Music - Luigi Boschi

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EDITORIALE
UN SALUTO
C
on questo numero (gennaio-febbraio 2014) lascio la direzione di Music@, bimestrale edito
dal Conservatorio ‘Casella’ dell’Aquila, dopo 37 numeri per complessive 1850 pagine dense,
ricche, stimolanti. La mia uscita dal giornale, che ho inventato e diretto per otto anni, coincide
con l’avvicendamento alla direzione del Conservatorio, perchè non sono un direttore per tutti i
direttori.
Al termine di questa esperienza, a tratti faticosa per la tragedia
del terremoto aquilano, ma sempre e comunque esaltante, ringrazio tutti i collaboratori, illustri, che hanno aderito alle mie richieste con slancio e senza porre mai condizioni, facendo
diventare Music@ una delle più belle riviste musicali; e, se non
la più bella in assoluto, la più libera, originale e critica. Ringrazio, naturalmente, anche tutti i nostri fedeli lettori che
non ci hanno fatto mancare, in molte occasioni, il loro sincero apprezzamento.
Ringrazio, poi, il direttore uscente m. Bruno Carioti che ha
sostenuto la rivista dal primo numero (maggio 2006,
n.zero) che pensavamo dovesse restare unico, e che, invece, è stato il primo della lunga serie.
Ringrazio, infine, più di tutti, gli studenti del nostro
Conservatorio - intitolato ad un geniale innovatore, come
fu a suo modo ‘Alfredo Casella’- ai quali era principalmente rivolto il
laboratorio di studio e pratica della comunicazione musicale rappresentato da
Music@, e che hanno lavorato con entusiasmo ed impegno. Gli studenti, voglio ringraziarli anche
per gli straordinari anni di vita professionale che con loro ho vissuto. Music@ forse mi mancherà
un pò, ma gli studenti mi mancheranno certamente molto. Non credo di dover ringraziare nessun altro, a causa di Music@; a pensarci bene, forse dovrei ringraziare, un po’, anche me stesso.
Pietro Acquafredda
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EDITORIALE II
2019.L’AqUiLA cAPiTALe
eUrOPeA deLLA cULTUrA? NO!
Q
uando, nell'annus horribilis del terremoto, fu
ufficializzata la candidatura dell'Aquila a 'capitale europea della cultura' per il 2019, sull'onda della commozione e solidarietà generali, tale candidatura
trovò subito sponsor e sostenitori, anche fuori delle
istituzioni del capoluogo abruzzese, taluni autorevoli
e super partes. Fra i primi Gianni Letta e lo stesso Governo Berlusconi. Alla candidatura della città messa
in ginocchio dal terremoto, altre se ne sono aggiunte
negli ultimi mesi: Venezia, Palermo, Matera fra le
altre. Ora è venuto il tempo della decisione. L'Italia
deve comunicare all'Europa la candidata ufficiale per
il 2019, che dev'essere L'Aquila. E tale decisione, sarebbe auspicabile che avesse il consenso di tutte le
altre città candidate - tutte degne, manco a dirlo! pronte a fare un passo indietro a favore della consorella abruzzese. Le ragioni di tale scelta sono infinite:
dalla storia della città alla sua singolare conformazione architettonica, dagli straordinari monumenti,
palazzi, chiese, piazze, fontane, alla sua vivace vita
culturale che la rende quasi unica in Italia; fosse solo
per questo, L'Aquila non sarebbe diversa dalle altre
città candidate che vantano storia, monumenti, palazzi, chiese altrettanto importanti. L'Aquila, però, a
differenza delle altre, ha una ragione in più che tutte
le altre sorpassa ed azzera, e che ha a che fare con la
sua tragica storia recente. Non si invoca compassione per una città duramente provata, senza sua
colpa. Ma alto senso civile. Vista oggi, nonostante gli
sforzi sovrumani dei suoi abitanti e delle migliaia di
giovani aquilani 'adottivi' che frequentano le numerose istituzioni formative (Università, Conservatorio,
Accademia di Belle Arti, Accademia dell'Immagine),
L'Aquila è una città desolata. C'è voglia di dimenticare e ricominciare, ma come si fa avendo davanti
agli occhi una città desolata? Una città con uno dei
centri storici più grandi e importanti al mondo, praticamente impacchettata e vietata agli stessi cittadini,
la cui vista fa venire i brividi, procura una stretta al
cuore, ogni volta che, percorrendo quelle poche vie
aperte del centro, capita di gettare l'occhio in strade
e vicoli battuti ormai solo dal vento. Ora la città storica è un immenso cantiere; sono partiti alcuni lavori
di consolidamento e ristrutturazione; altri ancora
stanno per cominciare, e per altri, infine, si attende
una decisione sul da farsi, che, però, tarda a venire.
Ciò vuol dire che senza una accelerazione immediata, L'Aquila rischia di restare un immenso rudere
per anni, forse decenni, negando la sua austera bellezza agli occhi di tutti e azzerando ogni speranza di
futuro, per colpa di diatribe, fazioni, rallentamento
del flusso dei finanziamenti promessi ma dati a piccole dosi. L'Aquila deve essere proclamata 'capitale
europea della cultura' per il 2019, per prospettare a
tutti un suo futuro prossimo. Mancano otto anni
pieni all'appuntamento, tremila giorni circa, che
non sono tanti ma neppure pochi, se si mette l'acceleratore e si ha chiaro il traguardo. L'Aquila per il
2019 può, per buona parte, tornare ad essere 'com'era e dov'era'. E lo Stato non può tirarsi indietro
quando viene chiamato ad assumere una decisione
che a che fare con il futuro di una città, sulla quale
sono puntati gli occhi del mondo. Lo Stato, ed il Governo per esso, devono assumersi tale responsabilità facendo affluire, in funzione di tale importante
appuntamento mondiale, i fondi necessari; Comune
Provincia e Regione, per la loro parte, si dotino degli
strumenti idonei ad avviare in tempi brevi la ricostruzione, stabilendo preventivamente le linee
guida; e gli abitanti tutti, smessi i panni non sempre
produttivi della contestazione, si rimbocchino le
maniche e si mettano al lavoro, per restituire al
mondo L'Aquila, com'era prima del terremoto.
L'Aquila deve tornare a volare ed i suoi abitanti con
essa. Da subito e puntando al 2019.
Music@. N.20 Novembre-dicembre 2010)
Nel 2010 aveva senso scrivere ciò che scrivemmo allora, ed ora abbiamo ripreso a futura memoria. La
Commissione europea che doveva esaminare le città
italiane candidate ha deciso di scartare anche
L’Aquila. E non per la cattiva stampa o per i recenti
scandali – infiltrazioni mafiose, nella ricostruzione come accusa la sen. Pezzopane. La vera ragione sta
nell’aver constatato la commissione che all’Aquila
nulla si muove, e che sarà praticamente impossibile
che qualcosa di diverso possa accadere da qui al 2019.
Figuriamoci eleggere ‘capitale europea della cultura’
una città fantasma. Le istituzioni cittadine non possono prendersela con la Commissione europea, perché
in questi anni, cinque dal terremoto, come l’aquila del
loro simbolo comunale, sono rimasti ‘immobili’. (P.A.)
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GRAZIE!
Hanno scritto per Music@:
Hans Landesmann, Salvatore Sciarrino, Enrico Pieranunzi, Pierfranco Moliterni, Rinaldo Alessandrini, Pierluigi Petrobelli, Enrico Fubini, Elio Battaglia, Erik Battaglia, Quirino Principe, Giorgio Battistelli, Emma Dante, Fausto Razzi,Franco Marcoaldi, Michelangelo Lupone, Nicola Sani, Maurizio
Pratola, Andrea Bacchetti, Alessandro Mastropietro, Giorgio Barberio Corsetti, Franco Ferrarotti,
Paolo Cavallone, Azio Corghi, Filippo Del Corno, Lorenzo Ferrero, Valerio Festi, Riccardo Panfili,
Marco Stroppa, Letizia Michielon, Marco Vallora, Stefania Gianni, Sabina Colonna Preti, Franco
Chieco, Attilio Lolini, Luca Aversano, Nicola Piovani, Francesco Filidei, Giorgio Manusardi, Roberto
Prosseda, Marcello Bufalini, Ferdinando Pinto, Andrea Coen, Umberto Padroni, Valerij Voskobojnikov, Vincenzo Raffaele Segreto, Luigi Corbani, Riccardo Risaliti, Alessandro Sbordoni, Alessandro
Politi, Linda Selmin, Roberta Vacca, Alessandra Carlotta Pellegrini, Alessandro Valenti, Elisabetta
Castiglioni, Antonio Latanza, Dario Della Porta, Silvia Lanzalone, Vittorio Emiliani, Marco Tutino,
Lucia Bonifaci, Nando Dalla Chiesa, Giorgio Bruno Civello, Piero Rattalino, Daniela Petracchi, Sandro Bergamo, Federico Agostinelli, Raffaele Pozzi, Carlo Crivelli, Sveva Antonini, Paolo Furlani,
Luigi Berlinguer, Alessandro Di Profio, Carlo Fontana, Roberto Grossi, Stéphane Lissner, Walter
Vergnano, Franco Punzi, Paolo Maluberti, Luca Francesconi, Enrico Dindo, Sante Fornasier, Alberto Triola, Sergio Perticaroli, Francesco Giambrone, Francesco Ernani, Cristina Ferrari, Luigi Pizzaleo, Renzo Giuliani, Giorgio Nottoli, Bruno Tosi, Roberto Pagano, Andrea Lucchesini, Nicola
Scardicchio, Nicola Bernardini, Alfonso Borrone, Andrea Corazziari, Antonio Doro, Francesco
Zimei, Ciro Longobardi, Italo Vescovo, Alvise Vidolin, Nicola Verzina, Walter Tortoreto, David
Aprea, Emanuele Marconi, Francolina del Gelso, Francesco Papa, Pierangiolo Pierantonio, Margaret Fisher, Lorenzo Arruga, Mariella Devia, Mario Messinis, Stefano Baia Curioni, Dario Martinelli,
Alvaro Lopes Ferreira, Gianni Borgna, Giulia Veneziano, Alan David Baumann, Barbara Zanchi, Angelo Bozzolino, Ilaria Borletti Buitoni, Georges Bloch, Silvia Umile, Angelo Fabbrini, Sergio Rendine, Mario Torta, Sylvano Bussotti, Sergio Prodigo, Rita Marcotulli, Franco Carlo Ricci, Nicoletta
Polla-Mattiot, Dario Cusani, Ennio Morricone, Franco Piersanti, Marco Murara, Roberto Antonelli,
Roberto Rea, Raffaele Pellegrino, Claudio di Massimantonio, Giustino Parisse, Luciano Bologna,
Gisella Belgeri, Jan Liesegang, Frauke Gerstenberg, Joachim Bluher, Antonio Pappano, Marcello
Panni, Giuseppe Pennisi, Andrea Quarta, Maria Giovanna Sanjust, Ulrike Brand, Philip Gossett,
Dario Lo Cicero, Claudio Santori, Francesco Micheli, Andrea de Carlo, Roberto Calabretto, Hans
Kung, Claudio Strinati, Marco Veneziani, Salvatore Dell’Atti, Carlo Pedini, Adriana De Serio, Maria
Laura Martorana, Piero Mioli, Claudia Caneva, Alessio Gabriele, Franco Rossi, Roberto Jovino,
Carlo Ventura, Antonio Florio, Francesco Lotoro, Dinko Fabris, Fabio Babiloni, Sandro Marrocu,
Alessandro Macchia, Annibale Cogliano, Giovanni Iudica, Luca Bragalini, Anna Maria Bonsante,
Falvio Menardi Noguera, Giovanni Valentini, Cristiano Chiarot. E Leporello.
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Per il Laboratorio di “Tecniche della Comunicazione”:
Enrica Di Bastiano, Maria Laura Martorana, Annalisa Tiberti, Valentina Baldassarre, Chiara Bianchetti, Daniela Scacchi, Katia Di Michele, Luca Di Bernardo, Luigi Poggiogalle, Patrizia Fasano,
Rosa Fanale, Francesca Boccacci, Giancarlo Giannangeli, Fabrizio Mancinelli, Grazia Distefano,
Carlo Laurenzi, Roberta Bellucci, Giovanni Di Giacomo, Giulia Mariti, Valeria Blasetti, Silvia Cannarozzo, Diana Pettinelli, Fabiana Simonetti, Tamara Manganaro, Elisabetta Guarnieri, Paola Pinto,
Luigina Battisti, Andrea De Santis, Paola Canfora, Concetta Cucchiarelli.
Music@ ha ritrovato e ripubblicato:
Gian Francesco Malipiero, Alfredo Casella, Alberto Savinio, Guido M. Gatti, Luigi Dallapiccola,
Alessandro Longo, Arturo Benedetti Michelangeli, Alberto Moravia, Paolo Bordoni, Harvey Sachs,
Vincenzo Vitale, Giorgio Pressburger, Ugo Buzzolan, Beniamino Dal Fabbro, Mario Bortolotto, Karlheinz Stockhausen, Roman Vlad, Giorgio Vidusso, Dacia Maraini, Giorgio Montefoschi, Franco
Donatoni, Tito Aprea, Carl Dahlhaus, Pierre Boulez, Adriano Guarnieri, Marco Tutino, Carlo Pedini,
Gianmario Borio, Stefano Ragni, Francesco Balilla Pratella, Giorgio Gualerzi, Loredana Lipperini,
Alberto Salvagnini, Domenico De’ Paoli, Vieri Tosatti, Maria Grazia Teodori, Franco Mannino, Charles Rosen, Edoardo Sanguineti, Vittorio Taviani, Bruno Cagli, Ernesto Esposito, Benedetto XVI,
Charlie Chaplin, Karlheinz Stockhausen, Richard e Cosima Wagner, Giovanni Sgambati, Sofia Gubaidulina, Vittoria Ottolenghi, Sergio Trombetta, Benjamin Britten, Elio Vittorini, Giuseppe Verdi,
Gabriele d’Annunzio, Vladimir Ashkenazy, Boris Pasternak, Pino Zac.
Interviste:
Luciano Pavarotti, Fausto Melotti, Valery Gergiev, Mstislav Rostropovic, Gustavo Dudamel, Diego
Matheuz, Carlo Grante, Fausto Razzi, Pierre Boulez, Antonio Pappano, Riccardo Muti, Luciano
Berio, Peppino Di Giugno, Josè Antonio Abreu, Nuria Schoenberg Nono, Karheinz Stockhausen,
Fabrizio De Andrè, Carmelo Bene, Federico Fellini.
E inoltre:
-Gli Allievi del Corso di grafica dell’Accademia di Belle Arti - L’Aquila,
per il progetto grafico;
-Barbara Pre, per l’impaginazione;
-Alessio Gabriele, per la versione online.
Musica di Music@ ha pubblicato:
Fausto Razzi. Tre pezzi didattici per il Conservatorio Casella (1970).
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Gennaio-Febbraio
2014
SOMMAriO
EDITORIALE .I __________________________3
DELITTI _______________________________37
Un saluto
Ora bruciano anche la Musica
di Pietro Acquafredda
MUSICA IN ABRUZZO __________________38
EDITORIALE.II __________________________4
Henry Mancini
2019. L’Aquila capitale della cultura? No!
di Luca Bragalini
GRAZIE! ________________________________5
FOGLI D’ALBUM _____________________ 40
GESUALDO 400
________________________8
Gesualdo senza parole
di Salvatore Sciarrino
CASO SCELSI__________________________10
Tracce di bottega
di Sandro Marrocu
FOGLI D’ALBUM _______________________12
conduttori e direttori
di Francolina del Gelso
INTERVISTE INEDITE ____________________ 13
Berio di Oneglia
All’Opera!, deve tornare
di Francesco Papa
SCOPERTE ____________________________41
Musica profana in clausura
di Annamaria Bonsante
LETTO SULLA STAMPA __________________44
Corriere della Sera, La Stampa
LIBRI__________________________________45
Bussotti, rota
CONTROCOPERTINA ____________________47
di Pietro Acquafredda
Fondazioni liriche. Navigare in
sicurezza
RITRATTI _____________________________17
di Cristiano Chiarot, Sovrintendente Fenice
Petrassi , il mio maestro
di Fausto Razzi
COPERTINA ___________________________20
ARIA DEL CATALOGO ____________________50
L’ombra di bancomat
di Leporello
Lettere, lettere, lettere
Scritte dal cardinale Bartolucci, Michele Campanella, Orchestra Scala, Lavoratori San Carlo e altri;
Lissner risponde
GERSHWIN ___________________________28
La ‘giornata’ dell’Americano a Parigi
raccontata a roma
di Enrico Pieranunzi
BRITTEN 100 __________________________32
Saint Nicolas
di Alessandro Macchia
MUSICA E POTERE ____________________34
Sciostakovic. rivelazioni
di Giuseppe Pennisi
Conservatorio "Alfredo Casella"
Direttore: Giandomenico Piermarini
Via Francesco Savini 67100 L'Aquila
tel. 0862 22122
Hanno collaborato a questo numero:
Salvatore Sciarrino, Fausto Razzi, Annamaria
Bonsante, Cristiano Chiarot, Luca Bragalini,
Sandro Marrocu, Enrico Pieranunzi, Alessandro
Macchia, Giuseppe Pennisi, Francesco Papa,
Francolina del Gelso. E Leporello.
Bimestrale di musica
Anno IX N.36 Gennaio - Febbraio 2014
Direttore Responsabile: Pietro Acquafredda
pietroacquafredda.blogspot.it
Reg. Trib. dell’Aquila n°425/12 del 11-07-2012
interviste inedite:
Luciano Berio
Progetto grafico
curato dagli studenti del corso di Grafica
dell'Accademia di Belle Arti dell'Aquila
copertina: Marta Fornari, Alberto Massetti
interno: Caterina Sebastiani
illustrazioni: Eleonora Regi, Barbara
Santarelli, Alberto Massetti
impaginazione: Barbara Pre
Consultabile sul sito: www.consaq.it
Versione online: Alessio Gabriele
è una produzione del Laboratorio teorico-pratico di "Tecniche della Comunicazione" del
Conservatorio "Alfredo Casella"
Lettere al direttore. Indirizzare a:
[email protected]
Stampa: Arti Grafiche Aquilane
Via G. Gronchi 14
67100 L’Aquila
Tel.0862.755096 .Fax 0862.755214
E-mail:posta@artigraficheaquilane.it
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GESUALDO 400
A 400 anni dalla morte del principe madrigalista
GeSUALdO SeNzA PArOLe
di Salvatore Sciarrino
Dichiarazione d’amore di un musicista d’oggi a Carlo Gesualdo, principe di Venosa, la
cui musica e personalità l’hanno tante volte ispirato, da ‘Le voci sottovetro’ a ‘Luci mie
traditrici’, dalla ‘Terribile e spaventosa storia del principe Gesualdo e della bella Maria’
per l’opera dei Pupi di Mimmo Cuticchio, al recentissimo ‘Gesualdo senza parole’, in
prima assoluta a Weimar.
A
ssai prima che la scienza moderna sondasse il
funzionamento della mente umana, Franz Liszt ci
aveva indicato, con poderose ‘Reminiscenze’ e ‘Parafrasi’, il valore creativo della memoria.
Quando ciò che ascoltiamo si imprime in noi, lo abbiamo già elaborato. E nello stesso istante si sono
formate le nostre emozioni e i presupposti affinché
entri in gioco la nostra immaginazione. Sebbene reputati secondari, quei lavori di Liszt non sono soltanto testimonianza della sua apertura intellettuale,
restano anzi un monito per ogni artista.
La tradizione, almeno ciò che offre di meglio, dovrebbe essere sempre accessibile a tutti per sostenerci, oppure rimane assente dal quotidiano.
La forza del pensiero io credo risieda proprio nel trasformare e mescolare continuamente. E se non c’è
selezione, ciò che l’uomo produce cresce come soffocante spazzatura.
Quella della cultura è una dimensione utopica. Essa
consiste nel superamento dei limiti del possibile.
L’individuo che si autodisciplina vi svolge il ruolo
principale, ne è il motore e il progetto stesso.
Salvatore Sciarrino
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GESUALDO 400
La maggior parte dei problemi, che sorgono al contatto della memoria con le dimensioni reali, si condensano principalmente in due impossibilità: la
simultaneità nel tempo e l’ubiquità nello spazio. Pensiamo ad una grande biblioteca. I volumi sono stretti
l’uno all’altro, si toccano, eppure sono chiusi e separati nella loro singolarità. Se qualcuno non li apre,
collegandoli e combinandoli nella lettura, giaceranno isolati e dispersi, senza voce, cioè in un’attesa
sterile. Ovvio: saranno come inesistenti. Il frequentatore è importante quanto la biblioteca in sé.
La sopravvivenza della cultura non vuol dire conservarla, che è come mummificarla. Portarla saltuariamente alla luce non serve, né basta elencare o
nominarne i protagonisti o i tratti distintivi, come
fanno l’accademia e l’ufficialità. Bisogna che la memoria fiorisca in noi; ecco l’importanza dell’esempio
lisztiano: far proprio ciò che amiamo, antico o moderno che sia.
Per la pittura, la scultura, l’architettura, restaurare
vuol dire riportare in luce l’originale. Si tratta infatti
di oggetti concreti. Invece la musica, essendo uno
dei linguaggi della rappresentazione, richiede comunque di essere interpretata, ogni volta, estemporaneamente. Al pari della letteratura e del teatro, la
musica vive trasformandosi, e brucia dinanzi al suo
pubblico in un istante effimero. Senza mai farsi materia: sì, gli spartiti sono di per sé muti.
Se il compositore non si comporta da indifferente
compilatore, il comporre e il ricomporre sono entrambi funzioni della creazione. Immaginare è un
atto violento e delicato come un parto. Trascrivere la
musica può voler dire portare un altro linguaggio
dentro il nostro, e il nostro in un altro; questo ci
porta alla scoperta delle vene e del respiro altrui, a
una vera conoscenza. Straniamento di modelli propri
e altrui: uscire da sé, divenir altro, e l’altro entra in
noi. Uno scambio che chiamiamo fare esperienza, essenza del conoscere. Noi del Vecchio Continente
sappiamo che nell’emisfero australe l’estate arriva a
Natale. Stesse date, luce e cielo diversi, ormoni diversi. L’han vissuto i nostri bisnonni allora che migravano. Cosa si prova a vivere similmente altrove,
inversamente nello stesso luogo?
tri, affinché i più strani ma anche i più banali, i più dimenticati, i sempre amati potessero starci al fianco,
vivi nel nostro presente.
Sarebbe ora stato un gran peccato perdere l’occasione di una ricorrenza così tonda e lontana come i
400 anni dalla morte di Gesualdo ( 1613). Peccato
specie per me, concittadino onorario di Gesualdo, il
paese che prende nome dal musicista ( e glielo dà).
Il mio primo dono gesualdino all’Ensemble ‘Recherche’ era stato Le voci sottovetro. Riunivo in esso 4
pezzi, di cui due strumentali, allora non tanto di
moda, curandone assai la messa a fuoco dei fraseggi
e percorrendo alcuni degli agganci possibili con artisti del repertorio più recente, a noi oltremodo cari,
quali Schubert e l’ultimo Beethoven. La trascrizione
come rivelazione di una nuova faccia virtuale dunque, non ostensione di una reliquia. Ai pezzi strumentali aggiunsi due madrigali: uno
preventivamente riplasmato nelle classiche 4 parti,
indi ristrumentato: Tu m’uccidi, o crudele ; poi il celebre Moro, lasso mutato in un Lied tardoromantico.
Stavolta la sorpresa avviene a Weimar, guarda caso.
Chiamato a dirigere il mio Lohengrin in forma di
concerto, là dove Liszt aveva diretto pure in forma
concertante la prima del Lohengrin di Wagner.
Come non esser tentati di far omaggio a Nike Wagner che da entrambi discende?
Le prove extra effettuate in segreto sortirono l’effetto desiderato: innanzi al programma firmato da
Nike, dovetti entrare in sala per annunziare la sorpresa, i primi tre numeri di Gesualdo senza voce. Il titolo definitivo senza parole ( ohne Worter) fu trovato
quasi in famiglia. Lo pronunziò Jurg Stenzl, commettendo un lapsus benaccetto, durante la sua presentazione della seconda serata, a Weimar.
Le line strumentali seguono qui rigorosamente da
presso l’articolazione verbale del testo. Al nucleo
d’origine adesso viene aggiunto un quarto madrigale e così concludere coraggiosamente, con un
concertino per Marimbone solista e sei strumenti.@
Anche la musica che nessuno ascolta dovrebbe
poter circolare. Altrimenti cosa avanza di un patrimonio comune, che sappiamo stare alla base di una
pretesa identità europea? Tale identità va raggiunta,
conquistata, resa cosciente, costruita con ampiezza.
E le opere riscoperte devono essere rigodute.
Tanti illustri modelli (Bach, Mozart, Beethoven, Ravel)
m’hanno spinto tutta la vita a elaborare musica d’al9
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La risoluzione del ‘caso Scelsi’ ad un punto di svolta
Tracce di bottega
di Sandro Marrocu
Considerazioni e ripensamenti intorno alla prassi
costruttiva di Giacinto Scelsi.
Improvvisazione? Trascrizione? Il ruolo di Vieri Tosatti.
M
olti ricorderanno il Caso Scelsi, quella sorta di
querelle di fine anni Ottanta ben presto tradottasi in
un vero e proprio scontro in merito all'autorialità
della musica di Giacinto Scelsi.
Un dibattito acceso, per molti versi del tutto fuorviante, consumatosi perlopiù tra le pagine di ‘Piano
Time’, ‘Il Giornale della Musica’ ed alcuni spazi radiofonici di ‘Radio3 Rai’; e, in anni recenti, ripreso anche
da ‘Music@’.
Daremo qui per noti l'oggetto ed il decorso generale della vicenda che, al di là di polemiche in sé
piuttosto sterili, suscitò anche non poche curiosità.
Nel corso dell'affaire emersero, infatti, alcuni singolari aspetti della prassi compositiva di Scelsi, in sé alquanto discussa e, tuttavia, mai del tutto chiarita.
Ad esempio, rimase quantomeno dubbio il rapporto
sussistente tra i nastri, sui quali iol maestro registrava le tracce sonore della sua musica, e le partiture; non si capì se i nastri contenessero delle bozze,
delle versioni elettroacustiche delle opere di repertorio oppure delle improbabili esecuzioni delle
stesse compiute da Scelsi all'Ondiola. Oggi, grazie
ad alcune preziose testimonianze (della vedova Tosatti, e dei mm. Fernando Grillo e Riccardo Filippini)
e, soprattutto, a numerose fonti documentarie (rese
disponibili dalla Fondazione Isabella Scelsi di Roma
e dalla famiglia del m. Tosatti, il cui archivio è custodito nella Bibliomediateca dell’Accademia di Santa
Cecilia,) è possibile discutere di questi problemi con
una certa oggettività e ricostruire abbastanza verosimilmente il modus operandi di Scelsi. Questo,
quantomeno se si limita il discorso alla produzione
posteriore al 1950 circa, discesa dalla tanto divulgata "trascrizione" dei nastri magnetici (ad oggi ne
sono stati digitalizzati oltre 300: meno della metà
del lascito di Scelsi).
improvvisazione e trascrizione?
Semplificando: nel corso del Caso si disse che la
10
parte più consistente dell'opus scelsiano fosse frutto
di trascrizioni operate da terzi a partire dalle improvvisazioni di Scelsi; improvvisazioni ispirate, si disse,
che lo stesso compositore era solito registrare su nastro. Ma tutto questo è vero solo in parte.
Più che altro, sono i concetti di ‘improvvisazione e
trascrizione’ ad essere quantomeno generici se non
del tutto inadeguati. Si può, infatti, parlare di una
certa linearità tra improvvisazione e conseguente
tra-scrizione delle tracce su nastro solo a proposito
di alcune opere strumentali e, in particolare, della
produzione pianistica nata nei primi anni Cinquanta.
La questione va invece del tutto ridiscussa per
quanto concerne la prassi del ‘terzo periodo’. Dalla
fine degli anni Cinquanta, infatti, Scelsi cominciò a
produrre dei prototipi elettroacustici che fungevano
da modelli per la successiva elaborazione scritta
delle sue opere. Non si trattava però di improvvisazioni bensì di vere e proprie composizioni su supporto magnetico; magari create a partire da
elementi improvvisati ma comunque concepiti per
essere “sviluppati” e non tanto “trasposti” su carta.
In sostanza, in particolare nella stagione dell’Ondiola, Scelsi registrava delle linee, talora dei semplici
frammenti, che poi cum-poneva per mezzo di un
vero e proprio montaggio su nastro. Ad esempio, lo
studio genetico condotto da Gabriele Garilli sul
‘Quartetto n.4’ ha portato all’identificazione di vari
materiali che Scelsi sottopose ad un laborioso trattamento su supporto magnetico. Talvolta, sovra-incideva le tracce creando delle strutture armoniche
(anche complesse, come accade nel nastro di ‘Anahit’); talaltra, le giustapponeva in sequenza diacronica e, attraverso l’uso combinato di due registratori
Revox, realizzava delle sequenze proto-contrappuntistiche. Una delle più interessanti è, ad esempio,
quella che si trova sul nastro riferibile alla composizione ‘Hymno’s’. In linea di massima, furono queste le
procedure con cui il nostro creò i pastiches dai quali
discesero le sue maggiori partiture. Friedrich Jaecker
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CASO SCELSI
ha parlato, in proposito, di «prassi costruttiva di
Scelsi». Prassi che in ogni caso, più o meno articolata
che fosse a seconda dei casi, impone alcuni ripensamenti concettuali. Inanzitutto, almeno sui nastri del
terzo periodo, si trovano prevalentemente delle
composizioni elettroacustiche e non tanto delle improvvisazioni; tantomeno, delle esecuzioni dei lavori
di repertorio compiute dal compositore all’Ondiola.
Più in generale, i collage, per quanto estremamente
interessanti, ritraggono degli stati embrionali delle
opere cui sono riferibili e non rappresentano in
modo alcuno lo statuto ontologico della musica di
Scelsi. Sono, piuttosto, i testimoni di un’originalissima procedura di abbozzo, laddove la tecnologia
venne utilizzata intenzionalmente solo per produrre
e manipolare dei materiali che, comunque, Scelsi
volle destinare altrimenti. In questo senso, il suo lavoro con nastro e registratore non chiama in causa
alcuna problematica sulla ri-producibilità tecnica
delle sue opere; piuttosto, porta a riflettere sull'avvenuto compimento della sua musica come ad una singolare manifestazione della producibilità
tecnologica del fatto d'arte nella seconda metà del
XX secolo. Tale compimento avvenne con la scrittura,
espressamente voluta dal compositore per conferire
alle proprie opere una specifica veste e delle ben
precise modalità di esistenza e destinazione sociale.
In questo senso, parlare delle grandi partiture scelsiane come di "trascrizioni" dei nastri, più che inadeguato, è del tutto fuorviante; questo, anche quando
si riscontra la massima aderenza tra carta e traccia
registrata, come accade, ad esempio, nel caso del
‘Pezzo sulla nota Fa’, dal ciclo dei ‘Quattro pezzi su
una nota sola’ (1959): un caso emblematico, nel
quale la partitura ritrae puntualmente la macroforma del composto su nastro ed alcuni suggestivi
dettagli dello stesso. Tuttavia, il pastiche lascia appena intuire l’architettura orchestrale, le tessiture variopinte e, più in generale, il lavoro di capillare
definizione del suono che caratterizza questo manifesto della poetica di Giacinto Scelsi.
Karma, regia o bottega...
Forse, per la tradizione euro-colta tali ripensamenti
sono ancora di difficile accettazione. Più che altro
perché, come noto, non fu Scelsi a curare la scrittura
dei suoi lavori, almeno non in senso tecnico. Egli
fornì le idee ed i modelli, il tessuto meta-narrativo, il
sistema di pensiero che ha donato ai suoi testi un'indiscutibile impronta d’autore; forte di una straordinaria personalità, seppe coinvolgere i suoi interpreti
ed i suoi principali collaboratori; riuscì a renderli partecipi del suo mondo, proponendo loro un modo del
tutto "altro" di concepire il suono e la musica. Soprattutto, fece della genesi delle proprie opere una sorta
di esperienza di bottega.
Scelsi fu il ‘produttore’ ed il ‘regista’ della propria mu-
sica. Ma resta un fatto che la concreta realizzazione
delle sue idee secondo le sue volontà fu possibile
solo e soltanto grazie ad un consistente apporto altrui. Un contributo di Friedrich Jaecker ha già fornito
un riepilogo delle principali collaborazioni di cui
Scelsi si avvalse nel corso di tutta la sua carriera.
Senza dubbio alcuno, l’apporto di maggior rilievo fu
quello fornito da Vieri Tosatti. Oggi, tutti i documenti
provano, che fu lui, per quasi trent’anni a partire dal
1947, ad incidere più di chiunque altro sulla fase di
ideazione del corpo acustico e formale delle maggiori composizioni della maturità: dagli schemi sintetici di stesura delle tracce su nastro fino alle prime
bozze su carta, dalle correzioni alle belle copie e,
spesso, anche agli ultimi appunti per l'esecuzione. In
particolare, è al suo magistero dell'orchestrazione
che si deve l’inconfondibile caratterizzazione del
suono scelsiano in tutte le composizioni più complesse.Vieri Tosatti fu musicista ed intellettuale
molto più poliedrico e sensibile di quanto non si immagini; fu, per Scelsi, l'artigiano d'elezione, una
sorta di demiurgo. Scelsi sosteneva che tra loro sussistesse un legame ‘karmico’. A questo si potrebbe
credere o meno; è comunque un fatto che, a differenza di quanto il Caso lasciò intendere, il trentennale sodalizio che unì i due personaggi non fu un
mercimonio. Si trattò, piuttosto, di una singolare
rapporto artistico che, almeno fino alla prima metà
degli anni Sessanta, fu denso di implicazioni umane
e culturali oltre che professionali, è l’epistolario di
Tosatti a provarlo. In particolare un suo interessamento per idee mistico-esoteriche che gli permisero di com-prendere ed “interpretare”, come nessun
altro, il contenuto dei nastri e la poetica scelsiana.
Dopodiché la collaborazione declinò gradualmente,
fino al definitivo abbandono di Tosatti avvenuto solo
dopo il 1974. Comunque, a differenza di quel che si
è spesso sentito dire, il legame amicale tra i due si
conservò intatto. Ma questa è un’altra storia, impossibile da ricostruire in poche righe. In ogni caso, si
tenga presente che il ruolo assunto da Vieri Tosatti
nella compiuta realizzazione delle principali composizioni del ‘terzo periodo’ non fu solo determinante
ma indiscutibilmente partecipe e ‘positivo’. Sarebbe
pertanto intellettualmente disonesto voler assimilare il suo apporto, in un certo senso maieutico, a
quello di un semplice copista. Piuttosto, è un fatto
che la sua azione, così come quella di tutti gli altri
professionisti che in misura diversa contribuirono
alla formazione dell'opus scelsiano, vada ri-considerata in funzione della ‘regia’ di Giacinto Scelsi ed alla
luce di quel contesto, unico ed irripetibile, che fu la
sua ‘bottega’.@
*Sandro Marrocu è dottorando in Storia della Musica con i proff. Baroni e Sanguinetti, con una tesi
dal titolo "il regista e il demiurgo. Giacinto Scelsi e
Vieri Tosatti: una singolare sinergia creativa".
11
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Fogli d’Album
direTTOri
C
laudio Abbado alla fine è stato inserito nella
rosa ristrettissima dei nuovi senatori a vita, nominati
da Giorno Napolitano, il Presidente della Repubblica
italiana. Nessun politico, come a dire – sommessamente - bastano quelli che abbiamo, ma forse
anche: nessuno se lo merita. claudio Abbado che
non ha potuto partecipare all’incontro con Napolitano, ha diffuso un comunicato nel quale dichiarava
di essere onorato -naturalmente! - del prestigioso riconoscimento/ incarico, e che, compatibilmente con
il suo lavoro - dal quale si
è preso qualche mese di
Riccardo Chailly
riposo per ragioni di salute
- onorerà gli impegni di senatore. Alla vigilia si faceva
il nome anche di riccardo
Muti. Alla fine l’ha spuntata Abbado anche per ragioni anagrafiche. Muti si
deve accontentare, per
ora, del suo incarico ‘a vita’
ma fuori del Senato, e cioè
quello di ‘direttore onorario a vita’ dell’Opera di
Roma.
Tony Pappano, del quale si
diceva e si continua a dire
un gran bene - un direttore senza ombra e senza
macchia, come il cavaliere
della leggenda - alla fine,
s’è sfilato dalla rosa dei
candidati alla direzione
musicale della Scala. Prima ancora che iniziassero a
circolare i vari nomi, compreso il suo, s’è saputo che i
gioiellieri BULGARI, i fratelli Paolo e Nicola, il secondo dei quali legato da strettissima amicizia con il
direttore, hanno donato all’Accademia di Santa Cecilia ( leggi: a Pappano che deve averli supplicati, in
un momento difficile) la considerevole somma di
1.200.000 Euro circa, diluiti in tre anni.
Quando si è diffusa la notizia, era evidente che Pappano s’era deciso a restare a Roma: non poteva
andar via proprio lui che era stato la molla per la
consistente donazione; e , infatti, subito è stata diffusa la notizia del prolungamento del suo contratto
fino al 2017. E Cagli? Il suo incarico, che dura già da
vent’anni, alla fine di questo mandato, il sesto o settimo addirittura, schioderà dalla sua poltrona di So12
vrintendente?
E alla Scala andrà, a partire dal 2017 ma forse anche
prima riccardo chailly, preferito da Alexander Pereira a Fabio Luisi ( gradito all’orchestra) e a daniele
Gatti che, sembrava, alla vigilia il favorito, per essere
stato direttore a Zurigo, negli anni della sovrintendenza Pereira. Non è chiaro se la nomina e la scelta
di Chailly sia stata decisa da Pereira, in tutta autonomia, oppure sia venuta - suggerita o caldeggiata
- dal Consiglio di amministrazione della Scala, come
sembra più probabile. Chailly, figlio d’arte, a 19 anni
proprio alla Scala ha mosso
i primi passi come assistente di Abbado negli
anni in cui suo padre Luciano era, invece, del medesimo teatro milanese
direttore artistico. E poi,
dietro tale suggerimento
sta la constatazione che
Chailly è direttore più completo e dalle vedute e dal
repertorio, sia operistico
che sinfonico, più vasti.
Via da Salisburgo Alexander Pereira, alla fine del
prossimo festival, estate
2014, gli subentrerà un regista tedesco, alla fine del
cui mandato, nel 2016, tornerà Markus Hinterhauser
che aveva assistito nella
direzione artistica, settore
musica, l’ex sovrintendente
Jurgen Flimm. Da Vienna dove ha diretto Wien Modern, Hinterhauser torna a Salisburgo come responsabile in prima persona della programmazione del
festival, infine potrebbe sostituire Zubin Metha, a Firenze.@
di Francolina del Gelso
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INTERVISTE INEDITE
intervista inedita
BeriO di ONeGLiA
di Pietro Acquafredda
In occasione dei suoi settant’anni, il settimanale ‘Il Venerdì’ di Repubblica, ci commissionò una intervista a Luciano Berio. L’intervista ebbe luogo nella primavera del 1995,
nella sua casa di Radicondoli, registrata e trascritta. Ma l’intervistato, a pochi giorni
dalla pubblicazione, inviò una versione del tutto nuova del testo; alla fine, pro bono
pacis, fu pubblicata la sua versione. Ma quella originale, più spontanea ed anche più
ricca, che abbiamo conservato, la offriamo ai lettori, a dieci anni dalla scomparsa del
musicista.
S
ono pieno di problemi e contrattempi - attacca il musicista..
L'opera incompiuta di Mozart,
‘Zaide’, per la quale Berio ha fatto
un complesso lavoro, è stata cancellata dal programma del Maggio Musicale Fiorentino. Le
ragioni le elenca il diretto interessato: “I produttori sono dei delinquenti e il regista è un pazzo:
provano a Cracovia, mentre la
prima era programmata a Firenze, il produttore è a New York,
il regista in Brasile, il direttore
d'orchestra, giovane e
bravissimo, è in Inghilterra ed io sono
qui...".Un film di
straordinaria
follia, in un
luogo
dove
nulla
sembra poter turbare il quieto solitario lavoro di un musicista confinato nella campagna senese, a
Radicondoli, in una bella casa
del Settecento, in pietra,
'Il Colombaio' . E, invece, anche per un
compositore famosissimo,
come Luciano
Berio, giunto
alla soglia
dei set-
tant'anni, i problemi non finiscono
con la scrittura di una nuova
opera.
Come in un film, il racconto della
sua vita.
da dove si potrebbe cominciare?
Lo avrei chiesto
a mia madre... io
non saprei da
dove cominciare. Non so
farlo né per la
mia vita né per
quella di qualunque
altro, come percorso lineare. Anche
quando si racconta
il lavoro di una persona, musicista o
scrittore, mettendo in fila dei
titoli, si sbaglia. La
cosa è
molto
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INTERVISTE INEDITE
più complessa. Sono veramente
negato a raccontare la mia vita,
anche perché non l'ho mai raccontata. E poi sono ligure; ed i liguri, per natura, sono reticenti e
scontrosi.
della sua infanzia qualcosa ricorderà?
La mia infanzia è stata molto
bella, piena di musica: mio nonno
e mio padre erano musicisti,
quindi sono stato sempre nella
musica, in un modo o nell'altro.
Senza di loro la sua vita sarebbe
stata diversa?
E' un grande dilemma tuttora irrisolto, quello dei rapporti tra natura ed ambiente che solleva
addirittura problemi genetici.
Suo padre è stato con Lei come
Leopold Mozart con il piccolo
Amadeus, cioè abbastanza duro,
forse cattivo?
No, non è stato cattivo né duro,
però è stato molto rigoroso.
Anche Leopoldo è stato un
grande maestro per il piccolo
Wolfango.
Mai nessun dubbio l'ha sfiorata
sulla strada da intraprendere?
Mai, forse questa è una mancanza. Anzi un dubbio l'ho avuto,
ad un certo momento. Avevo undici o dodici anni e mi venne
l'idea di una carriera navale, perché ho sempre amato il mare e
l'amo tuttora.
e poi, invece, dalla nativa Oneglia, è finito a radicondoli, nella
campagna toscana, lontano dal
mare.
L'incoscienza politica, democristiana e socialista, ha rovinato le
coste. Non posso andare troppo
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al sud, o in Sardegna che amo
moltissimo, a causa del mio lavoro, che svolgo sì a casa ma che
mi costringe a frequenti viaggi.
Devo perciò abitare non lontano
dagli aeroporti, ad esempio. Le
coste italiane, comprese quelle
della Liguria, sono infrequentabili,
rovinate dalla speculazione. Ad
Oneglia resto sempre legato, c'é la
mia casa di famiglia che ho appena donato alla Società Operaia
di Mutuo Soccorso e che diventerà presto un luogo di studio
della cultura, della storia e dell'arte del Ponente Ligure, da Savona alla Francia. C'è l'architettura
di ascendenza romanica; di letteratura ce n'è molta: De Amicis era
di Oneglia e la ‘Scapigliatura’ di
inizio secolo spesso bazzicava ad
Oneglia; mio padre era amico di
famiglia di Angelo Silvio Novaro.
Di musica ve n'è stata, invece, abbastanza poca. E, poi, ad Oneglia
c'è stato anche Mussolini.
quando?
Non conosco bene la sua biografia ed a questo punto non mi attrae neanche molto. Dopo il suo
espatrio in Svizzera, tornato in Italia, venne ad Oneglia a fare l'insegnante elementare. Era molto
povero. Ad Oneglia c'era una macelleria, la 'Macelleria Natta', dei
genitori di Alessandro Natta, dove
Mussolini andava a chiedere
avanzi di carne che i Natta gli davano, per aiutarlo. Le voglio raccontare ciò che mi ha confidato
una volta Alessandro Natta, a proposito del maestro elementare
Benito Mussolini. Un giorno si era
recato presso la macelleria di suo
padre per domandare il solito
obolo, in natura. In macelleria
c'era quel giorno una bella signora con un bambino al seno:
Mussolini la guarda con occhi spiritati e dice: “Ma che bel putto!”.
La sera, a cena, la mamma di Alessandro Natta racconta al figlio:
“oggi è venuto Benito, e ad una signora che aveva un bambino in
braccio ha detto: che bel putto!
Ma che vuol dire putto?” La signora Natta si era insospettita.
ricorda cosa ha fatto con i primi
soldi guadagnati da musicista?
No! Ricordo, invece, cosa ho fatto
con i primi soldi che mi furono regalati, a dieci anni, da mia nonna.
Una bella somma per l'epoca che
spesi tutta in biglie, palline, duecento circa. Mia madre se ne accorse e riuscì a riportare le palline
alla cartoleria ed a farsi ridare indietro i soldi.
degli anni di guerra - Lei era un
ragazzo - cosa ricorda?
Brutti ricordi: problemi, conflitti.
Anche perchè mio padre, un brav'uomo, aveva una certa ammirazione per Mussolini. Per questo mi
sono staccato molto presto dalla
mia famiglia, avevo diciott' anni
Questo ricordo ancora oggi mi fa
molto male. Dopo la guerra andai
a studiare a Milano.
Assai più tardi ha pensato ad una
sua famiglia; il lavoro di musicista comportava dei sacrifici?
Sacrifici per la famiglia. La vita che
ho fatto ha avuto effetti spesso
non costruttivi per la vita famigliare. Direi che adesso ho imparato.
ed il rapporto suo con i suoi figli?
Con gli ultimi due, liceali, sono ottimi. Ma io ho cinque figli, la più
grande, Caterina che ebbi dal matrimonio con Cathy Barberian, vive
a Los Angeles, e lavora nel cinema,
come assistente di produzione.
Altri due, Marina e Stefano, anch'essi ormai grandi, vivono a New
York e sono quelli avuti dalla mia
seconda moglie; gli ultimi due,
Daniel e Jonathan, ambedue mu-
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INTERVISTE INEDITE
sicisti alle prime armi, vivono qui
con me.
questi due ultimi non le rimproverano nulla?
Siamo molto amici, c'è molto
amore! Anche la scelta degli studi
musicali non è stata
per loro un problema, perché la
loro madre, che è
musicista, li ha aiutati.
della melma politica, sono anch'essi un po’ inquinati. E' una crisi
culturale alla radice di questo
stato di cose, non un fatto politico. Di conseguenza, anche la politica è ridotta a semplice tattica
senza alcuna strategia di pensiero;
non vi sono ideali, anche se, certamente, molte persone ancora li
Lei è stato molto
amato e da molte
donne...
Avrà allora molto
apprezzato il gesto
del suo amico Umberto eco che ha
pubblicamente dato
50 milioni al comitato per il sì sui referendum televisivi.
Dice? Lo chieda a
loro: se sono davvero tante ne troverà qualcuna
disposta a spiegarle
il perché. Sono stato
sì molto amato, ma
anch'io ho amato
molto.
Anche la politica è
stato un suo grande
amore, a giudicare
dalle tante volte
che, specie in passato, si è apertamente schierato.
questo amore dura
ancora o si e affievolito?
Oggi le cose sono molto diverse,
perché l'Italia sta attraversando
una crisi culturale che si manifesta in molte maniere, dal modo di
far politica a quello di risolvere i
problemi fondamentali dell'educazione, oppure nella mancanza
di senso di responsabilità di molti,
nello svolgere il proprio lavoro.
Guardi come si è ridotta la televisione, o le stesse pagine dei giornali, che un tempo avevano una
grande dignità, e che oggi, dovendosi giustamente occupare
nasce dalla crisi culturale profonda che attraversiamo. Se i valori sono collegati più
profondamente e razionalmente
tra loro, la televisione non può pesare più di tanto. E' lo stato di
emergenza che le attribuisce importanza. Naturalmente la situazione televisiva in Italia va
modificata, vi sono
tanti esempi nel
mondo che possono
essere presi a modello. Ed invece è
tutto un pò degradato.
E' un gesto molto
bello, coraggioso.
Umberto è molto coraggioso. E poi ha un
modo d'essere tutto
suo, che è scomodo
per molti. Gli sono
legato da amicizia
ma anche da grande
ammirazione, per
quel che dice, fa e,
naturalmente, pensa.
coltivano e difendono. In generale
c'è stato un abbassamento di
clima, di tensione, idealità, spiritualità, responsabilità, professionalità.
e la televisione ha colpe?
Nel momento in cui c'era in Italia
il desiderio di cambiare tutto, la
televisione ha avuto il demerito di
facilitare l'arrivo di Berlusconi.
Questo il suo unico demerito; per
il resto non darei così importanza
alla televisione. L'importanza che
oggi si attribuisce alla televisione
Nella vita di ogni uomo di successo c'è un Salieri, vero o presunto. e il suo ?
Innanzitutto, nel film ‘Amadeus’, è
fasulla l'immagine di Salieri, ottimo musicista. No, sono molto
grato a certi musicisti per quello
che danno o hanno dato a me, ed
ai miei compagni di strada. Soprattutto Maderna, Boulez, Messiaen. L'Italia ha avuto una storia
anche per la musica molto travagliata nel Novecento, a differenza
di quanto è accaduto in Francia o
nella Germania, e prima, natural15
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INTERVISTE INEDITE
mente, in Italia con la grande
opera di Rossini e Verdi; ma neppure essi hanno contribuito alla
formazione del pensiero musicale. E ciò ha comportato per l'Italia una grande fatica per mettere
le radici in Europa. Stesso discorso
vale per la letteratura (il nostro
Ottocento è Leopardi; io ho problemi con Manzoni!); nella pittura
c'è...Fattori. Si guardi, invece, alla
Francia...sembra che la pittura sia
nata lì! Il lavoro di dissodamento
in Italia nella musica, l'ha cominciato Puccini e poi Dallapiccola,
Petrassi, Maderna e quelli della
mia generazione.
Torniamo al film sulla sua vita: a
quale regista lo affiderebbe?
Presto sarò anch'io un cineasta
come Gregoy Peck: il 29 luglio mi
danno, a Venezia, il 'Leone d'oro'
alla carriera. Avrei dei conflitti
nella scelta del regista per un film
sulla mia vita. Uno solo, no! Una
volta avrei detto Antonioni, perché lascia vivere le cose, non le
violenta. Ora mi interessano
molto i fratelli Taviani.
E Corbiau, il regista del recente
film sul castrato Farinelli?
Chi è? Non lo conosco. Non vado
mai al cinema. Forman, magari!
l'unico film che ho visto negli ultimi mesi è ‘Forrest Gump’, un film
di grande abilità, ma di un cinismo ideologicamente putrido.
i musicisti, i cui cognomi iniziano
con la lettera B, sono tutti dei colossi. questo pensiero le ha mai
creato qualche problema ...di responsabilità?
Crea dei problemi sulle pagine del
telefono, dove ci sono troppe 'B'.
Senza contare che ad Oneglia,
metà sono Berio!@
e per interpretare Berio...dustin
Hoffmann?
Lui è molto bravo, ma che ci faccio con lui?
LETTO SULLA STAMPA
La scomparsa di Luciano Berio
E’ morto Luciano Berio, il 27 maggio 2003. Aveva 78 anni. Era nato il 24 ottobre del 1925 ad Oneglia, nello stesso paesino del
quale era originario Natta, segretario dell’ex PCI, e nel quale per un periodo aveva esercitato la professione di maestro, il futuro Duce del Fascismo, Benito Mussolini, per il quale il padre di Berio simpatizzerà. Questi ricordi affiorarono alla mente di
Berio, al cadere dei suoi settant’anni, nel corso di una tormentata intervista.
Con la morte di Berio il mondo musicale perde un protagonista assoluto e di grande valore. Compositore prolifico e genuino,
artigiano fantasioso dei suoni, senza preclusioni, intellettuale e pensatore di razza, polemista acuto e convincente…nulla
mancava alla sua consacrazione come uno dei geni della storia musicale del ventesimo secolo. Il più dotato fra i musicisti
che emersero prepotentemente dopo la seconda guerra mondiale. Il più dotato ma anche il più esigente, forse più di Stockhausen e Boulez, perché a Stockhausen pesa quell’aura sacrale, mentre Boulez insegue con troppo accanimento l’utopia
teorica.
Non che a Berio fosse estranea dagli orizzonti l’utopia; ma l’utopia che egli inseguiva era l’utopia dei suoni, e la perseguiva
attraverso i suoni stessi; riuscendo ad aprire agli altri, inoltrandovisi per primo e con orecchio infallibile, i cammini futuri della
musica.
Questo è stato Berio. E lo è stato in ogni singola sua opera, in quelle destinate agli strumenti solisti, come in
quelle cameristiche e sinfoniche, ed anche nelle non poche destinate al teatro - troppi i titoli per uno che dichiarava che i
teatri bisognava chiuderli. Non è sospetto tutto ciò?
Negli ultimi anni la sua produzione ha recato segni inconfondibili di un abbraccio troppo stretto con il passato. Numerosi i
‘completamenti’, i ‘rifacimenti’, le ‘reinvenzioni’ gli ‘sfruttamenti’. Per alcuni segno che Berio, iconoclasta sommo, si riconosceva
ora figlio e fratello della musica, di tutta la musica; per altri un cedimento inaccettabile per un musicista intransigente, allettato forse dalle sirene del mercato.
Per capire come Berio abbia lasciato un sigillo in tutti i campi nei quali si è mosso come musicista, non si possono non ricordare anche le bellissime, acute e modernissime – sembrano fatte ieri - trasmissioni fatte tanti anni fa per la Rai. Sarebbe ora
che i dirigenti di Viale Mazzini le ritrasmettessero a futura memoria.
Negli ultimi anni della sua vita , segnati dalla grave malattia che l’ha condotto alla morte, non pago della pioggia fittissima di
riconoscimenti di università ed istituzioni culturali di mezzo mondo, Berio aveva accettato di esercitare il potere in prima persona, assumendo l’incarico di Presidente- Sovrintendente a Santa Cecilia. Per questo incarico s’era battuto per mesi, non essendo la sua candidatura ben accetta a molti dei suoi elettori.
E così abbiamo conosciuto anche un altro Berio, l’uomo che amministra con spregiudicatezza ed anche arroganza il potere
enorme concentrato nelle sue mani. Di questo Berio noi non abbiamo amato ed ammirato praticamente nulla. Quest’ altra
persona vogliamo presto dimenticare per non sporcare il Berio musicista, conosciuto di lontano.(P.A.)
(Suono. Giugno 2003)
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Lo storico Caffè Greco in via Condotti, ritrovo di artisti. Da sinistra: Aldo Palazzeschi, Goffredo Petrassi ed altri
il grande musicista nei ricordi di un allievo ed amico
il mio maestro
Goffredo Petrassi
di Fausto razzi
Sono passati dieci anni dalla scomparsa di Goffredo Petrassi, probabilmente il più autorevole e significativo compositore italiano del ‘900: la dimensione europea della sua opera può essere compresa
solo se messa in relazione con quanto è stato prodotto non solo nella musica ma anche nella
letteratura, nelle arti figurative e, in generale, in ogni campo in cui si è espresso il pensiero
della nostra epoca.
P
etrassi è stato attivamente presente nella scena internazionale come un intellettuale, nel più ampio significato del termine: ha conosciuto e frequentato
le personalità più importanti del mondo della cultura, portando sempre il suo contributo al dibattito
sui vari problemi posti dal mutare delle situazioni
(ed è sufficiente ricordare la sua presidenza alla
Biennale, la presenza in Giurie internazionali di
Premi musicali e letterari, oltre naturalmente all’impulso dato - insieme a Carlo Marinelli - al Sindacato
Musicisti Italiani).
La sua produzione copre un arco di tempo di quasi
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RITRATTI
sessant’anni (un periodo in cui il linguaggio musicale - ma più in generale il ‘pensiero’ e la società - si
sono profondamente modificati, specie nell’ultima
parte del secolo), e oltre a lavori di grande spessore come ‘Noche oscura’, ‘Coro di morti’ e gli otto ‘Concerti’ più il’ Frammento’ - comprende anche musica
per il cinema: film importanti (‘Riso amaro’ e ‘Non c’è
pace tra gli ulivi’ di De Santis e ‘Cronaca familiare’ di
Zurlini) nei quali pure ha mantenuto il suo stile,
senza alcuna concessione alle esigenze “di mercato”
(cosa alquanto difficile in campo cinematografico).
In lui non è mai venuta meno, infatti, un’esigenza
fondamentale per il compositore, o anzi, per quello
che amava definire “il mestiere di compositore”:
l’estremo rigore verso se stesso. Un rigore che ho
sempre considerato uno fra i più importanti suoi insegnamenti, e che dovrebbe costituire senza dubbio
un punto di riferimento fondamentale in una società come quella attuale, per la quale, in genere,
questo modo di intendere il proprio lavoro non è solamente qualcosa di cui si può sorridere, ma addirittura un atteggiamento da combattere.
Ho studiato con lui al Conservatorio di Santa Cecilia,
poi per altri due anni all’Accademia omonima. Vorrei
qui ricordare alcuni momenti di quello che inizialmente è stato un normale rapporto da allievo a
maestro, ma che si è poi a mano a mano modificato
in un rapporto di amicizia e affetto.
Il primo incontro era avvenuto all’inizio del 1956,
qualche mese prima di sostenere l’esame conclusivo
del corso medio di composizione: il mio insegnante
di ‘Armonia, contrappunto e fuga’ aveva voluto che
Petrassi mi conoscesse - in quanto suo futuro allievo
- attraverso i lavori di scuola. Dopo averli esaminati con l’attenzione che il mio insegnante si aspettava Petrassi mi chiese se poteva vedere un mio lavoro
non scolastico, e valutò con molto maggior interesse le ‘Tre invenzioni’ per pianoforte che avevo
portato con me, contro il parere del mio insegnante.
Le lezioni avevano luogo tre volte in quindici giorni il lunedì e il venerdì della prima settimana, e il mercoledì della settimana successiva - nell’aula grande
in fondo al corridoio all’ultimo piano del Conservatorio, quella le cui finestre si affacciano su via Vittoria: eravamo sempre presenti almeno in due o tre
allievi (ricordo in particolare Domenico Guaccero), e
assistevamo quindi attivamente all’analisi e alla discussione dei lavori di ciascuno di noi.
Un aspetto di Petrassi che è stato più volte messo in
luce è quello di aver formato tanti allievi, diversi per
generazione, nazionalità e interessi, lasciando però
ad ognuno di essi - a differenza di molti altri docenti
- libertà di scrivere secondo il proprio temperamento, non imponendo ossia mai la sua ‘presenza’ di
compositore, ma anzi pretendendo sempre un distacco dal suo stile: non ricordo infatti di avergli mai
sentito analizzare uno dei suoi lavori. E ricordo, peraltro, una sola indicazione di carattere stilistico,
quando espresse ad un mio collega la sua perplessità per un lavoro che denunciava troppo chiaramente una dipendenza dallo stile di Bartòk. Le
discussioni si protraevano spesso oltre la lezione, allargandosi a temi più generali, nel corso di passeggiate che in genere avevano come meta il Pincio;
talvolta però lo accompagnavamo fino a casa (abitava in quegli anni in via Germanico; e allora era ancora possibile parlare tranquillamente per strada,
poiché il traffico non era certamente quello attuale).
Qualche volta la meta delle passeggiate era una visita allo studio dei suoi amici pittori; ricordo per
esempio quella - assai stimolante - nello studio di
Fausto Razzi
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RITRATTI
Trinità dei Monti. Goffredo Petrassi con la pittrice Rosetta
Afro, in via Margutta (Petrassi,
combenza certamente faticosa:
Acerbi, sua moglie
come si sa, amava moltissimo la
il che invece non si verificò afpittura, tanto da raccogliere dufatto, poiché entrambi declirante la sua vita molte opere di
nammo il suo invito (quanto a
pittori, spesso divenuti poi imme, probabilmente per non agportanti).A fine corso c’era poi
giungere un altro fattore di
la consuetudine di andare a
soggezione nei suoi confronti).
cena insieme in qualche trattoPetrassi, com’è noto, non ha
ria romana: una serata particomai usato nei suoi lavori procelarmente piacevole fu quella in
dimenti che aderissero totalcui ci si riunì addirittura in una
mente ai principi della
trattoria a Rocca Priora.
dodecafonia, verso cui tuttavia
Petrassi, giustamente, riteneva
mostrò sempre interesse (proche il lavoro dovesse essere reprio in quegli anni aveva visto
tribuito. Ricordo, quindi, con
la luce il suo ‘Quarto Concerto’):
particolare sdegno il modo con
nelle discussioni che avevano
cui un mio amico - noto solista,
luogo durante le lezioni questo
che faceva anche parte di un
argomento - anche alla luce di
complesso da camera di fama
quanto avveniva a Darmstadt internazionale - definì Petrassi,
era ovviamente preso in esame
reo di aver “osato” chiedere un
non solo dal punto di vista teocompenso per la commissione
rico, ma anche nei suoi aspetti
di un lavoro richiestogli da quel
pratici: tuttavia ricordo che,
complesso (che poi eseguì il laquando si trattava di esaminare
voro, in prima esecuzione).
un nostro lavoro strutturato seAveva un carattere molto risercondo quella tecnica, mostrava
vato, e nel rivolgersi a noi usava ovviamente il lei: e
pochissimo interesse a verificarne le premesse
solo molti anni dopo passò al tu (ovviamente mi ci
grammaticali (il “tabellone”, come chiamava la scelta
volle poi molto tempo prima che riuscissi ad usare il
della serie e di tutte le sue variazioni), il suo intetu a mia volta). Non so se attribuire a questa sua riresse essendo centrato pressoché esclusivamente
servatezza il fatto che - per quanto ricordo - non
sul risultato musicale.
esprimeva mai esplicitamente un giudizio positivo
Un altro lato del suo carattere era di guardare semsui lavori che gli proponevamo: noi però avevamo
pre al futuro: nel suo parlare non si avvertiva mai il
compreso che potevamo ritenerci soddisfatti
peso dell’età (“ne parliamo la prossima volta, lo faquando ci congedava dicendo “mi pare che lei possa
remo l’anno prossimo”): un ricordo legato a questo
andare avanti”.
suo aspetto (il non sentirsi assolutamente “vecchio”)
A proposito del rigore che Petrassi aveva verso se
è quello di un concerto che ebbe luogo al Castello
stesso (e che pretendeva dagli allievi), ricordo che
di Sermoneta, durante il Festival Pontino (del quale
una volta mi parlò di un giovane compositore ameera Presidente ed a cui diede un importante contriricano che gli aveva mostrato alcune sue partiture
buto di idee): per accedere al Castello era necessario
dicendo: “questa mi è stata commissionata dall’Istipercorrere circa 300 metri di una pietrosa e alquanto
tuzione X, quest’altra dall’orchestra Y, questa dall’inimpervia stradina in salita, e per l’occasione Petrassi
terprete Z, e ora sto ultimando un lavoro per la
fu affidato - con evidente suo divertimento - alle
Radio K”, al che, puntuale, gli rivolse la seguente docure di quelli che definì “due marcantoni”, i quali lo
manda: “ma lei non scrive mai per motivazioni inaiutarono a superare i punti di maggiore difficoltà:
terne?”
terminato il concerto si rallegrò poi moltissimo alEra solito realizzare sinteticamente al pianoforte la
l’ipotesi prospettatagli dagli organizzatori di ragpartitura delle opere analizzate, aiutandosi anche
giungere l’anno successivo il cortile del Castello in
con la voce quando era il caso: e che la sua riservaelicottero.
tezza fosse in fondo una sorta di autodifesa mi semPer concludere, la sua conversazione era sempre di
bra possa risultare chiaro da un’improvvisa
estremo interesse, anche negli ultimi anni: ogni
incrinatura della sua voce, mentre accennava, una
volta che uscivo da casa sua (cosa che avveniva abvolta, il ‘Lamento della Ninfa’ di Monteverdi. In gebastanza spesso, per tenerlo al corrente della mia atnere leggeva al pianoforte anche tutti i nostri lavori,
tività e - più in generale - di quanto avveniva a
e fu molto felice del fatto che in quel 1956 fossimo
Roma), restavo sempre con la sensazione di aver riin due ad avere il diploma di pianoforte, ritenendo
cevuto un’iniezione di energia.@
di poter essere almeno in parte sollevato da un’in-
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inviate alla Scala, Santa cecilia e San carlo
NeLL’erA di TWeeT e deGLi SMS,
PiOVONO LeTTere cOMe
MAciGNi
a cura della redazione
Tutte le lettere che abbiamo riprodotte, contengono critiche assai severe - specie
quelle indirizzate all’Accademia di Santa Cecilia - alla gestione delle rispettive fondazioni. A quella indirizzata alla Scala la risposta di Lissner non si è fatta attendere.
A quelle ceciliane, cinque in tutto, due delle quali inviate dal cardinale Domenico
Bartolucci scomparso di recente, assai dure, non è seguita nessuna risposta. Quella
dei lavoratori del San Carlo era essa stessa la risposta assai seccata ad un articolo
di Paolo Isotta sul Corriere, che ha ospitato anche la lettera conseguente. Noi le abbiamo riprodotte tutte, facendole precedere da un breve commento.
L
a prima segnalazione delle lettere inviate a tre
grandi fondazioni lirico-sinfoniche è venuta da un articolo di Annachiara Sacchi, il 2 ottobre sul Corriere
della Sera, nel quale si portava a conoscenza più di un
20
passaggio di una lettera, abbastanza critica ma anche
strana - a leggerla con attenzione - che l’Orchestra ed il
Coro della Scala avevano inviato, il 30 settembre, al
Sindaco di Milano e Presidente della Fondazione Scala,
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cOPerTiNA
ai componenti il Consiglio di amministrazione ed al
Sovrintendente Lissner. Si lamentava l’organizzazione
no all’altezza della tournée giapponese appena conclusa, nonostante il successo di pubblico e stampa; si
sottolineava come l’attenzione al markenting avesse
superato il perseguimento della qualità musicale che
era stata tuttavia salvata dall’ impegno ed orgoglio e
dalla sicura professionalità dell’orchestra e coro; qualche ombra si gettava sui due direttori scritturati ( Harding e Dudamel) e sui solisti di canto.
Non tutti. Ed, infine, l’assenza dei massimi dirigenti
scaligeri in Giappone, accusa sulla quale ci sentiamo
di convenire con i professori di coro e orchestra della
Scala. La risposta di Lissner non si fa attendere, come
leggiamo nella lettera inviata all’indomani al Corriere
e intitolata ‘L’arte di autoflagellarsi ( anche in tournée)’.
Lissner sottolinea i punti deboli, e sono più d’uno, della
lettera inviatagli, mettendo il dito sulla piaga quando
dice che in Giappone ci sono andati molti sostituti, perché i rispettivi titolari avevano presentato certificato
medico o si erano dichiarati indisponibili per la lunga
trasferta. Il richiamo alle prove, presente nella lettera
degli orchestrali, va preso per quello che è; e le critiche
non tanto velate ai direttori, Lissner le rimanda ai mittenti, quando dice che curiosamente per uno di quei
direttori era stato espresso dall’orchestra il gradimento
nell’eventualità che lo si fosse candidato per un incarico stabile a Milano.
Insomma sorge il sospetto che l’orchestra abbia voluto
dire ai dirigenti: siamo alla vigilia di importanti decisioni per il teatro, noi vogliamo contare. Infine, se il
mittente della lettera era orchestra e coro, come mai
gli orchestrali e i coristi, almeno quelli che abbiamo interpellato, non avevano il testo della lettera? (P.A.)
On..Avv .Giuliano Pisapia
Sindaco di Milano
Presidente Fondazione.Teatro alla Scala
e p.c. ai consiglieri di Amministrazione
Al Sovrintendente e direttore artistico
del Teatro alla Scala
Gentilissimo Presidente,
Come musicisti e come rappresentanti di una sensibilità musicale italiana, ci sentiamo in dovere di segnalare una situazione emblematica venutasi a creare nella tournée giapponese appena trascorsa.
Fino ad oggi il Teatro alla Scala in Giappone si faceva portavoce di un’esportazione culturale di altissimo livello volta a diffondere
la particolarità della tradizione musicale italiana.
Abbiamo condiviso lo spirito dell’operazione credendoci profondamente e sforzandoci di dare il meglio della nostra professionalità, ma purtroppo in quest’ultima occasione siamo costretti a riconoscere una perdita forte di identità tanto culturale quanto artistica: il progetto commerciale è stato brutalmente anteposto, negli schemi e nelle modalità, a quello più alto della scelta
qualitativa in termini di accuratezza musicale. In altre parole la riuscita dell’operazione è stata completamente demandata alla serietà di pochi singoli artisti navigati e scrupolosi e all’esperienza dell’Orchestra e del Coro in quanto depositari unici di un senso di
responsabilità musicale. Ben poco hanno potuto fare i due direttori d’orchestra coinvolti, sia per la mancanza di tempo, sia per la
completa assenza di figure autorevoli che vigilassero sulla qualità artistica delle rappresentazioni.
Qualora non fosse chiaro intendiamo segnalare l’inadeguatezza del livello artistico e la banalizzazione di un’idea musicale prettamente italiana quasi facessimo parte di un sistema di svalutazione adatto solo ad una volgarizzazione mediatica. Non più dunque
un’operazione di esportazione culturale ma un’offerta di luoghi comuni internazionali di cui la scelta di alcuni
can tanti è stato l’apice.
Pertanto auspichiamo un’oculatezza maggiore nella pianificazione del lavoro, una programmazione consapevole delle esigenze
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musicali e dei tempi necessari alle prove, una scelta adeguata dei cast e un più attento controllo della qualità musicale.
Quindi in futuro si dovranno verificare le seguenti condizioni:
1.presenza del Sovrintendente e del Direttore Artistico e non solo di un responsabile logistico/organizzativo.
2.rigore nella preparazione dei cantanti.
3.accuratezza nella scelta dei programmi e dei calendari di prova.
4. prove fatte in condizioni effettivamente costruttive e non improvvisate con cast dimezzati e acustiche improponibili.
5.preparazione dei direttori d’orchestra sullo spirito reale della tournée stessa.
Sicuri della sua comprensione e sensibilità sulla qualità artistica del teatro, La ringraziamo cordialmente per l’attenzione.
Milano 30 settembre 2013
l’Orchestra e il coro
del Teatro alla Scala
Caro direttore,
in un momento straordinariamente difficile per il futuro della Scala, in risposta all'appello lanciato dal sindaco Giuliano Pisapia
per l'unità del teatro e la compattezza della città attorno ad esso, leggiamo stupefatti sul Corriere della Sera (di ieri) una lettera interna indirizzata al sindaco, in quanto Presidente della Fondazione, e ai Consiglieri di amministrazione, nella quale “l'Orchestra e il
Coro” della Scala, “come rappresentanti di una sensibilità musicale italiana” lamentano che nella recente tournée in Giappone si
sarebbero anteposte le ragioni commerciali a quelle artistiche.
Nella lettera si avanzano alla Sovrintendenza e alla Direzione del Teatro una serie di accuse per mancanze che avrebbero portato,
a loro dire, alla rinuncia a una “operazione di esportazione culturale”, in favore di una “offerta di luoghi comuni internazionali”. Peraltro, la “riuscita dell'operazione” - dunque la tournée sarebbe comunque un'operazione riuscita - si dovrebbe solo alla “serietà
di pochi singoli artisti navigati e all'esperienza dell'Orchestra e del Coro in quanto depositari unici di un senso di responsabilità
musicale”. Leggiamo stupefatti, ma anche amareggiati, l'ennesimo esercizio di un'arte squisitamente italiana, in tempi di crisi: la
volontà e il piacere di autodistruggersi. Più che a noi, questa lettera ad arte messa in pubblico fa male alla Scala, dimostrando un
alto tasso di inquinamento sul posto di lavoro. Circostanza del resto non nuova, purtroppo. Gli argomenti della lettera potevano
e dovevano essere l'oggetto di un confronto aperto, anche duro, all'interno del teatro, condotto di persona, guardandosi negli
occhi, come avviene in tutti i teatri e i posti di lavoro del mondo, non di una lettera sostanzialmente senza firme, ricevuta “per conoscenza”. Ma poiché questi sembrano i sistemi di confronto e di comunicazione in vigore anche alla Scala, crediamo sia venuto il
momento di sollevare il velo su tante cose finora lasciate sfumare per motivi di serena convivenza. La tournée in Giappone. Al di
là della loro materialità, i dati dell'enorme successo riscosso (20 recite in 37 giorni di trasferta, 20 tutto esaurito al costo del biglietto più alto che in Giappone si applichi, circa 500 euro), sono lo specchio della valutazione di qualità che gli organizzatori e il
pubblico riconoscono al Teatro alla Scala, alle sue maestranze, ai direttori e agli artisti ospiti. Se le critiche dei principali quotidiani
erano tutte concordemente e fortemente positive (non è sempre stato così), se a ogni recita le platee si alzavano per venti minuti
ad applaudire, significa che i Falstaff, i Rigoletto, le Aida, i quattro concerti sinfonici e i Romeo e Giulietta (enorme il successo del
balletto) portati in trionfo non erano cosa modesta. A meno che si consideri il pubblico giapponese, che da trent'anni assiste alle
tournée anche del Metropolitan di New York e dell'Opera di Vienna, tanto incompetente da lasciarsi incantare da offerte insufficienti. Lascio alla responsabilità dei non firmatari della lettera le conseguenze di una tale interpretazione. Ma, appunto, l'operazione sarebbe comunque ‘riuscita’ per “l'esperienza dell'Orchestra e del Coro”. E qui si aprono alcuni interrogativi: fra Orchestra e
Coro mancavano oltre trenta titolari. Dunque la qualità è stata garantita nonostante certificati medici, aspettative e congedi parentali. È curioso leggere accuse di scarso scrupolo e di inadeguata pianificazione da parte di chi, nei tre giorni di riposo compensativo rivendicati al teatro per riassorbire le fatiche della tournée e del jet lag, teneva già un concerto a Parma come Filarmonica,
ovvero nell'ambito dell'attività ‘privata’ dell'Orchestra della Scala, e che all'inaugurazione di una Stagione Sinfonica del Teatro accoglieva un grande direttore “rappresentante di una sensibilità musicale italiana” con un organico dimezzato, riempito di aggiunti. È anche strano che a muovere cifrati appunti ai direttori in tournée - Daniel Harding e Gustavo Dudamel - siano musicisti
che, in Orchestra, li hanno votati come possibili candidati alla Direzione musicale della Scala. E qui ci fermiamo. Questa lettera è
incredibilmente sproporzionata rispetto ai problemi di una tournée, che per forza di cose è segnata dalla velocità, dall'ansia e
dagli imprevisti. E del tutto sproporzionata rispetto ai nove anni di lavoro in cui questa Direzione artistica ha portato al Coro e all'Orchestra direttori come Daniel Barenboim, Claudio Abbado, Pierre Boulez, Georges Prêtre, Lorin Maazel, Zubin Mehta, Riccardo
Chailly, Daniele Gatti, Antonio Pappano, Fabio Luisi, Nicola Luisotti, Esa-Pekka Salonen, Philippe Jordan, oltre ad Harding, Dudamel e molti altri ancora ch'è lungo nominare. Per una qualità generale riconosciuta dagli artisti e dagli osservatori internazionali.
Non c'è invece alcun dubbio che la lettera faccia parte di una strategia che persegue scopi non chiari. Mentre chiari alla Sovrintendenza e alla Direzione della Scala sono gli obiettivi da perseguire: rispettare gli impegni con i lavoratori, pagare stipendi e integrativi per i quali si fanno giuste battaglie sindacali, consentire a tutte le maestranze di impegnarsi con serenità personale e
coscienza professionale per garantire quella qualità che sta a cuore di tutti, e per la quale tutti siamo qui a lavorare, senza distinzioni. In definitiva: chiudere i bilanci in pareggio, condizione senza la quale ogni polemica è sterile e la vita stessa del teatro a rischio. E questo obiettivo raggiunto la Sovrintendenza e la Direzione del Teatro garantiranno anche in questo terribile 2013, dopo
aver lavorato in silenzio, senza impartire lezioni, smentendo allarmi anch'essi diffusi ad arte o senza reale conoscenza dei fatti,
contrastando attacchi anche esterni di cui questa lettera rischia di far parte, forse senza saperlo.
Stéphane Lissner, sovrintendente e direttore artistico del Teatro alla Scala
Maria di Freda, direttore generale
Bruno casoni, direttore del coro
(corriere della Sera, 3 ottobre 2013)
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LETTO SULLA STAMPA
Le note stonate di Santa cecilia
denunce di voto di scambio e favori incrociati. Tutto il malcontento della storica accademia nazionale.
di Elisabetta Ambrosi
“Caro Presidente, dopo la scomparsa di Luciano Berio tua sponte sei venuto da me con delle bottiglie di champagne prima delle elezioni che
ti videro nuovamente a capo dell’Accademia, presentandomi il tuo desiderio di affidarmi delle esecuzioni di Palestrina […] E prima delle ultime elezioni sei sempre tu che hai telefonato, e il Dott. Biciocchi (segretario generale della Fondazione che porta il mio nome) […] è venuto
nel tuo ufficio e ha scritto ‘CAGLI’ sulla scheda elettorale sotto i tuoi occhi”.
È il 9 settembre 2013: gli accademici di Santa Cecilia, i professori del Coro e dell’Orchestra e il Collegio dei Revisori ricevono questa lettera firmata dal Card. Domenico Bartolucci, compositore novantaseienne e lui stesso accademico. Facendo seguito a un’altra missiva inviata il 9 giugno, l’anziano cardinale fornisce uno squarcio inquietante sulla situazione interna di quella che dovrebbe essere un’eccellenza italiana: parla
esplicitamente di promesse elettorali dell’attuale presidente Bruno Cagli - in carica a Santa Cecilia dal 1990 al 1999 e di nuovo dal 2003 a
oggi – in vista delle ultime elezioni del 2012 (“ti impegnavi con una stretta di mano ad eseguire il mio ‘Stabat Mater’ telefonando seduta
stante a un tuo collaboratore”). Denuncia il meccanismo di voto di scambio palese, vietato dal regolamento dell’Accademia. Accusa, infine, il
vicepresidente Michele dall’Ongaro per violazione dello Statuto, a causa di un aperto conflitto di interessi. Infatti, mentre lo stesso Cagli ricopre tre cariche all’interno dell’Accademia - Presidente, Sovraintendente e Direttore artistico – dall’Ongaro, dirigente Rai, ha ben sette incarichi, tra cui quello di Sovraintendente dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e Vicepresidente (con delega alla programmazione
artistica) dell’Accademia di Santa Cecilia.
La denuncia di Bartolucci è un campanello d’allarme del malcontento interno. Ad essa sono seguite altre missive anonime - nessuno ha il coraggio di parlare apertamente per paura di ritorsioni. “Durante la campagna elettorale sono state fatte a noi molte promesse, di suonare, di
essere eseguiti, di dirigere, quasi mai rispettate, tranne con quelle persone che possono tornare utili al nostro presidente […] o per assecondare i capricci artistici ed economici di Abbado e Pollini”, si legge in una lettera del 10 luglio, nella quale si denuncia anche l’appoggio di
Cagli a dall’Ongaro “che con la sua spropositata ambizione ci è stato presentato come persona affidabile e utile, nipote di Claudio Abbado e
dirigente Rai”. L’unica lettera firmata circolata in queste settimane è quella di Michele Campanella, nella quale il noto pianista denuncia di
“essere stato escluso dal cartellone dei concerti sine die” per la sua avversione a Cagli.
Ma ci sono altri fatti che descrivono una situazione grave. La condizione dei professori dell’orchestra e del coro, assunti attraverso dure selezioni e costretti, pur avendo stipendi inferiori alla media europea e a fronte di un sempre maggiore impegno, a sacrificare il loro ultimo premio di produzione per versare 500.000 euro per il pareggio di bilancio 2012. Un fatto che, a detta di Cagli, dovrebbe restare straordinario, ma
che senza un piano di ristrutturazione serio rischia di reiterarsi.
E mentre all’orchestra vengono chiesti sacrifici, il numero del personale amministrativo è cresciuto in maniera esponenziale negli anni grazie
a assunzioni a chiamata, che si aggiungono alle collaborazioni ad personam (tra cui si ricorda quella affidata sotto Cagli al figlio di Angelo
Balducci nel 2009), mentre i cinque dirigenti vicini al Presidente - 330.000 euro di stipendio - si dividono la somma di circa 900.000 euro (un
dato che non viene riportato chiaramente nell’oscuro bilancio presente sul sito). Tra questi, il direttore operativo Rosario Cupolillo, da violista
a funzionario e ora insieme anche dirigente (mentre sua moglie Angelica Suanno è passata in poco tempo da collaboratrice esterna a funzionario di fascia A); e il direttore del personale Giuliano Polo. Altri casi che hanno generato malcontento interno sono quelli di Annalisa Bini, dirigente e accademica, contestata dalle stesse missive e da voci interne per il suo curriculum, e di Massimiliano Tonsini, ex tenore del coro
sempre vicino a Cagli, divenuto Maestro assistente senza concorso.
A suggellare una situazione già esplosiva ci ha pensato l’art.11 del recente decreto cultura del governo Letta che, misteriosamente, consente
a Santa Cecilia, a differenza di tutti gli altri enti lirici, di continuare a eleggere il proprio presidente internamente (del Cda dell’Accademia fa
parte, oltre a Luigi Abete, Fulvio Conti e altri, Gianni Letta, subentrato nel 2011 al compositore Giorgio Battistelli, candidato alle ultime elezioni contro Cagli).
Molte le domande che aspettano una risposta. Possibile che nell’Accademia si pratichi palesemente il voto di scambio? Come mai, ministro
Bray, è stata prevista un’eccezione per la governance di Santa Cecilia? E perché un’azienda pubblica come la Rai permette a un proprio dipendente di essere sovraintendente e vicepresidente delle due uniche orchestre nazionali italiane?
(il fatto quotidiano, 3 ottobre 2013)
S
enza l’articolo-denuncia de ‘Il Fatto Quotidiano’, dell’articolata corrispondenza in una sola direzione- destinatario il
sovrintendente Cagli- nulla sarebbe filtrato della gestione
dell’Accademia di Santa Cecilia che, secondo le denunce ivi
contenute, sarebbe assai personale, quando non anche ai limiti della illegalità, allorchè si denunciano voto di scambio
ed incompatibilità fra incarichi. Denunce pesanti che recano
l’autorevole firma del Card. Bartolucci che non ha peli sulla
lingua – le sue sono le lettere più circostanziate - e quella altrettanto autorevole del pianista Michele Campanella, sempre presente nel cartellone dell’Accademia fino alla
primavera del 2012, quando si è avuta l’ennesima riconferma
di Cagli, e Campanella non era fra i suoi sostenitori. Poi ci
sono anche due lettere non firmate, ‘per paura di ritorsioni’,
scritte da Accademici - come del resto accademici ceciliani
sono Bartolucci e Campanella - molto informati sui fatti. Le
accuse sono davvero pesanti e la mancata risposta di Cagli
ha come sola giustificazione il fatto che gli abili comandanti
di navi sanno come districarsi fra gli ostacoli, senza curarsi
degli appunti che i sottoposti, anche graduati, muovono alle
rotte seguite nella navigazione. Ma il silenzio non è sempre la
miglior risposta, perché qualche volte sta a significare che
nulla o quasi si può opporre alla verità contenuta e sbattuta
in faccia agli interessati.( P.A.)
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Lettera aperta ai colleghi Accademici di Santa cecilia
Il canto gregoriano, base della grande civiltà musicale dell'Occidente, la polifonia sacra e profana, le prime espressioni dell'opera
in musica, l'oratorio sacro che da Carissimi approda a Refice e a Perosi fanno parte di quella grande tradizione musicale romana
alla quale io ho potuto dare il mio modesto contributo. Le maggiori istituzioni che nei secoli hanno valorizzato e trasmesso questa tradizione sono la cappella Musicale Pontificia (Sistina) e la Congregazione dei musici, poi Accademia di S. Cecilia. Purtroppo,
da oltre due decenni la tradizione musicale romana è totalmente trascurata dalle Istituzioni locali, in primis dall'Accademia la
quale dovrebbe riservare una parte dei suoi programmi allo studio e all'esecuzione delle composizioni di questa tradizione della
quale peraltro si vanta nei messaggi promozionali relativi alle proprie attività concertistiche dove spesso appare il volto di Palestrina, principe della musica. Basterà ricordare tra le tante omissioni, l'indifferenza riservata all'anniversario della nascita di Carissimi. Notevole spazio alla polifonia veniva dato dall'Accademia negli anni '60 quando la Cappella Sistina da me diretta era
presente annualmente nella stagione dei Concerti. Successivamente, per non doversi avvalere di una istituzione esterna si pensò
a ragione di far eseguire il repertorio polifonico al Coro dell'Accademia e io stesso per molto tempo ne ho curato settimanalmente la preparazione in vista di importanti esecuzioni in ltalia e all'estero. Accanto a questo impegno ho potuto prestare il mio
contributo - spesso gratuitamente - in diverse occasioni nelle quali l'Accademia ha voluto presentare miei lavori sinfonico corali. Il
tutto ad indicare quanto grande sia stata la mia affezione per il prestigio di una Istituzione che viveva in un clima di condivisione,
collaborazione e confronto tra gli Accademici. Per quanto mi riguarda figuro tra di essi come compositore ma l'Accademia non ha
più ravvisato l'opportunità di programmare niente di mio, né volle salutare con un semplice e formale biglietto di congratulazioni
la mia nomina a cardinale che non per me ma per l’Istituzione avrebbe dovuto essere di vanto ed orgoglio! Confesso che mi
avrebbe fatto piacere poter condividere con voi tale evento del tutto inatteso. Questa assenza di attenzione, ai limiti del dispregio, contrasta con le reiterate e spontanee promesse di inserire mie musiche nella programmazione, espresse più volte nell'ultimo decennio con forte impegno a me o ai miei collaboratori, specialmente in occasione delle elezioni per il rinnovo della carica
di Presidente... A 96 anni e come Accademico più anziano di nomina - nel 2015 saranno 50 anni - mi sento in dovere di esternare
a voi queste considerazioni personali con le quali non desidero tanto lamentare il trattamento a me riservato del quale poco mi
importa, quanto invitarvi a una seria riflessione sul futuro dell'Istituzione di cui tutti e ciascuno di noi siamo parte essenziale. Con
rammarico noto che diversi colleghi non prendono parte, forse per disaffezione, alle votazioni, che lo spirito di condivisione del
quale accennavo poco sopra è da tempo sparito, che fra le proposte di nuovi accademici appaiono a volte nomi del tutto inappropriati, e che non è più possibile discutere della programmazione la quale ci viene comunicata senza poter esprimere alcun parere. Profondo disagio mi è stato manifestato da vari colleghi anche per le recenti votazioni del Consiglio di Amministrazione
tenutesi per alzata di mano e non a scrutinio segreto. Non è questo lo spirito di una Istituzione che dovrebbe tenere in massima
considerazione il corpo degli Accademici, ma solo con l'impegno di tutti sarà forse possibile sanare una situazione che molti non
ritengono più compatibile con la storia e le peculiarità dell'Accademia di Santa Cecilia. Con i migliori auguri.
roma, 26 giugno 2013
domenico Bartolucci
Agli Accademici di Santa cecilia
Cari colleghi,
Mi è giunta come credo a tutti voi la lettera del M° Bartolucci che francamente non mi sarei mai aspettato, dando per scontato
che lui potesse essere più o meno in linea con l'attuale gestione dell'Accademia. In realtà questo viene palesemente smentito e il
fatto che una tale personalità abbia espresso una critica aperta cosi puntuale mi rallegra e mi rafforza nelle mie opinioni critiche
che purtroppo non posso esprimere con la stessa franchezza. Il trattamento personale che è stato riservato al Maestro non è comunque un’eccezione e non mi meraviglia, poiché specie dopo le ultime elezioni dovremmo sapere tutti quante promesse e
quante telefonate siano state fatte a molti di noi al fine di guadagnarsi - in un modo che lascio a voi definire - un voto che forse
senza tali manovre non si sarebbe espresso. Prendendo spunto dall'accaduto e dalle elezioni dei nuovi accademici che ricorreranno da qui a pochi giorni mi sento di invitare TUTTl a votare, poiché TUTTI facciamo parte di questo corpo e dobbiamo sentire
la responsabilità di come l'Accademia viene gestita ed amministrata senza disinteressarcene. Personalmente ritengo che un segnale forte sia quello di votare scheda bianca anche per non permettere che ancora una volta, a causa dell'assenza di molti di
noi, siano elette senza il necessario ampio consenso alcune persone verso le quali si può avere la massima stima e considerazione
per l'operato svolto, ma che non hanno i giusti requisiti per far parte del corpo degli Accademici. Questo potrebbe costituire l'inizio di un percorso critico costruttivo per il futuro. Mi dispiace dover rimanere nell'ombra e di questo mi scuso con tutti ma la situazione presente non lascia spazio ad un confronto libero e sereno tra di noi.
Lettera non firmata
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Agli Accademici di Santa cecilia
Cari e stimati colleghi,
le tre lettere che ho ricevuto in queste ultime settimane mi hanno fatto molto riflettere sulla situazione attuale della nostra Accademia. Sono accademico da molti anni, un riconoscimento di cui sono orgoglioso, ma con molta e fraterna sincerità devo dirvi
che il contenuto delle lettere ha risvegliato dentro di me, e spero in molti di noi, quella parte di coscienza etica e morale che per
molto tempo si è assopita. Alle ultime elezioni ho votato il nostro attuale Presidente, come ho sempre fatto, confesso che la tentazione di votare Battistelli è stata molto forte, ma alla fine mi sono lasciato convincere dalle parole del nostro Presidente che mi
ha fatto previsioni catastrofiche qualora ci fosse stato un cambiamento di Presidenza.
Durante la campagna elettorale sono state fatte promesse a molti di noi, di suonare, di essere eseguito, di pubblicare, di dirigere…Promesse quasi mai rispettate tranne con quelle persone che possono tornare utili al nostro Presidente, per esempio
creare crediti con i nuovi Accademici oppure assecondare i capricci artistici ed economici di Abbado… Pollini…
Per molti di noi Accademici è umiliante essere considerati come coloro che chiedono sempre, ma ricordiamoci che il nostro Presidente non ci risparmia mai le sue continue false lamentele per un ruolo che vuole e che conserva da vent’anni e che non vuole
assolutamente lasciare.
Sono contrariato dalla promozione/pressione che il Presidente ha fatto per far eleggere la Dottoressa Bini. Come pure trovo inelegante e inopportuno come il Presidente sta preparando la sua successione nel segno della continuazione con un imbarazzante
appoggio all’onnipresente Dall’Ongaro che con la sua spropositata ambizione ci è stato presentato come “persona affidabile e
utile, nipote di Claudio Abbado e dirigente Rai… e quindi porta un po’ di denaro nelle casse dell’Accademia” ( queste sono parole
tue, Presidente).
Ai miei tempi si diventava Accademici per meriti artistici e non perché si è nipoti di… o dirigenti Rai. No, caro Bruno, questa volta
non ti seguo. Hai aperto le porte dell’Accademia a politici e imprenditori per restare ben radicato sulla tua poltrona e rimango basito quando vedo alcuni Accademici che ti applaudono per quello che hai fatto. E’ paradossale!
Il nostro presidente in alcune occasioni critiche o di tensione ha fatto chiedere ad altri Accademici un segno di conferma e fiducia
per la sua persona e per il suo operato e questo è stato chiesto per alzata di mano. Come pure ha fatto eleggere gli Accademici
dell’attuale CDA proponendo ai pochi presenti all’Assemblea di farlo per alzata di mano. Queste sono situazioni dove il voto deve
essere sempre a scrutinio segreto, senza l’ipocrisia e la farsa di chiedere agli Accademici cosa preferiscono fare, offrendo loro una
falsa libertà di scelta. E’ una questione di trasparenza e di correttezza.
Purtroppo anch’io, come il ‘collega anonimo’ non ho la forza di firmare questa lettera e credetemi mi dispiace molto. Questo è il
clima che ci troviamo a vivere all’interno della nostra Accademia, temere di esprimere le proprie opinioni e poi di pagarne le conseguenze. Mi auguro che in futuro possa esserci un vero cambiamento per il bene della nostra Accademia.
PS. Come sapete il nostro amico Sergio Perticaroli è molto malato e vi assicuro che non è in grado di poter compilare nessuna
scheda.
Lettera non firmata (10 luglio 2013)
Agli Accademici di Santa cecilia
Cari Colleghi,
il risultato più triste della presidenza Cagli è la disaffezione che si è diffusa tra noi. Ormai la vita dell'Accademia è cosa che riguarda un'esigua minoranze di colleghi, mentre la gran parte di noi si tiene lontana dalle occasioni in cui viene deciso il futuro
dell'istituzione: perché partecipare quando si conosce già il risultato? Alla vigilia delle scorse elezioni vi avevo inviato una lettera
che qualcuno di voi forse ricorderà, nella quale auspicavo una svolta che recuperasse all'Accademia una vitalità, un dinamismo
indispensabili alla sua sopravvivenza. Così esponendomi, mi sono condannato alle proscrizione: infatti sono stato escluso dal cartellone dei concerti sine die. A quanto mi risulta, non sono il solo a ricevere tale trattamento. Scrivo questo per dirvi che l'altra
faccia delle promesse elettorali (sistematicamente elargite, assai spesso non mantenute) è l'isolamento. Chi non vota per il Presidente o per i candidati che lui suggerisce, merita una punizione....... Spero anch'io come il Cardinale Bartolucci e il nostro anonimo collega che sia arrivato il momento di prendere coscienza della necessità di una forte reazione alla decadenza etica nella
quale l'Accademia sta affondando. La causa principale di essa è l’affezione al potere, che si autoalimenta in assenza di un'energica dialettica interna e che non teme di ledere la dignità degli Accademici attraverso atteggiamenti degni della peggiore politica. Che brutta aria che si respira in Accademia! Non rassegniamoci al suo declino!
Vostro Michele campanella
Al Presidente e agli Accademici di Santa cecilia
e p.c.
ai Professori del coro e dell'Orchestra
al collegio dei revisori
Cari colleghi,
Dopo la pausa estiva desidero nuovamente rivolgermi a Voi per alcuni necessari chiarimenti riguardo alla lettera da me inviata
prima dell'estate. Anzitutto voglio ringraziare i colleghi che mi hanno telefonato e scritto, manifestando comprensione e condivi-
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cOPerTiNA
sione dei contenuti da me sollevati. Non credevo che un così grande numero di accademici condividesse le mie stesse perplessità sulla situazione. Come sapete, alla mia sono seguite due lettere anonime e la minuta di Campanella. Le lettere anonime mi
hanno amareggiato. Vi rendete conto di cosa significa scrivere una lettera e non volerla firmare? Significa trovarsi in una situazione di disagio, dove il dialogo ed il confronto sereno si avverte come non possibile; significa essere consapevoli che uscire allo
scoperto può determinare conseguenze che non si vogliono affrontare quali l'emarginazione e l'esclusione. Verso questi colleghi
che sono sicuramente più giovani di me e impegnati nella loro professione non mi sento di esprimere in alcun modo biasimo o
critica per non averci fatto conoscere i loro nomi, ma piuttosto comprensione. Ben più esplicito è stato Campanella che come me
ha voluto rendere noto quanto a lui personalmente accaduto e le tristi conseguenze alle quali è andato incontro. Di esse mi dispiace. Sono certo che tutti voi abbiate compreso l'ampiezza della mia critica sull'attuale situazione dell'Accademia una critica
che è molto difficile restringere alla caricatura di un compositore che si lamenta poiché non viene eseguito... Caro Presidente, i
miei lavori sono stati eseguiti in Accademia fin dal 1963 e sono soddisfatto di quanto ho potuto fare per questa Istituzione, senza
dover mai andare a pietire alcunché per l'esecuzione delle mie musiche e per tutte le volte che sono stato invitato a dirigere concerti di polifonia. Ed è proprio qui che voglio chiarire a tutti in modo definitivo quanto mi è capitato personalmente. Caro Presidente, dopo la scomparsa di Luciano Berio tua sponte sei venuto da me con delle bottiglie di champagne prima delle elezioni
che ti videro nuovamente a capo dell'Accademia presentandomi il tuo desiderio di affidarmi delle esecuzioni di Palestrina (parlavi della Missa Esacordalis, ricordi?). Tutto questo è caduto nel vuoto come anche la Commissione su Palestina nella quale hai
voluto inserirmi. Sono mai venuto a ricordartelo? No. Da quell'incontro sono ripresi i nostri contatti anche riguardo alla mia musica e credo che per un accademico compositore sia umana e legittima l'aspirazione ad essere eseguito. Tu però ogni anno promettevi, salvo poi dire che quello successivo fosse già occupato dalla programmazione fatta da Berio... Questo ritornello ti ha
giovato per un po' di tempo, ma ti rammento che anche prima delle ultime elezioni sei sempre tu che hai telefonato per prendere contatto con me, e il Dott. Biciocchi, Segretario Generale della Fondazione che porta il mio nome e con il quale spesso vi
siete incontrati, è venuto nel tuo ufficio e ha scritto “CAGLI" sulla scheda elettorale sotto i tuoi occhi. Tu stesso gli confidavi che
nella prima votazione non eri stato eletto poiché "due scemi" - parole tue - si erano auto votati (mi pare di ricordare che Perticaroli e Petracchi presero un voto ciascuno dunque forse ti riferivi a loro) e che Battistelli non era capace “nemmeno di organizzare
un concerto” per cui con lui l'Accademia sarebbe precipitata in chissà quale catastrofica situazione. Nello stesso incontro ti impegnavi con una stretta di mano ad eseguire il mio Stabat Mater dando il tutto come cosa fatta e dicendo: "è un impegno che
prendo con lei, che mi importa io intanto programmo, poi chi viene dopo di me se lo trova". A quanto so, telefonasti seduta
stante ad un tuo collaboratore dicendo che c'era lì pronta la partitura di Bartolucci da mandare in produzione. Dunque come
vedi il tutto è partito da te e dal tuo modo di fare che apprendo essere abbastanza comune. Lo scorso l0 luglio quando hai rincontrato il Dott. Biciocchi che recapitava le mie schede in Via Vittoria per la votazione, ti sei lamentato della mia lettera definendola "menzognera" e gli hai chiesto se c'era qualche impegno formale disatteso da parte tua. Beh!, caro Presidente, questo lo
giudico della più estrema gravità. E’ vero, sì, sulla carta non hai preso alcun impegno formale, ma nella mia etica di vita e professionale quanto hai fatto e detto è formale allo stesso modo. Anche l'avergli ribattuto: "Si, avevo promesso!" come a dire che dopo
la mia lettera tale impegno non contava più nulla mi fa rabbrividire. Chi ti dà questo potere su di noi? Chi ti concede questa autorità di mortificarci nelle nostre aspirazioni umane ed artistiche, di disattendere ad impegni che tu stesso prendi? Chi ti consente
di considerarci soggetti utili in campagna elettorale e poi non più? Cosa conta per te la parola data? Riguardo a questa situazione
ti chiedo la cortesia se puoi, di non lavarti le mani con due parole, descrivendomi come un povero compositore mortificato perché non lo sono affatto. Il non essere eseguito in Accademia può dispiacermi, ma l'essere preso in giro in questo modo è inaccettabile. Peraltro rendo noto che nel mese di luglio u.s. ho presentato la richiesta di ricevere a mezzo mail, fax o posta copia dei
verbali delle ultime tre Assemblee degli Accademici e, appena approvato, di quella del l0 luglio. La documentazione mi è stata
negata dall'Accademia a motivo di “ovvie ragioni di riservatezza” che impedirebbero l'invio di verbali, disponibili per la consultazione presso la sede dell'Auditorium. Pur ritenendo molto strana tale ragione di riservatezza che impedirebbe di spedire dei verbali ad un accademico, lo scorso 3 settembre ho rinnovato la domanda, delegando il mio Segretario a recarsi presso detta Sede.
Ad oggi non so ancora quando potrò essere accontentato e messo in condizione di poter esercitare i miei diritti e i miei doveri.
Per coscienza riformulo espressamente la richiesta ai sensi e per gli effetti della legge che consente l’ "accesso agli atti", con la
motivazione di voler comprendere i dubbi da molti verbalmente sollevati circa un possibile conflitto di interesse e/o incompatibilità esistenti, quale ad esempio quella eventuale del collega Michele dall' Ongaro che, a prescindere dalla stima che merita, è
stato eletto Consigliere d'Amministrazione e Vice Presidente pur conservando i numerosi ruoli - a dire di molti confliggenti - che
ricopre in ambito musicale (tra gli altri Sovrintendente dell'Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI e Responsabile della Programmazione Musicale di RAI Radio-Tre). Poiché alcuni colleghi si sono lamentati con me riguardo a ventilate altre deleghe recentemente attribuite allo stesso Maestro e, pare, ulteriormente confliggenti, desidero documentarmi su quanto accaduto nelle ultime
assemblee. Il nostro Statuto - sull'osservanza del quale vigila il Collegio dei Revisori - prevede infatti l'astensione per il consigliere
di amministrazione che ha rapporti di dipendenza con persone ed enti che possano avere interessi in conflitto con quelli della
Fondazione (art. 7). Caro Presidente, io ormai sono vecchio e purtroppo la mia salute precaria non mi permette di venire a far
sentire la mia voce di persona come sai che farei, ma questo scritto vuole costituire l'ultimo mio intervento su una situazione penosa che ha determinato prostrazione, disaffezione e malessere all'interno di una delle più prestigiose realtà musicali del nostro
Paese, ove figurano i più illustri musicisti italiani. Mi hai profondamente deluso poiché con il tuo operato hai costretto molti accademici ad una umiliazione che nessuno di noi merita ed hai contribuito al decadimento dell'Accademia intitolata a Santa Cecilia
patrona della musica sacra.
con richiesta di protocollo.
roma 09 settembre 2013
domenico Bartolucci
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LETTO SULLA STAMPA
danno d’immagine che scredita il Paese
di Paolo Isotta
Siamo senza parole. Certe liturgie degli anni Settanta credevamo fossero del tutto dietro le nostre spalle. Invece lo sciopero indetto da orchestra e coro del San Carlo dimostra che il tempo non è stato maestro a nessuno. Lo sciopero da loro proclamato è un gravissimo errore
giacché finisce col distruggere proprio le ragioni rivendicative nel merito delle quali non vogliamo entrare. Infatti il concerto inaugurale della
stagione sinfonica che con lo sciopero è stato revocato nel nulla è una di quelle manifestazioni qualificanti dotate di un respiro addirittura
mondiale. Noi diamo ancora la volta l’immagine di una Nazione priva di amor di Patria e di orgoglio nazionale. Sul podio uno dei più importanti direttori viventi, Gabriele Ferro. Il programma, non certo da concerto popolare inaugurale, del genere di quelli con la Sinfonia Dal
nuovo mondo di Dvorak, è un omaggio al sommo compositore napoletano Carlo Gesualdo nel quadricentenario della morte. Si sarebbero
allineati il Monumentum pro Gesualdo di Stravinski e un pezzo commissionato dal San Carlo in prima esecuzione assoluta, il Florilegium.
Studio da Gesualdo per Ensemble vocale, coro e orchestra, di Lucia Ronchetti e Raffaele Grimaldi; e nella seconda parte un presente di Stravinski a Napoli, il Pulcinella in esecuzione integrale. Perle gettate via. Nemmeno l’annunciata presenza del capo dello Stato ha indotto a cercare altre forme di protesta. Che cosa aggiungere?
( corriere della sera, 28 settembre 2013)
C
osa rispondono i ‘lavoratori del San Carlo’ alle accuse del
critico? Che per loro il cosiddetto contratto ‘integrativo’, e la
pianta organica che il recente decreto ‘valore cultura’ intendono toccare non sono cose di poco conto. Innanzitutto perchè senza l’integrativo, lo stipendio medio di un professore
d’orchestra (meno per coro e ballerini) raggiunge i 1500.00
Euro. Posiamo essere considerati privilegiati, come spesso erroneamente, ma volutamente, si fa? Certo che no. A noi però
viene da fare un’altra riflessione a proposito del decreto voluto dal neo ministro Bray, il quale per alcuni errori mador-
nali, è dovuto subito correre ai ripari promettendo regolamenti che correggeranno gli errori evidenti contenuti in
detto decreto ormai operativo. Ma allora, perchè il ministro
continua a servirsi di un consigliere, come è il direttore generale Nastasi, che ogni volta che parla serve subito dopo
una toppa? Per non dire del tono quasi sempre accentratore
e punitivo delle direttive che escono dal ministero?Da più
parti politiche, compresa la sua, ed anche dai sindacati, all’unisono, il ministro Bray è stato invitato a non prestare
ascolto ai suoi consigliori, primo fra tutti, detto a chiare lettere, a Salvo Nastasi. Che si aspetta?( P.A.)
Teatro San carlo: il concerto saltato.
In riferimento all’articolo di Poalo Isotta dal titolo “Danno d’immagine che scredita il Paese”( Corriere 28 settembre 2013), urge
una precisazione fondamentale per la lettura non di uno sciopero, ma di una assemblea permanente indetta dai lavoratori tutti e
non esclusivamente da coro e orchestra della nostra Fondazione, come erroneamente scritto dal critico. Si precisa questo passaggio perché non si può genericamente trattare un argomento senza approfondire gli aspetti tecnici, i numeri e le cifre che a vario
titolo qualificano le attività professionali di persone che come noi in questo periodo sono state trattate come dei privilegiati tutelati oltre misura rispetto ad altre categorie di genere. Isotta nel suo articolo scrive poi:” Diamo ancora una volta l’immagine di una
nazione priva di amor patrio e di orgoglio nazionale”. Siamo senza amor patrio se cerchiamo di opporci ad un decreto che non
solo minaccia di licenziamento i reparti tecnico amministrativi ( previsto un abbattimento della pianta organica del 50%) ma pretende di decurtare lo stipendio di quell’integrativo faticosamente conquistato negli anni e che ci porterebbe ad una paga base
che si può verificare: in allegato il nostro statino paga medio per un musicista, ovvero 1.506,43 Euro, ancor meno ballerini e coristi fino ai tecnici di palcoscenico. Senza considerare poi che i musicisti di coro e orchestra hanno studiato almeno dieci anni per
diplomarsi, sostenuto regolari concorsi per entrare a lavorare in teatro e che ogni giorno devono studiare per mantenere il loro
posto di lavoro ma ancor prima per essere degni della storia del teatro che rappresentano, nel nostro caso il più antico e storico.
Chiediamo una replica che crediamo giusta che non mortifichi il nostro amor proprio di cittadini di questa nazione e di lavoratori
del teatro San Carlo. Cittadini e lavoratori che ancora pensano che la cultura, quella vera, sia un valore in cui credere.
i lavoratori del Teatro di San carlo
( corriere della Sera, 1 ottobre 2013)
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GERSHWIN
Un Americano a Parigi di Gershwin: opera (non geniale?) di un genio
A roma la ‘giornata’
dell’americano a Parigi
di enrico Pieranunzi
‘An American in Paris’ fu eseguito la prima volta a New York, Carnegie Hall, il 13 dicembre 1928. Gershwin aveva da poco compiuto trent’anni ed era già una celebrità mondiale. La prima assoluta a
Roma (Italia?) fu diretta da Franco Ferrara, il 5 Dicembre 1944. Il 13 dicembre scorso, a Roma, sempre
per Santa Cecilia, è stata presentata una singolare trascrizione dell’opera. Ce ne parla l’autore.
L
George Gershwin
e note della New
York Symphony Society
Orchestra diretta da
Walter Damrosch evocarono quella sera le atmosfere uniche della
meravigliosa città in cui
Gershwin, solo pochi
mesi prima, aveva soggiornato e composto
quel brano. Il periodo
trascorso a Parigi era
stato intensissimo e
ricco di incontri significativi tra cui quelli con
Ravel e Stravinsky. Si
racconta che i due
grandi compositori
avessero però cortesemente rifiutato di dargli
le lezioni o i consigli che
lui aveva richiesto perché, a loro dire, non ne
aveva bisogno. E probabilmente avevano ragione.
Soltanto quattro anni
prima il fenomenale pianista e songwriter aveva presentato alla Aeolian Hall la sua ‘Rhapsody in Blue’ ma
il brano, che aveva avuto un successo clamoroso,
non era stato orchestrato da lui. Gershwin infatti,
non era ancora in grado di sistemare in partitura le
sue idee musicali e si era dovuto affidare per questo
a Ferde Grofé. L’anno successivo però aveva orchestrato lui stesso il suo splendido ‘Concerto in Fa’,
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dando prova di capacità
e rapidità di apprendimento palesemente strabilianti. Aveva scritto un
recensore francese sulla
‘Revue Musicale’, dopo la
prima esecuzione europea di quel concerto: “A
cosa deve la sua popolarità questo giovanissimo
e simpatico musicista la
cui semplicità eguaglia la
ormai grandissima fama?
Al fatto di avere innato in
lui, al massimo grado,
tutto ciò che non si impara: in compenso non sa
alcune cose che si possono imparare”. E , più
avanti, lo stesso critico gli
riconosce che “il compromesso tra le tecniche pianistiche di Liszt e del jazz,
tra gli stili sincopato e
classico, costituisce certamente uno dei più originali tentativi che siano
stati fatti fino ad oggi” . E,
infine, aggiunge: “se Gershwin, che affronta qui per
la prima volta l’impegno dell’orchestrazione, non ha
ancora la sapienza infallibile dell’uomo dal mestiere
sicuro, bisogna dire però che possiede un senso
dell’orchestra molto acuto”.
Lo scetticismo negli ambienti “ufficiali” della musica
colta tuttavia permaneva. Gershwin, privo com’era di
un attendibile pedigree accademico, rimaneva un
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GERSHWIN
outsider, un brillantissimo autore di canzoni che apparteneva al mondo dell’intrattenimento più o
meno frivolo e che nel campo della musica cosiddetta ‘seria’ appariva come una inspiegabile seppur
travolgente anomalìa.
In realtà egli costituiva un vero e proprio ‘caso’. Incarnava, infatti, un mix fuori del comune che riuniva
in un unico personaggio l’improvvisatore e il compositore, il musicista popolare e il grande appassionato di musica colta, e metteva a soqquadro con la
sua dirompente vitalità e spensierata spregiudicatezza i parametri consolidati delle divisioni fra generi e ruoli musicali.
Gershwin e Parigi
Nessuna opera musicale meglio di ‘An American in
Pari’s rappresenta quell’incredibile, reciproco idillio
culturale America-Francia che caratterizzò gli anni
Venti dello scorso secolo. Se infatti da una parte i
rappresentanti del ‘Groupe des Six’ (in particolare
Darius Milhaud), lo stesso Ravel e con loro tutta l’intellighenzia francese del tempo impazzirono per il
jazz, il blues e la musica improvvisata che veniva
dall’altra parte dell’oceano, tutti i giovani americani,
musicisti e scrittori, videro nella Parigi di quegli anni
il luogo supremo del proprio sogno d’artisti. L’ha
raccontato magnificamente Woody Allen nel suo recente ‘Midnight in Paris’, un film la cui visione aiuterebbe non poco a comprendere lo spirito di ‘An
American in Paris’, quella febbre o innamoramento
americano per Parigi cui anche il giovane Gershwin
non potè sfuggire.
I veri motivi del viaggio che egli intraprese nella primavera del 1928 insieme al fratello Ira, alla sorella
Frances e alla cognata Leonore non erano quindi né
turistici né auto-promozionali (Gershwin era già famosissimo in Francia, soprattutto grazie a ìRhapsody in Blue’). Egli, musicista americano di enorme
successo, innamorato della musica di Debussy e
Ravel si recava a Parigi per respirarvi l’aria in cui la
musica che amava era nata e si era sviluppata, e
anche per cercarvi maestri che gli dessero la prepa-
razione tecnica capace di fargli esprimere compiutamente, senza ostacoli, la sua prorompente musicalità. Era un pellegrinaggio che altri suoi connazionali
avevano già compiuto. Tra questi, qualche anno
prima, il ventiduenne Aaron Copland che, con lo
stesso intento, era diventato fedele allievo di Nadia
Boulanger. Gershwin, che pure, sembra, incontrò la
prestigiosa compositrice-didatta ne ricevette –
come da Ravel e Stravinsky – un ennesimo cortese
rifiuto motivato questa volta dalla lusinghiera opinione “di avere già un proprio stile”. Niente maestri
per il giovane americano insomma, che però infervorato dall’atmosfera affascinante di Parigi vi trovò
l’ispirazione per portare notevolmente avanti la
composizione del brano.
“A tone poem ”
Gershwin aveva terminato l’orchestrazione di ‘An
American in Paris’ poche settimane prima di quel 13
dicembre 1928. Lo si può vedere dalla data (18 novembre 1928) riportata da lui stesso sul frontespizio
della partitura insieme a quella (inizio 1928) in cui
aveva cominciato a comporre il brano. Sul frontespizio, oltre alle date di inizio e fine della composizione
e al carattere della stessa (a tone poem) troviamo
l’espressione “composta e orchestrata da George
Gershwin”. Quest’ultima puntigliosa indicazione era
probabilmente la giusta rivendicazione formale di
un’abilità che tre anni prima, a proposito del ‘Concerto in F’a, era ancora stata da alcuni messa in dubbio. Forse perché, come scrive René Chalupt in una
nota biografia di Gershwin “il successo senza precedenti del brillante pianista e compositore che aveva
conquistato ormai l’America e non solo gli aveva
creato, se non proprio dei nemici, dei denigratori invidiosi”.
L’indicazione autografa “poema sinfonico” (in inglese
“tone poem”) che troviamo sul frontespizio di ‘An
American in Paris’ ci dice chiaramente delle intenzioni descrittive di Gershwin. In occasione della
prima esecuzione alla Carnegie Hall furono redatte
da Deems Taylor delle note di sala che costituivano
AccAdeMiA di SANTA ceciLiA. riUNiONi cONSiGLiO AccAdeMicO
Verbale del 9 giungo 1937: ”Il Presidente informa che il Ministro dell’Educazione nazionale, il quale a norma
dello Statuto dell’Accademia deve provvedere con propri decreti alla nomina degli Accademici effettivi e
consentire alla nomina degli Accademici onorari, ha comunicato che i decreti per la nomina dei Maestri Petrassi, Rocca e Silvestri sono in corso e che consente alla nomina ad Accademico onorario del M.o Ettore
Villa Lobos. Non consente, invece, alla nomina del Maestro Georg Gershwin. Il consiglio prende atto”.
Verbale del 17 dicembre 1937: ”Il Presidente ricorda la morte del compositore americano Gershwin il quale
era stato designato dall’Assemblea per la nomina ad Accademico onorario ma non aveva ricevuto l’approvazione del Ministero per il suo atteggiamento politico”.
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GERSHWIN
George Gershwin, primo da sinistra; al pianoforte Maurice Ravel
una sorta di dettagliata – anche troppo – “guida all’ascolto”. In essa i numerosi temi della composizione venivano strettamente correlati ai diversi
momenti dell’immaginaria, appassionante giornata
trascorsa a Parigi dal giovane americano in visita alla
Ville Lumière. In realtà lo stesso Gershwin in alcune
sue dichiarazioni aveva lasciato all’ascoltatore la più
completa libertà di immaginare quello che voleva
nel seguire la musica.
E’ molto interessante invece un appunto dello stesso
Gershwin - conservato alla Library of Congress - in
cui egli elenca, in una specie di sceneggiatura cinematografica, alcuni episodi rilevanti di quella stessa
giornata. Tra questi: l’incontro del protagonista con
una ragazza, una passeggiata con lei, l’inizio di un
flirt (flirtation), l’ingresso (presumibilmente ancora
con lei) in un caffè parigino, una conversazione. Paradossalmente però di tutti gli episodi con la ragazza che Gershwin aveva appuntato non troviamo
traccia nella pur dettagliatissima guida di Taylor…
Anche ‘An American in Paris’, come il ‘Concerto in Fa’,
fu accolto dalla critica non senza riserve. Il Times
lodò la forza delle melodie presenti nel brano ed il
modo con cui queste erano state combinate fra loro
ma vi riscontrò “carenze di forma”. L´Evening Post lo
liquidò come “abile baccano” (casino organizzato, diremmo noi oggi) ” e “divertente musica d’intratteni30
mento in stile Broadway”. Il New York Telegraph si
superò tirando fuori una serie di aggettivi che andavano dal ‘futile’ al ‘noioso’ al ‘volgare’ non senza aggiungere che “anche il pubblico medio del cinema come dire quello di bocca buona - di fronte a tanta
inconsistenza avrebbe reagito arrabbiandosi e disapprovando”.
Opera geniale (?)
C’è da chiedersi allora: ‘An American in Paris’ è davvero un capolavoro? Probabilmente, soprattutto sul
piano della forma, no e, a questo riguardo, è difficile
essere in disaccordo con Leonard Bernstein che dedica a George Gerswhin, una delle ‘Conversazioni
Immaginarie’ poste all’inizio del suo ‘The Joy of
Music’. L’autore di ‘West Side Story’ non mette in
dubbio lo straordinario talento di Gershwin come
geniale inventore di melodie (“il più grande dal
tempo di Ciajkovskij e, prima, di Schubert” afferma);
ed esalta la qualità e la forza espressiva dei motivi
presenti nelle sue più celebri opere ‘serie’. Ma, accomunando in un unico giudizio negativo ‘Rhapsody
in Blue’ e ‘An American in Paris’, critica con particolare asprezza la (in)capacità di Gershwin di trattare
con coesione e consequenzialità i suoi materiali.
“Non basta mettere insieme tre o quattro motivi
anche se di divina ispirazione per chiamare un
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GERSHWIN
pezzo composizione; occorre che i vari elementi formino un tutto che si integri organicamente” sottolinea energicamente Bernstein. Ergo ‘Rhapsody in
Blue’ essendo nulla più che una mera successione di
episodi diversi “messi, insieme con colla e farina”
non può essere definita a pieno titolo una composizione, ma è una...non-composizione. Stesso discorso
per ‘An American in Paris’ in cui, come in ‘Rhapsody
in Blue’, “se togli una delle parti che danno forma al
pezzo, lo stesso procede benissimo perché ciò che vi
accade non è inevitabile”. E via criticando, fino - sempre a proposito del nostro “tone poem” - al provocatorio grido/invocazione finale: “dov’è la
composizione?” Insomma il più grande compositore
americano dello scorso secolo denuncia senza fare
sconti quelli che per lui sono i gravi limiti strutturali
presenti in opere che hanno fatto di Gershwin...il più
leggendario dei compositori americani dello scorso
secolo.
Bernstein aveva ragione e torto nello stesso tempo,
una contraddizione che viene fuori a tutto tondo
quando, pur lanciandosi nelle aspre critiche di cui
sopra, dichiara di amare follemente, come direttore,
‘An American in Paris’. Egli sapeva benissimo che
quest’opera, pur con tutte le ingenuità e ridondanze
formali che giustamente vengono da lui denunciate
possiede, come tutta la musica di Gershwin, una
forza segreta, un motore potente capace di attrarre
a sé il pubblico, ogni pubblico. Una forza paradossalmente legata proprio a quell’assenza di senso
della forma che tanto lo disturbava. Gershwin, semplicemente, non era interessato alla forma nel senso
costruttivo che Bernstein e tutti i veri compositori
intendono. Era un ricercatore dell’istante, dell’emozione cangiante, in movimento, con una particolare
attitudine a fare della sua musica una narrazione
quasi cinematografica (di quest’ultima parla con
acutezza Gianfranco Vinay nel suo fondamentale
‘Gershwin’ del 1992). Tutto questo gli veniva, c’è da
ritenere, dal fatto di essere un grande improvvisatore, cioè da un approccio estremamente fisico alla
musica, orale ma anche in qualche modo visuale e
comunque non scritto. Discorso valido più che mai
per ‘An American in Paris’, che non può essere analizzato solo dal punto di vista della scrittura ma richiede, per essere compreso e gustato, che si entri
con l’immaginazione nella dimensione fisico-visiva
con cui il protagonista vive la sua memorabile giornata parigina ed in quella, altrettanto fisica, con cui
Gershwin musicalmente la racconta.@
GeNeSi e rAGiONi di UNA TrAScriziONe
Chissà, tutto è forse cominciato quando a sei, sette anni, fra i pezzi americani che mio padre mi metteva sul
leggìo, mi capitò di leggere al piano il bellissimo blues dall’Americano a Parigi. Ed è proseguito quando, un
po’ più avanti, nella celebre versione cinematografica diretta da Vincente Minnelli con Gene Kelly e Leslie
Caron vidi, incredulo, la scena in cui il grande Oscar Levant (magnifico pianista e attore, amico personale di
Gershwin) oltre a suonare in maniera incredibile sogna un’orchestra fatta di tutti “lui”, direttore d’orchestra
compreso (…o forse ho sognato anche questo). A quel punto “the magic of Gershwin´s music” - come era
scritto a caratteri grandi e colorati nei titoli di quel film - m’aveva conquistato per sempre e forse per questo a un certo punto ho deciso di trascrivere ‘Un Americano a Parigi’ portandolo dall’organico per grande orchestra sinfonica a quello cameristico formato da tre soli strumenti: violino, clarinetto e pianoforte. Che è
l’organico con cui il 13 dicembre 2013 (guarda caso esattamente nello stesso mese e giorno della prima alla
Carnegie Hall del 1928) è stato messo in programma per la Stagione da Camera di S.Cecilia, in Roma.
Trascrivere An American in Paris è stata una full immersion di molti mesi in continua e spesso problematica
compagnia di tre fonti: la partitura orchestrale, la versione per piano solo fatta all’epoca di Gershwin da William Daly e la versione per due pianoforti pubblicata nel 1986 dopo decenni di oblio e riportata in auge dall’incisione che ne hanno fatto le sorelle Labèque. C’era da decidere ogni volta quale tra le discordanti versioni
dello stesso passo fosse quella piu’ giusta o piu’ funzionale al cammino narrativo dell’opera. Non facile, come
trovarsi tra le mani un film già fatto e decidere di rifarlo. Non avevo altra soluzione che fare un nuovo montaggio del ‘film’, prendendomi una certa libertà di intervento e operando molti tagli (oltre quelli già suggeriti da Gershwin stesso).
Ho anche inserito una mia cadenza. Il pianoforte non era previsto nella partitura utilizzata per la prima newyorchese del 1928. Ma pare che Gershwin fosse a lungo sul punto di aggiungerlo. Mi sono permesso di seguire questo suo pensiero.
Infine, non disponendo dei famosi quattro “taxi horns” (clacson) previsti da Gershwin per dare in maniera inequivocabile al “walking theme” iniziale il suo sapore parigino (quelli che Gershwin portò personalmente da
Parigi e volle fossero usati per la prima della sua composizione) ho seguito il consiglio esecutivo presente
nello studio che Joseph Michael Van Dyke della Ohio State University ha dedicato a quest’opera.( E.P.)
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BRITTEN 100
Nel centenario della nascita di Benjamin Britten
Saint Nicolas: tra arte e
devozione popolare
di Alessandro Macchia
La cantata, per tenore, coro e coro di voci bianche, op. 42 , scritta nel 1948, su testo di Eric Crozier, si
avvale di un'orchestra di archi, pianoforte a quattro mani, organo e percussioni, e racconta la vita di
San Nicola, il personaggio che col passare degli anni ha preso la forma che oggi tutti conosciamo di
Santa Claus, alias Babbo Natale.
S
ebbene i Quaranta rappresentino gli anni in cui
Benjamin Britten acquisisce un’effettiva maturità
d’artista, ‘Saint Nicolas’ op. 42 (la celebre ‘Cantata’ del
1948) pone qualche spinoso problema. Non sono
pochi i passi della partitura che si offrirebbero al destro dei detrattori del compositore inglese, a meno
di non circoscrivere la fruizione della Cantata all’età
dell’innocenza, ma in una prospettiva altrettanto fallace: quasi al repertorio per voci bianche o di ragazzi
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possa essere concesso con maggior accondiscendenza di sacrificare l’originalità creativa a favore del
diletto puro e semplice. Questa maniera di vedere le
cose – non infrequente neppure in musicologi ferratissimi – comporta che la stessa ‘Noye’s Fludde’
venga relegata tra le composizioni minori di Britten,
laddove costituisce un’opera di primo piano, a lato
delle più rinomate, nonché un’importante premonizione delle Parabole da chiesa. Il fatto è che l’equivalenza voci bianche/composizione minore non è
applicabile a Britten, sia per ragioni storiche e sociali
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legate alle peculiarità del sistema produttivo musicale anglosassone sia per questioni strettamente
inerenti le scelte espressive dell’autore stesso. Parimenti, è opportuno evitare la tentazione di attribuire alle composizioni per bambini di Britten scopi
pedagogici che travalichino eccessivamente la convinzione precipua che il far musica in sé produca benessere dello spirito. Questo sia detto anche per le
minute gemme di ‘Friday Afternoons’. La didattica
cruda non rientrava infatti nelle sue passioni. Dal
nostro punto di vista non vogliamo escludere le finalità educative di ‘Saint Nicolas’ o di ‘Noye’s Fludde’,
ma inquadrarle in un obiettivo più caro a Britten,
vale a dire quello dell’edificazione religiosa e della
trasmissione di valori morali assoluti. Soltanto lungo
siffatta direttrice sarà possibile evitare che la nostra
Cantata resti schiacciata tra le sublimi volute melodiche in onore di santa Cecilia sui versi di Auden e la
potente reinterpretazione del diluvio universale dai
Misteri medievali di Chester.
Del resto, ‘Saint Nicolas’ nasce nel solco della poco
anteriore ‘The Rape of Lucretia’ e con questa condivide l’idea neoplatonica che la Storia abbia una direzione circolare e sia finalizzata al compimento della
parabola cristiana: il tanto atteso secondo Avvento.
In ‘Lucretia’ la visione di un Cristo presente dall’inizio dei tempi è suggerita dall’interazione fra i Cori e i
pagani con le loro vicissitudini. Per quanto attiene
‘Saint Nicolas’, il movimento d’avvio (Introduction)
schiude con programmatica immediatezza la medesima idea. Il riferimento al secolare corso che separa
gli uditori dall’epoca e dalle opere del santo (“Across
the tremendous bridge of sixteen hundred years”) fa
perno sull’efficacia di un estesissimo assolo del
primo violino: nell’uso intensivo delle quarte melodiche il tema ha peraltro il duplice scopo di ritrarre
un’atmosfera prossima al vicino Oriente e il vagare
di Nicolas lungo la geografia terrena. Nondimeno,
sarà agevole notare che l’episodio che più esplicitamente descrive l’affacciarsi di Nicolas al di qua della
soglia del tempo ha per indirizzo una serie ininterrotta di rapide scale melodiche ascendenti in corrispondenza del primo emergere della voce del
sant’uomo. La soluzione può apparire a prima vista
obsoleta e banale, ma la chiave di ‘Saint Nicolas’ è
proprio nella ventura di capire che la trasmissione
del messaggio edificatorio è nel gesto semplice e
assimilato per tradizione, tal che esso possa svolgere la funzione affermativa e catartica usualmente
assegnata al rito. In tal senso le scelte compositive di
Britten si rivelano quanto mai giustificatorie e riparatrici del pur maldestro testo di Eric Crozier.
Il gesto melodico o armonico è funzionale per
quanto elementare. Per esempio, la barcarola (‘He
journeys to Palestine’, IV) – intonata all’umore di un
virile ‘shanty’ – si compiace del movimento ondivago della navigazione, ma in senso strettamente fi-
gurato rappresenta le passioni del cuore, le stesse
che daranno adito alla riproduzione di una tempesta
musicale: e qui la trasposizione simbolica è resa
esplicita dal consueto ricorso di Britten all’accordo di
Si minore, come già in ‘Lucretia’ o in ‘The Holy Sonnets of John Donne’. Pure, si osservi la maniera in cui
è piegato volta per volta il citato intervallo melodico
di quarta giusta. Nelle batt. 11-12 di ‘Nicolas comes
to Myra and is chosen Bishop’ (V) è l’icona stessa di
Nicolas: con tutto ciò, il tragitto progressivamente
scalare esplicita il senso dell’elevazione spirituale,
fino a diventare il soggetto della successiva fuga a
quattro voci. Obiettivamente le solenni pagine di
questa fuga e del coro conclusivo, del finale corale
della Cantata, strappano ‘Saint Nicolas’ al rischio del
vignettismo più corrivo: vorremmo dire quello dell’imagerie d’Épinal, inclusivo di tutto il suo fascino e
di tutto il suo Kitsch. Un tratto marcato di sottomissione criticamente avveduta e ricercata al sentire devozionale è in ‘Nicolas and the Pickled Boys’ (VII),
dove l’intervallo di quarta è piegato a un ostinato
marziale che sembra temprato a uso della ‘muscular
Christianity’: non sarebbe stato fuori luogo trovarlo
più confacente ai toni elegiaco-eroici di ‘Ballad of
Heroes’ o a un’eventuale Cantata sulle imprese di san
Giorgio. La stessa carica guerresca risulta meno emozionante della corrispondente di ‘This little Bab’e, il
sesto brano di ‘A Ceremony of Carols’. In ‘Saint Nicolas’ le intenzioni ultime di Britten sono perciò relegate proprio ai cori del quinto e del nono
movimento (‘The Death of Nicolas’). L’inusuale partecipazione degli ascoltatori ovvero dei fedeli (Congregazione) alla performance musicale, ha la funzione
di convogliare nella cerimonia la comunità intera,
preconizzando le modalità di coinvolgimento emotivo/spirituale e le finalità etiche di ‘Noye’s Fludde’ e
di tutta l’arte britteniana matura. Il meccanismo, per
quanto lo si voglia dire “populistico”, ha efficacia, e
sarà sublimato soltanto negli anni Sessanta dalla
preghiera e dalla ritualità rigorosa delle Parabole da
chiesa.@
*Alessandro Macchia è autore del recente volume:
Benjamin Britten (2013) per l’editore L'epos, di Palermo, pagg. 464, € 48,30.
33
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Musica e potere
quando Sciostakovic cadde in disgrazia nella russia di Stalin
Tutto cominciò con Lady
Macbeth
di Giuseppe Pennisi
Un recente libro di Rattalino, dopo quello ormai noto di Volkov, torna a far riflettere sulla vita del
compositore il cui valore è oggi universalmente riconosciuto e, più in generale, sui rapporti fra musica
e politica.
N
ello studio sui rapporti fra musica e politica, le
vicende di un comunista ‘puro sangue’ e ‘per bene’
nella Patria del ‘socialismo reale’ sono state nuovamente esaminate in un libro recente da Pietro Rattalino: ‘Sciostakovic. Continuità nella musica,
responsabilità nella tirannide (Zecchini Editori), che
dal titolo si capisce vuole essere “revisionista” rispetto all’autobiografia più diffusa di Solomon Volkov Testimony: The Memoirs of Dimitri Sciostakovic
as Related to and edited by Solomon Volkov pubblicata in Russia nel 1979, del quale nuove edizioni
sono uscite in Gran Bretagna e negli Stati Uniti nel
2004 e nel 2006 e che è anche la base di un film che
ha avuto notevole successo e preso numerosi premi
internazionali, pur se mai visto nella sale italiane
(sembra perché non conforme al ‘pensiero dominante’ dell’intellighentsia nostrana) , mentre lo ha
trasmesso solo il canale televisivo digitale ‘Classica’.
Il rinato interesse per il compositore in questi ultimi
mesi (suoi lavori sono stati presentati alla Scala, all’Opera di Roma, all’Accademia di Santa Cecilia, all’Orchestra Sinfonica di Roma) è significativo
soprattutto se raffrontato al relativo oblio (nel nostro Paese) in occasione del centenario della nascita,
nel 2006, quando l’Italia celebrò esclusivamente i
250 anni dalla nascita di Mozart. Quasi nessuno si
accorse che era anche l’anno del centenario della
nascita del compositore russo che, con Stravinskij e
Prokofiev aveva inciso di più nell’integrazione tra
vari generi della musica del Novecento. All’estero, invece, si prestò grande attenzione alla ricorrenza - ad
esempio il Festival di Annandale-on-Hudson a due
ore di New York, nel 2004, anticipando i tempi, eseguì l’integrale della musica di Sciostakovic – dalla
sinfonica alla cameristica, dalla lirica, al jazz alla mu34
sica per spettacoli teatrali e per film. Anche nella
Russia post-comunista, il notissimo Festival delle
Notti Bianche, a San Pietroburgo, presentò tutte le
opere (ivi compresa la musica da film). Ciò vuol dire
che, pur se tardivamente, la coltre d’oblio posta dall’intellighentsia comincia a sciogliersi.
Come e perché Sciostakovic cadde in disgrazia? A
creargli problemi con l’establishment sovietico, non
fu la vita personale complicata - intratteneva relazioni parallele con tre-quattro donne, di cui una,
Nina Vasil’evna Varzar, diventò sua moglie (la prima)
nel 1932 (ne ebbe tre, tutte molto belle) dopo un
rapporto tempestoso oggetto di chiacchiere a non
finire. Non fu neanche la musica da camera, o quella
per film e per il teatro (che gli venivano commissionate continuamente dalle istituzioni del regime) a
metterlo nei guai. Fu, invece, la sua seconda (ed ultima) opera lirica a farlo cadere in disgrazia, ed a
farlo oggetto di una vera e propria persecuzione.
Fu, come è noto, l’opera ‘Una Lady Macbeth del Distretto di Mcensk’ - una storiaccia di sesso e sangue
in cui la protagonista, Katerina Izmajlova, borghese
di provincia mal ammogliata ed assatanata da pulsioni erotiche, uccide tutti gli uomini che si porta
sotto le lenzuola (nel racconto, ammazza anche il
proprio figlio in fasce, dopo averlo avuto dal bel Sergej, lavoratore a giornata nell’azienda del suocero e
del marito, già fatti fuori uno dopo l’altro). L’opera
sarebbe dovuta essere la prima di una tetralogia dedicata alla donna russa - ovviamente alla donna
post-rivoluzionaria, liberata sessualmente e, come si
legge in ‘Testimony’, “di livello assai superiore al suo
ambiente”. L’opera è “dedicata alla mia fidanzata, dichiara l’autore, con cui poi mi sono sposato” ed è
“imperniata su come potrebbe essere l’amore, se il
mondo non fosse zeppo di cose abiette”. “Katerina è
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Musica e potere
un genio della passione, per amore è pronta a tutto,
anche ad uccidere”. Una lettura del racconto di Leskov (autore apprezzatissimo da Gorkij) in chiave
marxista. Che l’argomento fosse considerato appropriato, lo dimostra il fatto che, probabilmente, prima
ancora di leggere il racconto, Sciostakovic ne avesse
visto la versione cinematografica di Cesar Savinki una lettura molto cruda in cui la protagonista appare come una vera e propria mantide serial killer.
Quindi, nulla che potesse essere, almeno a prima
vista, in contrasto con le tendenze del Partito, in materia di arte e spettacolo. C’era, però, la musica. Prendiamo cosa dice Sciostakovic, in ‘Testimony’: “è
musica fatta appositamente alla rovescia, in modo
l’ascesa del suo autore ai piani più alti delle gerarchie artistiche del regime. Ed, invece, la mattina del
28 gennaio 1936, la Pravda pubblicò un editoriale
non firmato, ma pare dettato dallo stesso Stalin, ed
intitolato “Caos anziché musica”: dove si accusava il
lavoro di pornografia e di cacofonia. Da allora (si era
nel 1936) iniziò per Sciostakovic, non ancora trentenne, un processo di mobbing che durò sino alla
fine degli Anni Cinquanta: venne allontanato dal
teatro in musica, nonostante avesse progettato di
continuare la tetralogia sulla donna e stesse studiando anche altri libretti; si dedicò, allora, alla sinfonica per grande organico; la ‘Quarta sinfonia’,
composta tra sessioni di confronto con le “alte sfere”
da non ricordare affatto la classica musica d’opera,
da non avere nulla a che fare con il sinfonismo, con il
linguaggio musicale semplice e comprensibile a
tutti”. Il musicista non poteva sapere che su percorsi
analoghi si stavano mettendo compositori tedeschi
(come Berg, Korngold, Krenek, Zemlisky), le cui composizioni sarebbero state considerate degenerate
dal nazismo, ed italiani (Malipiero, Dallapiccola) i cui
lavori sarebbero stati, invece, esaltati dal fascismo,
specialmente dalla corrente modernista, e, quindi,
anti-tradizionalista.
La ‘Lady Macbeth’ ebbe la prima rappresentazione il
22 gennaio 1934 al Malyi con un esito trionfale i cui
echi furono tali da giungere oltre i confini dell’Urss,
tanto che – cosa insolita in quegli anni - venne ripresa (oltre che dai maggiori teatri russi) anche a
Londra, Praga e Cleveland, in meno di 18 mesi. Sembrava destinata ad un successo tale da assicurare
del partito (di cui, in piena sincerità, si dichiarava fedelissimo) non venne accolta dal successo delle
prime tre ma da nuove critiche di “formalismo borghese”; prese gradualmente le distanze dalla violenza iconoclasta del proprio linguaggio musicale
degli Anni Trenta, e dopo nuove critiche alla quinta,
sesta e settima sinfonia, l’ottava e la nona rappresentano un percorso sempre più allineato ad una visione conservatrice (ove non reazionaria) sotto il
profilo musicale, ma proprio per questo vicina all’Accademia sovietica. Con la decima e l’undicesima, la
transizione è completa: il dissacratore della Leningrado degli Anni Trenta è ormai approdato (siamo
alle soglie degli Anni Cinquanta) al tardo-romanticismo di fine Ottocento, in linea con il realismo socialista che piaceva a Andrej Zdanov (il segretario del
Comitato Centrale del Partito responsabile per la
cultura e l’arte). Non solo, l’Undicesima sinfonia (del
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Musica e potere
1957) e la Dodicesima (del 1962) sono ormai dedicate alle celebrazioni, rispettivamente della guerra e
rivoluzione del 1905, nonché alla memoria di Lenin.
Solo dopo la morte di Stalin, ritorna, moderatamente all’innovazione: nella Tredicesima sinfonia introduce la voce solista (su testi di Evtuscenko). Nel
1963 propone una nuova edizione della ‘Lady Macbeth’, espurgata, però, nel testo, nella partitura ed
anche nel titolo (diventato ‘Katerina Izmajlova’): ha
grande successo in tutta l’Europa centrale ed entra
definitivamente nel repertorio di molti teatri. Questa
versione fu conosciuta per prima in Italia, principalmente tramite tournée dell’Opera di Zagabria, di Lubiana ed anche di Sarajevo, a Napoli, Genova e nei
circuiti della Lombardia e dell’Emilia-Romagna, tra
gli Anni Sessanta e Settanta. La ‘Lady Macbeth’ del
1934 si è ascoltata soltanto nel 1947 al Festival di
musica contemporanea di Venezia, nel 1980 a Spoleto, nel 1987 a Trieste, nel 1992 alla Scala e nel
1994, 1998 e nel 2006 a Firenze. ‘Il Naso’, l’altra sua
opera, tornò sulle scene russe solo nel 1974, un
anno prima della morte del musicista, a cui vennero
dedicati grandiosi funerali di Stato come eroe nazionale “deputato del Soviet Supremo dell’Urss, insignito dell’Ordine di Lenin e del Premio di Stato
dell’Urss, fedele figlio del Partito comunista, eminente figura sociale e pubblica, artista del popolo”.
In effetti, dopo anni di tribolazioni, era rientrato nei
ranghi.
Resta un interrogativo. Come mai Stalin (in tante
faccende affaccendato) si è rivolto alla ‘Lady Macbeth’ ed al suo autore due anni dopo la prima rappresentazione, dedicandogli il fondo della Pravda?
La saggistica in materia è vastissima, anche di autori
italiani. Puntuale la risposta del direttore d’orchestra
36
Francesco Maria Colombo: “In due anni era maturato
un trionfo di proporzioni così colossali che era necessario dargli una frenata. La ‘Lady Macbeth’ poteva
essere bella o brutta, cacofonica o cantata dagli angeli, aveva successo e, per questo il suo destino, era
segnato”. Una risposta eloquente e rivelatrice della
linea di pensiero del comunismo. Ed anche di tutti i
post-comunismi?
Una versione analoga è stata offerta ad alcuni amici
da Mistislav Rostropovic in occasione di una cena
privata a Roma nei giorni in cui concertava ‘Lady
Macbeth’ .”Il colpo di grazia a Sciostakovic, l'hanno
inferto Stalin e l'ideologo Zdanov. Ma il primo ad accusarlo fu Molotov, presidente del consiglio dei
commissari del popolo, che essendo nipote del
compositore Skrjabin si riteneva un esperto di musica”. Quale l'effetto su Sciostakovic? “Una ferita che
non si è più rimarginata. Lo ha cambiato, anche fisicamente. Ho un ritratto precedente all'episodio in
cui i suoi occhi sono diversi”.
Stalin, Molotov, Mikoyan e Zdanov erano alla prima
di ‘Lady Macbeth’ a Mosca. Il vero nome di Molotov
(nome di battaglia, ‘Martello’, datosi durante la rivoluzione) era Vjaceslav Michajlovic Skrjabin; al contrario di Aleksandr Nikolaevic Skrjabin, il quale
nonostante venisse da famiglia aristocratica (al pari
di ‘Molotov’-Martello) e fosse deceduto nel 1915
(ossia prima della rivoluzione) veniva considerato
uno dei maggiori compositori e pianisti russi, ed era
stato ammesso (non si sa per quali meriti) ‘al Pantheon rivoluzionario’.@
*Giuseppe Pennisi ha scritto, sul medesimo argomento, un saggio pubblicato su La Nuova Antologia ( luglio- settembre 2013).
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DELITTI
Ora bruciano anche la musica!
Il 5 novembre 2013, a Reggio Calabria, un incendio doloso ha distrutto il Museo dello Strumento musicale, pazientemente costruito da un medico reggino, il dott. Demetrio Spagna, amante della musica. Un fatto gravissimo per tutti, e una brutta storia in una città commissariata per mafia.
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Musica in Abruzzo
Henry Mancini Loss of Love: le radici ben piantate
Henry d’Abruzzo
di Luca Bragalini
Si chiamava Enrico Nicola Mancini; i suoi genitori emigrarono in America da Scanno. Vincitore di
premi Oscar e Grammy Awards, scrisse anche la musica per il film di De Sica, I girasoli; protagonisti la
Loren e Mastroianni.
N
el firmamento della popular culture made in
USA non poche stelle sono state prese a prestito dai
cieli abruzzesi: dal cantante Perry Como all’attore
Alan Alda, dal boxeur Rocky Marciano al tenore
Mario Lanza, dalla rock star Madonna all’entertainer
Dean Martin.
In questo scorcio di volta celeste tra Hollywood e
L’Aquila particolarmente fulgido è stato l’astro di
Henry Mancini, al secolo Enrico Nicola Mancini.
Il padre Quinto era nato a Scanno. Quinto, poco più
che adolescente scavalca le montagne giungendo a
Roma, poi da Napoli parte alle volte degli Stati Uniti
(o più probabilmente della mitica “America”).
Quell’ometto tarchiato inizia a lavorare a Detroit, poi
si trasferisce a Boston (operaio in una fabbrica di
scarpe) e poi si stabilisce a Cleveland dove conosce
una ragazza originaria di
Campobasso, tale Anna
Pece: diventerà sua moglie.
In quella città dell’Ohio
nasce nel 1924 Henry Mancini.
La famiglia trasloca nella vicina West Aliquippa, villaggio che ospita una assai
nutrita comunità italiana. Il
piccolo Henry inizia a studiare il flauto (probabilmente esercitandosi su un
vecchio strumento Conn del
padre). A 13 anni è primo
flauto della Pennsylvania All
State High School Band e
nel mentre onora le sue radici suonando nella banda
Sons of Italy diretta da Carlo
d’Atri: a ogni festa di Sant’Antonio il giovane Enrico fa
faville con l’ouverture del
38
Guillaume Tell.
Di quegli anni italo-americani (dove l’accento cade
sulla prima parte della diade) Mancini scriverà nel
1970 una suite in tre movimenti per orchestra sinfonica intitolata: Beaver Valley ’37 Suite.
Nel 1963, quando già aveva vinto tre Oscar e diversi
Grammy Awards, il compositore ha occasione di visitare il piccolo centro di Scanno di cui aveva sentito
solo attraverso le parole di Quinto. Mancini si trovava infatti a Roma per la colonna sonora di Pink
Panther e per prendere accordi con Franco Migliacci
(il paroliere di “Volare”) per il testo italiano di “It Had
Better Be Tonight” (che diventerà “Meglio stasera”) e
decise quindi di andare con la moglie Ginny in
Abruzzo.
Nella sua autobiografia Did They Mention the
Music? (Cooper Square Press, 1989) riporterà di
quella visita di una giornata:
donne vestite di nero nell’atto di
trasportare cesti del pane, un
pranzo di nozze nel ristorante accanto alla chiesa del paese, le
strade tortuose. Il Maestro decise
di non pernottare nell’unico
“small country hotel” di Scanno e
optò per ritornare nella capitale.
Ma il suo rapporto con l’Italia
non finì con quella fugace visita:
sette anni dopo, nel 1970, il
grande produttore cinematografico Carlo Ponti lo coinvolgerà in
una pellicola diretta da Vittorio
De Sica con Sophia Loren e Marcello Mastroianni quali interpreti:
I girasoli.
Intenso melodramma in cui Giovanna (la Loren, che si aggiudicò
il David di Donatello) intraprende un viaggio in Russia alla
disperata ricerca del proprio
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Musica in Abruzzo
amore (Mastroianni- Antonio) partito in guerra sul
fronte orientale. Primo film occidentale girato in Russia (le riprese si svolsero tra Pavia, Milano, l’Ucraina e,
appunto, la Madre Russia), ebbe una gestazione alquanto travagliata. La sceneggiatura iniziale (più
aderente ai temi neorealisti di De Sica) fu fortemente
rimaneggiata; il regista e il produttore non mancarono di finire ai ferri corti al termine di ogni giornata
di riprese (davanti agli occhi stupefatti di Mancini
che pur non sapendo l’italiano non ebbe difficoltà a
comprendere gli eloquenti e icastici gestacci che i
due si scambiavano) e anche lo stesso compositore
ebbe qualche difficoltà ad adattarsi agli usi degli orchestrali romani (“Se uno dei musicisti deve andare
ai servizi semplicemente si alza e ci va, anche in
mezzo alla registrazione…”). Malgrado tutto la pellicola sarà un melodramma di gran pregio e il lavoro
di Mancini di altissimo livello: non a caso lo score
ebbe una nomination agli Oscar (tra l’atro rivaleggiando con un’altra colonna sonora di Mancini, Darling Lili).
Puntiamo la lente di ingrandimento sul leitmotiv de I
girasoli intitolato “Loss of Love”, struggente composizione la cui incisione discografica è stata particolarmente apprezzata dal pubblico Giapponese che
negli anni Settanta ne ha fatto un bestseller al pari di
“Moon River”.
L’umbratile tonalità di Mi minore avvolge quasi integralmente l’intera composizione che formalmente si
snoda nella forma song con chorus di 32 battute ripartito in a8a8b8a8. Tradizionalmente la sezione b
(bridge) ha la forte tendenza a modulare. Ciò avviene anche in “Loss of Love” ma è solo per un brevissimo scorcio di luce di sole 3 misure. L’inciso
principia infatti nella tonalità relativa maggiore ma a
battuta 4 la triade di Sol in primo rivolto (Si/Sol) cangia nell’accordo di Si7#5 che immediatamente riconduce alla malinconica tonalità d’impianto.
La modulazione repentina e spiazzante ha giocato
un ruolo di primo piano in molte opere di Mancini,
dalla giovanile “Breakfast at Tiffany’s” (1961) sino alla
matura “Harry’s Theme” (dal film Harry and Son1983) passando per “We” (dalla pellicola Me Natalie1969); qui è invece quasi del tutto assente. Il percorso armonico è invece ricondotto ad una serie di
cadenze in minore che non danno respiro all’angoscia crescente. D’altra parte il Maestro ha saputo concepire opere dal reticolo armonico assai lineare: ne
sono esempi la fascinosa “Charade” (1963) o il “Pink
Panther Theme” (1964); il modale “Peter Gunn
Theme” (1958) è addirittura ancorato ad un solo accordo.
Anche nella tonalità minore il compositore ha in più
occasioni affondato per dar vita ai suoi temi più malinconici e meditabondi; tra le vette “Moment to Moment” (1966) e “Soldier in the Rain” (1964),
quest’ultimo è forse il tema più commovente di
Mancini, un mood condiviso da “Loss of Love”.
Lo struggimento di “Loss of Love” ci è anche restituito dal profilo melodico: un tema essenzialmente
diatonico nondimeno speziato da pungenti cromatismi disseminati con parsimonia. Il climax melodico
raggiunto a battuta 4 è un tocco da maestro: un re
naturale è armonizzato con un B7; lo zenith coincide
con un’acre nona eccedente, la tensione più carica
di tutto il tema; il momento più lirico è quindi un
urlo di dolore.
Mancini si riconferma Maestro della melodia, ambito
in cui ha saputo scrivere sia appoggiandosi ad un
candido radicale diatonismo (come “Moon River”1961) sia articolando percorsi fortemente cromatici
come in “Two for the Road” (1967).
E anche dalla prospettiva timbrica questo negletto
chef-d'œuvre rivela punti di interesse. La prima sezione a (8) è esposta dal pianoforte; la ritmica e l’orchestra d’archi si fanno largo nella seconda a (8) e
nell’inciso b (8), la commozione cresce sino ad un
inaspettato anticlimax: nell’ultima sezione a (8) il
tutto si asciuga repentinamente nello stridulo, penetrante, alienante suono di un clavicembalo elettrificato; lo spettatore che sui titoli di testa sta godendo
dell’ammaliante immagine di una distesa di girasoli
(magnificamente fotografata da Giuseppe Rotunno)
è colto da sgomento.
Mancini era attento nella scelta dei timbri, colori che
spesso attingeva da particolari strumenti. In “A Shot
in the Dark” utilizzò il comico suono di un “asmatico”
organetto indiano; in “Experiment in Terror” l’autoharp, sorta di salterio dei monti Appalachi; in “Moon
River”, per richiamare il passato rurale della protagonista, l’armonica a bocca; per “Slow Hot Wind” si fece
costruire un lamellofono battezzato lujon (in onore
al jazzista John Lewis); in “Pink Panther” affidò il
tema allo splendido sound del sax tenore Plas Johnson. Tra le scelte più riuscite rubrichiamo il disturbante clavicembalo elettrificato di “Loss of Love”.
Mancini avrebbe avuto un ultimo contatto diretto
con le sue origini italiane negli anni Ottanta quando
arrangiò due dischi pop per Luciano Pavarotti (il tenore lo invitò in seguito nella sua residenza di Pesaro), tuttavia il più alto omaggio che il compositore
ha rivolto al suo Paese natale rimane l’incisione romana di “Loss of Love”.
L’amaro finale del film di De Sica dimostra che neppure una grave amnesia e un viaggio di molte e
molte miglia riescono a far dimenticare un grande
amore, a sradicare le radici più profonde.
Riflessioni che Enrico Nicola Mancini non ebbe
troppe difficoltà a tradurre in note.@
* Luca Bragalini é autore del volume “Storie poco
standard” (edT); il capitolo 13 “Nothing to Lose” è
interamente dedicato a Henry Mancini.
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Fogli d’Album
ALL’OPerA ! deVe TOrNAre
C
erto che non bisogna inseguire l’audience ad
ogni costo. Ma neanche fregarsene del tutto.
Anche nella tv pubblica. Oppure tirarla in ballo
quando non si vuol dare via libera ad una trasmissione, e dimenticarla quando nonostante reiterati
flop, si continua a tenere in palinsesto certe trasmissioni, in attesa di ‘fidelizzare’ il
pubblico!
Se restringiamo l’indagine all’ambito
musicale, l’appello
all’audience è il ritornello opposto a
qualunque proposta. Dicono i dirigenti che queste
trasmissioni nessuno le vede – e in
qualche caso dicono il vero; ma si
dà il caso che, di contro, non si toccano trasmissione
che vanno in onda da anni, nonostante che nessuno
le veda.
Lasciamo da parte RAI 5, la rete che dirigenti dell’uno e l’altro schieramento – favorevoli e contraritirano in ballo, quando si parla di ‘cultura’, perché i
dati sono sconfortanti. Qualche esempio, dai palinsesti degli ultimi mesi. ‘I Due Foscari’, hanno avuto
uno share di 0,56%, con 44.000 telespettatori; ‘Petruska’, uno share che di media fa lo 0,18% con 25.000
telespettatori circa. Una débacle. Perché allora non
chiuderla e risparmiare?
E RAI 3? Resiste da anni ‘Prima della Prima’, stessa curatrice, stessa formula, molto gradita da telespettatori che vogliono dare ad intenderla: lo share di una
delle ultime puntare è stato dello 0,52, con 82.000
telespettatori. Non fermiamoci alla meno vista. C’è
da due anni una trasmissione abbastanza curata,
‘Sostiene Bollani’, che ha come mattatore il noto pianista. ‘Sostiene Bollani’ ha uno share medio poco
sopra il 3%, con una media di telespettatori intorno
ai 500.000. E’ già qualcosa. E una ‘prima serata’, quasi
una serata intera, giovedì 10 ottobre, per l’anniversario della nascita di Giuseppe Verdi, introdotta da
Mieli e seguita da un lungo documentario sul musicista, realizzato da Maite Carpio, ha avuto uno share
del 4,3%, con 1.128.000 telespettatori
Ciò dovrebbe far concludere ai dirigenti RAI che,
40
avendo cancellato dalla memoria dei nostri cittadini
ogni traccia musicale del nostro glorioso passato,
melodramma in primis, è assurdo insistere con trasmissione che, invece, presumono una conoscenza
di base.
E allora che si fa? Ecco una proposta: tornare all’antico, secondo l’esortazione di Giuseppe Verdi. Per sei
anni consecutivi,
dal 1999 al 2004,
RAI 1 ha trasmesso
‘All’Opera!’, una
bella trasmissione
con Antonio Lubrano, che aveva il
pregio di far ascoltare l’opera prescelta, attraverso i
momenti musicali
salienti, lasciando
al narratore/affabulatore, il racconto
degli eventi fra
l’uno e l’altro
ascolto. Un’opera, formato TV, per formula e tempi.
Quella trasmissione aveva uno share tra l’ 8% e il
12%, con punte del 13% e 14%. Per capirci. ‘La Traviata a Parigi’, targata Andermann, quando venne
trasmessa su Rai 1, tutta in una volta, fece poco più
di 700.000 telespettatori; l’indomani, ‘L’elisir d’amore’,
della serie ‘All’Opera!, oltre 900.000. Capito, share e
telespettatori da far invidia a qualunque trasmissione, anche politica, delle tante spuntate come funghi nelle ultime stagioni e che nessuno vede, come
ci si attendeva.
E Allora? A dieci anni esatti dall’ultima serie, che si
aspetta a rimetterla in palinsesto?@
di Francesco Papa
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SCOPERTE
Le BeNedeTTiNe di SAN SeVerO NeL SeTTe-OTTOceNTO
ceLeSTi SireNe.
LA MUSicA PrOFANA
eNTrA iN cLAUSUrA
di Annamaria Bonsante
I divieti, osservati o no, di servirsi tra le mura claustrali del canto figurato e di strumenti diversi dall’organo, si replicano costantemente nella prima età moderna. Meno gli indirizzi tolleranti, comunque
presenti, che consentirono alle benedettine pugliesi di lodare Iddio anche con il canto ‘figurato’.
P
resso le Benedettine, nel Settecento, sono manifeste le influenze delle cosiddette ‘Dichiarazioni’ che,
indirizzate alle comunità femminili, interpretavano
la Regola di San Benedetto e che conosciamo in una
ventina di edizioni diverse. In questo coro di direttive, sempre meno coordinato e sempre più specifico di ogni realtà, fonte normativa considerevole è
la legislazione propria degli stessi monasteri, che
molto spesso si occupa della musica: “Sarà loro proibito di suonare musici strumenti, fuorché l’organo, e
nelle Ore canoniche d’usare altro canto che il fermo”.
Questo caratteristico veto, che può suonare tardo
per l’area settentrionale (Savigliano 1789), si riallaccia alla tradizione anti-polifonica più rigorosa e nota.
Identificando il ‘canto figurato’ con la mondanità
stessa, si colgono i rischi della sua introduzione tra
le ‘spose di Cristo’: ‘disordine’, secolarismo, eccessiva passionalità.
Le proibizioni si scrivono e ci giungono numerose; meno gli indirizzi ‘tolleranti’, come il seguente,
leccese: “Si permette che le monache per loro devozione possano cantare in canto figurato
non le hore canoniche, ma qualche laude, e cose di devozione
non per compiacere agli huomini, ma per lodare Dio”
Anche a San Severo la vita
musicale delle Benedettine di
San Lorenzo - da soppesare
più sulla base del cospicuo
fondo di partiture che in
virtù delle scarne notizie d’archivio - pare intensa e
votata quasi esclusivamente al canto figurato. Il monastero, di osservanza regolare, inserendosi da protagonista nella tipica religione cittadina meridionale
e preunitaria, riserva molto spazio al repertorio profano e sacro più moderno. Il periodo coperto dal
fondo musicale del Monastero va dal 1724 al 1864 e
segue i mutamenti del gusto del monastero e del
territorio. Le prime interessanti fonti sono due copie
manoscritte di arie di Leonardo Vinci, l’una “del sig.
Carlo Braschi detto Farinella”, l’altra “della sig. Anna
Stradini”, mentre è di Giovanni Giuseppe Nigri l’ultima composizione attestata, una ‘Lamentazione’ in
forma di duetto.
Colpisce lo scarso numero di messe (spesso senza
indicazione dell’autore) e di brani strettamente liturgici, a fronte dell’ampia letteratura vocale solistica
d’autore. Si privilegiano testi ispirati al sacro, ma
extra-liturgici e dall’intonazione drammatica. Sotto le vesti, consentite, di
“qualche laude e cose di devozione”
può celarsi il teatro stesso. Tuttavia
ciò non basta alle ‘virtuose accademiche’. Valicando l’alibi della devozione
en travesti, le monache di San Lorenzo
si assicurano pagine e pagine profane,
teatrali, arie, duetti, cavatine, sinfonie,
danze e balli ― dal ‘Minuè d’Amore’ alla
‘Tarantella della Regina’ alla ‘Monferrina’.
Ancora, derogano all’opinione sui ‘musici
strumenti’: più o meno scoperta ma indubbia è la rivisitazione secolare di organo
e salterio, e sono testimoniati clavicembalo
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SCOPERTE
San Severo. Particolare della facciata della Chiesa di san Lorenzo delle
e fortepiano. Sicuri della
gamenti.
Benedettine.
convivenza di vari struL’autosufficienza delle
menti da tasto per tutto
‘virtuose’ di fronte all’abil periodo coperto dal
bondante materiale mafondo musicale, siamo
noscritto di cui sono
bensì incerti sulla reale
dotate - spesso consicapacità da parte delle
stente in partiture con
monache di suonare altri
ampi organici - spicca
strumenti.
come dato culturale riDopo un’anonima, e inmarchevole: l’essere in
certa, cronaca del 1733,
grado di ridurre e adatche parla di “timide
tare le composizioni al
agnelline, le quali fatte
contesto nel quale sono
ardimentose col poscollocate è di per sé insesso dell’amor di Dio
dice di professionismo.
tengono lontano col riNon si può provare che
gore della disciplina, e
tutto il patrimonio del
melodie delle sonore
fondo fosse eseguito,
voci il mondo disturbatuttavia una solida istrutore, non che l’inferno
zione musicale occorre
tutto”, non si incontrano
anche per fare della
altri ascoltatori o viagfonte un oggetto di stugiatori che rendicontino
dio, o di gradito compiale virtù musicali della
cimento, o di pura vanità.
nostra comunità.
A vuoto si cercherebbero
Dalla burocrazia episcotra queste mura claustrali
pale traiamo un’imporle prove di acquisti di
tante notizia del 1741:
manoscritti, evidente“In questa prima S. Visita del nostro Monastero delle
mente tutti pervenuti in dono alle professe.
Monache Benedettine della nostra città di San Severo,
Una sensibilità meno individualistica compare nel
ci siamo molto consolati e rallegrati nel Signore per
diciannovesimo secolo, allorché la fruizione del paaver ritrovato, che siansi le Religiose competentemente
trimonio, anche privato, si mostra più distribuita, coistruite nel Canto Semplice e Gregoriano, talmente che
munitaria, e l’organizzazione della musica si ispira
si sono già rese abili, e ben capaci di poter divotamente
ormai da vicino a quella di un’effettiva ‘cappella’. In
soddisfare al Canto delle Messe, e del Divino Officio anprecedenza, erano state singole ed eccellenti persocora, precise, coll’ajuto, et accompagnamento dell’ornalità a emergere per ricchezza e bravura, stimogano, che noi fin dall’anno passato le abbiamo
lando il dinamismo dell’intero ambiente. Anche il
permesso nel coro interiore della Clausura, al di cui
lessico relativo alle monache musiciste, riscontrabile
suono si sono alcune parimenti adattate, e tuttavia si
sulle partiture o sul Libro dei morti, muta dal Sette
vanno approfittando colla buona occasione di avere
all’Ottocento: prima ‘cantora’, ‘organista’ o ‘virtuosa
una sola Donzella portata dal secolo la virtù di saperlo
accademica’, dopo solo ‘maestra di cappella ‘.
tasteggiare”.
L’Ufficio Corale, impegno costante nella vita di ogni
La vita musicale di San Lorenzo appare costante per
comunità benedettina femminile, è di certo pratipiù di un secolo, ma le basi - autorevoli - per un’effetcato anche a San Lorenzo, come si evince dalle testitiva tradizione si gettano nel quarantennio precemonianze che alludono al ‘Canto Semplice e
dente la Rivoluzione partenopea
Gregoriano’ e ai ‘Divini Officii’. Nel ‘venerabile monaL’aristocratico vescovo Mollo, pastore della diocesi di
stero’ i ritmi della vita liturgica (ordinaria o solenne),
San Severo tra il 1739 ed il ‘61, nel passo richiamato
devozionale e finanche burocratica sono scanditi dal
(1741), dopo aver ricordato di aver personalmente
‘canto piano’.
autorizzato un organo in San Lorenzo, loda le capaLe reverende monache, che di sicuro confidano nella
cità delle claustrali nel suonare questo strumento. Le
memoria per preservare e tramandare il repertorio
‘abili’ religiose “tuttavia si vanno approfittando colla
‘gregoriano’, si avvalgono anche dello spazio bianco
buona occasione di avere una sola Donzella portata
presente sulle carte di talune partiture per appundal secolo la virtù di saperlo tasteggiare”. Di ‘collabotare melodie di canto fermo. In queste sedi casuali
razioni’ simili non restano tracce posteriori: le siutilizzano il pentagramma e spesso il basso, oltre ad
gnore monache non ricorrono a musicisti esterni per
una sorta di ‘canto fratto’ rudimentale. Da questi dati
le esecuzioni, o, almeno, evitano di registrarne i panon emerge un’istruzione profonda nel campo della
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SCOPERTE
monodia cristiana che regga il confronto con la solida formazione tecnica ― vocale e strumentale ―
richiesta dal patrimonio musicale ‘in stile moderno’
posseduto. Tuttavia l’apprendimento stesso della
teoria musicale, del canto figurato, del basso continuo, delle tecniche strumentali si costruisce a partire
dalla consuetudine del canto ecclesiastico praticato
nel coro conventuale. Esso è poi la base unica su cui
fondare una sicura esecuzione di forme polifoniche,
polivocali, corali, costantemente presenti nella vita
musicale delle Benedettine di San Lorenzo.
I libri corali in canto fermo rinvenuti nel fondo sono
solo cinque, a fronte dei ben 757 manoscritti di musica sette-ottocentesca. I codici liturgici sono tutti
manoscritti e probabilmente erano usati dal clero
che presiedeva le celebrazioni, spesso canonici della
Cattedrale. Più interessante ai nostri fini è un Graduale del 1789, esplicitamente ‘ad usum Cathedralis’,
dedicato dal canonico Filippo Maria Fantasia al vescovo Giuseppe Farao. L’elegante e corposo codice
(277 carte) in notazione quadrata su cinque linee
rosse contiene anche un’originale storia della musica
liturgica ed indicazioni di espressione ed esecuzione
musicale, tra le quali: “La nota con due code vale due
sospiri, l’altra con una coda sola vale un sospiro e
mezzo, la nota quadrata senza coda un sospiro, e
quella di figura romboidale vale mezzo sospiro”.
Il concetto dei ‘sospiri’, adattato al solfeggio moderno e alla notazione tonda, si trova in appunti presenti in calce a una partitura delle monache:
“Semiminima: un sospiro / Croma: 2 a sospiro / Semicroma: 4 a sospiro / Biscroma: 8 a sospiro”.
La coincidenza, interessante anche per la storia della
teoria musicale, ci induce a ipotizzare che questo codice liturgico, per via diretta o indiretta, fosse a disposizione delle Benedettine.
Ogni momento sacro, ogni gesto di fede è occasione
quotidiana di musica a San Lorenzo. L’osservanza regolare, la devozione, le occasioni solenni, nel solco
del cattolicesimo meridionale preunitario, si intrecciano continuamente: il repertorio strettamente liturgico si sovrappone a quello para- o
extra-liturgico, e tra ogni forma non c’è confine ben
definito. L’attività musicale del monastero di San Lorenzo si conferma intimamente correlata a tempi e
modi della religione cittadina: il profilo culturale del
territorio è lo stesso del monastero. Le ‘Canzoncine
sopra la via Crucis’ attribuite erroneamente a Pietro
Metastasio e intonate da Giacomo Insanguine sono
possedute dalle monache musiciste di San Lorenzo: i
medesimi testi, su melodie differenti, si cantano ancora oggi, a San Severo, in alcune stazioni della Via
Crucis, ed è plausibile che questa tradizione risalga
ai secoli d’oro del monastero. Le figlie dell’emergente patriziato cittadino, nonostante la reclusione,
vivevano attivamente tutti i tempi della devozione,
in primis quelli di Quaresima e Natale ai quali non
per caso si collega buona parte del fondo musicale.
Nel Mezzogiorno moderno le occasioni di pietà si
susseguono numerose durante l’anno, e così le processioni, che a San Severo lambiscono fisicamente le
possenti mura delle Benedettine. Le claustrali, dunque, anche in questo modo e malgrado le grate, partecipano al teatro della fede.
Il 1799 è guerra civile per la città di San Severo, e
per le Benedettine una ferita profonda. Il monastero
è spogliato del suo tesoro di argenti e suppellettili e
salva miracolosamente il proprio fondo musicale. Un
giacimento rarissimo per la sua omogeneità nel panorama italiano e consistente in un migliaio di partiture comprese tra il 1724 e il 1864. Pur ai margini
del Reame di Napoli, le figlie monacate del notabilato locale si distinguono per un consumo musicale
aggiornato alle opere dei più noti maestri della capitale, tendendo, nel Settecento, a privilegiare anche
per gli usi liturgici le pagine drammatiche, il virtuosismo, il linguaggio teatrale, gli stili, le forme e gli organici à la page, e, nell’Ottocento, accostando con
disinvoltura pagine compunte a canzoni napoletane
e trascrizioni dal melodramma contemporaneo.
La musica contemporanea italiana e qualche pagina
straniera raggiungono le monache musiciste, ma ridotte o trascritte, mentre i maestri locali, che circondano l’hortus conclusus della clausura benedettina,
si distinguono più per l’abbondanza delle opere
(sintomo interessante di larghi consumi) che per una
speciale originalità.
*Annamaria Bonsante, con roberto Matteo Pasquandrea, ha curato il volume: ‘celesti Sirene. Musica e Monachesimo dal Medioevo all’Ottocento’.
Atti del Seminario internazionale (San Severo 7-9
marzo 2008). claudio Grenzi editore, Foggia 2010.
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LETTO SULLA STAMPA
Ascoltare la lezione della musica
nell’Ungheria populista e antiebraica
La musica - ci ha ricordato il Maestro israeliano
Omer Meir Wellber in una bellissima lezione tenuta
al Jewish and the City Festival di Milano - ha bisogno di qualcuno che la componga, di qualcuno che
la esegua, e di qualcuno che la ascolti. Se manca
uno di questi tre ‘attori’ la musica è niente, non è.
Ecco perché auguro il maggior successo possibile a
un altro noto direttore d’orchestra, l’ungherese Iván
Fischer, che ha composto e appena messo in scena
a Budapest l’opera lirica ‘La giovenca rossa’, schietta
denuncia della deriva populista, intollerante, razzista e antiebraica in atto nel suo Paese (e in una discreta fetta d’Europa). Che musica sia, dunque.
Fischer l’ha composta, gli orchestrali l’hanno suonata e i cantanti cantata, ma il pubblico, soprattutto
gli uomini del potere, l’avranno ascoltata?
Riferimenti ritmici klezmer, rap e mozartiani, narrano un pogrom scatenatosi in Ungheria nel 1882
con la solita accusa del sangue (gli ebrei avrebbero
ucciso una giovane contadina). Così la ‘prima’ dell’opera si trasforma in un colossale j’accuse contro il
governo di Viktor Orban oltre che, naturalmente, in
un dito puntato contro la società che alle ultime
elezioni ha dato quasi il 20 per cento al partito neonazista Jobbik. Iván Fischer, già direttore principale
della Washington National Symphony Orchestra,
dice di credere fermamente nella “responsabilità
della cultura riguardo a ciò che accade ogni giorno”.
E in Ungheria non è l’unico ad avere ancora una visione critica e attiva del ruolo dell’intellettuale. Lui,
ebreo, si sente a disagio, tuttavia continua a dedicarsi alla Budapest Festival Orchestra anche se ha
fatto trasferire la famiglia a Berlino. Sembra di tornare indietro, che la Storia si ripeta. Giorno dopo
giorno, caso dopo caso. Il famosissimo pianista András Schiff giura che non metterà mai più piede
nella sua amata patria finché al governo ci sarà
Orban; il popolare attore e regista Róbert Alföldi
viene prima rimosso da direttore del Teatro Nazionale perché non è allineato e poi messo in ridicolo
per la sua omosessualità. Che brutta musica.
Stefano Jesurum
(corriere della
Sera, 22 ottobre 2013)
La leader delle Pussy riot trasferita
in un campo di lavoro in Siberia
L’annuncio del marito Pyotr Verzilov con un post su
Twitter. Nadezhda Tolokonnikova aveva ottenuto il
trasferimento due settimane fa, ma poi di lei si
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erano perse le tracce.Un lunghissimo viaggio da una
prigione all’altra, attraverso l’immensa Russia, cominciato quasi due settimane fa e ancora non terminato. Meta finale, probabilmente, la Siberia
Orientale: è ancora giallo su Nadezhda Tolokonnikova, più nota come Nadia, la leader carismatica
delle Pussy Riot imprigionata per due anni per una
preghiera anti Putin eseguita nella Cattedrale di
Mosca nel febbraio 2012, di cui si sono «perse le
tracce» dal 21 ottobre quando è stata trasferita dalla
prigione in Mordovia (600 km a est di Mosca) dove si
trovava da 14 mesi, verso una destinazione ignota.
La giovane, che giovedì prossimo compirà 24 anni, è
«in corso di trasferimento» verso un campo di lavoro
nella gelida Siberia, più precisamente a Nizhni Ingash, nella colonia n.5, regione di Krasnoiarsk, 4400
chilometri da Mosca lungo la ferrovia Transiberiana,
ha annunciato oggi via twitter il marito Piotr Verzilov, citando anonime «fonti penitenziarie». Proprio
lui ne aveva denunciato per primo la «scomparsa»,
insospettito dalla mancanza di notizie. Ma invece di
una pena più umana, secondo Verzilov, Nadia andrebbe incontro a «un esilio», una «punizione» dovuta alla lettera che la donna scrisse per chiedere il
trasferimento in un altro carcere, denunciando le
pessime condizioni di detenzione nelle prigioni
russe. Lettera in cui Nadia parlava anche di minacce
di morte nel penitenziario di Mordovia dove stava
scontando la sua pena, contro le quali aveva lanciato un lungo sciopero della fame seguito dal ricovero in ospedale: «Festeggerà il suo compleanno in
una cella di isolamento», conclude amaro il coniuge.
( esteri, La Stampa, 7 novembre 2013)
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libri
Bussotti senza confini
Dall'editore Bietti, giunge 'Un male incontenibile.
Sylvano Bussotti, artista senza confini' ( Pagg.617.
Euro 25.00) volume di Luigi Esposito, artista multiforme come il suo maestro ed amico Bussotti. E’ una
ricca biografia di Bussotti, confezionata attraverso
scritti del biografato ed interviste a persone che l'hanno conosciuto, che hanno lavorato con lui, oltre
che a lui medesimo. Una mole di materiale che non
tralascia nulla fra scritti, immagini, performances che
hanno costituito la partitura, tuttora incompleta,
della sua vita e professione. Tutti coloro che lo
hanno avvicinato, proprio tutti, sono stati interpellati
nel corso dei quasi dieci anni che ci sono voluti per
licenziare questa approfondita ricerca; ed anche taluni che non c’entravano affatto. C'è, però, un settore
della multiforme attività di Bussotti messo in ombra,
quello di diarista acuto e sferzante, esercitato per
anni. Interventi di varia età, lunghezza dalla prosa
coinvolgente, liquidati con una sola riga delle oltre
600 pagine. Ci riferiamo alla sua rubrica 'La pagina
di Sylvano Busotti' che per sei anni, negli anni Ottanta, senza mancare mai un numero, nonostante
fossero per lui anni di impegni internazionali, il musicista tenne sul mensile 'Piano Time'. Si tratta di una
sessantina di articoli, ai quali vanno aggiunte anche
interviste (ed anche una autointervista: 'Bussotti intervista Bussotti', inviata manoscritta alla redazione,
con inchiostro bicolore per le domande/risposte); recensioni ( L'ispirazione, vista a Firenze, con la regia di
Derek Jarman); e omaggi, come in occasione della
pubblicazione sulla rivista di 'Versione dal francese'
per pianoforte, accompagnata da scritti di Gustavo
Malvezzi, Mauro Castellano e di Bussoti, nel 1984. La
collaborazione stabile alla rivista cominciò subito
dopo, con la sua prima 'Lettera da Genazzano' nella
quale egli rivelava il progetto della sua 'Scuola Spettacolo' che voleva far sorgere sulle colline della cittadina laziale, riedizione bussottiana della Bayreuth
wagneriana, il 'BussottiOperaBallet'. In quelle pagine,
tante davvero, al punto che con la semplice raccolta
si potrebbe allestire un ricco volume, si esprimeva
anche l'altro ramo di attività di Bussotti, quella di disegnatore, grafico, pittore. I suoi articoli giungevano
talvolta in forma di pagina conclusa con collage e
testi da riprodurre manoscritti, con la preghiera di
non cambiare nulla. Dunque un piccolo prezioso tesoro. Nel volume di Esposito tale attività, unica per
ricchezza ed assiduità, viene così riassunta: "Sempre
negli anni Ottanta, Bussotti collaborò con le riviste
Discoteca, Musica/Realtà e Piano Time e i suoi interventi erano molto seguiti, da giovani compositori e
musicisti e da colleghi già affermati"( pag. 216).
Falso. Bussotti dal 1984 al principio del 1990, non
scrisse nessun articolo né per Discoteca ( che forse
aveva già cessato le pubblicazioni) né per
Musica/Realtà. Allora perché liquidarla in due righe?
(P.A.)
rota. il catalogo è questo
L’archivio di Nino Rota (1911-1979), presso la Fondazione Cini di Venezia, è stato catalogato per Olschki
( Catalogo critico. Pagg. 103. Euro 15,00) dal suo curatore e custode , oltre che parente del musicista,
Francesco Lombardi. Annunciato come ‘primo’, e
‘critico’ delle composizioni di Rota, tocca i settori
della musica sinfonica, da camera e per il teatro - lasciando quindi volontariamente fuori la musica da
film, per la quale Rota è soprattutto noto a tutti, facendo torto al Rota non cinematografico, che resta
musicista di grande valore. In questo catalogo mancano le opere incompiute – la gran parte delle quali
appartengono all’età ‘infantile’ di Rota, e le trascrizioni che rappresentavano il pane quotidiano per gli
studenti di composizione di Rosario Scalero, in
America. Sono inclusi , invece, quelle opere andate
smarrite ma di cui si ha traccia certa di almeno una
esecuzione. Nei poco più di cento numeri d’opera,
ordinati per genere all’inizio del catalogo e poi nel
corso del medesimo, in ordine progressivo, non
trova soluzione un enigma che proprio nelle passate settimane s’è presentato a proposito di una sua
celebre opera: Mysterium Catholicum, poi solo Mysterium. Intitolato sulla partitura originale ‘oratorio
per solisti, coro e orchestra’ e , nel catalogo, con il
sottotitolo di ‘Cantata’ per quattro voci soliste coro e
orchestra, va considerato oratorio o cantata? Forse
il curatore del catalogo avrebbe dovuto accennare
se non adidiruttura dirimere la questione. Ed invece
non l’ha fatto. Come non s’è curato, in altri casi, che
noi consociamo direttamente, riguardanti tre composizioni sacre di Rota ( Unum panem frangimus da
Mysterium, trascrizione per coro a voci pari e organo; Inno del Seminario pontifico della Quercia; Tu
es Petrus, mottetto per coro a voci pari e organo) di
andare alla radice del problema della loro destinazione. A proposito della quale, nelle note - chiarificatrici?- del catalogo, si cita espressamente il
committente ma si sbaglia su parecchie altre cose.
Chi redige un catalogo, e conosce il committente (
del quale c’è lettera manoscritta fra la corrispondenza di Rota, consultabile nell’archivio veneziano),
è tenuto ad interpellarlo per non incorrere in inesattezze. Naturalmente vogliamo pensare che le inesattezze siano circoscritte a quelle pochissime che noi
abbiamo individuato e che per tutto il resto del catalogo - dal n.1 ( Il mago doppio, suite per pianoforte
a quattro mani) inedito del 1920, quando Rota era
proprio un bambino, al n. 187 ( Canzoni Dodicesima
notte) del 1979 - ciò che si legge sia vangelo (P.A.)
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Teatro La Fenice. Madama Butterfly: allestimento di Mariko Mori
Produttività, Bilanci, cachet, cartelloni, Organici. ed anche Futuro
Per una navigazione in
sicurezza, evitando
secche e scogli
di cristiano chiarot
Al Sovrintendente del Teatro La Fenice, la fondazione lirica segnalata per buona amministrazione,
alta produttività e cartelloni di bella fattura, abbiamo girato cinque parole chiave sulle quali ragionare a voce alta, anche a nome delle altre fondazioni liriche italiane. E il Sovrintendente, che ringraziamo, ha accettato.
P
roduttività
Per raggiungere buoni risultati, la prima cosa che
una Fondazione lirica non deve fare è navigare a
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vista: anche in momenti di crisi come questo
bisogna puntare a una progettualità pluriennale, da
tenere sempre presente nello sviluppo e nella programmazione. Non si può pensare di superare le
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CONTROCOPERTINA
secche lavorando giorno per giorno, mese per mese,
semestre per semestre. Bisogna avere chiari gli
obiettivi finali, tenendo conto delle disponibilità
economiche: in questo momento la cosa più importante per la Fondazioni liriche è avere i conti a posto.
Solo così è possibile mantenere quell’equilibrio che
consente al Teatro di produrre. Come esempi eclatanti hanno messo in evidenza, non sono più i tempi
in cui poter registrare forti disavanzi, per poi ripianarli in seguito o magari spalmarli negli anni. Si deve
tracciare una rotta lunga e lungimirante, e poi –
come avviene nella navigazione – se arrivano tempeste impreviste modificarla, ma sapendo sempre
dove si vuole arrivare. L’obiettivo è rendere i nostri
teatri aziende di carattere culturale che producono.
Se manca un progetto complessivo, è chiaro che
ogni nuovo allestimento risulta prima di tutto un
costo. Ma se, invece, ogni nuova produzione rientra
in una logica industriale ben precisa - ad esempio riproponendola nell’arco di cinque, sei anni - allora
essa diviene un investimento che assicura continuità
e riduce drasticamente le spese. Questa è la strada
da noi intrapresa per segnare una frattura netta con
il passato, potendo contare su spettacoli di proprietà
della Fenice, ripresi nel corso di sette, otto anni, inseriti organicamente nella programmazione. L’esempio
più emblematico è quello della ‘Traviata’ allestita da
Robert Carsen, di cui proprio nel 2014 festeggiamo
il decennale e le cento recite: portata in tutto il
mondo, continua a essere apprezzata. Non è più
possibile produrre allestimenti costosi e lasciarli
marcire in magazzino: ciascuno di essi deve al contrario avere un’esistenza pluriennale, dev’essere ripreso e visto da sempre nuovi spettatori. Questo
non significa assolutamente trasformare le Fondazioni liriche in teatri di repertorio - sono in profondo
disaccordo con chi lo sostiene. È, invece, una strategia che risponde a un chiaro progetto culturale, e
che prevede la creazione di un serbatoio di titoli
adatti alla morfologia del teatro, stabilendo collaborazioni proficue con realtà simili alla nostra, per contare su spettacoli compatibili con la struttura che
possediamo (perché alle volte è più dispendioso
adattare gli allestimenti alle nostre esigenze che crearne di nuovi). Quest’impostazione permette di risparmiare in molte direzioni, non ultima quella
relativa all’ottimizzazione dei periodi dedicati alle
prove, che si riducono e consentono di indirizzare le
masse artistiche e tecniche anche verso altre attività.
Ovviamente non intendo con questo affermare che
sia giusto applicare alla lirica, che è una forma d’arte
basata sullo spettacolo dal vivo, le regole di un’industria manifatturiera. Però credo che alcune di queste
regole possano funzionare bene anche nel nostro
campo. Produttività significa – ripeto – anche e soprattutto avere un progetto artistico e culturale, cui
non si può naturalmente mai derogare, e all’interno
di esso scadenzare le nuove produzioni e inserire
quelle precedenti. Senza mai dimenticare un arco
temporale di proposta musicale che non può che
andare dalla fine del Seicento ai giorni nostri. Da
tutto questo deriva la scelta della Fenice, operata
con il pieno accordo e responsabilità del Direttore
Artistico Fortunato Ortombina di presentare anche
17, 18 titoli a stagione, dove, accanto a molti titoli di
repertorio e ad allestimenti di nostra proprietà vengono programmati lavori contemporanei, capolavori
dimenticati del passato, come anche opere meno
conosciute.
Bilanci
Indubbiamente la mancanza di un impegno pluriennale da parte dello Stato a corrispondere i contributi
pubblici alle Fondazioni liriche costituisce un grosso
impedimento nel programmare compiutamente la
gestione. Tuttavia spazi ce ne sono e vanno colmati
con grande attenzione. Si pensi alla programmazione artistica, al contenimento dei costi nella continua ricerca di economie di gestione e al fund raising,
ricordando sempre che un piano non è una estrapolazione del passato, né tanto meno una mera previsione di quello che accadrà, ma è invece un insieme
di obiettivi da perseguire per l'azienda culturale.
Quanto ai bilanci delle Fondazioni, costruiti sul modello delle aziende private, valgono le regole che
presiedono la loro formazione, regole dettate da
sani principi contabili. Difficile generalizzare sui bilanci concreti delle Fondazioni. Occorre conoscere le
varie situazioni. Vi possono essere condizioni oggettive che portano un esercizio in perdita. Talvolta
possono giocare in questo senso politiche di bilancio ma sempre entro i margini che i principi contabili
consentono. Credo che ci debba essere il massimo
rispetto per quelli che sono venuti prima di noi.
Questo fa parte dell’onestà intellettuale di coloro
che prendono in mano un Teatro a metà percorso.
Per me è stato per certi aspetti più semplice, perché
sono stato nominato Sovrintendente alla fine di un
bilancio e ho potuto intraprendere un nuovo percorso dal principio. Si tratta di questioni delicate da
affrontare caso per caso. Però ribadisco che i numeri
hanno un proprio significato e vanno analizzati da
varie angolature. Se poi i bilanci vengono certificati
dal Collegio dei Revisori dei Conti, una loro serietà
non possono non averla.
cachet
Esiste un ‘cachettario’ comunicatoci dal Ministero dei
Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e al quale
tutti i Teatri devono attenersi. Per fare un paragone
tra la situazione italiana e quella europea occorre sapere che in Germania, ad esempio, esistono dei contratti misti, che prendono in considerazione la
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CONTROCOPERTINA
Teatro La Fenice. Concerto di capodanno 2013
singola recita ma anche un periodo prolungato di lavoro: a una minore retribuzione per ciascuna apparizione corrisponde la sicurezza di un ingaggio
dilatato nel tempo. In Francia i cachet, recita per recita, non sono inferiori ai nostri. Ma il nostro problema è che, nel fare i contratti, non possiamo
stipulare accordi biennali o triennali, e dunque stabilire con largo anticipo qual è l’ammontare del cachet
che spetta agli artisti. Purtroppo possiamo elaborare
piani e definire contratti solo nell’arco temporale di
un anno. Quanto alla Fenice, il nostro Consiglio di
Amministrazione ci permette di stabilire degli accordi all’interno di una cifra certa e sicura, e questo
ci dà la possibilità di contrattare con largo anticipo
gli artisti che vogliamo in cartellone. Ma è soprattutto il nostro modello di programmazione – cui accennavo poco prima – che, alternando titoli nuovi e
riprese (e conseguentemente elevando il numero
delle rappresentazioni), ci consente di assicurare agli
artisti un buon numero di recite durante una stessa
stagione. Su queste basi possiamo contrattare con
loro dei cachet più bassi, perché l’impegno lavorativo è maggiore e continuativo. Questo si dovrebbe
fare in tutti i teatri. Ma per farlo – lo ripeto – bisogna
contare su un numero adeguato di alzate di sipario.
cartelloni
In una progettualità artistico-musicale pluriennale
che prevede un cartellone di 17, 18 titoli operistici,
cui si affianca una stagione sinfonica con circa cinquanta concerti, una di balletto, un festival, le atti-
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vità riservate ai giovani e molte altre iniziative, assieme al direttore artistico Fortunato Ortombina abbiamo individuato diversi filoni di carattere culturale
intorno ai quali costruire la programmazione, ed
anche una tipologia di pubblico cui fare riferimento.
Questo è indispensabile, perché è impossibile definire un cartellone senza pensare anche agli spettatori. Ma se da una parte riteniamo giusto
assecondare le aspettative del nostro pubblico,
dall’altra vogliamo anche indirizzarlo verso strade
diverse. Perciò, all’interno di un disegno complessivo, cerchiamo di inserire anche proposte nuove, sia
nei titoli che per gli allestimenti di opere di repertorio, dove non puntiamo tanto alla cosiddetta attualizzazione, spesso estetizzante e fine a se stessa,
quanto a rendere ‘contemporaneo’, e cioè comprensibile allo spettatore d’oggi, il messaggio che esse
veicolano. Ogni cartellone deve avere la sua personalità e, d’altro canto, deve sottostare a delle regole
– economiche e di marketing – che permettano di
riempire i teatri. Per questo quando facciamo delle
scelte innovative curiamo molto la comunicazione,
che significa non tanto il comparire sui media
quanto piuttosto fornire agli abbonati e ai nostri potenziali spettatori tutte le chiavi di lettura per poter
apprezzare un titolo meno noto o l’allestimento inedito di un’opera conosciuta. E questo avviene attraverso una molteplicità di strumenti: il sito internet
del Teatro, che prevede anche la possibilità di collegarsi con l’archivio storico, le numerose attività dedicate alla scuola, su cui investiamo molto, libretti di
sala, conferenze e tavole rotonde che organizziamo
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CONTROCOPERTINA
con regolarità, approfondimento – web e cartaceo,
attraverso la rivista ‘VeneziaMusica e dintorni’.
Organici
Il Decreto ‘Valore Cultura’ contro il quale c’è stata
una sollevazione quasi generale, non crea problemi
agli organici. Impone ai Teatri in difficoltà di dichiarare lo stato di crisi, per accedere a un fondo straordinario messo a disposizione dal Ministero per
risolvere i loro problemi di carattere finanziario. Per
fare questo devono impegnarsi a eliminare la parte
variabile del salario – vale a dire il contratto ‘integrativo’ – e diminuire quote di lavoratori, che verranno
assunti da una società del Ministero dei Beni e delle
Attività Culturali e del Turismo, la ALES Spa. Per cui
viene, comunque, garantito a tutti i lavoratori il
posto di lavoro a tempo indeterminato. Prima però
di fare una riflessione complessiva su questo argomento, premetto che secondo me il sistema della lirica in Italia va comunque salvaguardato, il che
significa che nessun teatro deve essere chiuso. Questo non vuol dire che non ci sia la necessità di una
profonda razionalizzazione delle risorse e dell’organizzazione. Bisogna guardare a quei teatri che riescono a essere produttivi con un numero adeguato
di lavoratori, tenendo conto che il costo del lavoro
pesa per il 65 % nell’ambito della suddivisione del
FUS. Dunque su questi aspetti è necessario ragionare e intervenire.
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Per un Futuro
In primo luogo la sicurezza dei finanziamenti, che
dovrebbero essere garantiti almeno per un triennio,
per razionalizzare tutti gli investimenti che i teatri
sono costretti a fare, per stare alla pari nel sistema
globale di produzione che caratterizza i teatri europei e internazionali. Non si possono ipotizzare paragoni con quanto avviene all’estero, se non vengono
date alle istituzioni italiane gli stessi strumenti per
operare. Come si può pretendere che le realtà italiane funzionino allo stesso livello di quelle straniere
se le prime sono penalizzate dal punto di vista economico e giuridico? Sono confronti che non stanno
né in cielo né in terra.
In secondo luogo, è auspicabile una sempre maggiore collaborazione fra teatri, in particolare per il
balletto, perché in quest’ambito c’è molto da fare; in
Italia la danza è piuttosto trascurata, a fronte di una
richiesta crescente del pubblico.
Più in generale, però vorrei fare alcune considerazioni sul ruolo dello Stato. Non si può affermare che
fino ad ora siano mancati i fondi pubblici, anche se
spesso elargiti in maniera disordinata e senza assicurare la necessaria sicurezza ai Teatri. Va anche detto,
per inciso, che questo sforzo da parte dello Stato le
Fondazioni lirico-sinfoniche se lo sono conquistate
anche attraverso azioni forti e a costo di tensioni. E’
utile, per esempio, ricordare l’appello di Riccardo
Muti di qualche anno fa: è stato fondamentale per
far ripensare il governo su certi atteggiamenti che
tutti noi ritenevamo sbagliati. Ma, a fronte di tutto
ciò, penso che lo Stato debba essere più propositivo,
e costringere i Teatri a lavorare: se si chiede agli insegnanti – per usare un paragone un po’ improprio –
di garantire un tot di ore di docenza, perchè non si
può pretendere da ciascuna Fondazione numeri
precisi sulla sua produttività? In base alle risorse
concesse ed ai dipendenti su cui contare, ogni realtà
teatrale dovrebbe garantire un preciso numero di
recite, non in astratto, bensì pensando sempre al
proprio pubblico, perché compito di un’azienda culturale come la nostra è anche svolgere un’attività di
carattere sociale. E, dopo più di trent’anni che lavoro
in questo mondo, mi posso permettere di dire che il
vero evento – questa parola così di moda – non si
realizza con il singolo, isolato spettacolo, anche se
straordinario, ma quando un Teatro riesce a portare
migliaia di persone a vedere i propri spettacoli. È
questo il vero evento, perché solo in questo modo si
risponde alla propria missione e al proprio ruolo,
contribuendo all’accrescimento culturale della propria città, del proprio Paese e si offre un valido prodotto culturale ai turisti. In sostanza, il nostro
compito è tenere i conti in attivo, aumentare i ricavi
della biglietteria e dunque gli spettatori e soprattutto – per concludere con una battuta – non fare i
bilanci con le ‘rassegne stampa’.@
Il sindaco di Venezia, Orsoni, con il sovrintendente della Fenice, Chiarot
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ARIA DEL CATALOGO
L'OMBrA di BANcOMAT
I
l Consiglio Europeo ha, finalmente, emanato un
documento utile, l'abolizione delle regie d'opera in
tutti i teatri dell'unione specie dopo la trovata di un
regista spagnolo dove, ne ‘La traviata’, Violetta, invece di defungere, fugge sulle Dolomiti, portandosi
dietro la sua amichetta Annina. Falstaff, invece, è ricoverato nella Casa di riposo ‘Verdi’ di Milano, sdraiato su un divano ikea, dove soprani e baritone
girano pensando ai bei tempi quando il Duca di
Mantova intonava questa o quella, e non entrava in
scena come un ministro dell'interno fissando, incerto, due cesti di lattuga. Ha indignato non poco il
veterano Placido Domingo nel suo ultimo contestato ruolo, come Liù , nella ‘Turandot’ di Puccini. Ha
allarmato la Merkel, l'ambientazione di un ‘Fidelio’ in
un carcere del Bronx, dove il protagonista porta una
grande parrucca bionda, una borsetta, tempestata
di perline e tacchi da capogiro. Ma esempi di questo
tenore sono infiniti. A farne le spese il bicentenario
Verdi-Wagner quando i due compositori sono stati
rivisitati da registi in vena d'aggiornamenti, ma dobbiamo dirlo con onestà, non è passato il progetto,
che proponeva un ‘Rienzi’ come sindaco di Firenze e
neppure una’ Bohème’ in discoteca con Domingo nel
ruolo di Musetta.
Pare che il presidente Barroso abbia apertamente
disapprovato un ‘Macbeth’ dove la Lady in calzamaglia cantava: ‘or tutti sorgete ministri infernali’ con
un telefonino di ultima degenerazione e dove, con
aperte allusioni ai consessi di Bruxelles, si continuava pervicacemente con la ‘pubblicità progresso’
inserendo, dopo arie e cabalette, le salviette salva
odore e gli aromi del dado sparafucile per non dire
di un siparietto dove cala, su Berlino, l'ombra di bancomat. Ma, dicono, la pubblicità salverà l'opera lirica
perché in questo immondo tutto è spot e rete, abbondano i canali, premono i caroselli mentre i com50
positori contemporanei, stanchi d'esser presi a sberleffi, lasciano la dodecafonia per tornare al sistema
tonale e al baricco. Si snelliscono i programmi mentre i cartelloni anoressici puntano sui pochi divi sopravvissuti decisi a cantar tutto, anche la rificolona.
Già l'arena di Verona è invasa da zeri e doppizeri, da
giovanotti e vecchioni, mentre alla scala si pensa al
futuro. Messi da parte Verdi e Wagner, archiviati Bellini e Rossini, si profila un futuro fitto di balletti e belletti, un pop alla deriva dove navigano tenori e
soprane con voci di cornacchie.
.
Leporello
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