel bianco della neve e nel nero
degli alberi spogli, e in questo è il simbolo della ciclica fine di tutte le
cose.99
Di contro a questa, che azzardiamo definire canzone
dall’innesto poetico, riferendoci ancora al genere «stagionale»100
99
Fasoli, Fabrizio De Andrè: passaggi di tempo…, cit. , p. 118.
Tuttavia, Fabrizio De Andrè, non era nuovo all’uso di questo genere poetico. In tal senso,
ritroviamo dei rimandi più o meno espliciti anche in alcune altre sue precedenti canzoni, quali ad
esempio: Valzer per un amore del 1964, La canzone dell’amore perduto del 1966, La stagione del
tuo amore inserita nell’album Volume I del 1967 e infine anche il Terzo Intermezzo dell’album che
stiamo attualmente analizzando.
100
78
Capitolo Terzo
ricordato da Fasoli, troviamo Girotondo che, come si può evincere
dallo stesso titolo, ha invece una derivazione nettamente popolare.
Il brano in questione è stato infatti concepito, anche
musicalmente, come una filastrocca per bambini: il ritmo molto
semplice e brioso, scandito dalla sola chitarra, ne è un chiaro
esempio, come pure l’ostinata ripetizione nel testo delle classiche
formule di questo tipo di filastrocche quali «marcondiro’ndero»,
«marcondiro’ndera» e «marcondiro’ndà».
Leggendo però attentamente il testo, di questo che potrebbe
anche apparire un banale divertissement, si possono rintracciare degli
elementi pure seri e importanti.
La costruzione testuale gioca essenzialmente su una serie di
domande e risposte formulate usando una terminologia fanciullesca o
addirittura infantile; l’autore usa però questo espediente per porre
degli interrogativi riguardanti alcune questioni che facete non sono
quali la religione, l’ecologia e la guerra.
Questi temi erano allora, come del resto anche oggi, di forte
attualità e strettamente collegati, in particolare gli ultimi due, alle
numerosissime manifestazioni “sessantottine” di protesta: proprio in
quegli anni difatti, alcuni conflitti, come quello che si stava
79
Capitolo Terzo
perpetuando nel Vietnam, erano motivo di una fortissima indignazione
popolare; contemporaneamente era in atto un conflitto, per fortuna
quasi esclusivamente diplomatico, che vedeva contrapposti i due
blocchi politici, economici e ideologici cui facevano capo l’ex Unione
delle Repubbliche Socialiste Sovietiche da un lato e gli Stati Uniti
d’America dall’altro.
Questa situazione, la cosiddetta “Guerra Fredda”, lasciava però
presagire il peggio: un eventuale impiego delle armi in possesso delle
due superpotenze, infatti, quali ad esempio la bomba all’idrogeno,
avrebbe distrutto ogni forma di vita esistente, lasciando avvolta la
Terra in uno scenario apocalittico.
Tale scenario è quello che De Andrè descrive alla fine del testo
di Girotondo, dove però, quasi come una speranza o una preghiera,
immagina che l’intero pianeta divenga di dominio esclusivo delle
uniche forme di vita rimaste, i bambini, che la userebbero infine solo
per i loro giochi.
Ancora due precisazioni su questo brano che comprendono
anche il livello semantico dell’interpretazione. La prima riguarda
l’orchestra che in questo brano è assente significativamente fino ai
versi «ci penseranno gli uomini, le bestie e i fiori / i boschi e le
80
Capitolo Terzo
stagioni con i mille colori», dove il suo ingresso pone l’accento,
attraverso un timido tappeto di archi, sull’ultima ipotesi possibile circa
l’interrogativo, neanche tanto sotteso, posto in lettere da Fabrizio De
Andrè in questo brano: «riuscirà la Terra a sopravvivere a una guerra
nucleare?»
Dopo aver vanificato anche l’ipotesi che la natura, con le sue
creature, possa salvare o almeno consolare il pianeta, il coro, ed ecco
la seconda precisazione, chiude la filastrocca insieme all’orchestra
che, grazie anche a degli strumenti e armonie di chiara matrice
folklórica, scandisce nettamente e in maniera bandistica gli ultimi
versi.
Essi vengono concepiti dalla penna di De Andrè in continua
ripetizione delle stesse parole ma con un ordine sempre leggermente
mutato, così da creare, all’atto dell’ascolto, un effetto straniante e
psichedèlico.
Il coro P. Carapellucci, diretto dallo stesso maestro d’orchestra
Giampiero Reverberi, è un elemento interpretativo fondamentale in
questo brano, dove interagisce direttamente col cantautore sin dai
primi versi; lo ritroveremo ancora ad alternarsi alla voce solista di
81
Capitolo Terzo
Fabrizio De Andrè nella composizione finale che è posta di seguito al
Terzo Intermezzo.
L’ultimo dei tre Intermezzi, a sua volta, differisce molto dai
primi due: sia nel testo, che consta di otto versi anziché quattro
ripetuti, sia nella parte musicale, dove troviamo un ritmo più lento
abbinato a una diversa melodia. Dei precedenti però mantiene
sostanzialmente la funzione di collante tra due brani. Più
precisamente, questo avviene ribadendo alcuni elementi rintracciabili
nel pezzo precedente, presentandone contemporaneamente anche altri
che riguardano la composizione che chiude l’intero album.
I due elementi descritti sommariamente negli otto versi del
Terzo Intermezzo sono la guerra, come sinonimo di morte, e in
contrapposizione a essa, l’amore. A ognuno di essi sono dedicati due
distici che ne evidenziano alcune caratteristiche fondamentali, quali ad
esempio: «la polvere il sangue le mosche l’odore», per quanto
riguarda il primo elemento, e «l’estate nel cuore»,101 per il secondo.
Infine, sul ritmo, un “terzinato” lento della chitarra cui
sopraggiunge delicatamente l’orchestra solo nel secondo e nel quarto
101
Anche questo verso si riaggancia a quel filone, precedentemente descritto, che Fasoli definisce
«poesia stagionale». Su questo vedi anche la nota n. 100.
82
Capitolo Terzo
distico, ha anch’esso una funzione di preparazione al lento valzer
finale.
Nell’ultimo brano del presente album, infatti, l’orchestra
scandisce un ritmo ternario molto lento, nel quale peraltro la chitarra
solista di Fabrizio segna il passo, dopo aver avuto un ruolo
fondamentale in tutti i brani precedenti, dando spazio alla corposa
tessitura orchestrale che l’enfasi di quest’ultimo testo richiede.
La chiusura di Tutti morimmo a stento è in verità affidata a una
composizione di due testi che si avvicendano sul medesimo intervento
orchestrale; anche nei titoli riportati sulla copertina del disco102
vengono distinti in: Recitativo (due invocazioni e un atto di accusa) e
Corale (leggenda del re infelice).
A dividere ulteriormente i testi è anche l’esecuzione canora: è
naturalmente lo stesso autore a declamare, anziché cantare stavolta, i
versi del Recitativo mentre il Corale è affidato al coro di voci bianche
P. Carapellucci, com’è stato già accennato in precedenza.
Dopo aver evidenziato alcuni aspetti di questa composizione
riguardanti più che altro il livello semantico dell’interpretazione,
102
Per questa e tutte le altre simili questioni inerenti alla discografia di Fabrizio De Andrè quali
didascalie, crediti, differenti versioni, ecc., si consulti la sezione Discografia curata da Mariano
Brustio all’interno del libro Belin, sei sicuro? Storia e canzoni di Fabrizio De Andrè, a cura di R.
Bertoncelli, Firenze, Giunti 2003.
83
Capitolo Terzo
possiamo ora occuparci in maniera più approfondita del suo livello
testuale.
Il Recitativo consta di cinque strofe di otto versi ciascuna,
suddivisibili in due quartine a rima alternata o sostituita in sei casi da
assonanza, secondo lo schema ABABCDCD; invece, i versi del Corale
anch’essendo sempre otto per ognuna delle tre strofe che lo
compongono, sono quasi privi di rima, eccezion fatta per alcune
assonanze presenti nella seconda strofa. Il registro linguistico che
l’autore qui adotta è anch’esso diviso: aulico e ricco di figure retoriche
quello del primo testo, semplice e lineare per il secondo.
De
Andrè
costruisce
il
testo
del
Recitativo
citando
esplicitamente i protagonisti, fisici o metaforici, degli altri brani di
questo long playing. Sono naturalmente esclusi da quest’architettura i
tre Intermezzi e, in un certo qual modo, anche il Girotondo che però è
legato al Corale per evidenti motivi interpretativi e testuali.
Nella prima strofa del Recitativo ritroviamo quindi i
protagonisti del brano che apre l’album, vale a dire i «drogati», a
invocare pietà per coloro i quali non hanno mai avvertito la necessità
di nascondersi dietro una “sostanza” per affrontare le avversità della
vita.
84
Capitolo Terzo
Nella seconda strofa, dopo la prima parte del Corale, sono le
«fanciulle traviate», come la protagonista di Leggenda di Natale, a
narrare la loro fragile esistenza e a invocar pietà proprio a coloro che,
potenzialmente, possono identificarsi con il «Babbo Natale» della
suddetta canzone.
Subito dopo, nella terza strofa, è il popolo dei condannati a
morte a prender la parola ma l’intento, questa volta, è
diametralmente opposto: non invocano pietà come i precedenti
personaggi bensì ribadiscono la loro rabbia, già evidenziata nella
canzone Tutti morimmo a stento, nei confronti dei loro carnefici.
Gli ultimi quattro versi della stessa strofa sono usati dall’autore
per ribadire il suo scetticismo nei confronti di una giustizia che
condanna, spesso anche degli innocenti, a una pena capitale,
arrogandosi un diritto che spetterebbe solamente a Dio.
Dopo la seconda incursione del coro all’interno di questo
brano troviamo le due strofe finali del testo interpretato dalla sola
voce del cantautore. La prima di queste due strofe accenna a un
altro brano presente nell’album, Inverno, utilizzando alcuni
termini a esso riconducibili quali «le sere di novembre», il «fioco
lume» e, significativamente, i «camposanti».
85
Capitolo Terzo
È l’ultima strofa, però, a racchiudere in sé il senso ultimo
dell’intero lavoro e, a nostro parere, la sua immagine poetica più
incisiva e suggestiva.
Per quanto concerne la prima di queste due precisazioni,
esplicitata nei primi quattro versi della strofa, è senza dubbio un
monito della coscienza che esorta gli uomini a non negare a
nessuno, fosse anche il più crudele dei criminali, un momento di
pietà.
Anche perché nessuno tra gli uomini può, in ultima istanza,
condannare l’intera esistenza di un altro uomo senza risultare
colpevole egli stesso al cospetto di Dio. È l’umana pietà, allora, il
sentimento che ci consente di condurre una vita dignitosa e di
pensare alla morte senza alcun timore.
Che poi sia proprio il sentimento della pietà a essere centrale
in questo testo, lo si può comprendere anche dal numero e dalla
posizione delle sue ripetizioni: al quarto e all’ottavo verso delle
prime due strofe; al primo verso della quarta strofa; al terzo verso
della quinta strofa; per quanto riguarda il Recitativo. Nel Corale
invece il termine «pietà» si ripete per ben tre volte consecutive
86
Capitolo Terzo
fungendo da chiusura della composizione e, con essa, anche
dell’intero album.
L’autore raggiunge poi il punto poetico più alto nell’ultima
quartina della quinta e ultima strofa, dove costruisce un’allegoria
basata su di una similitudine tra la «morte» e il «villano»; entrambi
i personaggi sono accomunati dall’uso della falce e tutti e due
sorvegliano
quelli
che
saranno
i
frutti
del
loro
lavoro,
rispettivamente, gli uomini e il grano:
Sappiate che la morte vi sorveglia,
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano
finché non sia maturo per la falce.
Si possono anche rintracciare, in questi versi, una figura
retorica, l’anastrofe del penultimo verso, e una rima alquanto
ricercata, o rara, tra il sesto e l’ottavo verso (calce/falce).
Sull’altro testo compreso in questo brano, il Corale
(leggenda del re infelice), possiamo solo dire che è stato
sicuramente
composto
dall’autore
per
meglio
chiarire,
esemplificandolo in un linguaggio e una forma quasi infantili, il
valore che egli attribuisce a quel sentimento di pietà di cui
abbiamo già trattato e che crediamo sia, in ultima analisi, una delle
87
Capitolo Terzo
principali tematiche sviluppate da Fabrizio De Andrè nell’intero
corpus delle sue opere.
Ricollegandoci a quello che abbiamo adottato come filo
conduttore della nostra ricerca ovvero la critica di questo autore
nei confronti del potere, possiamo affermare che quello che egli
denuncia attraverso i testi che abbiamo sin qui esaminato è la
totale assenza, nelle leggi e nelle istituzioni così come nei cuori di
molti uomini facoltosi e benpensanti, di un minimo accenno di
pietà nei confronti di chi, anche solo per una sua paura o
debolezza, abbia commesso un errore.
88
Capitolo Terzo
III.3
Storia di un impiegato
[1973]
Introduzione
Canzone del maggio
La bomba in testa
Al ballo mascherato
Sogno numero due
Canzone del padre
Il bombarolo
Verranno a chiederti del nostro amore
Nella mia ora di libertà
89
Capitolo Terzo
Questa opera di Fabrizio De Andrè è forse quella più discussa e
contestata poiché è sicuramente quella che appare più esplicitamente
coinvolta in un discorso politico e ideologico.
Storia di un impiegato è in verità una lucidissima e altrettanto
cinica riflessione sugli esiti del Sessantotto, composta con la
consapevolezza derivante dal lasso temporale di un lustro che
intercorre tra i primi eventi di protesta e contestazione e la data di
pubblicazione dell’album.
Cercando di accantonare tutte le polemiche che questo album di
De Andrè suscitò nel panorama politico dell’epoca, e particolarmente
nelle sue frange estremiste, le quali si espressero da destra tacciandolo
di propaganda rivoluzionaria e da sinistra contestandone la troppa
disinvoltura e una “innocua” deriva qualunquista, cercheremo invece
in questa sede di trattare questo lavoro dell’autore in maniera diversa.
Innanzi tutto l’implicazione del filo conduttore delle nostre
ricerche, vale a dire la critica di Fabrizio De Andrè nei confronti del
potere e dei suoi detentori, ci sembra talmente esplicita, all’interno di
questo suo lavoro, da convincerci di evitare di ribadirla ancora oltre,
nell’ambito di quest’analisi. Del resto, basterebbe anche solo la sua
90
Capitolo Terzo
scelta di occuparsi, e in tal modo, delle proteste sessantottine ad
avvalorare ancora una volta le nostre tesi.
Naturalmente e per sua stessa ammissione, De Andrè approvò
molte delle istanze rivoluzionarie di quel periodo, ma quello che egli
elaborò in questo suo disco non può e non deve essere ricondotto e
circoscritto in un ambito politico in senso stretto.
Oltretutto,
anche
se
con
toni,
atmosfere
e
contenuti
assolutamente differenti, già un altro dei suoi precedenti album, La
buona novella del 1970, era stato composto dal cantautore con
l’intento di allegorizzare i moti rivoluzionari “sessantottini”:
Quando scrissi La buona novella era il 1969 quindi in piena lotta
studentesca. Le persone meno attente, che poi sono sempre la maggioranza di noi,
compagni, amici e coetanei, considerarono quel disco come anacronistico. Mi
dicevano: “Come, noi andiamo a lottare nelle università e fuori dalle università
contro abusi e soprusi e invece tu ci vieni a raccontare la storia, che per altro già
conosciamo, della predicazione di Gesù Cristo?”. Non avevano capito che La
buona novella voleva essere un’allegoria, un’allegoria che si precisava nel
paragone fra le istanze migliori e più sensate della rivolta del Sessantotto, e
istanze, da un punto di vista spirituale sicuramente più elevate ma da un punto di
vista etico-sociale direi molto simili, che un signore 1969 anni prima aveva fatto
91
Capitolo Terzo
contro gli abusi del potere, contro i soprusi dell’autorità in nome di una fratellanza
universale. Si chiamava Gesù di Nazareth e secondo me è stato ed è rimasto il più
103
grande rivoluzionario di tutti i tempi.
Quello che allora Fabrizio De Andrè realizza nel 1973 è un
nuovo e originalissimo concept album che narra le vicende e i
sentimenti di un uomo che, da ignaro impiegato statale, si trasforma,
attraverso una presa di coscienza della realtà sociale che lo circonda,
in un maldestro terrorista eversivo; il protagonista riuscirà alla fine a
comprendere pienamente l’inutilità del suo gesto solitario ma solo
dopo essere stato rinchiuso in cella, dove, entrando in contatto con
altri detenuti che hanno avuto un percorso e un destino simili ai suoi,
capisce l’importanza della collettività e della condivisione dei valori e
degli obiettivi da raggiungere.
L’interpretazione degli avvenimenti accaduti in quegli anni,
elaborati artisticamente in questa sua opera, avvicinano ancora una
volta la figura di questo cantautore a quella di Pier Paolo Pasolini.
Infatti, alcune delle opere dello scrittore, come, ad esempio, la
raccolta di articoli e saggi, precedentemente pubblicati sulle colonne
di alcuni dei maggiori quotidiani nazionali e raccolti, poi, nel volume
103
Appunti apocrifi… e le mie braccia divennero ali…, in Volammo davvero…, cit. , p. 365.
92
Capitolo Terzo
Scritti corsari,104 come anche un gran numero di dichiarazioni dello
stesso Pasolini, raccolte recentemente in un altro volume, che nel
titolo s’ispira al precedente, ovvero Interviste corsare,105 riflettono
delle prese di posizione molto vicine a quelle enucleate da De Andrè
in Storia di un impiegato.
Del resto, le corrispondenze che intercorrono tra le opere del
cantautore e quelle dello scrittore, da noi già trattate in un capitolo
precedente, sono oggetto di ricerca anche di molti critici che scelgono
di occuparsi di questi due intellettuali italiani del nostro Novecento;
Bruno Bigoni e Romano Giuffrida, ad esempio, nel loro saggio
Canzoni corsare, confrontando le opere di Pasolini e De Andrè,
affermano:
Vi sono in entrambi connotazioni ideologiche, etiche e sentimentali
comuni nella rivendicazione di una radicale diversità che si esplicita in
un’opposizione inesausta al mondo borghese e alla sua razionalità alienante e
distruttiva.106
104
P. P. Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti 1991.
P. P. Pasolini, Interviste corsare sulla politica e sulla vita 1955-1975, a c. di M. Gulinucci,
Roma, Liberal Atlantide Editoriale 1995.
106
F. De Andrè, Accordi eretici, a cura di R. Giuffrida e B. Bigoni, Milano, EuresisEdizioni 2001,
p. 63.
105
93
Capitolo Terzo
Ci sembra doveroso ricordare, prima di spingerci oltre, che
anche se l’idea, il progetto e la realizzazione di Storia di un impiegato
è indubbiamente e in massima parte frutto dell’elaborazione creativa
di Fabrizio De Andrè, l’album risulta essere stato scritto con l’apporto
di Giuseppe Bentivoglio per la parte testuale e di Nicola Piovani per
quella musicale.
Entrambi hanno avuto i medesimi ruoli anche nel precedente
Non al denaro, non all’amore né al cielo, a dimostrazione del fatto
che l’Opera dell’autore genovese ha avuto, nel corso degli anni, una
serie di mutazioni o cicli che ne riflettono, passo dopo passo, la
crescente maturità e durante le quali De Andrè sceglieva,
significativamente, di avvalersi della collaborazione di alcuni,
piuttosto che di altri, autori.
Tornando all’album Storia di un impiegato, una delle prime
cose da sottolineare è la sua attitudine cinematografica: lo
svolgimento di questo disco, infatti, è molto vicino a quello di un film,
dove viene narrata una storia sottolineandone, di volta in volta, gli
aspetti e i passaggi più importanti.
Questo è tanto più evidente se lo si confronta con l’album Tutti
morimmo a stento precedentemente analizzato: in quello, infatti, non
94
Capitolo Terzo
vi era uno sviluppo cronologico bensì un’esposizione di diverse
situazioni emotive accomunate dal tema costante della Morte e legate
tra loro da un espediente tecnico, vale a dire i tre Intermezzi.
L’album del 1973, grazie alla caratteristica appena evidenziata,
è sicuramente uno dei più organici e unitari di tutta la produzione di
De Andrè: i testi in esso contenuti, infatti, poco si prestano a delle
analisi singole e separate in quanto, in ogni sua singola composizione,
si possono trovare dei rimandi più o meno espliciti ad altri luoghi
dell’album, così come frequenti sono anche le riproposizioni di uno
stesso motivo musicale, di volta in volta, diversamente elaborato, cosa
questa che conferisce all’opera una sua particolare organicità anche
dal punto di vista sonoro.
Una distinzione che possiamo attuare però è quella che riguarda
i tre momenti fondamentali vissuti dal protagonista, accompagnati da
altrettanti mutamenti del suo stato d’animo: dei nove brani che
compongono
complessivamente
l’album,
infatti,
i
primi
tre
corrispondono al primo momento, i tre successivi a un altro di questi e
gli ultimi tre a quello finale.
I primi tre brani, Introduzione, Canzone del maggio e La bomba
in testa, introducono appunto l’argomento e mostrano il protagonista
95
Capitolo Terzo
dell’intero LP che entra in contatto con i sentimenti che animavano i
moti rivoluzionari di qualche anno prima.
Nell’Introduzione, brano per lo più strumentale che inizia piano
con un fischio che accenna quella che sarà poi la melodia dei suoi
pochi versi, la voce del cantautore, traducendo in parole i pensieri
dell’impiegato, descrive sommariamente i protagonisti della rivolta
studentesca, ovvero «i cuccioli del maggio».107
In questi pochi versi liberi, il fattore che viene evidenziato dagli
autori è il termine di paragone che il protagonista adotta
nell’osservare, o nel ricordare, quei gruppi di contestatori: l’età, e tutto
quello che ne comporta; il giudizio del protagonista è, in questo primo
brano, quello di un uomo maturo e con maggiore esperienza e
responsabilità che guarda dei ragazzi «giocare» a far la rivoluzione,
rapiti forse da quei sentimenti romantici che sono propri di
quell’intrepida
stagione
della
vita,
segnata
dal
passaggio
dall’adolescenza all’età adulta.
Proprio grazie alla loro giovinezza, infatti, essi possono, o
meglio potevano, anche permettersi il lusso di protestare fino a finire
in galera per qualche tempo, a differenza degli adulti che invece sono
107
L’autore si riferisce naturalmente alle manifestazioni del Maggio francese del Sessantotto
96
Capitolo Terzo
soggetti a delle responsabilità ben precise e che proprio per questo
percepiscono oramai il trascorrere del tempo quasi come un
susseguirsi di scadenze piuttosto che come un alleato fedele, come si
deduce infine dai pensieri del protagonista.
Proprio da un canto di quei giovani ribelli dell’epoca, composto
realmente da un’anarchica parigina che lo cede ai due autori a patto
che non venga menzionata nei crediti del disco perché ancora ricercata
dalla polizia gollista, viene liberamente tratto il secondo brano,
Canzone del maggio appunto, che chiama in causa tutti, compreso
naturalmente l’ignaro, almeno fino ad allora, protagonista.
Di questo testo esistono almeno due versioni: una è quella
ufficiale inserita nell’album del 1973, l’altra, inedita su disco, è stata
eseguita dall’autore in alcune delle sue performance “dal vivo” come,
ad esempio alla manifestazione Festival Re Nudo del 1976; scegliamo
di riportare qui il testo della seconda, e analizzare le principali
differenze che intercorrono tra le due, al fine di ricostruire le scelte
dell’autore, sia dal punto di vista stilistico che da quello
contenutistico:
Anche se il nostro maggio
ha fatto a meno del vostro coraggio
se la paura di guardare
97
Capitolo Terzo
4
vi ha fatto guardare in terra
se avete deciso in fretta
che non era la vostra guerra
voi non avete fermato il tempo
8
gli avete fatto perdere tempo.
E se vi siete detti
non sta succedendo niente,
le fabbriche riapriranno,
12
arresteranno qualche studente
convinti che fosse un gioco
a cui avremmo giocato poco
voi siete stato lo strumento
16
per farci perdere un sacco di tempo.
Se avete lasciato fare
ai professionisti dei manganelli
per liberarvi di noi canaglie
20
di noi teppisti di noi ribelli
lasciandoci in buonafede
sanguinare sui marciapiedi
anche se ora ve ne fregate,
24
voi quella notte voi c'eravate.
E se nei vostri quartieri
tutto è rimasto come ieri,
se sono rimasti a posto
28
perfino i sassi nei vostri viali
se avete preso per buone
le "verità" dei vostri giornali
non vi è rimasto nessun argomento
32
per farci ancora perdere tempo.
Lo conosciamo bene
98
Capitolo Terzo
il vostro finto progresso
il vostro comandamento
36
"Ama il consumo come te stesso"
e se voi lo avete osservato
fino ad assolvere chi ci ha sparato
verremo ancora alle vostre porte
40
e grideremo ancora più forte
voi non potete fermare il tempo
gli fate solo perdere tempo.
Lo schema metrico dei due testi, ovviamente identico, consta di
5 strofe di 8 versi: i primi 6 strutturati su schemi a rime baciate o
alterne, gli ultimi due a rima baciata (strofe I, III, V) o in assonanza
(strofa II: strumento / tempo, e strofa IV: argomento / tempo); tutte le
strofe sono costruite, comunque, su un sistema di 5 rime.
Lo schema delle strofe, inoltre, si organizza secondo due moduli
ricorrenti: il primo, comune alle strofe I e IV, segue il modello
AABCDCEE (nella strofa IV, come già segnalato, E è in assonanza); il
secondo, invece, è comune alle strofe II, III e V, secondo il modulo
ABCBDDEE (nella strofa II E è in assonanza; nella strofa III D è in
consonanza e presenta vocale tonica identica).
A queste cinque strofe, si aggiunge, a chiusura del brano, un
ultimo distico che, come i distici finali di ognuna delle strofe, ha quasi
99
Capitolo Terzo
una funzione di ritornello, o refrain, come sottolinea, efficacemente,
anche l’accompagnamento musicale.
Questi ultimi due versi hanno una funzione fondamentale
nell’economia del pezzo, ovvero, quella di ribadire il concetto
espresso anteriormente nei distici finali di tre delle cinque strofe
presenti nel testo (vv. 7-8; 15-16; 31-32).
I distici finali della terza e della quinta strofa, invece, sono
identici in ambedue le versioni: «anche se ora ve ne fregate, / voi
quella notte voi c’eravate», ribadisce, anche se con parole diverse, il
senso espresso nei versi precedenti, mentre «verremo ancora alle
vostre porte / e grideremo ancora più forte», servono come
preparazione e aggancio al distico finale.
Dal punto di vista contenutistico, le differenze tra le due
versioni sono poche ma sostanziali. Si nota innanzi tutto nella
versione inedita una maggiore incisività legata a una terminologia più
esplicita nei confronti degli scontri di piazza: termini quali «guerra»,
«professionisti dei manganelli», «sparato» e la contestazione dello
slogan «ama il consumo come te stesso» plasmato su uno dei
Comandamenti della religione cristiana, restituiscono fedelmente la
rabbia presente nelle piazze in quei giorni ormai lontani.
100
Capitolo Terzo
La differenza più evidente e significativa però riguarda quei
distici finali ai quali prima accennavamo: se nella versione preferita
dall’autore nelle sue esecuzioni durante i concerti, è ancora una volta
il concetto del “tempo” a essere messo in evidenza, come ad esempio
«voi non avete fermato il tempo / gli avete fatto perdere tempo» o
«voi siete stato lo strumento / per farci perdere un sacco di tempo» e
altre variazioni di questo genere, nella versione ufficiale a cambiare è
anche e soprattutto il senso, insieme alle parole.
Nell’album, infatti, è l’autoassoluzione collettiva contrapposta
al coinvolgimento diretto durante le contestazioni a essere
menzionato: versi come «anche se voi vi credete assolti / siete lo
stesso coinvolti» o «per quanto voi vi crediate assolti / siete per
sempre coinvolti» chiamano in causa direttamente tutti quelli che in
quel periodo fingevano di non vedere o preferivano restare a guardare
piuttosto che “scendere in piazza”; questa mancanza di partecipazione
era dovuta, nella maggior parte dei casi, anche, o forse soprattutto, alla
paura di poter perdere quel poco che a fatica ognuno si era guadagnato
lavorando faticosamente.
Tale atteggiamento è denunciato nella canzone sin dall’incipit
iniziale che rimane significativamente invariato in entrambe le stesure
101
Capitolo Terzo
del testo: «anche se il nostro maggio / ha fatto a meno del vostro
coraggio».
Ritornando ancora per un attimo su quel distico che si ripete alla
fine di quasi tutte le strofe, la versione che approda in sala d’incisione
non è solo frutto di una scelta stilistica o terminologica ma, al
contrario, essa ha una funzione precisa all’interno dell’opera; non è un
caso evidentemente il fatto che i versi «per quanto voi vi crediate
assolti / siete per sempre coinvolti», oltre a chiudere il brano Canzone
del maggio, siano usati da De Andrè anche come chiusura dell’ultima
composizione, Nella mia ora di libertà, e quindi dell’intero album.
In queste parole, infatti, è contenuta anche una sorta di accusa
che colpisce direttamente la coscienza del protagonista dell’opera e ne
determina così la sua scelta, non poco travagliata, di partecipare
attivamente alla rivolta.
Proprio su questa presa di coscienza, e di coraggio, si basa la
composizione successiva, La bomba in testa, che chiude il primo dei
tre cicli di canzoni nei quali abbiamo deciso di suddividere questo
album. In questo brano è trasposto lo stato d’animo del protagonista
che viene letteralmente sconvolto dalle parole della precedente
canzone udita casualmente in una non meglio specificata occasione.
102
Capitolo Terzo
La sua esistenza, come si può facilmente intuire sin dalle parole
della prima strofa, trascorreva «normale» con al centro un unico
pensiero: il lavoro. Il senso del dovere nei confronti della sua
occupazione è, infatti, l’unica cosa che lo riporta alla realtà durante le
sue riflessioni sulla validità degli argomenti dei contestatari; è proprio
con i sentimenti di questi ultimi che egli si confronta durante i bilanci
che compie, fino ad arrivare alla scelta fatale di ricorrere all’esplosivo
per manifestare la propria solidarietà con quelli che poco prima
considerava «gli ingrati del benessere francese»; ciò che spinge
l’impiegato ad avvicinarsi alle posizioni di questi giovani uomini è
l’universalità delle loro idee, anche perché la loro non era una protesta
circoscritta alla loro società: «e non davan l’idea / di denunciare
uomini al balcone / di un solo maggio, di un unico paese».
Alla fine di questo travaglio che porta direttamente alla sua
presa di posizione forte e netta nei confronti di «chi ha la faccia e
mostra solo il viso / sempre gradevole, sempre più impreciso», ovvero
chi rinuncia a schierarsi per evitare di assumersi alcuna responsabilità,
politica, civile o morale che sia, il protagonista, caduto in uno stato
onirico che segnerà il secondo ciclo di canzoni di questo album, sogna
103
Capitolo Terzo
di autoinvitarsi a una festa in maschera per dar libero sfogo alle sue
nuove tendenze esplosive.
Il primo dei prossimi tre brani s’intitola appunto Al ballo
mascherato. Una pungente analisi di questo testo è stata attuata da
Cesare G. Romana all’interno del suo libro, citato in precedenza,
Smisurate preghiere:
L’Impiegato si autoinvita a un festino dove i miti della
cultura borghese si danno convegno in una sorta di bolgia dantesca.
Brassens è lontano, ora incombono cupe atmosfere dylaniane, par di
rivivere l’adunata di spettri di Desolation Row, con cui De Gregori e
De Andrè si cimenteranno più avanti. Qui danzano insieme Cristo
profeta di pace e Nobel inventore della dinamite, Edipo e Maria
Vergine, la Pietà e la Statua della Libertà, Nelson e Bonaparte,
archetipi contrapposti. Eppoi i simboli primari, i ruoli consacrati dalla
famiglia borghese e maschilista: il padre che “pretende aspirina e
affetto / ma inciampa nella sua autorità”, la madre che “il martirio è il
suo mestiere, la sua vanità”.108
Il secondo brano, di questa che potremo definire una lunga
sequenza onirica trasposta in versi e musica, ha come titolo, e non a
caso, Sogno numero due. Nonostante sia stato spesso trascurato da
coloro i quali studiano i lavori di Fabrizio De Andrè, questo testo ha
una grossa importanza nell’economia totale dell’opera.
108
Romana, Smisurate preghiere…, cit. , p. 55.
104
Capitolo Terzo
Esso infatti, attraverso il discorso diretto di un giudice che,
sempre nei sogni del protagonista, valuta il gesto compiuto da
quest’ultimo nel sogno precedente, racchiude forse il senso di tutto
questo lavoro di analisi tradotto in canzone di Fabrizio De Andrè
riguardo alle contestazioni del Sessantotto.
Le varie imputazioni del magistrato nei confronti del
protagonista dell’album vengono qui tradotte dagli autori, De Andrè e
Bentivoglio, in un linguaggio molto asciutto che punta direttamente e
in pochissimi versi al cuore del problema: il gesto estremo
dell’impiegato, ovvero la costruzione, l’innesco e il conseguente
scoppio della «bomba», da egli compiuto per vendetta nei confronti
dei detentori del potere significava, in realtà, la sua stessa «urgenza di
potere» e celava addirittura una sotterranea e sadica emozione per
quello che è il «ruolo più eccitante della legge / quello che non
protegge / la parte del boia».
Quello che voleva essere un disperato atto di ribellione diviene
così un consolidamento del potere, messo in mano a questo punto allo
stesso imputato: «Tu sei il potere. / Vuoi essere giudicato? / Vuoi
essere assolto o condannato?». Con tali parole, magistralmente
interpretate dalla voce del cantautore con tono austero e perentorio, si
105
Capitolo Terzo
conclude questo brano emblematico che lascia il protagonista, ma
tutto sommato anche il lettore o ascoltatore, alquanto perplesso e
titubante sullo sviluppo della vicenda.
Tornando all’accostamento tra il cantautore e Pier Paolo
Pasolini, ci sembra il caso di segnalare la vicinanza degli argomenti di
questo pezzo con quelli espressi dallo scrittore in una sua
dichiarazione, riportata in seguito in Interviste corsare: «la borghesia
rivoluziona se stessa attraverso la rivolta dei suoi figli».109
Un concetto simile, Pasolini, lo espresse più volte anche nella
sua produzione poetica; ne costituisce un valido esempio La poesia
della tradizione, dalla quale sono tratti i versi seguenti:
Oh generazione sfortunata, e tu obbedisti disobbedendo!
Era quel mondo a chiedere ai suoi nuovi figli di aiutarlo
a contraddirsi, per continuare;
vi troverete vecchi senza l'amore per i libri e la vita:
perfetti abitanti di quel mondo rinnovato
attraverso le sue reazioni e repressioni, sì, sì, è vero,
ma sopratutto attraverso voi, che vi siete ribellati
proprio come esso voleva, Automa in quanto Tutto.110
Della canzone di De Andrè, infine, ci pare anche doveroso
segnalare l’originalità della parte musicale, curata da Nicola Piovani,
109
Gli studenti stanno facendo la guerra civile, non la rivoluzione in Interviste corsare …, cit. , p.
129.
110
La poesia della tradizione in Pasolini, Trasumanar e organizzar, Milano, Garzanti 1971, p.120.
106
Capitolo Terzo
che rompe, in qualche modo, quel continuum che si era venuto a
creare grazie alle precedenti canzoni dotate di una maggiore linearità
armonica; in Sogno numero due, infatti, si notano addirittura delle
sonorità psichedeliche dovute a un uso più ampio di strumenti
elettronici, cosa che determina quasi una svolta nella stessa
produzione discografica del cantautore.
Tornando ai testi di questo album, quello che risulta essere il
sesto brano, ma anche il terzo di questo secondo trittico onirico di
canzoni, inizia con l’ultima domanda del giudice nei confronti
dell’imputato che, chiamato a prendere il posto che fu occupato in
precedenza dal suo genitore, accetta con silente rassegnazione:
-Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi
solo i sogni che non fanno svegliare?-Sì, Vostro Onore, ma li voglio più grandi.-C'è lì un posto, lo ha lasciato tuo padre.
Non dovrai che restare sul ponte
e guardare le altre navi passare
le più piccole dirigile al fiume
le più grandi sanno già dove andare.Così son diventato mio padre
ucciso in un sogno precedente
il tribunale mi ha dato fiducia
assoluzione e delitto lo stesso movente.
107
Capitolo Terzo
È ancora Pasolini, nella stessa composizione citata poco sopra, a
esprimere lo stesso concetto: «ti troverai a usare l'autorità paterna in
balia del potere / imparlabile che ti ha voluta contro il potere».111
Il titolo del brano di De Andrè è, appunto, Canzone del padre e
sono proprio gli affetti familiari del protagonista, solo accennati alla
fine di uno dei pezzi precedenti, Al ballo mascherato, a essere al
centro di questa composizione. Tuttavia le caratteristiche evidenziate
nei versi di questa canzone erano, allora come per alcuni aspetti anche
oggi, comuni alla maggior parte delle famiglie appartenenti al ceto
medio.
Una breve ma interessante sintesi di questo testo è stata
realizzata da Lisa Tibaldi all’interno del suo saggio sul cantautore:
Con Canzone del padre, De Andrè prosegue e chiude il
percorso onirico. Il testo è particolarmente complesso anche per l’uso
abbondante di metafore, adatte a costruire una dimensione di sogno
sempre più confusa. L’impiegato esprime il desiderio di poter
continuare a sognare, soprattutto ora che il potere lo ha accolto tra le
sue fila e il giudice gli suggerisce di prendere il posto lasciato libero
dal padre. Segue un ritratto della sua vita famigliare pieno di degrado
e rassegnazione: una moglie che “ha gli occhi di una donna che pago”,
un figlio che non ha nessun interesse per la vita; questi sono i vizi che
trapelano sotto la maschera di una tranquilla vita borghese e queste
111
Ibid.
108
Capitolo Terzo
sono le sofferenze private che, nella mente del piccolo impiegato,
giustificano la vendetta che sta per compiere. L’uomo, ora, si ritrova
completamente sveglio e certo del suo obiettivo; sa chi devono essere
le vittime della sua bomba e si prepara, come in un rito purificatore, a
gettarla contro il Parlamento.112
Queste ultime parole della Tibaldi ci introducono direttamente
al brano successivo, Il bombarolo, che apre l’ultimo ciclo di canzoni
dell’album. In questa fase il protagonista si sveglia dal lungo sogno,
durato ben tre canzoni, e s’incammina con il suo ordigno esplosivo
verso il suo obiettivo: il Parlamento.
Quello che infatti nel testo viene definito «il mio Pinocchio
fragile parente artigianale / di ordigni costruiti su scala industriale» è
naturalmente il congegno esplosivo realizzato dall’impiegato; questi
due versi, con al loro interno la citazione del protagonista della favola
di Carlo Collodi, ci restituiscono appieno il sentimento d’affetto quasi
paterno che l’impiegato sembra avvertire nei confronti della sua
temibile “creatura”.
Nelle parole dell’intero brano poi si avverte la spinta
individualistica che soggiace al folle gesto dell’impiegato: versi quali
«la decisione è mia», «oggi farò da me senza lezione» o ancora «io
vengo a restituirti un po’ del tuo terrore» lasciano chiaramente
112
Tibaldi, La poesia per musica di Fabrizio De Andrè, cit. , p. 29.
109
Capitolo Terzo
intendere che la condivisione dei sentimenti rivoluzionari che
muoveva intere folle di giovani contestatori nel Sessantotto è ormai
lontana; ora la protesta si è trasformata in gesti tanto eclatanti quanto
individuali.
Del resto la sua voglia di distinguersi si denota anche nei versi
finali di ogni strofa che, fungendo anche da ritornello, ribadiscono la
sua diversità rispetto a tutta l’altra gente comune: «io son d’un’altra
razza son bombarolo», «io son d’un altro avviso son bombarolo» e
infine «ho scelto un’altra scuola son bombarolo».
Nel finale del brano la svolta: l’esplosione che doveva colpire il
Parlamento, primo e più importante simbolo del potere costituzionale
nel nostro Paese, investe invece solamente «un chiosco di giornali»
situato nelle sue vicinanze; ma non è questo che atterrisce il
protagonista bensì la foto della sua donna amata che si trovava già
sulla prima pagina di ogni giornale colpito dalla deflagrazione.
Il pensiero che corre alla sua donna, allora, ci introduce già al
brano successivo: è, ovviamente, anche questo uno degli elementi ai
quali accennavamo all’inizio e che fanno sì che Storia di un
impiegato, come in un certo qual modo tutte le opere di questo
cantautore, non possa essere definito e analizzato come una qualunque
110
Capitolo Terzo
raccolta di canzoni di musica cosiddetta “leggera”; bensì, una
narrazione in forma di canzoni, dotata di un’introduzione, uno
sviluppo logico della vicenda e un finale, che spesso tende a
riassumere i concetti principali esposti in precedenza.
Verranno a chiederti del nostro amore, questo il titolo del
brano, non è altro che un’accorata lettera che l’impiegato scrive alla
sua donna dalla sua cella, nella quale è stato ovviamente rinchiuso
all’indomani del suo attentato dinamitardo.
Il testo di questo brano, da molti considerato come il più
elevato, dal punto di vista stilistico, dell’intero album, deve questa sua
fortuna a due fattori principali: dal punto di vista tecnico, vi è un largo
uso di perifrasi113 che gli conferiscono un carattere ermetico
difficilmente rintracciabile nei testi di altri cantautori italiani; da una
prospettiva
che
riguarda
invece
il
sistema
semantico
dell’interpretazione, questo è l’unico brano dell’opera che sarà
riproposto dal cantautore, a distanza di sei anni, all’interno di una
ormai storica serie di concerti in cui sarà affiancato da un affermato
gruppo di musicisti italiani, la Premiata Forneria Marconi.114
113
Una per tutte, quella usata nel verso «a quella gente consumata nel farsi dar retta» che indica,
naturalmente, la categoria dei giornalisti.
114
Da questa esperienza, nella quale De Andrè ripropone i brani del suo repertorio “vestiti” però
con dei nuovi arrangiamenti curati dai musicisti di questa formazione, verranno estratti due dischi,
Fabrizio De Andrè in concerto. Arrangiamenti PFM. Vol. I (1979) e II (1980). Essi rappresentano,
111
Capitolo Terzo
Altra caratteristica che distingue questo brano all’interno
dell’album è il fatto che esso sia l’unico a trattare il sentimento
dell’amore verso una donna. Questo tema, che rappresenta da sempre
la maggiore fonte d’ispirazione per qualunque scrittore, non è
sicuramente centrale invece in questo lavoro di De Andrè.
La situazione in cui versa il protagonista della vicenda,
l’impiegato, non è sicuramente delle migliori: arrestato, infatti, in
seguito al suo gesto di ribellione e in attesa di essere processato,
questa volta però non in sogno ma nella vita vera, egli vola col
pensiero alla sua donna amata, protagonista inconsapevole di quella
che rappresenta una “notizia da prima pagina”.
La visione dell’impiegato è molto lucida: egli sa che ogni sorta
di giornalista farà a gara per avere un’intervista esclusiva rilasciata da
quella che verrà definita “la donna del mostro”; saranno tutti pronti a
prendersi cura di lei, a vestirla e a truccarla bene in modo che la
differenza tra i due ex amanti sia ancora più netta e drammatica.
È proprio la trasformazione, o meglio il trasformismo attuato
dai mezzi di comunicazione quali i giornali o la televisione al fine di
ancora oggi a distanza di quasi trent’anni , l’unico esperimento fatto in Italia di fusione di due stili
musicali molto distanti tra loro: la canzone d’autore di Fabrizio De Andrè e il rock progressive
della Premiata Forneria Marconi.
112
Capitolo Terzo
rendere ancora più angosciosa la vicenda, a riuscire là dove l’amore
aveva fallito. Significativi, in questo senso, i distici finali delle prime
tre strofe: «non son riuscito a cambiarti / non mi hai cambiato lo sai»;
«non sei riuscita a cambiarmi / non ti ho cambiata lo sai»; « sono
riusciti a cambiarci / ci son riusciti lo sai».
La strofa finale pone, alla sua conclusione, un interrogativo,
«continuerai a farti scegliere / o finalmente sceglierai», che ha due
possibili chiavi di lettura: la prima riguarda naturalmente la vicenda
sentimentale della donna che, ancora incapace di decidere
autonomamente per il proprio futuro, si lascia trasportare dagli eventi
senza mai essere in grado di intervenire direttamente su di essi; altra
possibile interpretazione dell’interrogativo posto a termine del brano
invece è la presa di coscienza di ognuno di noi che, da soli spettatori
delle nostre vicende, potremmo, qualora lo volessimo, diventare gli
artefici del nostro destino, decidendo, una volta e per tutte, di scegliere
piuttosto che continuare a essere scelti.
Il brano finale di questo album, Nella mia ora di libertà, segna
la vera svolta ideologica del protagonista. L’impiegato, ormai
consapevole delle contraddizioni della società nella quale per troppi
anni ha trascinato la sua esistenza attraverso «una ginnastica
113
Capitolo Terzo
d’obbedienza», ha deciso di rifiutare l’ultima di queste contraddizionicostrizioni: la quotidiana ora di libertà lasciata ai reclusi all’interno dei
cortili delle carceri.
Parte da qui la riflessione del protagonista che successivamente
passa in rassegna alcuni pensieri ai quali la sua mente approda durante
il periodo di prigionia. Vi si trova ad esempio un giudizio sulla
sensibilità di chi ha decretato la sua condanna, o ancora una volta
verso l’ambiguo atteggiamento della sua ormai ex compagna, o
addirittura verso chi, come se stesso, ha pensato di sovvertire il potere,
credendo erroneamente che così facendo e affidando ad altri la
gestione dello stesso, qualcosa sarebbe potuto cambiare: la verità è
ben diversa purtroppo ed è racchiusa nel verso finale della quinta e
terzultima strofa, ovvero l’acquisizione della certezza «che non ci
sono poteri buoni».
In carcere l’impiegato entra in contatto con delle realtà che
prima d’allora gli erano estranee, come ad esempio il dover essere
costretti a rubare, andando così a finire anche in cella, per potersi
sfamare, mentre molte altre persone agiscono ben più perfidamente e
indisturbate, conoscendo evidentemente «qual è il crimine giusto / per
non passare da criminali».
114
Capitolo Terzo
L’ultima delle sette strofe che compongono questo testo segna il
passaggio
ideale
del
protagonista
da
isolato
rivoluzionario
individualista a membro di una collettività nella quale si condividono
gioie, dolori e ideologie: confrontandola, infatti, con la prima strofa,
nella settima si abbandona la prima persona singolare sulla quale si
basava il discorso dell’impiegato, a tutto vantaggio di un “noi” che
non è solo un pronome ma un vero e proprio manifesto ideologico:
Di respirare la stessa aria
di un secondino non mi va
perciò ho deciso di rinunciare
alla mia ora di libertà
se c'è qualcosa da spartire
tra un prigioniero e il suo piantone
che non sia l'aria di quel cortile
voglio soltanto che sia prigione
[…]
Di respirare la stessa aria
dei secondini non ci va
e abbiam deciso di imprigionarli
durante l'ora di libertà
venite adesso alla prigione
state a sentire sulla porta
la nostra ultima canzone
che vi ripete un'altra volta
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
115
Capitolo Terzo
Il brano, e quindi anche l’intero lavoro, si conclude con la
ripetizione del distico finale che chiude anche la precedente Canzone
del maggio; tale scelta dell’autore ribadisce, qualora ve ne fosse
ancora la necessità, l’importanza della tesi sulla quale verte l’intero
album Storia di un impiegato, ovvero, che nessuno si può esimere
dall’assumersi le proprie responsabilità e che queste ultime non
riguardano solo ed esclusivamente il lavoro e lo stipendio, ma l’intero
sviluppo della società di appartenenza.
Tale conclusione, sicuramente lucida e puntuale come ogni
presa di posizione riscontrabile nelle opere di Fabrizio De Andrè, ci
offre la possibilità di leggere quest’opera anche in chiave
autobiografica, se pure, come vedremo, non totalmente.
Infatti, in merito a quanto accennavamo poco sopra, ossia il
passaggio dalla prima persona singolare alla sua relativa plurale, da
noi sottolineato nella citazione della prima e della settima strofa di
Nella mia ora di libertà, i due autori del saggio Canzoni corsare
affermano:
Quel passaggio dall’io al noi che caratterizza l’inizio, il
percorso e la conclusione di Storia di un impiegato, riscatta la storia
del piccolo-borghese che, nella frustrazione di non essere accettato
dall’alta borghesia e, nel contempo, di essere guardato con sospetto
116
Capitolo Terzo
dal proletariato, si era ribellato con il gesto individuale di una bomba
che avrebbe voluto lanciare contro i rappresentanti della politica ma
che, invece, aveva colpito un’edicola di giornali aprendogli le porte
della galera. Dall’io al noi è, appunto, ciò che l’impiegato impara e
sceglie “tra gli altri vestiti uguali” dietro le sbarre. De Andrè, in realtà
non sceglierà la stessa cosa. Anzi, se quel suo lavoro ufficialmente lo
bollerà come bordellone, ufficiosamente farà capire di non
riconoscersi appieno in quel finale (firmato, come tutte le altre canzoni
dell’album, con Giuseppe Bentivoglio). Lui, per formazione, è più
propenso a riconoscersi nell’Unico di Max Stirner: invece che nel noi,
crede nell’io o, eventualmente, in tanti io che momentaneamente, si
mettono insieme per il raggiungimento di un obiettivo. Una somma di
egoismi (sempre nel senso dato all’egoismo da Stirner), pronta a
rifarsi unicità aristocratica nello sguardo indignato (ma incapace di
rivoluzione) del singolo.115
Spostando radicalmente l’asse del discorso, di autobiografico, in
questo album, risulta essere sicuramente il testo di Verranno a
chiederti del nostro amore, come apprendiamo dalle parole di Luigi
Viva, nella sua biografia del cantautore genovese:
Era dedicata a Roberta, la donna alla quale Fabrizio fu legato
per circa due anni da una relazione molto sofferta, cui pose fine una
volta resosi conto di avere a che fare con una di quelle “piccole
femmine agghindate” dalle quali aveva sempre cercato di fuggire.116
115
De Andrè, Accordi eretici, cit. , pp. 36-37.
L. Viva, Non per un Dio ma nemmeno per gioco. Vita d Fabrizio De Andrè, Milano, Feltrinelli
2005, p. 157.
116
117
Capitolo Terzo
Quest’aggancio con la realtà rafforza l’identificazione fra il
cantautore e l’«impiegato», e conferma il fatto che il protagonista
dell’album sia, in una certa misura, il portavoce o l’alter ego
dell’autore.
De Andrè, infatti, con Storia di un impiegato, mette in scena se
stesso. Non tanto, però, una sua posizione ideologica, quanto un suo
atteggiamento rispetto alla realtà, il suo modo di porsi nella società e
nei conflitti sociali: individualistico ed estetizzante, per l'appunto,
capace di gesti isolati di ribellione, quasi aristocratici ed eroici, ma
refrattario a incanalarsi nella logica collettiva, di massa, della lotta di
classe e della rivoluzione marxista.
Infine, a chiarire ancor meglio le ragioni che lo spinsero ad
affrontare i rischi, politici e morali, che un’opera come Storia di un
impiegato può e, in un certo senso, deve comportare, è proprio
Fabrizio De Andrè, nel corso di una sua dichiarazione:
Io sono un individualista come credo tutte le persone che
nascono e crescono in un clima portato, improntato e impostato
all’individualismo. Sono nato da una famiglia borghese che ha subìto
il tentativo della borghesia stessa (dato che è questa classe dalla
Rivoluzione francese in poi ad avere il potere) di fare delle divisioni
precise all’interno della società, cercando di isolare gli individui il più
possibile perché soltanto isolandoli aveva la possibilità di secernerli,
118
Capitolo Terzo
di poterli controllare meglio, quindi di servirsene come meglio poteva.
Collettivismo non è certo un termine di origine borghese a meno che
non fosse stato scelto dai vari Robespierre per servirsene contro
invece il settarismo di tipo aristocratico. A questo punto sono stato
individualista nella misura in cui la mia classe mi ha individualizzato,
cercato di isolare dagli altri, ho fatto e operato degli sforzi che mi sono
serviti per rendermi conto che un uomo, al di fuori di quello che può
essere la cerchia, anche ristretta, di amici oppure da quella che può
essere una cerchia più ampia che può essere addirittura una classe,
combina poco se non dei gesti quasi ed esclusivamente estetici da un
punto di vista politico, questo l’ho detto anche in una canzone che si
chiama Il bombarolo che è il culmine dell’individualismo estetico. In
Storia di un impiegato c’è questo individuo isolato dal resto della
gente, isolato per motivi politici, che arriva a compiere questo gesto di
ribellione e non certo di rivoluzione. Perché la ribellione è individuale,
dove la componente maggiore è forse l’esibizionismo.117
117
Appunti sul bene. Volammo davvero..., in Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, cit. , p. 9.
119
Capitolo Terzo
III.4
Le nuvole
[1990]
Le nuvole
Ottocento
Don Raffae’
La domenica delle salme
Megu megùn
La nova gelosia
‘Â çímma
Monti di Mola
«… io sono un principe libero
e ho altrettanta autorità di fare guerra
al mondo intero quanto colui
che ha cento navi in mare.»
Samuel Bellamy
(Pirata alle Antille nel XVIII secolo)
120
Capitolo Terzo
L’ultimo album che analizzeremo corrisponde alla penultima
opera musicale di Fabrizio De Andrè, ovvero Le nuvole, pubblicata
nel 1990.
Il titolo di questo disco, preso a prestito dall’opera di
Aristofane, è forse l’unico vero punto di contatto fra queste due opere,
anche se, come vedremo fra poco, non è l’unico aggancio che questo
lavoro del cantautore ha con il mondo antico.
Questo album, a differenza degli altri due precedentemente
analizzati in questa sede, è virtualmente diviso in due parti distinte e
separate.118 La prima di esse, che comprende le prime quattro delle
otto composizioni del disco, tratteggia i caratteri di alcuni personaggi
e situazioni che, in un modo o nell’altro, sono riconducibili al potere.
I quattro brani rimanenti sono dedicati invece a quattro storie
che vedono come protagonisti delle persone comuni, appartenenti a
quello che un tempo si usava definire “popolino” e che, proprio in
quanto tali, conducono le proprie esistenze, non in base a “logiche di
mercato” o altri simili «schemi fissi di pensiero»,119 bensì in base ai
118
È bene ricordare che all’epoca della sua pubblicazione la diffusione dei supporti digitali quali
ad esempio il compact disc, che oggi ha di fatto sostituito i 33 e i 45 giri, era molto limitata e il
prodotto discografico predominante era ancora il long playing, che era inciso su ambo i lati e che
quindi interrompeva l’ascolto esattamente a metà dell’opera.
119
Podestà, Fabrizio De Andrè…, cit. , p. 39.
121
Capitolo Terzo
propri ritmi vitali, spesso turbati da sentimenti diversi ed emozioni
forti.
La dicotomia è, a questo punto, palese. Le due parti della
“narrazione” di De Andrè, infatti, rispecchiano, nei toni come nel
registro linguistico e come anche nella stessa lingua usata dall’autore
per la composizione di questi brani, alcune caratteristiche proprie dei
loro protagonisti.
Se, ad esempio, la lingua usata nella prima parte è
prevalentemente l’italiano, fatta eccezione naturalmente per Don
Raffaè che utilizza un italiano regionale120 e anche per alcune
inflessioni dialettali presenti in alcuni versi del primo testo
dell’album,121 negli altri quattro brani l’autore utilizza invece il
dialetto o, più precisamente, i dialetti.122
Questa divisione linguistica dei brani, lontana dall’essere
esclusivamente una scelta stilistica o addirittura un vezzo d’artista, è
120
Cfr. E. Di Padova, Il dialetto rivisitato …, cit. , p. 24: «Qui De André utilizza un italiano
regionale, con parole napoletane italianizzate (mi assetto), termini storpiati ( son brigadiero),
termini o espressioni dialettali (vulite, frate)»; vedi anche A. A. Sobrero, La ricchezza linguistica
sta tra i “top ten”, in «Italiano e oltre», V (1990), 5, p. 223: «In mezzo, c’è l’italiano popolare e
l’italiano regionale, fortemente caratterizzati (come nel campano di Don Raffaè) o appena
riconoscibili per sfumati caratteri fonico-intonazionali (come nel piemontese e nel sardo di Le
nuvole)».
121
Citiamo, ad esempio, i vv. «sembra che ti guardano con malocchio», come pure «e la terra si
trema», entrambi presenti nel brano Le nuvole.
122
Oltre al napoletano de La nova gelosia, brano composto nel XVIII secolo da un anonimo
musicista partenopeo e che De Andrè sceglie di reinterpretare in questo suo album, vi sono Megu
megùn e ‘Â çímma, entrambe composte dal cantautore insieme al collega Ivano Fossati, in
genovese, mentre per Monti di Mola il dialetto utilizzato è il gallurese.
122
Capitolo Terzo
invece legata indissolubilmente ai contenuti dell’opera, come emerge
da alcune dichiarazioni dello stesso cantautore:
[Nell’album Le nuvole] c’è l’esperienza di Creuza de mä, nella seconda
parte che è dedicata al popolo, che si esprime col suo linguaggio ed è quindi la più
poetica (quando mai il potere è stato capace di poesia?) e forse la meno
comprensibile (quando mai il potere si è peritato di capire il linguaggio del
popolo?). E c’è il ricordo delle mie origini, dei tempi di Carlo Martello e di Bocca
di rosa, quando scrivevo soprattutto per evidenziare i testi. Questo avviene nella
prima parte del disco, il cui protagonista è il potere e che, perciò, è la meno
lirica.123
È chiaro allora come anche questo lavoro di Fabrizio De Andrè
si leghi agli altri precedentemente analizzati per ciò che riguarda il
tema essenziale della nostra analisi, ovvero, la critica dell’autore nei
confronti del potere, in qualunque modo e situazione esso si manifesti.
Quest’ultima precisazione, relativa alle diverse manifestazioni
del potere, ci immette direttamente all’analisi dei protagonisti e delle
situazioni evocate da De Andrè nei primi quattro brani di questo
album.
123
Romana, Amico fragile…, cit. , p. 145.
123
Capitolo Terzo
Il primo pezzo, Le nuvole, ci introduce nell’opera attraverso
un’ambientazione familiare: precedute da un frinire di cicale, le voci
di due donne, che nell’incisione del disco appartengono a Lalla Pisano
e Maria Mereu, recitano cinque strofe di varia lunghezza, alternandosi,
in modo da far supporre a un dialogo tra madre e figlia; espressivo, in
tal senso, è il fatto che il cantautore abbia preferito aprire l’album
utilizzando due voci femminili anziché la sua, creando un’atmosfera
particolare, subito riconducibile alle parole del testo.
I versi che lo compongono, infatti, formano una sommaria
descrizione delle nuvole, che nel dialogo tra madre e figlia sono quelle
arcane figure che si materializzano nel cielo portando scompiglio
nell’armonia della natura, ma metaforicamente alludono agli uomini
che detengono il potere, come apprendiamo da un accostamento dello
stesso De Andrè tra la sua opera e l’omonima commedia di
Aristofane:
Il titolo e la chiave di lettura provengono da Aristofane, ed è questa l’unica
parentela tra il mio lavoro e la sua commedia. Perché già in quest’ultima le nuvole
non erano fenomeni atmosferici ma personaggi: per Aristofane simboleggiavano i
sofisti che, da aristocratico e da conservatore irriducibile, lui disprezzava perché
erano dei contestatori del potere e della logica codificata, per me simboleggiano il
124
Capitolo Terzo
contrario e cioè i potenti della finanza, della politica e dell’industria, gli
intellettuali di regime, i boss dello Stato-mafia, tutti quei personaggi che
impediscono al popolo di vedere la luce del sole, cioè la verità!124
Questa dichiarazione del cantautore ci riporta ai riferimenti
classici che si possono rintracciare, in modi diversi e non solamente
rispetto all’opera aristofanea, all’interno di questo album. È ancora De
Andrè che, presentando il suo lavoro dichiara:
Dentro una situazione di questo tipo, pericolosamente vicina allo sfascio
dell’Impero, mi sembrava giusto intervenire: con la satira, con l’ironia, con la
“denuncia sociale”. Un po’ come avevano fatto, certo molto meglio di me,
Apuleio con L’asino d’oro e Petronio col Satyricon. […] anch’io partecipo, in
qualche modo, a questa cena di Trimalcione, e quindi ho tutte le informazioni e le
esperienze necessarie per poterne fare una satira.125
Alcuni elementi che Le nuvole condivide con il Satyricon,
individuati da Paolo Lago, sono: la combinazione di stili e linguaggi
diversi e «l’habitus intertestuale ed enciclopedico sotto il quale si
presentano le due opere», elementi che appartengono indubbiamente a
una linea culturale di derivazione menippea.126
124
Ivi, pp. 146-147.
Ivi, p.145.
126
Cfr. P. Lago, Petronio e De Andrè: dal Satyricon a Le nuvole (con un’appendice su De Andrè e
Catullo), «Kleos», 2004, 9, pp. 63-69.
125
125
Capitolo Terzo
La satira menippea è, appunto, un componimento misto di prosa
e versi (con possibili parti dialogate) avente carattere di satira
moraleggiante e filosofica, in cui però la parodia e il gusto fantastico
prevalgono sulle intenzioni didascaliche. Tale satira prende il suo
nome da Menippo di Gadara, letterato-filosofo del III secolo a.C. di
formazione cinica e fortunato autore di scritti diatribici, cioè in forma
di conversazione divulgativa.
In Grecia composero satire menippee, tra gli altri, Meleagro e
Giuliano l'Apostata. A Roma, Varrone compose delle Saturae
Menippeae con esplicito richiamo a Menippo di Gadara, delle quali ci
restano solo 600 brevi frammenti e 90 titoli; Marcopolis, descrizione
di una città utopica e fantastica; Sexagesis (Il sessantenne), in cui il
protagonista, addormentatosi a dieci anni e risvegliatosi dopo
cinquanta, si ritrova in una Roma dalle istituzioni politiche e dai valori
etici totalmente degradati. Al modello di Varrone sono riconducibili
l'Apocolocyntosis di Seneca e il Satyricon di Petronio. A questo tipo di
satira si avvicina anche l'opera di Marziano Capella, scrittore del V
secolo.
Ritornando al confronto effettuato da Paolo Lago, la
combinazione di stili e linguaggi diversi è rintracciabile nella varietà
126
Capitolo Terzo
dei linguaggi usata da De Andrè nel suo album; il secondo fattore
evidenziato, invece, ci dà la possibilità di introdurre il secondo brano
del disco, Ottocento, proprio attraverso le parole dello stesso Lago:
In Ottocento […] sono numerosi gli ammiccamenti a un certo milieu
culturale, quello appunto di una “Mitteleuropa ottocentesca”, e una strofa pare
riprendere, nelle rime, nelle assonanze e nell’anafora della parola “figlio”, una
lauda di Jacopone da Todi, la Donna de Paradiso; il riuso della lauda, qui appare
molto simile al riuso dei canoni alti operati da Petronio: non per ironizzare o
parodiare, bensì per creare un aggancio improprio fra la realtà contemporanea
“bassa” e la letteratura e i tempi passati “alti”.127
Questa è la strofa della canzone cui Lago fa riferimento:
Figlio figlio
povero figlio
eri bello bianco e vermiglio
quale intruglio ti ha perduto nel Naviglio
figlio figlio
unico sbaglio
annegato come un coniglio
per ferirmi, pugnalarmi nell'orgoglio
a me a me
che ti trattavo come un figlio
povero me domani andrà meglio.
127
Petronio e De Andrè…, cit. , p. 67.
127
Capitolo Terzo
Questi invece sono alcuni dei versi della lauda di Jacopone da
Todi che maggiormente sembrano ispirare il cantautore:
Figlio bianco e vermiglio,
figlio senza simiglio,
figlio, e a ccui m’apiglio?
Figlio, pur m’ài lassato!
Figlio bianco e biondo,
figlio volto iocondo,
figlio, perché t’à el mondo,
figlio, cusì sprezzato?128
Appare chiaro, alla luce di questo confronto, il lavoro di
citazioni e rimandi espliciti, forse anche con intenti parodici, svolto
dall’autore nella stesura di questo testo. Del resto, non è la prima volta
che De Andrè si ispira a questa lauda; su questo, appare senz’altro
utile ricordare i versi finali della canzone Tre madri, brano compreso
in uno dei suoi primi concept album, La buona novella, pubblicato nel
1970, dove la marcata ripetizione della parola figlio, da parte della
Madonna che piange la morte di Gesù assieme alle madri dei due
ladroni, sembra rievocare i versi di Jacopone:
Figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama - Nostro Signore -,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di Paradiso.
128
vv. 116-123; si cita da Iacopone da Todi, Laude, a cura di F. Mancini, Roma-Bari, Laterza
1940.
128
Capitolo Terzo
Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio
t'avrei ancora per figlio mio.
Un’altra rima che De Andrè recupera da Jacopone da Todi è
«figlio / giglio», anch’essa presente in Donna de Paradiso nei vv. «O
figlio, figlio, figlio, / figlio, amoroso giglio!», utilizzata dal
cantautore, anche se in modi diversi, in altri due suoi componimenti.
Il primo di questi è La città vecchia, brano composto da De
Andrè nel 1965 ma inserito poi nell’album Canzoni del 1974, dove la
stessa rima «figlio / giglio» viene modificata, con intenti ironici o
addirittura parodici, in modo da divenire, nell’ultimo verso della
canzone: «se non sono gigli, son pur sempre figli, vittime di questo
mondo», che costituisce anche un esempio di rima interna allo stesso
verso.
L’altro testo è Si chiamava Gesù, dall’album Volume I del 1967;
anche in questo brano l’autore affronta la vicenda del Messia,
descrivendo la sua crocifissione con l’uso, sempre nell’ultimo verso,
della stessa rima presente in Donna de Paradiso: «Di Maria dicono
fosse il figlio / sulla croce sbiancò come un giglio».
129
Capitolo Terzo
Ritornando al brano dal quale eravamo partiti, ovvero
Ottocento, un altro particolare degno di nota è sicuramente l’incipit
della canzone:
Cantami di questo tempo
l'astio e il malcontento
di chi è sottovento
Soprattutto nel primo di questi versi, è forte, a nostro parere,
l’aggancio, ancora una volta parodico, con l’invocazione alle Muse
dei versi iniziali dell’Iliade di Omero:
Cantami, o Diva, del Pelìde Achille
l’ira funesta che infiniti addusse
lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco129
Ottocento però, oltre a essere ricca di citazioni anche colte, è
interessante anche dal punto di vista linguistico. Un’intera strofa del
testo è infatti composta da De Andrè in tedesco maccheronico,
utilizzando alcuni termini entrati a far parte, ormai, del linguaggio
quotidiano, creando in tal modo un effetto alquanto straniante:
Ein klein pinzimonie
Wunder matrimonie
Krauten und erbeeren
Und patellen und arsellen
129
Omero, Iliade, trad. di V. Monti, Libro I, vv. 1-3.
130
Capitolo Terzo
Fischen Zanzibar
Und enige krapfen
Früer vor schlafen
Und erwachen mit walzer
Und Alka-Seltzer für
dimenticar
La traduzione di questa strofa, del resto, non è priva di
significato, anche se la sua caratteristica maggiore, è senz’altro quella
dell’ironia, presente, tutto sommato, nell’intero brano in questione:
Un piccolo pinzimonio
splendido matrimonio
cavoli e fragole
e patelle ed arselle
pescate a Zanzibar
e qualche krapfen
prima di dormire
ed un risveglio con valzer
e un Alka-Seltzer per
dimenticar
Il terzo brano dell’album, Don Raffaè, è incastonato tra due
intermezzi musicali, entrambi estrapolati da Le Stagioni di Pëtr
Ilič Tchajkovskij (Giugno, op.37), che Fabrizio De Andrè inserisce
solo in questo punto dell’opera, come a voler incorniciare questa
canzone che ricorda molto altre due sue composizioni: ritmicamente,
infatti, questo brano è assimilabile a una tarantella, in questo caso
131
Capitolo Terzo
molto vicina a quella de Il testamento;130 la scansione metrica del
testo, invece, è molto simile a quella della più famosa Bocca di
rosa.131
Di grande impatto è anche il cambio di atmosfera che si crea
nella successione dei brani in questa parte del disco, come anche
Paolo Lago evidenzia, all’interno del suo articolo, ribadendo la
vicinanza tra Le nuvole e il Satyricon per quel che riguarda la
costruzione dell’opera:
Lo stacco appare nettissimo: dall’opera buffa [Ottocento] si passa alla
musica classica, ad un genere “alto” e, successivamente, si riscende nel genere
della canzone popolare. […] In questa parte dell’opera […] è quindi fortemente
presente l’accostamento, anche repentino ed ex abrupto, di diversi stili, proprio
come nel Satyricon, allo stile “alto”, sublime, spesso succede immediatamente
quello “basso”.132
Contrariamente a quanto avviene in quasi tutti i pezzi di questo
album, scritti con la collaborazione dello stesso Mauro Pagani che
partecipò alla realizzazione del disco Creuza de mä, per la stesura di
Don Raffaè De Andrè si avvale di Massimo Bubola, coautore anche di
130
In Volume III, 1968.
In Volume I, 1967. Su questi accostamenti cfr. Romana, Amico fragile ... , p.153.
132
Petronio e De Andrè … , cit. , pp.64-65.
131
132
Capitolo Terzo
altri due precedenti album del cantautore genovese, ovvero Rimini, del
1978, e Fabrizio De Andrè (l’Indiano), del 1981.
Le fonti, alle quali i due autori hanno attinto per la
composizione di questo brano, sono molte ed eterogenee; vi è, ad
esempio, un forte richiamo a tre opere legate alla cultura e alla
tradizione partenopea della metà del secolo scorso.
La prima di queste, fondamentale per l’idea stessa della
canzone, è un lavoro di Giuseppe Marotta, scrittore e giornalista
napoletano, autore di testi teatrali e sceneggiature per il cinema; tra le
sue opere, ricordiamo, citandone solo alcune di esse, L’oro di Napoli
(1947, da cui Vittorio De Sica trasse l’omonimo film), A Milano non
fa freddo (1949), Gli alunni del sole (1952), Coraggio, guardiamo
(1953), Gli alunni del tempo (1960).
De Andrè prende le mosse, per la creazione del protagonista
della sua composizione, proprio da quest’ultima raccolta di racconti di
ambientazione napoletana; a riferirlo è lo stesso cantautore in una sua
dichiarazione, riportata da Federico Vacalebre all’interno di un suo
libro, De Andrè e Napoli, che mira a vagliare i legami culturali e
sentimentali che intercorrono tra la città partenopea e le opere del
genovese:
133
Capitolo Terzo
L’idea mi venne ripensando a Gli alunni del tempo di Giuseppe Marotta in
cui c’era la figura di questo don Vito Cacace, la guardia notturna che ha il rango
di un intellettuale perché proprietario dell’unica copia di quotidiano venduta nella
zona, che ogni sera raduna i vicini e legge loro il giornale, spiegando poi che cosa
ha letto e che cosa è avvenuto, esponendo i fatti ai commenti del vicinato, alla
contaminazione dell’umanità che sui giornali non è mai protagonista.133
Le altre fonti principali sono rintracciabili in un’altra canzone e
in un testo teatrale: la prima è ’o caffè, composta nel 1958 da
Domenico Modugno e Riccardo Pazzaglia, e di essa, in Don Raffaè, è
presente non solo una citazione musicale, ma anche un evidente
richiamo ai versi
Ah, che bello ’o caffè!
Sulo a Napule ’o sanno fâ
e nisciuno
se spiega pecché
è ’na vera specialità.
La somiglianza con i versi iniziali del ritornello, del brano di De
Andrè, è evidente:
Ah che bello ’o café
pure in carcere ’o sanno fâ
co’ â ricetta ch’a Ciccirinella
133
F. Vacalebre, De Andrè e Napoli. Storia d’amore e d’anarchia, Milano, Sperling & Kupfer
2002, pp. 66-67.
134
Capitolo Terzo
compagno di cella
ci ha dato mammà.
La seconda fonte, che ispirò anche il testo del brano di
Modugno, è costituita, invece, dal monologo che apre il secondo atto
di Questi fantasmi, lavoro teatrale di Eduardo De Filippo:134 le parole
di questa commedia, anche se non entrano direttamente nei testi delle
due canzoni, ne influenzano sicuramente alcuni dei concetti in esse
sviluppati, quali, ad esempio il rituale legato alla preparazione del
caffè e la passione dei partenopei verso la stessa bevanda.
Altro elemento costituente del testo di Don Raffaè è
sicuramente l’attualità, fattore che, del resto, permea l’intero album
del cantautore. Infatti, anche se De Andrè sceglie di scrivere
esplicitamente sulla copertina del disco che «i fatti e i personaggi di
questa canzone sono immaginari. Ogni riferimento a persone, o a fatti
realmente accaduti, è una mera coincidenza», il “don Raffaè” descritto
nel testo ricorda molto la figura di un famigerato camorrista di quegli
anni, ovvero Raffaele Cutolo.
Ancora più esplicito è, infine, il riferimento a una dichiarazione
dell’allora presidente del Consiglio dei Ministri, Giovanni Spadolini,
che, recatosi a Palermo in seguito all’ennesima strage mafiosa, disse:
134
Cfr. ibid.
135
Capitolo Terzo
«Sono costernato, sono indignato e m’impegno».135 Tali parole, in
Don Raffaè, diventano:
Prima pagina venti notizie
ventun'ingiustizie e lo Stato che fa
si costerna, s'indigna, s'impegna
poi getta la spugna con gran dignità
La cronaca quotidiana, narrata dai maggiori giornalisti di quegli
anni, è sicuramente il maggior collegamento tra Don Raffaè e il brano
successivo, ovvero La domenica delle salme; che gran parte delle cose
che appaiono in questi due testi, infatti, derivino dalle pagine dei
quotidiani, è De Andrè stesso ad ammetterlo:
Gli articoli di giornalisti come Sandro Viola, Vittorio Zucconi e qualche
altro: ecco, sono loro i miei ispiratori sotterranei, i «complici segreti» che vorrei
invitare a iscriversi alla S.I.A.E. [Società Italiana degli Autori ed Editori], perché
anche loro, come fornitori di un’intuizione originaria, dovrebbero ricevere la loro
quota di diritti d’autore.136
Ma La domenica delle salme, che nel disco chiude la prima
parte, corrispondente al lato A, è anche ricca di citazioni letterarie: la
combinazione di questi due elementi, rende questo brano molto
complesso e denso di riferimenti diversi.
135
136
Cfr. ivi, p. 70.
Romana, Amico fragile … , cit. , p.145.
136
Capitolo Terzo
Proprio per questi motivi, l’autore ritiene utile inserire, ancora
sulle pagine interne del disco, come per la precisazione relativa a Don
Raffaè citata poco sopra, alcune note esplicative, che riportiamo
insieme con l’intero testo della canzone:
Tentò la fuga in tram
verso le sei del mattino
dalla bottiglia di orzata
dove galleggia Milano
5
non fu difficile seguirlo
il poeta della Baggina
la sua anima accesa
mandava luce di lampadina
gli incendiarono il letto
10
sulla strada di Trento
riuscì a salvarsi dalla sua barba
un pettirosso da combattimento
I Polacchi non morirono subito
e inginocchiati agli ultimi semafori
15
rifacevano il trucco alle troie di regime
lanciate verso il mare
i trafficanti di saponette
mettevano pancia verso est
chi si convertiva nel novanta
20
ne era dispensato nel novantuno
la scimmia del quarto Reich
ballava la polka sopra il muro
e mentre si arrampicava
137
Capitolo Terzo
le abbiamo visto tutti il culo
25
la piramide di Cheope
volle essere ricostruita in quel giorno di festa
masso per masso
schiavo per schiavo
comunista per comunista
30
La domenica delle salme
non si udirono fucilate
il gas esilarante
presidiava le strade
la domenica delle salme
35
si portò via tutti i pensieri
e le regine del «tua culpa»
affollarono i parrucchieri
Nell'assolata galera patria
il secondo secondino
40
disse a «Baffi di Sego» che era il primo
- Si può fare domani sul far del mattino e furono inviati messi
fanti cavalli cani ed un somaro
ad annunciare l'amputazione della gamba
45
di Renato Curcio
il carbonaro
il ministro dei temporali
in un tripudio di tromboni
auspicava democrazia
50
con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni
- Voglio vivere in una città
138
Capitolo Terzo
dove all'ora dell'aperitivo
non ci siano spargimenti di sangue
o di detersivo 55
a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade
eravamo gli ultimi cittadini liberi
di questa famosa città civile
perché avevamo un cannone nel cortile
La domenica delle salme
60
nessuno si fece male
tutti a seguire il feretro
del defunto ideale
la domenica delle salme
si sentiva cantare
65
- Quant'è bella giovinezza
non vogliamo più invecchiare –
Gli ultimi viandanti
si ritirarono nelle catacombe
accesero la televisione e ci guardarono cantare
70
per una mezz'oretta
poi ci mandarono a cagare
- Voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio
coi pianoforti a tracolla vestiti da Pinocchio
voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
75
per l'Amazzonia e per la pecunia
nei palastilisti
e dai padri Maristi
voi avevate voci potenti
lingue allenate a battere il tamburo
139
Capitolo Terzo
80
voi avevate voci potenti
adatte per il vaffanculo –
La domenica delle salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
85
il cadavere di Utopia
la domenica dalle salme
fu una domenica come tante
il giorno dopo c'erano i segni
di una pace terrificante
90
mentre il cuore d'Italia
da Palermo ad Aosta
si gonfiava in un coro
di vibrante protesta.
Note:
Baggina: così viene chiamata a Milano la Casa di Riposo per anziani "Pio Albergo Trivulzio".
Baffi di Sego: gendarme austriaco in una satira di Giuseppe Giusti.
De Andrade: vedi Serafino Ponte Grande di Oswald De Andrade.
Anche se De Andrè chiarisce alcuni riferimenti presenti nel
testo, l’ermetismo di questo suo lavoro, a nostro parere, non ne
agevola comunque la sua totale comprensione; si tratta, infatti, di uno
dei brani più criptici dell’intero corpus delle sue opere, insieme ad
Amico fragile, altra sua canzone, contenuta nell’album Volume VIII
del 1975.
140
Capitolo Terzo
Una caratteristica comune a entrambi i brani è, sicuramente, il
modus operandi utilizzato da De Andrè in sede di scrittura: i testi di
queste canzoni, ad esempio, sono stati composti dall’autore prima
della parte musicale.
Questa impostazione di lavoro, insolita per il mondo della
canzone, dove, quasi sempre, è la realizzazione della musica a
precedere la stesura del testo, ne compromette, evidentemente, il
risultato finale, se lo stesso De Andrè, a proposito di La domenica
delle salme, dichiara: «è una canzone un po’ rabberciata, perché la
musica la abbiamo scritta dopo, la abbiamo cucita sopra il testo, e si
sente».137
L’autore, in questo ultimo passaggio, si riferisce sicuramente
alla quasi totale assenza, in questo tipo di brani, di una piena
cantabilità del testo e della relativa mancanza di una parte musicale
autonoma. Al posto di questi elementi, troviamo, durante l’ascolto, la
voce di De Andrè che, invece di cantare, declama il lunghissimo testo,
sostenuto musicalmente da un ostinato arpeggio di chitarra e dagli
interventi di violino e kazoo, eseguiti, questi ultimi, dal coautore
Mauro Pagani.
137
Fasoli, Fabrizio De Andrè… , cit. , pp. 68-69.
141
Capitolo Terzo
Per quanto riguarda il testo, sicuramente il più impegnativo
dell’album, gli aspetti da segnalare sono numerosi, a partire dalla
singolare divisione strofica: il brano è infatti composto da quattro
strofe di lunghezza diversa, intramezzate da tre ritornelli divisi in due
quartine; la conclusione è affidata, poi, a una settima quartina che
riassume, con amarezza e ironia, il senso dell’intera composizione.
La prima strofa, composta da dodici versi, delinea sin da subito
l’inquietante atmosfera del brano, che rispecchia quella di alcune zone
delle grandi città, nella quale molte persone sole conducono
stancamente le loro esistenze.
Il personaggio al quale si riferiscono questi primi versi, infatti, è
un anziano poeta che vive in solitudine gli ultimi travagliati anni della
sua vita; la tarda età del personaggio, non esplicita nel testo, la
possiamo dedurre da alcuni fattori in esso contenuti: il più palese è
rintracciabile, senza alcun dubbio, al v. 6, «il poeta della Baggina»,
dove l’autore, indicando il nome di una reale casa di riposo per
anziani di Milano, lascia facilmente intendere l’età del personaggio.
Vi sono almeno altri due riferimenti, in questo senso, presenti ai
vv. 3-4 e 9-10: nel primo di essi, l’autore, sembra voler ribaltare un
noto slogan, molto in voga in quegli anni, che indicava la città
142
Capitolo Terzo
lombarda citata nel testo come «la Milano da bere», riferendosi agli
svaghi e le opportunità che essa offriva ai suoi abitanti; nel secondo,
invece, il riferimento è a un tragico fatto di cronaca realmente
avvenuto in quegli anni, cioè l’omicidio di un anziano trentino ad
opera di un gruppo di giovani delinquenti.
Nella strofa successiva, formata, questa volta, da diciassette
versi, le citazioni sono, per lo più, storiche e profondamente ispirate al
crollo dell’ideologia comunista.
I primi quattro versi sono riferiti al popolo polacco come
l’emblema delle popolazioni che, in seguito all’abbattimento del Muro
di Berlino, arrivarono in Italia clandestinamente e in condizioni
disastrate, cercando qualunque tipo di occupazione, compresa quella
di lavavetri delle auto in fila, «le troie di regime», davanti ai semafori.
Gli stravolgimenti geopolitici di quegli anni segnarono anche
l’apertura degli scambi commerciali, situazione che indusse molti
ricchi e rampanti imprenditori, «i trafficanti di saponette», a sfruttare
la manodopera a basso costo nei Paesi dell’Est europeo.
Tralasciando, poi, il riferimento, sin troppo esplicito, ad Adolf
Hitler presente al v. 21 e quello a una delle piramidi egizie, quale
simbolo dell’universale vanità umana, ricostruita dai vinti che
143
Capitolo Terzo
vengono fatti schiavi, ovvero, i comunisti, arriviamo così al primo dei
tre ritornelli presenti nel testo.
Il tema centrale di queste due quartine, come anche di quelle
degli altri ritornelli, è il «trionfo dell’effimero»:138 in un mondo come
quello descritto nei versi precedenti, «la domenica delle salme» è
dedicata all’abbandono della tristezza e dei cattivi pensieri, impegnati
solamente dagli appuntamenti coi parrucchieri.
Il titolo della composizione, caratterizzato dal cambio di fonema
(salme – palme), di gusto scapigliato, riconducibile anche alla figura
retorica della paronomasia, e ripreso nel primo e nel quarto di questi
otto versi, è stato interpretato in vari modi, nel corso degli anni.
Degno di nota, in tal senso, è, a nostro parere, il commento di
Ezio Alberione all’interno del suo saggio Frammenti di un canzoniere,
inserito in un volume miscellaneo interamente dedicato a Fabrizio De
Andrè:
Il titolo della canzone è la parodia di quella “domenica delle palme” che
segnava l’inizio di una settimana cruciale per la storia della salvezza. Il giorno
dell’ingresso (trionfale quanto effimero) di Cristo nella capitale diventa il giorno
del trionfo dell’effimero e del capitale, dove i poveri cristi vengono inseguiti,
138
F. De Andrè, Accordi eretici, cit. , p. 116.
144
Capitolo Terzo
braccati o sfruttati. Nel clima post-atomico e funerario di questa “terrificante”
festa, c’è posto solo per un rifiuto e per la ricerca di un rifugio.
La strofa successiva, in assoluto la più estesa, con i suoi
ventuno versi, inizia con un accostamento tra “Baffi di Sego”,
personaggio letterario ottocentesco, già ricordato dalle note alla
canzone dallo stesso cantautore, e Renato Curcio, leader storico delle
Brigate Rosse prima dell’avvento al comando di Mario Moretti
avvenuto nel 1976, in seguito al suo arresto; è lo stesso De Andrè a
motivare la sua scelta di inserirlo tra i versi della sua opera:
Il riferimento a Curcio è preciso. Io dicevo semplicemente che
non si capiva come mai si vedevano circolare per le nostre strade e per
le nostre piazze, Piazza Fontana compresa, delle persone che avevano
sulla schiena assassinii plurimi e, appunto, come mai il signor Renato
Curcio, che non ha mai ammazzato nessuno, era in galera da più lustri
e nessuno si occupava di tirarlo fuori. Direi solamente per il fatto che
non si era pentito, non si era dissociato, non aveva usufruito di quella
nuova legge che, certamente, non fa parte del mio mondo morale … Il
riferimento poi all’amputazione della gamba, voleva essere anche un
139
richiamo alla condizione sanitaria delle nostre carceri.
E ancora: «Ho pensato a Maroncelli [compagno di prigionia di
Silvio Pellico che subisce l’amputazione di una gamba senza
139
Passaggi di tempo… , cit. , p. 69.
145
Capitolo Terzo
anestesia, come riportato ne Le mie prigioni dallo stesso Pellico]; no,
non vanno tenuti in carcere i carbonari».140
Da segnalare, ancora per quel che riguarda questa strofa, la
citazione di un lavoro del poeta futurista brasiliano Oswald De
Andrade, posto dall’autore nei vv. 55-58. Dopo di essi ricorre il
secondo ritornello, nel quale ritroviamo, parafrasati, i versi iniziali
della Canzone di Bacco, dai Canti Carnascialeschi di Lorenzo de’
Medici: «Quant’è bella giovinezza, / che si fugge tuttavia!»,141 che,
nella canzone di De Andrè, diventano «– Quant'è bella giovinezza /
non vogliamo più invecchiare –», che sembrano riecheggiare le
disperate richieste, facilmente immaginabili, dei pazienti che affollano
le cliniche dei chirurghi estetici.
L’ultima strofa, composta da quindici versi, è totalmente rivolta
al mondo della canzone: una vera e propria invettiva meta-musicale
che l’autore rivolge ai suoi colleghi, imputando loro di impegnarsi,
nelle loro esibizioni, per diverse cause sociali e politiche, ostentando
solidarietà e umanità, ma spinti, in verità, dal loro tornaconto e dalla
smania di protagonismo; quando, invece, è proprio il mondo dell’arte,
e quindi anche della musica, che avrebbe le potenzialità di
140
141
Viva, Non per un Dio ma nemmeno per gioco …, cit. , p. 207.
L. de’ Medici, Scritti scelti, a cura di E. Bigi, Torino, Utet 1955.
146
Capitolo Terzo
sensibilizzare la società, e il dovere civico di manifestare il proprio
sdegno e dissenso per le tante ingiustizie che ogni giorno vengono
compiute nei confronti dei più deboli.
A questo punto del brano, troviamo l’ultimo dei tre ritornelli,
con, al suo interno, almeno due elementi degni di nota. Il primo di essi
è la citazione, al v. 85 che conclude la prima quartina, del romanzo di
Thomas More, Utopia, identificato, metaforicamente nel testo, con gli
ormai defunti ideali libertari di un Sessantotto quasi mitico.
Altro particolare interessante è la figura retorica presente al v.
89, «di una pace terrificante», ossimoro che restituisce in pieno
l’accidia agghiacciante che avvolge gli animi degli uomini del nostro
tempo.
Il finale del brano è costituito da un’ulteriore quartina alla quale
solamente l’ascolto può render giustizia: infatti, anche se i versi
indicano un moto di protesta popolare che coinvolge l’intera Nazione
italiana, la forte intonazione regionale emessa dalla voce di De Andrè
nel recitare l’ultimo verso, «di vibrante protesta» appunto, lascia
intuire un amaro sarcasmo dell’autore.
A chiusura di questa prima parte dell’opera, e senza soluzione
di continuità nei confronti del brano appena analizzato, si odono gli
147
Capitolo Terzo
stessi versi delle cicale ai quali accennammo all’inizio, come a
indicare l’unica fastidiosa protesta di cui sono capaci questi nostri
anni, segnati indiscutibilmente da «una pace terrificante».
A voler ben guardare, questa prima parte appena analizzata,
potrebbe essere letta anche in una chiave cronologica del potere; i
quattro brani che la compongono, infatti, rispecchiano altrettante
figure di potere legate a precisi periodi storici.
Il primo brano, Le nuvole, potrebbe indicare, in questo senso,
sia il timore arcaico dell’uomo nei confronti dei fenomeni
meteorologici, sia un ulteriore aggancio alla commedia aristofanea.
Il secondo, come si evince dallo stesso titolo, rimanda a un
agiato signore appartenente alla ricca classe borghese ottocentesca.
Il terzo, con il suo ritmo da tarantella e le sue citazioni di
Modugno, Marotta e De Filippo, rievoca gli anni della ricostruzione e
della rinascita economica italiana, ovvero gli anni Cinquanta del
Novecento, quando anche alcuni esponenti dell’organizzazione
mafiosa sembravano, in una visione quasi romantica, degni di rispetto
e rispettosi al tempo stesso dei rapporti umani fondamentali.
L’ultimo, La domenica delle salme, è indiscutibilmente legato,
come abbiamo cercato di dimostrare, agli ultimi anni del secolo scorso
148
Capitolo Terzo
e ai nuovi “potenti della Terra”, probabilmente i peggiori in assoluto,
che riuscirono a sfruttare gli sconvolgimenti sociali, politici, ed
economici, per accumulare enormi ricchezze, speculando sulle vite dei
più deboli.
La seconda parte dell’opera è stata concepita dall’autore come
un contraltare umano e vero ai personaggi precedentemente delineati;
a tal fine, come abbiamo già avuto modo di illustrare, l’autore utilizza
tre dialetti diversi per le sue composizioni, in contrapposizione con la
lingua ufficiale nazionale dei brani precedenti.
Tale scelta conferisce loro
confidenziale
e
vicina
alle
un’atmosfera
diverse
realtà
maggiormente
regionali
che
contraddistinguono la nostra Penisola, a discapito naturalmente delle
citazioni e delle forme dotte, molto frequenti invece nella prima
sezione dell’album.
La prima di queste composizioni, la quinta dell’intera opera,
Mégu Mégun, ritrae, nei suoi versi, un inguaribile ipocondriaco che
sceglie di non uscire dalla sua dimora, temendo di essere infettato
dalle impurità delle altre genti del mondo.
Questo brano, come il successivo ’Â çímma, è composto da De
Andrè con Ivano Fossati in un dialetto genovese molto simile a quello
149
Capitolo Terzo
del suo precedente album Creuza de mä, anche se, probabilmente,
rispetto a quest’ultimo, esso risulta «socio-linguisticamente più
realistico», come afferma Lorenzo Coveri nel suo saggio I dialetti (e
le lingue) di De Andrè142 dove vengono messi a confronto «il
monolinguismo» dell’album del 1984, dedicato idealmente al popolo
del bacino mediterraneo, e «il plurilinguismo di Le nuvole».
Un’ultima cosa da segnalare di questa canzone è, infine, la
componente autobiografica presente nel testo, come apprendiamo
dalle parole dell’autore:
In qualche modo, il testo è autobiografico: è l’autoritratto, o
l’autodifesa, d’un Oblomov di provincia, dopotutto anche a me piace
molto restarmene a letto, a pensare, a leggere o nella migliore delle
ipotesi a scrivere, barricato nella mia stanza, al sicuro dal mondo. E
del resto, dicevano i latini, l’ozio è il privilegio dei sapienti.143
Tra le due composizioni in dialetto genovese, troviamo un altro
brano che costituisce in qualche modo una novità nel repertorio del
cantautore: La nova gelosia, questo il titolo del brano, è infatti l’unico
142
Intervento nell’ambito delle Giornate di studio, Per mari, per cieli, per terre, con Fabrizio De
Andrè, alla ricerca dell’Uomo, Garessio, 14-15 luglio 2000. Una versione leggermente modificata
del contributo è stata pubblicata, col titolo indicato nel testo, in «Trasparenze», 22 (2004), pp. 8190; ora anche in Volammo davvero. Un dialogo ininterrotto, cit. , pp. 273-282.
143
Romana, Smisurate preghiere … , cit. , pp. 142-143.
150
Capitolo Terzo
esempio di canzone, ripresa da De Andrè, dalla tradizione popolare
musicale napoletana.
La scelta di inserire questo brano all’interno dell’album, viene
motivata dallo stesso cantautore in una sua dichiarazione che
ritroviamo nelle pagine del libro di Vacalebre:
La nova gelosia è una perla che avevo scoperto nel primo
volume dell’antologia cronologica della canzone napoletana di
Murolo e avevo deciso di mettere in questo disco, ignorando che
proprio questo disco mi avrebbe permesso poi di conoscere Roberto [i
due incideranno insieme, nel 1992, una nuova versione di Don
Raffae’, per un album del cantautore napoletano dal titolo
Ottantavogliadicantare]. È di autore anonimo, risale al 1700, chi l’ha
scritta doveva essere in uomo colto: siamo di fronte a una serenata a
doppio senso. Apparentemente la “gelosia” del titolo è la maniglia
nuova e lucente della finestra, nelle cui ombre però, si cela il
sentimento che ha lo stesso nome.144
Sulla genesi e l'occasione del canto si vedano le osservazioni
dello stesso Murolo:
Probabilmente il brano faceva parte di un lavoro teatrale, forse
un’opera buffa, ma non si possiede alcun elemento per provarlo, come
si ignora il nome dell’autore o degli autori. Mi piace ricordare come la
finestra sia uno dei temi della poesia popolare napoletana della nostra
canzone: da Fenesta ca luceve a Fenesta vascia gli innamorati
144
Vacalebre, De Andrè e Napoli … , cit. , p. 104.
151
Capitolo Terzo
passeranno e spasseranno sotto balconi e persiane, passeranno notti
insonni sotto i veroni delle loro belle. L’amore diventa uno spunto
romantico che si raffina in forme patetiche abbandonando le atmosfere
maliziose e giocose: da qui alla serenata sotto la finestra il passo è
breve, proprio come l’Ottocento.145
Il testo successivo, ’Â çímma, come già ricordato, è composto da
De Andrè, ancora in genovese; non è solo la lingua, però, a rimandare
alla città ligure; il titolo, infatti, riprende il nome di una pietanza tipica
della gastronomia genovese, ed è proprio a essa, e a un cuoco che ha il
compito di prepararla, che si riferisce l’intero contenuto della canzone,
come spiega dettagliatamente Cesare G. Romana:
Ecco dunque, scritta con Fossati, ’Â çímma, la pietanza ligure
che sta alle trenette al pesto come la vastità d’un poema sta
all’univocità d’un sonetto. E che a prepararla occorre un giorno intero:
per combinare le uova con le erbe fragranti, il prosciutto a tocchetti e i
piselli teneri, e poi insaccare il tutto in una membrana di pelle bovina,
cucirla e lasciar cuocere per ore, finché la pelle si faccia dorata ma
non nera né coriacea, la sinfonia dei sapori suoni come un’orchestra e
il ripieno abbia la consistenza soffice che le donne di Genova
perpetuano nei secoli. Bisogna destarsi col giorno neonato per
preparare la cima come esigono gli dèi, così che i diavoli fuggano
dalla casa e disertino la pignatta.146
145
146
Ivi, p. 105.
Smisurate preghiere … , cit. , pp.143-144.
152
Capitolo Terzo
Il cuoco, che viene qui rappresentato come un novello
alchimista, non si limita, com’è facilmente intuibile, a preparare delle
vivande per i suoi clienti; egli, sin dalle prime luci dell’alba, «quando
la luce ha un piede in terra e l’altro in mare», inizia a preparare il suo
laboratorio con la cura certosina di chi ama visceralmente il proprio
mestiere.
Ricorre poi, sotto forma di ritornello, una invocazione alla
Madonna che ha tutto il sapore di una formula magica, affinché la
carne che sta cucinando venga epurata dagli spiriti maligni,
divenendo, in tal modo, tenera e di un buon colore:
Çe serén tèra scûa
carne ténia nu fâte néigra
nu turnâ dûa
e 'nt'ou núme de Maria
tûtti diài da sta pûgnatta
anène via
La traduzione di questi versi, infatti, ricorda quasi una preghiera
o, addirittura, una formula magica e apotropaica tipica della religione
naturale:
Cielo sereno terra scura
carne tenera non diventare nera
non ritornare dura
153
Capitolo Terzo
e nel nome di Maria
tutti i diavoli da questa pentola
andate via
L’ultima strofa si chiude con un’imprecazione del protagonista
rivolta ai camerieri, che gli sottraggono la sua creazione per darla in
pasto a degli ignari avventori, e soprattutto a questi ultimi, che
mangeranno avidamente la sua opera non sapendo che, prima o poi,
anche a loro toccherà, fatalmente, la stessa sorte.
La fine dell’album è affidata a un insolito brano in dialetto
sardo, nella sua variante gallurese, dal titolo Monti di Mola, antico
nome di una zona della Sardegna, oggi conosciuta come Costa
Smeralda. Un’efficace analisi di questa composizione è stata compiuta
da Lisa Tibaldi:
È qui [ in Costa Smeralda ] che avviene lo strano incontro
d’amore tra un giovane pastore del posto e un’asina, ma la cosa ancor
più strana è la gelosia che quest’amore suscita nell’animo di una
vecchia guardona. La vicenda si conclude tristemente: le annunciate
nozze tra i due innamorati non possono avere luogo poiché dai
documenti risultano essere cugini di primo grado. L’evidente vena
sarcastica della canzone nasconde un ulteriore attacco alla società e in
particolare a tutte quelle barriere sociali che l’ipocrisia e un finto senso
del pudore impongono. I richiami al mondo naturale delle ultime
canzoni ci fanno percepire una realtà più limpida e autentica, rispetto al
mondo caotico e fumoso che caratterizza invece i primi pezzi
154
Capitolo Terzo
dell’album. Dunque anche qui, è evidente la contrapposizione tra civiltà
e natura e quest’ultima sembra imporsi finalmente come vincitrice.147
Rimangono da segnalare, all’interno di questo testo, due
riferimenti alla tradizione poetica e pittorica dei secoli scorsi: il primo
è l’assonanza tra la vecchia invidiosa della canzone, che ritroviamo
nei versi «e 'nfattu una 'ecchia infrasconata fea / piagnendi e
figgiulendi si dicia cù li bae»,148 e un’altra anziana e avvizzita donna
descritta nella Canzone a ballo CXIV, tratta dalle Rime di Angelo
Poliziano:
Una vecchia mi vagheggia,
vizza e secca insino all’osso;
[…]
E più biascia che le mule,
quando intorno mi volteggia.
Appare rilevante anche il particolare che riguarda «le mule»,
che potrebbe far supporre, perfino, una diretta corrispondenza tra il
testo poetico di Poliziano e la canzone di De Andrè.
Il secondo riferimento riguarda il “mirto”, presente nella
canzone al verso «l'aba si suggi tuttu lu meli di chista multa»,149 che,
147
La poesia per musica di Fabrizio De Andrè, cit. , p.54.
Traduzione: « e sul posto una brutta vecchia nascosta tra le frasche / piangendo e guardando
diceva fra sé con le bave alla bocca»
149
Traduzione: « l'ape si succhia tutto il miele di questo mirto».
148
155
Capitolo Terzo
in numerosi dipinti rinascimentali, stava a significare l’imminente
unione matrimoniale dei due amanti ritratti nella tela.
Il simbolismo del mirto, però non è solo legato all’arte
rinascimentale: si tratta altresì di una pianta sacra a Venere e perciò
rivestita, sin dall’antichità, di un simbolismo erotico.
Tale simbolismo, anche se slegato dalla pianta del mirto, è
rintracciabile nella composizione del cantautore anche ai versi «amori
steddu / di tutte l'ore di petralana lu battadolu / di chistu core».150
Riassumendo questa seconda parte dell’opera, possiamo
facilmente notare come l’autore abbia voluto porre l’accento sui
maggiori, e più vivi, sentimenti umani, che fanno quasi da specchio
alle dotte citazioni presenti nella prima parte.
Ritroviamo, infatti, in ognuno degli ultimi quattro brani, un
sentimento diverso che ne contraddistingue il testo: nel primo di
questi, Mégu Mégun, è l’arcano timore nei confronti del diverso,
dell’estraneo, a essere protagonista; ne La nova gelosia è il sentimento
per eccellenza, l’amore, a suggerire i delicati versi all’amante
innamorato che tenta invano di spiare la sua bella; nella canzone
150
Traduzione: « amore bambino / di tutte le ore di muschio il batacchio / di questo cuore».
156
Capitolo Terzo
successiva, ’Â çímma, è, invece, la dedizione, lo spirito di
abnegazione, ma anche, e soprattutto, un sentimento quasi paterno nei
confronti della sua creazione, a spingere il cuoco a preparare così
amorevolmente la sua pietanza; infine, in Monti di Mola, è l’invidia
della vecchia zitella, nei confronti dell’asina innamorata dell’aitante
pastore, a rendere verosimile questo testo che, altrimenti, parrebbe
maggiormente ricordare personaggi e situazioni tipiche delle Favole di
Esopo.151
151
Ma si tenga presente, anche, la Metamorfosi di Apuleio, dove il protagonista, Lucio, viene
trasformato in asino, pur conservando coscienza ed intelligenza umana.
157
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Storia di un impiegato
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Canzoni
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Volume VIII
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Rimini
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In concerto. Arrangiamenti PFM. Vol. I
[1979]
In concerto. Arrangiamenti PFM. Vol. II
[1980]
Fabrizio De Andrè (Indiano)
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Creuza de mä
[1984]
Le nuvole
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Anime salve
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