La pratica della critica nel giornalismo culturale

Università della Svizzera Italiana
Facoltà di Scienze della comunicazione
Lugano
La pratica della critica nel
giornalismo culturale
Le argomentazioni avanzate dai critici in
ambito musicale
Memoria di licenza
di
Matteo Capobianco
Matr. Nr. 00-980-045
Relatrice: Prof.sa Francesca Rigotti
Anno Accademico 2004-2005
Matteo Capobianco
Università della Svizzera italiana
La pratica della critica nel giornalismo culturale
Sommario
SOMMARIO
0. Premessa.........................................................................................................................................4
1. Introduzione ...................................................................................................................................5
Parte prima .........................................................................................................................................8
2. Le immagini della critica ...............................................................................................................8
3. La critica letteraria .......................................................................................................................11
3.1 Le correnti della critica letteraria ...........................................................................................11
3.1.1 La critica storicistica ed estetica .....................................................................................11
3.1.2 La critica sociologica ......................................................................................................13
3.1.3 La critica psicoanalitica ..................................................................................................14
3.1.4 La critica stilistica ...........................................................................................................15
3.1.5 La critica formalista, strutturalista e semiotica ...............................................................17
3.2 Questioni di narrativa.............................................................................................................20
4. La critica cinematografica............................................................................................................22
4.1 La sceneggiatura.....................................................................................................................23
4.2 La ripresa................................................................................................................................25
4.3 Il montaggio ...........................................................................................................................28
4.4 L’interpretazione dell’opera cinematografica ........................................................................31
5. La critica musicale .......................................................................................................................32
5.1 La definizione di genere musicale..........................................................................................34
5.2 Qualche rilievo sulla struttura musicale.................................................................................36
5.3 Quanto è importante il testo ...................................................................................................39
5.4 La produzione musicale .........................................................................................................41
5.5 Giudizi di valore.....................................................................................................................42
6. Cosa può fare la critica.................................................................................................................46
Parte seconda....................................................................................................................................51
7. Retorica e teoria dell’argomentazione .........................................................................................51
7.1 Le vie della retorica................................................................................................................51
7.2 La moderna teoria dell’argomentazione.................................................................................53
7.3 Gli errori di ragionamento......................................................................................................57
7.3.1 Le fallacie........................................................................................................................58
7.3.2 La tassonomia classica ....................................................................................................59
7.3.3 La classificazione di Copi e Cohen.................................................................................61
7.3.4 La para-argomentazione..................................................................................................63
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Sommario
7.3.5 Alcuni stratagemmi di Schopenhauer .............................................................................63
8. Il corpo di articoli: analisi ............................................................................................................65
8.1 Visualizzazione grafica dei risultati d’analisi ......................................................................105
9. Conclusioni ................................................................................................................................108
10. Bibliografia ..............................................................................................................................112
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Premessa
0. Premessa
In più di una circostanza, ho avuto l’opportunità di misurarmi con la stesura di una recensione
critica in ambito musicale. Questa inaspettata occasione è divenuta realtà grazie alla comparsa, nel
panorama editoriale ticinese, del mensile denominato re.set. La motivazione profonda che guida
questo studio risiede nella volontà di dotarmi di un ventaglio di strumenti per affrontare la pratica
della critica in maniera più consapevole.
Mi corre l’obbligo di ringraziare l’intera redazione di re.set e in particolare Gabriella Bernasconi,
per il coraggio dimostrato nell’offrire un tale compito ad un neofita come il sottoscritto. Oltre alla
redazione di re.set vorrei ringraziare per i preziosi suggerimenti anche Alessandro Carrera,
Massimo Del Papa, Alessandro Achilli, Beppe Recchia, Gigi Longo, Fabio Barbieri e Nicola
Catalano. Come conclusione a questa breve premessa, vorrei citare un provvidenziale passaggio
scritto da Pier Vincenzo Mengaldo che mi è stato di grande aiuto:
Per tutta la vita mi sono chiesto se la mia ‘vocazione’ non fosse per caso occuparmi a
qualunque titolo di musica anziché di lingua e letteratura, e la risposta è stata sempre
ed è ancora positiva. Non ignoro che questi scarti fra ‘mestiere’ e ‘vocazione’ sono
installati in moltissimi, forse in quasi tutti: ma il ‘tutti’, se da una parte ci contiene e ci
rassicura, dall’altra è precisamente ciò da cui, come individui, ci opponiamo. Io so
che quando sento le suites per violoncello di Bach o le Nozze di Figaro, l’ultima
sonata per pianoforte di Schubert o il Tristano, la voce di Elisabeth Schwarzkopf,
provo un’emozione che nessun testo letterario mi può dare, neppure quelli, credo, che
amo di più, dei grandi narratori russi da Puškin a Čechov. E vorrei dire, a chi non
frequenta abbastanza la musica e quindi non sa tracciare reticoli a partire da essa, ma
solo emozionarsi, vorrei dire che non si tratta per me di un’emozione puramente
‘viscerale’, come sarebbe per il fatto, verissimo, che alla musica spetta più che alle
altre arti il privilegio di avvicinarci alle sorgenti della vita, di esprimere recta via
l’Es; si tratta di un’emozione insieme viscerale e ‘culturale’. Se non fossi un dilettante
mi piacerebbe riprendere una discussione quasi all’arma bianca che ebbi col mio
Grande Amico Franco Fortini, e convincerlo del ruolo che la musica dovrebbe avere
nella paidéia, almeno pari a quello – in Italia scandalosamente ridotto – che hanno le
arti figurative. Perché non si tratta, ohibò, di mera educazione alla ‘bellezza’, ma di
educare al primum di ogni educazione, il corto circuito fra sensi e intelletto, il saper
ricavare (o intuire) un significato da ciò che è anzitutto sensibile. Insomma, se nello
strabiliante primo tempo della sonata citata sopra io credo di intravedere che
Schubert ha trasporto-espresso in puro linguaggio pianistico il grande tema (in senso
non musicale) del viandante, del Wanderer, con tutte le sue implicazioni, posso
pensare che dal piano della pura emozione sono passato a quello culturale e
intellettuale, che poi riscenderà su quello emozionale, arricchendolo.
(Mengaldo, 1999: 205-206).
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Introduzione
1. Introduzione
Oggigiorno si assiste ad un fiorire di testate giornalistiche classiche e virtuali che sempre più si
occupano di recensire criticamente prodotti artistici e culturali di vario genere. Nel panorama
editoriale italiano, in special modo, questo fenomeno non è di certo transitorio, bensì in continua
espansione. È noto quanto anche i giornali o le riviste siano prodotti commerciali che sottostanno
alla severa legge della domanda e dell’offerta, secondo la quale un prodotto si vende solo se esiste
un acquirente pronto a pagarne il prezzo. Da questa affermazione si può dedurre che esista un
pubblico fruitore di tali prodotti culturali, sebbene, date le basse tirature, si tratti sempre comunque
di segmenti di nicchia.
Se poi si pensa anche a quanto peso abbiano oggi le pagine culturali nei quotidiani – nonostante
non vi sia più un luogo d’elezione per il giornalismo critico come la Terza pagina –, ci si accorge
che l’esercizio critico è molto più diffuso di quanto, ad una prima approssimata analisi, si possa
immaginare. Non pochi quotidiani scrivono di libri appena pubblicati, di dischi e di opere
cinematografiche, consci del fatto che il consumo culturale e le gratificazioni che ne conseguono
assumono sempre più rilievo nella nostra società.
Una prima motivazione che guida questo studio risiede nella volontà di offrire un contributo a chi
si accinga (anche per caso) ad affrontare la pratica della critica in ambito letterario,
cinematografico e musicale. Tuttavia rimane intento non secondario contribuire a rendere più
avveduto il lettore di recensioni critiche, nella certezza che sia capitato a molti – sulle ali
entusiastiche di una recensione – di comperare prodotti definiti capolavori e riscoprirli come utili
soprammobili.
L’intenzione di affrontare la disciplina della critica in tre ambiti distinti, risiede soprattutto nella
convinzione che il lavoro critico è tanto più attendibile quanto più è in grado di compiere
un’analisi interdisciplinare. Ritengo che per un critico sia oggi molto importante possedere
conoscenze in più ambiti artistici e culturali, al fine di poter offrire una più ampia analisi
dell’oggetto artistico. Inoltre, tra un romanzo un film e un’opera musicale vi sono alcuni
interessanti punti di contatto, che giustificano ulteriormente una comprensione comune. Se non si
considerano le opere musicali prettamente strumentali, in tutte e tre queste manifestazioni
artistiche si raccontano storie anche se con linguaggi diversi. Per di più nel caso di un’opera
cinematografica vi sono elementi letterari – non solo perché i film prendono spesso spunto da
opere letterarie –, altri prettamente cinematografici e altri ancora musicali. Di fatto un film nasce
dalla scrittura di una sceneggiatura che viene poi tradotta in una sequenza di immagini, la quale in
diversi momenti viene sorretta ed enfatizzata dalla compresenza di elementi musicali.
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Introduzione
Da ultimo non va dimenticato che anche nel mondo del lavoro, come in quello giornalistico, le
capacità interdisciplinari sono un fattore sempre più richiesto e quindi dal valore fortemente
distintivo.
Dal punto di vista metodologico il presente lavoro ha un duplice impianto. Ho infatti diviso
concettualmente la memoria in due sezioni specifiche: la prima di carattere descrittivo prende le
mosse dall’approccio deduttivo; la seconda di natura analitica è più induttiva. La parte deduttiva ha
come problematica generale la comprensione delle dinamiche esistenti fra i concetti che si usano
per descrivere e giudicare un oggetto artistico, sia esso un’opera musicale, letteraria o
cinematografica, e l’oggetto artistico in questione. La parte induttiva si pone invece il proposito di
andare a vedere, seppur in maniera ridotta e parziale, come la pratica della critica si presenta nel
quadro del giornalismo musicale.
Inizialmente, ho preso in esame alcuni approcci teorici, esposti da studiosi ed artisti nel corso del
secolo scorso, in merito alla varie interpretazioni del concetto di critica. In seguito ho esaminato i
metodi della critica letteraria, cinematografica e musicale. Questa prima parte si conclude con un
capitolo che illustra un possibile quadro epistemologico, il quale a sua volta pone una base teorica
su cui si può fondare l’esercizio critico.
Nella seconda parte ho introdotto gli approcci principali della teoria dell’argomentazione, con
successiva focalizzazione delle fallacie. Parlare di critica in ambito giornalistico significa per forza
di cose affrontare la retorica e le sue strategie persuasive. Difatti, ogni articolo (non solo critico) è
fondato su una serie di ragionamenti che ha come obiettivo la persuasione del destinatario, nonché
l’acquisizione di nuove conoscenze. Diversamente, la decisione di scoprire se vi fosse, nella realtà
giornalistica, un ricorso all’uso delle fallacie si riferisce più al modo con cui queste conoscenze
vengono trasmesse al lettore. Infatti, con l’approfondimento delle fallacie ho ricavato una griglia di
analisi argomentativa idealmente sovrapponibile alla pratica giornalistica. Successivamente ho
analizzato una trentina di articoli di critica musicale cercando di evidenziarne le fallacie
argomentative. Come fonte di articoli ho scelto le principali riviste di critica musicale, in ambito
rock-pop, che sono presenti nel panorama editoriale italiano: Rumore, Blow up, Il Mucchio
Selvaggio, Buscadero e Urban. Questo lavoro mantiene come fine ultimo quello di cercar di
comprendere che tipo di relazione esiste fra il giudizio complessivo esposto in un articolo di critica
musicale e il ricorso, volontario o meno, alla manipolazione argomentativa espressa tramite l’uso
delle fallacie.
Nella parte concernente la critica letteraria mi sono avvalso principalmente degli studi proposti da
Cesare Segre e da Maria Corti che ben illustrano la poliedricità dell’attività critica che ha animato
il panorama culturale italiano ed europeo. Nel loro testo I metodi attuali della critica in Italia sono
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Introduzione
presenti saggi dei maggiori esperti di critica letteraria che affrontano la prassi critica da un punto
di vista specifico, relativo al singolo campo di competenza. Inoltre, ho integrato questi approcci
con gli studi sulla narratologia esposti da Grosser.
Con il capitolo relativo alla critica cinematografica ho inteso offrire un’immagine selettiva degli
studi che si occupano del lavoro cinematografico. Ho cercato, grazie agli apporti di Metz, Cerami
e Gola, di esporre i principali momenti della realizzazione del prodotto cinematografico, sia in
riferimento al lavoro che accade dietro la macchina da presa, sia per ciò che viene filmato.
Per quel che riguarda la parte relativa alla critica musicale mi sono riferito quasi unicamente agli
approcci esposti da Franco Fabbri e da Carl Dahlhaus, evitando di approfondire il discorso
musicale con i più completi e complessi studi di scuola anglosassone. Per il capitolo riguardante la
sintesi del lavoro critico ho operato un’ulteriore selezione: ho proposto principalmente, per ragioni
di tempo, di complessità e di competenze personali di chi scrive, l’approccio di Filiberto Menna
con qualche integrazione connessa ai lavori di Frye e Barthes.
Nella trattazione relativa alla teoria dell’argomentazione, ho cercato di esporre le principali scuole
di pensiero apparse negli ultimi anni, con un’attenzione particolare al campo delle fallacie. Per la
successiva analisi degli articoli ho utilizzato soprattutto il modello prospettato da Copi e Cohen
senza trascurare, in pari tempo, i contributi di Perelman, Schopenhauer e le proposte di Menna. In
merito a quest’ultima fase della ricerca, ci tengo a precisare che non è in nessun modo da
intendersi come un atto d’accusa o monito, per quei critici i cui articoli sono stati presi in esame e
che hanno portato alla luce errori logici o quantomeno strategie argomentative poco ‘ortodosse’.
Pur riconoscendo un’autentica difficoltà nel rendere comprensibili fatti sensibili, come appunto
quelli musicali, attraverso una traduzione intersemiotica, ed essendo perfettamente consapevole
della complessità dell’argomento – che potrebbe assurgere a potenziale deterrente a qualsiasi
tentativo di fare chiarezza –, ho cercato di carpire le connessioni fra gli ambiti del sapere presi in
considerazione, nell'intento di precisare il valore, non solo teorico, sia della funzione critica, sia
della retorica e di conseguenza della teoria dell’argomentazione.
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Parte prima
Parte prima
2. Le immagini della critica
Nel corso di questo capitolo analizzerò varie interpretazioni fornite da studiosi e artisti sulla
funzione della critica in campo culturale e filosofico (le immagini della critica). Ciò funge da
punto d’avvio della tesi stessa, che tratterà l’argomento della critica letteraria, cinematografica e
musicale esposta in ambito giornalistico.
Il termine critica deriva dal greco krínein con il quale si designa la facoltà di separare, sceverare,
riconoscere e infine giudicare le opere di valore dalle altre (Vocabolario etimologico della lingua
italiana, Pianigiani). Secondo Enzo Golino (1983), l’attività critica è inscindibile da quella del
giudizio. Grazie all’avallo dell’etimologia, egli giunge a caratterizzarla come un processo che
‘mette in crisi’ l’opera d’arte. Il critico ha quindi il compito di ‘passare al setaccio’ l’opera d’arte
con il proposito di giudicarla attraverso una separazione, una scelta e un giudizio (krísis). La
critica è un’arte (téchne) che intende determinare, tramite un giudizio, le caratteristiche e il valore
complessivo di un’opera d’arte; si può riportare l’espressione che, seppur soffrendo di
generalizzazione, ha il pregio della semplicità e dell’immediatezza: “Critica, nell’uso, vuol dire
riassuntivamente ‘scelta del meglio’” (Anceschi, 1989: 98). Scopo non certo secondario di questa
trattazione è capire grazie a quali criteri, a quali passi metodologici sia possibile questa ‘scelta del
meglio’. La scelta presuppone uno sguardo attivo e parziale della critica che però non è da
intendersi come limite o come fonte di errori grossolani: “Per essere giusta, cioè per avere la sua
ragion d’essere, la critica dev’essere parziale, appassionata, politica cioè fatta da un punto di vista
esclusivo, ma da un punto di vista che apre il più largo orizzonte possibile” (Baudelaire citato in
Doubrovsky, 1969: 258).
La scelta si rivolge ad un oggetto d’arte, ed è proprio il termine arte a dividere l’immaginario
comune che identifica spesso la critica come arte subalterna, nel senso che deve, in prima istanza,
fare riferimento all’esterno, ad un altro ambito artistico e simbolico. Deve sfruttare, in altri termini,
la forza creativa di un’altra arte. La critica assume come conseguenza l’immagine di seconda
creazione1, di creazione subordinata che di norma risulta essere inutile o nel migliore dei casi
un’altra opera, ma notevolmente inferiore rispetto all’originale. Con queste premesse l’immagine
1
Una conclusione a questa sempiterna diatriba viene sintetizzata da Cesare Segre con queste parole: “La critica ha
bisogno dell’apporto della metodologia, ma non deve trasformarsi in metodologia: essa dev’essere tanto modesta da
subordinarsi al suo oggetto, l’opera d’arte, e tanto superba da credere di poterle ridare almeno in parte significato e
vita” (Corti e Segre, 1970: 414).
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del critico non può che essere negativa, vicina a quella di un intellettuale represso2 e pedante che,
non potendo essere egli stesso un artista, si preoccupa di smontare l’opera altrui per propagandare
il proprio gusto, nonché i propri interessi sotto l’ombrello cautelativo di una diffusione
democratica della cultura. Molti artisti si sono prodigati per delegittimare e allontanare la critica
dall’ambito della creazione artistica. Secondo questa linea, l’arte, facendo a meno della critica, si
propone come giudice unico l’approvazione del pubblico cadendo inevitabilmente nell’equazione
fallace: ‘più la mia opera è popolare più ha valore artistico’. Inutile dire che di esempi contrari è
piena la storia sia nell’ambito della musica moderna sia in quelli letterario e cinematografico.
Come gli artisti anche il pubblico non ama ingerenze esterne:
Un pubblico che cerchi di fare a meno della critica e sostenga di sapere che cosa
desideri e ami, fa violenza alle arti e perde la sua memoria culturale. L’arte per l’arte
è una rinuncia alla critica che si conclude con l’impoverimento della stessa vita civile.
Il solo modo di impedire e di prevenire il lavoro della critica è ricorrere alla censura,
la quale ha con la critica gli stessi rapporti che il linciaggio ha con la giustizia.
(Frye, 1969: 11).
Sia l’arte della critica sia quella della retorica – che tratterò in seguito – sembrano racchiudere
nella loro storia lo stesso curioso destino. Infatti, sia la retorica sia la critica hanno fronteggiato, e
devono tuttora fronteggiare, schiere di detrattori che in nome di un linguaggio puro e neutrale le
emarginano dalla vita culturale e civile, quando entrambe, come cercherò di far emergere,
rimangono essenziali per un contesto di vita autenticamente pluralista. Purtroppo espressioni
come: ‘Questa è pura retorica’ oppure ‘Il critico è solo un pubblicitario ben pagato3’ rimangono
pregiudizi molto diffusi.
L’artista non solo rifiuta l’ingerenza del critico perché ritiene il pubblico unico giudice del proprio
lavoro, ma anche perché si ritiene egli stesso l’unico in grado di valutare e di attribuire senso
all’opera. Anche in questo caso il rifiuto dell’interpretazione critica non si distingue affatto per
un’apertura alla pluralità di pensiero. Sembra al contrario voler difendere qualcosa di prezioso e
intoccabile che verrebbe snaturato proprio dal lavoro del critico: “[…] il rifiuto
dell’interpretazione nell’ambito dell’arte può oggettivamente contrabbandare nuove e non meno
pericolose forme di dogmatismo e, in definitiva, fare da supporto proprio a quegli ordini costituiti
2
Il critico represso e pedante si comporterebbe seguendo l’assioma secondo cui ciò che non si riesce a creare lo si può
tranquillamente distruggere, attraverso l’esercizio critico, trascurando i dati dell’opera.
3
Ad onor del vero le credenze popolari, nonostante abbiano una fragile attinenza con la realtà, ne evidenziano
comunque alcuni tratti. Pertanto, per chi volesse approfondire la conoscenza del rapporto che intercorre fra il
magistero della critica e l’economia e in particolare l’economia della cultura, consiglio la lettura de Il tradimento dei
critici di Carla Bendetti.
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del potere la cui omologazione viene imputata, invece, proprio alla critica” (Menna, 1981: 14).
Appare chiaro che così facendo, si riduce la carica polisemica del messaggio artistico in un’unica
versione credendo così di poter fare a meno della storia e della critica. Invero, questa obiezione
può essere rivolta anche nei confronti della critica, nei casi in cui questa si ponesse quale giudice
unico e insindacabile, fuori da ogni prospettiva diacronica, ma come spiega Frye: “I critici onesti
continuano a trovare delle lacune nel loro gusto: scoprono la possibilità di individuare una valida
forma di esperienza poetica senza essere capaci di realizzarla essi stessi” (Frye, 1969: 39). In
questa citazione Frye afferma in maniera indiretta come la critica, per essere veramente tale, non
possa non partire da una sincera autocritica. L’autore di un’opera ha tutto il diritto di parlare della
propria opera, ma questo esercizio non aggiunge nulla al sistema concettuale della critica, rimane
una digressione sull’arte: “Il poeta può senza dubbio possedere per suo conto una certa capacità
critica ed essere pertanto in grado di parlare della propria opera. Ma il Dante che scrivesse un
commento al primo canto del Paradiso sarebbe soltanto uno dei critici di Dante”. I documenti
prodotti da un artista in merito alla sua opera sono utili – per uno studio critico –, ma non
verrebbero investiti di “un’autorità particolare” (ivi: 12).
Se da una parte si allontana il lavoro della critica grazie alla riflessione compiuta sulle proprie
opere, dagli artisti stessi i quali rivendicano una loro indipendenza interpretativa e di giudizio,
dall’altra si riscontra un rifiuto dell’interpretazione e del giudizio in nome dell’ineffabilità
dell’opera d’arte; in altri termini ogni tentativo di mettere in relazione l’arte con altri ambiti del
sapere ne altererebbe la natura. Fautrice di questa seconda opzione è la scrittrice Susan Sontag che
nel suo saggio Contro l’interpretazione (1967) illustra come sia controproducente l’intervento del
critico, il quale, proprio attraverso l’analisi contenutistico-interpretativa, addomestica l’opera
d’arte e la priva della sua spinta emotiva nonché dei suoi lati contraddittori. Sulla stessa linea si
trovano due filosofi francofortesi: Adorno e Horkheimer che nella loro critica all’industria
culturale contrappongono in maniera netta la cultura – e di riflesso anche la critica – alle
manifestazioni dello spirito: “La barbarie estetica attuale realizza effettivamente la minaccia che
incombe sulle creazioni spirituali fin dal giorno in cui sono state raccolte e neutralizzate come
cultura. Parlare di cultura è sempre stato contro la cultura” (Horkheimer & Adorno, 1997: 138).
Nella loro accezione il sistema culturale, grazie alle sue capacità di classificazione e di
incasellamento riuscirebbe a neutralizzare la forza delle espressioni artistiche espresse dal singolo.
È appunto la singola opera d’arte, staccata da ogni concetto di stile, di relazione con la storia e,
come diretta conseguenza, lontana da ogni tentativo di interpretarla e di giudicarla, che può
intaccare il sistema dell’industria culturale e incrinare la logica del dominio sovrastante. Fa da
sfondo a queste immagini della critica l’obiezione più radicale e forse più comune – alla quale
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ancora non è stata data una risposta soddisfacente e condivisa – rivolta ai suoi metodi, che è quella
di soffrire di eccessivo soggettivismo; obiezione avallata dal fatto che spesso i giudizi vengono
espressi senza rendere patenti i criteri attraverso i quali essi si formano.
Prima di giungere all’argomento della critica cinematografica e infine a quello della critica
musicale, è opportuno come primo passo soffermarsi sulla critica letteraria, la quale offre una
solida base epistemologica.
3. La critica letteraria
A questo punto del percorso di analisi, intendo affrontare la critica letteraria sia dal punto di vista
delle varie correnti che si sono contraddistinte nel corso del XX secolo in special modo in Italia,
sia focalizzando lo studio sulle strutture narrative, tralasciando volontariamente il vasto campo
della poesia.
3.1 Le correnti della critica letteraria
Comprendere i principali orientamenti della critica letteraria è utile non solo a formarsi una
conoscenza della materia dal punto di vista storico, ma anche a riconoscerne i limiti dettati dalle
correnti teoriche in voga nei vari periodi storici.
Essendo la ricerca incentrata geograficamente sull’Italia scelgo di presentare le correnti della
critica letteraria italiana del Novecento: critica storicistica ed estetica, critica sociologica, critica
psicanalitica, critica stilistica, critica formalista, strutturalista e semiotica.
3.1.1 La critica storicistica ed estetica
Per allontanare grossolani fraintendimenti, si deve per prima cosa distinguere fra le due accezioni
principali conferite al termine critica storicistica. Esiste infatti un primo significato di carattere
generale che caratterizza: “qualsivoglia valutazione di tipo «storico» dei fatti, ivi compresi quelli
letterali […] (Carpi, 1983: 15). Si procede, in questo caso, ad analizzare un testo letterario
attraverso un continuo richiamo ai fatti storici e culturali, largamente intesi, nel quale il testo è
stato prodotto. Tale procedimento assume chiaramente un carattere trasversale ai principali
orientamenti della critica letteraria in quanto si ritiene – sia pure con sfumature differenti – che per
comprendere correttamente un testo letterario non sia possibile far a meno di un orizzonte storicoculturale. La seconda accezione si riferisce invece al metodo critico elaborato dal filosofo italiano
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Benedetto Croce, lo «storicismo», che ha influenzato profondamente la disciplina della critica per
l’intero secolo XX.
Per quanto riguarda la prima accezione, si possono distinguere diverse modalità di analisi. Per
esempio è possibile ‘storicizzare l’opera’, ovvero concentrarsi principalmente sulla relazione
presente fra l’opera letteraria, l’autore e il contesto (cfr. critica stilistica). In questo modo l’opera
viene esaminata in rapporto ai dati riguardanti l’esperienza di vita dell’autore e al contesto storicoculturale che l’ha resa possibile (prima la vita e poi l’opera stessa). Altro esempio riguarda la
critica sociologica, che privilegia il nesso fra opera e contesto, evidenziando il rapporto fra le
tematiche narrate e le strutture economico-sociali specifiche di un’epoca. L’accento storico può
essere presente anche negli studi che analizzano i legami fra opera e pubblico, nonché fra quelli
che studiano il testo in rapporto al linguaggio corrente e all’intero sistema segnico (cfr. critica
semiotica).
Assegnando lo sviluppo di queste tematiche ai rispettivi paragrafi, mi concentro ora sul metodo
critico crociano, chiamato anche ‘storicismo assoluto’ e ‘critica estetica’. Per Croce lo spirito
umano si distingue in due momenti e in quattro forme del tutto autonome. Il primo momento viene
chiamato ‘momento teorico’ ed è governato da finalità conoscitive, mentre il secondo detto
‘momento pratico’ ha scopi prettamente pratici ed è quindi orientato all’azione. Il primo momento
si distingue a sua volta in ‘forma intuitiva’, che tende al bello e che quindi dà origine all’opera
d’arte, e ‘forma logica’ che tende al vero e si compie nella filosofia. Nel secondo momento si
distiguono per contro la ‘forma economica’, che tende all’utile e la ‘forma etica’, che si prefigge il
bene. Il principio dell’autonomia delle quattro forme dello spirito lascia intuire come per Croce
l’arte non abbia legami con la filosofia o con la morale né con l’economia. L’arte è dunque un atto
conoscitivo intuitivo – e di conseguenza non logico – individuale e totalmente indipendente. Il
critico deve saper ricreare le condizioni che hanno reso possibile l’intuizione che si esprime in
poesia, nonché saper distinguere in base al gusto fra ‘poesia’ (opera o parte di essa esteticamente
valida) e ‘non-poesia’ o ‘struttura’ (parte dell’opera non esteticamente valida benché necessaria
alla sua fisionomia). Per il filosofo italiano l’analisi delle opere poetiche è possibile solo attraverso
la forma monografica, studiando cioè il singolo autore, la singola opera. L’approccio storicista è
quindi più ristretto e possibile solo come ‘somma monografica’. Cionondimeno questo approccio è
ritenuto ancor più storico non perché presiede ad una sterile somma di dati, ma perché li ordina
grazie ad un giudizio estetico. Il principale limite di questo approccio riguarda la definizione stessa
di atto artistico, il quale, essendo puramente intuitivo, non accetta spiegazioni tecniche. La scuola
crociana, come spiega Grosser (1992), ha avuto un secondo sviluppo del proprio apparato teorico
passando dalla definizione di atto artistico come ’intuizione individuale’, ad una più generalmente
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definita ‘intuizione cosmica’. In questo modo la parola poetica si caratterizza anche per un suo lato
universale che rispecchia leggi e sentimenti diffusi ed eterni.
3.1.2 La critica sociologica
La critica sociologica si sviluppò in Italia – ispirata in larghissima parte dai principi del marxismo
–soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, quasi in risposta al dominio indiscusso della dottrina
critica crociana. Il termine critica sociologica viene spesso confuso con il termine sociologia della
letteratura quando in realtà questi due concetti, pur avendo punti di contatto, delineano
metodologie d’indagine molto diverse. Infatti, si definisce sociologia della letteratura quel campo
d’indagine che studia con metodi strettamente sociologici la produzione, la circolazione e la
fruizione dell’opera letteraria, o, per citare le parole di Cases, la sociologia della letteratura è
quella disciplina: “che studia il suo destino sociale, la sua azione sul pubblico” (Cases, 1970: 2324). Mentre per critica sociologica si intende quella disciplina che parte: “dalla società per spiegare
l’autore e l’opera” (ivi: 23). Nella critica sociologica avviene quindi un’interpretazione dei testi
letterari e dei rispettivi autori alla luce delle conoscenze – fornite da varie discipline come la storia,
l’economia, la politica – presenti in una determinata società e in un particolare momento storico.
L’autore e l’opera letteraria vengono visti come vettori di messaggi precisi e ideologici che
nascono da un luogo sociale e che vanno di conseguenza spiegati ed interpretati proprio a partire
dalle condizioni socio-economiche che li hanno originati e condizionati. A questo punto emerge in
maniera abbastanza palese uno dei limiti di questo approccio, che riduce spesso la propria indagine
all’individuazione dei rapporti deterministici di causa-effetto fra società e produzione letteraria,
trascurando la specificità e l’autonomia del testo letterario. Inoltre, non di rado allo ‘sguardo’
dello scrittore viene associato un punto di vista ‘di classe’ che diviene un metro di giudizio per
l’opera in questione. Per superare questi limiti lo studioso ungherese György Lukács introduce il
concetto di ‘rispecchiamento’; in altri termini l’arte è sia un prodotto della società sia un suo
‘rispecchiamento’. Per il critico è però preponderante il secondo aspetto. Di conseguenza un’opera
d’arte sarà tanto più valida quanto più capace di rispecchiare la realtà sociale, indipendentemente
della posizione politico-ideologica dello scrittore:
L’arte essendo sovrastruttura, essa, in linea generale, perisce nella struttura. Ma
nell’arte migliore il rispecchiamento di una data fase dello sviluppo storico-sociale
può rendere i lineamenti di questa fase in modo «classico», cioè così pregnante e
persuasivo che la memoria collettiva dell’umanità si compiace, attraverso di esso, di
rievocare il proprio passato. Si spiega così l’apparente contraddizione tra il carattere
storicamente condizionato e la perenne efficacia dell’arte, contraddizione che resta un
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Parte prima
mistero per il relativismo sociologico, costretto a postulare, contro le proprie
premesse, dei valori artistici indipendenti dalla dinamica sociale.
(ivi: 31).
Con questa impostazione si capisce come per lo studioso ungherese l’opera letteraria di qualità sia
sostanzialmente quella realista, in quanto è quella che più si adatta al concetto di rispecchiamento.
Di conseguenza vengono escluse dalla sua indagine critica tutte le forme d’arte che in prima
battuta non sono legate alla realtà, come per esempio l’arte d’avanguardia.
3.1.3 La critica psicoanalitica
Per il peso specifico esercitato sull’intero panorama culturale del secolo scorso, non è possibile
trascurare l’apporto teorico sviluppato da Freud, e in particolare le relazioni che intercorrono fra
inconscio e produzioni artistiche. Di fatto si parla di critica psicoanalitica quando ci si: “volge a
sondare il rapporto tra autore e testo, mettendo in luce soprattutto le ragioni e le motivazioni
interiori che hanno portato lo scrittore a comporre l’opera, a darle una certa forma espressiva, ad
affrontare tematiche particolari […]” (Grosser, 1992: 53). Il legame fra letteratura e psicoanalisi si
è formato in maniera reciproca. Non furono infatti solo la letteratura e la critica a beneficiare delle
scoperte freudiane, ma pure lo stesso Freud – come ricorda Grosser – attinse dall’arte e dalla
letteratura per definire e sviluppare alcuni processi psichici. Si pensi all’uso che fece della tragedia
greca o dell’arte italiana del Rinascimento. Secondo la psicoanalisi, nell’individuo operano energie
pulsionali che egli può reprimere, rimuovere o canalizzare in modi socialmente accettati. L’attività
intellettuale, che si manifesta anche attraverso la creazione artistica, entra in gioco proprio nella
‘sublimazione’ di queste energie. Pur tuttavia, la creazione artistica non è per la psicoanalisi solo
una manifestazione dell’inconscio, ma è pure frutto di un’attività cosciente ed intenzionale
(Grosser, 1992). La critica psicoanalitica ha utilizzato l’insieme delle conoscenze proposte da
Freud e da altri studiosi della psiche (per es.: Jung e Lacan) proponendo un’analisi che da un lato
riuscisse a comprendere i processi generativi dell’opera e quindi la natura reale dell’autore, e
dall’altro indagasse i gesti e i comportamenti fittizi dei personaggi narrati nell’opera, come
ulteriore manifestazione da prendere in esame per: “indagare le sorgenti profonde della concreta
creazione artistica” (ivi: 57). Il limite principale di questo approccio risiede nel pericolo di ridurre
tutta l’analisi al vissuto interiore dello scrittore – raffigurandolo spesso come un malato o nella
migliore delle ipotesi come un complessato – sottovalutando la complessità formale dell’opera
letteraria e la volontà progettuale dello scrittore che l’ha realizzata.
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3.1.4 La critica stilistica
L’orientamento stilistico è stato, nel panorama europeo della critica, il primo ha caratterizzarsi per
una spiccata inclinazione interdisciplinare, peculiarità che per ovvie ragioni non può passare sotto
silenzio. Inoltre, è interessante parlare di stilistica anche per i suoi legami con la retorica: “La
stilistica descrittiva riprende, in chiave moderna e linguistica, le vecchie «figure» della retorica
antica; e cioè la vecchia grammatica (normativa) dell’espressione letteraria, in un orizzonte però
funzionale, sistematico. Costruisce così una specie di stilistica della lingua (o anche stilistica
dell’espressione) come premessa per una stilistica dell’opera letteraria […]” (Bevilacqua, 1983:
74). Prima di passare ad esaminare l’approccio al testo letterario elaborato da questo orientamento,
pare opportuno chiarire il significato di stile, che, come è facile immaginare, è un concetto cardine
della stilistica. Cesare Segre definisce il termine stile in una duplice ottica: “a) l’assieme dei tratti
formali che caratterizzano (in complesso o in un momento particolare) il modo di esprimersi di una
persona, o il modo di scrivere di un autore; b) l’assieme dei tratti formali che caratterizzano un
gruppo di opere, costituito su basi tipologiche o storiche” (Segre citato in Bevilacqua, 1983: 6566). Le due definizioni date da Segre si differenziano per un carattere individuale, per quanto
riguarda la prima, e, sovraindividuale (per es.: gli stili della retorica classica, o le varie correnti
letterarie) per quanto concerne la seconda.
In prima istanza, la critica di derivazione stilistica riserva una spiccata attenzione agli aspetti
linguistici e formali del testo, senza per questo farne il perno unico della propria analisi. Di fatto
tale approccio intende pure risalire alle ragioni psicologiche e storico-contestuali, che
rispettivamente generano e condizionano il testo letterario o parte di esso. Inoltre, il carattere
storico dell’indagine stilistica non è solo riferito al contesto socio-economico dell’autore, ma si
focalizza pure sui codici e sulle convenzioni linguistiche che contribuiscono a determinare le scelte
stilistiche dello scrittore. Tali scelte stilistiche (vedi prima definizione di stile) possono venir
descritte anche grazie all’ausilio di un confronto con stili ed opere di altri autori.
Come spiega Isella (1970), la stilistica moderna si sviluppa soprattutto in due direzioni: la prima,
influenzata dalla linguistica, viene promossa da Ferdinand de Saussurre e di Charles Bally, mentre
la seconda, più orientata verso la critica, matura per merito degli studi di Karl Vossler e Leo
Spitzer:
Certo è che se da un lato la scuola idealistica tedesca afferma la natura individuale e
creativa del linguaggio (fissato poi dalla collettività in istituto sociale: donde la sua
dipendenza dalle leggi della psicologia e della sociologia), dall’altro anche la scuola
svizzero-francese rifiuta la nozione materialistica della lingua, propria dei
neogrammatici, per opporle quella di prodotto dello spirito umano, pensiero e insieme
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sostanza fonica: un sistema di segni, di origine psichica e sociale, inteso e preordinato
a esprimere il pensiero.
(Isella, 1970: 162).
La scuola ginevrina di Saussurre e Bally si è quindi occupata prettamente di indagare i mezzi
forniti dalla lingua come sistema (langue), senza rivolgere i propri sforzi allo studio di testi ed
autori particolari. La scuola tedesca si è occupata invece di critica e quindi dell’analisi delle
manifestazioni particolari del linguaggio letterario (parole) per poi indagarne la genesi spirituale.
Invero, la scuola tedesca ha sviluppato anch’essa una stilistica della lingua, ma in un’ottica
prevalentemente storico-evolutiva (diacronica). Secondo gli studiosi tedeschi, si deve porre
particolare attenzione al concetto di ‘scarto dalla norma’ nel senso che: “a qualsiasi emozione,
ossia a qualsiasi allontanamento dal nostro stato psichico normale, corrisponde, nel campo
espressivo, un allontanamento dall’uso linguistico normale; e, viceversa, [che] un allontanamento
dal linguaggio usuale è indizio di uno stato psichico inconsueto” (Spitzer citato in Grosser, 1992:
60). Nonostante questa citazione soffra di un discutibile determinismo, essa dimostra una volta di
più lo spirito interdisciplinare di questi apporti, in questo caso influenzati della psicoanalisi. Il
critico deve pertanto leggere più e più volte l’opera, ricercando i tratti stilistici devianti dalla
norma, ciò che consente – tramite la formulazione di ipotesi – di risalire alla personalità
dell’autore. Per trovare conferma alle ipotesi formulate, il critico deve poi far ritorno al testo e
suffragarle con un insieme di dati omogenei. Questo metodo viene criticato dagli studiosi
strutturalisti per il suo carattere eccessivamente intuitivo, soprattutto per quel che concerne la
ricerca di fenomeni ‘spia’ che catturerebbero l’attenzione del critico, in quanto formule inusuali
utilizzate dall’autore in questione.
Il carattere pluridisciplinare della critica stilistica viene ben raffigurata dagli studi di Erich
Auerbach, il quale ha analizzato opere di Virginia Woolf o di Omero sottoponendole: “a un’analisi
esaustiva di tutti i valori linguistici, storici, sociologici, filosofici, ecc., in modo da ricavarne una
caratterizzazione non solo dell’autore, ma dell’epoca a cui appartiene secondo un metodo affine a
quello messo appunto dallo Spitzer, applicato però in maniera più estensiva, con implicazioni più
accentuamente sociali” (Isella, 1970: 173). Infine è utile ricordare come questi apporti abbiano
avuto una profonda influenza – ancorché in alcuni momenti reciproca – nei confronti dei metodi di
analisi critica elaborati da studiosi italiani, primo fra tutti Benedetto Croce.
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3.1.5 La critica formalista, strutturalista e semiotica
La scelta di presentare nel medesimo paragrafo tre orientamenti critici così importanti si deve
principalmente alla loro comune caratteristica di riservare particolare attenzione al testo nei suoi
molteplici aspetti: formali, strutturali, linguistici e semiotici. Inoltre – fatta eccezione per la
semiotica che si sviluppa in maniera indipendente – si può considerare la critica strutturalista come
evoluzione di quella formalista.
La critica formalista prese avvio negli anni Venti del Novecento per merito di un gruppo di
studiosi russi, i quali affermarono che l’arte è principalmente una questione di forma; più in
dettaglio: “La critica formalista rivolge particolare attenzione al modo in cui l’opera è fatta, cioè
composta e costruita, e due assunti presiedono ai suoi esercizi: che all’universo letterario si
perviene solo mediante il suo complesso di segni, di sue forme sensibili particolari; che la
distribuzione della materia fonica, sintattica e organizzativa delle frasi, costruisce un disegno
provvisoriamente apprezzabile in sé […] (Pagnini, 1970: 277). L’opera d’arte va quindi analizzata
nella sua autonomia, senza curarsi degli eventuali scopi che l’autore può perseguire. L’opera d’arte
comunica quindi, e prima di tutto, la sua forma. Per comprenderla bisogna analizzare il testo nei
suoi diversi livelli (fonico-timbrici, ritmici, sintattici, linguistici, ecc.) e cogliere le interazioni e gli
elementi di analogia fra i vari fattori, sia all’interno di ogni livello sia fra livelli diversi. Il limite
più evidente di questo approccio è il suo rifiuto di storicizzare l’opera d’arte: “I russi staccarono
l’oggetto poetico dal suo autore, dal suo mondo socio-culturale e anche dalle risposte emozionali e
psicologiche del lettore, per contemplarlo nella sua autonomia […]. Le prime tesi dei russi sono
estremistiche e intransigenti nella loro pervicace avversione ad ogni storicismo, sociologismo e
psicologismo. Mostrano indifferenza persino alle figure retoriche, al mondo delle metafore e delle
immagini […]” (ivi: 280). Queste prese di posizione radicali verranno in seguito mitigate e
diverranno patrimonio comune di molta critica contemporanea, trovando un terreno fertile
soprattutto nella successiva critica strutturalista.
La critica strutturalista prende avvio grazie alle ‘tesi’ esposte durante il primo congresso di Praga
dei filologi slavi, del 1929. Durante quel congresso presero la parola anche studiosi formalisti di
scuola russa, ma la figura che più avrà ascendenza sugli studi critici e letterari in senso ampio è
sicuramente quella di Roman Jakobson.
L’affermazione centrale – come ricorda Segre – contenuta nelle ‘tesi’ recita: “L’opera poetica è
una struttura funzionale, e i vari elementi non possono essere compresi al di fuori della loro
connessione con l’insieme. Elementi oggettivamente identici possono svolgere, in strutture diverse,
funzioni assolutamente differenti” (Segre, 1970: 326). Di conseguenza nella critica strutturalista si:
“[…] esalta il primato del testo letterario nella sua autonoma individualità, nella sua natura, per
17
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così dire, di manufatto, anche sublime. In più si ribadisce la vanità delle analisi parziali o
impressionistiche dell’opera d’arte, ogni elemento della quale acquista il suo valore solo in
rapporto con gli altri” (ivi: 326). Non solo vi è in queste parole un chiaro accento posto sull’idea di
struttura, ma si preannuncia la volontà di creare una metodologia che faccia della ‘scientificità’,
derivata dalla linguistica, un suo punto di forza. Per non cadere nei limiti riscontrati in ambito
stilistico, (mancanza di storicizzazione) gli studiosi strutturalisti si posero il problema di
contestualizzare il testo letterario. Lo fecero però in maniera differente rispetto alla corrente
sociologica. La loro attenzione era rivolta maggiormente ai rapporti fra i vari fenomeni culturali
che non al rapporto storico fra società e opera d’arte. Di nuovo Segre scrive:
Era chiaro ai fondatori della critica strutturalista che l’opera non è un oggetto isolato,
che si possa valutare prescindendo dall’epoca e dalla cultura a cui appartiene.
Piuttosto, gli strutturalisti negavano e negano che il prodotto artistico possa essere
collegato direttamente alla storia o alla società: tra queste e quello esistono delle
mediazioni grazie alle quali gl’ideali e i contenuti pragmatici del momento storico
sono modulati in termini di letterarietà o di artisticità; solo per questo canale essi
possono essere accolti ed eventualmente trasformati dall’artista in quanto artista.
(ivi: 336).
Il limite principale dello strutturalismo riguarda da un lato l’aspetto pratico, dall’altro lo statuto
filosofico. Infatti per poter svolgere, dal punto di vista linguistico, un’analisi così approfondita gli
sforzi non possono che focalizzarsi su opere relativamente brevi. Inoltre, puntando sulla
‘scientificità’ dell’analisi si giunge a sconfessare il mandato della critica che presuppone: la
formulazione di un giudizio. Lo strutturalismo tende in altre parole a spersonalizzare il proprio
intervento astenendosi da qualsiasi giudizio (Grosser, 1992).
Come già detto, pur riconoscendo una sostanziale indipendenza metodologica della semiotica,
quest’ultima presenta qualche punto di contatto con lo strutturalismo, non da ultimo la duplice
militanza di molti studiosi (per es.: Corti e Segre). Per prima cosa va fatta chiarezza sul significato
dei termini semiotica e semiologica.
Giuliano Gramigna (1983) fa risalire la distinzione fra i due termini a due scuole differenti: si parla
infatti di semiologia negli studi di estrazione francofona, di semiotica per quelli di filiazione
anglosassone. In ogni modo, si nota oggi una tendenza a considerarli sinonimi4 e a utilizzare in
maniera quasi plebiscitaria il termine semiotica. Per dare una definizione riprendo le parole scritte
da Umberto Eco:
4
Sono da intendersi come sostanzialmente sovrapponibili anche nel prosieguo di questa esposizione.
18
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Parte prima
Diremo dunque che la semiologia è una disciplina che studia tutti i fenomeni di una
cultura come sistemi di segni: studia sotto tale luce quelli che sono, per definizione
unanime, sistemi di segni, come la lingua o le segnaletiche stradali; e quelli che
d’abitudine non vengono ritenuti fenomeni segnici, come i sistemi di parentela,
l’architettura, la moda, le liturgie, le forme di etichetta. Se la semiologia adotta questo
punto di vista è perché assume l’ipotesi che la cultura sia essenzialmente un fatto di
comunicazione; e che quindi ogni fenomeno di cultura possa essere studiato dal punto
di vista dei processi comunicativi.
(Eco, 1970: 371).
Se la semiotica corrisponde a quanto appena citato, allora non si può certamente considerare
avulsa da tale processo la comunicazione letteraria e, altresì la sua critica. Infatti, niente più della
letteratura si può considerare al contempo come un sistema di segni e fenomeno comunicativo. Per
Eco (1970) la critica semiotica deve caratterizzare efficacemente, all’interno di un testo letterario, i
messaggi estetici ad alto contenuto informativo. Per fare ciò, si devono individuare dei repertori di
segni (codici anche latenti) e delle regole di combinazione. In situazioni particolari come per
esempio nella letteratura rosa o nei romanzi d’appendice vengono formulati tutti i possibili
messaggi appartenenti a quel determinato codice. Questo perché – come ammette lo stesso Eco –
l’analisi dei messaggi è molto più efficace nei generi che utilizzano codici fortemente stereotipati
piuttosto che nei testi ad intensa ‘originalità’. Ciononostante anche in questi ultimi è possibile
rifarsi al concetto di ‘scarto dalla norma’. Si deve pertanto individuare una serie di codici inclusi
l’uno nell’altro: ad esempio il codice linguistico di una data epoca, il codice della lingua letteraria,
il codice della lingua dell’autore, il linguaggio dell’opera in esame. Ciascuno di questi codici si
caratterizza in quanto scarto rispetto al precedente, che diviene norma (così la lingua letteraria
costituisce uno scarto dalla norma della lingua standard di un’epoca). La globalità dell’approccio
semiotico sembra essere sia un punto di forza sia una debolezza: “[…] il più delle volte quella che
viene presentata come «critica semiologica» altro non è che critica linguistica, simbolica, stilistica
o altro, condotta con metodi strutturalistici particolarmente rigorosi”. Compito della critica
semiotica non appare più quello di: “individuare una tecnica nuova, quanto quello di individuare,
grazie alla totalità di visione che la semiologia si impone, dei livelli che siano finora sfuggiti
all’indagine critica” (ivi: 379). In conclusione sembra più opportuno parlare non tanto di critica
semiologica, quanto di un approccio più generale che: “strumentalizza la stessa critica letteraria ai
fini di una comprensione più vasta del mondo dei segni” (ivi: 383).
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3.2 Questioni di narrativa
Come già accennato, non è mia intenzione sviluppare il tema dello studio e dell’interpretazione del
messaggio poetico. Questo sia per ragioni pratiche volte a non creare dispersione tematica, sia
perché la mia collaborazione giornalistica mi spinge piuttosto ad acquisire conoscenze in campo
narrativo.
Con ‘questioni di narrativa’ intendo mettere in luce alcuni dei principali fattori che concorrono al
compimento di un’opera letteraria e quindi specularmente ad una sua analisi da parte di terzi (il
critico). Non va dimenticato che per poter impiegare una o più metodologie critiche atte a
giudicare un testo narrativo, si devono dapprima comprendere le tecniche e le strutture che
compongono il testo letterario.
La narrativa può essere definita: “come la rappresentazione di avvenimenti e situazioni reali o
immaginari in una sequenza temporale” (Prince citato in Grosser, 1985: 1). In linea generale le
situazioni presenti in un romanzo coinvolgono dei personaggi, i quali possono compiere, subire o
assistere ad un evento. Tale evento viene inserito in un contesto sociale e temporale che fa da
corollario alla storia narrata. Analizzare un testo narrativo significa da un lato confrontarsi con le
tre principali strutture che lo caratterizzano: lo spazio, il tempo e i personaggi, e dall’altro con le
modalità attraverso le quali queste vengono rappresentate. Le strutture narrative prendono corpo
grazie a quelle categorie che negli studi di narratologia (ad es.: Booth, 1996; Grosser, 1985)
vengono chiamate la voce narrante e il punto di vista. La voce narrante appartiene al personaggio
che descrive gli eventi, le caratteristiche dei personaggi, gli ambienti. In altre parole concerne colui
che : “si assume la responsabilità di produrre gli enunciati di cui la narrazione consiste” (Grosser,
1985: 54), senza che questa corrisponda per forza a quella dell’autore. Sovrapporre la voce
narrante – sia se appartiene ad un personaggio del romanzo sia se è di carattere impersonale –
all’autore storico del romanzo non è sempre corretto, tant’è che si distingue tra autore e narratore5.
Nel romanzo autobiografico autore e narratore quasi sempre coincidono.
Diversa è la categoria del punto di vista attraverso la quale si individua di volta in volta la persona
che in un preciso momento della storia agisce, descrive sentimenti e situazioni indipendentemente
dalla voce narrante. Il più delle volte in un romanzo vengono adottati svariati punti di vista, che si
alternano a seconda della considerazione che il narratore intende dare ad un personaggio. Quando
il narratore riferisce solo quello che il personaggio – di cui adotta il punto di vista – è in grado di
sapere, si parla di racconto a focalizzazione interna. La focalizzazione esterna si riscontra quando
5
La categoria del narratore si divide a sua volta fra narratore interno, nel momento in cui si può correttamente
presumere che l’autore abbia vissuto realmente ciò che racconta, e narratore esterno, quando questi è assolutamente
estraneo alla vicenda narrata. A questo proposito Hermann Grosser (1985) arriva a delineare la categoria di autorenarratore nel momento in cui si dovessero riscontrare caratteristiche simili fra autore e narratore.
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Parte prima
il narratore riporta meno di quanto ne sappia il personaggio. Si parla infine di racconto non
focalizzato o a narratore onnisciente quando il narratore è in grado di sapere ciò che i singoli
personaggi non sanno. Le varie formule del punto di vista vengono dosate per creare effetti di
attesa, di ilarità e di sconforto e a volte esse vengono intervallate con commenti detti ‘intrusioni
d’autore’, i quali introducono il punto di vista personale dell’autore.
Per ciò che riguarda la categoria dei personaggi bisogna ricordare che lo scrittore cerca di
rappresentare, tramite dei costrutti testuali, degli uomini con tutte le loro caratteristiche identitarie:
dalla fisicità agli stati d’animo con gradi differenti. Forster (1968) propone la distinzione fra
personaggi piatti, i quali vengono modellati con un solo tratto psicologico e senza capacità di
evoluzione nel corso della vicenda, e quelli a tutto tondo, i quali vengono rappresentati in maniera
complessa, con più tratti psicologici ben delineati e in grado di evolversi nella storia tramite le loro
esperienze. Per Forster questa differenza è utile all’autore per animare la strategia narrativa e non
va assolutamente confusa con una differenza qualitativa fra le due tipologie.
I personaggi vanno poi analizzati in merito al loro ruolo (per es.: protagonista e antagonista ecc.) e
alle relazioni che intrattegono con le altre figure, dando vita a ciò che viene definito il sistema dei
personaggi (Grosser, 1985).
La descrizione dello spazio è legata al tipo di focalizzazione adottata e può avvenire in maniera
impersonale oppure tramite l’adozione di un particolare punto di vista. A questo proposito va detto
che spesso la rappresentazione dello spazio è legata alla concezione del mondo di chi scrive e
dell’epoca storica in cui vive. Lo spazio è infatti una delle categorie filosofiche – insieme al tempo
– fondamentali per la rappresentazione e comprensione della realtà soggettiva e sociale.
L’ultima categoria presa in esame in questo capitolo riguarda la nozione narrativa del tempo. Il
tempo viene adottato come sfondo alla narrazione di eventi che intrattengono fra loro rapporti di
anteriorità, contemporaneità e posteriorità. In altre parole sull’asse temporale gli eventi si situano
in un ordine cronologico e logico. Spesso però, gli eventi vengono narrati in maniera diversa
rispetto all’ordine logico in cui si immagina siano accaduti, dando vita alla distinzione fra fabula e
intreccio. Di nuovo Grosser (1985) spiega come l’autore possa scrivere anticipatamente di eventi
accaduti dopo (prolessi) oppure raccontare a posteriori fatti precedenti grazie alla tecnica del flashback. Pertanto la fabula riguarda l’insieme: “degli elementi tematici nella successione logicotemporale” mentre l’intreccio si riferisce all’insieme: “dei medesimi elementi nella successione in
cui vengono presentati nel racconto” (ivi: 214). Gli spostamenti sul piano dell’intreccio inducono
nel racconto cambiamenti di ritmo creando situazioni ambigue ricche spesso di suspence.
Gli eventi possono essere in seguito analizzati in rapporto alla loro durata in termini di spazio
testuale coperto (può essere un segnale di importanza) come pure in relazione al numero di volte
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte prima
che un evento viene raccontato, attraverso punti di vista diversi. Di conseguenza, il critico ha
facoltà sia di leggere un romanzo in maniera lineare, come se fosse un lettore, sia di esaminarlo
‘liberamente’, e ripetutamente, nel tentativo di descrivere le relazioni di significato fra i vari
elementi del testo. La valutazione che ne deriva in sede critica sarà frutto anche degli strumenti
critici che la metodologia scelta suggerisce. In conclusione, il critico oltre a conoscere gli aspetti
tecnici summenzionati deve prestare la propria attenzione all’intensità, anche emotiva, che un
romanzo è in grado di infondere, nella piena convinzione che un buon romanzo si riconosce anche
dalla sua capacità di imporre ai lettori una determinata visione del mondo (Booth, 1996).
4. La critica cinematografica
Discutere di critica cinematografica è a questo punto imprescindibile per varie ragioni.
Dapprima, essendo il motore di questa tesi la mia partecipazione a re.set, va da sé un certo mio
interesse per un giornalismo culturale d’ampio respiro, in altre parole interdisciplinare. Re.set si
occupa per l’appunto di critica musicale, letteraria e cinematografica.
In secondo luogo, l’espansione del prodotto cinematografico nel corso del XX secolo merita un
occhio di attenzione per il peso specifico che tuttora rappresenta in campo culturale (“la settima
arte”).
Infine, un ulteriore aspetto di comunanza fra il prodotto cinematografico e gli altri prodotti presi in
esame risiede nel fatto che l’opera cinematografica è da considerarsi un testo con peculiarità
letterarie e filosofiche. Tuttavia questo convincimento non è ancora del tutto riconosciuto:
[…] il passo che forse non è ancora definitivamente compiuto, nonostante l’innegabile
importanza […] di lavori come quelli di Deleuze, consiste nell’accreditare a tutti gli
effetti come “testi” almeno potenzialmente filosofici anche le opere cinematografiche,
assoggettando di conseguenza anch’esse a quella stessa radicale interrogazione con la
quale vengono attualmente affrontati non solo gli scritti dei filosofi di professione, ma
anche i quadri di Van Gogh o di Klee, la musica di Webern o Schönberg, la poesia di
Leopardi o Jabès, i racconti di Kafka o i romanzi di Musil.
(Curi, 2002: 11).
In questo capitolo mi concentrerò sull’analisi degli elementi costitutivi del prodotto
cinematografico, in modo da poter disporre della conoscenza specifica necessaria per la
formulazione di una valutazione critica il più accurata possibile. A questo proposito devo precisare
che non mi occuperò di alcuni settori strettamente tecnico-disciplinari – alcuni dei quali possono
essere assenti in un’opera cinematografica – poiché, nonostante abbiano un’indubbia valenza
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte prima
formale, poco si prestano ad un’analisi critica approfondita. Questi ambiti sono: il trucco, i
costumi, la scenografia, il sonoro e gli effetti speciali.
La conoscenza teorica del fenomeno cinematografico è la premessa imprescindibile per l’esercizio
pratico della critica. In linea generale la teoria cinematografica e la pratica della critica sono due
attività distinte, tuttavia non è possibile separarle del tutto. Di fatto, per formulare giudizi, è
opportuno conoscere per lo meno i rudimenti basilari della teoria cinematografica. Come si vede,
le due attività rimangono pur sempre distinte, ma strettamente connesse. In questo senso si
evidenziano due linee principali, tracciate sia dai teorici sia dai critici, contrassegnate da
procedimenti del tutto antitetici. Infatti, una corrente si caratterizza per la sua natura
principalmente descrittiva, mentre l’altra, si contraddistingue per il suo carattere normativo. Come
spiega Monaco (2002), chi si inserisce nella corrente descrittiva si preoccupa di indagare l’opera
così com’è; al contrario, coloro i quali prediligono una visione prescrittiva analizzano l’opera
preoccupandosi di come il film dovrebbe essere. Si può correttamente supporre che i critici
prescrittivi siano più propensi ad una valutazione dell’opera: “Studiosi e critici che tendono a
prescrivere sono naturalmente portati alla valutazione: lavorando sulla base di forti sistemi di
valori, è logico che mettano i film a confronto con i parametri che hanno fissato, giudicandoli su
quella base” (Monaco, 2002: 383).
A questo punto occorre presentare i principali momenti che rendono possibile la realizzazione di
un’opera cinematografica. Per questa ragione mi occuperò per prima cosa della sceneggiatura.
4.1 La sceneggiatura
La sceneggiatura è il primo passo da fare per poter arrivare alla realizzazione di un film. Come
tutti i progetti complessi, se si parte da un’idea solida e ben strutturata, il risultato sarà
presumibilmente migliore. Per questo il critico non può trascurare l’analisi della sceneggiatura.
Anche nel cinema, come in letteratura, si raccontano storie che coinvolgono dei personaggi su uno
sfondo spaziale e temporale6. Il mezzo utilizzato per evocare queste vicende non è però quello di
una lingua storico-naturale. Nel cinema il linguaggio è formato da un insieme di immagini legate
fra loro da nessi causali e temporali. Ho scelto il verbo ‘evocare’ perché il segreto del linguaggio
artistico risiede proprio nella capacità di evocare, in altre parole di ‘chiamare fuori’, di riportare a
galla dalla fantasia dell’autore situazioni ed eventi verosimili (Cerami, 1996). Produrre questo
6
La dimensione narrativa non è la sola a caratterizzare il linguaggio cinematografico. Vi sono, infatti, diversi generi
cinematografici che non si occupano di raccontare storie, fra i più importanti segnalo il documentario. L’oggetto di
questo capitolo rimane in ogni modo l’analisi del linguaggio cinematografico prettamente narrativo, sia per i suoi
punti di contatto con la letteratura, sia perché la produzione cinematografica – e di conseguenza l’attività di critica – si
concentra maggiormente verso questo tipo di opere.
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Parte prima
sforzo attraverso le immagini è certamente un compito difficile, sia perché si deve tradurre ciò che
si è pensato a parole in immagini, sia perché raccontare attraverso le immagini lascia un esile
spazio allusivo al fruitore. Secondo Monaco (2002), nel racconto per immagini non vi è la
possibilità di sfruttare la polisemia offerta dal codice – come avviene in letteratura – poiché il
significante e il significato coincidono.
La scrittura del film è di certo una parte molto delicata, dato che offre lo scheletro7 su cui lavorare
per realizzare poi concretamente il film. In essa viene sviluppata l’idea iniziale (soggetto), tenendo
conto sia della struttura narrativa (formata dalla drammaturgia, dal carattere della recitazione e dai
dialoghi), sia degli aspetti tecnici (per es.: il tipo di inquadratura, l’illuminazione e la scenografia).
L’analisi della sceneggiatura cinematografica deve tenere in considerazione diverse peculiarità del
linguaggio cinematografico. Innanzi tutto il racconto si snoda su un doppio livello: la storia e il
discorso8. La storia9 equivale alla trama del film e può essere definita: “[…] come un sistema più o
meno unitario di avvenimenti, l’uno derivante dall’altro […]”, mentre il discorso rappresenta la
forma del film così come viene recepita dallo spettatore: “Il discorso narrativo è composto e
sostanziato da tutti e soli i codici tecnico-linguistici intervenuti, in fase di ripresa e di montaggio
[…]” (Gola, 1979: 160-161). La sceneggiatura può allestire un’opera cinematografica di natura
lineare o discontinua. Un film pensato a struttura lineare si ottiene quando la storia (gli
avvenimenti) e il discorso (la loro esposizione) procedono in modo parallelo. Altre volte la
struttura sia della sceneggiatura sia poi del film, può essere intercalata da flash-back o da flashforward (anticipazioni sui futuri sviluppi della storia), oppure interamente pensata a flash-back (il
film inizia con la fine e procede retrospettivamente). Infine, esistono strutture cosiddette ‘a
contrappunto’, quando due o più storie inizialmente separate si intrecciano ad un certo punto del
film, e di strutture ad affresco, quando due o più storie si svolgono in maniera separata (ad
episodi). Una delle tecniche narrative più comuni per raccontare una storia, e per renderla più
avvincente, utilizza la metonimia. Nel linguaggio cinematografico questa figura retorica si
concretizza in un’inquadratura (spesso un primo piano) di un oggetto o di un personaggio, che
apparentemente non svolge nessun ruolo nella storia, ma che molto probabilmente offrirà dei
risvolti determinanti nel prosieguo della stessa (ed eventualmente nella risoluzione del mistero).
Se, per esempio, all’inizio di un film si inquadra un uomo che nasconde un coltello è sicuro che
arriverà il momento in cui questo coltello verrà usato (Cerami, 1996).
7
A questo proposito è corretto segnalare che esistono registi che non fanno uso di alcuna sceneggiatura, lasciando
quindi molto spazio all’improvvisazione e al talento artistico degli attori (per es.: Mike Leigh).
8
Cfr. con i concetti di fabula e intreccio in “Questioni di narrativa”.
9
Nelle storie dei film di genere si ritrovano delle costanti, per es.: nelle commedie il finale è sempre a lieto fine. La
ricerca delle costanti di genere è da attribuirsi alla semiologia del cinema (vedi Metz, 1995 e 1989).
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La narrazione degli eventi rimanda alla nozione del punto di vista che, però, differentemente dalla
letteratura, viene chiamato oggettivo se il punto di vista è esterno al personaggio e soggettivo se il
punto di vista è interno al personaggio (ivi, 1996). Al livello della sceneggiatura i personaggi
vengono tracciati, da un lato con relativamente poche ma salienti caratteristiche personali, e
dall’altro attraverso tutta la successione di eventi che li vedranno protagonisti. Di conseguenza,
durante la fruizione dell’opera cinematografica, si potranno analizzare i personaggi sia per quello
che sono e rappresentano sia per gli atti che svolgono.
La fase di fruizione presuppone la realizzazione concreta del prodotto cinematografico, cosa che
avviene grazie all’apporto di molte figure professionali e di sempre più sofisticate tecniche di
produzione, alla base delle quali rimane comunque l’inquadratura o la ripresa, aspetto che mi
accingo ad esporre qui di seguito.
4.2 La ripresa
Uno dei momenti centrali della genesi di un’opera cinematografica è rappresentato dalla fase di
ripresa nel suo duplice carattere: ciò che avviene con e dietro la macchina da presa, e ciò che
accade davanti (profilmico). Per quello che riguarda il primo aspetto analizzerò i principali
parametri tecnici della ripresa cinematografica in particolare le inquadrature e i movimenti di
macchina, mentre per ciò che si svolge davanti alla macchina da presa mi concentrerò sulla
recitazione e sulla fotografia (o illuminazione).
La lavorazione di un film procede, sul set cinematografico, per singole inquadrature.
Schematizzando si può affermare che l’inquadratura corrisponde al punto di vista dello spettatore.
In altre parole l’inquadratura equivale sempre a ciò che lo spettatore vedrà sullo schermo. Peraltro
in una singola scena possono esserci molte inquadrature che si adattano ai punti di vista dei vari
personaggi. Quello che è interessante sapere ai fini del lavoro critico, è capire se il ‘lavoro
d’inquadratura’ è coerente con il carattere del personaggio e con lo svolgimento narrativo
dell’opera. È opportuno, per esempio, inquadrare in primissimo piano gli occhi di un personaggio
terrorizzato piuttosto che ‘rendere’ il suo stato d’animo con un’inquadratura a figura intera. In
questo caso, le inquadrature contribuiscono a realizzare gli effetti drammatici della storia. Dal
punto di vista operativo bisogna osservare che, il film può essere girato senza tener conto della
logica narrativa della storia, si può per esempio iniziare a girare le scene che concludono il film.
L’intera struttura narrativa e la sua coerenza verrà compiuta solo in fase di montaggio.
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Oltre al tipo d’inquadratura10, contribuiscono ad enfatizzare gli effetti drammatici di una scena
pure la luminosità – la contrapposizione ‘luce-ombra’ può fornire connotazioni ben precise – e
l’angolo d’inquadratura. Inquadrare un personaggio sistematicamente dall’alto può, se la storia lo
richiede, enfatizzare uno stato d’animo (per es.: di oppressione). Tecnicamente la cinepresa può
essere equipaggiata con supporti che contribuiscono alla formazione e alla comprensione dei
rapporti narrativi ed espressivi presenti nell’opera cinematografica. È possibile, infatti, utilizzare
obiettivi ‘gradangolari’ per dare profondità all’immagine o ‘lungofocali’ se s’intende avvicinare e
ingrandire la realtà profilmica. Inoltre, si può decidere di mettere a fuoco solo l’oggetto o la
persona in primo piano (flou), oppure, far risaltare con ugual nitidezza tutti gli elementi presenti
nell’immagine (a fuoco). Concretamente le inquadrature possono essere di vario tipo (Gola, 1979;
Cerami, 1996):
• inquadratura a dettaglio (o particolare): è un tipo d’inquadratura ravvicinata tesa ad enfatizzare
un oggetto oppure un particolare di un personaggio (spesso del suo viso);
• il primissimo piano: si inquadra il volto di un personaggio;
• il primo piano: si inquadra il personaggio fino all’altezza delle spalle;
• il mezzo primo piano: si inquadra il personaggio fin quasi alla vita. A questo livello comincia a
caricarsi di importanza l’ambiente circostante e a perdere di intensità la figura inquadrata.
• il piano americano: taglia la figura fino alle ginocchia (si usava nei film western per inquadrare
il personaggio fino alla pistola);
• la figura intera: il personaggio è inquadrato in tutta la sua statura;
• il campo medio o piano ravvicinato: è simile alla figura intera ma racchiude più di un
personaggio;
• il campo totale: implica un’inquadratura che copra tutto l’ambiente, di norma sono luoghi
chiusi (per es.: una stanza, una sala da ballo ecc.);
• il campo lungo: si usa in esterno e la macchina da presa guarda verso l’orizzonte con i
personaggi molto distanti (almeno 30 metri);
• il campo lunghissimo: è simile al campo lungo ma la figura umana non è più distinguibile.
10
Non va dimenticato che i significati vengono veicolati anche per merito di ciò che l’inquadratura non riprende. Gola
(1979) spiega come la nozione di ‘fuori campo’ possa drammatizzare in maniera molto efficace – perché lascia spazio
all’immaginazione dello spettatore – la struttura filmica. Gli esempi che riporta Gola corrispondono a due scopi
estetici diversi e in qualche misura contrapposti: uno di carattere sottrattivo e l’altro aggiuntivo. Lo stesso autore
spiega che se in una scena cruenta non riprendo gli avvenimenti, ma lascio percepire solo il sonoro (urla ecc.) l’effetto
sarà particolarmente inquietante. Al contrario se si intende rispondere ad esigenze di sottrazione, di economicità del
racconto si lasceranno ‘fuori campo’ anche le situazioni ritenute normali ai fini della struttura narrativa del racconto
filmico. Questa seconda opzione utilizza come assi portanti della drammaturgia il sonoro e il fuori campo ed impegna
maggiormente lo spettatore ad elaborare un metodo di fruizione dell’opera più sottile e raffinato.
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Ogni tipo di inquadratura dovrà avere anche una determinata lunghezza che si adatti sia al tempo
richiesto per una sua corretta leggibilità, sia alle intenzioni estetiche dell’autore, il quale può
decidere che ‘ritmo’ dare alle varie sequenze.
Speculari al taglio dell’inquadratura vi sono i movimenti di macchina, che possono essere diversi.
Si può inquadrare la realtà, fissando su un punto la macchina da presa e mostrare la realtà con
movimenti da destra a sinistra o viceversa (panoramica). Inoltre è possibile, grazie all’uso di
appositi carrelli su cui si pone la cinepresa, inquadrare la scena con movimenti laterali, oppure
avanzando – seguendo o stando allo stesso livello del personaggio (carrello classico, carrello a
precedere, a seguire o parallelo). La ripresa effettuata dall’alto viene definita dolly, dal nome
dell’attrezzo mobile, che è in grado di eseguire tutti i movimenti in particolare quelli verticali. Se
invece si vuole girare una scena senza stacchi, si provvederà ad allestire un piano-sequenza. Infine
è importante segnalare come, dopo essere stata quasi abbandonata dai registi, sia tornata alla
ribalta, grazie all’avvento del digitale, l’inquadratura a mano.
L’illuminazione può essere considerata un ponte ideale fra il lavoro effettuato con la cinepresa e la
scena profilmica. Di norma, l’illuminazione viene utilizzata sia in riprese interne che esterne,
perché è un fattore determinante per la riuscita espressiva dell’inquadratura. Ovviamente ogni
scena esige un certo grado di illuminazione, che nasce dal rapporto degli oggetti e delle persone
con le fonti di luce. Genericamente si definisce ‘illuminazione diffusa’, quando la fonte di luce
proviene dall’alto ed è distribuita in maniera omogenea su tutta la scena, rispettivamente ad
effetto, quando l’illuminazione si concentra su un determinato oggetto, lasciando in ombra il resto.
Nel cinema hollywoodiano, come spiega Monaco (2002), l’illuminazione si caratterizza per la
disposizione di due fonti luminose: la luce chiave e la luce di riempimento. La luce chiave viene
posizionata: “[…] a un angolo di 45° rispetto all’asse cinepresa-soggetto [e] costituisce la
principale fonte di illuminazione” mentre quella di riempimento è: “[…] meno forte [e] serve ad
ammorbidire le ombre […]” (Monaco, 2002: 181). Per Gola (1979), l’illuminazione è l’elemento
costitutivo più importante dell’immagine cinematografica, poiché oltre a renderla tecnicamente
possibile, la può caricare di significati: da quelli di carattere realistico, ad altri di enfatizzazione di
determinati passaggi del racconto cinematografico, fino a quelli a forte connotazione simbolica.
La recitazione11 e quindi il ruolo dell’attore, resta un punto fondamentale per l’espressività del
racconto cinematografico. Questo perché, da un lato non esistono film – esclusi i film di
11
È interessante rifarsi all’accezione originaria del termine recitazione (cfr. con la classificazione antica del discorso
in particolare quello giuridico) che significa: “fare l’appello delle persone chiamate in giudizio”(Vocabolario
etimologico della lingua italiana, Pianigiani). Risulta evidente il legame molto profondo che la recitazione intrattiene
con la critica, e di conseguenza anche con il giudizio. Di fatto il regista deve continuamente valutare il lavoro degli
attori. La figura del regista deve quindi possedere spiccate facoltà critiche. A questo proposito ricordo che i registi
francesi della nouvelle vague (per es.: Truffaut e Godard) mossero i primi passi occupandosi di cinema con scritti
critici apparsi sui famigerati Cahiers du cinéma.
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animazione digitale – che possano fare a meno dei personaggi, incarnati da attori, dall’altro, perché
la bravura degli attori può ‘salvare’ il valore estetico di opere cinematografiche poco originali.
Pertanto un critico cinematografico non può ignorare le peculiarità della recitazione. Innanzi tutto,
bisogna precisare che la problematica della recitazione deve sottostare a due condizionamenti
imposti dalla tecnica cinematografica: la possibile assenza della voce e la potenza formale e
narrativa del montaggio. L’attore cinematografico non può fare affidamento sul valore espressivo
della voce – ricordo per esempio che nel teatro la bravura dell’attore si fonda per buona parte
sull’azione vocale (Bene, 1990) – infatti, se il film non viene realizzato in presa diretta, la voce
degli attori viene inserita in fase di doppiaggio (dagli stessi attori oppure da doppiatori esteri se
l’opera è tradotta). Questa caratteristica del lavoro cinematografico porta a considerare il corpo, il
gesto, la mimica dell’attore fattori estremamente importanti per l’interpretazione dei vari
personaggi (Termine, 1998). A questo punto si inserisce la seconda condizione, che problematizza
ulteriormente la recitazione, vale a dire il montaggio. La lavorazione estremamente segmentata
dell’opera cinematografica – visto che viene composta da numerose inquadrature spesso ripetute
fino allo sfinimento12 – costringe l’attore ad una forte identificazione nel personaggio e ad una
forza di volontà e di autocontrollo per nulla trascurabili, finalizzati all’armonizzazione dei vari
momenti della recitazione. L’attore cinematografico deve identificarsi nel personaggio in maniera
profonda, poiché tutto il suo lavoro prende forma nelle immagini, ma deve farlo con misura e con
estrema naturalezza. Questo perché la recitazione cinematografica viene amplificata dai mezzi
tecnici che la riprendono, i quali possono, attraverso per esempio un primo piano, rendere palesi
tratti recitativi eccessivamente enfatici. A questo punto è utile capire come il lavoro di ripresa
globalmente inteso, possa realizzarsi con una continuità logico-narrativa in sede di montaggio.
4.3 Il montaggio
Se in fase di ripresa la struttura profilmica viene frammentata in inquadrature – eseguite senza
preoccuparsi di seguire la logica narrativa –, in sede di montaggio si ricompongono le inquadrature
di una scena e successivamente le diverse scene e sequenze13. Tale ricomposizione dovrà produrre
una nuova continuità spazio-temporale dei fatti narrati, pensata in prima istanza nella scrittura del
film (sceneggiatura) e realizzata successivamente sul set cinematografico. Il lavoro di montaggio è
ritenuto centrale nel lavoro cinematografico (soprattutto dai formalisti russi quali per es.:
12
Si caratterizzano per questo metodo di lavoro particolarmente perfezionista, registi come Lars Von Trier e Nanni
Moretti.
13
La differenza fra scena e sequenza è di carattere prettamente temporale. Infatti, la scena si qualifica per un’unità
temporale consecutiva e lineare (simile ad una scena teatrale o di vita vissuta), mentre la sequenza si definisce grazie
alla rottura, operata tramite un’ellissi, della continuità temporale (Gola, 1979).
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Ejsenstein e Pudovkin) poiché con l’accostamento di due immagini – sebbene queste immagini
non abbiano avuto alcun rapporto reale nel momento della loro realizzazione (ripresa) –, si
riescono a veicolare significati ben precisi. Come spiega Liborio Termine (1998), inquadrare il
viso eccitato di un uomo e accostarlo ad un’immagine di un sapido manicaretto oppure di un
cadavere sanguinante produce significati diametralmente opposti. Per questo – nonostante i
formalisti russi diano forse troppa importanza stilistica al montaggio che trova ragioni
nell’impossibilità di sfruttare il sonoro – la fase di montaggio costituisce e costruisce a tutti gli
effetti l’unità narrativa dell’opera cinematografica:
In altri termini, al tempo del muto il montaggio ‘evocava’ ciò che il realizzatore
voleva dire, il ‘découpage’ nel 1938 ‘descriveva’, oggi finalmente si può dire che il
regista ‘scrive’ direttamente in cinema. L’immagine – la sua struttura plastica, la sua
organizzazione nel tempo –, dato che si appoggia a un maggior realismo, dispone così
di molti più mezzi per piegare, modificare dall’interno la realtà. Il cineasta non è più
soltanto il concorrente del pittore o del drammaturgo, ma finalmente l’eguale del
romanziere.
(Bazin, 2004: 92).
Alla base di ogni articolazione cinematografica si trova la ‘logica d’implicazione’ che scaturisce,
come detto, dalla successione di due immagini producendo un’omogeneità linguistica (Gola,
1979). La logica d’implicazione è il risultato di una corretta ‘manipolazione’ del materiale filmato,
in fase di montaggio:
Lo stesso montaggio, che è alla base di tutto il cinema, è già un trucco continuo, senza
per questo ridursi a un ‘falso’, nei casi ordinari: se più immagini successive
rappresentano un luogo da diverse angolazioni, lo spettatore, vittima del ‘trucco’
percepirà spontaneamente quel luogo come unitario, poiché appunto la sua percezione
ne avrà ricostruito l’unità: il trucco qui si fonda su una ‘proiezione’, ed è un altro
aspetto della costruzione analogica, della costruzione del rappresentato: costruzione
nel film e anche nella mente dello spettatore.
(Metz, 1995: 289-290).
Nel linguaggio cinematografico la logica d’implicazione suggerisce allo spettatore non solo legami
di tipo narrativo ma anche logico-causali. Impostare una sequenza affiancando l’inquadratura di un
corpo esanime con quella di un uomo armato, porta lo spettatore a dedurre che quest’ultimo sia,
non solo un testimone, ma pure l’autore del delitto. In altri termini, la successione temporale viene
percepita come causa. La percezione di tali implicazioni è in ogni modo subordinata al rispetto di
alcuni parametri spazio-temporali che il montaggio deve soddisfare, diversamente lo spettatore
rimarrà confuso, poiché ciò che vede non corrisponde ad una possibile realtà referente. Se il
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montaggio si occupa per esempio di unire le inquadrature di un dialogo, dovrà rispettare ciò che
avviene nella realtà, vale a dire inquadrare ogni interlocutore fino al termine del suo intervento, e,
successivamente, staccare verso il personaggio che si accinge a rispondere. Il tentativo è in questo
caso quello di tendere una continuità fra la realtà filmata e quella referente. Altre volte è possibile
‘rompere’ la continuità con il reale, facendo uso di ellissi che possono essere sia brevi (accosto
l’inizio e la fine di un’azione senza filmare la parte centrale), sia veri e propri salti temporali che
spostano l’asse narrativo del film (flash-back). Dal punto di vista spaziale non è possibile per
contro, ‘rompere’ la continuità fra la realtà filmata e quella referente. In altre parole, il montaggio
deve rispettare la posizione, all’interno di due immagini contigue, di tutto ciò che viene filmato,
seguendo le regole sintattiche del montaggio (Gola, 1979). La prima regola è detta ‘raccordo di
sguardo’ e si compie per esempio quando due inquadrature separate filmano due attori che si
guardano, in quel caso il primo personaggio deve guardare il lato destro dello schermo mentre il
secondo personaggio quello sinistro, altrimenti si produrrebbe l’impressione che i due attori non si
guardino affatto. Inoltre, se l’oggetto dell’inquadrature si riferisce ad un oggetto o ad una persona
in movimento, si deve rispettare il ‘raccordo di direzione’. In pratica, se un veicolo, in una prima
inquadratura, esce sulla sinistra dello schermo, in quella successiva deve entrare dalla destra,
altrimenti darà l’impressione di aver cambiato direzione.
Infine, è possibile notare come il montaggio sia in stretta relazione con la prima fase del lavoro
cinematografico. In effetti, è proprio la sceneggiatura che dispone l’ordine dei fatti (cfr. storia),
che poi viene realizzato (cfr. dialogo) in fase di montaggio. Il montaggio può rispettare fedelmente
lo svolgimento dei fatti. In questo caso la consecuzione temporale delle inquadrature e lo svolgersi
dei fatti proseguono di pari passo. Altre tecniche stilistiche di montaggio si caratterizzano per la
capacità di raccontare uno stesso avvenimento da punti di vista contrapposti (per es.: le immagini
di un delitto filmate prima dal punto di vista della vittima poi dal punto di vista del carnefice;
quest’alternanza viene usata per sottolineare la drammaticità di un evento). All’opposto esiste una
tecnica di montaggio detta ‘descrittiva’, che non bada ad offrire alcun ordine temporale allo
spettatore, il quale, paradossalmente, potrebbe cambiare l’ordine delle immagini senza che il senso
complessivo si modifichi. Tale senso si fonda su una supposta coesistenza spaziale delle
inquadrature. Se, per esempio, si intende descrivere un luogo, città o paesaggio che sia, può non
essere decisivo, ai fini della consecuzione dei fatti narrati, iniziare dal volto di un passante,
staccando poi sulla piazza centrale per finire al bar di quartiere. Optare per una successione delle
immagini esattamente opposta non produrrebbe alcuna modifica significativa.
Il montaggio unitario delle immagini di un’opera cinematografica è in qualche misura legato a ciò
che i critici definiscono il ritmo di un film. Spesso – e forse troppo ingiustamente – si critica un
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film per la sua intrinseca lentezza. Non di rado la lunghezza delle singole inquadrature mette in
crisi lo spettatore poco avvezzo a questo tipo di cinema, e l’accusa più comune è per l’appunto la
mancanza di ritmo. A questo proposito è opportuno ricordare che: “Il ritmo non può essere
significante da solo; può solo ‘aggiungere’ le proprie suggestioni a un contenuto diegetico
[narrativo] già significante per se stesso. (Si potrebbe dire che il ritmo è sempre connotato, mai
denotato)” (Metz, 1995: 35). Secondo Metz è quindi molto rischioso soffermarsi a giudicare il
ritmo di un’opera cinematografica senza aver prima effettuato una profonda riflessione (anche
ideologica) sui fatti veri e propri, presenti nel film. Il ritmo è sempre subordinato
all’interpretazione globale di un’opera cinematografica, ma con quali accorgimenti un critico può
prospettare un’interpretazione dell’oggetto cinematografico?
4.4 L’interpretazione dell’opera cinematografica
Ogni specificità del racconto cinematografico, dai movimenti di macchina, alle inquadrature, alla
recitazione, alla fotografia, alle caratteristiche psicologiche dei personaggi, alle loro azioni, fino al
messaggio complessivo dell’opera cinematografica, ha un preciso significato. Come nelle prove
letterarie anche nel cinema si trovano due principali livelli di significazione: un primo livello
incentrato sulla lettura analitica del testo filmico ed un secondo teso all’interpretazione dell’opera
nel suo complesso. Il primo livello, all’interno del quale interagiscono i vari codici che
compongono concretamente e tecnicamente il racconto, è di natura denotativa. Di fatto, il film
presenta personaggi, azioni e luoghi disposti secondo lo svolgersi di una trama. L’aspetto
denotativo li esamina per quello che sono, ossia per nuclei tematici rinvenibili in modo chiaro,
legati da una logica narrativa (cfr. critica descrittiva). Per contro, il secondo livello è di tipo
connotativo e si concentra sull’interpretazione che supera la dinamicità dell’intrigo, dedicando i
propri sforzi alle significazioni simboliche dell’opera e al giudizio di valore (cfr. critica
normativa). L’oggetto di questo paragrafo è principalmente il livello connotativo dell’opera
cinematografica. È infatti in questo momento che il critico compie l’interpretazione dell’opera,
scontrandosi con i problemi di oggettività. Secondo Cavell (1999) l’obiezione posta nei confronti
dell’esercizio critico si basa su una duplice preoccupazione: da un lato, l’accusa è di produrre un
‘eccesso di interpretazione’, in altri termini di leggere nell’opera qualcosa che non le appartiene;
dall’altro, che le interpretazioni possibili potrebbero essere molte. Sempre secondo lo studioso
americano il rischio di sovrainterpretare sembra essere più che altro un ‘falso problema’:
Secondo la mia esperienza, la gente preoccupata dal «leggere dentro», o dal
sovrainterpretare, o dall’andare troppo lontano, è o era di solito timorosa di iniziare,
31
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ha paura della lettura in quanto tale, come preoccupata che i testi – come le persone,
come i tempi e gli spazi – significhino delle cose, e più ancora: che significhino più di
ciò che noi sappiamo. […] Eppure la mia esperienza è che la maggior parte dei testi,
come la maggior parte delle vite, sono sotto-lette [underread], non sovra-lette. E la
morale che io propongo è che questa affermazione divenga il soggetto di discussioni di
testi particolari.
(Cavell, 1999: LVIII).
La seconda critica posta al metodo filosofico è, come detto, quella secondo cui le interpretazioni
possono essere diverse. Ma cosa significa dare un’interpretazione? Il verbo interpretare significa
comprendere, cogliere un aspetto di qualcosa, ma presuppone implicitamente che vi siano modi
alternativi di vedere “qualcosa come qualcosa” (ivi: LIX). Che vi siano più interpretazioni è quindi
assolutamente naturale e non costituisce un ostacolo. Il fatto di poter dare diverse interpretazioni
rimane però un’obiezione vacua, sempre secondo Cavell, poiché la ‘nuova’ interpretazione deve
esplicitamente essere alternativa e quindi in grado di oscurare la prima. In altri termini, ci possono
essere più interpretazioni, ma dal momento che vengono poste in competizione, ne rimarrà una
sola. Inoltre, la completezza d’analisi:” […] non significa raccogliere ‘tutte’ le interpretazioni ma
‘attraversarne’ [seeing through] una di esse (ivi: LX).
Diversamente per Metz (1995) l’interpretazione del contenuto di un’opera cinematografica non
può essere confusa con i problemi a cui il film rimanda, ma si deve sempre giudicare il modo, la
forma, attraverso il quale il discorso filmico tratta al suo interno determinate tematiche. Da qui si
capisce come per Metz non sia possibile scindere il livello denotativo (significante) da quello
connotativo (significato)14. In altre parole, un film, in quanto opera composta sia da immagini
(frutto di scelte tecnico-formali) sia da contenuto e in particolare da forme che veicolano un
contenuto particolare, non produce solo significanti o solo significati, ma significazioni. Il critico
non può di conseguenza, ai fini di una corretta interpretazione, trascurare le relazioni che
intercorrono fra il livello dei significanti (codici tecnico-formali) e quello dei significati (codici
semantico-culturali).
5. La critica musicale
Prima di introdurre l’argomento della critica musicale, è necessario delimitarne l’oggetto di studio.
La delimitazione di un genere musicale è spesso soggetta a contraddizioni e semplificazioni
arbitrarie. Ciò rende molto difficile une unité de doctrine sull’argomento. Dovendo però, per
questioni di chiarezza espositiva, delimitare un genere musicale mi rifarò a quanto segue.
14
Ricordo che per Monaco (2002) il significante e il significato dell’immagine cinematografica non solo non sono
scindibili, ma coincidono.
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L’ambito musicale in oggetto è la cosiddetta musica pop-rock, la stessa trattata da re.set. Questo
termine esclude categoricamente la musica classica ma non pone barriere ad altri generi musicali.
Tecnicamente si definisce pop-rock la musica prodotta a fini commerciali (popular music, o
musica leggera) derivata dalla musica afro-americana (rhythm and blues), caratterizzata da una
forte connotazione provocatoria, accentuazione della struttura ritmica e amplificazione degli
strumenti musicali. Dettagli riguardo al genere musicale verranno esposti nel capitolo seguente.
Di tutti gli oggetti artistici passati sotto la lente dell’analisi critica, quello musicale è stato
sicuramente uno dei più trascurati dagli studiosi, soprattutto se – come avviene in questa ricerca –
ci si focalizza sull’analisi della musica moderna. Vi sono molti autorevoli musicologi che hanno,
in questi ultimi anni, pubblicato studi sulla cosiddetta popular music: da Philip Tagg a Richard
Middleton fino all’italiano Fanco Fabbri, ma nessuno di loro si è occupato specificatamente della
disciplina critica in ambito, appunto, musicale. Per contro – considerando solo il panorama
editoriale italiano – vi è un numero non trascurabile di riviste, mensili o settimanali, che trattano la
musica moderna in un’ottica critica. Sembra vi sia una preferenza, da parte degli operatori del
settore, a privilegiare l’aspetto pratico della prassi giornalistica, senza dare troppo peso allo studio
teorico della critica15. In altri termini, alcuni critici musicali – definiti da Carrera (1980)
‘neoromantici’ – si distinguono per un approccio al lavoro critico fortemente spontaneo16;
rivendicano il primato dell’emozione su quello della cognizione, e si allontanano volontariamente
dallo studio teorico della critica e a volte anche della musica.
Cercherò in questa sezione di porre alcuni elementi di riflessione utili per analizzare l’oggetto
musicale, analisi che poi verrà confrontata con alcuni esempi pratici nel tentativo di vedere quali
differenze esistano fra la teoria e la pratica della critica in questo settore. Non sarà in ogni caso mia
intenzione giudicare la professionalità del singolo critico, sia perché non ne ho la competenza, sia
perché questo studio non è stato pensato in questi termini. Inoltre, ogni critico è confrontato con
15
Questa mia impressione è stata corroborata da alcuni contatti avuti con professionisti del settore (ad es.: Nicola
Catalano e Fabio Barbieri), i quali esprimono la loro distanza dallo studio della critica in musica pensando così di
mantenere genuino il loro approccio all’arte, (cfr. paragrafo le immagini della critica). Quest’attitudine è stata
sintetizzata in maniera provocatoria ma comunque efficace, visto che molti operatori sembrano condividerla, dalla
celeberrima affermazione di Frank Zappa: "Le riviste musicali sono scritte da persone che non sanno scrivere per
persone che non sanno leggere, con interviste a persone che non sanno parlare" (la fonte è Fabio Barbieri il quale mi
ha riportato queste parole in una delle sue lettere).
16
A questo proposito è utile ricordare che: “[…] è certo eccessivo legittimare esteticamente l’analfabetismo musicale e
negare che costituisca un problema a un ascolto efficace. Quell’«immediatezza» estetica che si vorrebbe preservare
evitando al non iniziato l’approccio alla scrittura musicale non è che un miraggio. L’ascolto apparentemente
«immediato» dell’analfabeta musicale è in realtà mediato dagli schemi imposti dall’industria del divertimento, e la
libertà estetica, che entra con l’oggetto in rapporto «immediato» e non condizionato da dogmi, non può realizzarsi che
per via mediata, con un’emancipazione dal convenzionale, e a tal fine è irrinunciabile lo strumento di una riflessione
sulla musica mediata dalla scrittura.” (Dahlhaus, 1987: 64).
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una lunga serie di limitazioni pratiche, dalla perenne penuria di tempo17 a disposizione agli
affliggenti limiti di spazio, che ne condizionano inevitabilmente l’esposizione. Da non
sottovalutare vi è pure il tipo di pubblico al quale la singola rivista si rivolge, che condiziona sia le
scelte, sia la profondità d’analisi del lavoro critico. Può sembrare paradossale, ma fa ancora più
effetto, se si considera che molti critici musicali scrivono su più riviste e ‘correggono il giudizio
critico’ a seconda del pubblico al quale si rivolgono18, portando alla luce la concezione del
destinatario come coautore del testo.
5.1 La definizione di genere musicale
Ho scelto di trattare la questione del genere musicale perché non credo che esista alcuna
recensione in ambito musicale – soprattutto se riguarda musica prodotta dalla seconda metà del
secolo XX in avanti19 – che non si riferisca ad un determinato genere musicale20.
La questione del concetto di genere in musica – come del resto anche in altre discipline – è assai
complessa e sfaccettata. I significati che ogni genere musicale porta con sé differiscono dalla
concezione personale di musica – mutevole nel tempo – che ognuno di noi ha, e spesso differisce
pure da una nazione all’altra. Il termine stesso di musica popolare ha, in Italia, un significato che
sfiora l’ambito folcloristico, mentre nella cultura anglosassone la popular music21 gode di una
legittimazione molto ampia che la vede, non di rado, presente in programmi scolastici. Parlare di
un genere in rapporto ad un’opera musicale comporta quindi non pochi rischi, ma per un critico
sarebbe certo più imbarazzante non riconoscerne l’esistenza quando magari molti ascoltatori – o
altri operatori del settore – lo fanno. Da non dimenticare vi è pure la questione che la critica
competente non dovrebbe incorrere in decodificazioni erronee (riconoscere norme di genere
diverse da quelle intese dall’artista) anche se, non è infrequente leggere esaltazioni di alcune
17
A questo proposito Federico Guglielmi noto critico rock ha dichiarato che prima di giudicare un’opera musicale
ascolta un disco tre volte; sicuramente la lunga esperienza gli permette di ascoltare un disco solo tre volte ma è lecito
chiedersi quanto questa abitudine sia figlia della cronica mancanza di tempo.
18
Questa considerazione – che sottolinea una volta di più l’importanza del destinatario – è stata ribadita da John
Vignola, stimato critico nonché produttore musicale durante la trasmissione radiofonica Razione K del primo maggio
2004 (min. 46) trasmessa dal terzo canale della RAI, scaricabile al sito www. radio.rai.it/radio3/razione_k/puntate.cfm
(ultima visita 07.06.2004).
19
A quegli anni risale la nascita del rock che ha notevolmente cambiato non solo il panorama della ricezione musicale
ma anche quello della produzione. L’attenzione agli aspetti sonori e produttivi ha accelerato – anche grazie ai
progressi tecnologici – la diffusione delle possibilità produttive generando una notevole diversificazione dei generi
musicali.
20
Negli ultimi anni si nota una tendenza da parte dei giornalisti musicali a creare, con imbarazzante rapidità,
neologismi per descrivere nuovi generi musicali. Tali generi (per es.: New Acoustitic Movement detto anche neofolk o
alternative country) abbandonano la ribalta mediatica con uguale rapidità, dimostrando di essere una pura astrazione
frutto della fantasia dei giornalisti, senza alcuna corrispondenza con i contenuti musicali.
21
Per Richard Middleton (1994) sia la musica rock sia la musica leggera rientrano nel genere definito come popular
music. La medesima concezione viene tenuta in considerazione nel presente lavoro. Semplificando si può definire
popular music tutta la musica che viene prodotta a fini commerciali.
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caratteristiche musicali riconducibili ad un genere, quando invece le stesse parti non rivestono la
medesima importanza per l’autore.
La natura sociale del genere rivela come esso debba essere in rapporto con ciò che intende
connotare senza però trascurare l’insieme delle altre opere, e più in generale l’intera collettività:
Il problema dei generi e in definitiva il problema storico del linguaggio musicale
persiste a dispetto del troppo facile tentativo di sbarazzarsene da parte idealista […] è
chiaro che se un significato ancora sussiste per molte opere, esso è da ricercarsi
proprio nel loro porsi come negazione delle forme tradizionali, negazione che è
sempre un rapporto di antitesi. Ogni opera musicale, oggi come ieri, acquista
significato solo perché si inserisce in un contesto storico musicale e culturale […].
(Fubini citato in Fabbri, 1981: 59).
Il genere musicale è: “un insieme di fatti musicali, reali e possibili, il cui svolgimento è governato
da un insieme definito di norme socialmente accettate” (Fabbri, 1996: 13). Come spiega lo stesso
Fabbri se il genere è un insieme di fatti musicali e la teoria degli insiemi prevede di poter parlare di
sottoinsiemi, allora si può anche parlare di generi e di sottogeneri, in particolare quando un fatto
musicale si trova nell’intersezione tra due o più generi. Resta da capire cosa s’intende per fatto
musicale. Una delle definizioni più generali parla del fatto musicale nei termini di: “un qualunque
tipo di attività intorno a qualunque tipo di eventi sonori” (Stefani citato in Fabbri, 1996: 13). Certo,
questa definizione è piuttosto ampia, ma dal mio punto di vista, ben si adatta alle innumerevoli
caratterizzazioni sonore che il sistema della musica in questi anni è stato, e sarà, in grado di
produrre; allontanando ogni pregiudizio sulla legittimità artistica di un determinato fatto musicale.
Non va dimenticato che il riconoscimento dell’appartenenza di un’opera musicale ad un genere,
contribuisce, grazie anche al paragone, a far emergere lo scarto creativo rispetto alle opere del
passato e del presente.
In musica si possono distinguere due scuole di critica: la prima “conservatrice” che giudicherà in
maniera positiva una canzone nel momento in cui questa sia riconducibile ad una determinata
concezione ideale di genere; la seconda “progressista” la quale giudicherà valida l’opera musicale
quando questa supererà le definizioni di genere (Fabbri, 1981: 43)22. In ogni modo è importante
saper riconoscere (e conoscere di conseguenza le norme che lo caratterizzano) un genere, non solo
per orientare il gusto o l’acquisto del lettore, ma anche per aiutarlo a conoscere e a capire la
musica che si troverà ad ascoltare: “Del resto è proprio in chiave di decodifica che i generi servono
22
Cfr. con la critica cinematografica descrittiva e normativa (cap. 4). Per un approfondimento su questo tema, riferito
però in gran parte all’arte figurativa, consiglio il testo Produzione artistica e mercato di Francesco Poli.
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alla critica e, più in generale, a parlare di musica: la mancanza di una teoria adeguata ad un
insieme nuovo di opere può impedirne la comprensione […]” (Guillén citato in Fabbri 1981: 50).
Nei suoi studi sul genere musicale Franco Fabbri (1981, 1996) elenca una serie di norme che
connotano un genere musicale, elenco che come precisa lui stesso, non potrà mai essere esauriente.
Proporrò ora una sintesi di queste norme privilegiando quelle che più si avvicinano alla disciplina
della critica senza considerare quelle di derivazione sociologica.
Vi sono delle norme definite tecnico-formali che riguardano specificamente il livello compositivo,
le modalità e le capacità d’esecuzione dell’opera musicale, nonché le caratteristiche degli
strumenti utilizzati; un musicista jazz e un concertista hanno due modi diversi di suonare la
tromba. Inoltre, ogni genere possiede delle proprie concezioni rispetto all’importanza da assegnare
agli elementi melodici, armonici e ritmici. Nei casi in cui il genere musicale (o meglio la canzone
in sé) avesse un testo, dovranno essere tenute in considerazione le medesime norme e, più in
generale, si dovrà porre attenzione al rapporto testo-musica, valutando per es.: l’uso della metrica,
della sintassi, le scelte lessicali e anche lo stile dell’autore.
Esistono ulteriori norme che riguardano le strategie narrative che tracciano delle caratteristiche
precise della canzone, per es.: il testo di una canzone pop-rock rappresenta spesso una variazione
del mondo reale con il quale l’ascoltatore può immedesimarsi, mentre nella canzone d’autore si
rappresenta il mondo in maniera realistica e l’identificazione, se c’è, avviene direttamente con il
cantante.
Fabbri, riprendendo la concezione delle funzioni comunicative di Roman Jakobson, spiega come la
musica possa avere, a dipendenza del genere, una funzione predominante sulle altre. Interessanti
sono gli esempi della musica di sottofondo (conativa), della musica d’avanguardia
(metalinguistica), di quella da ballo (imperativa) e di quella emotiva (jingle pubblicitari e musica
da film).
Più prossime alla sociologia della ricezione sono le norme prossemiche, che definiscono il genere
tramite lo studio del rapporto esistente fra i musicisti, i fruitori e la modalità di occupazione dello
spazio adibito al ‘consumo’ musicale.
5.2 Qualche rilievo sulla struttura musicale
Archiviato il controverso capitolo sul genere se ne apre un altro altrettanto spinoso. La questione
della struttura musicale è a sua volta fonte di varie teorie e convinzioni. Cercherò comunque di
trovare un common ground riguardo all’analisi della struttura tipica della canzone pop-rock.
La componente teorica dell’agire critico, non solo in ambito musicale, viene soddisfatta grazie
all’analisi della struttura dell’opera in questione. Sottoporre un oggetto come il Compact Disc a
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questo tipo di processo non è un fatto per nulla evidente. Di fatto, si è a conoscenza della
combinazione degli strumenti utilizzati per suonare, ma non si dispone della notazione musicale.
Poterla trascrivere è operazione piuttosto complessa che necessita di una sensibilità e di una
competenza assai raffinate. Come si può ovviare a questo impedimento? Una parziale risposta la si
ritrova nell’approccio proposto di nuovo da Franco Fabbri nel suo saggio Il suono in cui viviamo,
dove il musicologo delinea una griglia che ben si adatta al tipo di musica in oggetto. Egli propone
di suddividere la canzone nei seguenti segmenti:
a) Intro: è la parte iniziale della canzone, non di rado è una parte eseguita solo con la sezione
strumentale.
b) Verse: con questo termine si indica la parte narrativa della canzone che non verrà ripetuta,
corrisponde a ciò che in italiano si definisce come ‘strofa’; prepara l’arrivo del Chorus.
c) Chorus: è la parte principale della canzone sostenuta, a volte, da un riff23 musicale, che ne
segue la tonalità. Al suo interno viene spesso citato il titolo della canzone, corrisponde in linea
di massima al concetto italiano di ‘ritornello’.
d) Hook: quest’elemento è la parte centrale di quello precedente (Chorus), è l’apice del ritornello
che serve a catturare l’attenzione di chi ascolta.
e) Bridge: il termine è fonte di interpretazioni differenti, può essere paragonato ad una sorta di
intermezzo, mantenendo la visione di Fabbri lo si può definire come: “Una parte contrastante,
distinta dal verse e dal chorus […]. Poiché il bridge è molto spesso (ma non sempre) di otto
battute viene anche chiamato middle-eight (le otto battute di mezzo) […]” (Fabbri, 1996: 60).
f) Coda: in questa parte si sfuma spesso una variante del Chorus altre volte rimane una sfumatura
unicamente strumentale.
L’alchimia che governa la formula di successo di una canzone e di conseguenza delle sue parti
costituenti è tuttora un mistero, ma si può di certo affermare che se successo esiste allora quella
canzone è in grado di catturare l’attenzione di chi l’ascolta. Nasce a questo proposito un
interessante parallelismo fra la musica e la retorica:
[…] le parti di una canzone si succedono con funzioni paragonabili a quelle delle
parti dell’orazione descritte e teorizzate dalla retorica, e non è difficile rintracciare
esempi di canzoni (come del resto di altre composizioni musicali) che sembrano
23
Con questo termine si definisce una ricorrenza stilistica, “una breve frase ritmico-melodica ripetuta ostinatamente.
Basato sul blues il riff trae origine dallo schema domanda-risposta (e precisamente dal dialogo voce solista e coro)
presente nel canto di lavoro e religioso dei neri negli Stati Uniti” (La nuova enciclopedia della musica, Garzanti).
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seguire alla lettera lo schema classico di Ermagora: […] esordio, esposizione del
fatto, argomentazione, perorazione.
(ivi: 62).
Al fianco di questa prima suddivisione – che ricordo è solo una delle tante possibili, benché, come
spiega lo stesso Fabbri, la più accreditata dagli operatori del settore – vi sono delle strategie
musico-narrative che definiscono l’articolazione interna dei summenzionati elementi. Vi è la
strategia cosiddetta antecedente-conseguente, nella quale si sfrutta la consequenzialità del rapporto
strofa-ritornello per creare l’attesa per il momento topico (Chorus e Hook), sottolineando questo
passaggio con movimenti melodici e ritmici. Lo stesso rapporto può sfruttare anche abbinamenti
che si basano sul montaggio di elementi estranei e non più consequenziali; altre volte l’accento
viene posto – come avviene nel minimalismo – sulla reiterazione di elementi identici, altre ancora
– come nelle filastrocche – si avvale di processi cumulativi. In una canzone possono coesistere
diversi elementi di contrasto che riguardano il profilo melodico, armonico e ritmico i quali
soddisfano esigenze di ecletticità e varietà: dai cambiamenti di direzione ai contrasti fra la melodia
della voce e l’accompagnamento strumentale fino ai dialoghi in cui la voce solista chiama, e il
coro risponde (si pensi al ritornello di Satisfaction dei Rolling Stones).
Le strutture formali che maggiormente si riscontrano nella popular music seguono lo schema
Chorus-Bridge24 oppure Verse-Chorus25 (strofa-ritornello). Il primo schema si contraddistingue
per la posizione iniziale dell’apogeo del ritornello (Hook), mentre nel secondo l’acme del
ritornello è alla fine o, al massimo, è il secondo elemento della canzone; indicativamente il primo
si può riassumere con la sequenza: C-C-B-C-B-C; e il secondo con: S-R-S-R-R (l’ultimo ritornello
viene proposto con una tonalità superiore rispetto ai precedenti).
Questi schemi appartengono anche abbastanza chiaramente a due tradizioni culturali distinte: lo
schema CB è abbastanza diffuso nella musica anglosassone (per es.: Yesterday dei Beatles),
mentre lo schema SR è tipico della musica italiana e latina. Il coinvolgimento graduale,
cumulativo e finalistico sono i principali tratti della struttura SR: è, in altri termini, un percorso
narrativo che giunge ad una conclusione appagante; mentre il piacere immediato, il carattere
imperativo, distaccato e sottrattivo sono le peculiarità del sistema CB:
La struttura CB è chiusa, senza evoluzione: la sua condizione di esistenza è il
restringimento, l’implosione […]; la struttura SR può gonfiarsi, accumulare nuovi
elementi, esplodere. Basata com’è sulla crescita, la struttura SR assolve alla sua
funzione se testo e musica sviluppano al meglio le loro capacità narrative; viceversa
24
25
D’ora in poi CB.
D’ora in poi SR.
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perché la struttura CB funzioni è sufficiente che vengano presentate situazioni efficaci:
la struttura CB è una macchina scenica in sé.
(ivi: 68-69).
L’ottica narrativa è differente nelle due strutture: in quella CB si raccontano, in genere, spaccati di
vita in terza persona senza contestualizzare particolarmente la situazione con dettagli caratteriali o
d’altro tipo, mentre nella canzone SR il testo è più orientato alla narrazione grazie all’uso
frequente della prima persona e alla precisa caratterizzazione di situazioni, personaggi e
sentimenti.
5.3 Quanto è importante il testo
Non serve essere degli esperti per intuire che il testo – quando c’è – riveste un’elevata importanza
per la riuscita globale di una canzone. La musica pop-rock nasce proprio come unione fra musica e
parole, e non di rado queste ultime godono di un primato rispetto alla musica. Questa affermazione
è, a dire il vero, parecchio influenzata dal tipo di analisi che i critici musicali svolgono; molto più
concentrata sulle parole che sulla notazione musicale. Secondo Simon Frith (1982) questa
tendenza sarebbe causata dalla maggior facilità di trascrizione delle parole rispetto alle note e alla
più immediata comprensione delle stesse rispetto agli accordi musicali. Di opinione diversa è
Umberto Fiori secondo cui la parte testuale di una canzone possiede altrettante difficoltà di quella
musicale.
Le più evidenti, e ormai da tempo persino ovvie, sono quelle che derivano dalla
particolarità, dalla specificità della presenza della parola in questo ambito espressivo:
nella canzone […] la parola è sempre una parola ‘cantata’, musica e voce concorrono
in modo determinante alla produzione del senso; i versi stampati […] non possono
darci se non un’immagine parziale, molto riduttiva di un testo complesso, fatto di
parole ma anche di suoni, di timbri, di gesti.
(Fiori, 2003: 29-30).
Per un critico che si avvicini ad una nuova canzone deve essere quindi chiaro, non solo il valore
strettamente letterario del testo ma anche il rapporto con la sua esecuzione e più in generale con
l’intero impianto sonoro dell’opera. Può quindi esistere un testo ricco dal punto di vista letterale
ma che mal si adatta al ‘contesto’ voce-musica, e viceversa, un testo apparentemente semplice ma
che dimostra una notevole aderenza sia nei confronti della voce che della musica. Tuttavia non mi
sembra peregrina l’idea – contrariamente all’opinione di Fiori – di considerare questi momenti dei
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livelli di una stessa analisi: il primo livello di pura analisi contenutistico-letteraria (avulsa dalla
musica) e il secondo di natura più integrata (testo, esecuzione e musica).
Analizzare le parole, concentrandosi sui contenuti, senza considerare la musica, permette di
allontanare il carico emotivo e per certi versi acquiescente, che la musica di norma riesce ad
infondere. Questi due livelli mi paiono giustificati dal fatto che, in ogni caso, i testi delle canzoni
vengono composti a partire da una tradizione scritta. Quest’ultima possiede proprie tecniche,
forme e metodi, ma deve sottostare alle metriche musicali. Il secondo livello è, di conseguenza,
altrettanto necessario, nella convinzione che:
Nelle canzoni, le parole costituiscono il segno di una voce. Una canzone è sempre
un’esecuzione, e le sue parole rappresentano sempre un’affermazione esplicita,
espressa con accento individuale. Le canzoni assomigliano di più a una sceneggiatura
che a una poesia; le parole delle canzoni agiscono come linguaggio e come atti
linguistici, che veicolano significati non soltanto dal punto di vista semantico, ma
anche come strutture sonore che costituiscono segni diretti di emozione e tratti
caratteriali.
(Frith, 1990: 135).
L’incontro fra due codici differenti produce qualcosa di molto particolare che non è assimilabile
alla sola poesia (come spesso accade) e neppure alla sola musica. Pertanto, dal mio punto di vista,
l’analisi deve essere articolata nei suddetti momenti. In fondo la canzone può essere
autorevolmente definita “actio completa dictantis verba modulationi armonizata” cioè “un’azione
in sé compiuta di chi scrive parole armonicamente disposte in vista della modulazione melodica”
(Dante citato in Fiori, 2003: 31).
Già con la definizione di genere musicale si era resa palese l’idea della trasversalità delle
competenze richieste ad un critico musicale che deve essere, ora ancor di più, un uomo di lettere,
sia per l’analisi sia per la resa in parole di quanto analizzato.
Durante una canzone rock – che, come per tutte le forme d’arte, tende a rappresentare la realtà
attraverso una sua mimesi – l’artista canta spesso usando la prima persona, cercando di collegare
la propria quotidianità con quella del pubblico. Di più, il carattere perentorio delle affermazioni
conduce ad una implicita adesione degli argomenti da parte degli ascoltatori (vedi ad es.:
Satisfaction dei Rolling Stones). Il rischio che il critico corre è quello di giudicare le parole come
veicolo della personalità dell’artista proprio perché, come spiga ancora Simon Frith (1982),
quando ascoltiamo un’opera veniamo colpiti più che dalla musica dalla persona che la canta. Non
è solo quindi una questione di vocalità ma anche di personalità. Se il critico cade troppo
nell’identificazione rischia di sostituire il proprio lavoro critico con il mero piacere personale,
scivolando in valutazioni encomiastiche.
40
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5.4 La produzione musicale
Il critico musicale è chiamato ad esprimere la propria valutazione nei confronti di un’opera
musicale che si presenta – nella quasi totalità dei casi – sotto forma di un Compact Disc. Questo
oggetto viene prodotto in studi di registrazione i quali racchiudono idealmente il lavoro, non solo
dei musicisti, ma anche di innumerevoli tecnici ed esperti che concorrono attivamente alla
definizione e alla realizzazione del prodotto. Di conseguenza analizzare un’opera musicale
significa anche non trascurare il lavoro di produzione che si svolge in studio. Molti artisti
ammettono ormai da tempo la precipua influenza del produttore che è in grado, grazie anche a
supporti altamente tecnologici, di offrire soluzioni sonore spesso decisive ai fini del successo e
dello spessore qualitativo di un’opera musicale26.
Da notare che l’oggetto che il critico musicale ha per le mani non è, come si potrebbe pensare, una
copia riprodotta dell’originale, ma è propriamente uno dei tanti originali, infatti: “Ciò che conta
non è la qualità di un unico originale, ma la possibilità che tutte le caratteristiche del risultato del
processo siano riconoscibili in ugual misura nei diversi esemplari”27 (Fabbri, 1996: 91).
L’idea dello studio di registrazione come luogo neutro o al massimo di solo lavoro è fuorviante,
perché è esattamente in quel momento che si mette alla prova la creatività dell’artista unita a
quella del produttore, creando il vero e proprio oggetto finale.
L’aspetto centrale della comprensione del lavoro produttivo è quello di cercare di individuare
“[…] un meccanismo di assegnazione di significato a questo o a quell’effetto sonoro, timbro o
insieme di sonorità, che nel lavoro in studio di registrazione è sempre presente, sia in modo palese
che in forma latente […]” (ivi: 107).
Riprendendo gli studi di Philip Tagg, Fabbri spiega che:
La creazione del significato, ovviamente, è un processo collettivo, e il produttore tende
normalmente a essere un arbitro o un amministratore di processi semantici più che un
inventore. Così, se è vero che una ricerca sul significato del suono deve
obbligatoriamente passare per lo studio di registrazione, non può tuttavia limitarvisi.
L’intuizione ermeneutica, la sostituzione ipotetica, le comparazioni intersoggettive e
interoggetive si devono applicare anche all’altra estremità della catena della
produzione e della riproduzione elettroacustica, cioè dalla parte dell’ascoltatore
finale.
26
Fabbri (1996) elenca molti esempi fra i quali il più famoso riguarda Intruder di Peter Gabriel il cui suono potente dei
tamburi, ripreso poi da molti altri artisti, fu messo a punto dai produttori Hugh Padgham e Steve Lillywhite.
27
Sempre Fabbri spiega che nemmeno l’esecuzione dei musicisti può essere definita come l’originale, di norma si
considera come originale il master (il nastro che verrà inciso su supporto digitale), il quale è in ogni caso la somma di
più registrazioni avvenute in tempi e luoghi diversi, cionondimeno il Compact Disc ne permette una fedelissima
riproduzione; cfr: Benjamin e in particolare il concetto di aurea esposto da Jedlowski in Il mondo in questione (2000).
41
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(Fabbri, 1996: 111).
Fabbri ha in mente come ascoltatore finale l’acquirente del disco, ma a questa figura si può
sovrapporre a fortiori la figura del critico che deve conoscere i processi da lui accennati. Per farlo,
visto che in questo ambito non esistono – eccetto gli apporti di Tagg – studi organici sugli aspetti
tecnici e formali del lavoro produttivo (i quali farebbero comunque fatica a tener il passo
dell’evoluzione tecnologica), non resta che far ‘riemergere’ la teoria dal lavoro esperito in studio.
Capire l’influenza creativa della produzione non è un atto scontato, ed è tanto più possibile quanto
più il critico riesce a vantare ‘fra le proprie corde’ un’esperienza specifica.
5.5 Giudizi di valore
Come esposto in precedenza con la citazione di Enzo Golino, l’attività critica è connaturata con la
formulazione di un giudizio. Quest’affermazione è il cardine filosofico dal quale è impossibile
prescindere.
Nel corso di questo capitolo darò voce a vari studiosi che si sono espressi sul rapporto che
intercorre fra un’opera musicale e i criteri utilizzati per esprimere un giudizio di valore in merito
all’opera stessa.
Capita, discorrendo di musica con amici o conoscenti, sentir dire che il nuovo album del tale
artista è ‘bello’ o ‘brutto’. Ma qual è la differenza fra un giudizio espresso in questi termini e uno
più circostanziato? Secondo Eggebrecht (1988) in musica si può parlare, in prima istanza, di due
tipologie di giudizio: quello sensibile o estetico e quello cognitivo. Il primo si contraddistingue per
una natura ‘pre-linguistica’: “Il giudizio sensibile o estetico agisce – come la comprensione
sensibile o estetica (idealmente parlando) – al di là dei concetti linguistici; esso poggia
sull’impressione sensibile, sulla sensazione che oppone alla musica una reazione giudicante” (ivi:
59). Il secondo si spinge invece, a capire il motivo per cui qualcosa piace o meno, scoprendo le
ragioni che si celano dietro un giudizio sensibile. Più integrata è la concezione di giudizio emotivo
data da Dahlhaus (1987) il quale spiega come si conservi comunque al suo interno l’esperienza di
ascolti passati che portano alla luce un carico razionale. In altre parole, in un giudizio emotivo non
è possibile annullare se stessi, ed è altresì utile mediare tra l’oggetto estetico e quanto il soggetto
porta con sé.
Per Eggebrecht il giudizio estetico gode di un primato rispetto a quello cognitivo perché la musica
viene creata per la recezione sensibile, anche se, in un critico musicale, queste due istanze devono
interagire e devono essere entrambe sviluppate. I presupposti da cui dipendono i giudizi sono molti
e sono di natura sia soggettiva sia oggettiva. I presupposti soggettivi sono dipendenti dalla
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collettività, quindi storicamente condizionati, e si possono riassumere nel concetto di gusto, che a
sua volta dipende da altri fattori personali quali per es.: la disposizione, l’esperienza, l’età, la
formazione, ecc. Quelli oggettivi risiedono nella musica stessa, si relazionano al genere e alla
funzione che la musica incarna e: “[…] sono identificabili per mezzo dell’analisi musicale, purché
il lavoro analitico indirizzi la sua problematica sulla qualità, sul valore della musica” (ivi: 60).
Secondo Dahlhaus (1988) il giudizio di gusto giacché dipende dalla collettività non si forma né su
base individuale (e quindi soggettiva) né per merito dell’oggetto estetico. Il rischio di
soggettivismo appare a questo punto di natura derivata (da norme collettive) e non diviene più un
ostacolo ma un obiettivo.
Se si presuppone che, in primo luogo, un giudizio estetico è tanto più adeguato ad
un’opera quanti più caratteri e relazioni se ne prendano in considerazione – per
l’oggettività estetica non esiste altro criterio del grado di differenziazione raggiunto
dalla ricezione – e che, in secondo luogo, un giudizio individuale è più ricco della
norma collettiva da cui sorge, perché esso ne serba la sostanza che poi integra, allora
la possibilità di percepire l’oggetto estetico in maniera differenziata, quindi più
adeguata e ‘obiettiva’, aumenta in rapporto diretto alla capacità di reazioni
individuali e cioè individualizzate. La soggettività – come risultato di un
‘superamento’ di norme collettive – e l’oggettività – in quanto avvicinamento al grado
di differenziazione al quale ci si può attendere che la cosa si mostri così come essa è
per sé – tendenzialmente coincidono.
(Dahlhaus, 1988: 74).
Se, come spiegato da Fabbri, nella musica pop-rock vi può essere una funzione28 dominante, allora
si è tenuti a giudicare l’opera musicale in rapporto alla sua funzione e non alla sua struttura
compositiva: “Il concetto di ‘buona’ musica da ballo implica dunque che essa è adatta alla danza, e
non che sia buona nella sua qualità di musica astratta dalla funzione. Il giudizio è inteso in senso
pragmatico e non estetico” (ivi: 71). Al di fuori della musica prettamente funzionale, egli ritiene
che, la musica per essere definita ‘buona’ dal punto di vista estetico, debba:
[…] quantomeno essere avanzata da un punto di vista stilistico e conclusa e compatta
sul piano tecnico-compositivo. Viceversa, è brutta o mal riuscita quella musica in cui
le trasgressioni alle norme tecnico-compositive rappresentano un regresso e
costituiscono dettagli non inseriti in un contesto, strappi aperti a caso nella trama
musicale.
(Dahlhaus, 1987: 45).
28
Vedi cap. “La definizione di genere musicale”.
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Oltre ad una possibile funzione manifesta bisogna considerare la musica pop-rock quale prodotto
artistico e industriale insieme, quindi con una finalità commerciale di fondo. Pertanto, ogni
discorso sulla musica libera da vincoli commerciali, artisticamente indipendente, e per ciò stesso di
alta qualità, appare fuori luogo.
I criteri attraverso i quali è possibile formulare un giudizio di valore, vengono illustrati da
Dahlhaus (1987) e, nonostante la loro natura molteplice e mutevole nel tempo, rimangono un utile
punto d’avvio.
La natura ambigua dei criteri estetici si configura in pieno nel primo dei concetti trattati: quello di
originalità. Comunemente questo concetto assume un significato rilevante se viene contrapposto
all’idea di imitazione convenzionale. Di conseguenza, l’opera musicale per meritare l’aggettivo
‘originale’ deve essere: “nuova in modo sostanziale” (Dahlhaus, 1987: 29). Tuttavia il concetto di
originalità specie se associato al termine tedesco Ursprünglichkeit, si collega al concetto di
origine, radice, autenticità, a ciò che è già esistito. Al suo interno vi sono quindi concezioni non
sempre conciliabili: da quella di novità assoluta a quella di origine (idea di passato).
Si lega al concetto di originalità quello di autenticità: qui la natura contraddittoria si manifesta
poiché esiste sia la critica ad un’opera musicale quando questa risulta essere una palese imitazione
di un’altra opera passata, sia l’idea che un lavoro artistico possa essere valido, e perciò autentico,
se ancorato a forti fondamenta tradizionali e quindi rivolto al passato. A questo livello non si vede
come si possa: “[…] distinguere l’opera legata alla tradizione da quella pedissequamente
epigonale. Si può comunque limitare l’arbitrarietà della valutazione se si cerca di storicizzare i
criteri che sembrano contraddirsi, restringendone in questo modo la portata” (ivi: 40).
Inoltre, può accadere: “ […] che la medesima scelta stilistica e tecnico-compositiva – ad esempio
l’adesione ad un modello tradizionale o viceversa l’abbandono delle convenzioni formali e di
genere – susciti giudizi estetici opposti […]. Ne risulta una confusione cui non sembra possibile
porre rimedio” (ivi: 40).
Un altro criterio è la ricchezza di collegamenti che l’opera musicale custodisce. A questo proposito
Dahlhaus precisa che la ricchezza di tali collegamenti non è sempre rilevante, ma lo diviene solo
se le parti collegate sono radicalmente differenti. In effetti:
In una melodia di scarsa pregnanza sembra che tutte le parti siano collegate; in realtà
non si tratta di ricchezza di nessi, ma di mancanza di differenze. La ricchezza di
collegamenti è dunque un criterio estetico valido solo come controparte della
fisionomia netta e ben caratterizzata delle parti da collegare.
(ivi: 41).
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte prima
Anche per questo criterio va fatta una precisazione – che dimostra una volta di più la natura
differenziata del suo significato. Infatti, pur essendo la ricchezza di collegamenti un criterio valido
per concorrere alla formulazione di un giudizio, non lo è in tutti i casi. Non si può infatti stroncare
un’opera musicale solo perché soffre di ‘mancanza di collegamenti’. Si deve, in altre parole
dimostrare che la mancanza di collegamenti sarebbe stata esteticamente necessaria: “Una
integrazione scarsa o debole in un testo musicale non costituisce di per sé un difetto tale da
compromettere il valore estetico dell’opera; lo diviene solo se il testo è al suo interno molto
differenziato, e richiede quindi un’adeguata integrazione” (ivi: 42). La trattazione dello studioso
tedesco si conclude con la precisazione che i criteri estetici non sono sufficienti per la
formulazione di un giudizio di valore in quanto in essi vanno integrati con il giudizio emotivo.
Tuttavia, egli non giustifica in alcun modo l’abbandono di tali criteri a causa della loro ambiguità:
“Non c’è nessun motivo di lasciarsi intimidire dall’arroganza di un irrazionalismo che si annida
nei vuoti della conoscenza per poi proclamare trionfalmente che proprio quel residuo oscuro
precluso all’analisi razionale è l’unico elemento decisivo” (ivi: 42). Se così dovesse accadere si
avvicinerebbe la fine dell’estetica stessa.
Concludo questo capitolo con un breve passaggio che testimonia la natura interdisciplinare della
critica, che in questo caso si avvale di intuizioni provenienti da ambienti letterari per analizzare
aspetti attinenti alla critica musicale:
[…] ogni interpretazione, così mi sembra, ogni discorso interpretativo, si fonda su una
posizione di valori, su una valutazione. Tuttavia, quasi sempre nascondiamo questo
fondamento: per idealismo, o per scientismo, travestiamo la valutazione fondatrice:
nuotiamo nell’«elemento indifferente (=senza differenza) di ciò che vale in sé, o di ciò
che vale per tutti» (Nietzsche, Deleuze).
La musica ci risveglia proprio da questa ‘indifferenza’ di valori. Non c’è discorso
sulla musica che non si fondi sulla differenza – sulla valutazione. Nel momento in cui
ci parlano della musica – o di una certa musica – come di un valore ‘in sé’, o al
contrario – ma è lo stesso –, quando ci parlano della musica come di un valore ‘per
tutti’ – cioè quando ci viene detto che bisogna amare tutte le musiche –, sentiamo una
cappa ideologica cadere sulla materia più preziosa della valutazione, la musica: si
tratta del ‘commento’. Perché il commento è intollerabile, la musica ci obbliga alla
valutazione, ci impone la differenza – salvo poi cadere in un discorso inutile, il
discorso della musica in sé o della musica per tutti.
(Barthes, 2001: 267-268).
Concordo con Barthes quando parla della musica che impone una valutazione, visto che dal
momento in cui si parla di musica si compie per forza di cose una scelta – la quale verte sullo
scarto artistico – e quindi si compie un’attività critica. Non condivido invece, il concetto di ‘cappa
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Parte prima
ideologica’ che deriverebbe da un discorso sulla musica ‘in sé’ o sulla musica ‘per tutti’. Sembra
esserci in Barthes la stessa volontà espressa della Sontag o anche da Adorno e Horkheimer i quali
proclamano l’inutilità dell’arte nell’istante in cui essa viene ‘banalizzata’ dal linguaggio critico.
D’altra parte ogniqualvolta si esprime un giudizio positivo su un’opera musicale non si può evitare
di pensare (anche solo implicitamente) che essa ‘debba’ essere ascoltata da tutti, mirando ad
un’ipotesi di futuro (artistico) ritenuto auspicabile, che a mio parere diviene ideologica solo
quando non è supportata da un discorso sulla musica ‘in sé’.
Nel prossimo capitolo si tratterà di esporre una prima conclusione della parte teorica atta a
sintetizzare un insieme di passi metodologici che verranno raffrontati nell’analisi degli articoli. Per
l’analisi degli articoli mi avvarrò anche dei risultati ottenuti nel capitolo sulla teoria
dell’argomentazione e in particolare delle fallacie.
6. Cosa può fare la critica
La sintesi teorica di quanto esposto sinora sarà affrontata in questo capitolo. Lo scopo di questa
sintesi non è solo quello di fare ordine tra tutte le proposte analizzate, ma anche di riuscire a
sviluppare uno sguardo competente in sede di analisi dei testi giornalistici (capitolo 8).
Tracciare un quadro epistemologico definitivo e incontestabile della critica è di certo
un’operazione complessa e, d’altra parte, mi chiedo se non sia intellettualmente più stimolante
allargare, invece che delimitare, i confini della materia.
A seconda dei diversi campi d’indagine, lo studio della critica si è contraddistinto per le diverse
accezioni poste al proprio statuto epistemologico. L’approccio che mi pare trascendere
maggiormente dalla propria disciplina è quello proposto da Filiberto Menna all’interno del suo
saggio Critica della critica (1981). Qui vengono esposti alcuni momenti dell’esercizio critico –
ancorché, dal mio punto di vista, in maniera abbastanza teorica – adattabili non solo al campo della
critica d’arte (al quale Menna appartiene) ma anche a quello letterario, cinematografico e musicale.
L’impressione che mi sono fatto nell’approcciare la materia, è quella di essere di fronte ad un
sistema di saperi complesso a cui però pare mancare una base epistemologica largamente
condivisa e scientificamente affermata.
Nonostante siano trascorsi alcuni anni l’opinione di Frye rimane a tutt’oggi di stretta attualità:
Sono dell’idea che la critica letteraria sia attualmente nelle stesse condizioni di
semplice induzione che notiamo nelle scienze primitive. I suoi materiali, cioè i
capolavori della letteratura, non sono ancora considerati come fenomeni da valutare
mediante un sistema concettuale che solo la critica possiede. Essi sono ancora
considerati come qualcosa che costituisce anche il sistema o la struttura della critica.
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte prima
Ritengo sia venuto il momento per la critica di procedere verso posizioni che le
permettano di scoprire che cosa siano le forme organizzative e contenitive del suo
sistema concettuale. La critica ha tutta l’aria di aver bisogno di un principio
coordinatore, un’ipotesi centrale che, come la teoria dell’evoluzione in biologia,
permetta di scorgere i fenomeni di cui si occupa come parti di un tutto.
(Frye, 1969: 25).
Nel paragrafo citato, la domanda di indipendenza dal proprio oggetto di studio è senz’altro la
chiave per poter fare il passo, che Frye ritiene possibile, verso una scienza umana rigorosa tanto
quanto la sociologia o la storia.
Con queste affermazioni lo studioso canadese intende pure porre le basi per un superamento della
visione empirista, secondo cui l’interpretazione – se vuole essere attendibile e non arbitraria – non
può che partire da dati di realtà. Menna, nella sua concezione della critica, opera ancora un
passaggio in più: non solo il critico dovrebbe superare la visione empirista, ma dovrebbe pure
oltrepassare quella idealista, secondo la quale, i dati empirici e le relazioni che li governano non
sono altro che produzioni mentali:
Posta di fronte ai ‘fatti’, la critica non pretende di ritrovare in essi il fondamento dei
propri schemi interpretativi, ma non si limita nemmeno a stabilire lo statuto di arte
mediante criteri puramente stipulativi e convenzionalistici; essa compie piuttosto il
movimento ‘teoria-pratica-teoria’ indicata da Althusser, nel senso che muove dai dati
di realtà per trasformarli da fatti puramente materiali in ‘oggetti teorici’, ossia in
oggetti prodotti e ridefiniti attraverso un lavoro, il lavoro specifico della critica. Che
proprio per questa ragione non può essere considerato solamente un processo di
interpretazione, ma deve essere assunto anche a costruzione di un discorso proprio.
(Menna, 1981: 39).
Chiariti questi punti sarebbe interessante approfondire che cosa significhi appunto il ‘lavoro
specifico della critica’.
Per iniziare a porre uno sguardo d’insieme, mi sembra estremamente utile introdurre un concetto
attinente sì, alla critica letteraria, ma anche questa volta applicabile ad altri campi:
[…] la lettura dell’opera va fatta a livello dell’opera; ma da una parte non vediamo
come, una volta stabilite le forme, si potrebbe evitare d’incontrare i contenuti, che
provengono dalla storia o dalla ‘psiche’, in una parola da quegli ‘altrove’ di cui la
vecchia critica [qui l’autore si riferisce a R. Picard esponente di spicco della critica
empirista francese, N.d.A.] non vuol sentir parlare; e d’altra parte, l’analisi
strutturale delle opere costa assai di più di quanto s’immagini, perché, a meno di
limitarsi a chiacchierare piacevolmente intorno al piano dell’opera, questa analisi
non può essere fatta se non in funzione di modelli logici: in realtà, la specificità della
letteratura non può non essere postulata che all’interno di una teoria generale dei
47
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Parte prima
segni: per avere il diritto di difendere una lettura immanente dell’opera, occorre
sapere che cosa sia la logica, la storia, la psicanalisi; in breve, per restituire l’opera
alla letteratura bisogna precisamente uscirne e far ricorso a una cultura
antropologica.
(Barthes, 1969: 33).
L’autore francese spiega come la critica debba avere una doppia valenza. Da un lato essa compie
un esercizio critico derivante dal proprio oggetto di studio, ma al contempo svolge anche un
discorso di autoriflessione costante in merito al proprio statuto di disciplina indipendente e
rigorosa, in un imprescindibile orizzonte interdisciplinare.
Significativa è pure la distinzione che egli pone fra scienza letteraria e critica letteraria. La prima si
identifica come “[…] quel discorso generale il cui oggetto non è il tale senso, ma la pluralità stessa
dei sensi dell’opera”, mentre la seconda è un “discorso che assume apertamente, a suo rischio,
l’intenzione di dare un senso particolare all’opera” (ivi: 48).
Nel processo di interpretazione e di valutazione di un oggetto artistico la critica deve però mettere
in evidenza i: “[…] protocolli di lettura e di giudizio, l’enunciazione della griglia teorica e
metodologica con cui si avvicina al testo […]” (Menna, 1981: 36), altrimenti non potrà essere
considerata come un campo autonomo e indipendente. In questo modo l’indipendenza della critica,
che rivendica le sue funzioni anche di metalinguaggio, pone un punto centrale per poter parlare di
oggetto artistico, infatti: “non è un paradosso affermare che non esistono opere e testi se non nella
misura in cui si costituisce, di fronte o intorno a essi, un discorso di natura differente” (Starobinski
citato in Menna, 1981: 36). Questo discorso di natura differente29 è proprio lo scarto interpretativo
del discorso critico che deve ‘tradurre’ e riformulare tramite il proprio codice specifico – derivato
sempre e comunque da una lingua storico-naturale – un altro codice, che è quello specifico del
linguaggio oggetto, cioè quello dell’opera, che assurge ad oggetto artistico grazie a questo
procedimento. Azzardando una semplificazione, si può affermare che l’arte non può bastare a sé
stessa, in quanto – per essere definita tale – necessita di una legittimazione esterna, che parli
un’altra ‘lingua’, compito che si assume appunto la critica.
La tesi centrale proposta da Menna in riferimento ai fondamenti della critica si basa sulla
definizione di tre pilastri dell’interpretazione, che rimangono costantemente in interazione fra loro.
Tali pilastri si formano e procedono, grazie ad una natura estremamente complementare e
29
Allargando la prospettiva si possono integrare le concezioni sviluppate da Alfred Schutz e in particolare da due dei
suoi più illustri epigoni: Peter Berger e Thomas Luckmann i quali teorizzano la cosiddetta costruzione sociale della
realtà. Secondo questa teoria la realtà viene prodotta dall’interazione fra gli individui, e per ciò stesso oggettivata, e
interiorizzata in maniera unica ed individuale da ognuno di noi e dunque soggettiva (Jedlowski, 2000).
48
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Parte prima
compenetrante. Queste tre funzioni sono: la funzione storica, la funzione teorica e la funzione
critica.
• La funzione storica coglie in prima battuta la realtà dei fatti mettendoli poi in relazione sia con
il contesto esterno in cui l’opera si manifesta, sia più in generale, con la produzione artistica di
una determinata cultura: “[…] un’opera d’arte è sempre un elemento di novità all’interno della
serie più ampia dei fatti artistici e nello stesso tempo è collegata con l’intera fenomenologia
dell’arte considerata in un determinato momento storico” (Menna, 1981: 78). Da questo primo
passo nasce l’esigenza di “collocare l’opera in una serie cronologicamente ordinata in modo da
poter cogliere lo scarto eventuale che essa rappresenta […]” (ivi: 78). Qui si prospetta già la
complementarietà fra le varie funzioni visto che senza strumenti teorici forti – derivanti dalla
competenza del critico sia in un’ottica interdisciplinare sia in una prospettiva circoscritta al
proprio ambito d’azione – non si è in grado di individuare l’elemento innovativo che l’opera
potrebbe portare con sé. Parimenti tale elemento innovativo lo si può leggere solo “attraverso
una preliminare individuazione della serie in cui l’opera si inserisce” (ivi: 78), in altri termini è
proprio all’interno della serie che un fatto artistico acquista rilevanza. Per completezza e per
evitare fraintendimenti, va ricordato che questo scarto si può anche manifestare per merito di
una diversa lettura di elementi già elaborati in passato. Questa precisazione chiarisce il carattere
artistico dell’opera che può essere delineato, sia grazie ad elementi di novità sia grazie ad
elementi di similarità.
• La funzione teorica, la quale deve riconoscere l’elemento di novità, grazie anche all’apporto
della funzione storica, porta con sé inevitabilmente la questione dei criteri di giudizio
coinvolgendo così anche l’ultima funzione: quella della critica in senso stretto.
• La funzione critica rappresenta il compimento del processo critico. Sempre secondo Menna
l’apporto che riescono a fornire le due funzioni precedenti non si realizza se non attraverso
l’assegnazione di un valore frutto del giudizio critico, che a sua volta ne rilegge i risultati
attribuendo del valore solo a una parte di essi. È proprio in questo passaggio che si annidano i
rischi di un soggettivismo da più parti paventato:
Non abbiamo nessuna difficoltà ad ammettere che si tratti di un punto delicato e
difficile in quanto il fondamento del giudizio di valore muove sì dall’acquisizione di
ciò che appartiene al presente e al passato, ma si rivolge immediatamente verso un
futuro possibile con uno scatto essenzialmente prospettico. La scelta e l’attribuzione di
valore non si affidano, cioè, unicamente alla serie delle relazioni storiche che l’opera
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Parte prima
intrattiene; e neppure alla sola definizione teorica di campo che indica i tratti
pertinenti dell’indagine; ma soprattutto a una ipotesi di futuro che riguarda, in prima
istanza, il futuro possibile (e ritenuto auspicabile) dell’arte a partire da un
determinato contesto storico, ma che coinvolge il senso e il valore che l’arte può avere
nella sua configurazione di un futuro riguardante una condizione generale di
esistenza.
(ivi: 80).
Da questo paragrafo si intravedono le idee di una critica militante,30 poiché inquadra il giudizio
critico in un panorama etico-filosofico più ampio portando con sé un carico di responsabilità che
tale ‘ipotesi di futuro’ – riposta su un fatto artistico –, comporta. Parlo di responsabilità poiché così
facendo il critico non può che mettere in gioco se stesso e le proprie idee in maniera del tutto
palese, ed è proprio a questo punto che la funzione critica acquista significato. In questo quadro il
testo critico riesce a trasformare un oggetto reale in oggetto teorico – grazie alla funzione storica e
a quella teorica – il quale diviene oggetto di conoscenza tramite la formulazione del lavoro che lo
produce:
[…] per questa ragione il giudizio non è più considerato un momento a sé stante, un
atto conclusivo nei cui confronti tutto il resto è puramente propedeutico e strumentale,
non si isola e chiude nella pronunzia di un “sì” o un “no”, ma si dà come un momento
del processo che interagisce con gli altri momenti e come questi espone se stesso
insieme al modo in cui si costituisce31.
(ivi: 88).
In conclusione, la critica per essere quanto meno attendibile, deve riempire tre funzioni: storica,
teorica e critica. Per farlo, non può che usare il linguaggio e quindi le parole. Per essere affidabile
non può che ordinare queste parole in ragionamenti. Come logica conseguenza, si impone, a
questo punto, l’esposizione dei principi della retorica e della teoria dell’argomentazione.
30
Come si può facilmente dedurre non ho inteso utilizzare il termine ‘militante’ nella sua accezione classica, vale a
dire di critica nata e sviluppatasi in ambienti non accademici o extra-universitari.
31
Menna si contrappone ad una visione del giudizio critico come qualcosa di perentorio, idea sostenuta per contro, da
Migliorini, il quale da un punto di vista linguistico associa il giudizio di un’opera ad un enunciato di tipo
performativo, nel quale – come spiega Austin – si pronuncia un enunciato e in pari tempo si compie un’azione
evitando in questo modo di fronteggiare le categorie di vero-falso, come avviene per esempio con il “sì” pronunciato
dinnanzi all’altare durante un matrimonio.
50
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
Parte seconda
7. Retorica e teoria dell’argomentazione
Prima di lanciarsi nella fase pratica della ricerca (analisi dei testi) occorre affrontare un’ulteriore
fase teorica, senza la quale l’analisi dei testi sarebbe deficitaria. Si tratta infatti di introdurre e
sviluppare i temi relativi alla retorica e all’argomentazione. Da una parte la retorica, quale arte del
discorso persuasivo e dall’altra le tecniche dell’argomentazione moderna, quale ‘strategia’ per
ottenere l’adesione – e spingere all’azione – il proprio pubblico sono connaturati al linguaggio e
ancor più ad un testo critico che deve esporre le sue argomentazioni. Non va dimenticato inoltre
che la retorica non solo viene utilizzata per esporre degli argomenti, ma è essa stessa (e il percorso
che si compie per usarla) produttrice di conoscenza (Rigotti, 1995). Così in un articolo di critica,
sia esso di critica letteraria, musicale o cinematografica, oltre all’aspetto informativo viene
soddisfatto anche un più profondo bisogno di conoscenza.
Anticipando brevemente quanto verrà descritto nel capitolo ‘Le vie della retorica’, si può dire che
la retorica è premessa del discorso critico, in quanto corrisponde ad un genere della retorica,
chiamato in antichità discorso epidittico, che scredita o celebra l’oggetto della critica.
7.1 Le vie della retorica
Il termine retorica deriva etimologicamente dal latino retor che deriva dal verbo greco ρέιυ (rhéin)
che significa correre, scorrere, parlare. In antichità la retorica veniva considerata ‘l’arte del parlare
in pubblico’ mentre oggi si parla della più complessa “arte del rapporto interpersonale” (Cattani,
1990: 59). Una delle definizioni più autorevoli caratterizza la retorica: “ […] come la facoltà di
scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere.” (Aristotele citato in Stati, 2002: 144).
La chiarezza della definizione aristotelica è indubbia anche se privilegia l’aspetto teorico rispetto a
quello operazionale. Infatti, pur essendo egli a conoscenza delle caratteristiche performative della
retorica, il filosofo non parla né di utilizzo di espedienti stilistici né di possibili comportamenti da
tenere di fronte ai propri interlocutori, utili al raggiungimento del proprio obiettivo.
Il tipo di sapere connesso all’ambito della retorica unisce sia la componente orale sia quella sociale
in un orizzonte prevalentemente pratico. L’arte (téchne) della retorica oppure téchne rhetoriké è
quindi una competenza pratica, orientata ad influenzare l’azione altrui mediante la persuasione.
Peraltro, non sarebbe corretto intendere questo tipo di conoscenza come frutto puro e semplice
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dell’esperienza pratica perché esiste in essa anche una riflessione teorica che precede e perfeziona
la pratica stessa.
I primi ad utilizzare la retorica furono i sofisti i quali, dietro pagamento, asserivano di poter
dimostrare qualsiasi tesi ed anche il suo contrario, suscitando le ire di illustri filosofi quali Socrate
e Platone. Per completezza espositiva non va dimenticato anche l’apporto positivo che i sofisti
seppero infondere alla vita pubblica, e non solo, del tempo.
Essi proclamavano la loro abilità di rendere più potente il discorso più debole. Tale
relativismo fu considerato il grande scandalo razionale della teoria sofistica
dell’argomentazione e spiega inoltre l’alone semantico spregiativo che
contraddistingue tuttora le parole “sofista” e specie “sofisma”, equivalente di
ragionamento sbagliato, paralogismo, fallacia. Occorre tuttavia vedere anche gli
aspetti positivi, oscurati dalla caricatura che ne fece Platone per bocca di Socrate.
Infatti, i sofisti ebbero intuizioni valide sulla facoltà probatoria opposta a presunte
verità assolute. Anche l’attenzione rivolta alle tecniche dell’antitesi, dell’antilogia,
oltre che essere utile e proficua ginnastica mentale, contribuisce – e non poco – a
formare una ragione elastica, capace di vedere la dialettica delle cose e la pluralità
della verità a seconda dei punti di vista.
(Stati, 2002: 142-143).
L’esigenza di persuadere un uditorio si avvertiva nell’antichità soprattutto in tre situazioni
paradigmatiche: il discorso politico, epidittico e giudiziario32. Tali circostanze venivano
praticamente a determinare la natura stessa dell’uditorio che poteva essere un giudice di tribunale,
oppure un membro dell’assemblea chiamato a decidere su questioni politiche. In quest’ottica il
decisore diviene colui ‘che passa al setaccio’ con il compito preciso di discernere ciò che viene
detto di buono da ciò che non viene considerato tale (Vocabolario etimologico della lingua
italiana, Pianigiani).
Le fasi costitutive del discorso retorico sono: inventio33 (selezione degli aspetti attinenti al discorso
nell’intenzione di attirare l’attenzione e la benevolenza del destinatario), dispositio
(organizzazione strategica delle varie componenti del discorso), elocutio (il compiersi dell’atto
32
Questi momenti di applicazione della retorica argomentativa corrispondono alla classificazione antica del discorso.
Nel discorso politico o deliberativo i governanti presentavano le loro ragioni per raccogliere consenso-dissenso in
relazione ad un provvedimento politico. In quello giuridico il discorso serviva per difendere o accusare qualcuno
cercando rispettivamente di dimostrarne l’innocenza e la colpevolezza. L’accusato doveva difendersi (imparando e poi
recitando a memoria il discorso preparato dal logografo) poiché Solone – simbolo di sapienza – esigeva l’autodifesa.
Infine nel discorso epidittico o celebrativo venivano presentati con enfasi estrema pregi o più raramente difetti di un
personaggio di rilievo.
33
In questa fase chi si accinge ad esporre la propria tesi tende a partire da argomenti ampiamente condivisi e ritenuti
rilevanti (topoi) nella cultura di appartenenza e in senso specifico per il proprio uditorio (bersaglio), utilizzandoli poi
prevalentemente nelle fasi di confirmatio e confutatio.
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linguistico), memoria (la facoltà di ricordare un discorso senza l’ausilio della parte scritta34), actio
(le componenti non strettamente linguistiche della recitazione del discorso come per esempio il
tono della voce, la postura e la gestualità).
Il processo argomentativo si avvale di tre tipi di forme di richiamo: l’appello alla ragione (lógos),
alle emozioni (páthos) e alla personalità del parlante (éthos). Gli strumenti utilizzati dalla retorica
sono l’entimema35o sillogismo pratico e l’esempio che trovano il loro rispettivo logico nel
sillogismo e nell’induzione.
La struttura del discorso si suddivide in esordio (nel quale si introduce l’argomento), narrazione
(dove si affermano le proprie tesi), conferma (nella quale si apportano le prove a supporto delle
proprie tesi), confutazione (dove trovano corpo le obiezioni degli interlocutori) ed epilogo (nel
quale si sancisce l’esito della discussione).
Un discorso argomentativo risulta tanto più convincente quante più prove riesce ad acquisire – e a
portare a suo carico. Le prove a sostegno di una tesi si dividono in tecniche ed extratecniche. Le
prime dipendono strettamente dalle abilità dell’oratore (vedi le forme di richiamo menzionate in
precedenza), mentre le seconde si rifanno a circostanze indipendenti dall’oratore, ma da lui
opportunamente sfruttabili, quali per esempio le testimonianze e le confessioni.
7.2 La moderna teoria dell’argomentazione
Dalla metà del secolo XX in poi si è registrato in Europa un acceso interesse – all’interno del
dibattito filosofico – nei confronti dello studio della teoria dell’argomentazione. Gran parte del
merito di questo risveglio va riconosciuto al lavoro svolto da Perelman e dalla sua collaboratrice
Lucie Olbrechts-Tyteca, che è apparso con il titolo di Traité de l’argumentation nel 1958, nel
quale si pongono le basi per quella che verrà chiamata ‘la nuova retorica’. Anche dagli Stati Uniti
sempre nel 1958 comparve un altro fondamentale studio intitolate The Uses of Argument nel quale
il suo autore, Stephen Toulmin, cercò di far convergere la logica all’interno del ragionamento
quotidiano. Gli anni a seguire si sono distinti per un ulteriore sviluppo di visioni alternative36 della
teoria dell’argomentazione che hanno in qualche modo ostacolato una sintesi uniforme della
disciplina:
34
Cfr. nota 32.
L’entimema (o sillogismo pratico) ha la stessa struttura logica del sillogismo solo che si omette di norma una delle
due premesse (a volte anche la conclusione). Da notare che l’omissione di una delle parti del ragionamento non ha per
forza un fine manipolatorio, ma aderisce ad una ‘economicità’ linguistica che rende la comunicazione fluida e priva di
eccessive pedanterie.
36
Per la redazione di questa parte faccio in prevalenza riferimento alle lezioni tenute dal prof. Stati durante il corso di
‘Teoria dell’argomentazione’ tenuto presso l’Università della Svizzera italiana, anno accademico 2001/2002.
35
53
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
The study of argumentation has not yet resulted in a universally accepted theory. The
state of the art is characterized by the co-existence of a variety of approaches,
differing considerably in conceptualization, scope and degree of theoretical
refinement, albeit that all modern approches are strongly influenced by classical and
post-classical rhetoric and dialectic.
(Van Eemeren, 2003: 2).
L’immagine della retorica viene sensibilmente ridimensionata da Perelman poiché egli concepisce
l’argomentazione come un processo razionale con una forte attinenza alla pratica, alla ragion
quotidiana.
Perelman opera la distinzione fra dimostrazione (tipica delle scienze) e argomentazione (propria
della retorica) allargando il campo d’azione dalla logica formale e a quella informale; quest’ultima
inserita a tutti gli effetti nel campo della teoria dell’argomentazione. Nella sua proposta lo studioso
belga riprende la distinzione kantiana fra persuasione e convinzione. La prima si riferisce ad un
destinatario particolare, mentre la seconda ad un destinatario universale (potenzialmente ogni
essere umano dotato di ragione). La pervasività delle argomentazioni nelle attività umane di tutti i
giorni, e la loro stretta correlazione con la situazione contingente, porta a giustificare l’uso del
termine ‘pragmatico’ che viene associato al modello della nuova retorica.
L’argomentazione è un’attività dialogica che si compie in tre diversi tipi di dialogo: quello
euristico in cui si identifica il proprio bersaglio in un uditorio universale, quello eristico dove ogni
parlante tenta di dominare e sconfiggere l’antagonista e da ultimo quello quotidiano, nel quale i
partecipanti si pongono l’obiettivo di persuadere l’uditorio nel tentativo di far compiere una
determinata azione. Da qui si capisce quanta importanza viene riservata al concetto di uditorio e di
situazione che condiziona in maniera rilevante il formarsi dell’argomentazione.
L’attività argomentativa mira all’adesione del destinatario, al “contatto delle menti” (Perelman &
Olbrechts-Tyteca 1966: 16), e l’oggetto di questa adesione sono: i fatti, le verità e le
presupposizioni (che vertono sul reale); i valori, le gerarchie di valori e i luoghi (o topoi) che
vertono sul preferibile. I luoghi sono: comuni, ed hanno un carattere generale, oppure propri, se
possiedono un carattere più specifico ed assimilabile ad un preciso campo del sapere. I luoghi
comuni si specificano ulteriormente in sei categorie. La prima si definisce ‘della quantità’, in cui si
dà maggior importanza a ciò che è più diffuso in ottemperanza all’idea che la maggioranza conta
di più della minoranza. La seconda detta ‘della qualità’, tipica della pubblicità in cui si marca
l’unicità di un oggetto. La terza chiamata ‘dell’ordine’ che attribuisce maggior rilevanza alla causa
rispetto all’effetto, al prima rispetto al dopo. La quarta detta ‘dell’esistenza’ in cui si afferma la
superiorità di quanto esiste, di quanto è reale rispetto a ciò che è possibile. La quinta chiamata
‘dell’essenza’ che attribuisce un riconoscimento di eccellenza alla persona che rispetta tutte le
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Parte seconda
caratteristiche tipiche del proprio ruolo (tipiche sono le considerazioni degli attori/attrici del
cinema come incarnazioni di sex symbol). Infine la sesta ‘della persona’ a cui si accostano i valori
di indipendenza, di merito e di dignità secondo la formula: “ciò che non può esserci fornito
dall’esterno è preferibile a ciò che possiamo procurarci anche dall’esterno” (Aristotele citato in
Mortara Garavelli, 1995: 83).
Infine Perelman analizza le singole argomentazioni a seconda del loro carattere associativo e
dissociativo37. Con l’associazione si intende l’affiancamento di elementi distinti per mostrarne la
comunanza cercando così di valorizzare positivamente o negativamente l’uno con l’altro, mentre
per dissociazione si caratterizza la separazione fra due elementi considerati appartenenti allo stesso
sistema nel tentativo di allontanare gli stessi dalle possibili conseguenze dovute all’appartenenza al
sistema stesso (Bobbio, 1966).
Un ulteriore apporto agli studi argomentativi viene fornito dal modello elaborato da Toulmin. Il
punto nodale di questo sistema di analisi è la propensione a descrivere i criteri sistematici per
valutare l’argomentazione all’interno delle conversazioni quotidiane. Non è irrilevante capire
come un metodo logico possa essere applicato nella pratica, e quali connessioni possa avere con il
grado di correttezza che abitualmente viene utilizzato per valutare la forza probatoria di
un’argomentazione. La risposta, secondo Toulmin, non la si trova nella logica formale, si tratta al
contrario di elaborare un modello di logica applicata alla valutazione critica del discorso
argomentativo.
Per Toulmin quando un allocutore avanza una tesi che ha una pretesa di fondatezza, di
ragionevolezza, si hanno gli elementi per parlare di argomentazione. Concretamente il discorso
persuasivo si divide in38: 1) i fatti, i dati a disposizione su un determinato argomento; 2) la tesi o la
conclusione inferita in base ai dati; 3) le garanzie in virtù delle quali si è autorizzati a passare dai
dati alla conclusione; 4) il fondamento della garanzia che di norma è formato da ulteriori dati a
sostegno della tesi; 5) un qualificatore modale espresso tramite avverbi (ad es.: forse) o altre
locuzioni avverbiali (ad es.: a quanto pare, si presume, ecc.), il qualificatore indica la forza del
passaggio dai dati alla conclusione; 6) le riserve cioè gli elementi necessari per ricusare l’autorità
della garanzia e quindi della tesi.
37
A loro volta gli argomenti associativi si dividono in quasi-logici (somiglianti a ragionamenti formali) e in argomenti
fondati sulla struttura del reale. I primi come ad esempio la tautologia ‘la mamma è sempre la mamma’ sembrano
forgiati su un modello logico anche se non lo sono visto che ‘essere madre’ è diverso da soggetto a soggetto e di
norma si appellano a principi quali la contraddizione, l’identità, la reciprocità e la transitività. Gli argomenti fondati
sulla struttura del reale fra i quali si annoverano la parabola, l’esempio, l’analogia e l’argomento di autorità, sfruttano
inferenzialmente una presunta connessione di successione o coesistenza fra elementi della realtà.
38
Toulmin definisce queste categorie con i termini Data, Claim, Warrant, Backing, Qualifier, Rebuttal.
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Parte seconda
Secondo Toulmin (1975) il ragionamento è valido se i primi tre elementi – considerati
indispensabili – sono presenti e se la relazione tra la tesi e i dati è giustificata in modo convincente,
assumendo la garanzia come punto fondamentale per valutare la validità di un’argomentazione.
Ai fini di questo lavoro è utile illustrare brevemente anche l’approccio teorizzato da Anscombre e
Ducrot, i quali focalizzano la loro attenzione sull’analisi degli enunciati – che possono contenere
informatività e argomentatività – e sui cosiddetti ‘operatori argomentativi’ (Van Eemeren, 2003).
Questi ultimi (ad es.: ma, solo, poco, d’altronde, ancora, perché, poiché, almeno, ecc.) sono in
grado di orientare gli enunciati dando loro un orientamento e un significato specifico.
L’orientamento argomentativo che può caratterizzare l’enunciato si manifesta tramite una serie di
conclusioni – spesso implicite – suggerite al destinatario, queste conclusioni supposte sono
ovviamente lo scopo dell’atto comunicativo. In altri termini, la forza argomentativa di un
enunciato si stabilisce grazie alla capacità di orientare il destinatario verso una conclusione
escludendo, nel contempo, tutte le altre. In questo modello il punto di partenza è l’argomento con
la conseguente conclusione.
Meno importante è la caratteristica d’informatività degli enunciati. Essa è spesso ambigua e in
realtà ha lo scopo (argomentativo) di orientare il destinatario e non quello di informarlo. Spiegano
bene questa ambiguità i giudizi lapidari che a volte si leggono negli articoli di critica – non solo
musicale – nei quali si scrive che l’oggetto in questione è un ottimo prodotto artistico,
raccomandando, con una conclusione implicita, di andarlo a comprare.
Infine segnalo il filone di studi che fanno capo a Frans Van Eemeren e Rob Grootendorst che sono
i principali ideatori della pragma-dialettica. Essa si prefigge l’esame critico dei testi tenendo conto
dell’aspetto normativo (come si dovrebbe presentare una corretta argomentazione) e di quello
descrittivo (come si presenta nelle situazioni pratiche). L’oggetto di queste ricerche è la disputa
argomentatitiva – e la sua risoluzione – fra un protagonista e il suo antagonista nei suoi vari
momenti (chiamati stages).
Per parlare di critical discussion bisogna poter contare non solo su un ragionamento (cioè su
un’argomentazione39), ma anche su altri aspetti tipici della disputa verbale. La discussione si deve
svolgere in un contesto in cui uno degli interlocutori esprime un’opinione e l’antagonista deve in
qualche modo manifestare un certo disaccordo, se non esiste questo disaccordo non vi è
argomentazione e l’obiettivo di raggiungere un accordo decade. L’argomentazione è quindi parte
di un processo comunicativo composto da azioni verbali e calate in un determinato contesto di
discussione in cui però ogni partecipante si assume precisi impegni di ‘buona condotta’:
39
L’argomentazione viene definita: “un’attività verbale, sociale e razionale che serve a giustificare o a confutare
un’opinione, formata da una costellazione di asserzioni, con lo scopo di ottenere il consenso di un uditorio
ragionevole” (Van Eemeren et al. citati in Van Eemeren, 2003: 2 trad. mia).
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Each violation of a rule amounts to an incorrect discussion move that is an
impediment to the resolution of a difference of opinion. This can happend in each
stage of the discussion. The incorrectness involved generally resembles one or more of
the well-known fallacies or a similar offence against reasonableness.
(Van Eemeren, 2003: 9).
La parte normativa del modello si esplicita appunto nella formulazione delle dieci regole che sono
fondamentali per poter parlare di un buon comportamento nell’atto argomentativo ideale. Queste
regole offrono – anche se in maniera per forza di cose parziale – un parametro per valutare la
struttura e la validità e perché no, l’onestà dell’atto argomentativo. Schematicamente si possono
riassumere nel seguente elenco: 1) le parti coinvolte devono poter esprimere le proprie opinioni; 2)
il protagonista deve essere disposto, se richiesto, a difendere la sua opinione; 3) un attacco alla tesi
deve attenersi alla tesi realmente espressa dal protagonista senza distorcere il discorso; 4) una tesi
deve essere difesa con argomenti ad essa correlati; 5) bisogna accettare il contraddittorio anche in
riferimento a ciò che è rimasto implicito; 6) la difesa di una tesi si può considerare adeguata se si
basa su un punto di partenza comune; 7) una tesi è ben difesa se rispetta la prassi e lo schema
argomentativo comunemente condivisi; 8) gli argomenti utilizzati a sostegno di una tesi devono
essere resi validi mediante l’esplicitazione delle premesse implicite; 9) se la difesa fallisce bisogna
cambiare la propria posizione oppure si può abbandonare la disputa; 10) la formulazione della tesi
e delle altre posizione deve essere il più possibile chiara ed interpretabile.
7.3 Gli errori di ragionamento
Questo capitolo svolge una funzione di primaria importanza, in quanto l’errore di ragionamento ha
un carattere persuasivo molto pronunciato. Spesso viene utilizzato in maniera ‘naturale’, senza la
consapevolezza dell’errore. Più avanti, nell’analisi dei testi, sarà mia intenzione mettere in luce se,
come e con quale scopo i critici musicali facciano uso di questo espediente. Oltre a ciò, va
ricordato che le fallacie (tipo di errore di ragionamento) sono un ambito di studio consolidato in
campo argomentativo, utile alla comprensione di specifiche strategie persuasive. La matrice
pratica che verrà idealmente sovrapposta agli articoli critica musicale si basa sulla conoscenza
della tassonomia classica (Aristotele) e sull’utilizzo integrato ad un approccio più attuale (Copi e
Cohen). Inoltre, affiancherò a tutto ciò la funzione ricoperta dalla para-argomentazione. Questa
può infatti offrire ulteriori spunti per diagnosticare le strategie persuasive dei critici in ambito
musicale. Non da ultimo, per la medesima ragione, ho selezionato alcuni stratagemmi, adatti
all’argomentazione scritta, esposti da Schopenhauer.
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Prima di esporre gli errori di ragionamento nella varie sfumature è opportuno introdurre il concetto
di ragionamento in senso stretto. I significati più comuni del termine ‘ragionamento’ sono
essenzialmente due: 1) modo, atto del ragionare per arrivare a una conclusione seguendo un
procedimento logico; 2) operazione mentale mediante la quale si inferisce una conclusione da una
o più proposizioni precedentemente date (il nuovo Zingarelli). Nella globalità queste due
definizioni denotano un forte richiamo alla logica allargando il campo – solo nella seconda
definizione – all’argomentazione. Il ragionamento è dunque un sillogismo, spesso anche un
entimema che può riguardare aspetti di validità complessiva (prospettiva logica), di verità
(dimensione contenutistica ed etica) oppure di forza persuasiva (aspetto retorico). Il ragionamento
è parte centrale della teoria dell’argomentazione che a questo punto si può definire: “[…] lo studio
metodico delle buone ragioni con cui gli uomini parlano e discutono di scelte che implicano il
riferimento a valori quando hanno rinunciato ad imporle con la violenza o a strapparle con la
coazione psicologica, cioè alla sopraffazione o all’indottrinamento (Bobbio, 1966: XIII-XIV).
Questa definizione nella sua ampiezza comprende tutte e tre le dimensioni summenzionate
soffermandosi sulle caratteristiche di democraticità e di pluralismo che la corretta argomentazione
soddisfa; con una conoscenza dell’argomentazione persuasiva si ha la possibilità di controllare chi
ne fa uso da posizioni di potere, ampliando le visioni del reale e del possibile. Il ragionamento è
un’attività mentale che richiede impegno e sforzo psichico, pertanto non è un processo ‘naturale’
nel senso che se esiste un percorso più breve (per es.: l’intuizione) la mente umana lo percorre. Per
questa ragione il sillogismo va conosciuto, praticato e svelato nei suoi errori. L’argomentazione si
occupa sia di errori di ragionamento volontari sia di errori involontari che pertengono entrambi al
campo delle fallacie. È prassi considerare le fallacie parte del discorso relativo alla manipolazione
che assume una caratterizzazione da una parte diagnostica e dall’altra di emancipazione.
7.3.1 Le fallacie
Con il termine fallacia si definisce: “[…] un errore di ragionamento, benché il suo uso corrente
giustifichi una definizione un po’ diversa: ragionamento errato ma convincente” (Stati, 2002: 121).
Questo risultato lo si ottiene tramite delle premesse false oppure grazie ad una conclusione che non
deriva dalle premesse.
La trattazione delle fallacie è stata oggetto di innumerevoli sforzi e ha prodotto una classificazione
sempre più ampia. Per questo motivo è estremamente difficile eleggere a modello una determinata
classificazione. Inoltre, queste classificazioni non potranno mai essere esauriente perché esisterà
sempre una nuova ‘scappatoia’ logica che non è stata precedentemente considerata:
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Il fenomeno può sembrare persino ineluttabile e più di qualche autore ha sostenuto
che la varietà di classificazioni delle fallacie è un sintomo dell’impossibilità di darne
un elenco completo, soprattutto in considerazione del fatto che si possono sempre dare
nuove forme di errore o ideare nuovi modi d’ingannare.
(Cattani, 1990: 105).
La mia sarà gioco forza una selezione delle fallacie più comuni e anche più insidiose. Come già
accennato presenterò dapprima un passaggio di carattere storico (la classificazione antica) e poi
con la visione di un approccio moderno (Copi e Cohen) che ha la caratteristica di affrontare
l’argomento da un’ottica pratico-conversazionale, ma che ben si adatta all’analisi di testi scritti.
Infine tratterò la para-argomentazione che non viene considerata una fallacia, ma che potrà
offrirmi elementi utili per l’analisi del corpo di articoli. Per la stessa ragione tratterò brevemente
alcuni degli stratagemmi – i più pertinenti al contesto di un’argomentazione scritta – proposti dal
filosofo tedesco Arthur Schopenhauer.
7.3.2 La tassonomia classica
La mia scelta metodologica per classificare le fallacie si appoggia all’esposizione di Aristotele,
integrata a quella più moderna di Copi e Cohen. Questa combinazione offre da un lato una solida
base storica e teorica, dall’altra ne attualizza i principi, favorendo una lettura coeva dei testi che
analizzerò.
Una trattazione sistematica del problema delle fallacie viene appunto attribuita ad Aristotele che
nelle Confutazioni sofistiche ne individuò tredici appartenenti a due classi distinte (Volpi, 1991).
In realtà, come spiega lo stesso Volpi, già Platone trattò questo tema nell’Euditemo (ivi: 104), ma
come detto esporrò una sintesi della tassonomia aristotelica.
Le due classi si riferiscono ad errori imputabili alla lingua, alla dizione (fallacia dictionis) che ne
annovera sei e ad altre sette fallacie che sono invece relative ad errori extra-linguistici, cioè dovuti
a vizi logici (fallacia extra dictionis). Le fallacie del primo gruppo sono in realtà facilmente
individuabili – grazie ad altri elementi linguistici e contestuali – e difficilmente possono trarre in
inganno, anche se esiste il pericolo di fraintendimenti. Le fallacie dipendenti dalla lingua sono:
a) l’equivocazione, la quale sfrutta la polisemia di un singolo lessema (per es.: parlare piano può
voler dire lentamente oppure a voce bassa);
b) l’anfibolia, che è simile all’equivocazione ma sfrutta l’ambiguità di un’intera proposizione (per
es.: bocca di rana che può essere intesa sia come volatile che come parte della rana).
L’ambiguità e l’omonimia sfruttano anche la carenza di precisione nel definirne le
caratteristiche di genere (per es.: una volpe non è detto che sia femmina);
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c) la congiunzione di termini divisi (valga come unico esempio un fortunato pay off di un partito
politico che recita: io Centro);
d) la divisione di termini congiunti (vedi esempio precedente);
e) le variazioni di pronuncia (si pronunciano con poca variazione lessemi molto diversi dal punto
di vista semantico per es.: voliamo e vogliamo);
f) le diverse combinazioni delle parole nelle frasi (si ha grazie ad un uso diverso
dell’interpunzione).
Più interessanti ai fini della presente ricerca sono le fallacie di carattere logico40 che secondo la
classificazione classica corrispondo a:
1) fallacia dell’accidente in cui si sfrutta indebitamente la proprietà transitiva identificando due
elementi diversi con lo stesso giudizio perché hanno in comune una determinata caratteristica;
2) fallacia secundum quid et simpliciter dove si generalizza una determinata caratteristica, di una
persona o di un fenomeno, all’intera persona o all’intero fenomeno;
3) ignoratio elenchi in cui non si mette in discussione la tesi, ma si parla di altre informazioni;
4) secundum consequens, che si riscontra nei casi in cui si giudica una tesi attraverso le sue
possibili conseguenze, facendole implicitamente passare per vere (la struttura è sillogistica, se x
allora y);
5) non causa ut causa riguarda una argomentazione la cui tesi può essere valida ma manca della
regola che giustifichi il legame tra argomento e tesi (si enfatizza una caratteristica di un oggetto
quando in realtà, tale caratteristica è tipica di ogni altro oggetto simile);
6) petitio principii in questo tipo di fallacia si presenta nella conclusione ciò che in realtà si
intendeva dimostrare (per es.: compera quest’automobile è proprio adatta alle tue esigenze!);
7) la domanda multipla, che si riscontra nelle domande che si avvalgono di presupposizioni
problematiche le quali come unica ‘salvezza’ richiederebbero di declinare la risposta (per es.:
‘Da quando hai smesso di rubare?’ Si sottintende che la persona sia un ladro, cosa che invece
sarebbe da dimostrare).
40
Alcuni autori fanno rientrare in questa categoria anche altri argomenti di solito riconoscibili grazie alla dicitura
argumentum ad (Lo Cascio, 1991), nella seguente ricerca tali argomenti vengono compresi nella classificazione
proposta da Copi & Cohen.
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7.3.3 La classificazione di Copi e Cohen
Per la dinamica di questo lavoro ritengo che la classificazione fatta da Copi e Cohen sia quella
maggiormente adatta. Essa infatti coniuga la visione classica con le moderne ricerche sugli errori
di logica e mostra in maniera chiara e sintetica un ventaglio di fallacie che offrono un’ottima base
per il compito che mi sono prefissato.
Nel sesto capitolo della loro Introduzione alla logica si legge: “Definiamo dunque una fallacia
come un tipo di argomento che sembra corretto, ma che a un esame più attento, si dimostra di non
essere tale” (Copi e Cohen, 1999: 168). Gli autori identificano diciotto tipi di fallacie che vengono
fatte confluire in tre grandi famiglie: le fallacie di rilevanza, le fallacie di presunzione e quelle
d’ambiguità41. Con il concetto di fallacie di rilevanza si designa un argomento che si fonda su
premesse, che non ha una connessione logica con la conclusione, mentre spesso ne ha una di
carattere psicologico che permette la persuasione. Le fallacie di presunzione hanno delle affinità
con quelle di rilevanza, perché anche in questo caso le premesse non sono rilevanti per la
conclusione, ma presentano speciali tipi di errore. Con questo tipo di fallacie ci si trova di fronte a
dei “salti ingiustificati” che evidenziano “la supposizione tacita di qualcosa che non è stata
presentata come sostegno, e che forse non lo può essere” (ivi: 188). Infine per fallacie d’ambiguità
si delinea un argomento che sfrutta intenzionalmente l’ambiguità del linguaggio.
Nelle fallacie di rilevanza vi sono:
1. Argomento dell’ignoranza (ad ignorantiam): consiste nel far passare una proposizione per
vera solo perché non la si è dimostrata falsa o al contrario quando la si ritiene falsa solo
perché non è stata dimostrata.
2. Appello ad autorità impropria (ad verecundiam): in questo caso le premesse
dell’argomento si appellano all’opinione di un’autorità che non è ritenuta competente per
l’argomento in questione.
3. Argomento contro la persona (ad hominem): si critica l’antagonista e non la bontà
dell’argomento che egli sostiene. Gli argomenti ad hominem possono avere un carattere
diretto e diffamatorio e allora si parla di ‘prevaricazione ad hominem’ oppure, se l’attacco
è indiretto e lascia intendere che gli argomenti addotti dall’avversario sono mossi da
interessi particolari, si parla di ‘circostanziale ad hominem’.
4. Appello all’emozione (ad populum): si ricorre a mezzi patetici quali i luoghi comuni,
l’emotività e le credenze del destinatario nel tentativo di suscitare consenso per la
conclusione proposta.
41
Le fallacie d’ambiguità ricalcano il modello classico già esposto da Aristotele.
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5. Appello alla pietà (ad misericordiam): si utilizzano artifici per ingraziarsi il destinatario
nella classica accezione detta captatio benevolentiae che spesso introduce un discorso.
6. Appello alla forza (ad baculum): in questo caso non si argomenta razionalmente ma si
minaccia, anche implicitamente, l’antagonista per fargli accettare la conclusione.
7. Conclusione irrilevante (ignoratio elenchi): le premesse non dimostrano la conclusione
proposta ovvero la conclusione è tratta da argomenti che non sono pertinenti.
Le fallacie di presunzione sono:
1. Domande complesse: in questi casi nella domanda vi è già la risposta che si vuol ottenere
dal destinatario (vedi domanda multipla nel precedente paragrafo). Una sua variante è la
domanda retorica la quale sottintende una risposta affermativa se il suo senso è negativo e
viceversa.
2. Falsa causa: si considera come causa di un fenomeno ciò che in realtà non lo è. Spesso si
confonde la successione temporale con la causa.
3. Aggirare la questione (petitio principii): assumere come assodato ciò che invece si deve
ancora dimostrare.
4. Accidente: si verifica nei casi in cui una generalizzazione che pur si adatta a molti casi
particolari non è pertinente al caso in discussione.
5. Accidente converso: in questo caso si compie una generalizzazione indebita.
Quelle d’ambiguità si articolano in:
1. Equivocazione: si gioca sulla polisemia dei sintagmi in modo involontario o meno,
sfruttando per esempio le parole sincategorematiche ove il senso denotativo cambia
notevolmente da caso a caso; parlare di un ‘ciclista veloce’ non ha lo stesso significato di
una ‘moto veloce’, mentre se i due mezzi di trasporti sono rossi hanno lo stesso colore
allorché ‘rosso’ non è un termine sincategorematico ma categorematico (Stati, 2002).
2. Anfibolia: l’ambiguità non è riferita ad un sintagma ma ad una intera proposizione.
3. Accento: si attribuisce enfasi ad una premessa mentre la conclusione da essa dedotta ne
pretende un’altra. Questo avviene anche quando si decontestualizzano delle affermazioni e
se ne omettono volontariamente delle parti spesso decisive per comprendere il senso
complessivo di quanto esposto.
4. Composizione: si attribuiscono delle qualità tipiche di alcune parti di un fenomeno alla sua
interezza; un esempio tutti i musicisti che hanno suonato in questo disco sono stati
impeccabili allora anche il disco lo sarà.
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5. Divisione: qui si riscontra il processo inverso, e cioè si attribuiscono proprietà della
collezione alle proprietà delle singole parti; questo disco è perfetto allora anche tutti i
musicisti che vi hanno suonato lo sono.
7.3.4 La para-argomentazione
La nozione di para-argomentazione viene riconosciuta solo da alcuni studiosi di argomentazione
per il suo carattere assai prossimo al concetto di fallacia. Dal termine stesso si capisce come non si
tratti in senso stretto di ragionamento. In effetti, la para-argomentazione si distingue per l’uso di
alcune strategie finalizzate alla persuasione del proprio interlocutore. Il parlante che fa ricorso alla
para-argomentazione rinuncia ad un discorso razionale perché dal suo punto di vista la sua
opinione è confermata dai fatti. “Il locutore che adopera la para-argomentazione impone le sue
opinioni e i suoi desideri, non li giustifica oppure usa un’apparente giustificazione in modo
autoritario facendo appello a nozioni come ‘necessità’, ‘obbligo’, ‘evidenza’ e sim” (Stati, 2002:
33). Un classico esempio di para-argomentazione è il rifiuto perentorio di proseguire la
discussione, con frasi tipiche quali: ‘Per me la discussione è chiusa!’ oppure ‘Non ammetto
obiezioni’. Altro esempio di para-argomentazione lo si riscontra quando il parlante si ‘autocelebra’
facendo intendere, implicitamente, di aver delle ragioni per farlo: ‘Te l’avevo detto’ oppure ‘Se te
lo dico io’. Più raramente si incontra un parlante che dice: ‘Ti prego di credermi’ cercando così di
avvicinare il proprio interlocutore senza una vera argomentazione. Per contro è molto comune
l’uso di espressioni che proclamano una verità incontestabile: ‘Non c’è il minimo dubbio’, ‘È la
pura verità’. Simili sono le espressioni che manifestano un obbligo tipo: ‘Devi ammettere che’ o
‘Devi accettare che’, tutte formulazioni che denotano una chiara tendenza ad evitare
l’argomentazione.
7.3.5 Alcuni stratagemmi di Schopenhauer
Il filosofo tedesco espone nel suo libello L’arte di ottenere ragione (1830 tad. it. 1991) i famigerati
trentotto stratagemmi per uscire vincitori da una contesa verbale indipendentemente dal fatto di
aver argomentato il vero o il falso. Secondo Volpi che ne ha curato l’edizione italiana, lo stesso
Schopenhauer non riteneva di aver scritto un’opera degna di considerazione editoriale, tanto è vero
che i suoi stratagemmi sono stati pubblicati postumi. Questa sorta di compendio pratico delinea
ulteriormente la specie polemica dell’argomentazione denominata ‘dialettica eristica’ che
riproponendo le parole dell’autore significa: “[…] l’arte di disputare, e precisamente l’arte di
disputare in modo da ottenere ragione […]” (Schopenhauer, 1991: 15). Presenterò di seguito solo
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alcuni stratagemmi i quali dovranno portare qualche elemento di novità rispetto all’analisi svolta
finora offrendo spunti per l’analisi di testi scritti.
Stratagemma dodici: quando si deve discorrere su un concetto si devono scegliere vocaboli utili
alla propria causa, in altre parole si deve dosare sapientemente i disfemismi, se si intende
screditare la posizione dell’avversario, oppure gli eufemismi, se si intende enfatizzare la propria.
Stratagemma tredici: per fare in modo che l’avversario (o meglio il bersaglio nel caso dei lettori)
accetti una tesi, si presenta in modo stridente la tesi opposta a quella che si vuole sostenere.
Stratagemma venticinque: è uno stratagemma che ricopre un’idea di metodo valutativo in
relazione agli esempi esposti dall’avversario (nel mio caso dall’autore dell’articolo); si deve
valutare se l’esempio corrisponde effettivamente al vero (non ovviamente nella sua presunta
accezione generale visto che è una contraddizione in termini, ma per il suo carattere appunto
specifico). In più lo stesso esempio deve essere pertinente a quanto presentato nell’argomentazione
contingente. Infine si deve valutare la possibilità di trovare una contraddizione fra l’esempio e la
verità presentata.
Stratagemma trenta: questo stratagemma è simile al già citato argumentum ad verecundiam ma
l’elemento interessante introdotto da Schopenhauer riguarda l’estensione di tale argomento anche
alle citazioni fatte in greco o in latino di fronte ad un pubblico che non le capisce, il quale ne
risulterà impressionato, intimidito ed incline ad accettarne le conclusioni.
Stratagemma trentatrè: è un sofisma in cui si ammettono le ragioni benché si neghino poi le
conseguenze; la formula classica è: ‘Ciò che è vero in teoria in pratica è falso’. Schopenhauer
precisa che ciò che è vero in teoria deve esserlo per forza anche in pratica se così non dovesse
essere è perché nella teoria esistono delle falle.
Con questo capitolo si conclude la parte teorica della tesi. Di seguito esporrò il capitolo di analisi
pratica che mi aiuterà a rispondere alla domanda di ricerca: che tipo di relazione esiste fra il
giudizio complessivo esposto in un articolo di critica musicale e il ricorso, volontario o meno, alla
manipolazione argomentativa espressa tramite il ricorso alle fallacie.
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8. Il corpo di articoli: analisi
Si tratta ora di indossare gli occhiali che focalizzano quanto esposto sinora a livello teorico.
Guardando attraverso le loro lenti, analizzerò una serie di articoli giornalistici di critica musicale,
nell’intento da un lato di vagliarne – per quanto possibile – la fondatezza teorico-filosofica (vedi
capitolo 5 e 6), dall’altro di diagnosticarne le strategie e tecniche persuasive. L’analisi
argomentativa del campione di articoli dovrà inoltre condurre ad una maggiore consapevolezza
dell’uso persuasivo dei termini utilizzati in ambito giornalistico e, se possibile, ad una capacità
analitica maggiore per ciò che riguarda il compito specifico del critico musicale.
Il campione degli articoli non sarà rappresentativo, consterà infatti di una trentina di articoli
selezionati con criterio casuale fra le riviste che si occupano in maniera approfondita di critica
musicale nel panorama editoriale italiano. Queste riviste sono: Rumore, Blow up, Il Mucchio
Selvaggio, Buscadero e Urban. La scelta di tali riviste è motivata non solo dal fatto che esse
rappresentano ‘la storia’ della critica musicale in ambito pop-rock, ma anche dalla loro affinità
contenutistica con re.set.
Come già detto nell’introduzione, non è mia intenzione giudicare deontologicamente il lavoro
svolto dai critici presi in esame.
Per completezza occorre precisare ancora un elemento in merito all’analisi che mi accingo a
svolgere: spesso le fallacie non si presentano nei medesimi termini individuati dalla teoria
dell’argomentazione, ma ne sfruttano, con qualche variante, la forza persuasiva. Questo significa
che l’individuazione delle singole fallacie può dare adito a discussione, non essendo sempre
evidente la trasposizione dei modelli teorici alla pratica.
Articolo I
Artista: Depeche Mode
Titolo del disco: The Singles 81/98
Voto: 8/10
Scomparsi gli Smiths e quello che ne rimaneva, collassati i Cure, inghiottiti da se
stessi i Pet Shop Boys, a testimoniare del miglior pop inglese degli anni ’80
rimangono con una buona dose di classe e con tanta resistenza New Order e Depeche
Mode, i cui ultimi due rispettivi recenti album ci dicono di una eccellente
sopravvivenza. Ora arriva questo cofanetto a ripercorrere l’infinito percorso pop
degli ultimi. Quasi vent’anni di singoli in un’escalation di attentati al cuore delle
charts e di continue ridefinizioni sonore. Un suono quello della band di Dave Gahan
che come quello delle altre band sopraccitate ha sempre avuto motore nell’impronta
fortemente personale e in un esistenzialismo estetizzante, una formula che qui si
disvela in tutta la sua evoluzione. Dagli esordi acerbi con Vince Clarke in formazione
con pezzi come ‘New Life’ e ‘Just Can’t Get Enough’ a una prima vera
puntualizzazione dei nuovi Depeche con la gloriosa ‘Everything Counts’, dalla
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
sacralità di ‘Stripped’ e ‘Never Let Me Down’ alle incrostazioni blues di ‘Personal
Jesus’ e ‘I Feel You’, trentotto canzoni per decodificare un mito.
(di Christian Zingales, Blow Up, Anno V, n.42).
Analisi
L’inizio della recensione si fonda sulla commistione fra la funzione storica e quella critica.
L’autore infatti si preoccupa di illustrare il panorama della musica pop inglese, segnalando
inizialmente la scomparsa o il declino artistico di chi ha contribuito a formare tale genere, così da
poter giudicare il lavoro in questione come qualcosa di valido, proprio perché ha resistito al
passare degli anni. È interessante la costruzione argomentativa di questo primo passaggio poiché
l’autore afferma – probabilmente in maniera involontaria – la superiorità di ciò che esiste da ciò
che è immaginabile o che in questo caso non esiste più, servendosi della categoria dei luoghi
comuni detta ‘dell’esistenza’ (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). Ricordo che l’uso dei luoghi
comuni viene classificato come fallacia di rilevanza detta ‘appello all’emozione’ (Copi & Cohen,
1999).
Nella frase: “Quasi vent’anni di singoli in un’escalation di attentati al cuore delle charts […]” si
trovano insieme il luogo comune ‘della quantità’ (di nuovo un ‘appello all’emozione’, vedi fallacie
di rilevanza) tale per cui ciò che è apprezzato dalla maggioranza è per ciò stesso migliore, e l’uso
sapiente di termini favorevoli alla propria tesi (vedi dodicesimo stratagemma di Schopenhauer).
L’articolo prosegue con un accenno al tipo di suono della band che dovrebbe inserirsi in quella che
si chiama funzione teorica (Menna, 1981), ma che viene difficile definire tale.
La parte conclusiva dell’articolo offre una prospettiva sulla storia del gruppo, portando quindi altri
elementi sul fronte della funzione storica.
Di nuovo si trovano termini come “gloriosa” o “sacralità” che richiamano il dodicesimo
stratagemma di Schopenhauer. Stratagemma che, come spesso capita, si ripresenta alla fine
dell’articolo sotto forma di giudizio quando si scrive che le canzoni presenti in questo lavoro
“decodificano un mito”.
Articolo II
Artista: The Ordinary Boys
Titolo del disco: Over The Counter Culture
Voto: ●●●●○
Via uno, avanti un altro. Dopo Franz Ferdinand, Keane e Hope Of The States è il
turno degli Ordinary Boys, anch’essi nella lista dei ‘saranno famosi’ azzardata dal
NME all’inizio dell’anno. Arrivano dai sobborghi di Brighton e pare subito chiaro che
se da una parte puntano a insidiare il trono traballante dei Libertines, dall’altra
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
aspirano a rinverdire i fasti di quel rock passionale che fu la bandiera dei Clash, Jam,
Smiths e dei primi Blur. Dalla loro hanno un nome (dall’omonima track del Moz) e un
produttore (Stephen Street) che sono tutto un programma, e un cantante, il 21enne
Preston, che sotto la scorza dura di un ‘cockney accent’ vagamente Bragg esibisce
morbide inflessioni costelliane. Guardaroba mod e posa da neo brit-poppers, i 4 sono
gli ultimi cronisti della noia che ammorba la periferia inglese. Storie di ordinaria vita
di provincia e miti collettivi (vedi Lotteria Nazionale) si dipanano lungo un album che,
presa a riferimento l’immediatezza melodica dei Kinks, declina agilmente i più classici
paradigmi del guitar rock di scuola british. Dai riff Jam/Clash del trittico d’apertura
ai chitarrismi di ‘Weekend Revolution’, in cui sembra di riascoltare il Marr degli
albori, i ‘ragazzi ordinari’ dispensano anfetamina a piene mani. A tratti, è il caso di
‘Just A Song’, si camuffano da Gene, altre volte, vedi ‘Little Bitch’, flirtano con lo ska
come facevano i Blur. Misuratamente abrasivo il suono ha quasi sempre il dono
dell’asciutezza. Se c’è qualche sbavatura è solo perché a vent’anni l’irruenza è
fisiologica e la moderazione una disciplina tutta da imparare. È tuttavia lampante che
ai quattro la stoffa non manca e che, tempo un altro album, sapranno perfezionare la
ricetta. Già così comunque, la band riesce a distinguersi dalle tante che affollano il
gregge d’Albione: una ‘pecora nera’, tanto per restare in tema col delizioso ritratto
sbattuto in copertina.
(di Leo Mansueto, Rockerilla, Anno XXVI n.287-288).
Analisi
L’inizio della recensione poggia su una serie di paragoni che mirano ad inquadrare, in un
determinato genere, il tipo di musica proposta (funzione storica). La struttura argomentativa sfrutta
però la fallacia di rilevanza detta ‘appello ad autorità impropria’. È infatti una testata inglese che
ha ‘scommesso’ sul successo del gruppo in questione. Difficile dire se il giornale (NME) si possa
considerare un punto di riferimento autorevole o meno, in ogni modo anche se lo fosse, ricorrere
ad un ragionamento basato sull’appello ad un’autorità è poco pertinente, poiché evita di entrare nei
termini della questione. Di fatto il giornalista utilizza una struttura argomentativa basata sul
ragionamento: “Se lo dice il NME allora questo disco sarà di qualità”. Appare ovvio che la bravura
del giornalista risieda anche nel far passare ‘sotto silenzio’ un ragionamento di questo tipo. In
effetti la sensazione è che lo stesso giornalista non riponga molto importanza nella classifica stilata
dalla testata inglese. Viene il dubbio che questa velata indifferenza sia essa stessa strategica.
L’articolo prosegue con spunti sulla storia personale del gruppo, sulle loro ambizioni artistiche
(secondo il giornalista) e sulla produzione. Sono tutte considerazioni che rispondono in buona
parte all’obbligo, da parte di chi scrive, di spiegare che tipo di musica contiene questo lavoro.
L’analisi è quindi di tipo teorico. Il modo con cui la funzione teorica viene affrontata è assai
peculiare. Difatti, non si parla di strutture melodiche o armoniche, non si evidenziano tratti
innovativi, e nemmeno si spiega se il lavoro è, nelle sue varie componenti, omogeneo e ben
strutturato. Per contro si tenta di illustrare il tipo di suono attraverso dei paragoni con altri gruppi
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Parte seconda
che presentano punti di contatto rispetto al gruppo sotto analisi. A questo proposito bisogna dire
che i paragoni rispondono di certo ad una esigenza informativa, ma al contempo – soprattutto se
sono paragoni altisonanti per i lettori della rivista – sfruttano la strategia associativa. In altri
termini si associano elementi distinti nel tentativo di valorizzarne uno o entrambi (Perelman &
Olbrechts-Tyteca, 1966). In questa recensione si paragona prima la voce a quella di Billy Bragg e
Elvis Costello poi l’immediatezza melodica ai Kinks e infine i riff di alcune canzoni ai Jam e ai
Clash. Altre canzoni ricordano gli Smith (Marr) i Gene e i Blur. Non sono paragoni di poco conto.
Particolare è pure la scelta di far ricadere la causa dei difetti artistici del disco sulle caratteristiche
personali e caratteriali dei giovani musicisti, come a sminuirne l’importanza. A riprova viene
sfruttata una struttura para-argomentativa che per sua natura non ammette repliche, con la frase:
”Appare tuttavia lampante che ai quattro la stoffa non manca […]”.
L’articolo termina con la volontà di rimarcare l’unicità del gruppo che si distingue “dalle tante
[band] che affollano il gregge d’Albione [..]” sfruttando la fallacia di rilevanza detta ‘appello
all’emozione’ (Copi & Cohen, 1999) nello specifico tramite l’uso del luogo comune detto ‘della
qualità’(Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966).
Articolo III
Artista: Kings of Convenience
Titolo del disco: Riot On An Empty Street
Voto: ●●●○○
Massì: anche a distanza di mesi l’apprezzamento per questo ‘Riot On An Empty
Street’ regge. Reggono le perplessità, aumentate dal fatto che il singolo che gira
adesso è l’inutile, inutilissima ‘I’d Rather Dance With You’; ma reggono soprattutto i
momenti d’incanto (‘Mistread’, il primo singolo, ma anche ‘Cayman Island’ o ‘Live
Long’ tanto per citare due titoli). Insomma, al delicato traguardo del secondo disco
Erlend ed Eirik giungono dimostrando che non sono solo dei miracolati della
domenica, delle stelline di un ‘new acoustic movement’ di cui già ora si parla a fatica
ma all’epoca sembrava dovesse cambiare il mondo. I due sanno scrivere, e hanno un
tocco molto spesso intriso di notevole gusto e grazia. Difficile chieder loro di più. E il
fatto che questo disco abbia venduto molto in Italia, beh, noi lo vedremmo davvero
come un barlume (residuale?) di ottimismo: certe volte la buona musica ce la fa.
(di Damir Ivic, Il Mucchio Selvaggio, Anno XXVII, n.600).
Analisi
La prima parte dell’articolo è dedicata alla formulazione di un giudizio che viene espresso tramite
una prima esposizione delle perplessità. Non è dato sapere al lettore quali siano queste perplessità
se non per una canzone in particolare, che presenta (secondo il giornalista) tratti assolutamente
trascurabili. Di contro il giudizio prosegue definendo ‘momenti d’incanto’ altre parti del disco (tre
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Parte seconda
canzoni). Definire ‘momenti d’incanto’ alcune parti del disco ricorda il dodicesimo stratagemma di
Schopenhauer tale per cui, se si vuole convincere il proprio uditorio, è conveniente scegliere
termini (eufemismi) favorevoli alla propria tesi.
La parte centrale della recensione unisce due funzioni dell’interpretazione critica (Menna, 1981):
la funzione storica e quella critica. La funzione storica si avverte grazie ad un commento sulla
storia del gruppo, arrivato al secondo album. Qui si intravede la funzione critica, poiché spesso il
secondo disco di un gruppo, che segue un primo lavoro di grande successo, viene visto come un
ostacolo delicato e difficile da superare. Questo perché gli artisti sono confrontati con le
aspettative sia del pubblico, sia della casa discografica. Ripetere il successo del primo lavoro – in
condizioni totalmente diverse – senza apparire scontati, viene considerato una nota di merito. Si
ritorna alla funzione storica quando si inserisce il lavoro nel filone di genere (folk acustico). Infine
si giudicano di nuovo i due componenti del gruppo come abili nella scrittura di canzoni. Non è un
obiettivo di questa lavoro giudicare la profondità dell’analisi presentata dai critici, tuttavia è
impossibile non notare la totale mancanza della funzione teorica.
La parte finale della recensione termina con la fallacia di rilevanza detta ‘appello all’emozione’
(Copi & Cohen, 1999) tramite l’uso del luogo comune detto ‘della quantità’(Perelman &
Olbrechts-Tyteca, 1966). Il giornalista consapevole del fatto che un argomento del genere può
essere controproducente per il lettore tipo del ‘Mucchio Selvaggio’ – che non è sensibile ai
successi commerciali –, si preoccupa di spiegare che in questo caso si può fare un’eccezione e
vedere il successo di vendite come un “barlume (residuale?) di ottimismo […]”. L’argomento ad
populum viene quindi esplicitato e usato con cautela ma sempre in un’ottica strumentale alla tesi
che si vuol dimostrare.
Articolo IV
Artista: Diaframma
Titolo del disco: Il ritorno dei desideri (ristampa)
Voto: 8/10
La grandezza smisurata di Federico Fiumani è tutta in ‘Manca l’acqua’, una canzone
posta quasi in chiusura della versione originale de ‘Il ritorno dei desideri’. Buttata lì
alla fine tanto da rischiare di passare inosservata stava, accarezzata dal controcanto
di Mara Redeghieri, una melodia fragile perfetta e commovente. Stesso destino per la
verità ebbe all’epoca della sua uscita (1994) tutto questo album, che avrebbe dovuto
rappresentare il rilancio dei Diaframma grazie anche alla produzione di Gianni
Maroccolo e alla presenza di Francesco Magnelli e della Redeghieri e che fu invece
travolto dalla crisi della Contempo. La ristampa della Self – arricchita da cinque
inediti – permette oggi di riscoprire un classico misconosciuto e uno dei punti più alti
(insieme ad ‘Anni Luce’) della seconda stagione dei Diaframma. ‘Baciami’, ‘Trattami
bene’, ‘Una stagione nel cuore’, ‘Labbra blu’, ‘Il ritorno dei desideri’, ‘Né meglio né
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Parte seconda
peggio’ e appunto ‘Manca l’acqua’ sono semplicemente tra le gemme più luminose di
un canzoniere con pochi eguali in Italia e spiegano anche, a distanza di anni, la scelta
tanto discussa di Fiumani di cantare in proprio: nessuno altro potrebbe permettersi di
rendere credibile la dolcezza sguaiata di ‘Baciami’ o versi come quelli celebri di ‘Né
meglio né peggio’ (“Se la vita non comincia da oggi/ vuol dire che stiamo ingannando
noi stessi/ Che la rabbia ce la siamo costruita/ e un po’ una [alla] volta impareremo a
star dentro”). È Fiumani l’unico vero poeta del rock italiano.
(di Duca Lamberti, Blow Up, Anno VII, n.62/63).
Analisi
In apertura si può riscontrare un uso del dodicesimo stratagemma di Schopenhauer. In particolare
il giornalista utilizza termini favorevoli alla propri tesi quando scrive: “La grandezza smisurata di
Federico Fiumani […]”.
Dopo tre righe di nuovo definisce la melodia “fragile perfetta e commovente”, tre aggettivi che
non lasciano dubbi: sono adatti (anche troppo) alla tesi proposta.
Per quello che riguarda l’aspetto interpretativo dell’opera musicale si inizia con alcune
considerazioni tecniche (produzione, collaborazioni e novità della ristampa) che potrebbero, se
fossero più approfondite, inserirsi nel quadro della funzione teorica.
Un tentativo di approfondimento è per la verità abbozzato, infatti il redattore elenca molte delle
canzoni presenti nel lavoro salvo poi concludere direttamente con un giudizio: “[…] [queste
canzoni] sono semplicemente tra le gemme più luminose di un canzoniere che ha pochi eguali in
Italia […]”. Ancora stride la scelta di definire Fiumani come un cantante con “pochi eguali”
ricordando ancora il dodicesimo stratagemma di Schopenhauer.
Nella parte finale si trova per due volte l’uso del luogo comune detto ‘della qualità’, in cui si
rimarca l’unicità di ciò che si sta descrivendo (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). Nello
specifico, il ricorso a queste due fallacie di rilevanza dette anche ‘appello all’emozione’ (Copi &
Cohen, 1999) compare quando si dice che : “[…] nessun altro potrebbe permettersi […]” e quando
si conclude l’articolo dicendo che : “[…] Fiumani è l’unico vero poeta del rock italiano”.
Articolo V
Artista: Morphine
Titolo del disco: The best of
Voto: ●●●●●
La scaletta è quella ordinaria di un ‘best of’: una (buona) scelta di brani editi, un paio
di inediti, una rarità e un clip dal vivo. Però è il gruppo a fare la differenza. I
Morphine erano un esemplare unico, un trio rock senza chitarre (basso, sax e batteria)
con un leader tenebroso e capace di scrivere grandi canzoni, morto sul palco nel
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Parte seconda
1999. Non erano merce da classifica, solo una delle band più originali mai apparse
sulla scena. Chi non li conosce, corra ai ripari. È un ordine.
(di Paolo Giovanazzi, Urban, Anno II, n.16).
Analisi
La costruzione logica delle prime due proposizioni appare in contraddizione: prima si afferma che
la scaletta è ‘ordinaria’ allontanando ogni speranza di trovarvi qualcosa che giustifichi uno scarto
creativo; in seguito si caratterizza con l’aggettivo ‘buona’, la scaletta stessa, aprendo per l'appunto
una incongruenza logica. Mi spiego: se la scaletta è ordinaria allora l’aggettivo ‘buona’ non
dovrebbe essere riferito al tipo di scelta effettuata per comporre la scaletta – come invece è –, ma
alla qualità musicale dei brani in essa contenuti. Questa qualità viene però immediatamente
sconfessata dall’uso dell’avversativo ‘però’ che presuppone uno iato qualitativo tra le due
affermazioni. Così si arriva a capire che è il gruppo a ‘fare la differenza’. Qui il termine
‘differenza’ viene usato in maniera ambigua facendo pensare alla fallacia d’ambiguità detta
‘equivocazione’(Copi & Cohen, 1999), nel senso che la prima ‘differenza’ è associata al concetto
di qualità (artistica), mentre poi si scopre che in realtà la ‘differenza’ è più che altro un fattore di
originalità della line-up del gruppo che è (quella sì) del tutto inusuale. Il giudizio “capace di
scrivere grandi canzoni […]” manca di una specificazione teorica.
Per chiudere, si fa appello all’emotività del destinatario ricordando la morte del cantante (definito
“tenebroso”). Lo scopo patente è sempre quello di informare il lettore sulle vicissitudini del
gruppo, tuttavia vi è nel contempo un ricorso alla fallacia di rilevanza che appunto viene chiamata
‘appello all’emozione’ (Copi & Cohen, 1999). Nel passaggio seguente si capisce come per il
giornalista essere ‘merce da classifica’ sia una cosa artisticamente negativa, lasciandone implicite
le ragioni, continuando poi la frase con tono ironico e paradossale, dato che l’avverbio ‘solo’ è da
intendersi, dal punto di vista semantico, in maniera diametralmente opposta. Nella penultima
proposizione si giustifica e si prepara l’ultima affermazione, che è un chiaro ricorso alla paraargomentazione, nonché una fallacia di rilevanza detta ‘appello alla forza’42. (Copi & Cohen,
1999). Di conseguenza, il giornalista non si preoccupa di argomentare razionalmente, ma
minaccia: “Chi non li conosce corra ai ripari. È un ordine” (ovviamente in maniera ironica) i propri
lettori.
42
Pur riconoscendo la presenza di entrambe le argomentazioni persuasive scelgo di privilegiare la fallacia di rilevanza
e non il ricorso alla para-argomentazione. Questo scelta nasce dal fatto che quest’ultimo concetto presenta una base di
studio condivisa inferiore – quando non controversa –, rispetto a quella riservata alle fallacie.
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
Articolo VI
Artista: Yann Tiersen
Titolo del disco: C’était Ici
Voto: 7.5/10
Tempo per Yann Tiersen di raccogliere i frutti del César vinto per la colonna sonora
di ‘Le Fabuleux Destin D’Amélie Poulain’, dopo quattro album in studio, da ‘La valse
des monstres’ a ‘Tout est calme’, che, usciti per la indie label Ici D’Ailleurs, avevano
suscitato risonanza infinitamente inferiore al proprio valore. Proprio quel ‘destino’
evocato dal film di Jeunet ha voluto che Tiersen, benché gran parte del materiale della
soundtrack fosse tratto dai suoi precedenti dischi, venisse ‘scoperto’ sull’onda dei
consensi ricevuti dalla pellicola. Immediati benefici il musicista bretone ne aveva
riscontrati già con l’ultimo ‘L’absente’, questo doppio cd dal vivo, registrato a Parigi
nel febbraio scorso con la Synaxis Orchestra, è meritata consacrazione. La
formazione classica di Tiersen è la base dei suoi lavori e naturalmente anche la
costante di questa performance, esemplare ‘Deja loin’, a dilatarsi in contigui
riferimenti a Satie in ‘Le moulin’ e ‘Comptine d’une autre étè: L’apres midi’ a Nyman
in ‘La valse d’Amélie’ e ‘L’homme aux bras ballants’, a Wim Mertens in ‘Rue des
cascades’, quest’ultima con la bella voce di Claire Pichet, protagonista altresì nella
progressione drammatica di ‘La rupture’, ma anche in commistioni d’elevato profilo
con la musica popolare in ‘Le jour d’avant’ e ‘Le banquet’, e più strettamente con il
folk antico in ‘C’était ici’, ed ancora con la tradizione degli chansonnier in ‘La
terasse’, dove canta lo stesso Tiersen, e ‘Les jours tristes’, con Christian Quermalet
che ben sostituisce Neil Hannon, o con moduli espressivi più canonici, immediati ma
non per questo ovvi in ‘Bagatelle’, ‘Monochrome’, ‘Les bras de mer’, tutte con alla
voce Dominique A, o ‘Le meridien’ e ‘La parade’, toccante, cantate da Lisa Germano.
(di Paolo Bretoni, Blow Up, Anno VII, n.55).
Analisi
Paolo Bretoni inizia il suo articolo preoccupandosi di informare il lettore che per Yann Tiersen è
giunto il momento di godersi una meritata consacrazione grazie ai: “[…] frutti del César vinto per
la colonna sonora di […]”. Non si può negare che in queste affermazioni vi è una corretta
intenzione informativa. Tuttavia la costruzione di questi periodi contiene un elevato potere
persuasivo, poiché si utilizza il blasone e la (presunta) autorevolezza di un premio per elevare la
qualità di un’opera artistica, senza entrare nel merito. In questo modo si cade nella fallacia di
rilevanza detta ‘appello ad autorità impropria’ (Copi & Cohen, 1999).
Di seguito il giornalista elenca i precedenti lavori di Yann Tiersen (funzione storica) giudicandoli
in maniera molto positiva, poiché “[…] avevano suscitato risonanza infinitamente inferiore al
proprio valore”. In questo caso il giudizio è preceduto da una breve analisi storica ma è privo di
un’adeguata analisi teorica. Bretoni prosegue con altre considerazione sulle vicende artistiche di
Tiersen e descrive alcune canzoni tramite dei paragoni con artisti che presentano delle affinità
musicali. Come già detto, è assolutamente legittimo che si facciano dei paragoni per far capire al
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
lettore di che genere di musica si tratta. Si può supporre che sia una strategia apprezzata anche dai
lettori, i quali possono farsi un’idea senza essere dei musicologi. Cionondimeno, la scelta di
paragonare delle canzoni ad artisti come Satie, Nyman e Mertens produce nel lettore un forte senso
di aspettativa, che contribuisce – in alcuni casi – alla composizione della motivazione che spinge
all’acquisto. In altri termini, le strategie associative sono – se attuate accuratamente e con
attenzione al tipo di lettore a cui ci si rivolge – una sorta di volano, che fa aumentare la qualità di
ciò di cui si parla in maniera tanto semplice quanto efficace (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966).
La funzione storica si ripresenta quando si inquadrano altri brani nel filone della musica popolare o
nel folk antico o ancora nella tradizione degli chansonnier. Purtroppo questo lavoro storico non
viene integrato con elementi teorici e quindi non si specifica se in tali brani vi siano elementi
innovativi rispetto agli elementi già presenti nel rispettivo genere musicale.
Articolo VII
Artista: Brian Wilson
Titolo del disco: Gettin’ Over My Head
Voto: ●●○○○
Sono passati sei anni da ‘Imagination’, il ritorno negli studi di incisione di un vecchio
maestro del pop rock: nel frattempo Brian Wilson ha ricominciato a riempire le
cronache musicali con una serie di concerti, di pubblicazioni dal vivo, di onori,
discografici e non (uscirà anche in Italia per Arcana, fra pochi mesi, un libro che
discetta unicamente sulle ‘Pet Sounds Session’) davvero massiccia. Ora arriva
finalmente un nuovo disco che raccoglie suo materiale sparso, ‘pensato’ soprattutto
nel corso dei ’90, arricchito da una copertina realizzata nientemeno che da Peter
Blake – quello di ‘Sgt. Pepper’s’ dei Beatles, per intenderci – e da un pugno di ospiti
di tutto riguardo: Elton John, Eric Clapton, Paul McCartney. Tutti ingredienti adatti a
un lavoro importante, anche perché negli ultimi tempi il Nostro era parso in ottima
forma, misurato, conciso, quasi fuori dalle ossessioni che hanno attraversato da
sempre la sua mente e segnato il suo comportamento pubblico. ‘Gettin’ Over My
Head’ però non va oltre un dignitoso ‘ripasso’ di quella che è stata l’arte di Wilson
nel confezionare canzoni immerse in intrecci vocali ben misurati, servendosi di
orchestrazioni accorte e di una produzione certosina e perfetta: la maggior parte dei
nuovi pezzi respira l’aria dei (capo)lavori dei ’60 senza però dare al tutto un segno
contemporaneo, suonando in qualche modo fuori tempo. Ottimi spunti, sia chiaro, ma
anche in tracce interessanti come ‘Touched Me’ l’effetto ‘madeleine’ ha la meglio
sull’inventiva, rendendo il cd dignitoso ma non imprescindibile.
(di John Vignola, Il Mucchio Selvaggio, Anno XXVII, n.585).
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Parte seconda
Analisi
Le prime considerazioni scritte da Vignola ripassano la storia artistica di Wilson, ma non appaiono
sufficienti per poter parlare di funzione storica (Menna, 1981). Wilson viene definito: “[…] un
vecchio maestro del pop rock […]”. Tale giudizio non viene appunto integrato da un apporto di
carattere storico.
Il disco in questione viene descritto come un lavoro: ”[…] arricchito da una copertina realizzata
nientemeno che da Peter Blake – quello di Sgt. Pepper’s dei Beatles, per intenderci – e da un
pugno di ospiti di tutto riguardo: Elton John, Eric Clapton, Paul McCartney”. In questo caso la
descrizione – che mantiene pur sempre un carattere informativo – si avvale di un processo
associativo evidenziato dall’uso del grassetto, e arricchito dall’elenco di ospiti definiti: “[…] di
tutto riguardo […]” (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). Dopo altre considerazioni, piuttosto
ermetiche, sulle prove sostenute da Wilson nel recente passato (senza esplicitarle), si passa a
parlare dell’oggetto della recensione. È interessante notare come per Vignola il giudizio si basi
sulla mancanza di originalità. Si può ragionevolmente dedurre che per il giornalista il criterio di
originalità non assuma l’accezione di origine (Dahlhaus, 1987). Di conseguenza non pare essere un
valore la rivisitazione di elementi musicali del passato se non vi è, al contempo, un adeguato e
originale, lavoro di attualizzazione. Vi sono giudizi tecnici che definiscono le parti vocali: “[…]
ben misurate […]”, le orchestrazioni:” […] accorte […]” e infine la produzione come: “[…]
certosina e perfetta […]”. Tutti ‘giudizi emotivi’ (Eggebrecht, 1988) che non vengono motivati né
da approfondimenti teorici, né da integrazioni storiche.
Per ciò che riguarda l’uso di strategie persuasive, credo che non sia corretto parlare di uso
finalizzato del dodicesimo stratagemma di Schopenhauer (nei casi di ‘vecchio maestro’ e di
‘produzione perfetta’) poiché il giudizio finale non è certo positivo.
Articolo VIII
Artista: Elliott Smith
Titolo del disco: XO
Metro di valutazione: basso-medio-alto
Voto: alto
Vero è che per metà si tratta di ristampe, ma pubblicare quattro dischi in meno di un
anno rappresenta comunque un primato o qualcosa del genere. Sono indizi
inequivocabili dell’attenzione che circonda l’autore, da quando è asceso all’impero
dello show business esibendosi durante la cerimonia di consegna degli Oscar. Elliott
Smith non è più dunque un outsider, bensì protagonista affermato delle cronache
musicali in questo scorcio di fine decennio. Quello che passa per essere il Paul Simon
della ‘Prozac generation’ esordisce ora per la Dreamworks di Spielberg e Geffen,
dopo una prolungata fase di apprendistato indipendente, prima con gli Heatmiser e
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
quindi come solista. Cambia qualcosa? Sembrerebbe di sì, ascoltando XO. Colpisce
anzitutto l’opulenza – archi e fiati impiegati senza risparmio – degli arrangiamenti: la
frugale ‘bassa fedeltà’ dei primi tempi è un ricordo di gioventù. Chi ne avesse
nostalgia, si procuri le riedizioni dei due primi album: ‘Roman Candle’ del ’94 –
quando il signor Smith faceva parte ancora degli Heatmiser – e il ‘senzatitolo’ del ’96.
Là stanno le ballate che incantarono Gus Van Sant, convincendo il regista a
coinvolgere Smith nella realizzazione della colonna sonora di ‘Good Will Hunting’.
Chi viceversa intende stare al passo con l’evoluzione del personaggio badi piuttosto a
XO, dove egli conferma le proprie qualità di scrittore – ‘Baby Britain, ‘Pitseleh’ e ‘Oh
Well Okay’ svettano nel repertorio – e prova d’altra parte a enfatizzarle arrichendone
la veste formale. E se ad alcuni parrà eccessiva l’enfasi orchestrale dispiegata in
‘Sweet Adeline’, ‘Bottle Up And Explode’ ed ‘Everybody Cares Everybody
Understands’, la compensino con la conclusiva ‘I Didn’t Understand’: squisito
madrigale per sola voce degno dei migliori Beach Boys.
(di Alberto Campo, Rumore, Anno VII, n.81).
Analisi
Grazie alle prime considerazioni – che verranno ulteriormente approfondite nella parte centrale
dell’articolo – il giornalista illustra brevemente la carriera di Smith. Per spiegare il crescente
interesse, nato intorno al musicista, viene usato l’argomento dell’esibizione alla cerimonia degli
Oscar. In questo caso non c’è un vero e proprio premio – come nel caso di Yann Tiersen – ma nel
lettore è possibile che scatti il seguente assioma: ‘se è stato scelto per suonare in quella prestigiosa
occasione un motivo ci deve essere per forza’. L’effetto persuasivo di un tale argomento non è
trascurabile ed è identificabile come una fallacia di rilevanza detta 'appello ad autorità impropria'
(Copi & Cohen, 1999).
Di seguito la figura di Smith viene paragonata a quella di Paul Simon, da un lato per offrire al
lettore un termine di paragone conosciuto, in modo da potersi fare un’idea sul tipo di musica
proposta dall’artista, dall’altro però creando aspettative di alto livello (Perelman & OlbrechtsTyteca, 1966).
La recensione critica prosegue con alcune osservazioni di tipo storico che permettono di capire
quale sia stata l’evoluzione artistica di Smith. Di seguito viene esposta una considerazione sulle
peculiarità degli arrangiamenti di XO (funzione teorica) che viene rapportata ai precedenti lavori
(funzione storica). Successivamente – anche se non si fa riferimento al presente lavoro, bensì a
prove precedenti – il giornalista si avvale di nuovo di un ‘appello ad autorità impropria’. Infatti,
Smith è stato incaricato da Gus Van Sant a comporre la colonna sonora di Good Will Hunting. In
questo caso è il comportamento di una persona celebre – ma non per forza competente dal punto di
vista musicale – che carica di persuasività il ragionamento proposto da Alberto Campo.
Dopo il giudizio – che non viene motivato – sulle qualità di scrittura dell’artista e sulla sua volontà
di enfatizzazione formale presente in alcune canzoni, si conclude l’articolo con un altro altisonante
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
accostamento (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966), corredato inoltre, dal ricorso al dodicesimo
stratagemma di Schopenhauer: “ […] I Didn’t Understand [è] uno squisito madrigale per sola voce
degno dei migliori Beach Boys”.
Articolo IX
Artista: The 5,6,7,8’S
Titolo del disco: Teenage Mojo Workout
Voto: ●●●○○
Non fosse per quel genio di Quentin Tarantino, che le ha volute non solo nella
colonna sonora, ma addirittura come attrici ‘suonanti’ in ‘Kill Bill Vol.1’, le 5,6,7,8’s
sarebbero rimaste una band di (pur ampio) culto tra gli appassionati del punk/garage
di scuola lo-fi, gli stessi che venerano la prima Jon Spencer Blues Explosion e gli
Oblivians come anche, più di recente e comunque in epoca pre-successo su vasta scala
(taluni, si sa, non amano dividere con troppa gente le proprie ‘insane’ manie), i White
Stripes. Ma le cose sono per fortuna andate diversamente e oggi le tre giapponesi tutto
pepe turbano il sonno di un pubblico più ampio, costituito in buona parte da cinefili
doc rimasti magari intrigati più dal look ‘glamour’ squisitamente ‘rétro’ che da un
suono altrettanto passatista nell’attingere nell’inesauribile serbatoio del rock’n’roll,
del surf e del soul/R&B delle origini e nel riproporre quanto pescato in una chiave
ruvida, abrasiva, nervosa ed eccitatissima. Stampa europea dell’omonimo cd uscito in
Giappone nel 2002, il terzo propriamente detto della band, ‘Teenage Mojo Workout’ è
una perfetta sintesi in dodici episodi e trentaquattro minuti della formula delle ‘band
girls’ nipponiche, terribili maestrie di un punk’n’roll per lo più sporco, saturo, acido e
qua e là isterico ma capace anche – ad esempio, in ‘I Got A Man’ o ‘In The Subway’ –
di svilupparsi in trame ‘soft’ assai suggestive; con gli episodi autografi ad alternarsi a
cover abbastanza oscure per un party dove il divertimento è assicurato tanto quanto i
benefici tocchi di lascivia.
(di Federico Guglielmi, Il Mucchio Selvaggio, Anno XXVII, n.600).
Analisi
La recensione inizia con un ricorso alla fallacia di rilevanza detta ‘appello ad autorità
impropria’(Copi & Cohen, 1999), dato che si sceglie di specificare che le musiciste in questione
sono state scelte da Tarantino (scritto in grassetto per sottolinearne la valenza artistica), sia per
recitare in un suo film, sia per comporne la colonna sonora. Le successive considerazioni fanno
luce sul genere di musica proposto dal gruppo e sul valore di alcuni riferimenti che vanno ad
inserirsi nel medesimo genere musicale (funzione storica). L’elemento interessante introdotto da
Guglielmi riguarda da un lato il rapporto fra qualità artistica e successo, e dall’altro, il valore
concesso al concetto di originalità nel sua accezione di rivalutazione di ciò che sta all’origine
(Dahlhaus, 1987). Infatti, si deduce chiaramente come per Guglielmi il successo – in questo caso
scaturito grazie alla collaborazione con Tarantino – non sia da considerarsi un dato negativo.
Dopodichè, nel ‘gioco narrativo’ della recensione, il critico ‘camuffa’ il proprio giudizio ed
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Parte seconda
attribuisce ad un fantomatico pubblico: “[…] di cinefili doc […]” il piacere di riascoltare sonorità
legate al passato.
Il giudizio del disco: “[…] sintesi perfetta […]” richiama il dodicesimo stratagemma di
Schopenhauer. Questo giudizio, poco approfondito, viene introdotto da un breve accenno storico
(band giapponese al terzo disco) che poi si sviluppa nell’elenco delle canzoni più rappresentative
del disco. Quest’ultime vengono anche definite : “[…] assai suggestive […]”, riproponendo di
nuovo il dodicesimo stratagemma di Schopenhauer.
Articolo X
Artista: Quintorigo
Titolo del disco: In cattività
Voto: ●●●●○
Si sono fatti attendere un po’, John De Leo e gli altri della band romagnola più
originale e incisiva in circolazione. Però ne valeva la pena. Il terzo album targato
Quintorigo, infatti, presenta ospiti illustri come Enrico Rava, Roberto Gatto e Ivano
Fossati, che suona il piano e duetta proprio con De Leo. E grazie anche a loro
travolge per melodie ipnotiche e atmosfere abrasive. Registrato in parte in Romania
con la Filarmonica Bacuau di Bucarest, un’orchestra di 60 elementi dallo
straordinario impatto emotivo, il disco contiene anche i brani della colonna sonora
del film di Piergiorgio Gay ‘La forza del passato’, fra i quali anche una cover di Tom
Waits come ‘Clap hands’. E anche per questo merita attenzione.
(di Andrea Scarpa, Urban, Anno II, n.15).
Analisi
Lo spunto iniziale dell’articolo è un tentativo di abbozzare una contestualizzazione storica del
gruppo. Infatti, si specifica la provenienza, il numero dei lavori già pubblicati e si lascia intendere
che l’attesa per questo nuovo lavoro non sia stata vana sebbene piuttosto lunga. I concetti di
‘incisività’ e di ‘originalità’ non vengono precisati se non con una giustificazione inefficace dal
punto di vista logico, riconoscibile grazie all’uso della congiunzione ‘infatti’. In quel contesto il
termine ‘infatti’ giustifica la qualità artistica dell’opera, avvalendosi di una costruzione
argomentativa di tipo associativo (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). Si cerca, in altre parole, di
avvicinare due termini distinti per valorizzarne le rispettive caratteristiche. Come detto più volte, le
collaborazioni, puntualmente specificate in molti articoli di critica musicale, assolvono da una
parte una funzione informativa, ma dall’altra anche una più prettamente persuasiva. In questo caso
l’associazione – e la relativa idea che questa sia ipso facto sinonimo di qualità – non viene lasciata
implicita, ma si rende merito al loro apporto artistico grazie all’uso dei termini: “E grazie anche a
loro […]”. Un ulteriore riferimento, ad una illustre collaborazione, alquanto inusuale per un
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Parte seconda
gruppo rock-pop ma di sicuro impatto, lo si ritrova quando si affianca il loro lavoro a quello di
un’orchestra di musica classica, portando a pensare che la loro musica sia anche avvicinabile
all’universo della musica ‘colta’. L’orchestra, formata da 60 elementi, viene definita: “[…] di
straordinario impatto emotivo […]”. Il termine ‘straordinario’ è un ricorso al dodicesimo
stratagemma di Schopenhauer. La sensazione è che un giudizio del genere, oltre a non essere
motivato, possa venir accettato dal lettore con estrema facilità.
Si passa poi ad un ricorso alla fallacia di rilevanza detta ‘appello ad autorità impropria’ (Copi &
Cohen, 1999), poiché il gruppo è stato scelto anche per comporre la colonna sonora di un film.
Anche qui passano implicite idee di ecletticità (e quindi di qualità) senza peraltro spiegarne la
natura. Il ragionamento latente – che può scattare in chi legge l’articolo – può articolarsi nel
seguente modo: “Se sono stati scelti da un regista per comporre la colonna sonora di un film,
avranno per forza delle qualità”.
Per finire, la loro scelta di rifare un brano di un artista molto apprezzato ma poco conosciuto,
dovrebbe confermare, sempre per associazione, la loro competenza in materia musicale, i loro
gusti e la loro curiosità.
L’ultima frase – riprendendo i concetti dell’argomentatività radicale43 del linguaggio – ha un
carattere informativo che però nasconde uno scopo argomentativo, che è quello in realtà di far
acquistare il disco.
Articolo XI
Artista: Blur
Titolo del disco: The Great Escape
Voto: 9/10
Se la vita moderna era alquanto deprimente, grigia e schifosa (Modern Life Is
Rubbish, 1993) e la vita da parco forse un po’ farsesca e parrocchiale (Parklife,
1994), l’unica soluzione è una grande fuga: The Great Escape. Una trilogia che si
chiude? Chiederemo. Ci sono dei momenti nella storia del pop britannico quando una
band smette di essere una ‘pop band’ ed agli occhi degli inglesi diventa una sorta
‘comunicatore sociale’. Ai Blur è successo: da protagonisti di articoli sul pop letterato
nelle pagine cultura del Guardian, alla partecipazione di un parlamentare (Ken
Livingstone, Labour Party) in una di queste canzoni (‘Ernold Same’), passando per
cinque (!!!) Brit Awards hanno raccolto e stanno raccogliendo i frutti di
un’operazione intelligente. Con The Great Escape Damon Albarn & Co. vogliono
assumere questo ruolo per tutta l’Europa – dubito che l’America (ormai solo in grado
di farsi imboccare da Beavis e Butthead) possa apprezzare il raffinato gioco delle
parti dei Blur. Una fuga, dunque. Una fuga da questa società costruita su
persone/personaggi che giocano a far gli attori protagonisti (e in questo è davvero
fondamentale l’influenza del libro Terroristi Londinesi di Martin Amis su Albarn). E
43
Rimando alle considerazioni esposte al capitolo 7.2.
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Parte seconda
allora i Blur rincarano la dose: più fiati, più orchestra, più tastiere, più tutto ma anche
più compattezza rispetto a Parklife. Con ciò hanno ormai superato molti dei loro
eccellenti maestri, grandi band da singolo, ma incapaci di raggiungere il top nella
completezza di un album. Ma non solo in questo stanno imbarazzando i loro referenti
più diretti, perché se qualcuno vi dice che i Blur sono i #### del ’95 non pensate ad
una copia di questi ma ad una loro possibile evoluzione. Alcuni brani ripartono dai
precedenti lavori (‘He Thought Of Cars’ riprende la loro vena XTC e ‘Best Days’
quella strappalacrime) e in ‘It Could Be You’ il riferimento ai Kinks è talmente ovvio
da essere ironico, ma per il resto tutto è estremizzato (a seconda verso il grandioso o
verso il minimale) per il meglio a partire dall’opener ‘Stereotype’ con i suoi moog ed
hammond per finire con la ninna nanna ‘Yuko & Hiro’. Il primo singolo è la
madnessiana ‘Country House’ con un coro da festa, ma i veri top pop sono
‘Charmless Man’ (una Beat Surrender nuova di zecca) e ‘Mr Robinsons Quango’. Poi
si gioca un po’ con musica fra la tradizione da operetta e Burt Bucharach in ‘Fade
Away’ e nella maestosa ‘Universal’, verso l’arrembaggio in territorio Rancid di
‘Globe Alond’ e la lezione di New Wave of New Wave (quasi una lite in famiglia fra
Damon e la compagna Justine delle Elastica) che è ‘Entertain Me’. Ne manca
qualcuna? Che differenza può fare, tanto avrete capito che è proprio l’eclettismo e
l’esagerazione il punto forte di Great Escape. Vero puro MODERN POP. Senza
compromessi con cultura di MTV.
(di Gabriele Sacchi, Rumore, Anno IV, n., Anno IV, n.44).
Analisi
L’espediente retorico posto ad inizio articolo tende a giudicare e a ‘problematizzare’ i due
precedenti album dei Blur, tramite la sola traduzione dei rispettivi titoli. La conclusione proposta è
‘l’adesione’ a questo nuovo lavoro definito come: “ […] l’unica soluzione […]”. Non si può
trascurare il carattere metaforico del ragionamento; tuttavia rimane piuttosto evidente l’assenza di
un legame logico fra le premesse e la conclusione. In altri termini la conclusione non deriva dalle
premesse e di conseguenza quest’ultime non dimostrano la conclusione. In questi casi si parla di
fallacia di rilevanza detta ‘conclusione irrilevante’ (Copi & Cohen, 1999).
Successivamente i Blur vengono definiti: “[…]‘comunicatori sociali’ […]”. Si allarga il giudizio
che, secondo il giornalista, non nasce unicamente dai loro meriti musicali. Per giustificare tale tesi,
il giornalista si avvale di un triplice ricorso alla fallacia di rilevanza detta ‘appello ad autorità
impropria’. Infatti prima si dice che i Blur sono stati i protagonisti di articoli apparsi sulle pagine
culturali del Guardian, in seguito che un parlamentare ha partecipato ad una canzone, ed infine che
hanno vinto cinque Brit Awards. Esiste sempre il problema di stabilire se – in termini teorici –
questo ricorso sia davvero fallace, poiché non è del tutto irragionevole riferirsi (anche
indirettamente) ad una autorità se quest’ultima è considerata competente. Ciò nonostante un
ragionamento dovrebbe possedere un carattere più stringente. Rifarsi all’autorità di un premio o
all’interesse dimostrato da un rinomato giornale (il riferimento al parlamentare si addice meglio al
concetto di autorità impropria) rimane una scorciatoia logica ad alto contenuto persuasivo, che non
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Parte seconda
analizza le proprietà del lavoro artistico. Più avanti si sceglie di associare i temi delle canzoni ad
un’opera letteraria. Infatti si legge che ‘Terroristi Londinesi’ di Martin Amis (uno dei più grandi
scrittori contemporanei in lingua inglese) ha influenzato il lavoro dei Blur. In questo caso si
avvicinano due elementi differenti (la musica e la letteratura) in modo da valorizzarne uno o
entrambi (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). A questo punto compaiono le prime
considerazioni prettamente musicali. Il lavoro viene descritto come più ricco e complesso, rispetto
al precedente, e inoltre più omogeneo. Tale giudizio richiama la volontà di premiare la
compattezza di un lavoro se, al suo interno, si ritrovano elementi complessi e fortemente
differenziati fra loro (Dahlhaus, 1987). Il processo che porta a tale giudizio non è però supportato
da un discorso di tipo tecnico-teorico.
Di seguito con la frase: “Con ciò hanno ormai superato molti dei loro eccellenti maestri, grandi
band da singolo, ma incapaci di raggiungere il top nella compattezza di un album”, si cerca di
portare degli elementi a favore della propria tesi, screditando la tesi opposta. In questo caso
bisogna considerare gli argomenti a favore dei Blur e quelli a favore dei loro maestri come
antagonisti. Non vi sono infatti due posizioni antiteche, ma una sola, resa contrastante dalla
costruzione argomentativa. Infatti i Blur hanno superato molti dei loro ‘eccellenti maestri’ sia per
merito loro, sia per incapacità dei loro predecessori. In questo caso si utilizza il tredicesimo
stratagemma di Schopenhauer. L’articolo prosegue con la descrizione di alcune delle canzoni
presenti nel disco. Come al solito per far capire al lettore le caratteristiche delle canzoni non si
sceglie di optare per un’analisi tecnico-teorica, bensì si associano le canzoni a dei loro possibili
modelli ispiratori. Vi sono sei associazioni: dagli XTC ai Kinks fino ai Rancid. Con queste
associazioni – basate su giudizi poco motivati – si corre il rischio di far aumentare, in maniera non
del tutto trasparente, le aspettative nei confronti del disco. Il giudizio finale è espresso in maniera
molto particolare. Non si ritiene necessario parlare – troppo – di tutte le canzoni come ad
affermare la superiorità di ciò che di emotivo esprime la musica. I criteri di valutazione compaiono
a fine articolo. Per il critico i punti forti sono l’eclettismo e l’esagerazione. Il primo rientra nella
tradizione degli studi di critica musicale (Dahlhaus, 1987). Il secondo sembra più di carattere
‘politico’ poiché – secondo il giornalista – tramite l’esagerazione si esclude tutto quel mondo
musicale influenzato da criteri commerciali e da MTV.
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
Articolo XII
Artista: The Charlatans
Titolo del disco: Up At The Lake
Voto: ●●●○○
Unici superstiti del pirotecnico Circo Manchester, i Charlatans potrebbero
legittimamente assurgere a paradigma dell’irriducibilità. Quattordici anni dopo il loro
ingresso nel mondo del pop, lo testimonia questo ‘Up At The Lake’ (ottavo album in
studio), i ragazzi non solo sono ancora in giro ma dimostrano di avere vitalità
sufficiente a eludere, almeno per ora, l’ipotesi del pensionamento. Abbandonate le
tentazioni rock’n’soul che avevano segnato il suono di ‘Wonderland’ (2001) e
repressa, di conseguenza, la debordante tendenza di Tim Burgess a cantare in falsetto
(vedi anche il suo capriccioso album solista dello scorso anno), il quintetto
mancuniano torna a misurarsi con gli schemi di un rock chitarristico a tinte Sixties.
L’accento Dylan/Stones che aveva contraddistinto la produzione Charlatans dei tardi
Novanta, è qui meno prepotente. A palesarsi è una gamma più ampia di influenze (dai
Byrds agli Small Faces passando per Booker T e Beach Boys), a cui, rinomati stilisti
del suono come Chemical Bros e Ken ‘Coldplay’ Nelson, hanno applicato il loro filtro
modernizzante. Sul fronte rock blues a emergere è ‘All I Want You In Disbelief’, su
quello psichedelico ‘Apples And Orange’, su quello del pop-rock epico ‘Blue For You’
(stesso tiro nervoso e ondeggiante dei Coldplay di ‘Shiver’) e, infine, sul versante
ballads, ‘Cry Yourself To Sleep’ e ‘Loving You Is Easy’. Ma sono ‘Bona Fide
Treasure’ (gli Small Faces come li rileggerebbero i Supergrass) e la conclusiva ‘Dead
Love’ (una limpida ballata acustica nobilitata da viola e cello della Liverpool
Philharmonic) i momenti più luminosi del disco che, piccola curiosità, è stato
compilato (la sequenza se non addirittura la selezione dei brani) da Johnny Marr. È
insomma un felice ritorno a casa celebrato sotto i cieli della Cornovaglia, con i
ciarlatani ad accollarsi finanche l’onere della produzione.
(di Leo Mansueto, Rockerilla, Anno XXVI, n.287-288).
Analisi
L’esordio dell’articolo è una fallacia di rilevanza detta ‘appello all’emozione’ (Copi & Cohen,
1999), nella sua accezione di luogo comune che punta a rendere unico l’oggetto di cui si parla
(Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). Si continua con una serie di considerazioni relative alla
storia artistica del gruppo con un riguardo all’evoluzione della loro musica in termini di genere
musicale di riferimento (funzione storica). Il cantante abbandona ‘il falsetto’ e le influenze
Dylan/Stones non sono così evidenti come in passato. Il critico si concentra sul suono del nuovo
disco associandolo ad artisti quali Small Faces, Booker T e Beach Boys. Oltre all’uso di queste
strategie associative vi è anche un ricorso ai nomi di prestigiosi collaboratori (Chemical Bros e
Ken ‘Coldplay’ Nelson e più in avanti anche la Liverpool Philarmonic) i quali avrebbero, nei primi
due casi modernizzato, nel terzo nobilitato, il tutto. Nei termini dell’analisi proposta sia i
riferimenti a gruppi del passato, sia i richiami a delle collaborazioni rispondono ad una strategia
associativa di forte impatto persuasivo (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966), senza rientrare nel
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
novero delle fallacie. L’analisi delle canzoni viene effettuata tramite l’esplicitazione delle
caratteristiche di genere intervallata dal richiamo alla Liverpool Philarmonic e conclusa con un
nuovo richiamo ad una collaborazione (Johnny Marr). Le giustificazioni presenti nell’articolo e
poste a sostegno del giudizio: “[…] è insomma un felice ritorno a casa […]” sono prettamente di
carattere storico. L’analisi delle canzoni da una prospettiva teorica non viene affrontata.
Articolo XIII
Artista: Stefano Bollani
Titolo del disco: Concertone
Voto: ●●●●○
Stefano Bollani è l’ultimo arrivato, in ordine cronologico, tra i jazzmen italiani che
stanno riscuotendo grandi successi all’estero: dopo Rava, Fresu, Gaslini, Coscia e
Trovasi, tocca ora al geniale pianista toscano ricevere i complimenti soprattutto dalla
critica francese e in genere dal pubblico nordeuropeo e canadese. Le quotazioni
d’Oltralpe, per il giovane talento, sono così forti che l’etichetta Label Blu di Amiens,
già da un paio d’anni, lo ha messo sotto contratto esclusivo: dopo l’album in duo con
Rava o quello per solo piano, ecco Bollani cimentarsi con un’impresa che pochi
jazzmen nel nostro Paese hanno saputo o voluto affrontare: la performance assieme
ad una formazione ritmosinfonica, più simile, per organico e sonorità, alle formazioni
classico-contemporanee che alle tradizionali big band. Ne è nato dunque un
‘Concertone’, come afferma il titolo del disco: da un lato un vero e proprio
‘Concertone in quattro movimenti’ (‘Il vecchio combattente’, ‘Eden andata e ritorno’,
‘Scherzo’, ‘Distanti’), dall’altro sei lunghi brani con un noto standard conclusivo
(‘My Funny Valentine’), due original bolloniani (‘Elena e il suo violino’ e ‘Prima o
poi io e te faremo l’amore’) e una composizione di Paolo Silvestri, che è un po’ alter
ego del leader, arrangiando ogni pezzo e dirigendo l’Orchestra della Toscana
(trentanove elementi) rinforzata da sei jazzisti (l’ex Area Ares Tavolazzi al
contrabbasso, il più famoso). Per quanto riguarda la musica anche alle prese con la
difficoltà di un ensemble di tali proporzioni, Bollani rimane coerente e fedele a se
stesso, proponendo un sound ironico e autoironico, dove il jazz si mescola ad un
lounge raffinato, a sua volta debitore della lezione swing e mainstream, ma anche in
grado di sviluppare percorsi assai più modernisti. Bollani giustamente ha evitato
l’approccio un po’ noioso della third stream music, preferendo avvicinarsi a quel
sound frizzante da filodiffusione o da Studio Uno che ha fatto la storia della musica
leggere italiana negli anni Sessanta e che pochi oggi sanno imitare, nessuno (o quasi)
rifare con il gusto scanzonato (e canzonatorio) di Stefano.
(di Guido Michelone, Buscadero, Anno XXIV, n. 261).
Analisi
La parte iniziale della recensione si regge, da un punto di vista argomentativo, su un doppio
ricorso alle fallacie di rilevanza. Infatti, si scrive che Bollani ha avuto successo e si giustifica tale
successo prima con i riconoscimenti ricevuti dalla critica francese (‘appello ad autorità impropria’)
e successivamente con il successo di pubblico riscontrato in Canada e Nord Europa (luogo comune
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
detto ‘della quantità’). Come per i casi analizzati in precedenza non è possibile – e non è un
obiettivo di questa ricerca – stabilire se un’autorità viene riconosciuta competente o meno. È certo
però che un tale argomento non si distingue per solidità.
L’articolo prosegue con alcuni accenni alla storia artistica di Bollani. In particolare si evoca la
collaborazione avuta con Enrico Rava. Scrivere che un artista ha collaborato con altri artisti
risponde in prima istanza al compito informativo di una recensione. Non va però dimenticato che
l’accostamento di due ‘elementi’ diversi facilita la loro valorizzazione (Perelman & OlbrechtsTyteca, 1966).
Successivamente l’attenzione viene catturata dalla fallacia di rilevanza detta ‘appello
all’emozione’ poiché con la frase: “[…] ecco Bollani cimentarsi con un’impresa che pochi
jazzmen nel nostro paese hanno saputo o voluto affrontare […]” si compie un tentativo di
evidenziare l’unicità di questo artista (vedi luogo comune ‘della qualità). Di nuovo si incontrano
altre informazioni riguardanti le collaborazioni presenti nel disco. Nei termini di questa analisi le
collaborazioni mantengono un carattere persuasivo poiché ricorrono a strategie associative senza
approfondire l’analisi critica nei suoi pilastri interpretativi (cfr. Menna, 1981). Si evidenziano le
collaborazioni intercorse con Silvestri, Tavolazzi e anche con l’Orchestra della Toscana.
L’analisi musicale si concentra sugli atteggiamenti – definiti ironici e autoironici –, dimostrati
dall’artista, nei riguardi del proprio lavoro e sui rapporti che la sua musica intrattiene con gli altri
generi musicali e con i lavori precedenti (funzione storica). La conclusione dell’articolo è
caratterizzata da un doppio ‘appello all’emozione’ (Copi & Cohen, 1999). Nel primo caso si tende
a rendere unico l’oggetto della propria analisi utilizzando il luogo comune ‘della qualità’
(Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). Nel secondo caso si mira all’emotività del lettore poiché
viene adoperato solo il nome proprio (Stefano) veicolando propositi di affetto, intimità e
confidenza.
Articolo XIV
Artista: Patti Smith
Titolo del disco: Tramplin
Voto: 4/10
Anziché concentrarsi sulle sue dorate doti da songwriter, sulla sua grande forza
femmina da intagliatrice di melodie e generatrice madre di gorghi emozionali, la
Smith continua a giocare con l’immagine tronfia e stereotipata di un rock che non
esiste più. Si affossa coi birignao e quei proclami stanchi. C’è chi può riesumare il suo
passato perché ha il portamento per permetterselo. Lou Reed. Bob Dylan. Lei ha perso
il passo da un pezzo. A fregarla le sue stesse, pedanti, carni. Dovrebbe smetterla di
dedicarsi a quell’immaginario passatista e volgare. Potrebbe generare emozioni
lavorando su se stessa e poi sul modo migliore di poter essere nel ventunesimo secolo
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
(l’emotività nuda e cruda, senza fronzoli, poetessa, l’iperrealismo pop, ricordi
‘Wave’?), e invece si ostina a voler essere la regina madre dell’ovvio. Quasi tutto qui
ha un sapore pre-‘Horses’. Al massimo c’è spazio per delle sbiadite fotocopie. Come
se per Patti Smith il mondo si fosse fermato nel 1974. Come se Patti Smith non
esistesse. Invettive dinosaure con violini (‘Jubilee’), il pericolo che da un momento
all’altro appaia Micheal Stipe (‘Mother Rose’), mantra karaokistici (‘Gandhi’ e
‘Radio Bagdad’, dieci minuti ciascuna, della serie: basta la parola), spiritual
stucchevoli quasi pronti per le Norah Jones di turno (la title-track con, mamma mia, la
figlia Jesse al piano). Auguri.
(di Christian Zingales, Blow Up, Anno VIII, n.72).
Analisi
La matrice che guida il giudizio presente nell’articolo è quasi sempre riferita all’immagine odierna
della Smith e non alla qualità della musica. Prima si legge che la Smith: “ […] continua a giocare
con l’immagine tronfia [rappresentata dalla stessa Smith] e stereotipata di un rock che non esiste
più”. In seguito che non ha il portamento per rivisitare il suo passato. E ancora che: “A fregarla
[sarebbero] le sue stesse, pedanti, carni”. Questi sono tre ricorsi alla fallacia di rilevanza detta
‘argomento contro la persona’, tale per cui si critica l’antagonista e non la bontà di quanto sostiene
(Copi & Cohen, 1999). In questo caso, non essendoci una disputa fra due contendenti, si giustifica
la propria tesi (il disco è di qualità artistica scadente) tramite una critica incentrata sulla persona e
non sulla musica presente nel disco. Seguendo sempre la classificazione di Copi & Cohen (1999)
si può aggiungere che soprattutto l’ultima fallacia si caratterizza per il carattere diretto e
diffamatorio sconfinando quindi nella cosiddetta ‘prevaricazione ad hominem’.
Da un punto di vista filosofico il criterio estetico di originalità può avvalersi di due accezioni.
La prima ove vi siano elementi che possano far classificare l’opera come: “nuova in modo
sostanziale” (Dahlhaus, 1987: 29). La seconda nel momento in cui l’opera manifesta legami di
valore con il passato, con ciò che è già esistito (ivi, 1987). In questo caso la critica negativa viene
giustificata dal fatto che nel lavoro di Patti Smith non vi sono elementi innovativi e contemporanei
rispetto al repertorio musicale dell’artista. Appare evidente come per il giornalista il criterio di
originalità sia tale solo nella sua accezione di innovazione. Di conseguenza non viene dato alcun
rilievo alla possibilità che vi possa essere del valore artistico anche nel caso in cui un’opera
dimostri legami con il passato e quindi con l’idea di origine. Le tre canzoni elencate vengono
giudicate come antiche (invettive dinosaure), banali (mantra karaoristici) e stucchevoli (spiritual
quasi pronti per le Norah Jones di turno). Questi giudizi sono caratterizzati da un carattere
fortemente emotivo (Eggebrecht, 1988). La frase finale critica la scelta della Smith di collaborare
con la figlia – facendo passare implicite accuse di nepotismo. Il critico cerca di portare un ulteriore
elemento a favore della propria tesi che però evita di parlare di musica e si concentra sulle
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Parte seconda
caratteristiche (di parentela) che intercorrono fra due persone (fallacia di rilevanza detta
‘argomento contro la persona’).
Articolo XV
Artista: Cat Power
Titolo del disco: You are free
Voto: ●●●●●
I casi della vita: raggiungi un equilibrio, ti senti una persona culturalmente e
moralmente rispettabile, e poi d’un tratto ti tocca di dar ragione alle immortali parole
dei Ricchi e Poveri: “Basta una sola canzone per far confusione fuori e dentro di me”.
Nel caso di Cat Power di canzoni ne sono bastate tre: ‘I don’t blame you’, ‘Free’ e
‘Good woman’, un un-due-tre che apre questo ‘You are free’ e che ti fa chiedere come
hai fatto a campare sinora senza rifugiarti nella voce magnetica e nelle parole di
Chan Marshall, in arte Cat Power, una che evidentemente piace alla gente che piace,
se è vero che anche Eddie Wedder e Dave Grohl si sono offerti di collaborare con lei.
Un disco semplice e straordinario, che ti sorprende alla fine con un sorriso sulle
labbra.
(di Alexio Biacchi, Urban, Anno II, n.18).
Analisi
Lo spunto iniziale è prettamente narrativo ed introduce in maniera brillante il concetto cardine
dell’articolo: questo è un disco che cambia la vita. In questo giudizio risalta la caratteristica
primaria della funzione critica; si giudica l’oggetto con sguardo prospettico e lo si carica di valori
artistici ed extra-artistici. Il paragone con la canzone dei Ricchi e Poveri non ha alcuna velleità
storica (non sono opere che possono essere inserite in una serie di oggetti appartenenti ad uno
stesso genere) è dunque solo uno spunto per connotare il valore delle prime tre canzoni del disco di
Cat Power. Di nuovo si sottolinea come sia stata inutile la vita finora, vissuta quasi per caso,
proprio perché il giornalista non aveva avuto il piacere di ascoltare queste canzoni. Sono tutte
strategie narrative di sicuro impatto persuasivo che evitano però di entrare nel merito dell’opera in
sé.
In questo articolo il legame associativo si manifesta tramite l’esplicitazione delle collaborazioni
avute con altri artisti. Collaborazioni che però sono viepiù persuasive, poiché queste sarebbero
state caldeggiate dagli artisti ‘ospiti’ e non da Cat Power. A questo punto si capisce come il piano
associativo non sia usuale poiché si pone l’artista (Cat Power) in una posizione privilegiata rispetto
ai suoi collaboratori. Sono infatti quest’ultimi a brillare grazie alla luce della cantante e non il
contrario (come si lascia intendere più comunemente). La chiusura dell’articolo riporta in auge
l’idea implicita presente in tutto il pezzo, la quale inviterebbe all’ascolto del disco tutti coloro che
intendano migliorare la propria vita grazie ad un sorriso inaspettato.
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Parte seconda
Articolo XVI
Artista: Carlo Fava
Titolo del disco: L’uomo invisibile
Voto: ●●●◐○
Album interessante questo del quarantenne milanese Carlo Fava: da alcuni anni nel
vorticoso mondo musicale Carlo ha al suo attivo già due dischi – ‘Ritmo vivente
muscolare della vita’ inciso dieci anni fa e ‘Personaggi criminali’ pubblicato nel 2002
– diverse collaborazioni con Jannacci, Ornella Vanoni e ha composto per Mina il
brano ‘Dottore’. Autore di tutti i brani presenti nel nuovo album, Carlo può contare
sulla complicità dell’amico Gianluca Martinelli nella stesura dei testi e affidarsi alle
mani esperte di Beppe Quirici che cura la produzione artistica di questo lavoro. La
voce di Fava non ha particolari peculiarità, quello che affascina nelle sue canzoni è
una ricerca artistica personale, giocata sull’ironia e sulla maturità: anche con le
canzonette si può raccontare qualcosa di serio. E se le melodie sono tipiche della
tradizione italiana, con riferimenti a Dalla, Concato o Gaber, piacciono i testi che,
finalmente non raccontano solo storie d’amore in lacrime terminate, ma hanno un
occhio particolare per le notizie in cronaca e per i fatti che accadono nel nostro
mondo: “La Fiat di Arese chiusura dalla produzione/un occhio alla famiglia un altro
alla rivoluzione/Lo stato di crisi della categorie/E tu di spalle te ne andavi via” (da
‘Metroregione’). E poi l’intelligente metafora della giustizia italiana e forse del modo
italiano di fare politica rappresentato in ‘La palude’ e il grido di allarme lanciato con
‘L’Italia non legge’: “Rai uno, rai due, rai tre/Hemingway non so più neanche chi è
Fede, Mentana, Giordano/Ma chissenefrega di Fernanda Pivano”. Oppure il
sarcasmo nel ritratto del quartiere, il Giambellino tanto per non allontanarci troppo
da Gaber, dove anche la malavita ha cambiato modi e costumi: “La malavita non è
più/l’olandese che gridava a testa in giù. Non è il bar del giambellino/O il randagio
del Naviglio che eri tu”. Divertente (e intelligente) anche ‘Cofani e Portiere’ in finto
dialetto napoletano. “Paolo Conte faciva l’avvocato Genio Montale faciva o
manovale/A tempo perso scriveva le poesie/Genio Montale non le scriveva
male…Pablo Ricasso faceva le cornici/E se insistevi ti dava le vernici…”.
Un album interessante tra cui spiccano per originalità ‘Metroregione’, ‘L’uomo
flessibile’ e la poetica ‘L’ultima volta che ho visto i tuoi occhiali’ dal bellissimo
titolo. L’unico brano che lascia perplessi è ‘Nuvola Nera’ dai toni eccessivamente
sdolcinati che mal si lega con le altre canzoni ricche di poesia e ironia. In sala di
registrazione oltre Carlo Fava al pianoforte, troviamo Beppe Quirici al basso e
Vittorio Marinoni alla batteria.
(di Guido Giazzi, Buscadero, Anno XXIV, n.261).
Analisi
Il giudizio che il critico pone all’inizio della recensione: “Album interessante […]” viene
giustificato con un evidente ricorso alla strategia associativa. Lo scopo principale è quello di
fornire un panorama essenziale delle esperienze avute da Fava. Per far questo si sceglie di elencare
le collaborazioni che il musicista ha avuto con altri prestigiosi musicisti: da Jannacci alla Vanoni a
Mina fino a Beppe Quirici. Non è certo mia intenzione criticare il giornalista per aver fatto questa
scelta, che tra l’altro appare piuttosto inevitabile, la mia intenzione è solo quella di portare alla
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Matteo Capobianco
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Parte seconda
luce il carattere persuasivo di un’argomentazione con tali caratteristiche. La funzione storica
(Menna, 1981) si avvale anche di alcuni riferimenti eccellenti che concorrono, da un lato, a
chiarire l’attitudine artistica e le caratteristiche musicali di Fava, ma dall’altro, a creare un elevato
senso di aspettativa nei confronti del suo prodotto. Si citano infatti similitudini con la musica di
Lucio Dalla, Fabio Concato e Giorgio Gaber. Questi accostamenti rientrano nelle strategie di tipo
associativo in cui si accostano ‘elementi’ diversi al fine di valorizzarli (Perelman & OlbrechtsTyteca, 1966).
Dal un punto di vista del metodo giornalistico la novità che più sorprende riguarda la volontà di
giustificare il proprio giudizio critico attraverso la citazione del testo della canzone in esame.
Questo permette al lettore di aderire o meno al giudizio proposto con maggiore consapevolezza. I
temi trattati nelle canzoni vengono esposti e giudicati in maniera positiva poiché ricchi di ironia, di
poesia e di disincantato realismo. Temi ritenuti distanti da un certo tipo di tradizione musicale e
valutati, anche per questo, come originali (cfr. concetto di origine) senza però integrare il giudizio
con un’analisi di tipo teorico sulla struttura musicale. Secondo Giudo Giazzi l’unica pecca del
disco è quella di contenere una canzone che invece di mantenersi sulla linea delle canzoni presenti
nel lavoro, cede alla tradizione – che egli non ritiene di qualità. Il giudizio sulla tradizione
musicale è convincente ma poco circostanziato da un punto di vista teorico. Inoltre non è corretto
criticare un lavoro perché possiede elementi differenti fra loro. Per contro è giusto ritenere che la
carenza di collegamenti fra le parti musicali – che si delineano per una marcata eterogeneità – sia
un limite del lavoro (Dahlhaus, 1987).
Articolo XVII
Arista: Miossec
Titolo del disco: 1964
Voto: 7/10
Cristophe Miossec è già una celebrità in Francia, dove tutti i suoi quattro album – a
partire dall’esordio ‘Boire’ del 1995 – sono arrivati regolarmente al disco d’oro e i
suoi concerti registrano il tutto esaurito. Nativo di Brest (Bretagna), già studente di
storia all’università e giornalista, dopo dieci anni di attività Miossec è ormai
considerato uno degli esponenti di punta della cosiddetta ‘nouvelle chanson’, nonché
richiestissimo autore per mostri sacri della scena francese quali Juliette Gréco, Jane
Birkin e Johnny Hallyday. ‘1964’ – l’album in cui tenta di sbarcare anche fuori dai
confini nazionali – è esattamente l’album che vi potreste aspettare da un tipo così:
voce arrochita e profonda, canzoni che mettono in musica le inquietudini della vita di
tutti i giorni, con quel filo di compiacimento ‘maudit’ che è scritto nella tradizione
francese di artisti come Leo Ferré, appena aggiornata alla luce di influenze straniere
quali Nick Cave. Registrato insieme ai soliti – pochissimi – collaboratori di sempre (a
cominciare dall’inesauribile chitarrista Guillaume Jean), con un arrangiamento che
sceglie quasi sempre saggiamente la regola della sottrazione più che dell’addizione,
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‘1964’ è un album di canzoni ruvide ma dal cuore tenero, proprio come la faccia
dell’autore che campeggia in copertina e che pare uscita dritta da un film con Jean
Gabin; convincono di più quando imboccano la strada della ballata (‘Je m’en vais’,
‘Rose’, ‘Brest’) che quello del rock vagamente forzato e scontatamente barricadiero
(‘Les gueles cassées). Alla lunga l’interpretazione è un po’ monocorde, e sarebbe
interessante sentire qualcuna di queste canzoni interpretate da Hallyday o dalla
Birkin. Ma se è il vostro genere, un cantautore senz’altro da scoprire.
(di Duca Lamberti, Blow Up, Anno VIII, n.72).
Analisi
La funzione storica (Menna, 1981) è presente nella parte iniziale della recensione di Lamberti.
Si segnalano i lavori precedenti di Miossec e li si giudica in maniera positiva grazie a più ricorsi
alle fallacie di rilevanza. Prima si sostiene che ogni lavoro dell’artista è arrivato al disco d’oro e
poi che i suoi concerti sono sempre colmi di spettatori. Entrambe le fallacie sono ‘appelli
all’emozione’ (Copi & Cohen, 1999) e rientrano nel luogo comune detto ‘della quantità’(Perelman
& Olbrechts-Tyteca, 1966). Classifico il disco d’oro come un luogo comune della quantità, poiché
pur essendo un premio molto celebre – e quindi richiamerebbe più la fallacia di rilevanza detta
‘appello ad autorità impropria’ – è caratterizzato da un forte richiamo commerciale. Il disco d’oro
viene infatti consegnato solo agli artisti che raggiungono un numero molto elevato di copie
vendute. Per portare ulteriori elementi a suffragio della propria tesi, il giornalista si preoccupa di
informare i lettori sul fatto che le collaborazioni di Miossec vengono ‘pretese’ da altri artisti
definiti: “[…] mostri sacri […]” come: Juliette Gréco, Jane Birkin e Johnny Hallyday. Qui la
strategia associativa (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966) si delinea per un carattere persuasivo
molto spiccato (cfr. articolo XV), poiché sarebbero gli artisti famosi a richiedere la collaborazione
con Miossec e non viceversa. In tal modo Miossec assume una posizione predominante rispetto
agli altri artisti.
Per il critico le qualità artistiche di questo lavoro risiedono nella voce del cantante (anche se
l’interpretazione viene prima definita forzata, per le canzoni rock, e poi un po’ monocorde), nella
scrittura dei testi (con associazioni a Leo Ferré e a Nick Cave) e da un arrangiamento essenziale.
Sono tutti punti che vengono toccati in molti articoli di critica musicale senza però approfondire i
vari giudizi con un’analisi teorica (cfr. funzione teorica). Il giudizio complessivo del lavoro viene
espresso in modo molto evocativo con la frase: “‘1964’ è un album di canzoni ruvide ma dal cuore
tenero, proprio come la faccia dell’autore che campeggia in copertina e che pare uscita dritta da un
film con Jean Gabin […]”. Un giudizio espresso in questi termini risalta per la sua dominante
emotiva (Eggebrecht, 1988).
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Articolo XVIII
Artista: Tindersticks
Titolo del disco: Can Our Love…
Voto: ●●●○○
Sono un fan di questo gruppo. Per questo, preavverto che per una volta mi farò
accecare dalla passione per Suart e soci, una passione che mi ha fatto amare quasi
tutto di loro: il tono crepuscolare e sottilmente poetico – che alcuni trovano magari
lagnoso –, quella patina di glam appena abbozzata che ha fatto accostare il cantante
della band a Bryan Ferry e, soprattutto, l’arte di scrivere canzoni come iddio
comanda. Brani che non si preoccupano della lunghezza o della coerenza finale delle
strutture per dedicarsi alla pura trasmissione di emozioni; brani dotati di un lirismo
d’eccezione, a metà strada fra la letteratura ed il rock decadente di tanto tempo fa;
brani che in ‘Can Our Love’ divengono sottilmente pop senza perdere il peso di altri
dischi a marchio Tinderticks. Mi fermo a tre stelle per fingere obbiettività, ma il cuore
andrebbe decisamente oltre.
(di John Vignola, Il Mucchio Selvaggio, Anno XXIV, n.458).
Analisi
La recensione di Vignola è interessante perché pone in modo evidente il primato del giudizio
emotivo su quello cognitivo (Eggebrecht, 1988). Si dichiara fin dall’inizio un fervente ammiratore
della band e si produce in una valutazione encomiastica del disco. La sua ammirazione è talmente
profonda che non si cura di trattare le incoerenze musicali – che altri critici ritengono importanti –
come tali, concentrandosi piuttosto sulla capacità della musica dei Tindersticks di trasmettergli
emozioni profonde.
Per quello che concerne la strategia argomentativa, va ricordata l’associazione fra la voce del
cantante e quella di Bryan Ferry. Questa strategia argomentativa, come più volte ricordato, punta a
connotare in modo più preciso le caratteristiche della band, nonché ad aumentare l’adesione da
parte del lettore nei confronti del giudizio esposto nell’articolo.
La descrizione delle canzoni in rapporto al corrispettivo genere musicale è presente, anche se in
maniera minore rispetto ad altri articoli. I riferimenti sono al rock decadente del recente passato e
alla musica pop.
Il giudizio più netto riguarda la capacità del gruppo di saper scrivere canzoni: “ […] come iddio
comanda […]”. Una tale presa di posizione necessiterebbe di una giustificazione non solo emotiva
ma anche cognitiva (cfr. Eggebrecht, 1988).
Al momento di valutare il lavoro Vignola si mantiene su una finta linea di obiettività, negando le
‘ragioni’ del cuore. La valutazione sembra pertanto ancora un territorio in cui il giudizio cognitivo
ha la precedenza su quello emotivo. Per fare questo è indispensabile abbandonare la dimensione di
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ammiratore. Vignola sa che è un tentativo perso in partenza e abbassa la valutazione solo per un
malcelato dovere di categoria.
Articolo XIX
Artista: Stereolab
Titolo del disco: ABC Music
Metro di valutazione: basso-medio-alto
Voto: alto
Doppio cd per un totale di due ore e mezza di musica, ‘ABC Music’ raccoglie le BBC
Sessions registrate negli studi di Radio 1 nel corso di dieci anni dal gruppo di Tim
Gane e Leatitia Sadier. Gruppo che fu anche di Mary Hansen che – per un balordo
incidente simile a quello che ha portato via Nico – è scomparsa alla fine del 2002.
Inevitabile quindi la commozione nel riascoltare questa trentina di tracce, fedele
testimonianza dello Stereolab pensiero: alternanza linguistica inglese/francese, ritmi
iterati, rigide strutture pop, strumentazione analogica. Ci sono ‘French Disko’ e ‘Wow
and Flutter’, oltre la solita versione oceanica di ‘Metronominc Underground’ (oltre
dieci minuti). C’è ‘John Cage Bubblegum’ e ‘Lo Boob Oscillator’ (sì, è proprio questa
la canzone ad affiorare dalla colonna sonora di ‘Alta fedeltà’). Per i neofiti non
potrebbe esserci introduzione migliore al gruppo che tempo fa, tanto tempo fa,
dichiarava di non essere ‘orientato verso gli adulti’. Ora, un decennio e un lutto dopo,
chissà che succederà.
(di Rossano Lo Mele, Rumore, Anno XXII, n.134).
Analisi
In questo articolo non vengono affrontate le problematiche di carattere storico. Non si parla della
storia artistica del gruppo, della sua evoluzione, dei suoi riferimenti di genere e dei suoi scarti
innovativi rispetto alla norma. Per contro la storia della formazione viene accennata per ricordare
gli eventi luttuosi che l’hanno attraversata: “Gruppo che fu anche di Mary Hansen che – per un
balordo incidente simile a quello che ha portato via Nico – è scomparsa alla fine del 2002.
Inevitabile la commozione nel riascoltare questa trentina di tracce […]”. Questa scelta risponde
alla fallacia di rilevanza detta ‘appello all’emozione’ che utilizza argomenti a forte richiamo
emotivo per suscitare consenso nel destinatario (Copi & Cohen, 1999). La funzione teorica si
manifesta con vari riferimenti: “[…] alternanza linguistica inglese/francese, ritmi iterati, rigide
strutture pop, strumentazione analogica”. Non è facile tradurre le parole del giornalista in possibili
atmosfere musicali. Probabilmente per chi conosce già la musica degli Stereolab è più facile
comprendere quanto scritto dal giornalista, rispetto a chi non ha mai sentito niente del gruppo
inglese.
L’elenco delle canzoni non viene accostato ad altri generi o ad altri artisti del passato. L’unica
associazione riguarda Lo Boob Oscillator che – ricorda puntualmente il giornalista – è stata scelta
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Parte seconda
per la composizione della colonna sonora del film ‘Alta fedeltà’. Anche in questo caso
l’accostamento di due ‘elementi’ diversi tende a valorizzarne uno (Perelman & Olbrechts-Tyteca,
1966).
Il giudizio non viene espresso chiaramente, è presente nell’articolo ma è piuttosto camuffato. Solo
nell’ultima parte dell’articolo si scrive che per i neofiti: “[…] non potrebbe esserci introduzione
migliore […]”. Sembra un giudizio utile solo a chi non conosce la musica degli Stereolab. In realtà
questo lavoro ha lo scopo – come molte raccolte antologiche – di rappresentare nel modo migliore
l’intera opera del gruppo. Se questo obiettivo è raggiunto per i neofiti non si vede come non possa
essere raggiunto anche per chi conosce già la musica degli Stereolab.
Articolo XX
Artista: Tiromancino
Titolo del disco: In continuo movimento
Voto: ●●●●○
Sono andati via tutti e i Tiromancino sono rimasti Federico Zampaglione, i due omini
del cartello stradale e le atmosfere di ‘La descrizione di un attimo’. E le canzoni, of
course, che spesso nei Tiromancino sono state sue. Al contrario di quanto si sarebbe
potuto pensare ce n’è a sufficienza per fare un disco bello, suggestivo, forse ancora
più omogeneo di quanto non fosse il suo predecessore. Federico non cambia formula,
anzi, la ripropone, forte del consenso regalato in questi due anni al gruppo dal
pubblico (e dopo quasi 10 anni di carriera e tre case discografiche cambiate era la
prima volta). Le melodie di ‘In continuo movimento’ sono in sintonia con quelle di una
scena romana ormai overground – l’amore per gli 8 Ohm e i suoni del suo ex-pard
Sinigallia restano evidenti, così come quello per certe sonorità elettroniche alla
Subsonica – ma in questo album Federico mette più se stesso sul versante influenze,
scrivendo il suo disco migliore e regalando aperture e arrangiamenti che citano il
Lucio Battisti più riuscito e addirittura sprazzi di psichedelie Pink Floyd. ‘Come
l’aria’, ‘Le onde’ e ‘Sarebbe incredibile’ sono piccoli gioielli, il nuovo singolo ‘Per
me è importante’ è un brano ipnotico da meraviglia, ma il vero capolavoro dell’album
è ‘È necessario’, rock spinto che da due anni era uno dei migliori momenti dei
Tiromancino live. Complimenti.
(di Luca Bernini, Urban, Anno II, n.13).
Analisi
La struttura dell’intero articolo ricalca i dettami della funzione storica, nel senso che inizia
elencando le vicissitudini che negli ultimi anni hanno coinvolto i componenti del gruppo. Tali
avvenimenti giustificano il primo giudizio: il cantante è rimasto solo ma è riuscito “Al contrario di
quanto si sarebbe potuto pensare […]” a sfornare un lavoro “[…] suggestivo […]”. Si dice che il
disco nuovo è: “ […] forse ancora più omogeneo […]” del suo predecessore e costruito con la
medesima formula – cioè non vi è stata una virata di genere – salvo poi giustificare la bontà di tale
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formula attraverso l’appello all’emotività (ad populum). Il luogo comune è esattamente quello che
Perelman (1966) definisce ‘della quantità’, infatti è il consenso del pubblico ad avvalorare la
formula artistica riproposta dai Tiromancino. Si continua ad inserire il lavoro in una prospettiva di
genere, paragonando le melodie del disco con altri lavori ritenuti simili. La premessa storica è
propedeutica ad un nuovo giudizio. L’uso dell’avversativo ‘ma’ presuppone uno scarto artistico fra
tutti gli artistici citati per comunanza di genere e il lavoro in questione, che sarebbe in realtà
diverso e – in leggera contraddizione con quanto detto in precedenza – indipendente rispetto alla
scena romana. Vi è poi un accenno alla composizione musicale, si parla di ‘arrangiamenti’ che
vengono associati ad un altro artista (Lucio Battisti), unendo così la funzione teorica con quella
storica. La funzione teorica è solo accennata, ma questo sembra essere un tratto piuttosto comune
delle recensioni musicali. L’operazione più naturale e forse più logica, per far capire al lettore che
cosa si troverà ad ascoltare, è quella di paragonare le canzoni con quelle del passato e del presente,
tecnica che, almeno per gli articoli che ho analizzato, è molto frequente. Si maschera, in altre
parole, la funzione teorica – che richiede molta preparazione – con la funzione storica, non più
solo in un’ottica di genere ma proprio analizzando e paragonando la struttura melodica dei singoli
brani con quella di altri artisti. Lo conferma il fatto che, nella parte finale dell’articolo il giornalista
elenca canzoni con arrangiamenti che citano Battisti, altre con accenni di psichedelica che
ricordano i Pink Floyd, sfruttando così la tecnica associativa in cui si accostano ‘elementi’ diversi
al fine di valorizzarli (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966).
Altre canzoni sarebbero dei “[…] piccoli gioielli […]” o “[…] ipnotiche da meraviglia […]” fino
al “[…] capolavoro […]” finale, toccando per tre volte il dodicesimo stratagemma di
Schopenhauer.
Dopo molti anni di lettura di articoli di critica musicale mi sento di poter dire che questa
costruzione segue una logica in crescendo (climax), sperimentata e collaudata da molti operatori
del settore, che effettivamente fa correre subito a comprare il disco. Se chi scrive ha per scopo la
persuasione non si può proprio dire che non l’abbia ottenuta.
Articolo XXI
Artista: Big Bad Voodoo Daddy
Titolo del disco: Live
Voto: ●●●◐○
Pare che ultimamente le band del movimento retro swing abbiano deciso di
concentrarsi solo su produzioni live. Infatti, come ha già fatto la Brian Setzer
Orchestra, anche i Big Bad Voodoo Daddy hanno deciso di intraprendere la strada
delle performaces live. Per chi non fosse troppo addentro alle vicende del movimento
legato al revival dello swing vorrei far presente che i BBVD sono sicuramente una
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Parte seconda
delle formazioni col maggior talento tra tutte quelle che si sono affermate negli ultimi
anni. Dimostra il fatto che hanno venduto oltre tre milioni di dischi e che hanno
partecipato con la loro musica ad oltre 60 film e trailers televisivi. I brani di questo
nuovo disco sono in totale sedici e rappresentano il meglio della produzione della
band. Insieme ad alcune cover di classici del jumpin’ jive come la celeberrima ‘Minnie
the moocher’ di Cab Calloway e ‘Jumpin Jack’ di Duke Ellington spiccano una serie
di brani tutti usciti dalla fervida vena compositiva del front man Scotty Morris uno dei
personaggi più competenti della scena swing. Suoi infatti sono i brani del calibro di
‘Go Daddy O’ (brano questo che fece parte della colonna sonora del film ‘Swinger’),
‘Big time operator’, ‘King of swing’, ‘You and me & the bottle makes’ e ‘So long –
farewell goodbye’ scatenati pezzi di incandescente swing. Indubbiamente i BBVD
fanno del divertimento legato alla musica da ballo il perno della loro musica. Sono
capaci di offrire un sound decisamente eccitante e dopo oltre un decennio di attività
hanno ancora voglia di farci divertire con la loro musica tenendo anche conto che
verso fine anno dovrebbe uscire il nuovo lavoro. Un album che vi consiglio se non
avete avuto modo di ascoltare i precedenti lavori.
(di Roberto Arioli, Buscadero, Anno XXIV, n.261).
Analisi
L’inizio dell’articolo concentrato su una breve analisi del fenomeno retro swing (funzione storica)
viene concluso con un giudizio molto positivo: “[…] i BBVD sono sicuramente una delle
formazioni col maggior talento fra tutte quelle che si sono affermate negli ultimi anni”. È
interessante la giustificazione posta a questa tesi. Inizialmente si ricorre ad una fallacia detta
‘appello all’emozione’ (Copi & Cohen, 1999), in particolare con l’utilizzo del luogo comune ‘della
quantità’ (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). Infatti il critico scrive: “Dimostra il fatto che
hanno venduto oltre tre milioni di dischi […]”. La frase prosegue con una associazione: “[…]
hanno partecipato ad oltre 60 film e trailers televisi”. In questo caso non si nomina nessun regista,
che li avrebbe scelti per comporre la colonna sonora, e quindi non si può parlare di ‘appello ad
autorità impropria’, come successo in precedenza. Per contro rimane l’associazione fra due
membri diversi che, avvicinati, si valorizzano (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). Le
associazioni proseguono quando si ricorda che il disco contiene cover di brani di altri artisti quali
Cab Calloway e Duke Ellington (evidenziati dall’uso del grassetto). Più avanti si ricorda ancora la
presenza di un brano nella colonna sonora del film Swinger.
Per quanto riguarda l’analisi critica una novità si pone quando si scrive che le canzoni contenute
nel lavoro sono: “ […] scatenati pezzi di incandescente swing. Indubbiamente i BBVD fanno del
divertimento legato alla musica da ballo il perno della loro musica”. Il giudizio in questo caso è
caratterizzato dal tono pragmatico. In altri termini la musica acquista valore in rapporto alla sua
funzione (musica da ballo) e non alla sua struttura compositiva avulsa dalla funzione (Dahlhaus,
1988).
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Articolo XXII
Artista: Ivan Segreto
Titolo del disco: Porta Vagnu
Voto: ●●●○○
Sulla scia del successo nazionale riscosso dal nuovo jazz d’autore italiano (dal
clamore di qualche anno fa per Sergio Cammariere fino alla recente scoperta di
Amalia Gré e Nicky Nicolai), delle vendite milionarie di Norah Jones e della recente
febbre per i crooners ventenni d’oltreoceano (Michael Bublé e Peter Cinotti),
interessanti, inedite realtà continuano a far sentire la loro voce nel jazz Made in Italy.
È il caso del ventinovenne Ivan Segreto, cantautore e pianista siciliano (di Sciacca;
Porta Vagnu è il nome di uno degli accessi alla città) arrivato qui all’album di
debutto. Figlio del profondo sud, di paesaggi bruciati dal sole e grandi distese
d’acqua, Ivan cresce in una famiglia numerosa in un casale vicino al mare. Uno zio in
particolare, Nino, attira l’attenzione e l’ammirazione del Nostro grazie ad uno stile di
vita eccentrico, da artista di strada vagabondo e anticonformista. È proprio lo zio
Nino a scrivere il testo della canzone cha dà il titolo al disco, un pezzo cantato in
dialetto siciliano con una dizione buffa e quasi incomprensibile che avvicina Segreto
al grammelot stravagante di alcune pagine di Vinicio Capossela. Il fiorire, come
dicevamo, di nuovi talenti jazz, supportati dalla critica e apprezzati da una certa fetta
di pubblico, aiuta non poco ad emergere il cristallino talento musicale di Ivan,
portandolo ad incidere un album raffinato ed elegante, suonato da un trio base
(piano/batteria/contrabbasso) allargato a fiati e quartetto d’archi. Nove ritratti
d’autore che tradiscono la passione per il Brasile, i cantautori italiani (Paolo Conte
soprattutto) e gli amori Pop e Jazz (Miles Davis, Herbie Hancock, Stevie Wonder)
americani. Da tenere d’occhio, potrebbe nascere una nuova stella.
(di Ariel Bertoldo, Rockerilla, Anno, XXVI, n.287-288).
Analisi
La stesura di questo articolo è apertamente dominata da una prolungata struttura associativa. Si
pone già in apertura il lavoro di Ivan Segreto in relazione con il panorama del jazz italiano – ma
non solo – ricco di artisti interessanti e di successo. Anche in questo caso si riescono ad unire
elementi diversi per valorizzarli (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). L’articolo cambia registro
e cerca di far luce sul passato dell’artista in maniera alquanto insolita. Si illustra infatti la vita di
Ivan Segreto in maniera spiccatamente narrativa. Si racconta la sua storia, come se fosse parte di
un romanzo. Di nuovo si paragonano i testi e lo stile interpretativo a Dario Fo (vedi riferimento al
grammelot) e a Vinicio Capossela. Il giudizio finale: “[…] album raffinato ed elegante […]” viene
integrato dall’elenco delle parti strumentali presenti nel lavori senza affrontare argomenti di tipo
teorico.
La parte finale è un nuovo richiamo alla strategia associativa, poiché si accostano al lavoro in
esame musicisti del calibro di Paolo Conte, Miles Davis, Herbie Hancock e Stevie Wonder.
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Articolo XXIII
Artista: Mira Calix
Titolo del disco: Skimskitta
Metro di valutazione: basso-medio-alto
Voto: medio
Chantal Passamonte, in arte Mira Calix è una delle più interessanti artiste di area
elettronica ambientale della scena europea degli ultimi anni. Un lungo passato da DJ
(nel collettivo Open Mind) e producer, la sudafricana naturalizzata inglese Mira Calix
è giunta al suo secondo album su Warp (dove tra l’altro svolge funzioni di ufficio
stampa). Amatissima dai Radiohead che l’hanno voluta come opening act di recente,
ha dato vita in occasione di ‘Skimskitta’ a ventuno brani che raccolgono il freddo
glaciale delle performace da laptop e il mare della tranquillità di droni placidi, una
gentile e sporadica voce femminile, descrittivismi e astrattismi della musica
contemporanea, respiri orchestrali, e in fondo, ma proprio in fondo, canzoni esili ed
esangui che hanno quel fascino che sprigionano le bellezze eccessivamente efebiche o
certe città del nord Europa.
(di Pierluigi Grillo, Rumore, Anno XXII, n.134).
Analisi
In questa brave recensione si osserva una prevalenza di considerazioni ascrivibili alla cosiddetta
funzione storica (Menna, 1981). Ci si rende conto sia del tipo di musica proposta dalla Calix sia
del genere di esperienze che l’hanno portata a questo risultato. Non si fanno però riferimenti – in
termini innovativi o conservativi – ad altri lavori del passato assimilabili per caratteristiche di
genere. Il giudizio finale non si distingue per una sua analisi tecnico-teorica. Il giornalista punta
più che altro a qualificare il lavoro in rapporto alle emozioni che è in grado di suscitare. Il tutto
viene preceduto da una apparente associazione che a ben guardare presenta più le caratteristiche di
una fallacia di rilevanza e in particolare dell’appello ad autorità (impropria o meno è sempre
difficile da stabilire). Infatti Mira Calix non ha collaborato con i Radiohead per la composizione di
un qualsivoglia lavoro artistico, bensì sono stati i Radiohead ha volerla ‘solo’ per aprire i loro
concerti. L’argomentazione implicita è: “Se i Radiohead l’hanno scelta per aprire i loro concerto
deve essere brava per forza”. Come detto più volte non è mia intenzione discutere l’autorevolezza
dell’autorità in questione, piuttosto rendere evidente il fatto che si usi una strategia argomentativa
fortemente persuasiva senza entrare nei termini della questione.
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
Articolo XXIV
Artista: The Soundtrack Of Our Lives
Titolo del disco: Origin Vol.1
Voto: ●●●○○
Già da tempo gli Oasis hanno smesso di incidere sulla scena rock contemporanea. Un
talento, però, va ancora loro riconosciuto, quello di sapersi scegliere i supporter
quando vanno in tour. Non fosse bastato il coro di lodi da parte della stampa sia
britannica che statunitense, a sancire la definitiva consacrazione dei Soundtrack Of
Our Lives ci hanno infatti pensato i concerti di spalla alla band dei fratelli Gallagher.
Trionfali, immaginiamo, ben più di quelli degli headliner. Insomma, i consensi sono
stati raccolti, e la situazione del mercato discografico sembra più che favorevole alla
proposta del sestetto. Che però, rispetto a tante altre band di area garage-revivalista,
ha qualcosa in più. Volendo tracciare un ipotetico quadrilatero rock duro svedese
comprendente anche Hellacopters, Hives e (International) Noise Conspirancy, i
TSOOL ne rappresentano il lato meno spigoloso e più apertamente psichedelico.
Come difatti, anche in questo quarto album della compagine nordica si possono
trovare, miscelate e dosate in modi diversi, tutte o quasi le componenti sonore che
hanno reso irripetibile la stagione musicale della seconda metà dei ’60: saturazioni
telluriche anzitutto, ma anche pop e folk inaciditi, corretti, ‘jingle-jangle’, effettistica
assortita. Colate di organo…E, naturalmente, abbandonanti iniezioni di r’n’r. Niente
di nuovo, anzi, tutto di vecchio, ma reso con un piglio e una personalità che non
possono non colpire. Tant’è che più li si ascolta più piacciono e divertono. E poi,
come non adorare gli Who apocrifi di ‘Trascendental Suicide’ e quel delizioso tributo
a Serge Gainsburg che è ‘Midnight Children’, con ospite nientemeno che Jane
Birkin?
(di Aurelio Pasini, Il Mucchio Selvaggio, Anno XXVII, n.600).
Analisi
Anche in questa recensione si fa riferimento alla scelta fatta da un gruppo molto famoso (Oasis) di
avere i The Soundtrack Of Our Lives come gruppo di supporto. Non solo, ma il gruppo avrebbe
dei meriti artistici avvalorati dai consensi tributatigli dalla stampa statunitense e britannica. Questi
tre riferimenti rientrano tutti nella famiglia delle fallacia di rilevanza, nello specifico nel ricorso ad
‘autorità impropria’ (Copi & Cohen, 1999). La parte successiva dell’articolo si delinea per una
marcata tendenza a tracciare un quadro complessivo del genere di musica proposta dal gruppo. I
riferimenti si rifanno alla scena nazionale (svedese), con relative differenze rispetto agli altri
artisti, come pure ai gruppi ‘storici’ del genere.
È interessante notare come per il critico il giudizio, complessivamente positivo, sia basato sulla
rilettura, in chiave contemporanea, di elementi musicali tutt’altro che innovativi e originali (cfr.
concetto di originalità).
Nella proposizione conclusiva: “E poi, come non adorare gli Who apocrifi di Trascendental
Suicide e quel delizioso tributo a Serge Gainsburg che è Midnight Children, con ospite nientemeno
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Matteo Capobianco
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Parte seconda
che Jane Birkin?”, non solo si associano due canzoni ad altri artisti (Who e Gainsburg) e in più si
richiama la collaborazione con Jane Birkin (scritta in grassetto per evidenziarne l’importanza),
ma lo si fa attraverso la formulazione di una domanda retorica che rientra nelle fallacie di
presunzione in particolare nella categoria delle domande complesse (Copi & Cohen, 1999).
Articolo XXV
Artista: Télépopmusik
Titolo del disco: Genetic World
Voto: ●●●●○
Le buone notizie continuano ad arrivare dalla Francia. Télépopmusik nasce
dall’unione di Stephan Haeri, Cristopher Hétier e Fabrice Dumont, già protagonisti
delle compilation ‘Sourcelab’ con la sigla Sonic 75. A loro, impegnati nella
costruzione architettonica e sonora dell’album, si aggiungono, come uno splendido
cast di ospiti, le voci che colorano ‘Genetic world’: Angela Mac Clusky, Unhook the
stars, Soda-pop (già negli Earthling), Juice Aleem, Chilly Gonzales e Peaches. Il
risultato, lungi dal mettere in mostra incongruenze e dislivelli, è un capolavoro,
capace di mescolare elettronica, jazz della nuova generazione, hip hop della vecchia e
della nuova scuola, astrattismi rock, rumori di fondo, scratches da dj consumati, voci
e richiami dal mondo dell’etere televisivo e scienza applicata alla musica. Ascoltate
l’incipit del disco, ‘Breathe’, e basterà per darvi un’idea sul resto: è come se i
Portishead, o meglio, i Lamb, fossero passati per un nuovo minimalismo dove la
magia elettronica ha preso il sopravvento sulle tinte dark e oscure che prima
coloravano il loro blues. I Télépopmusic sanno essere suadenti, profondi,
ossessivamente leggeri e leggermente ossessivi. 12 brani da consumare, perfetta
colonna sonora dello spostamento urbano, da gustare in metro come dietro i finestrini
di un tram, oppure al chiuso di una camera con vista sui palazzi illuminati dalle luci
della notte. Suoni per la città. Questa è la musica che vorremmo trovare più spesso
(sui giornali e sugli scaffali, sotto i nostri laser), questa è la musica cui andrebbe
rivolta attenzione adesso: è parte di una colonna sonora, parte del suono dei tempi
che ci circondano e che dischi come questo servono a raccontare.
(di Luca Bernini, Urban, Anno II, n.5).
Analisi
L’autore inizia il testo dando per assodato ciò che in realtà si deve ancora dimostrare, servendosi
della fallacia di presunzione detta petitio principii (Copi & Cohen, 1999). Si prosegue con l’ormai
classico percorso storico attraverso le principali tappe artistiche del gruppo messo nel contempo in
relazione associativa con l’immancabile cast di ospiti internazionali (Perelman & OlbrechtsTyteca, 1966).
Il giudizio estremamente positivo mette in luce il valore – supposto che in questo caso si possa
parlare di valore – rispetto alla mancanza di incongruenze e dislivelli. Il giudizio viene
ulteriormente motivato da caratterizzazioni di genere che danno un’idea a chi legge di cosa potrà
ascoltare. I suoni vengono definiti in senso generale senza accennare alla struttura musicale.
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
La frase: “Ascoltate l’incipit del disco Breathe, e basterà per darvi un’idea sul resto […]”,
richiama la fallacia di ambiguità detta ‘della composizione’ dove la qualità di un singolo elemento
viene trasmessa all’intera collezione (Copi & Cohen, 1999).
Il giornalista prosegue il discorso con nuovi paragoni ad artisti quali Portishead e Lamb,
riproponendo la strategia associativa (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966).
Alla fine si rende evidente la funzione critica nella sua accezione etico-filosofica: “Questa è la
musica che vorremmo trovare più spesso (sui giornali e sugli scaffali, sotto i nostri laser) […]”. La
frase citata è un chiaro auspicio per un futuro artistico (e non solo) più florido, che si realizzerebbe
se ci fosse maggiore attenzione da parte degli operatori del settore – critici compresi – nei
confronti dei prodotti come quello in questione. Auspicio che confluirebbe di conseguenza in un
ascolto diffuso44.
Articolo XXVI
Artista: Dirty Three
Titolo del disco: She Has No Strings Apollo
Metro di valutazione: basso-medio-alto
Voto: alto
Australiani di gran successo fra l’intellinghenzia indie americana – singolarmente
impegnati con O’Rourke come Will Oldham o Smog, per non dire del compatriota N.
Cave –, i Dirty Three sono una fra le band più affascinanti e umorali che sia dato
sentire. Terzetto atipico, violino con attacco pick up per chitarra per farlo suonare
distorto, chitarra e batteria. Musica viscerale, notturna e profondamente inquieta:
sebbene questo sesto disco sia più nero, la loro cifra stilistica è immutata. Roba che si
muove sottopelle, tra stridore e ipnosi. Batteria che anziché segnare il tempo copre
appena lo spazio; violino che disegna linee magre e stridenti, come geometrie
romanticamente inquiete; una chitarra che resta, ora come rumore ritmico ora come
melodia, in sottofondo. E partiture aperte, in attesa della fine, dell’esplosione, come in
preda all’umidità elettrica della notte. La loro musica si muove tra il calore desolante
dei paesaggi desertici australiani e una fragile intimità, come se ogni nota portasse
con sé l’anima dell’uomo che la suona. Bello. Molto.
(di Gianluca Runza, Rumore, Anno XXII, n.134).
Analisi
L’articolo si apre con diversi riferimenti ad altri artisti di fama con i quali i membri dei Dirty
Three hanno collaborato. In questo modo si accostano artisti diversi al fine di valorizzarli. Nei
termini dell’analisi proposta questo procedimento argomentativo è qualificabile come strategia
associativa (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). L’articolo prosegue con un’analisi delle
caratteristiche musicali del gruppo. Si parla della strumentazione utilizzata dagli artisti e poi si
44
Cfr. con la concezione di ‘cappa ideologica’ esposta in precedenza, riprendendo un passaggio di R. Barthes.
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
descrivono le canzoni con un’alternanza fra descrizioni di carattere narrativo ed emotivo e
puntualizzazioni di carattere teorico musicale. La sensazione è quella di percepire la bellezza del
disco attraverso l’uso sapiente di un linguaggio evocativo. Ne è una prova evidente la frase finale:
“La loro musica si muove tra il calore desolante dei paesaggi desertici australiani e una fragile
intimità, come se ogni nota portasse con sé l’anima dell’uomo che la suona. Bello. Molto”. Un
giudizio espresso in questi termini è tanto lontano da un’analisi sulla struttura musicale quanto
carico di emotività e di persuasività.
Articolo XXVII
Arista: Jimi Tenor
Titolo del disco: Beyond The Star
Voto: ●●●●○
Non si può negare che Jimi Tenor sia un artista sorprendente. Quando diciotto mesi or
sono (nel n.269) avevamo celebrato la grandezza del suo esordio su Kitty-Yo avevamo
avuto la sensazione che quell’”Higher Planes” fosse il punto di arrivo di una crescita
artistica fortemente voluta e costruita con metodo più che con passione. Strutture dei
brani ardite, arrangiamenti complessi, mood sempre in bilico tra il ‘vero e nero’ soul
e la ‘bianca’ pulizia orchestrale. Con alcuni poster a rallegrare le pareti di camera,
da Bacharach a Prince, da Hendrix a Peter Thomas. Oggi il finnico residente a
Barcellona si ripresenta a noi con ‘Beyond The Star’ e dimostra come ‘Higher Planes’
non fosse il suo punto d’arrivo mai, anzi, il suo punto di partenza. Tenor è qui più
enciclopedico che mai negli spunti e nei riferimenti ma allo stesso tempo più libero,
più padrone dei propri mezzi e felice di fluttuare in un cosmo sonoro senza limiti.
Sempre più intenso il flirt con l’orchestrazione, finissimo l’utilizzo della sezione di fiati
nei momenti più direttamente r’n’b, elegante quant’altri mai nel sussurro melodico,
funkedelico oppure vagamente prog nei solismi di synth e di flauto. Tra i due momenti
iniziali e finali del disco (le bellissime ed oniriche ‘Barcelona Sunrise’ e ‘Strawberry
Place’) Jimi ci travolge con una facile sara/banda (‘Moon Goddness’), un’apertura
free (‘Asteroid Belt’), un misticismo spiritual/orientale (‘Miracles’ e Sirens Of Salo’) e
aperture black afro-soul (‘Going For The God’ e ‘Gimme Little Bit’) e giochi
cinematici (‘Mr. French’). Tutto suona alla perfezione in questo disco (e non è
sorpresa scorgere i nomi di Bernd ‘Tarwater’ Jestram e di Stefan ‘Pole’ Betke tra gli
ingegneri del suono e del mastering) e conferma una volta di più il singolare
superlativo talento del suo artefice.
(di Raffaello Carusi, Rockerilla, Anno, XXVI, n.287-288).
Analisi
Nella parte iniziale il giornalista si preoccupa di segnalare l’evoluzione artistica intrapresa da
Tenor nei suoi ultimi lavori. Questo tipo di analisi (funzione storica) si avvale sia del dodicesimo
stratagemma di Schopenhauer : “ […] avevamo celebrato la grandezza del suo esordio […]”, sia di
accostamenti ad altri artisti di fama: “ […] da Bacharach a Prince, da Hendrix a Peter Thomas”. Vi
sono pure riferimenti alle strutture dei brani ma la sensazione è che si eviti di parlarne in maniera
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Parte seconda
più approfondita. L’elenco dei brani più rappresentativi si avvale dell’associazione con i generi
musicali più prossimi e utilizza di nuovo il dodicesimo stratagemma di Schopenhauer: “ […]
bellissime ed oniriche […]” che si ripete nel giudizio finale: “Tutto suona alla perfezione in questo
disco […]”. Tale giudizio tende ad essere comprovato attraverso il ricorso a due nuove
associazioni (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966). Si scrive infatti che: “[…] non è sorpresa
scorgere i nomi di Bernd ‘Tarwater’ Jestram e di Stefan ‘Pole’ Betke tra gli ingegneri del suono e
del mastering e conferma una volta di più il singolare superlativo talento del suo artefice”. In
questa affermazione finale vi è pure un ultimo ricorso al dodicesimo stratagemma di
Schopenhauer, quando si definisce il talento del musicista ‘superlativo’.
Articolo XXVIII
Artista: Los Lobos
Titolo del disco: Ride This the cover ep
Voto: ●●●◐○
È sempre un piacere recensire gli album dei vecchi Lupi californiani: è un piacere
perché dimostrano sempre di affrontare il loro lavoro con allegria e giovialità in un
mondo frequentato da personaggi che si prendono troppo sul serio. Hidalgo, Cesar
Rosa and friend sono molto amati nel circuito artistico perché sono proprio delle gran
brave persone e il loro modo di fare musica, la curiosità nello sperimentare nuove
strade, la facilità nell’intrecciare amicizie li rende un gruppo atipico nell’invidioso
mondo musicale. Dopo aver registrato lo splendido The ride di cui abbiamo già
parlato sulle pagine del Busca eccovi ora un breve sequel dal titolo Ride this ovvero
the cover ep. Non paghi delle partecipazioni ottenute per il loro album ufficiale, eccovi
altri ‘colpi’ che sarebbe un peccato lasciare in canna. E allora risentiamo i Lobos nel
loro repertorio più vasto riprendendo con eleganza e stile brani di altri autori e
trasformandoli in Lobos songs. Il primo trattamento è per una canzone molto nota di
Tom Waits: ‘Jockey full of Bourbon’. Lontani dal cupo sound del maestro di
Petaluma, Hidalgo and friends danno un saggio della loro bravura re-interpretando il
brano rendendolo più solare e meno inquietante ovvero come interpretare una cover
senza ledere l’originale. Lo stesso trattamento è affidato al brano ‘Uncomplicated’ di
Elvis Costello in cui le chitarre della band americana abbelliscono la bella canzone
dello ‘zelig’ musicale. Ma andiamo avanti: in ‘The ride’ vi era un bel brano scritto da
Cesar Rosa in compagnia di Bobby Womack – chitarrista di Sam Cooke e autore di
‘It’s all over now – bene in questo ep la band riprende una sua vecchia canzone ‘More
than I Can stand’ per ripresentarla al meglio. Ma non è ancora terminato: Dave Alvin,
Ruben Blades e Richard Thompson erano anch’essi presenti in qualità di interpreti e
di autori dell’ottimo ‘The Ride’: avrete già capito che i Lobos non dimenticano gli
amici ed ecco allora in questo piccolo grande ep tre brani scritti da questi autori. Se
dal repertorio di Ruben Blades i nostri si appropriano di ‘Patria’, all’amico Alvin
preparano la bellissima sorpresa di ‘Marie Marie’ in una grande versione dal vivo.
Ma ancora più personale è la splendida versione di ‘Shoot out the light’ composta da
Richard Thompson e rivisitata dalla band californiana. I Los Lobos sono ‘ancora’,
come scrivono ironicamente nelle note di copertine, Cesar Rosas, David Hidalgo,
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
Conrad Lozano, Louie Pere, e Steve Berlin e sono ‘ancora’ una grande band. Per chi
ama i Lobos questo piccolo ep è imperdibile: ho detto tutto.
(di Guido Giazzi, Buscadero, Anno XXIV, n.261).
Analisi
A prima vista questa recensione sembrerebbe fondata su una prolungata struttura associativa. In
realtà non mi sembra corretto parlare di associazioni con altri artisti perché la natura stessa di
questo lavoro è quella di interpretare brani altrui. Di associazioni se ne trova una quando si scrive
che un brano del disco precedente (The Ride) è stato composto con l’ausilio di Bobby Womack
(scritto in grassetto per evidenziarne il valore).
L’articolo, oltre ai riferimenti personali posti ad inizio recensione (che confermerebbero il piacere
che il redattore prova a scrivere dei Los Lobos) e ad un riferimento valutativo al lavoro
precedente: “ […] splendido […]” (vedi dodicesimo stratagemma di Schopenhauer), consta di un
lungo elenco dei brani presenti nel disco. Un interessante criterio attraverso il quale l’autore valuta
il valore artistico di questo lavoro, risiede nella capacità degli artisti di re-interpretare brani altrui
con elementi personali ma senza ledere il brano originale.
Di seguito si parla di una: “ […] splendida versione di Shoot out the light’[…]” richiamando il
dodicesimo stratagemma di Schopenhauer. Stratagemma che ricompare in maniera ironica nel
giudizio finale: “[…] i Los Lobos […] sono ‘ancora’ una grande band”. In apparenza anche
l’aggettivo imperdibile sarebbe un ricorso al medesimo stratagemma se non fosse per la tutela
posta dalla condizione precedente: “Per chi ama i Lobos […]”, che ne ridimensiona la portata.
Articolo XXIX
Aritsta: Ikara Colt
Titolo del disco: Modern Apprentice
Voto: ●●●●●
Dimenticate tutto il resto. Questo disco è l’unica cosa che oggi dovete sentire se
pensate che il rock’n’roll possa ancora cambiare un minuto della vostra giornata,
scartavetrarlo di tutte le ovvietà sgargianti che ci avvolgono. Il nero e il bianco, e due
fantasmi. Joy Division e Stooges. Gli Ikara Colt non ci provano nemmeno a inventare
anche solo un mezzo riff. Conoscono la grammatica, e prendono solo il meglio. Nei
comunicati della loro label ci sono una sfilza di paragoni inutili e fuorvianti. L’unica
cosa che conta è dare una visione paranoica, ossessiva e sensuale di questi giorni.
Alle altre rivelazioni e rivoluzioni non credo più, non potrebbero mai schiodarmi da
casa. Ma una cosa come ‘Modern feeling’ sì. Vivo consumandomi nella sottrazione
catatonica dal mio tempo. Se credete che i vostri contemporanei dovete sceglierli uno
a uno, non potete non pensare a questi quattro ragazzi. La rabbia, la noia, le pagine di
Camus e Sartre scarnificate in una slabbrata parlata di strada. La capacità di non
ammiccare mai, di non scegliere la successione di accordi che si ricorda perché
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Matteo Capobianco
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La pratica della critica nel giornalismo culturale
Parte seconda
diventa facile melodia. La claustrofobia di chi vive ingabbiato nella propria pelle. Gli
sgrammaticati angeli delle città, i ragazzini di Genet, imbottiti stasera di acidi. Alla
track otto, ‘Waste ground’, ho incontrato il fantasma dei miei sedici anni e ho pianto.
La silhoutte macabra di Ian Curtis, il suo infinito amore, l’egoismo come forma
estrema di fragilità. Il cappio e il sogno. Certe volte la nostra musica, quella di cui
parliamo in questo giornale, è anch’essa un fantasma, che sopravvive stolido ai nostri
mattini, e ci aspetta in un angolo spigoloso della giornata. Senape e pompelmo frullati
assieme, ingurgitati come una preghiera. Non abusate di questo disco, non
banalizzatelo, difendetelo dai dj e dalle sfilate, dal glamour posticcio. Non sporcatelo
è fatto come noi.
(di Andrea Dusio, Rockerilla, Anno, XXVI, n.287-288).
Analisi
L’inizio della recensione ha tutte le caratteristiche di un luogo comune ‘della qualità’ in cui si
punta a rendere unico l’oggetto del proprio discorso (Perelman & Olbrechts-Tyteca, 1966).
Tuttavia mi sembra di poter osservare che una tale inclusione sia una forzatura. Questo perché il
critico si preoccupa di porre una condizione: “ […] se pensate che il […]” impedendo, per forza di
cose, di percepire il prodotto come qualcosa di unico e assoluto. Per contro si può parlare di una
prolungata struttura associativa (nonostante l’autore deprechi quelle fatte dalla casa discografica).
Prima si associano gli Ikara Colt ai Joy Division e agli Stooges. In seguito si accomunano i loro
temi a quelli presenti in letteratura: da Camus a Sartre fino a Genet. Della musica si parla ben
poco, per lo meno in termini tecnici. Vi è invece una ricca descrizione della atmosfere che
l’ascolto del disco ha provocato nel giornalista. Queste emozioni si caratterizzano per un ricorso
alla fallacia di rilevanza detta ‘appello all’emozione’ (Copi & Cohen, 1999), quando si precisa che
l’ascolto di un brano ha provocato un pianto. Pianto provocato anche dai fantasmi (Joy Division)
che ritornano a galla durante l’ascolto di Waste Ground. Si ricorda infatti la figura di Ian Curtis
(cantante dei Joy Division scomparso tragicamente). In ogni modo queste argomentazioni sono un
chiaro tentativo di colpire l’emotività del destinario.
La conclusione della recensione è tutta tesa a creare negli ascoltatori una volontà di protezione nei
riguardi di queste canzoni. Questo atteggiamento è determinato dall’idea che il successo
discografico non rappresenti un valore.
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Parte seconda
Articolo XXX
Artista: Devendra Banhart
Titolo del disco: Nino Rojo
Voto: ●●●◐○
Certe cose son sempre difficili da prevedere ma, obbiettivamente, chi mai avrebbe
pensato che al principio del nuovo millennio sarebbe stato il folk, declinato in mille
variabili impensabili, ad essere la musica più stimolante in circolazione. Eppure è
proprio così; è proprio il folk ad essere al centro dell’attenzione ed è sempre il folk a
permeare l’estro creativo di musicisti e filoni anche distantissimi fra di loro come può
essere il pre-war di Devendra Banhart (ma dietro di lui i gruppi interessantissimi
sono molteplici, dalle CocoRosie ai Vetiver, dai Born Heller a Joanna Newsom) o le
interazioni con l’elettronica di una band come i Books, fino ad arrivare ad outsider
come gli Animal Collective o al giro sperimentale dei gruppi del Jeweller Antler e via
via fino ai vari No Neck Blues Band, Jackie O’ Motherfucker, Pelt e molti altri. Ce
n’è insomma abbastanza per iniziare a pensare ad un articolo che faccia un po’ il
punto della situazione. Come ampiamente annunciato, con ‘Nino Rojo’ si viene a
completare il dittico di album – che su vinile verranno accorpati in un unico doppio
album – di cui ‘Rejoicing In The Hands’, uscito pochi mesi fa, era il primo capitolo.
Concepiti e registrati durante le stesse session, i due dischi sono visti come una storia
raccontata dalla madre al figlio nel caso del primo disco, mentre in ‘Nino Rojo’ la
prospettiva si ribalta e le canzoni che lo compongono sono affrontate dal punto di
vista del figlio. Musicalmente, come è facile immaginare, le differenze fra i due dischi
sono praticamente nulle. Vanno in tutto e per tutto visti come un progetto unitario e
come tale è superfluo stare a cercare e ad inventarsi singolarità inesistenti (sempre se
non vogliamo considerare come tali una maggiore ‘orchestrazione’ in qualcuno dei
pezzi di ‘Nino Rojo’). Quello che qui invece preme rimarcare ancora una volta è
l’innegabile e straordinario talento di Devendra. Il punto di partenza rimangono le
più primitive e ancestrali forme musicali d’America, quelle il cui cuore si trova
all’interno della mai abbastanza lodata ‘Anthology Of America Folk Music’ di Harry
Smith, il folk rurale, il blues, la musica appalacchiana, il country; musiche anteguerra
prese di peso dalla Storia e rese miracolosamente vive ed attuali, attraverso un gusto
interpretativo moderno, sottilmente trasversale e dannatamente efficace, mantenendo
al contempo una semplicità di fondo ammaliante. Le canzoni infatti sono messe a
punto con pochi tratti, una chitarra acustica e poco altro, mentre la voce duttile di
Devendra riesce a coprire un ampio spettro emotivo, tale da rendere palpitante anche
il più piccolo dei frammenti. Un autore straordinario, veramente straordinario, da non
minimizzare assolutamente. Entrare ulteriormente nel merito di queste sedici canzoni
a questo punto risulterebbe un semplice esercizio di stile. L’unico consiglio, se già non
l’avete fatto, è di portarvi a casa ‘Rejoicing In The Hands’ e di accoppiargli
all’istante questo ‘Nino Rojo’. È un consiglio d’amico, fidatevi…
(di Lino Brunetti, Buscadero, Anno XXIV, n.261).
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Parte seconda
Analisi
In quest’ultimo articolo si pone in maniera esplicita la volontà di lanciare uno sguardo storico sul
movimento musicale folk nel tentativo di fissarne un valore. L’autore dice esplicitamente: “Ce n’è
insomma abbastanza per iniziare a pensare ad un articolo che faccia un po’ il punto della
situazione”. Per far questo il critico fa alcuni nomi che offrono punti di contatto con la musica di
Devendra, ma lo scopo non è quello di associare dei nomi di artisti diversi al fine di valorizzarne la
musica. Si pone infatti il lavoro di Devendra come riferimento fondante per tutto il genere. I
paragoni non sono quindi a forte carattere persuasivo, bensì più prettamente informativo.
Le considerazioni del critico sono in gran parte di carattere storico. Si chiariscono le vicissitudini
che hanno preceduto la pubblicazione di Nino Rojo e di Rejoicing In The Hands. La funzione
storica (Menna, 1981) viene integrata con quella critica con dei giudizi tanto positivi quanto netti:
“Quello che qui invece preme rimarcare ancora una volta è l’innegabile e straordinario talento di
Devendra”. Con questa affermazione si utilizza il dodicesimo stratagemma di Schopenhauer
‘straordinario talento’ insieme ad un ricorso alla para-argomentazione ‘è [l’]innegabile’. Di seguito
si richiama una strategia associativa che accosta la musica di Banhart alla Anthology Of America
Folk Music di Harry Smith. I riferimenti di genere che seguono sono arricchiti da un nuovo
utilizzo del dodicesimo stratagemma grazie all’avverbio ‘miracolosamente’. Evento che si ripete
per due volte nel giudizio seguente: “Un autore straordinario, veramente straordinario, da non
minimizzare assolutamente”. Per giustificare di un tale giudizio si scrive che il cantante possiede:
“[…] un gusto interpretativo moderno, sottilmente trasversale e dannatamente efficace,
mantenendo al contempo una semplicità di fondo ammaliante”. L’uso di un registro evocativo e
‘poetico’ rimane piuttosto accentuato. Successivamente si cerca una conferma più tecnica dicendo:
“Le canzoni infatti sono messe a punto con pochi tratti, una chitarra acustica e poco altro, mentre
la voce duttile di Devendra riesce a coprire un ampio spettro emotivo, tale da rendere palpitante
anche il più piccolo dei frammenti”. Parole di sicuro impatto ma forse altrettanto ermetiche per chi
voglia capire con qualche elemento in più il valore della musica in esame.
La caratteristica di non voler affrontare in modo approfondito la musica da una prospettiva teorica
viene resa esplicita: “Entrare ulteriormente nel merito di queste sedici canzoni a questo punto
risulterebbe un semplice esercizio di stile” come a ricordare che il giudizio sulla musica deve
rimanere un primato emotivo e non cognitivo (Eggebrecht, 1988).
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8.1 Visualizzazione grafica dei risultati d’analisi
Al fine di ottenere una visione sintetica di quanto detto finora, mi è parso appropriato visualizzare
con dei grafici le ricorrenze sia delle fallacie, sia delle strategie argomentative.
Nel primo caso le fallacie di rilevanza sono apparse con più frequenza sul campione di 30 articoli
analizzati ed hanno dato luogo ad una ulteriore stratificazione, che ha evidenziato un ricorrente uso
dell’appello all’emozione (grafico 1, 2, 3).
Nel secondo caso appare chiara la supremazia numerica della presenza delle strategie associative
(grafico 4).
Come già esposto all’inizio del capitolo, questa rappresentazione grafica non ha scopo statistico,
bensì mira a sondare in modo empirico il metodo critico in ambito giornalistico.
Il grafico seguente mostra con quale frequenza le varie fallacie vengano utilizzate dai critici
musicali. La categoria alla quale i critici ricorrono maggiormente è rappresentata con il 63% dalla
famiglia delle fallacie di rilevanza.
Frequenza delle fallacie (campione di 30 articoli)
Rilevanza
Presunzione e rilevanza
31%
Presenzione e ambiguità
Senza fallacie
3%
63%
3%
Grafico 1: frequenza delle fallacie
Essendo le fallacie di rilevanza così presenti, è interessante stratificare ulteriormente la loro
composizione. Il grafico sottostante mostra, negli articoli presentanti le fallacie di rilevanza, la
frequenza della stessa in uno stesso articolo. La metà degli articoli contiene un unico ricorso,
mentre il 30% ne presenta due.
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Frequenza delle fallacie di rilevanza
10%
5%
Un ricorso
5%
Due ricorsi
Tre ricorsi
50%
Quattro ricorsi
Cinque ricorsi
30%
Grafico 2: frequenza delle fallacie di rilevanza
Sempre in riferimento alle fallacie di rilevanza, ho analizzato nel grafico che segue la loro natura.
Ne risulta che il ricorso all’appello all’emozione è il maggiormente sfruttato (45%).
Composizione della fallacia di rilevanza
Appello all'emozione
15%
Appello all'emozione e
all'autorità
45%
Appello all'autorità
30%
Altre fallacie
10%
Grafico 3: composizione delle fallacie di rilevanza
Nell’ultimo grafico qui di seguito, si aggiungono nuovi elementi di analisi argomentativa, che non
appartengono alla sfera degli errori logici (fallacie), bensì all’ambito delle strategie argomentative,
miranti alla persuasione del destinatario. Appare dominante la strategia associativa (53%) che
come detto più volte ha anche un fine informativo.
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Parte seconda
Strategie argomentative
Associative
6%
Para-argomentative e
associative
6%
16%
Strategemmi
Stratagemmi e
associative
53%
13%
Miscellanea
6%
Nessuna strategia
Grafico 4: strategie argomentative
In conclusione si può affermare che nella pratica della critica del giornalismo musicale,
tendenzialmente i critici sembrano ricorrere in modo non trascurabile all’utilizzo delle fallacie, in
particolar modo di rilevanza. Questa a sua volta pare fare ricorso in special modo all’appello
all’emozione. A complemento di ciò, le strategie argomentative offrono un ulteriore sguardo sugli
espedienti persuasivi più sfruttati dai critici per sostenere le proprie tesi. La strategia associativa dà
l'impressione di essere un accorgimento molto diffuso, sia per valorizzare gli elementi che
vengono accostati, sia per spiegare con immediatezza le caratteristiche dell’oggetto in questione.
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Conclusioni
9. Conclusioni
Nel corso di questo capitolo conclusivo, metterò in evidenza tre aspetti: l’esposizione dei risultati
ottenuti dall’analisi dei testi, i limiti della ricerca e gli spunti per i futuri sviluppi di ricerca - con lo
scopo di rispondere al quesito portante dell’attuale studio: che tipo di relazione esiste fra il
giudizio complessivo esposto in un articolo di critica musicale e il ricorso, volontario o meno, alla
manipolazione argomentativa espressa tramite il ricorso alle fallacie.
In un primo raffronto fra quanto esposto al capitolo sei e la realtà riscontrata nell’analisi degli
articoli, si può certamente affermare che il tratto comune di tutti i testi analizzati è la quasi totale
assenza della critica del pezzo musicale in senso stretto (tecnico-musicale). Tale comportamento è
cagionato in parte dalla già anticipata difficoltà di trascrivere la notazione musicale. Un’altra
possibile concausa potrebbe risiedere nella convinzione che sia più efficace un approccio all’opera
d’arte non mediato dalle strutture cognitivo-musicali le quali mitigherebbero il valore emotivo
della musica. Sempre in merito alla struttura dei testi non va dimenticato che, pur essendo in linea
di massima più semplice, manca da parte dei critici pure un’analisi dei testi delle canzoni. Gli unici
aspetti tecnici accennati riguardano spesso la composizione strumentale, l’interazione fra queste
componenti, e le caratteristiche della produzione musicale. Vengono invece ampiamente trattate la
funzioni storica, con particolare attenzione all’inserimento in contesti di genere musicale, e quella
critica in senso stretto (il giudizio estetico). Manca, in altre parole, uno dei tre pilastri
dell’interpretazione teorizzati da Menna (funzione storica, funzione teorica e funzione critica) i
quali verrebbero, se attuati con competenza, a ridurre il rischio di soggettivismo o per meglio dire,
a giustificare il giudizio estetico di un’opera musicale. Questo genere di critica – definita da
Dahlhaus, critica estetica – sembra non essere peculiarità unica della musica pop-rock e mostra un
inaspettato rapporto con il passato:
Il modello di critico tipico dell’Ottocento era quindi quello del colto dilettante […]
non è un caso che compositori come Berlioz, Schumann o Hugo Wolf nello scrivere
una recensione cercassero di nascondere il proprio abito professionale ed
assumessero l’atteggiamento del dilettante colto che disdegna l’analisi, di cui non è
capace, e la sostituisce con parafrasi poetizzanti.
(Dahlhaus, 1987: 26).
Da questo paragrafo si può intuire come fosse importante, già in passato, la questione della
ricezione di un messaggio. Non è certo un azzardo affermare che la diffusione della conoscenza
musicale, nei suoi aspetti teorici e tecnici, riguardi ancora una porzione relativamente ristretta del
pubblico che abitualmente legge di musica (e non solo). E allora che senso avrebbe, da un punto di
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Conclusioni
vista giornalistico, infarcire le recensioni di aspetti tecnici e teorici se poi verrebbero compresi da
pochi lettori? Con questo non si vuol certo scusare il critico musicale che s’improvvisa tale – e che
in realtà non è un critico, ma un ascoltatore – ma si vuol chiarire come la scrittura ‘pubblica’ sia
ricca di sfumature e di dettagli che non possono essere trascurati.
Degna di maggior interesse è in verità la selezione ‘politica’ che sta alla base della scelta
redazionale di trattare criticamente delle opere musicali piuttosto che altre.
Sembra esserci a questo livello (cioè ancor prima di ascoltare il pezzo musicale!) il vero giudizio
critico, che trascina implicitamente con sé criteri di valore divenuti extra-musicali. Di conseguenza
scatta nel critico la ferma intenzione di difendere strenuamente la propria scelta di campo. Secondo
Alessandro Carrera (1980), noto critico e professore universitario, le recensioni musicali si
possono definire un genere a sé stante, caratterizzato da toni enfatici, dove, dato l’evidente rifiuto
di affrontare un’analisi teorica, ogni articolo diviene interscambiabile con un altro.
I limiti metodologici della ricerca stanno, a un livello empirico, nel fatto che il campione degli
articoli non è rappresentativo.
A livello teorico la critica musicale non è – o lo è da poco tempo45 – ufficializzata e
istituzionalizzata in un corpo di sapere omogeneo e riconosciuto a livello universitario. Il che
implica un vuoto teorico, soprattutto per ciò che riguarda il rischio di soggettivismo, che aspetta
ancora di essere colmato in maniera soddisfacente. Gli studi di critica, sia in ambito musicale sia in
ambito cinematografico, non offrono una base condivisa e consolidata nel tempo (nel caso del
cinema anche perché è un media relativamente giovane). Mentre il processo di critica presente in
ambito letterario è a tutt’oggi il più solido dal punto di vista epistemologico.
Analizzando la tendenza editoriale delle riviste di critica musicale, si nota una crescente presenza
di articoli critici interdisciplinari. Si trattano infatti con sempre maggior competenza pubblicazioni
letterarie e produzioni cinematografiche, portando alla luce l’idea esposta da Barthes, secondo cui
la competenza del critico risiede soprattutto nella sua capacità di attivare un sapere
interdisciplinare. Per queste ragioni si potrebbero studiare da un punto di vista teorico le
caratteristiche della critica d’arte e della critica teatrale e dal lato pratico analizzare oltre ad articoli
di critica musicale anche articoli di critica letteraria, cinematografica, teatrale e d’arte. Inoltre,
l’analisi potrebbe concentrarsi anche sull’analisi di articoli scritti su riviste straniere. A questo
proposito, sarebbe molto utile studiare la struttura teorico-argomentativa degli articoli della critica
musicale inglese, che vanta un’esperienza più ampia rispetto a quella italiana. Un ulteriore
versante di sviluppo potrebbe prendere in considerazione gli studi sulla manipolazione
45
A questo proposito segnalo che da qualche anno è attiva in Roma l’Accademia della critica, la quale prepara i propri
studenti ad affrontare il mestiere di critico in special modo nel settore musicale.
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Conclusioni
argomentativa nell’intento di capire se il ricorso all’uso della fallacie, e della manipolazione
ampiamente intesa, non sia motivato da un fine manipolatorio.
Riguardo alla domanda di ricerca, si può affermare che il giudizio di valore di un’opera – vista
l’assenza di aspetti tecnico-formali – si fonda su articolazioni retoriche. Nel 69% degli articoli
presi in esame si ritrovano infatti ricorsi all’uso di fallacie in ogni loro accezione (di rilevanza, di
presunzione e di ambiguità). Inoltre nel 94% degli articoli vi sono diversi ricorsi a strategie
argomentative che si avvalgono della costruzione associativa esposta da Perelman, degli
stratagemmi di Schopenhauer oppure di tratti para-argomentativi.
Esistono quindi dei rischi nel riferirsi costantemente alle segnalazioni dei critici? Difficile dare una
risposta univoca. Se da un lato si ha la possibilità di conoscere e di comprendere opere che
altrimenti sarebbe passate inosservate, dall’altro vi è la possibilità concreta di acquistare prodotti,
troppo facilmente definiti come capolavori, accorgendosi solo in seguito che tali non sono. Un
primo passo, di non facile attuazione, consisterebbe nel cercare di crearsi una gerarchia delle fonti,
in riferimento all’indipendenza delle testate e dei critici che vi scrivono. È utile tener sempre
presente – come spiega Morando Morandini (1995) – che una recensione deve comprendere tre
caratteristiche fondamentali: l’informazione, l’analisi e il giudizio.
Per questo andrebbero lette con molta attenzione le recensioni che non offrissero al lettore
informazioni imprescindibili – nel caso della musica dalla produzione sia artistica che materiale,
alla composizione strumentale, alla caratteristiche teorico-tecniche della musica, al prezzo46, al
nome della casa discografica fino alle notizie storiche sull’artista – facendo, per contro, un abile
uso di termini altisonanti che potrebbero nascondere interessi in gioco. Finita la lettura di una
recensione ci si potrebbe chiedere: “Che tipo di musica si giudica in questo articolo? Con quali
argomentazioni? Sono argomentazioni legate alle caratteristiche ‘tecniche’ dell’opera o sono
legate ad altro?”.
Il critico, per ciò che riguarda la formulazione di un giudizio, deve tenere in conto che:
“Nell’esporre le ragioni del suo consenso e del suo dissenso, […] ha il diritto di portare il lettore a
giudicare il film [libro o disco N.d.A.] dal proprio punto di vista, lasciandogli tuttavia la libertà di
discutere o anche di rifiutare quel punto di vista […]. In altre parole: il lettore deve essere messo in
condizione di individuare le spinte ideologiche o emotive che hanno portato il recensore a
esprimere un certo giudizio” (Morandini, 1995: 26).
46
È vero che si nota una certa stabilità nel prezzo dei Compact Disc ma sempre più spesso si trovano delle eccezioni, a
volte imputabili alle barriere di mercato altre alle politiche dei gruppi (più raramente delle case discografiche) che ne
giustificherebbero la precisazione. La spesa per un CD rimane comunque piuttosto alta e ingiustificata dal punto di
vista industriale, ma questa annosa questione richiederebbe un ulteriore studio, che affronterebbe per forza di cose un
fattore da me trascurato e cioè lo scambio di file musicali attraverso i sistemi Peer to Peer.
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Conclusioni
In merito a questi punti, Luca Ferrieri ha formulato un' interessante osservazione, che ricorda il
pensiero di Karl Popper: “Le recensioni che servono di più al lettore non sono certo quelle
‘obiettive’ che per fortuna non esistono, ma quelle ‘falsificabili’: che enunciano le condizioni
capaci di invalidarle; che dichiarano la propria angolazione […]” (Ferrieri, 1993: 24). Quindi ciò
che esiste e che ha valore artistico deve essere trattato in modo aperto e dichiarato – cosa che non
accade se la recensione, positiva o meno47, è ‘al servizio’ di qualcuno – proprio per essere messo
in discussione non già in fase di ascolto (a quel punto sarebbe troppo tardi, a meno che l’ascolto
non avvenga in negozio, condotta tanto trascurata quanto preziosa), bensì in fase di lettura
dell’articolo.
Si raggiunge la competenza solo attraverso la pratica. Questo adagio è altrettanto valido per la
lettura e la comprensione profonda delle recensioni critiche, che richiedono una certa dose di
‘fedeltà’ e di attenzione.
Grazie a questo impegno, si può raggiungere un certo grado di confidenza con alcuni critici, e
considerarli più affidabili di altri, oppure, come detto, si può porre maggior attenzione, non solo in
senso informativo ma anche argomentativo, a ciò che si legge.
Proprio questo punto è stato uno degli intenti di questo lavoro; se da una parte si è tentato di
portare qualche elemento utile a chi si accinge ad affrontare l’esercizio critico, dall’altra, si è
inteso specularmente offrire ai lettori, soprattutto giovani, strumenti per cautelarsi da cattive
sorprese.
La difficoltà di discernere i prodotti culturali di livello dagli altri, rimane un’aporia – se la si vuole
risolvere da soli – non solo per ragioni di competenze personali, ma anche perché risultano essere
sempre troppe le proposte culturali. Di conseguenza il lavoro del critico può assumere sia una
valenza informativa che più profondamente comprensiva dei fatti artistici.
In conclusione si può affermare che se da un lato, il massiccio ricorso alle strategie argomentative
è parzialmente giustificabile, poiché esse rimangono connaturate all’uso stesso del linguaggio
(specie in ambito giornalistico), dall’altro, l’uso delle fallacie argomentative non è
deontologicamente accettabile ed andrebbe evitato, poiché non è corretto persuadere tramite degli
errori logici che evitano di analizzare l’oggetto artistico e di conseguenza si allontanano
dall’obiettività.
47
La recensione negativa, se risponde ad interessi particolari, ha lo stesso scopo di quella elogiativa: creare un
polverone mediatico che attiri l’attenzione del consumatore medio – che a questo punto sentirà qualcosa su quel disco
ma difficilmente ne leggerà le recensioni – su un prodotto che di norma ha una vita commerciale ridotta e che di
conseguenza deve realizzare un alto rendimento in un tempo relativamente breve.
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Desidero ringraziare sentitamente tutte le persone che mi hanno sostenuto
durante l’ideazione e la realizzazione della memoria: i miei genitori, mia sorella
Barbara, Elisa e la professoressa Rigotti alla cui perizia letteraria e filosofica
debbo l’essenziale.
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