cmpst#02 - Disorder Drama

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Intro
Redazione
Matteo Casari
Daniele Guasco
Simone Madrau
Matteo Marsano
Giulio Olivieri
Cesare Pezzoni
Anna Positano
Collaboratori
El Pelandro
Marco Giorcelli
Grafica e Impaginazione
Matteo Casari
sito internet
http://compost.disorderdrama.org
email
[email protected]
snailmail
Compost
c/o Matteo Casari
C.P.1009
16121
Genova
Pubblicazione NON periodica, amatoriale,
destinata alla distribuzione gratuita, fotocopiata in proprio e senza alcuna pretesa di completezza.
Questa pubblicazione è una produzione Disorder Drama.
Un sincero ringraziamento al collettivo del
Laboratorio Sociale Occupato Autogestito
Buridda, senza cui non saremmo riusciti ad arrivare qui.
Se interessati a collaborare, con parole o disegni, scrivete a [email protected]
Il prossimo numero lo troverete in giro a metà
Luglio 2007
Arrivederci a CMPST #3 - [07.2007]
2 CMPST #2[06.2007]
Una delle cose che la redazione di Compost si è prefissata fin dall’inizio è il voler evitare
gli autoreferenzialismi. Ed è giusto: non tanto
perché ci piaccia essere modesti quanto perché ciò remerebbe contro quelli che sono i
veri scopi di questa fanzine, sui quali non intendo dilungarmi visto che il buon Matteo
Casari è già stato più che eloquente nell’editoriale del primo numero. La mia difficoltà a
introdurre questo secondo numero di Compost gira comunque intorno a questo aspetto: da un lato il non voler cadere nella retorica
[fatevene una ragione: accadrà], dall’altro il
dover parlare del proprio rapporto con la propria città da pischello e per di più da pischello
entusiasta.
Vivo in provincia e dunque ho sempre avuto una visione forse troppo superficiale del
genovese-tipo, con una certa tendenza a generalizzare dovuta ad un cospicuo numero di
esperienze negative. Detestavo in particolare
questo sintomo diffuso [comune un po’ ovunque, certo, ma anche qui ben radicato] per
cui si difende a spada tratta la propria città
in virtù dei soliti quattro luoghi comuni, senza
preoccuparsi di conoscere il “qui e ora”, senza
saperla analizzare criticamente in nome del
proprio pur sacrosanto affetto verso di essa.
Chi mi segue da prima di questa fanzine
sa inoltre che, anche per quanto riguarda
ciò che traspariva musicalmente dalla città
stessa, sono sempre stato piuttosto polemico:
e proprio per affetto, tra l’altro. Il senno di poi
ha confermato che le mie non erano ingenuità: tanti aspetti che lamentavo e che lamento ancora oggi sono condivisi anche da
chi Genova la vive a fondo da anni. Sono io
ad essere particolarmente acuto? No, è che
sono cose trasparenti sulle quali nemmeno
voglio soffermarmi: sono venute fuori a più
riprese già nel primo numero di Compost, e
certamente le ritroverete anche in questo e
nei prossimi.
Molte altre cose invece non le sospettavo
minimamente [e chissà quante ancora ne
ignoro]. In particolare l’impatto, graduale ma
nemmeno troppo, con quella grossa fetta
di città a me ancora ignota, è stato un po’
quello di guardare un vulcano pubblicamente considerato “spento” e accorgersi invece
che spento non lo è affatto: che sotto c’è un
magma di persone, gruppi, realtà, situazioni,
che preme per venire fuori. Per il sottoscritto,
che di fronte a queste cose diventa insaziabilmente curioso, la sorpresa nello scoprire un
universo così intricato ha lasciato subito posto
al desiderio di capire sempre di più a riguardo. Il fatto solo di [rac]cogliere ad ogni nuovo
incontro con i personaggi della scena locale
[che, vi stupirà, non sono esseri mitologici ma
persone affabili quanto il vostro migliore amico] informazioni, riferimenti, citazioni, scoprire
il perché di questa battuta o di questa affermazione, chi sta dietro cosa e perché, è uno
stimolo continuo. Ed è la prima ragione per
cui ho accettato di essere parte di Compost.
Nel giro di pochissimo ho appreso tante
cose, ma alcune più di altre mi sembrano importanti.
Più di tutto ho capito che se intervistare certi personaggi mi serve, spesso sembra servire
anche a loro: sfogarsi, fare il punto su se stessi
e sulla città, confrontarsi con luoghi e situazioni è un’esigenza sentita a prescindere dalla
propria importanza o dal proprio grado di
anzianità all’interno della scena, e a prescindere dal fatto che sia Compost o un perfetto
sconosciuto a chiedere a queste persone di
raccontarsi.
Compost del resto non vuole essere certo un
Intro
punto di arrivo: casomai un punto di partenza.
Ecco perché il genere di feedback che preferisco su questa fanzine è quello che viene non
dai soliti noti ma da persone che ancora non
sono in contatto con noi; e che non chiedono
collaborazioni per Compost in sè ma arrivano
da noi per presentare un progetto gestito da
loro, di qualsiasi natura ma con la stessa attitudine e il medesimo interesse. Per cercare
di capirne ancora di più senza aggrapparsi
l’uno all’altro ma lavorando in parallelo; senza
competizioni o subordinazioni ma tenendosi
anzi costantemente in contatto; creando calendari finalmente solidi e aggiornati di eventi
in città senza più lasciarli improvvisare ai gruppi sui propri MySpace; supportando i reciproci
eventi senza sovrapporre più appuntamenti
nello stesso giorno; ponendosi come obiettivo
la creazione di quel fronte comune di cui tutti
parlano ma per cui in pochi si stanno davvero
muovendo: l’eruzione del vulcano, la Scena
quella vera, fatta di fanzine e free press, radio,
associazioni, gruppi, locali […], festival e soprattutto pubblico. Persone comuni e sinceramente appassionate.
Infine, questo numero esce in occasione
del Festival delle Periferie: vi aspettiamo, oltre
che per il Festival in sé, anche per conoscerci faccia a faccia. Non ce ne frega niente se
nella vita fate gli spazzini o se siete gli scrittori
più cool del momento, non ce ne frega niente se avete un progetto di qualche tipo o volete solo dirci “ciao”, non ce ne frega niente
se avete un MySpace o no: se vi riconoscete
in queste cose non rinunciate all’occasione di farvi conoscere di persona. Uscite allo
scoperto, fateci capire che non stiamo solo
predicando ai convertiti. Non abbiate paura,
anche voi, di “avvicinarvi”.
Simone Madrau
Questo numero è stato reso possibile dalle offerte raccolte durante la serata del 13 Giugno 2007 al Laboratorio Sociale Occupato Autogestito Buridda.
Grazie infinite per la collaborazione al Collettivo e ai Laboratori che ci hanno aiutato
nonchè ai gruppi intervenuti Stalker, Vanessa Van Basten e Unsolved Problems Of Noise.
Inoltre, ulteriori gradite offerte ci sono state fatte dalle seguenti realtà:
Per tutte le band
che vogliono farsi
sentire!
Via San Vincenzo 20r 010 542422
Via Torti 27r
Piazza Truogoli di S. Brigida 29r
Compravendita Usato Cd, Dvd, Vinile
GBSS07 è il contest
dedicato ai
gruppi in cui almeno
un componente
risulti iscritto ad un
Istitituto Medio
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con recensioni, commenti, forum e iniziative!
Gli 8 gruppi finalisti parteciperanno
alla finale dal vivo del 4 Luglio all’Arena Del Mare in Porto Antico, con ospiti
The Banshee e Perturbazione!
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ROCKTONE REBEL - SILENTALK - ROSARIO DEEP
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GIOVANNI VERRINA - MOLEK - FAKTOR - SARS
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3 CMPST #2[06.2007]
Smesciarsi
“Dopo aver usato il Ponente
come zona industriale, aver
realizzato quartieri dormitorio,
discariche e quant’altro è arrivata l’ora di cambiare rotta. Anche utilizzando i concerti rock.“
Metrodora
Intervista con Fabrizio Gelli / Esmen
di Cesare Pezzoni
IL SENSO DEL POSSIBILE
Metrodora e il Festival delle Periferie. Un binomio che da
qualche anno ha messo in moto una serie di meccanismi complessi
decisamente positivi per tutta la città e soprattutto per il Ponente.
Come molta della periferia genovese,
compresa la mia Valbisagno e presumibilmente i quartieri di molti di coloro che leggeranno (dopotutto in periferia vive la grandissima maggioranza dei cittadini europei),
il ponente è stato per anni luogo famoso
per la sua bellezza, che solo nell’ultimo secolo si è visto invaso da industria privata e
pubblica, in un’ottica di sviluppo sconsiderato che poco ha fatto per le persone che
in questi luoghi vivevano e ancora vivono.
E così dove c’erano monumenti, spiagge,
prati, luoghi di cultura, luoghi di incontro, ora
è terra bruciata, con una cittadinanza che
vive serena all’ombra dei ruderi delle glorie
che furono e a quella dei ruderi del recente
passato industriale, molti cadaveri architettonici e poche prospettive, ora che il boom
economico oltre a essere finito è dimenticato e ora che in questi luoghi non c’è più uno
4 CMPST #2[06.2007]
spazio per la bellezza.
“E invece no, invece qualche spazio c’è
ancora, prendiamocelo.” Se queste non
sono state le parole poco ci manca, se non
è vero è perlomeno verosimile che nella testa delle persone che stavano cercando di
mettere su Metrodora, sia scattato questo
pensiero ricorrente. E lo spazio c’era davvero: Villa Rossi, con il suo parco, così simile
a quelli che fanno belle le zone residenziali
del centro, le zone di “quelli là”, così vicini
e così distanti, tanto che forse non possono
davvero capire cosa sia il Festival delle Periferie per la periferia, per una qualsiasi, ma in
particolare per il ponente.
E a ben vedere, oltre alla bellezza era rimasta anche la cultura, visto che Metrodora è orgogliosa di essere prima di tutto una
Associazione Culturale, che alla musica
si rivolge trattandola come cultura, e non
come un passatempo da adolescenti brufolosi, e che pretende, a diritto, di essere trattata come organo di cultura dalle istituzioni.
Ma perché una associazione, come funziona, come si fa un festival importante
con pochi costi, e quali sono gli sviluppi
del progetto? A tutto questo risponde Fabrizio Gelli, vice presidente dell’ Associazione e voce illustre (letteralmente: voce
splendida la sua) del panorama cittadino.
Siamo giunti anche quest’anno in prossimità del Festival delle Periferie, fiore all’occhiello delle produzioni della vostra associazione, ci sono novità rispetto alla formula
consolidata? Cosa succederà di bello?
Il Festival delle Periferie è nato con lo scopo di creare un evento di presitgio costruito
interamente intorno alle band genovesi. La
formula è ormai consolidata e l’obiettivo di
quest’anno è quello di farla rendere al meglio.
Le novità dell’edizione 2007 fanno da anteprima ai futuri sviluppi del festival. Abbiamo creato uno spazio per i giovanis-
Smesciarsi
fie del palco e della villa, ispirate alla splendida locandina disegnata dall’artista Luca
Tornatola. Sono convinto che sia uno degli
allestimenti più belli mai realizzati a Genova
per un festival low budget come il nostro.
Di contorno, come ogni anno, esposizioni
ed installazioni all’interno della villa, bancarelle, e tanta birra.
Esmen - foto di Anna Positano
simi con il Festival delle Periferie School
Edition che si svolgerà sabato 9 Giugno,
abbiamo riaperto a band di fuori genova invitando i Green Like July ed il dopo
festival prevederà un live show all’interno della villa con nomi di sicuro interesse
come Fabio Zuffanti, Japanese Gum e UR.
A livello più strettamente organizzativo siamo
particolarmente orgogliosi della collaborazione realizzata con i ragazzi e gli educatori
di alcuni Centri di Educazione al Lavoro, grazie ai quali abbiamo realizzato le scenogra-
Come mai il Festival è “delle Periferie”?
Come è nata e con che spirito l’idea? Quale
è il vostro specifico intento?
L’idea del festival delle periferie nasce nel
2003 come un esigenza impellente onde
“cavare” fuori dalle cantine e dalle salette
prove (presenti in quantità industriali ad affitti improponibili nella zona di Borzoli…ma
questo è un altro discorso da affrontare in separata sede) l’energia propositiva e positiva
di un underground genovese ancora inconsapevole del proprio valore (anche perché
poco coordinato e scarsamente coeso).
Il “periferie” è nato anche in contrapposizione all’accentramento culturale di Genova
2004. Nel momento in cui le alte sfere della
politica decisero che la quasi totalità delle
iniziative culturali dovevano svolgersi nel
triangolo Balbi-Porto Antico-Ducale noi ci
siamo inventati un festival rock in periferia.
Abbiamo sofferto molto decisioni quali lo
spostamento del museo navale da Pegli in
Darsena o l’esclusione del Ponente genovese dalla quasi totalità dei percorsi turistico/
culturali divulgati in quel periodo. Speriamo che la nascita del nuovo polo culturale
che ruota intorno a Villa Rossi – Manifatture
Tabacchi possa rappresentare un seppur
parziale risarcimento rispetto a quelle scelte
ritenute da molti cittadini del ponente “scellerate”.
Come mai Villa Rossi e come mai il
Ponente? Il Festival “delle Periferie” si può
considerare come un festival di quella periferia o è legittimo aspettarsi che un domani
migrerete o replicherete altrove l’esperimento?
Villa Rossi è un parco stupendo e la Circoscrizione Medio Ponente ha sempre appoggiato con entusiasmo l’iniziativa. La scelta
del ponente è dovuta principalmente a
due fattori. La contingenza del fatto che
molti soci fondatori fossero nati e cresciuti
li e la voglia matta di contribuire alla rinascita di una zona che storicamente ha sempre rappresentato la servitù alla città (dillo
a me, che sono “besagnino”…abbiamo in
ordine di comparsa: deposito autobus, cimitero comunale, discarica, fangodotto,
essiccatoio dei fanghi, altro deposito autobus, macelli e canile comunale…NdCe) .
Dopo aver usato il ponente come zona industriale, aver realizzato quartieri dormitorio, discariche e quant’altro è arrivata l’ora
di cambiare rotta. Anche utilizzando i concerti rock.
Altre organizzazioni, come Disorder Drama per dirne una, sono organizzate in grup-
“Sento forte il senso di “possibile”. Nonostante ora venga
percepito
come
un
appuntamento
imprescindibile
di inizio estate il Festival delle
Periferie sei anni fa non esisteva. E’ stato creato da un gruppo
di persone che hanno lavorato sodo per trovare una risposta
concreta ad un bisogno reale.“
5 CMPST #2[06.2007]
Smesciarsi
“Credo che questo sia il grosso
merito
di
Metrodora.
Aver
aiutato
a
creare
rapporti.“
pi informali attorno alla professionalità e
all’esperienza di pochi individui, un’associazione, a partire dallo statuto, è un qualcosa
di più strutturata e con oneri di amministrazione che sono comunque aggiuntivi: quali
difficoltà e quali vantaggi implica la formalizzazione di un gruppo prima informale,
è costoso in termini economici? Rallenta i
processi decisionali? In che difficoltà siete
incappati?
Metrodora è nata come associazione. E’
sempre stata nostra convinzione che qualsiasi evento culturale avesse bisogno di finanziamenti ed aiuti da parte delle amministrazioni locali. E l’unico modo per relazionarsi
con le amministrazioni è essere ufficialmente riconosciute. Formalmente per creare
un’associazione basta scrivere uno statuto
ed un regolamento e spendere pochi euro
per depositarli al registro delle associazioni.
A livello operativo tutto ciò che viene deciso in associazione passa dall’approvazione
del consiglio direttivo e dell’assemblea dei
soci. E’ un processo certamente più lungo
rispetto ad un’organizzazione più informale
ma permette un affascinante confronto ed
una continua contaminazione tra persone
ed idee. Dà inoltre la possibilità, nel caso
l’associazione riesca a strutturarsi in modo
solido, di sopravvivere ad eventuali defezioni da parte di importanti membri attivi.
Nel recente incontro tra Genovatune e le
altre realtà cittadine al Berio Cafè, hai invitato chi si sente sottorappresentato in città
a esporsi autorappresentandosi, magari
6 CMPST #2[06.2007]
proprio fondando una associazione come
la vostra, è quindi una scelta che ti senti di
consigliare?
In quella occasione la mia era più che altro una provocazione. Non so se la risposta
giusta alla mancanza di rappresentanza sia
creare un’associazione. Sono certo che ci
sia bisogno di persone che si responsabilizzino, che incanalino il proprio disagio verso qualcosa di costruttivo. Di persone che
propongano iniziative, lavorino sulle proprie
idee, studino modi per soddisfare i propri bisogni, e sfruttino in modo costruttivo le realtà esistenti. Io sento forte il senso di “possibile”. Nonostante ora venga percepito come
un appuntamento imprescindibile di inizio
estate il Festival delle Periferie sei anni fa
non esisteva. E’ stato creato da un gruppo
di persone che hanno lavorato sodo per trovare una risposta concreta ad un bisogno
reale.
Passiamo a un’ottica più ampia: quale è
il ruolo di Metrodora in Genova? O, meglio,
quale è il ruolo di Metrodora a Genova rispetto anche alla rete di operatori volontari,
musicisti, fruitori, giornalisti e appassionati?
Metrodora ha sempre cercato di collegare ed includere. La partecipazione democratica ha sempre avuto grossa rilevanza
nella filosofia dell’associazione. Abbiamo
cercato di mettere in contatto tra loro le
band, organizzando, oltre ai concerti, incontri pubblici, o cose apparentemente più
frivole come un camerino condiviso da
tutte le band al Festival delle Periferie. Abbiamo coinvolto tutte le realtà che si occupano di musica a Genova, stimolato la
creazione di eventi comuni, abbiamo collaborato con Genovatune, Disorder Drama, il
En Roco - foto di Anna Positano
Milk Club, i Creativi Della Notte, Open Art,
Leonardi V-Idea e molte altre realtà. Il tutto nella più assoluta convinzione che stare
insieme aiuta. Lo spirito dell’associazione
è profondamente votato alla socialità.
Io credo che questo sia il grosso merito di
Metrodora. Aver aiutato a creare rapporti.
Di cosa ha bisogno Genova? Come ottenerlo?
Io credo che Genova, per quanto riguarda
aspetti puramente musicali, abbia bisogno
Smesciarsi
litiche giovanili, Massimiliano Morettini, che
è giovane ed ha sempre avuto a che fare
con i giovani, visto il suo ruolo fondamentale
in ARCI, possa dare una svolta in tal senso.
Non nascondo che nutriamo parecchie
aspettative (nonché speranze) nella nuova
giunta comunale.
Ex-Otago alle Periferie 2006 - foto di Anna Positano
di rendersi conto che è arrivata l’ora di valorizzare il patrimonio culturale di cui è in possesso.
La città, le istituzioni, le fondazioni, i giornali, le
radio, le tv, non si rendono conto, nonostante il festival delle periferie sia uno degli eventi
più seguiti dai giovani genovesi; Metrodora
non accede a spazi importanti sui media se
non dietro pagamento di spazi pubblicitari. Non riceve finanziamenti nè da parte di
fondazioni nè da parte di enti pubblici. Non
viene ascoltata dalla politica che conta
se non nel momento in cui si cercano voti.
Le istituzioni che ci hanno aiutato si contano sulle dita di una mano. La circoscri-
zione VI Medio Ponente ed il suo Presidente Stefano Bernini, il Comitato delle
Manifestazioni del Medio Ponente ci hanno sempre appoggiato. In tempi passati anche la provincia ed il suo presidente
Alessandro Repetto hanno dimostrato
interesse concreto per ciò che organizzavamo. Per il resto è sempre e solo silenzio.
Metrodora è un’associazione seria e capace. La classe politica cittadina è sorda, pigra e sedentaria, specialmente per quanto
riguarda le politiche giovanili. Ma prima o
poi capiranno. Da questo punto di vista ci
auguriamo che il nuovo assessore alle po-
A guardare la vostra associazione da ciò
che organizzate (Magenta e le Periferie, in
primis), si ha l’impressione che l’intento di
Metrodora sia quello di rappresentare un po’
tutta la scena genovese, in un’ottica quasi
istituzionale di “parità di accesso”. E’ così?
Il nostro obiettivo è sempre stato quello di creare spazi per poter fare musica.
E abbiamo sempre cercato di rendere
questi spazi accessibili a tutti, anche a
costo di sacrificare un’identità musicale che in Metrodora è comunque forte
e precisa. Questo avviene soprattutto
in ciò che organizziamo durante l’anno.
La scelta dei gruppi che suonano al Festival
invece avviene principalmente cercando
di premiare i migliori percorsi artistici delle
band cittadine.
Partendo dal presupposto che una associazione nasca con l’intento di colmare un
vuoto, dei bisogni, qualora nascessero tante associazioni “di genere” o qualcosa del
genere, quale sarebbe il ruolo di Metrodora? Quale sarebbe il suo rapporto rispetto a
questa città?
Metrodora si colloca in una zona un pò
scoperta dell’associazionismo musicale
genovese. Da una parte ci sono poche associazioni che organizzano grandi eventi e
dall’altra tante piccole realtà che cercano
di combattere contro ogni difficoltà per
7 CMPST #2[06.2007]
Smesciarsi
“Se l’obiettivo è quello di risolvere un’esigenza non credo sia fondamentale che sia Metrodora a
farlo. Se qualcuno diventerà più
bravo vorrà dire che ci godremo qualche bel concerto in più.“
realizzare anche solo qualche concerto.
Noi siamo partiti dal basso e pian piano ci
siamo costruiti un’importante rete di contatti, abbiamo sviluppato competenze. A differenza di altre associazioni che nel tempo si
sono isolate, Metrodora è sempre rimasta a
contatto con i ragazzi che suonano in città
(in questo favorita dal fatto che gran parte
del direttivo è composto da insegnanti delle
scuole superiori) e molto spesso ha fornito
supporto per altre realtà che iniziano ad organizzare eventi. Nel caso dovessero nascere altre associazioni del genere Metrodora
dovrà continuare ad essere anche una porta d’ingresso ad alto tasso di competenza.
Se l’obiettivo è quello di risolvere un’esigenza non credo sia fondamentale che sia Metrodora a farlo. Se qualcuno diventerà più
bravo vorrà dire che ci godremo qualche
bel concerto in più.
Ultima domanda: perchè non coordiniamo la comunicazione tra i vari operatori?
Cosa è mancato perchè questo potesse
succedere?
In linea teorica sembrano tutti favorevoli, però non sono ancora visibili sforzi concreti in questo senso; eppure un ufficio unificato
di comunicazione tra le associazioni e verso
i media forse rappresenta l’ultimo tassello
(insieme a qualche struttura) per il definitivo
salto di qualità. Mi sbaglio? Avete programmi in questo senso? Come vi muoverete?
8 CMPST #2[06.2007]
Blown Paper Bags alle Periferie 2006 - foto di Anna Positano
Sono assolutamente d’accordo sulla centralità della comunicazione nello sviluppo
di attività culturali. E anche sull’idea che
si possa creare un struttura condivisa che
funga da coordinamento e collante. Perchè non si è ancora realizzata? Credo sia
solo un fatto contingente. Un’iniziativa di
questo genere ha bisogno di qualcuno
che tiri le fila, e probabilmente gli impegni delle singole realtà non hanno ancora
permesso di dedicare tempo alla cosa.
Metrodora in questi ultimi 3 anni ha ad
esempio lavorato insieme ad altre associazioni per ottenere la gestione della
struttura della ex scuola Anita Garibaldi
situata all’interno di Villa Rossi. Pochi giorni
fa è avvenuta la firma della convenzione
e si è iniziato cosi in via ufficiale il percorso
che porterà quella struttura ad essere uno
dei poli culturali più importanti di Genova.
Io lancio una proposta: se Villa Rossi diventasse la sede di centro di coordinamento?
Per me è un viaggio! Però ci sono, eccome!
Più info suill’attività di Metrodora su http://www.metrodora.net
Per sentire Fabrizio cantare
ht tp://w w w.myspace.com/
esmen
Produzioni
“ Si è creata una vera e propria
community di persone che facevano la stessa cosa: abbiamo iniziato a fare serate, a scambiarci
dischi, a lavorare insieme.“
Flexible
Intervista con Martino Marini / Mass_Prod
di Daniele Guasco
L AVO RO F LE S S I B I LE
Flexible non è solo una netlabel, e nemmeno solo l’organizzazione che sta dietro ad un festival: è un collettivo, una comunità di musicisti affiatata e produttiva che rappresenta il panorama genovese legato ai club e alla musica che li rende vivi.
Flexible è una realtà esplosiva e sempre sorprendente, conoscerla meglio è, se non una conferma, una splendida scoperta.
Per introdurre questo articolo devo prima
di tutto fare un mea culpa: pur frequentano spesso e volentieri i locali genovesi che
propongono dj set, pur ascoltando volentieri
un certo tipo di elettronica più orientata al
dancefloor, ammetto di non avere mai approfondito la mia conoscenza delle storie e
degli artisti che vivono questa realtà musicale.
Mi sono quindi recato con un carico di
curiosità a casa di uno degli artisti di spicco
di questo panorama cittadino per preparare
questo articolo. Martino Marini, in arte Mass_
Prod, è uno dei dj e musicisti tra i più attivi
nella Genova del nuovo millennio, da anni
il suo nome compare spesso e volentieri sui
manifesti attaccati per i vicoli e la sua musica viaggia per l’Italia già da molto tempo.
Mass Prod è uno dei fondatori del progetto Flexible, e proprio da qui abbiamo
fatto iniziare il nostro discorso:
Flexible è un’idea che nasce nello studio che avevamo vicino a piazza Embriaci, nel centro storico; studio che dividevamo con altri artisti come ad esempio
i Port-Royal. È nata da me e Goofo (il ragazzo che cura la parte video delle mie
esibizioni) con altri musicisti come Davide di Gennaro, e lì, parlando, abbiamo
deciso di ufficializzarla come Flexible.
Flexible in realtà era una cosa già iniziata
da diversi anni, un po’ quando è nata questa specie di nuova scena elettronica nel
centro storico, intorno al Bar Fly, nel 2004.
Da li in poi hanno iniziato ad aggiungersi persone come Robottino, Max, in
gran parte appassionati di elettronica;
da quell’esperienza abbiamo iniziato a
suonare e a produrre. Facendo questo
si è creata una vera e propria community di persone che facevano la stessa
cosa: abbiamo iniziato a fare serate, a
scambiarci dischi, a lavorare insieme.
Flexible nasce, quindi, naturalmente, anche per dare un riscontro fisico
del nostro lavoro, una testimonianza.
Poi bisogna contare che, fin da piccolo,
ho nella mia testa un’etichetta; ascoltando da sempre un sacco di musica, avevo
proprio il desiderio di autoprodurre i miei
lavori. Sono tanti anni che suono, anche
nel resto d’Italia, ma non ho ancora pubblicato un qualsiasi supporto fisico. Sinceramente perché preferirei autoprodurre la
mia musica e avere il controllo totale su di
essa, oppure trovare una etichetta di cui
mi possa fidare al 100%.
Flexible distribuisce la musica degli artisti che fanno parte di questo vero e proprio
movimento attraverso la rete, utilizzando
quindi il sistema della netlabel, metodo
che sta prendendo sempre più piede anche in Italia. Le ragioni che portano a questa scelta sono molto diverse a seconda di
chi le intraprende:
9 CMPST #2[06.2007]
Produzioni
i podcast. Proprio questi ultimi sono nati
per rendere ancora più fruibile il progetto;
che, forse è più grosso della città in cui viviamo, e viene, per adesso, capito molto
di più al di fuori. Per esempio, per rimanere all’argomento podcast, durante il
secondo Flexfest a Genova, abbiamo
provato, a inizio serata, a regalare alla
gente quelli registrati al festival dell’anno
precedente. Le persone che sono venute
a prendere questi podcast saranno state quattro o cinque, e le conoscevamo
già tutte. Una ragazza di Roma che ha
saputo questa cosa, non so bene come,
ci ha scritto, ha voluto delle informazioni
e ne parlerà, addirittura, nella sua tesi di
laurea sulla comunicazione multimediale.
Sono proposte che, per ora, sembrano attirare maggiormente l’attenzione da fuori,
piuttosto che a Genova.
Noi siamo piuttosto discreti, cerchiamo di
evitare di diventare spammer. Certo, facciamo un minimo di pubblicità, ma non siamo decisamente alla ricerca delle migliaia
di download o di accessi; siamo, piuttosto,
interessati maggiormente a rapportarci in
maniera più umana con le persone. Diciamo che è una cosa che facciamo inizialmente per noi; il riscontro cui teniamo di
più, quindi, è quello che otteniamo in maniera immediata, da chi ci scrive, magari
dopo avere scaricato la prima release o
10 CMPST #2[06.2007]
Quindi non sono l’unico a dover fare penitenza per il mio atteggiamento di relativo interesse/disiniteresse per la club culture genovese! A questo punto mi è venuto
spontaneo chiedermi cosa ne pensa chi
sta al di là della consolle, sopra la pista,
delle persone che si trovano sotto di lui: se
ci sia ancora quel collegamento tra musica da ballare e tamarri, se ad andare al
di là del muovere un po’ gli arti e il bacino
siano solamente gli addetti al settore:
Tendenzialmente in tutta Italia la club
culture si divide tra gli addetti ai lavori, che sono i nerd, e quelli che vengono
alle serate che sono quelli in canottiera col fischietto. Più o meno il pubblico
può essere grossolanamente diviso così.
A Genova abbiamo avuto per anni una
scena underground molto bella, molto
piccola ma veramente carina; poi, ovviamente, quando suonavo Mark Houle non
avrei mai pensato che, un giorno, sarebbero passati quegli stessi dischi a manetta su
Radio Deejay, con il vocalist che parlava
sopra, tanto che molte persone, personaggi e dj si sarebbero mossi verso quei suoni;
invece, adesso, tutte le cose che erano
ultra-underground, ad esempio Matthew
Dear, sono diventate il suono mainstream.
Qui a Genova, il centro storico più che il
resto della città, si sta popolando di personaggi che non lo avevano mai frequentato;
prima era molto più hardcore per così dire.
Quando ho iniziato a suonare certe cose
ero considerato un fighetto da chi mi vedeva poco underground, e, viceversa,
eccessivo da chi era abituato alla house;
ora, bene o male, tutti vogliono suonare, e
suonano, la musica che mettevo già allora.
Al Mascherona abbiamo passato un anno
molto intenso, con un mucchio di persone
molto affiatate, come Robottino e Modus
che lavorano in coppia, Mastafacktor,
due vecchie pietre miliari dell’elettronica genovese, io e Orazio, Punknown,
Mauro Sars, dj storico del locale, Giovanni Verrina e Molex; mentre ,da fuori Genova, hanno partecipato Winstan, che
è un ragazzo di Bergamo, Criss di Torino
che, per quanto mi riguarda, è uno dei
migliori produttori italiani di elettronica,
e Phooka, che è un ragazzo di Roma
che pubblica per la Homework records.
Con loro non è stato soltanto un anno di
clubbing inteso come semplice lavoro,
fare l’ospite, suonare, salutare e andarsene; abbiamo invitato più volte le stesse
persone per farle partecipare al suono
della nostra città, creare un collegamen-
Produzioni
“Il bello di Genova è che la
parte di pubblico che ci
segue crede
fermamente nel
nostro progetto”
to, un network principalmente artistico; infatti, ogni volta che sono venuti a suonare,
si componevano le esibizioni tutti assieme,
senza musicisti d’apertura andando quasi
verso una forma più vicina alla jam session:
al punto che, l’ultima volta, eravamo in tre
a suonare contemporaneamente.
Credo che proprio il Mascherona sia il
locale con questo genere di musica nel
quale ho passato il maggior numero di
serate. Era facilissimo che il venerdì sera
verso le 3 mi trovassi dentro il piccolo club
genovese e sono rimasto parecchio rattristato quando ho saputo della sua chiusura
poche settimane fa. Chiusura di cui si sono
conosciute in modo piuttosto frammentario le ragioni.
Quella del Mascherona è stata una
scelta di chiudere, una scelta di Mauro
appoggiata anche da noi che ci abbiamo praticamente passato tutto l’anno.
Quando i dj che chiamavamo a suonare
da fuori Genova hanno saputo che stava
per chiudere sono venuti tutti spontaneamente per suonare durante l’ultima serata.
Per quanto sia un dancefloor molto particolare, molto piccolo, sono rimasti sempre
tutti molto contenti.
Il Mascherona è stata comunque una
delle basi del Flexfest, l’evento che già da
due anni viene organizzato da Martino e
gli altri ragazzi di Flexible e che, nell’arco
di due giorni e con diverse tappe nei lo-
cali genovesi che aderiscono all’iniziativa,
porta, per intere serate, musica elettronica
di altissima qualità in città, permettendo di
assistere ai dj-set di artisti che vengono da
tutta Italia e di conoscere ancora meglio
quelli che popolano le notti cittadine.
Sono state due esperienze fantastiche.
Impegnative, certo, ma, essendo state organizzate da noi ragazzi, senza un capo,
la cosa ha per ora sempre funzionato. La
cosa piacevole dei Flexfest è stata che
hanno avuto un buon riscontro da parte
del pubblico; anche se non sempre particolarmente numeroso quanto partecipe,
soprattutto durante il secondo festival piagato da un caldo quasi tropicale per il periodo, riuscendo, comunque, a destare un
interesse enorme da parte delle istituzioni.
In realtà, non ero intenzionato a fare un secondo Flexfest, ma poi, parlando con i ragazzi di Arciliguria, si sono dimostrati molto
interessati a farne un altro. Evidentemente
era piaciuto l’evento, sommando anche
il buon risultato ottenuto al Goa Boa 06,
con il concerto di Ellen Allien e Apparat.
In particolare, la più grossa sorpresa che
ho avuto in queste due edizioni, a parte il
bellissimo finale al Mascherona, sono stati il
successo al Mentelocale, normalmente locale non portato a questo genere di iniziative, e lo stupore che ho provato al Milk Club,
dove non avevamo mai lavorato, un locale
dai presupposti artistici quasi agli antipodi
rispetto a quello che facciamo di solito.
Al Milk abbiamo proposto un live set a cui
il pubblico ha reagito in maniera incredibile, hanno iniziato i Tantotempo che forse
sono la parte più sperimentale di Flex, un
incrocio tra dubstep, field recording, drone, musica sperimentale, con sotto i video
foto di Sara Montali
di Goofo ed Eleonora Chiesa. Beh al Milk
c’era più gente a sentire questa musica
nella stanza che distratti al bar o a fumare
fuori. Da lì in poi è stato un crescendo.
Si può tranquillamente dire che il panorama elettronico genovese collegato alla club culture non stia certo fermo
con le mani in mano, per quanto magari
possa essere considerato periferico rispetto a quello rock o a quello indie.
Flexible, invece, quasi di soppiatto, mostra
l’incredibile forza di questa scena, tanto che
11 CMPST #2[06.2007]
Produzioni
Forse il pubblico della scena rock genovese lo vedo un po’ più frammentario, per
quanto, magari, più numeroso.
Sembra quasi che il panorama genovese legato all’elettronica più dance non
abbia nessun problema...
Manca secondo me qualcuno culturalmente pronto che abbia e possa investire
del denaro per creare qualcosa, una struttura legata al clubbing su scala maggiore.
Dal punto di vista del pubblico quello
che più mi è dispiaciuto vedere quest’anno e stata la gente che entra nei locali
dove si fa elettronica, si guarda attorno, ed esce senza neanche ascoltare.
Al primo anno del 74 chiudevamo alle
3, 3 e mezza, questo perché a mezzanotte il locale era pieno di persone che
ballavano; si era creata una cerchia di
appassionati, gente di tutti i tipi, che veniva per la musica, non solo per il locale.
Servirebbe una struttura diversa, più grande, attrezzata, con una certa produzione,
meglio coordinata.
foto di Anna Positano
a fine Giugno si terrà un Flexfest a Pontedera,
facendo varcare non solo i confini cittadini
ma anche quelli regionali a questo evento.
Ma, del resto, partendo dallo stesso Mass_
Prod, i rappresentanti di questo movimento
già da parecchi anni girano per i migliori
locali nazionali dedicati a questo tipo di
musica.
Ora come ora mi sembra che sia un
grande momento per la musica genovese. Vedevo il calendario del Miami (Festival organizzato a Milano dal sito internet
Rockit ndr) a cui interverranno parecchi
12 CMPST #2[06.2007]
gruppi genovesi. A Genova facciamo un
sacco di cose, non solo nell’elettronica.
Il bello di Genova è che la parte di pubblico ci segue crede fermamente nel
nostro progetto, tanto che quando abbiamo partecipato ad Elettrowave (la
selezione per DJ del fu Arezzo Wave
ora Italia Wave ndr) una buona rappresentanza di persone della nostra città
ci ha seguito fino a Milano e Bologna.
Flexible è stato accolta molto bene
come idea, tanto che quest’anno avremo un intero palco al Play festival.
Ho sempre trovato interessanti, quando
non addirittura bizzarri o semplicemente
curiosi, i percorsi che portano determinati artisti dai loro albori nel mondo della
musica fino al punto in cui sono adesso,
particolarmente per quanto riguarda coloro che compongono musica elettronica.
Non potevo certo esimermi dall’indagare
sul percorso creativo compiuto da Mass
prod.
L’elettronica mi è piaciuta sin da subito, anche se mi sono spostato verso la
dance solo in seguito. Avevo un vecchio
gruppo, i Selene Riot, facevamo una spe-
Produzioni
cie di techno-punk; avevo delle basi che
facevo, ai tempi, con un software su computer: ma era il 1998, un modem costava
cinquecento mila lire, un masterizzatore
anche, e trovare programmi musicali non
era così semplice. Io lavoravo con la prima versione di Fruity Loops, Logic e Cool
Edit Pro: per trovare un campione dovevi prenderlo dai dischi per forza. Avevo un solo synth e suonavo con quello.
In quel periodo poi l’elettronica da dance floor era la progressive, la techno, la
musica da pastiglie: una merda in poche parole. È rimasta un po’ la concezione della discoteca in questi termini, ma,
questo ci ha dato una forza incredibile:
questa nuova generazione che fa godere
alla dance italiana un momento, questo,
di altissimo livello qualitativo. Anche se
troppa gente, appartenente alla fine degli anni novanta, è uscita dalla porta per
poi rientrare di soppiatto dalla finestra...
Ora sto per partire con questo progetto
della Levi’s che ha scelto me ed altri tre dj
italiani (Rufus, Mammarella e Deepalso):
ci faranno fare delle gare uno contro l’altro e si preannuncia un’esperienza molto
interessante.
Devo dire che, da esterno a questo ambiente dell’elettronica legata al clubbing,
ho notato, dalle parole di Martino, un
maggior legame tra i vari musicisti rispetto a quello che si crea all’interno di quello
indie: mi è sembrato che i legami siano
molto più forti, che non comprendano piccole cerchie di gruppi che si unisco solo in
sporadiche occasioni d’incontro. Ragazzi
come quelli di Flexible parlano poco e lavorano tanto, e i risultati si vedono sia dal
foto di Sara Montali
punto di vista artistico che da quello dei
risultati e delle soddisfazioni raggiunte.
Ovviamente le invidie ci sono, ma ci si
diverte molto anche suonando per piccole cifre, e le possibilità di incontro sono
tantissime.
Quello che più mi ha colpito di Mass
prod è l’entusiasmo, la felicità con cui parla dei notevoli successi raggiunti sia da lui
che dalla cricca di Flexible, ma anche la
serenità con cui tratta i problemi del panorama dance genovese, così lontano da
quello indie o rock ma con le stesse esigenze, con gli stessi limiti all’interno dei
confini cittadini.
Mentre mi preparo per lasciare
casa sua mi fa leggere una frase presente su un loro volantino che credo riassuma tutto quello detto finora:
“eliminare gli inutili limiti che troppo spesso ghettizzano ogni fermento culturale,
crediamo nel confronto e nella flessibilità
come unico mezzo per la comunicazione
contemporanea”.
Più info sulle attività di Flexible su
http://www.flexible.it/
su
Mass_Prod
su
http://www.myspace.com/massprod
13 CMPST #2[06.2007]
Cronache Vere
“Sta di fatto che non so dire
ancora adesso se ero oppure sono un punk. Di sicuro ero
molto impegnato politicamente.”
Metal Body / V5L
Intervista con Claudio Torlai
di Marco Giorcelli
PLASTIC PARTY
Quando penso ad un genovese doc, una delle prime persone che mi viene in mente è Claudio Torlai: una ruvida, burbera, brontolona umanità
come poche ne ho conosciute in città. Un personaggio intrecciato con
la superba fino al midollo. Qualcuno che, avendo vissuto la proletaria
giovinezza a cavallo tra settanta e ottanta può entrare, di buon diritto,
tra i “reduci” di un periodo storico contemporaneo molto importante per
Genova. Una burrascosa primavera che ha attraversato, oltre che politicamente, gli anni più caldi e stimolanti della rock indipendente genovese. Claudio, ormai da oltre quindici anni è il fonico residente sulle produzioni del Teatro Stabile di Genova. Uno spirito tutt’altro che conciliato.
Difficile essergli simpatici, difficile resistere al suo incontenibile umorismo.
Praticamente nessuno conosce i Giardini
Baltimora, forse nemmeno gli stessi genovesi,
ma se nomini i Giardini di Plastica, nessuno ha
alcuna esitazione. Direi che questa potrebbe
essere una buona introduzione o presentazione per chi ha vissuto in prima persona e attivamente la propria giovinezza a cavallo tra
14 CMPST #2[06.2007]
anni settanta e ottanta. A Genova.
Come si potrebbe cominciare a raccontare la mia vita di ventenne proletario nella
Genova a cavallo tra gli anni ‘70/’80? Siamo
nel 1981 o forse 1982 e nei fondi di quello che
una Giunta di Centro-Sinistra chiamerà “Centro dei Liguri” riesco ad organizzare con il mio
gruppo musicale ed altri amici il Plastic City
Party. Credo che poche persone lo ricordino,
nonostante fosse un’esperienza interessante
considerate le varie espressioni artistiche proposte e le installazioni scenografiche ritrovate
poi, “per caso”, nel seguente tour dei Matia
Bazar (!!?). Una sera, parlando con amici e
riferendomi alla nostra rassegna, esclamai:
“Ma questi sono proprio giardini di plastica!”
Rivendico così la paternità del nome dato
ai Giardini Baltimora, toponimo che nessuno
più ricorda.
Oggi come oggi, grazie alla diffusione
di My Space e dei Cd-r, qualsiasi gruppo di
adolescenti può produrre e diffondere la propria musica. Questo è buono, ma al contempo, genera una saturazione/appiattimento
produttivo nel quale è difficile orientarsi come
utente (esiste ancora l’ascoltatore medio o
siamo tutti, in qualche modo, diventati musicisti tout-court?). Raccontaci il panorama
musicale genovese fine anni settanta partendo proprio dalle tue esperienze.
Mi preme ricordare il nome di due gruppi
musicali dei quali ho fatto parte: i Metal Body
e i V5L. In entrambi ero il cantante ed occasionalmente il bassista. Ricordo una grande
Cronache Vere
Le istituzioni dovrebbero investire nelle proposte dei giovani
evitando di strumentalizzarle.
fatica solo per fare delle prove, figurarsi affrontare l’organizzazione di concerti o poter
fare anche solo un demo! Con Franco e Roberto Sofia, Remo Brunelleschi, Franco Adami
(componenti dei V5L) ed altri tra cui Totò Miggiano e Rolando Pozzani, mi sono messo in testa di organizzare dei concerti. E con grandi
fatiche abbiamo portato a Genova i Monochrome Set, Siouxsie and the Banshees,
ed infine Nico dei Velvet Underground al
mitico Teatro Massimo del Campasso, dove
abbiamo suonato come gruppo spalla in
un’indimenticabile serata! Poi ho partecipato al famoso concerto alla Sala Chiamata
del Porto nel 1980, in cui ho assistito ad atteggiamenti di divismo da parte di alcuni che,
come il tempo ha poi dimostrato, erano fuori
luogo. Queste pose istrioniche ed eccessive,
quanto innaturali e poco genuine, forse sono
da ricondurre al fatto che tra noi c’erano persone che erano arrivate a definirsi punk solo
perché qualche amico gli aveva portato
una rivista da Londra. Per me, cresciuto nella
Valpolcevera, a Certosa prima e più tardi a
Sampierdarena, è stato un percorso artistico
del tutto conseguente alla mia condizione
sociale. Sta di fatto che non so dire ancora
adesso se ero oppure sono un punk. Di sicuro
ero molto impegnato politicamente. Ricordo
con tenerezza che nel 1971, all’età di appena 11 anni, andavo a vendere l’Unità porta
a porta. Allora si diceva “fare diffusione“ e si
cominciava da lì, quella era la gavetta.
Ricordo il mio impegno nelle Feste dell’
Unità, quelle di quartiere. Ho cominciato nel
PCI, i vecchi della Valpolcevera mi hanno insegnato tante cose: come dimenticare i loro
racconti sulla Resistenza o quelli sui primi scioperi? E le loro lezioni sulla storia del proletariato! Nel 1977 ero in Autonomia Operaia.
Tornando alla musica ricordo con affetto gli
Infexion, Alan Lads e Kopf Krank, solo per
fare qualche nome. Sicuramente è stato un
periodo di grande fermento. Piazza de Ferrari,
il Carmine, via Isonzo: posti dove eri sicuro di
trovare amici o conoscenti. Non dovevi telefonare, era come se tutti avessimo un appuntamento ogni sera! Non si poteva non uscire!
Purtroppo molti di quelli che incontravi, molti
di quelli con cui facevi due chiacchiere o fumavi una sigaretta adesso non ci sono più:
falciati dall’eroina. Chi mai farà una indagine seria su quanti ventenni di allora sono stati
portati via dall’eroina? Sicuramente verrebbero fuori numeri da far gelare il sangue.
Perché Genova, in ambito musicale, viene
sempre e solo associata al trittico Paoli, De
André e Fossati, in termini di classici, mentre
per roba moderna ricordiamo nientemeno
che Matia Bazar, New Trolls e Delirium? Non
vi è in questo qualcosa che suona come un
sortilegio? O forse è solo ciò che si merita la
città?
Genova è una città conservatrice: lo stesso De Andrè ha preferito vivere in Sardegna.
Solo dopo morto è diventato il grande artista ,
meritevole di essere oggetto di pellegrinaggi!
Degli altri non voglio parlare: è roba da case
discografiche e con Genova non hanno
niente a che vedere. Ci sono solo nati, ma
nella mia città non hanno lavorato.
Mi risulta che molti artisti, negli anni, per poter continuare a lavorare siano migrati verso
altri lidi, forse più fertili o, comunque, con più
spazio. Condividi queste scelte, nate credo
dalla necessità? Oppure pensi che il territorio
non debba essere abbandonato comunque,
a discapito della creatività o della libertà
espressiva?
Credo che le persone che avevano qualcosa da dire avrebbero fatto meglio a rimanere. Avrebbero sicuramente contribuito a
rendere più viva culturalmente una città che
ha dato i natali a tantissimi artisti, da Montale in poi, ma che nessuno conosce. Oppure,
chi la conosce, magari solo perché ha preso
il traghetto per la Sardegna, pensa che sia sicuramente bella, ma un po’ triste!! “Non c’è
niente, non c’è niente da fare!!”. Sicuramente
è più facile andare a Milano, la Milano che
“lavora”! Io sono rimasto, ma è anche vero
che Genova sa essere molto matrigna. Le
istituzioni dovrebbero investire nelle proposte
dei giovani evitando di strumentalizzarle.
Tu credi che il circuito cittadino istituzionalizzato potrebbe o dovrebbe investire di più
nelle nuove proposte locali oppure, al contrario, agevolare ospitalità più alternative o di
ricerca? Tentativi riusciti o, talvolta, in sviluppo
ne abbiamo costantemente sotto gli occhi:
mi riferisco al blasonato Festival del Mediterraneo, al Festival Andersen (benché non proprio genovese) e allo stesso Goa Boa.
Negli ultimi anni, con Borzani, qualcosa si
sta muovendo. Mi riferisco ai concorsi “Cerca
Talenti” e alle rassegne organizzate dall’Assessorato alla Cultura, per promuovere i giovani cineasti o esperienze di teatro sociale.
Non disdegno eventi, soprattutto estivi, come
il Goa Boa, il GezMatazz o il Festival del Mediterraneo. Sono segnali di nuove vitalità.
15 CMPST #2[06.2007]
Export
“La sfida è riuscire a mantenere il ritmo e la tensione all’interno di un genere di musica
decisamente più atmosferico.“
Stalker / Kafka
Intervista con Luca Giribone
di Matteo Marsano
EVOLUZIONI E RIPETIZIONI
Tra un discorso impegnato, un film proto-punk anni ’80, un piatto di
tortellini al sugo ed un caffè, il resoconto di una lunga chiacchierata
pomeridiana con Luca “G” Giribone, il disponibilissimo chitarrista degli
ormai defunti Kafka – gruppo che non ha certo bisogno di presentazioni – all’oggi attivi con il nuovo moniker Stalker, un suono più rallentato
e monolitico, e al debutto assoluto il 13 giugno al Lab. Buridda, ad animare un concerto – benefit per la nostra neonata fanza che si preannuncia più pesante di una quadriglia di pachidermi. Buona lettura.
Volevo iniziare quest’intervista partendo
dalla fine: il progetto Stalker. Siete nella
bill del concerto-benefit per Compost del
13 giugno alla Buridda, cosa di cui siamo molto felici. Dopo più di dieci anni di
Kafka, con alle spalle un passato da nume
tutelare della scena hard-core genovese,
sei da poco alle prese con questa nuova
creatura, che per quel poco che ho sentito mi pare avere un’anima più modernista
rispetto al sound che contraddistingueva
il tuo gruppo precedente. Spenderesti due
parole sul tuo nuovo progetto, sulle vostre
aspettative e iniziative nel futuro prossimo,
e ci diresti in che misura lo ritieni una continuazione delle tue esperienze di questi
16 CMPST #2[06.2007]
anni, o piuttosto una rottura con la musica
che avete proposto sinora?
Rispetto al progetto Kafka non vedo
alcuna interruzione o rottura. Siamo tutti
molto contenti di ciò che abbiamo fatto
fino ad adesso, delle persone che abbiamo conosciuto e delle esperienze che
abbiamo condiviso, perciò mi auguro
che nel futuro continueremo sulla stessa
strada. Anche dal punto di vista “etico”
l’approccio che vorremmo avere con il
nuovo progetto è sulla stessa linea del precedente. L’unica differenza tangibile, per
quello che mi riguarda, è nello stile, non
nel senso che ci vestiamo diversamente
(risate), bensì nelle sonorità e nella conce-
zione delle canzoni: mentre i Kafka erano
molto istintivi e diretti, gli Stalker risultano,
nelle nostre intenzioni, molto più dilatati
ed ossessivi, e quindi anche l’approccio
all’ascolto è molto diverso. Le canzoni
sono molto più lunghe e meditate, e mentre nel precedente progetto l’importanza
era data al “tiro” sempre e comunque,
adesso prediligiamo invece la modularità, aggiungendo ad ogni ripetizione un
elemento nuovo da ascoltare. Ovviamente la sfida è riuscire a mantenere il ritmo
e la tensione all’interno di un genere di
musica decisamente più atmosferico. I
progetti che abbiamo in cantiere sono la
realizzazione di un disco - la prossima settimana registreremo al Green Fog Studio
- e la ripresa dell’attività concertistica, ad
iniziare dalla data alla Buridda in supporto
a Compost e dal Feel Their Pain Fest (23
Giugno – La Spezia). Sarà curioso vedere
come riusciremo a gestire gli impegni del
gruppo, adesso che lavoriamo tutti e due
di noi stanno per diventare papà.
L’hard-core mi è sempre sembrato un
genere più “immobilista” di altri, dove a
fronte di un’evoluzione nel discorso musicale, hanno importanza cose come l’attitudine, la condivisione e l’espressione di
determinate convinzioni ed idee, ed il rispetto di una certa cifra stilistica. Tuttavia,
negli anni si è osservato un mutamento
delle sonorità. Come giudichi l’evoluzione
stilistica che questo tipo di musica ha avuto dagli anni ’80 fino ad oggi? E quali sono
le caratteristiche principali che una band
dovrebbe avere per piacerti, per incontrare il tuo interesse? Vuoi parlarci della
scena hard-core genovese, esiste ancora, quali obiettivi si sono raggiunti, quali le
cose che mancano?
Non sono d’accordo sull’immobilismo
della scena HC. In realtà vedo questo genere come un immenso calderone dove
c’entra un po’ di tutto, dai gruppi fast-core
alle sperimentazioni più estreme come
quelle degli Agoraphobic Nosebleed. Ma
forse giudicare la scena HC come un catalogo di gruppi che fanno stili differenti di
musica non centra il nocciolo della questione. In realtà le persone che si ritrovano
a far parte di questa scena sono appunto
legate dalla condivisione di un’attitudine particolare e di alcuni valori cardine,
come potrebbe essere la scelta DIY, o comunque sono persone generalmente interessate a discutere criticamente la realtà.
In realtà poi, per quanto io condivida le
passioni o molti degli ideali della scena,
non ho mai avuto un approccio fideistico
e integralista. Più semplicemente mi piace
portare avanti le attività che coltivo con
le persone che frequento. Riguardo alle
caratteristiche che un gruppo dovrebbe
avere per piacermi, non ho nulla da dire.
Mi piacciono le cose più disparate, senza
alcun nesso causale. Sulla scena HC: certo che la scena esiste! Ci sono un sacco di
persone che si prodigano per la “causa”,
gruppi come i Downright, o persone tipo
Alessio di “Nuova Leva HC” (vedi intervista
su questo stesso numero). Purtroppo i movimenti underground sono sempre legati a
realtà estremamente contingenti, nel senso che facendo queste attività per passione le persone attive in questo ambiente
non sono in grado di organizzare attività
con continuità. Comunque a Genova la
Export
“Purtroppo i movimenti underground sono sempre legati a
realtà
estremamente
contingenti, nel senso che facendo
queste attività per passione le
persone attive in questo ambiente non sono in grado di organizzare attività con continuità.“
scena esiste da un sacco di anni, e i concerti sono abbastanza regolari. Come
raggiungimenti per la scena HC non vedo
alcuna “missione” prioritaria, certo mi
piacerebbe che la partecipazione alle
iniziative proposte si allargasse anche alle
persone sinora esterne ad esse.
Rimarcare il fatto che la parola “hardcore “ non indichi in sostanza solo una
forma estremizzata di musica punk, ma
anche un ethos e una determinata visione del mondo sarebbe scoprire l’acqua
calda. Personalmente credo che molta
della potenza comunicativa di questo linguaggio derivi anche dal suo coniugare
l’aggressività che musicalmente lo caratterizza alla limpidezza delle idee espresse
nei testi. In maniera diretta, priva di orpelli:
e con una certa urgenza che rispecchia
la consapevolezza della rilevanza, anche
sociale, del messaggio di cui si fa portavoce. Suonare hard-core è davvero così
catartico e liberatorio come sembra, e per
te personalmente che cosa ha significato
farlo, in questi anni?
Probabilmente per me suonare in un
gruppo “furious” rappresenta infatti una
17 CMPST #2[06.2007]
Export
sorta di liberazione. Direte voi, da che
cosa? Beh, le cose possono essere tante.
Nello specifico, a volte ho difficoltà ad accettare la compostezza e la regolatezza
della vita quotidiana. Sono le stesse cose
delle quali parlavo al mio Professore di
Economia, e lui, placidamente, mi rispondeva: sono scelte! Ebbene sì, ma a che
prezzo? Penso ad esempio alla mia carriera universitaria: 6 ore al giorno (supposte) a seguire lezioni di materie astruse (ho
fatto ingegneria), e una volta finito devi
studiare tutto da capo perché i professori
scrivono così velocemente sulla lavagna
che a malapena riesci a copiare. La sera
poi, distrutto dall’agonia di una vita routinaria, solo i film dei fratelli Vanzina alla TV
(la faccio un po’ tragica). Ma parlavamo
di rinunce, e direte voi: quali? Per esempio
andare al mare o al fiume, leggere, guardare i film di Jodorowsky, suonare... probabilmente qualcuno potrebbe giudicarmi
un lazzarone per il fatto stesso che ipotizzi
queste alternative allo studio (che poi per
uno studente equivale ad un lavoro) , opportunità che in realtà è un privilegio - e lo
so benissimo - ma la mia natura è questa.
Allo stesso modo, ogni ora dedicata ad
un’attività non produttiva, o meglio non
remunerativa, equivale ad una rinuncia
in favore di qualcosa che la mia natura
mi suggerisce di fare (non vorrei sembrare demotivato nello studio o nel lavoro, in
realtà l’ingegneria mi piace molto e sicuramente è stata per me una scelta consapevole). Quindi, suonare nei Kafka o negli
18 CMPST #2[06.2007]
Stalker rappresenta uno spazio della mia
vita che dedico unicamente a ciò che
mi piace, senza alcuna finalità esplicita,
come ad esempio diventare famoso o ricco, e penso sia facilmente comprensibile
che nel farlo si esprima una qualche forma di liberazione o catarsi.
Il tentativo consapevole di far riflettere
la gente, di portare all’attenzione tematiche di portata sociale e civile, incentivando un atteggiamento attivo e non fatalista
nei confronti della vita e delle difficoltà si
scontra decisamente con un diffuso habitus mentale che vedrebbe questo tipo di
atteggiamento quasi come una prevaricazione della libertà individuale, in sostanza
come una predica non richiesta. Secondo
te a chi giova questo disimpegno, questa
pigrizia mentale, questo menefreghismo
individualista che è poi in certo modo anche un dictat della società dei consumi? E
a tuo parere come si colloca la mentalità
genovese, con la sua diffidenza e il suo riserbo, in questo discorso?
Ovviamente concordo sul fatto che
l’indolenza fisica e mentale siano esecrabili (l’espressione è un po’ forte, ma non
dimenticate che sono un brutalissimo
hard-corer!). Non sono il tipo da proclami,
e l’unica cosa che posso dirti con certezza è che, purtroppo, l’autoreferenzialità e
l’individualismo sono due effetti collaterali
della nostra società, intesa non solo come
società dei consumi ma anche come società del benessere. Riguardo il modus vi-
Kafka - foto di Anna Positano
vendi dei genovesi non ho molto da dire:
forse è vero che i genovesi sono un poco
più chiusi rispetto ad altri, ma è solo un
piccolo difetto che si risolve al secondo
incontro.
L’etica del Do It Yourself, che da sempre caratterizza la musica indipendente
e in particolar modo il punk e l’hard-core,
si trova ora a fare i conti con una realtà
mediatica sempre più informatizzata,
Export
con la possibilità di far sentire la propria
voce in breve tempo, e raggiungendo un
numero di potenziali interessati prima impensabile, anche attraverso fenomeni da
cultura di massa come Myspace.com. Per
ricollegarmi alla column di Matteo Casari
sul primo numero, pensi che questo tipo di
“democrazia orizzontale” che possa effettivamente dare una mano alla causa, o
c’è piuttosto il rischio di fare semplicemente numero all’interno di un ingranaggio
in ultima analisi non troppo dissimile da
quello contro il quale tale etica si è sempre apertamente schierata? Non trovi che,
a fronte dei tantissimi risvolti positivi, la
posizione “passiva”, da consumatore che
questo sistema incentiva – con l’annessa
possibilità di saturazione dell’informazione
– abbia i suoi rischi? E come ti prospetti il
futuro in questo senso, con un grado di te-
lematizzazione sempre più spinto, fanzine
incluse? Potresti parlare un po’ delle tue
esperienze di DIY, anche a beneficio di chi
magari vorrebbe intraprendere un discorso simile ed è alle prime armi?
In effetti apprezzo molto le possibilità
che i nuovi strumenti telematici offrono a
noi musicofili. Non sto ad elencare i palesi
vantaggi che la comunicazione digitale
mette a disposizione. Per quanto riguarda
l’overflow informativo e la passività delle persone nella scelta dei propri input,
penso che prima di imparare realmente
ad utilizzare un nuovo strumento debba
passare un po’ di tempo: la prima volta
che ho avuto la linea flat mi sono subito
riempito di gigate di musica che non riuscivo ad ascoltare e quindi a conoscere.
Con il tempo, però, sono diventato più
selettivo, e adesso la possibilità di reperire
del materiale introvabile a colpo di click
mi alletta parecchio. Penso quindi che
l’importante sia essere critici rispetto quello che si sceglie, nonostante questo costi
un po’ di impegno. Ovviamente il reperire
informazioni di qualità (o meglio, interessanti) dal Web è una faccenda piuttosto
seria: esistono un sacco di studi a riguardo
nel campo dell’information retrieval, ed
un sacco di modelli probabilistici come
quelli che usano i motori di ricerca, che
però funzionano e non funzionano. Il task
che ci proponiamo non è perciò facile da
perseguire, soprattutto per un utente neofita delle tecnologie informatiche. Ovviamente si presuppone che le persone che
si interfacciano ad un sistema del genere
abbiano un approccio attivo, altrimenti il
rischio è di venire risucchiati dal vortice del
consumo indifferenziato. L’avvento di questi nuovi strumenti ha purtroppo segnato il
declino di molti altri veicoli comunicativi,
quali le fanzine cartacee o i supporti fisici
per la musica. Lo dico con rammarico, in
quanto mi piace leggere le fanze o maneggiare un cd/vinile. Penso che, sebbene da un punto di vista funzionale vecchio
e nuovo siano quasi equiparabili (leggere
sul video rimane ben più scomodo che su
carta), sotto un profilo emotivo e sensoriale (l’appagamento dato dal maneggiare
un oggetto fisico tra le mie mani) l’equiparazione cade. L’avvento del Web è
stato condizionante anche per le piccole
labels indipendenti. Lo dico con dispiacere perché tutti sappiamo che di solito
le persone attive in questo senso non ci
guadagnano quasi niente e fanno tanto
bene alla scena. Solo che adesso che
senso ha stampare un disco se nessuno te
lo compra? In pratica le spese diventano
sempre più grandi, e gli incassi sempre più
magri. Questo è un dilemma che abbiamo anche noi come Stalker: alcuni di noi
vogliono il supporto fisico, altri dicono che
ormai è superato, quindi non saprei bene
neanche cosa consigliare a coloro che
volessero intraprendere un discorso simile,
ora come ora. Una volta avrei detto: fate
“Probabilmente per me suonare
in un gruppo “furious” rappresenta infatti una sorta di liberazione.“
19 CMPST #2[06.2007]
Export
“Sicuramente adesso sono più posato e riflessivo di un po’ di anni fa,
ma devo ancora affrontare la grande avventura del lavoro (...) e non so
come reagirò in quella situazione.“
un cd, scambiatelo, fate una piccola distro, andate ai concerti con la distro, ecc.
ecc. ecc., ma adesso...??
Parlando dei Kafka, cos’è cambiato, per
te personalmente e in generale nell’ambiente musicale, dagli albori di un gruppo
che è oggi un’istituzione dell’hard-core
genovese ad adesso? Ti va di raccontarci
qualche aneddoto, qualche concerto memorabile, dai primi fino al tour che vi ha
portato in Grecia, Turchia, Bulgaria e Serbia, al concerto per i dieci anni di Kafka
20 CMPST #2[06.2007]
tenuto nel 2004 al TDN?
Come ho detto prima, l’approccio è rimasto sostanzialmente immutato, quanto
agli aneddoti non mancano. Ovviamente
i concerti belli e fighi non si citano mai, per
cui passiamo direttamente alle disgrazie.
Tour 2004. Grecia. Ore 1800 sull’autostrada
tra Atene e Salonicco, in furgone si canta e
ci si diverte con James Brown sino a quando ci ferma la polizia di frontiera. Rabbrividiamo! La ragazza che ci ha organizzato
il tour è polacca e l’autista è lituano. Hanno regolari passaporti ma quando sono
entrati in CE gli ufficiali di frontiera si sono
dimenticati di fare i timbri. Prima il gelo e
poi la morte: ci portano in gattabuia, sequestrano Aga, Krilaz e il van e ci lasciano
appiedati fuori da Salonicco. Il mitico Natale 2004 l’ho passato il Plaza Democrazia
a Salonicco, ad aspettare che i cumpari
portassero le arance ai pericolosi sovversivi ingabbiati. Il giorno seguente tocca a
me il turno di andare alla stazione di polizia e spiegare al gendarme cubico e cattivo che volevo parlare col capo perché
l’ambasciatore italiano intendeva risolvere la situazione. Il capo è uno di quelli che
non da la mano, e delega uno scagnozzo
a risolvere il contenzioso. Dopo tre giorni
di trattative rilasciano Krilaz, mentre Aga
resta in gattabuia una settimana e poi la
rispediscono direttamente in Polonia.
Luca, secondo te cos’è la sanità mentale, e che cosa hai scoperto essere d’aiuto,
se non indispensabile, per conservare il
tuo personale equilibrio? Qual è insomma
la tua particolare ricetta per “non impazzire”, almeno dal tuo punto di vista?
Bella domanda, ma veramente difficile.
Potrei risponderti con una frase dei Frammenti, ovvero: “Mi alterno in un equilibrio
instabile tra gioia e dolore”. Non so che
cosa sia la sanità mentale, probabilmente
solo una definizione da manuale. Comunque se alludi al fatto di trovare un equilibrio personale, penso che la strada sia
assolutamente individuale e lunghissima.
Sicuramente adesso sono più posato e riflessivo di un po’ di anni fa, ma devo ancora affrontare la grande avventura del
lavoro (se va bene inizio il mese prossimo)
e non so come reagirò in quella situazione.
Forse la cosa che mi ha aiutato di più ultimamente è la ricerca di molteplici stimoli:
una volta ero un pochettino ossessivo nel
suonare la chitarra, mentre adesso continuo a farlo ma vedo film, vado in kayak,
faccio trekking, vado alle mostre, concerti, insomma cerco di trovare interesse nel
maggior numero possibile di attività.
Più info sugli Stalker su http://
www.myspace.com/dirtyblackstalker
Fanzine
“A Genova sicuramente mancano,
in ordine: batteristi, comunicabilità
e
socializzazione.“
Nuova Leva Hardcore
Intervista con Alessio
di Matteo Casari
TUTTA COLPA DELLE SCARPE
Che poi ci si rimane anche male, a furia di dire che la carta stampata
è morta, che i giovani non hanno più niente da dire, che non esiste più
l’etica e anche l’estetica non se la passa bene. Eppure qualcuno mette
ancora la mano nel costato del punk e si diverte pure a disquisirci sopra.
Con tre numeri all’attivo la nuova leva tiene viva la fiammella dell’HC-GE.
Si potrebbe tranquillamente iniziare
chiedendoti un po’ di informazioni sul
tuo mondo di riferimento. Già dal nome
e dal sottotitolo della tua fanzine, l’hardcore e il D.I.Y. sono elementi, evidentemente, imprescindibili nelle tue produzioni. Cosa vogliono dire per te? Potresti
provare a spiegarle in poche parole a chi
dell’indipendenza e dell’underground
conosce a mala pena l’esistenza?
Ciao Matteo... Spiegarti queste cose mi fa
un po’ scappare da ridere per il semplice fatto
che tu hai, sicuramente, molta più esperienza
di me nell’ambito, ma se proprio vuoi lo farò,
mio caro. Tanto per farla breve, l’impegno nel
punk hardcore e specialmente nel DIY deriva
fondamentalmente dall’impegno politico.
“Do it yourself” per me non significa fare le cose
a cazzo di cane (anche se magari più volte
mi è scappato) con la pretesa di essere punk,
piuttosto preferisco portare avanti un discorso
di qualità “editoriale” (se mi passi il termine) in
tutte le cose che faccio con NLHC e cercare
di confrontarmi con i prodotti più, diciamo...
industriali. Insomma, sbattere fuori il denaro
dalla cultura e dal divertimento, cercando di
far trasmettere sentimenti “umani” ai prodotti
che faccio uscire, lasciando perdere il discorso commerciale che spesso e volentieri non
serve alla crescita interiore di nessuno di noi.
Forse l’ho sparata grossa, l’ambizione è
troppa ma, del resto, Ian McKaye diceva in uno dei suoi innumerevoli gruppi
(mi pare Embrace o Egg Hunt): “Money
has nothing to do with the values of life”.
Poi da qui potrebbero partire altisonanti disquisizioni sui massimi sistemi, il capitalismo e l’anarchia, però adesso no, immagino lo spazio sia
tiranno.
So che sarò crocifisso in sala mensa per
questo parere personale e spero che tu mi
smentisca. Dal 2004 (quindi non sei più così
“Nuova Leva”) ti agiti e muovi in una città e
in un periodo in cui la scena hardcore latita.
Nonostante un passato anche piuttosto importante (Kafka, Heartside, Never Was...)
e un presente un po’ incolore (a parte gli or-
mai storici Downright, chi c’è?) cosa pensi
manchi e cosa pensi di poter fare, “positive
till death”, per non dover sempre e solo rimanere alla finestra a guardare le scene e
i gruppi delle altre città mentre spaccano
tutto?
Macchè crocifisso, è la sacrosanta verità.
Se mi permetti però, ti faccio un appunto:
la stagione “positive till death”, con buona
pace del tribunale hardcore straight edge
internazionale, l’ho passata da un po’. Diciamo che ora sono più... xnichilistax ahah...
Ma si che sono “nuova leva” ho 22 anni in una
scena dove la media si approssima ai 30! Poi
dentro mi sento, e penso che mi sentirò sempre,
un gran pivello. Quanto alla domanda, beh,
progetti in testa ne ho talmente tanti che tendo
a dimenticarmeli man mano che ne penso dei
nuovi... A Genova sicuramente mancano, in ordine: batteristi, comunicabilità e socializzazione.
A me, invece, mancano tempo, soldi e amici.
A Genova mi piacerebbe portare lo spirito della scena spezzina che a mio avviso per varie
ragioni è una delle migliori d’ italia e che negli
anni ha fatto uscire gruppi veramente validi
come Evolution So Far, Overturned e Army Of
Angry Youth (con i quali collaboro o spero di
collaborare in futuro) e continua a farne uscire molti altri di cui fatico a tenere il conto, uno
su tutti i Disagio. Insomma a Spezia mi sento
21 CMPST #2[06.2007]
Fanzine
a casa. Il fatto è che, spesso e volentieri, nella
“““scena””” (parlo a livello nazionale) ci sono
tante piccole divisioni e antipatie che sfociano
in indifferenza, se non malcelato boicottaggio. Per questo la vedo dura portare avanti
un discorso unitario. A onor di verità però c’è
da dire che forse molte divisioni non sono poi
così male, personalmente non ho niente a che
spartire con gruppi che nell’ambito del punkhc non condividono impegno sociale e logiche di emancipazione dal sistema economico
e che, quindi, implicitamente sviliscono l’hardcore a un genere musicale come tanti altri.
Si lo so, l’hai sentito tante volte questo ritornello.
Scusa, ma che ci vuoi fare, sono un tradizionalista. Mi permetto di darti un piccolo aggiornamento sulla scena ligure: sta nascendo un
nuovo gruppo new school (di cui non conosco
altre notizie) ad opera di volenterosi, di cui presto sentirete parlare. Probabilmente roba sulla
scia di Kafka e Purification. Poi parte degli
ex Kafka hanno fatto un gruppo chiamato
Stalker e fanno roba alla Cult Of Luna e Isis.
Inoltre qua e là organizzano concerti realtà
molto attive come Malevoci e Refoundation
(quest’ultima è una realtà sparsa in tutto il Nord
Italia, ma caso vuole che uno dei membri stia
proprio in provincia di Genova). Altro non so.
Tu produci e fai parte della DIY Conspiracy. Coprodurre dischi e altro materiale
è uno dei punti cardine dell’etica HC. Un
elemento che crea amicizie e collaborazioni trasversali da una parte all’altra della
nazione. Un ottimo metodo per porsi come
nodo locale per tutte le esperienze che fanno parte della cospirazione.
Si, coprodurre dischi è stata una mossa davvero azzeccata e mi ha permesso di fare un
mucchio di nuova amicizie, tutte molto valide.
Inoltre è gratificante sentirsi parte di un circuito
vivo e pensante anche se un po’ farraginoso.
Come dicevo prima l’autoproduzione permette di bypassare fastidiose logiche commerciali
che impedirebbero a lavori, anche validi, di
22 CMPST #2[06.2007]
vedere la luce, in quanto considerati poco redditizi. Per fortuna che a noi interessa il messaggio a differenza del reddito. Poi, vabbè, come
tutte le cose anche questa ha i suoi limiti: finchè
hai dei soldi che ti avanzano il discorso funziona, quando li finisci, come in questo periodo, ti
fermi anche perchè non sempre rientrano tutti.
Ma che ci vuoi fare?
dei concerti con una cadenza più stretta.
Cosa vuol dire andare ancora in stampa?
E cosa pensi del web 2.0, myspace, flickr
e tutti gli altri ammennicoli architettati per
Qui si fa un gran parlare di SIAE, diritti,
autori, Copyright e Copyleft, Creative Commons. Il tuo sito e le tue produzioni sono No
Copyright.
Esattamente, quello che vedi è tuo. Per
quanto mi riguarda non poteva andare diversamente visto il mio personalissimo percorso politico. Poi, cacchio, anche Guy Debord
lo diceva, “Le idee sono di tutti e devono
essere continuamente migliorate da tutti”.
La proprietà intellettuale non esiste, le idee
sono di tutta l’umanità e, se arrivassero gli alieni,
pure loro avrebbero diritto alla cultura, cazzo!
Quanto a Copyleft e Creative Commons non
sono troppo informato. La SIAE invece è una
gran porcata, invenzione tutta italiana per
spremere quattrini anche agli ultimi stronzi del
pianeta, come noi, per poi, ovviamente, andare a ingrassare politici (sembra qualunquismo facilone ma non lo è). Vorreste farmi credere che la SIAE difende gli autori e gli editori?
Che tutela i miei diritti sul lavoro intellettuale?
Ma per favore, ma se la guardia di finanza non
riesce nemmeno a far pagare le tasse a legioni di lavoratori autonomi pensate che riesca a
sgamare la gente che si copia il disco o fotocopia il libro? Naaaah. “Noi gridiamo NO SIAE,
NO SIAE diritti e tutele NO SIAE, NO SIAE non ce
ne frega un cazzo NO SIAE, NO SIAE gridiamo
ancora in coro!” (cit, chi la indovina senza essere skinhead, sennò è troppo facile, vince un
cielo stellato).
Hai fatto tre numeri della fanzine su carta.
A quanto pare ne hai in testa un quarto. E
hai anche un sito dove metti foto e report
cover disegnata dal Prof. Bad Trip
Fanzine
“Come no, fare una fanzine è
un culo ma di certo dà molta
più soddisfazione della Playstation e dei club di scambisti!“
aiutarti nel social networking?
Andare ancora in stampa significa cacare
sangue ogni volta con impaginazioni, stampanti balorde, chilogrammi di carta sulla schiena e disperati montaggi delle copie... Non per
niente con il quarto numero sta succedendo
esattamente questo. Però alla fine mi piace.
Andare in stampa significa voler lasciare traccia nella realtà materiale e non solo nella pararealtà internettiana, anche a distanza di anni...
Amo ancora adesso leggere vecchie copie di
Pain Act, Stewey’s Star e Il Postino Anarchico!
Del web 2.0 ne sento parlare da un po’, vedremo che piega prenderà; tutte le considerazioni al momento sono superflue. Flickr per me è
arabo, cos’è? In generale però tutto il social
networking è una cannonata anche se ha un
mucchio di “rovesci della medaglia”: del resto come tutte le tecnologie internet ha cose
buone e cattive... PRO: le informazioni volano
a velocità inimmaginabili fino a 10 anni fa, e
questo fa una paura cagna a chi ci vuole servi
e ignoranti. CONTRO: se preso per il verso sbagliato tende ad annichilire la tua vita sociale.
Non solo, esistono anche problemi di privacy
come il caso myspace che vende dati, fa ricerche di mercato analizzando i tuoi gusti... E
tutta una serie di cose rivolte al profitto di pochi.
Ciò non toglie che riuscire a essere in contatto
con persone agli antipodi del pianeta con un
costo in denaro ridotto sia una gran cosa, con
buona pace dei miei amici anarco-primitivisti.
Persino la versione cartacea di NLHC senza internet non esisterebbe.
Nell’avere a che fare con autoprodozioni,
un’aspetto importante sul quale si è spesso
interrogati è la distribuzione. Come riesci a
dare visibilità alle tue cose?
Questo è sicuramente l’anello debole della
catena. Spesso se si fa banchetto ai concerti,
gli elementi più modaioli della scena tendono a ignorare i dischi (per non parlare delle
fanzine) a favore di magliette, spille e toppe
(quindi ignorano il mio banchetto che non ha
niente di tutto questo). Avere un sito e un profilo myspace aiuta molto ma di certo non garantisce volumi di vendita (bleah, mi sento un
viscido economista) paragonabili al più sfigato
dei negozi. Di certo il DIY è dura che ti dia da
mangiare. Ma, forse, è anche giusto così: se
fosse un lavoro non avrebbe la stessa sincerità.
Poi ai flyer di carta non ci credo, anche se li faccio e a dio nemmeno, quindi non posso manco andare ad accendere ceri in chiesa per far
benedire il mio business; perciò, riassumendo:
non ho un metodo per vendere un sacco. Infatti non si vende un sacco. Come dice il Petralia di SOA recs “di trippa per gatti ce n’è davvero poca”.
Se alla domanda precendente hai risposto anche “con la partecipazione ai
concerti”, puoi forse provare a dirci cosa
rappresenti il momento del concerto e la
relativa presenza con i banchetti delle realtà più disparate. Su cosa significhi venire a
contatto con queste produzioni in questo
contesto così particolare.
Ehi, ma sei un veggente! Come facevi a sapere che avrei risposto così? Bah, il momento
del concerto (filosofica come definizione) ha
una duplice interpretazione: 1) fare i fighi con
le tue scarpe nuove e la tua violent dancing; 2)
provare a stringere rapporti sociali con la gente.
Io sono carente su entrambi i punti. Ci ho provato a comprarmi le scarpe nuove, ma di
modelli vegan che mi piacciano e abbiano un prezzo ragionevole ce ne sono pochi e, quindi, arrivo sempre vestito uguale.
Per quanto riguarda lo stringere rapporti sociali... Beh, non è mica facile. Le differenze e le divisioni, a volte anche ottuse (e anche da parte
mia sia chiaro), sono tali che non permettono
un dialogo produttivo e rilassato, o forse è tutta
colpa delle scarpe. Che dirti? Probabilmente il
classico concerto hardcore ha perso di etiche
e contenuti e viene visto semplicemente come
un’alternativa alla discoteca; spesso non si fa
altro che cantare sotto un palco sperando che
ti venga passato un microfono senza peraltro
scambiarsi parola alcuna fra un gruppo e l’altro che non sia: “figo questo” “tosto quello”.
Io questo lo rifiuto e rivendico uno spazio anche
di socialità all’interno della vita che è sempre
più compressa dal lavoro. Scusa la retorica,
il problema è che sono un chiacchierone logorroico e incontinente. Rileggendo non ho
mai sperato come adesso di sbagliarmi. Davvero.Ah, dimenticavo: portare il banchetto al
concerto non significa assolutamente un accidente da quando gli amici Marco e Patty dei
Downright schierano quei container pieni di
dischi! :-)
Per concludere. Inviteresti chi cerca di
ampliare il proprio giro di conoscenze, per il
proprio gruppo o per i propri gusti personali,
a fare una fanzine?
Come no, fare una fanzine è un culo
ma di certo dà molta più soddisfazione
della Playstation e dei club di scambisti!
Se però dovessi davvero invitare qualcuno a
fare qualcosa sarebbe nell’ordine: leggere
Abel Paz, Debord, Bakunin, Marx (per parlarne male); fare una vita sana (sport, niente
alcol, droga, carni e grassi animali o idrogenati): studiare materie scientifico/tecniche;
trovarsi una ragazza come la mia (un saluto
a Chiara); amici sinceri; lasciar perdere i guitar hero e diventare batteristi. Infine grazie per
l’onore e il privilegio di una intervista sul questo
numero di Compost. Se a qualcuno interessa, fotti la tua vita su www.nuovalevahc.tk e
minacciami su [email protected]
Grazie a tutti.
Più
info
sulle
produzioni di Nuova Leva HC su
http://www.nuovalevahc.tk
23 CMPST #2[06.2007]
Import
“Diciamo
che
mi
definisco
leccese di nascita, bolognese
per caso, genovese per scelta.“
Suiteside Records
Intervista con Monica Melissano
di Simone Madrau
INSIDE SUITESIDE
Dietro il nome Suiteside c’è una delle realtà musicali indipendenti più multiforma del panorama nazionale: etichetta discografica, agenzia di booking, cantiere di progetti spesso molto differenti tra loro; nonchè struttura essa stessa in movimento.
Ma trasferire il proprio quartier generale è stato solo l’ultimo passo in
direzione Genova per Monica Melissano: una che le orecchie sulle frequenze locali le aveva messe già da tempo e che ora pare aver trovato definitivamente la sua dimensione, umana oltre che professionale.
Quanto conta, per un’etichetta che pubblica musica da ogni parte della nazione
e che per giunta esiste negli anni in cui i
contatti sono facilitati dal web 2.0, risiedere
in una città piuttosto che in un’altra? E poi:
perché spostarsi proprio a Genova? E perché non rimanere a Bologna?
Il posto dove si abita influenza l’umore,
non solo in base alle relazioni personali, ma
anche in base alla quantità di luce del sole,
al cibo e ai colori. Ovviamente una città
dove ci sono più stimoli (concerti, scambi di
idee, mostre, cinema) è meglio di un paese
su un cocuzzolo di una montagna dove di
musica puoi parlare solo sul web. Considerando che il numero di concerti che vedo
da quando sono a Genova non è diminuito
ma che le ore di luce solare sono aumenta24 CMPST #2[06.2007]
te, e sono calati di netto i cappotti nel mio
armadio, penso di averti risposto esaurientemente. Diciamo che mi definisco leccese
di nascita, bolognese per caso, genovese
per scelta.
Bologna comunque è una città particolare, per l’ambito di cui entrambi ci occupiamo: i media specializzati ne hanno fatto
negli anni un po’ la capitale dell’indie italiano, e questo l’ha resa per molti una specie
di terra del bengodi. Secondo altri invece
funziona al contrario: proprio per il fermento
che da sempre la caratterizza, è un territorio che offre fin troppo e in cui ci si pesta i
piedi l’un l’altro per ottenere un briciolo di
riconoscimento. E quindi una città da evitare in favore di altre situazioni da portare
alla ribalta nel resto d’Italia. Dall’alto della
tua esperienza quante di queste cose credi
siano solo leggende e quanti siano invece
dati di fatto?
In base alla mia esperienza posso dire
che sono in rapporti ottimi - anche di lavoro - con persone che vivono a Bologna e
con altre meno, cosa che vale per persone che sono a Genova, per persone che
sono a Firenze e a Venezia o a Londra. Non
si può generalizzare. Se si vuole entrare nel
giro della musica per guadagnare allora
si deve andare a Milano o a Roma, non ci
sono alternative. Le cose si decidono lì, tutto il resto è hype. Manchester VS Londra, è
la stessa cosa. Però la musica è una buona
parte della mia vita, ma non l’unica. Come
ho già spiegato, la qualità della vita è data
da un’insieme di elementi, fra cui ci deve
essere equilibrio. Su Bologna, quel che posso dire è che quando ci sono arrivata, da
Universitaria, nel lontano ‘89, c’era un fermento davvero notevole, che poi è stato
istituzionalizzato. In via del Pratello c’erano
le case Occupate e i concerti per strada,
ora ci sono le Osterie finto alternative dove
paghi 5 euro un bicchiere di vino.
Di sicuro Bologna è una città con una
buona presenza di strutture, spazi e persone
dedite ai generi che trattiamo e che stiamo cercando di spingere anche qui, dove
Import
molte cose continuano a mancare. E’ un
fatto che ogni volta che un nuovo gruppo
riesce ad emergere da Bologna questo faccia “sensazione” indipendentemente dal
suo valore effettivo, proprio perché viene
ricollegato alla città. Mi pare che lo stesso non avvenga così spesso qui, dove ExOtago vengono più facilmente collegati a
Riotmaker & Co e gli stessi The Banshee fanno venire in mente prima il caso NME, poi
eventualmente Genova. A proposito di The
Banshee: immagino che la cosa ti sia stata
chiesta molte volte, ma ti va di raccontare
una volta per tutte come è successa questa
cosa di NME? Merito delle tue sapienti doti
di promoter o pura casualità? E cosa mi dici
del loro tour in Inghilterra?
Ho parlato di “istituzionalizzazione”, ma
questo non è sempre da intendere in senso
negativo. Devo dire che a Bologna il “Settore Pubblico” ha saputo interagire con l’interesse che c’era attorno a una scena, e chi
a quella scena c’era in mezzo ha saputo interagire col Settore Pubblico (penso a casi
come Bosound, al Link...). E poi a Bologna ci
sono ben tre radio “alternative” molto forti,
cosa che qui a Genova manca, il che crea
“la scena” a livello di percezione collettiva.
Però di recente sia Blow Up che Rock It, ad
esempio, hanno dedicato, contestualizzandolo, molto spazio a Genova, accomunando per la provenienza bands che in effetti
molto in comune non hanno. A me anzi
sembra che in questo momento di attenzione su Genova ce ne sia. Bisognerebbe
metterla a frutto lavorando qui per pre-
“A
me
anzi
sembra
che
in
questo
momento
di
attenzione su Genova ce ne sia.“
Mr.Henry - foto di Anna Positano
sentare progetti che diano vita a strutture
che resistano nel tempo e permettano una
crescita. Per quanto riguarda i Banshee,
abbiamo uploadato due brani nella sezione dell’NME riservata alle New Bands, cosa
che chiunque poteva fare. Il fatto che a
qualcuno le canzoni siano piaciute e gli sia
stato dedicato un trafiletto giusto a ridosso
dell’uscita del disco ha aiutato non poco
con la promozione e le date qui in Italia. Il
tour inglese so che è stato incasinato e
divertente, con punte di quasi follia come
il cantante dei Kula Shaker che ha comprato “Public Talks”. Per quanto posso dirti,
ce ne sarà a breve un secondo, stavolta se tutto va bene - pensato e anticipato in
modo più “professionale”.
Quando prima parlavo delle tue doti di
promoter non lo dicevo per caso: so che hai
25 CMPST #2[06.2007]
Import
“Bisognerebbe
muoversi
in
questo senso, uscire dal DIY e
crearsi delle professionalità “forti”.“
iniziato occupandoti di booking e promozione prima di aprire Suiteside. Hai perseguito
qualche studio particolare [leggi: comunicazione, sociologia, o facoltà affini] prima
di buttarti in questa avventura o è solo frutto
della tua passione per la musica? E in ogni
caso, dato che l’esperienza comunque non
ti manca, quali credi dovrebbero essere gli
steps necessari per affermare definitivamente Genova come “scena” [al di là degli incoraggianti segnali a livello nazionale
che hai citato]?
Vedi, io vengo dal Liceo Classico, e poi
dal DAMS Musica. Quindi, conoscenze
tecniche e storiche tantissime, giuridiche
ed economiche pochissime, e infatti dopo
anni la mia commercialista (che per fortuna è anche mia cugina) continua a bacchettarmi. Penso siano due le cose che mi
sono davvero servite, prima di inziare con
Suiteside (e intendo col booking, appunto,
prima che con la label). Lavoravo già da
un paio di anni in Radio, e scrivevo per alcune riviste, il che mi ha dato il vantaggio
di conoscere - e di poter quindi contattare
per i gruppi - tante persone del settore. E
l’aver frequentato Rockimpresa, un corsopilota della Regione Emilia Romagna presso il Centro Musica di Modena pensato per
formare operatori nel settore della Musica
“Leggera” (come dicono in SIAE). Siamo in
parecchi a essere usciti da lì: Lorenzo della
Cyc Promotion, Paolo di Urtovox, Corrado
di Hard Staff, solo per farti qualche nome.
Penso che qui a Genova bisognerebbe
muoversi in questo senso, uscire dal DIY e
crearsi delle professionalità “forti”. Sia a li26 CMPST #2[06.2007]
vello di media che di live e management.
migliore.
D’accordo con te. E intanto però i gruppi
non ci mancano, e da parte loro si danno
da fare cercandosi date anche per conto
loro, ecc. In particolare un pregio riconosciuto della scena cittadina è la buona interazione media tra i gruppi che ne fanno
parte. MySpace in questo senso ha coperto
un ruolo decisivo. Il web 2.0 però non è ben
visto da tutti e in particolare il discorso filesharing sembra essere un eterno tormentone, sia per questioni etiche che meramente
economiche. Mi sono sempre chiesto quale
sia davvero il punto di vista di un’etichetta
indipendente, che per quanto sia animata
[almeno idealmente] da un amore sincero verso la musica e da un tipo di politica
non proprio industriale, deve comunque
far quadrare i propri conti scontrandosi al
contempo con un sistema mediatico che
difficilmente supporta certi generi e rende
quindi improbabile l’acquisto di un cd a
scatola chiusa da parte del pubblico.
Onestamente, Suiteside va avanti discretamente perchè è anche un’agenzia
di booking. Per me il fatto che i files girino,
che esiste My Space, è solo positivo. Ora si
possono fissare le date senza dover spedire
i cd, ad esempio. Poi, anche chi ha scaricato, magari il cd al concerto se lo compra. I
conti li faccio contando di stare in pari con
le spese di stampa e promozione, e cercando di far suonare il gruppo il più possibile.
Qualche volta si va oltre il pareggio complessivo, altre no. E comunque, non penso
che se non ci fosse il file sharing si venderebbero più dischi. Penso che anni fa si vendevano più dischi perchè ne uscivano di
meno, e forse complessivamente di qualità
Sono d’accordo su quest’ultimo punto,
anche se credo che un po’ sia un segno dei
tempi, ossia: ritmi di vita troppo veloci implicano sempre più veloci cambiamenti di
tendenze, generi e suoni. Risultato: un gruppo non ha modo di crescere artisticamente
che già è “sorpassato”. Che dici, può essere anche questo un problema? E in questo
senso, avere la percezione di tutta questa
proposta enorme tramite risorse come MySpace o il file-sharing non è forse un po’ l’altro lato della medaglia? Troppa conoscenza secondo te non uccide almeno un po’ il
piacere di ascoltare musica, o meglio: di
affezionarsi a un disco o a un gruppo come
una volta?
Sono totalmente d’accordo con te. Accorciare i tempi necessari alla promozione
di un gruppo può voler dire “bruciarlo”. Ma
ora è un pò presto per riuscire a focalizzare. Bisognerà riparlarne fra un paio di anni,
e non dico per vedere chi ci sarà ancora
in giro fra i gruppi che ora godono della
popolarità web (non credo nell’”eternità”
della musica rock, è bella proprio perchè
è fuggente, a volte). Parlo di aspettare per
vedere se nelle nostre playlists avremo ancora pezzi usciti nel 2007, o no.
A proposito di passato: parlavamo prima di The Banshee ma tu in realtà segui
Genova da molto prima, fin dai tempi dei
Lo-Fi Sucks. E nel mezzo hai fatto uscire gli
stessi Blown Paper Bags e i nostri beneamati “vicini di casa” Morose [un disco, quello
di questi ultimi, per la cui pubblicazione ti
sarò eternamente grato]. Ma, come dicevi
all’inizio, il numero di concerti che riesci a
Import
seguire oggi che sei qui anche di fatto non è
diminuito, e dunque ti chiedo: c’è qualche
gruppo tra le nuove leve genovesi che ti
sembra promettente e su cui vorresti sbilanciarti? E c’è un gruppo dei nostri, tra quelli
più affermati, che vorresti aver messo sotto
contratto tu?
Bella domanda, e ti rispondo per quel per
penso davvero. Amedeo/Rocktone Rebel
è una persona enormemente creativa e
con del talento che, a mio avviso, mette
in tutti i suoi progetti. Ed è giovane. Che lo
rimanga (nello spirito) e riesca a forgiare in
pieno le sue capacità, è quel che gli auguro. Tra i gruppi “affermati” a me piacciono
molto i Marti, anche se rispondono a tutta
una mia serie di ascolti (Tindersticks e Nick
Cave in primis) che però avrebbero poco
senso per la direzione che sto dando ora a
Suiteside. Stesso discorso per gli En Roco, a
cui auguro ogni bene. Ti ringrazio per l’affetto verso i Morose, “On The Back Of Each
Day” è un disco che doveva esistere, se
capisci ciò che intendo...pur ben sapendo
che di nicchia era e di nicchia sarebbe stato. Ma, tornando al discorso di prima, penso
sia un album che chi lo possiede ascolterà
con passione anche fra 5 anni.
Già: che direzione stai dando ora a Suiteside? A me sembra, esaminando la media
del catalogo, che pur mantenendoti entro
canoni piuttosto fuori dal pop hai sempre
spaziato in lungo e in largo con i generi. Cos’hai in cantiere per il prossimo futuro?
Considerando che molti dei gruppi con
cui ho lavorato in questi ultimi anni sono un
pò “in stand by” (si cresce, si inizia a lavorare, si prova meno, si pensa ad altro), e considerando che invece è un momento che
The Banshee - foto di Anna Positano
musicalmente sto godendo moltissimo, sto
scommettendo su nomi decisamente nuovi. Overmood, The Piatcions, Damien*,
di sicuro. Qui sui generi si spazia meno, è
un momento in cui considero il massimo
del romanticismo “Gravity’s Rainbow” dei
Klaxons, e a un concerto voglio ballare...
insomma, diciamo che il lato Suiteside rocchettaro e danzereccio che va dai Rollercoaster ai Candies ai Blown Paper Bags
è in netto vantaggio. Spero comunque che
Mr. Henry riesca a tirar fuori come promesso dal cilindro un nuovo album a inizio 2008,
e poi sarà il momento del “difficult second
album” (!!) per The Banshee. Felici di esserci arrivati, comunque, un anno fa forse non
ci avremmo scommesso.
i Kula Shaker. Ci dai al volo la ricetta per un
rustico salentino come dio comanda?
Non la sooo....orecchiette con cime di
rapa va bene lo stesso? Ci vogliono: orecchiette fatte in casa (o comunque fresche),
cime di rapa pugliesi (al Mercato Orientale
si trovano), aglio, olio, peperoncino, acciughe. Si fanno bollire le cime di rapa, quando
sono quasi cotte si versano nell’acqua bollente anche le orecchiette. Nel frattempo
in una padella larga si fa soffriggere l’aglio,
si aggiunge il peperoncino e si fanno “squagliare” le acciughe nell’olio. Si scolano cime
e orecchiette e si fanno saltare per qualche
secondo nell’olio condito. Servire caldo!
Più info su Suiteside Records su
http://www.suiteside.com
Per finire: al diavolo Genova, Bologna e
27 CMPST #2[06.2007]
Columns
Indie Maphia For Dummies
di Daniele Guasco
Qualche giorno fa cercavo su internet una recensione che parlasse negativamente di un disco, un disco di un artista italiano definibile indie
che però non riesco proprio ad ascoltare, sia su
cd che dal vivo.
Sapendo per certo di non essere il solo a pensare che questo musicista sia stonato, privo di
idee, fondamentalmente inutile, mi aspettavo
di trovare, non dico una bocciatura totale, ma
almeno tra tutti i blog e le webzine che affollano
la rete un parere critico che riscontrasse qualcuno dei difetti che io trovo in questo artista. La mia
ricerca non ha dato alcun frutto, tutto è bello e
tutto è buono.
Io sono il primo a scrivere su una webzine, ormai lo faccio da parecchi anni, e da un bel po’
di tempo evito di parlare di album e musicisti che
riceverebbero un trattamento negativo, limitandomi a trattare ciò che mi piace riscontrandone
però quelli che considero difetti.
Inizialmente questo mio intervento doveva
fermarsi qua, una piccola riflessione comprendente anche un’autocritica, su come le webzine (ma anche la stampa musicale cartacea)
tendano a trattare sempre con un occhio di
riguardo i lavori dei gruppi e dei musicisti italiani
etichettabili come indipendenti.
Il discorso però può essere allargato a tutta
la rete, ascoltatori compresi. Prima di scrivere mi
sono girato un po’ di myspace (del resto ormai
è innegabile che queste sottospecie di blog siano lo specchio del panorama indipendente più
o meno talebano) e se avessi trovato un unico
commento negativo, una piccola critica, avrei
cercato un altro argomento per riempire questa
colonna. Tutti amici, tutto è bello, tutto è geniale,
tutto è una figata da ascoltare.
Possibile che non si possa trovare dei difetti in
nessun disco o concerto? Perché quei rari casi di
pareri negativi sono obbligati a passare attraverso l’ironia? Davvero è tutto così perfetto?
28 CMPST #2[06.2007]
Metal Shock At The Catechism
di Matteo Marsano
Mi ricordo una volta lungo la creuza bogliaschina che dall’Aurelia porta a casa mia. E’ una
lunga mulattiera che dal livello del manto stradale scala il dorso della collina, oltre gli uliveti, oltre
i greggi di villette sparse, fin su alla serra di Cantalupo. Cribbio, ricordo un pomeriggio ai prati di
Cantalupo – una roba tipo scampagnata primaverile, io e il mio compagnuccio delle elementari, parentame variegato, coppiette ed animali
in libertà – nel quale un Golden Retriever (adesso so che si chiama così, ma allora era solo un
cane), istigato dalla nostra foga nel giuoco della
palla, prese a rincorrermi fino a modermi il culo
all’altezza della chiappa destra. Dio ha inventato
la parola “imbarazzante” per occasioni del genere, ma allora il mio istinto di attacco (vabbé) e
fuga (ecco), preso a scudisciate da quella che
doveva essere ancora un’amigdala seminuova,
oltre al farmi correre in mezzo alle risa generali
per salvare deretano e dignità, decise di eludere
entrambi i compiti e farmi emettere, con l’aiuto
della mia già sviluppatissima neocorteccia, della lingua, del palato, dei denti, dell’ugola e delle
corde vocali, la serie di improperi più irripetibili
della prima decade della mia vita. Immaginate
la mia sorpresa nel constatare l’effetto umoristico
della situazione acuizzato dalle mie bestemmie,
e non già smorzato verso una gravità semiseria,
come in fondo non era neppure nelle mie intenzioni. Maledivo il Signore e basta, per quello che
mi aveva fatto; o piuttosto perché una reazione
primitiva è, in queste occasioni, la via più economica che ha il cervello per risparmiare energia
preziose a favore delle gambe. Maledivo il Signore, notate bene: e non il cane. Adesso probabilmente maledirei il signore proprietario del
cane, anche se non l’aveva fatto apposta, e fu
più che solerte a scusarsi di quella che, in fondo,
era risultata essere solo una situazione di contagiosa allegria, buona per un video da “errori in
tv”, e non che necessitava quindi di particolari
convenevoli o cenerei cospargimenti di capo.
E a pensarci bene, forse non ho nemmeno così
brutalmente trasgredito al Secondo Comandamento in quell’occasione, e sto confondendo il
presente con il passato. Ma chi ha più paura dell’Inferno, ormai? Sicuramente non quelli che da
questa paura traggono il loro potere. E siccome
noi non siamo finanziati da chichessia nelle alte
sfere, e la mediazione è solo quella con la nostre
coscienze, questa è la mia column atea, e anche un po’ evoluzionista, per quanto la parola
non mi piaccia, e anche un po’ meccanicista
se leggete bene, perché a ricordarci che siamo
anche una macchina biologica non si esclude il
colore, l’inventiva, la fantasia. E la musica, direte
voi? Un attimo. Torniamo giù dalla serra, lungo la
mulattiera, oltre le fasce coltivate e il ronzio delle
api, fino al cancello di casa mia. E’ sera, ho otto
anni, e sto tornando con i miei da una serata a
casa di amici. “Comunque è vero che i Beatles
avevano dei testi stupidi”, fa mia madre a mio
padre “pensa a Yellow Submarine”, e butta lì
una semi traduzione simultanea. “Che testo stupido” faccio eco io. “E quei gruppi che ascolti
tu?” i miei, in coro, riferendosi alla fauna hardrock che, complici propri quegli amici dei miei
dai quali eravamo stati a cena, stavo iniziando
a frequentare. Sesso droga & rock’n’roll. Metal
Shock al catechismo. E’ partito tutto da qui.
This Ain’t No BBQ
di Anna Positano
Maledizione alle mezze stagioni, alle ciabattine estive, ai nubifragi e al mal di gola; d’accordo il freddo mi piace, ma non quando, a
giugno, sono in giro con i piedi color latte che
abbagliano i passanti. Quello a cui proprio il
freddo non va giù è Owen|Casiotone for the
Painfully Alone, che suonò a Genova due anni
fa, quel mese in cui aveva nevicato e la gente
scendeva da vico s. Matteo con lo slittino. Allora non ero ancora cuoca ufficiale DDrama
e il più delle volte si mangiava pizza d’asporto.
fredda. Owen|Casiotone evidentemente non
Columns
aveva gradito molto, anche perché, non si conosce il motivo, mangiò questa pizza da solo,
nella stanza più fredda del locale. Talmente
sconvolto dall’esperienza, ha scritto una canzone sull’argomento, intitolata Scattered Pearl.
Da quando cucino io per i gruppi che vengono
a suonare, non è che si mangi proprio al caldo,
quantomeno d’inverno, ma il clima è piuttosto
conviviale e di solito siamo in tanti. Quando
siamo in pochi siamo 15. Per fortuna non mi trovo mai da sola in cucina, ma può capitare di
avere poco tempo, pochi soldi, poca voglia...
Insomma, questa è una ricetta per superpigri,
ma di certa riuscita. Si può fare in diversi modi,
dipende dal tempo, dalle capacità e dai soldi
a disposizione.
Ingredienti minimi (A):
ceci (se in scatola, considerate 1 scatola per
2 o 3 persone; se li prendete secchi siete già
abbastanza bravi da capire da voi le quantità.
ovviamente secchi costano meno)
olio (q.b. - che significa “quanto basta”)
sale (q.b.)
Fate ancora uno sforzo, chiappe molli, e
controllate se in cucina avete anche (B):
origano o pepe (q.b. se non lo trovate, di solito è vicino al sale; se è in grani, macinatelo!)
succo di limone (non troppo, però!)
Ok, anche a me non piace pulire le verdure,
ma vi assicuro che, se aggiungete questi ingredienti, questo piatto migliora un sacco. Magari
potete anche alzarvi dal divano per recarvi al
supermercato (C):
cipolla o cipolline o porri
carote
Se avete scelto la versione (A) coi ceci in scatola, aprite le confezioni, scolate i ceci e sciacquateli dentro un colino; se invece avete i ceci
secchi, dovete metterli a bagno 12 ore prima
(se volete evitare “inconvenienti” tipo guerra
chimica col partner, aggiungete all’acqua un
po’ di bicarbonato...) e poi farli bollire con un
po’ di sale finché non diventano morbidi. Metteteli dentro un’insalatiera e aggiungete olio e
sale. Per la versione (B) è sufficiente l’aggiunta
di origano (o pepe) e limone. Se avete deciso
di dedicarvi anima e corpo per eseguire la ricetta completa (C), pulite e spellate le carote,
tritatele finemente insieme alle cipolle, aiutandovi con una mezzaluna o un frullatore, e aggiungete il tutto ai ceci.
Mettete un cucchiaio nell’insalatiera e lasciate che i vostri ospiti usino le loro manine per
servirsi da soli, visto che non avrete più la forza
di fare nulla dopo aver cucinato così a lungo!
Non Sono Un Poeta
di El Pelandro
La periferia mi è sempre piaciuta.
Gente concreta, gente creativa, gente
normale.
Tutti amici.
Tutti insieme.
Bene.
Solo non capisco come mai,
ogni volta che visito una periferia
finisco per prenderle
Valide Alternative
al Bricolage Culturale - DIYC 2.0
risponde il Dott. Cesare Cartavetro
Farneticare
Leggo Compost fin dal primo numero con
estrema gratificazione degli occhi e del cuore,
scrivo in merito alla domanda di Paolo (23, scorpione) in merito al nome della rubrica. Cosa diavolo stai farneticando? Insomma, quale è il senso
della tua rubrica?
Rosetta (40, toro) da Pordenone.
Bella domanda. L’idea è quella di affrontare
argomenti inerenti alle dinamiche dell’industria
musicale (ma culturale in genere) nella decade
della sua più grande trasformazione da quando
è nata. Lo scopo è quello di fornire una panoramica su come funziona il mondo musicale oggi,
e in particolare di approfondire certi temi su cui
c’è scarsa conoscenza come le dinamiche
legate al copyleft/no copyright, visti non tanto
come dato di fatto ma come un’opportunità
che i musicisti hanno per cambiare le regole del
loro mercato. Non è prettamente un prontuario
perché analizza le cose anche secondo delle
implicazioni teoriche ed etiche, ma spero che
aiuti a seguire lo scenario in sempre più rapida
evoluzione della musica ai tempi di internet.
Opportunità nuove
Perché “no copyright e copyleft sono un’opportunità che i musicisti hanno per cambiare le
regole del loro mercato”? Rispondetemi! Vi leggo fin dal primissimo numero!
Giovanni (15, vergine), Trensasco.
Spero che qualcuno di voi mi chiederà al
più presto quale è la differenza tra no-copy e
copyleft, giacchè è abbastanza pregnante.
Senza considerare che esistono poi approcci
ancora diversi e tutti con precisi obiettivi e fini.
Per ora ti basti sapere che le licenze libere costringono il musicista a ridiscutere il suo ruolo nel settore
musicale, le peculiarità del suo “mestiere”, o della
sua passione. Da questa ridiscussione però nasce
una figura di musicista nuova ai tempi moderni
e al contempo primitiva, più legata alla dimensione della musica come un’arte performativa.
Il discorso è lungo e complesso sta di fatto
che le licenze libere permettono una volta
per tutte alle indies e ai gruppi indie di affrancarsi dal modello di mercato che gli è stato calato dall’alto dai piani alti delle major.
Fino a che il disco è un prodotto che è necessario vendere per sopravvivere come musicisti,
le indies aderiscono al modello di mercato delle major. Sono nel sistema e sono funzionali al
sistema. Permettono alle major di tenere bassi
o bassissimi i costi di talent scouting e di usufruire di economie di scala producendo gruppi
29 CMPST #2[06.2007]
Columns
dal suono vagamente indipendente, che gli
garantiscono un rinnovamento di capitale costante, anche quando i grandi dischi fanno flop.
Le etichette indipendenti si fanno forza con un
concetto di indipendenza legato a una logica
di minoranza: non facciamo cose per le masse,
non facciamo cose commerciali, non facciamo roba per mtv, ci interessa la musica e non
le belle faccine da videoclip. L’atteggiamento
indipendente è in questo senso un tantino ingenuo. Abbiamo assistito negli ultimi 15 anni ad
un accelerarsi folle del turn over che ha portato in classifica gruppi solo un anno prima sprofondati nel più buio underground (ah, il buio
underground…), con le patetiche accuse di
essersi venduti dei vecchi fan alle nuove star di
turno. E se ci pensate questo avviene sempre. A
ogni livello. Si parli dei Disco Drive o dei Righeira.
L’unico autentico modo per rimanere fuori da
questo mondo è non partecipare di questo mercato. Il chè non vuole necessariamente dire di
fare del volontariato o di fare la rivoluzione contro il mercato (da vecchi comunisti quali siete).
Il che non vuole nemmeno necessariamente
dire Non fare del volontariato e Non fare la rivoluzione. Piuttosto vuole dire creare le condizioni
perché esista un altro mercato possibile, un’altra
società possibile, con una nuova concezione
di arte, di cultura, magari anche di business.
Sono le Net label, con la loro carica libertaria a creare la possibilità di un circuito sanamente alternativo e stabile che permetta una sussistenza dell’underground alla
sua mercificazione (sì, mi piace Marcuse).
Eccoci alla risposta alla domanda: il no copy e il
copyleft sottraggono alle major l’oggetto della
loro mercificazione massificata, ossia il possesso
di diritti di sfruttamento commerciale. Sottraggono anche ai musicisti quella che da un po’ (ma
non da sempre) è la loro fonte di sostentamento,
quando esiste, ma ci sono margini di una reinvenzione del ruolo del musicista. Se volete cambiare qualcosa, questo è il modo. Forse non è
l’unico, ma è il più semplice.
30 CMPST #2[06.2007]
A Steady Diet Of Mat
di Matteo Casari
Di norma, non son un tipo incazzoso. E cerco
di moderare la mia permalosità sempre e comunque. Ma se c’è una roba che proprio non
reggo più è lo spregiudicato uso dell’anonimato
su internet.
Direte voi: Ce l’hai su ancora contro il democratico web 2.0???
Si.
E non mi passa.
Io sono felice che la metà della popolazione italiana si sia data alla macchia su internet.
Che, dietro a pseudonimi, spacci per oro colato boiate di un qualunquismo pangalattico.
Non che io mi reputi più di un semplice sparasentenze a raffica, ma almeno ho la faccia come il
posteriore. Solo con sopra i baffi. Davanti.
Io mi firmo. E penso quello che dico e dico
quello che penso. E, nel caso, dico qualcosa in
meno di quello che dovrei dire ma, comunque,
lo dico sempre a titolo personale.
Con tanto di indirizzo di ritorno.
E allora mi domando perchè nel 2007 tutto
deve essere un “supporto dimostrato con un
commento su un fotolog”, un “j’accuse perpetrato attraverso dubbio umorismo anonimo”, un
“blaterare perpetuo da rumore di fondo noioso
e gratuito”...
Perchè cacchio non ci parliamo più di persona? Se mi cercate, sapete dove trovarmi.
Screamazenica
di Simone Madrau
Maledizione a me e a quando ho pensato di
intitolare questa column “Screamazenica”. Già
al secondo numero mi ritrovo infatti senza contenuti. Per il primo avevo tre mesi da cui accumulare citazioni, per quest’ultimo tre settimane
o giù di lì.
Un paio di idee a dire il vero mi erano anche
venute:
1. L’altra sera c’era un Ex-Otago con noi Non
diremo quale. Indizi: è pazzo, è pericoloso e gira
con una “A” gialla recuperata su un marciapiede davanti alla stazione di Rapallo. Ed è, lo avrete immaginato, una fonte più o meno inesauribile di sketch.
Pensare che ero stato anche avvertito.
“Con lui ci fai un intero Screamazenica.” [Matteo Casari @ Jambalive]
Già.
Il problema è che il sottoscritto in quel momento ne veniva da un turno di lavoro pomeridiano
finito un’ora prima e l’indomani mattina lo attendeva un inventario in negozio dalle 7. Risultato: di
tutte le perle [?] che il nostro ha regalato ricordo
poco o nulla, senza contare che quel poco può
essere imbarazzante per alcuni esponenti della
redazione.
2. Avevo allora pensato di ripiegare sui commenti a Compost postati nel MySpace di tale
“mazzola” [non so se lo conoscete]. Tuttavia
ciò equivarrebbe a tirarsela oltremodo. Un solo
commento merita la citazione:
”Ci vorrebbero un po’ più di culi qua e là nel
giornale…” [Kiruna]
Giusto.
Si accettano suggerimenti per i soggetti. Se
sono soggetti femminili, sarebbe preferibile. Non
per fare del maschilismo, è che... Come dire... Va
bene che Compost è gratis ma non vorremmo
dovervi ancora pagare per convincervi a sfogliare i prossimi numeri.
Ce n’è anche un’altra, riferita a voce, che mi
ero perso:
Vero anche questo.
“Tutte queste pagine scritte e neanche un fumetto. Metteteceli!” [Andrea Bruschi aka Marti]
E insomma questo è quanto, per questo numero va così. Vi chiedo scusa. Però un po’ è anche colpa vostra.
Siete tutti troppo seri!
Chiuderò con una minacciosissima citazione
finale, dalla quale un po’ tutti dovreste guardarvi: ”Giuro che questa volta sono tornato per
restare.” [mazzola quoted by Enver sulle pagine
di Blow Up]
Arte
Più info su Det Roc Boi su
http://www.flickr.com/detrocboi
31 CMPST #2[06.2007]
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